Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

QUINTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

“Tutto il sistema è fatto in modo che l’uomo, senza neppure accorgersene, comincia sin da bambino a entrare in una mentalità che gli impedisce di pensare qualsiasi altra cosa. Finisce che non c’è nemmeno più bisogno della dittatura ormai, perché la dittatura è quella della scuola, della televisione, di quello che ti insegnano. Spegni la televisione e guadagni la libertà.” Tiziano Terzani

Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

Finestra di Overton. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. A sinistra la finestra di Overton che evidenzia come viene accolto un concetto in base al grado di libertà, a destra le nuove idee che possono debuttare come incomprensibili, possono nel tempo diventare ben accette

La finestra di Overton è un concetto introdotto dal sociologo Joseph P. Overton.

Descrizione. Overton descrisse una gamma di situazioni da "più libera" a "meno libera", alle quali sovrapporre la finestra delle "possibilità politiche" (ciò che politicamente può essere preso effettivamente in esame). Per semplicità le varie situazioni possono essere associate, per quanto riguarda l'atteggiamento dell'opinione pubblica, a una serie di aggettivi:

inconcepibile (unthinkable)

estrema (radical)

accettabile (acceptable)

ragionevole (sensible)

diffusa (popular)

legalizzata (policy)

A seconda di come la finestra si sposta o si allarga sullo spettro delle idee, un'idea può diventare più o meno accettabile. Un esempio preso da un fatto storico è quello del proibizionismo degli alcolici. Negli Stati Uniti c'è stato un periodo intorno al 1930 nel quale è stata considerata "ragionevole" l'idea di vietare la vendita di alcolici, e di fatto tale divieto è stato imposto per legge in alcune contee. Ma poi la finestra delle "possibilità politiche" si è spostata, e oggi la stessa idea nello stesso paese viene considerata inconcepibile o quanto meno estrema, e non più politicamente proponibile. La finestra di Overton è un approccio per identificare le idee che definiscono lo spettro di accettabilità di politiche governative. I politici possono agire soltanto all'interno dell'intervallo dell'accettabile. Spostare la finestra implica che i sostenitori di politiche al di fuori della finestra persuadano l'opinione pubblica ad espandere la finestra. Al contrario sostenitori delle politiche attuali, o simili all'interno della finestra, cercano di convincere l'opinione pubblica che politiche al di fuori della finestra dovrebbero essere considerate inaccettabili. Secondo Lehman, che ha coniato il termine: "Il più comune malinteso è che i legislatori stessi si occupano dello spostamento della finestra di Overton.". Sempre secondo Lehman, il concetto è solo la descrizione di come funzionino le idee, non l'appoggio a proposte di politiche estreme. In un'intervista al New York Times, disse: "Spiega soltanto come le idee diventano o passano di moda, nello stesso modo in cui la gravità spiega perché qualcosa cade al suolo. Posso usare la gravità per far cadere un'incudine sulla tua testa, ma questo è sbagliato. Potrei anche usare la gravità per lanciarti un salvagente, e questo sarebbe giusto." Ma data la sua incorporazione nel discorso politico, altri hanno usato il concetto di spostare la finestra per promuovere idee al di fuori di essa, con l'intenzione di rendere accettabili idee non convenzionali.

Carmen Scelsi: Dedicato...a chi non conosce la finestra di Overton. La finestra di Overton. Joseph Overton, sociologo e attivista statunitense: "nei suoi studi cercava di spiegare i meccanismi di persuasione e di manipolazione delle masse, in particolare di come si possa trasformare un’idea da completamente inaccettabile per la società a pacificamente accettata ed infine legalizzata.

Tecniche affinate che gli esperti di pubblicità e marketing ben conoscono e sempre di più vengono applicate su scala globale dai think tank dell’economia e della politica per orientare il modo di pensare e le inclinazioni dell’opinione pubblica.

In fondo è lo schema tipico delle dittature. Ci si chiede infatti, spesso a posteriori, come interi popoli, non solo e non sempre a seguito di pressioni violente, abbiano potuto a un certo punto trovarsi a pensare tutti nello stesso identico modo e a condividere supinamente stili di vita prima nemmeno immaginabili, per ritrovarsi infine rinchiusi in una caverna di prigionia, come nella fiaba del Pifferaio Magico.

Eppure è successo e succede. Anzi nell’era di internet e dell’intelligenza artificiale - che ai tempi di Overton era appena agli albori – si sono spalancati nuovi sconfinati orizzonti, dove paiono materializzarsi scenari degni dei romanzi distopici di Orwell e Benson, dominati da invisibili grandi fratelli e padroni del mondo. Overton studia il percorso e le tappe attraverso le quali, ogni idea, sia pur assurda e balzana, può trovare una sua “finestra” di opportunità. Qualunque idea, se abilmente e progressivamente incanalata nel circuito dei media e dell’opinione pubblica, può entrare a far parte del mainstream, cioè del pensiero diffuso e dominante. Comportamenti ieri inaccettabili, oggi possono essere considerati normali, domani saranno incoraggiati e dopodomani diventeranno regola, il tutto senza apparenti forzature."" Siamo partiti con l'inno d'Italia sul balcone...siamo arrivati a quattro ondate, tre o quattro punturine, un antinfluenzale....e un'emergenza infinita con fine di ogni libertà. 

96. L’altezza dei quadri. Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 14 novembre 2021. «Che cosa fare se un ragazzo cerca il buio? Rifiuta i libri in giro per casa o che portano luce, e dà da leggere Fight club al fratello minore, che lo divora? Lo ha attratto un linguaggio volgare, forse la sensazione di una libertà senza regole. Cercherò di ascoltare le sue impressioni, ma non sarà facile. Ho letto l’Appello, me lo ha regalato quello stesso figlio, ma lui non ha intenzione di leggerlo». In tante lettere, come questa di una madre amareggiata, mi viene chiesta la soluzione educativa ideale. Rispondo sempre: non lo so, ma la soluzione ideale siete voi. Il manuale del perfetto educatore fa perder di vista (e di vita) il presente che, nel suo darsi faticoso, è l’unico spazio educativo efficace. Educare non è costringere la vita in una regola o idea, ma aiutare la vita a fiorire: le soluzioni sono celate nelle occasioni. Se l’educatore non vive come fallimento personale e conseguente sterile senso di colpa la sfida lanciata dal bambino/adolescente, potrà trasformarla in occasione di crescita di sé (sono loro a far maturare noi) e dell’altro (di che cosa ha bisogno adesso?): loro mettono alla prova le nostre verità per capire se sono regole vuote o fondamento solido per vivere felici. Dice uno scrittore di cui amo la lucidità: «L’altro giorno ho appeso un quadro e ho chiesto a mio figlio, che ha tre anni, se andava bene. No, mi ha risposto seccato, devi metterlo lì. E indicava un punto molto più vicino a terra. Aveva ragione, era lì che andava messo perché lui potesse vederlo bene. Nel mondo dei bambini tutti i quadri sono appesi troppo in alto». «Ed ecco — continua lo scrittore — che all’educatore ideale si pone il problema: a che altezza è giusto appendere i quadri? C’è chi sceglie il compromesso in nome dell’armonia e attacca i quadri a metà tra il pavimento e l’altezza di prima, così che entrambe le parti vedranno ugualmente male. Oppure c’è l’educatore che smette di avere una vita propria da quando ha dei figli. E appenderà i quadri così bassi che i genitori saranno costretti a mettersi in ginocchio per vederli. E infine c’è il tiranno che, a fini educativi, appende i quadri appena sotto al soffitto, per tutto ciò che ha patito da bambino. Ma quel che più interessa è la reazione del vero educatore. È lecito supporre che lascerà il quadro all’altezza a cui sta meglio e insegnerà al bambino ad usare la sedia in modo adeguato» (Stig Dagerman, Difficoltà dei genitori). Le scelte educative «ideali» sono quelle in cui la crisi diventa ispirazione per il nuovo anziché ripetizione stanca di abitudini e regole, che magari noi per primi non viviamo. Per esempio come può un ragazzo moderare l’uso del cellulare se chi lo educa fa il contrario? Nello stesso scritto Dagerman racconta di una coppia i cui figli piccoli non vogliono dormire e continuano a saltare sul letto. Il padre li minaccia di portarli fuori nel buio per una passeggiata: «Fuori pioveva e c’era buio pesto; finalmente si fece silenzio nella camera dei bambini. Salvi! Sospirarono di sollievo i genitori, finché non scoprirono la causa del silenzio. I bambini si erano precipitati a vestirsi per andare a fare la passeggiata promessa. Non restava che rassegnarsi a uscire alla pioggia e al buio; i bambini erano terribilmente svegli e il tonto padre capì che quella che per lui doveva essere una punizione era stata accolta da loro come una fantastica avventura». I bambini si divertono un mondo ma anche il padre, sorpreso del risultato ottenuto: si trattava di incanalare creativamente e costruttivamente l’energia dei figli, non di reprimerla. «Fu una passeggiata memorabile. Quando erano rientrati, i bambini s’erano addormentati all’istante, mentre lui era rimasto alzato a meditare sull’educazione dei figli». Per educare bisogna meditare sulla «follia» dei ragazzi, cercando nell’occasione, non nella regola, la soluzione che allarga il senso della vita. E così più che correggere i sentimenti dei figli per Fight Club, marito e moglie potrebbero leggere il libro di Palahniuk per cogliere dove incanalare l’energia distruttiva che seduce l’adolescente, il quale distrugge solo quando non riesce a creare. E poi osare, sfidando la libertà sregolata di una narrazione in cui la violenza è protesta contro un sistema che rende schiavi: vivere una giornata senza regole in cui i genitori non fanno la spesa, non cucinano, staccano la luce di cui pagano la bolletta... e se i figli si ribellano, rispondono a parolacce o con il bastone in mano. Trasformare casa in Fight Club è certo rischioso, ma gli effetti potrebbero sorprendere: la realtà educa, regole e parole non bastano mai. I ragazzi sperimenterebbero che l’ipotesi narrativa del romanzo è provocatoria e parziale, e i genitori scoprirebbero che i figli stanno solo cercando dove indirizzare le loro energie. E comunque è bello avere un figlio che regala un libro che la madre amerà: lui la conosce, lei ha un’occasione per conoscere lui, grazie a Fight Club.

PLAGIO E VERITA’. LA CRONACA PUO’ DIVENTARE STORIA?

"La storia insegna, ma non ha scolari" (Antonio Gramsci).

E per questo siamo condannati a riviverla, con tutte le sue atrocità.

Antonio Giangrande: “stavolta io sto con Roberto Saviano”.

Intervento di Antonio Giangrande, scrittore tarantino, autore di decine di saggi d’inchiesta.

Lo scrittore napoletano, autore di “Gomorra” e “Zerozerozero”, è accusato di aver inserito delle frasi altrui nei suoi libri, tratte da fonti non citate. Saviano si difende: “è cronaca…e la cronaca appartiene a tutti”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Come far sì che si parli di questioni delicate e pericolose che gli scribacchini non fanno? Come si fa a far conoscere situazioni locali e temporali su tutto il territorio nazionale e raccontate da autori poco conosciuti?

Quello che succede quotidianamente davanti ai nostri occhi è quello che vedono tutti e non ci sono parole diverse per raccontarlo. I racconti sono coincidenti. Possono cambiare i termini, ma i fattori non cambiano. Gli scribacchini, poi, nel formare i loro pezzi, spesso e volentieri si riportano alle veline dei magistrati e delle forze dell’Ordine.

Ergo: E’ una bestialità parlare di plagio.

E poi, l’informazione di regime dei professionisti abilitati alla conformità non è tutta un copia ed incolla?

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Come per esempio: si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Quegli stessi mussulmani che in casa loro i cristiani li trucidano. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste. Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno si è bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane. E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS? Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti. Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

La sinistra usa la stessa solidarietà adottata con i migranti come nella lotta alla mafia: farsi assegnare i beni confiscati e farli gestire da associazioni o cooperative vicine a loro a alla CGIL o a Libera, che è la setta cosa.

Io ho trovato un sistema affinchè non sia tacciato di mitomania, pazzia o calunnia: faccio parlare chi sul territorio la verità scomoda la fa diventare cronaca ed io quella realtà contemporanea la trasformo in storia affinchè non si dimentichi.

Io generalmente non sto con Saviano: per il suo essere di sinistra con quello che comporta in termini di difetti ed appoggi. La sinistra, per esempio, non dice che mafia ed antimafia, spesso, sono la stessa cosa, sol perché l’antimafia è da loro incarnata. Ma stavolta io sto con Saviano perché la verità appartiene a tutti e noi abbiamo l’obbligo di conoscerla e divulgarla. Saviano ha raccontato una realtà conosciuta, ma taciuta. Verità enfatizzata e strumentalizzata dalla sinistra tanto da renderla nociva. Può aver appreso da scritti altrui? Può darsi. Basta che sia verità. Se qualche autore vuol speculare sulla verità raccontata, allora la sua dignità vale quanto la moneta pretesa. Se poi chi critica ed aizza mesta nel fango, questi vuol distogliere l’attenzione sulla sostanza del contenuto, anteponendo artatamente la forma. Ed i lettori, in questa diatriba, non guardino il dito, ma notino la luna.

Io, da parte mia, le fonti le cito, (eccome se le cito), per dare credibilità alle mie asserzioni e per dare onore a chi, nelle ritorsioni, è disposto con coraggio a perdere nel nome della verità in un mare di viltà. I miei non sono romanzi, ma saggi da conoscere e divulgare. Perché noi dobbiamo essere quello che noi avremmo voluto che diventassimo. E delle critiche: me ne fotto.

Ernesto Galli della Loggia per il Corriere della Sera il 6 novembre 2021. Essere culturalmente e ideologicamente, non politicamente, conservatori in Italia è facile. Anche perché fondamentalmente conservatore, come si sa, è il nostro Paese. Ma è facile esserlo in privato. Non è facile per nulla, invece, avere una voce di tipo conservatore nel dibattito pubblico. Esprimere un punto di vista diverso, magari critico o addirittura contrapposto rispetto alla cultura progressista, ma con la speranza che tale punto di vista non venga bollato all'istante come inconcepibile, retrogrado, privo di qualunque ragionevolezza, magari espressione di una cieca disumanità. Ma al contrario entri, come dicevo sopra, nell'arena pubblica, nel circuito dei media che contano. L'ennesima riprova si è avuta dalle reazioni al voto contrario del Senato sul disegno di legge Zan. «Vergognatevi» ha titolato l'indomani un quotidiano a tutta pagina, rivolgendosi evidentemente agli oppositori della legge ed esprimendo in una sola parola il sentimento largamente prevalente in tutto il sistema dei media più accreditati. Ma vergognarsi di cosa? No di certo del fatto che la bocciatura fosse avvenuta con il voto segreto, immagino, dal momento che, guarda caso, proprio con un eguale voto segreto - deciso allora dal presidente Fico e nell'assenza di qualunque protesta - la legge passò un anno fa alla Camera, un particolare tuttavia pudicamente sottaciuto dal fronte degli odierni scandalizzati. I quali invece si servono oggi dell'uso da parte dei loro avversari del voto segreto per dipingerli come una subdola congrega di congiurati usi a colpire nell'ombra. Inoltre, visto che come i fatti hanno mostrato la maggioranza del Senato era contraria alla legge, mi chiedo: i sostenitori della legge Zan pensano forse che invece sarebbe stato meglio, più conforme alle regole della libera rappresentanza, che il voto palese avesse obbligato gli avversari della legge a votare contro il proprio convincimento? È questo che bisogna intendere per democrazia parlamentare? Di che cosa, allora, avrebbero dovuto vergognarsi gli oppositori della legge? Suppongo di non voler proteggere chi è vittima di disprezzo o di aggressione a causa del proprio orientamento sessuale, e perciò di essere più o meno larvatamente a favore della discriminazione e della violenza contro omosessuali, trans ecc. E sicuramente è questa oggi la convinzione della stragrande maggioranza dell'opinione pubblica progressista. La quale però, mi pare che non abbia avuto modo di riflettere a sufficienza su due punti importanti della legge Zan. Sull'articolo 4 - che nelle materie di sesso stabiliva essere assicurata a chiunque la «libera espressione di convincimenti ed opinioni purché non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori e violenti» - e sull'articolo 7 che stabiliva una giornata nazionale, da celebrare nelle scuole, contro l'omofobia, la transfobia, ecc. al fine tra l'altro di «contrastare i pregiudizi motivati dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere». Bene. Ma chi decide quale convincimento o opinione è o non è «idoneo» a determinare un «pericolo concreto» di violenza legato all'orientamento sessuale? E chi decide nella medesima materia la differenza tra un giudizio (consentito) e un «pregiudizio» (viceversa sanzionato)? È ammissibile allora, mi chiedo, trattandosi di un bene tra quelli supremi garantiti dalla Costituzione come la libertà di pensiero, una tale vaghezza? Un tale indeterminato ricorso all'opinione di questo o quel tribunale? Personalmente sono sicuro che in grande maggioranza anche l'opinione progressista del Paese una simile domanda non avrebbe mancata di porsela. Ovviamente a una condizione: se essa fosse stata adeguatamente informata circa la legge di cui stiamo parlando. Qui si tocca il punto nevralgico di cui dicevo all'inizio. Il fatto cioè che nel nostro Paese in specie dopo la scomparsa politica dei cattolici e l'avvento di una società massicciamente secolarizzata è diventata estremamente difficile l'espressione pubblica di un punto di vista che non accetti a occhi chiusi il punto di vista della cultura progressista. Riemerge con forza l'antica mancanza di educazione democratica del Paese sicché qualsivoglia opinione dissenziente tende a essere immediatamente classificata come puramente reazionaria e a essere quindi messa al bando. È in questo clima che una voce di orientamento conservatore opposta al dominio del politicamente corretto diviene pressoché impossibile. O per essere più precisi, un tale punto di vista può benissimo essere manifestato ma è quanto mai improbabile che esso venga preso realmente in considerazione dalla discussione pubblica ufficiale e trattato come un normale elemento del dibattito culturale alla pari con quelli di segno contrario. Nell'arena pubblica specie radiotelevisiva capita quasi sempre, infatti, che il punto di vista culturalmente conservatore sia implicitamente spogliato di qualunque contenuto e dignità ideali, e quindi preliminarmente stigmatizzato come indegno di vera considerazione. Al massimo trattato soltanto come frutto di una posizione puramente politica, ridotto in sostanza a un'espressione di partito. Esso viene sottoposto cioè a un meccanismo di depotenziamento e soprattutto di declassamento. Viceversa il punto di vista ispirato ai canoni del politicamente corretto progressista viene sempre presentato come un punto di vista che ha sì conseguenze di tipo politico, ma che soprattutto è suffragato dalla più accreditata modernità culturale. Cioè dal bene per antonomasia. Negli studi televisivi che fanno opinione la modernità diviene un feticcio solo da adorare; quanto poi pensa o decide l'Europa assurge a compimento del progresso e delle sue prescrizioni politiche o morali. Tanto è vero che nel dibattito televisivo di prammatica a illustrare queste ultime sarà di regola chiamato il noto scrittore X o il brillante filosofo Y, a obiettare ad esse, invece, un qualche maldestro parlamentare della Lega o di Fdi, al massimo il giornalista di qualche foglio di destra. I temi etici o attinenti i costumi sessuali costituiscono l'ambito elettivo di questa finta discussione alla pari di cui si compiace 24 ore su 24 praticamente l'intero sistema dei media del Paese o perlomeno quelle sue parti che contano. Realizzando così la virtuale esclusione dal dibattito pubblico di un gran numero di cittadini. Ma nelle società attuali essere esclusi dal dibattito pubblico significa di fatto essere esclusi dalla democrazia, dal suo cuore pulsante di ogni giorno, significa non essere riconosciuti, vedersi negata una rappresentanza essenziale, forse più essenziale di quella elettorale. Significa essere dichiarati cittadini di serie B e quindi spinti a rinunciare a partecipare alla vita pubblica o ad abbracciare posizioni di rottura. Significa la trasformazione del regime democratico in un'insopportabile oligarchia di depositari della virtù civica e della presunta verità dei tempi.

Gabriele Barberis per "il Giornale" l'8 novembre 2021. Occuparsi delle bizzarrie buoniste di Laura Boldrini, questo sì che non è normale. Il Covid rallenta ma non sparisce, i No green pass sono sempre più rabbiosi, ma l'ex presidente della Camera tenta un po' pateticamente di riscrivere un'agenda politica che l'ha cancellata come un inquilino molesto sfrattato a fine contratto. Nella sua domenica, tanto social e poco operosa a giudicare dallo sforzo prodotto, si affida a twitter per promuovere il suo nuovo libro, #questononènormale. Di cui la stessa autrice lascia cadere una ghiotta anticipazione: «Donna ridarella, o santa o puttanella... mandiamo in soffitta certi proverbi!». Un'impresa più oziosa che titanica, da accogliere sorridendo scuotendo la testa. Un po' quello che stanno facendo tanti utenti social, sbalorditi dall'intento involontariamente umoristico di mettere al bando tutti i detti popolari che potrebbero turbare la parità di genere. Basta con la «donna al volante pericolo costante» o «le donne e buoi dei paesi tuoi», tanto per dare l'idea di una crociata ridicolmente censoria spacciata come un'azione coraggiosa per spazzare secoli di stereotipi. Preoccupa più che altro l'intento serio di un ex vertice dello Stato di alimentare l'onda del politicamente corretto, uno strumento mellifluo per mettere fuori gioco chiunque usi una parola fuori tempo o citi aforismi che rimandano alla saggezza degli antenati. Oggi invece i nostri nonni, secondo la «femminista dalla nascita» Laura Boldrini, diventano implicitamente una cricca di volgari omofobi che hanno inquinato le menti di figli e nipoti con scemenze machiste. Su twitter il dibattito s' infiamma tra battute da avanspettacolo che rimarcano provocatoriamente gli aforismi popolari poco benevoli verso gli uomini. Per il dirigente di Fratelli d'Italia Guido Crosetto, piemontese arguto, oggi sarebbe un caso di body shaming proclamare «grand e gross ciula e baloss». Questo detto da un gigante di due metri arrivato a pesare anche 130 chili. E poi quei poveri carabinieri, quando l'Arma era esclusivamente maschile, sbeffeggiati e accusati di ogni idiozia solo per strappare una grassa risata alla fine di una barzelletta irriverente. Basta, meglio non dare altre idee ai fanatici del linguaggio ipercorretto, se no si apriranno ogni giorno battaglie di pulizia lessicale. I proverbi sulle donne, soprattutto quelle irripetibili da caserma, saranno colpiti da fatwa dalle conseguenze spaventose. Il prossimo passo sarà chiedere la rimozione, a Milano, di via Gino Bramieri. Un genio dell'umorismo per milioni di italiani, sicuramente un cattivo maestro per donna Laura.

La casta dei 5 Stelle adesso occupa anche le librerie. Paolo Bracalini il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Persino a Toninelli è venuto il dubbio: "In troppi ormai scrivono libri. In Italia basta essere transitati per qualche minuto davanti a una telecamera per sentirsi accreditati a farlo". Persino a Toninelli è venuto il dubbio: «In troppi ormai scrivono libri. In Italia basta essere transitati per qualche minuto davanti a una telecamera per sentirsi accreditati a farlo. Si vive una bulimia di scrittura commerciale senza precedenti. Questo mi scoraggia». Poi però ha superato lo scoramento e ha pubblicato anche lui un libro, convinto che «avrebbe potuto aiutare tante persone, in situazioni di difficoltà simili alla mia, a non mollare». Il trauma di cui parla sarebbe quello di non essere più ministro delle Infrastrutture ma solo senatore a 15mila euro al mese, una difficoltà straziante in cui si riconosceranno milioni di italiani. Ma Toninelli, in veste di politico-scrittore autobiografico, si ritrova in folta compagnia di partito. È l'ultima trasformazione dei Cinque Stelle, da anticasta in piazza a casta nei palazzi e pure in libreria. Hanno talmente apprezzato i privilegi che prima combattevano da diventare non solo sistema, ma anche il partito con più pubblicazioni autocelebrative. Nessun altro, dal Pd a Fdi, conta così tanti esponenti convinti che l'Italia abbia bisogno delle loro memorie. Altrove sono solo i leader (Letta, Renzi, Meloni, Calenda i più recenti) a scrivere libri sulla politica, nel M5s un po' tutti. Tipo Toninelli, appunto, uno a cui difettano molte cose, ma non l'autostima («interrompere il nostro lavoro fu un vero peccato, non solo per me ma anche per il bene del Paese») arriva a scrivere nel suo Non mollare mai, tra i libri più letti a casa Toninelli. Ma come lui molti altri. Anche l'ex sottosegretario M5s Vincenzo Spadafora ha sentito l'irrefrenabile desiderio di raccontarsi Senza riserve (titolo del volume pubblicato da Solferino). Oltre a svelare la sua omosessualità già nota a tutti gli addetti ai lavori (cioè gli unici che sanno chi sia Spadafora), il grillino regala chicche da Baci Perugina e golosi retroscena sulla sua giovinezza ad Afragola come il fatto che da ragazzino tutti gli dicevano «devi fare politica», ma lui non lo prendeva come un insulto, «penso sia stato per il mio impegno nel sociale, iniziato a dodici anni, o perché avevo una buona parlantina e riuscivo ad attirare l'attenzione di parenti, amici o conoscenti quando iniziavo i miei discorsi». Una lettura imperdibile. Come le memorie di Luigi Di Maio alla Farnesina (Un amore chiamato politica), malgrado gli inevitabili strafalcioni come quello sull'ex consigliere di Trump, John Bolton, che diventa Michael Bolton, il cantante americano. Meno grave di chiamare Ping, come se fosse il cognome, il presidente cinese Xi Jinping, cosa che invece Di Maio ha fatto non in un libro ma nella realtà. Attesissima, si fa per dire, anche l'opera prima di Lucia Azzolina, la dimenticabile ex ministra dell'Istruzione, il cui lascito più rilevante nel campo della scuola sono i banchi a rotelle. Per lei hanno scelto un titolo alla De Amicis: La vita insegna. Dalla Sicilia al Ministero, il viaggio di una donna che alla scuola deve tutto (in arrivo settimana prossima da Baldini+Castoldi). Non ci sono ancora anticipazioni ma si sa che la Azzolina racconterà, tra l'altro, anche «la difficoltà di essere donna in politica», che è sempre stata la sua argomentazione difensiva quando le davano della incompetente («Mi attaccano perché sono donna», «No perché sei incapace» le rispose Salvini). Sempre in libreria, nello stesso settore, si possono trovare altri tomi pentastellati. Quello di Rocco Casalino, l'ex portavoce di Conte ora alla comunicazione dei gruppi parlamentari M5s. Anche lui ha sentito l'urgenza di raccontare la sua esperienza a Palazzo Chigi (Il portavoce. La mia storia) con tanto di copertina stile House of cards, per non peccare di modestia. Ormai un veterano delle pubblicazioni è Alessandro Di Battista, giunto al suo quinto libro con Contro! Perché opporsi al governo dell'assembramento. Infatti nella quarta di copertina viene descritto come «reporter, scrittore» e solo come terza specialità «attivista politico». Ancora senza libro il leader Giuseppe Conte, troppo preso dalla gestione del Movimento in piena crisi. Per stasera è convocata l'assemblea congiunta di deputati e senatori M5s a Montecitorio. Molto vago l'ordine del giorno (comunicazioni del Presidente, modalità lavoro legge bilancio e sua regia politica; varie ed eventuali), infatti i dissidenti ironizzano sull'inutilità dell'odg, «speriamo ci sia qualcosa nelle varie ed eventuali». Paolo Bracalini

Cortocircuito a sinistra: gli odiatori sono fan del ddl Zan. Giuseppe De Lorenzo il 6 Novembre 2021 su Il Giornale. Il caso di Ferrara e il rinvio a giudizio di Saviano. Un filo rosso lega due casi apparentemente distanti. Le notizie possono apparire distanti, eppure un filo rosso le unisce. Da una parte la presunta aggressione omofoba, che forse tanto omofoba non era, avvenuta a Ferrara ad Halloween. Dall’altra il rinvio a giudizio di Roberto Saviano, accusato di diffamazione per aver chiamato “bastarda” Giorgia Meloni. Direte: che c’azzeccano? C’entrano eccome. Perché ad unire i punti c’è quel ddl Zan di cui tanto si discute, bandiera mai ammainata da centrosinistra (e dai suoi intellettuali star) nonostante la sconfitta subita in Senato. La cronaca, e cioè l'insieme dei casi Ferrara e Saviano, non fa che mostrare l’incredibile cortocircuito di questi giorni: il paradosso per cui, alla fine, i veri odiatori finiscono con l’essere gli stessi che l’odio vorrebbero combatterlo per mezzo del famoso decreto scritto da Alessandro Zan. Prendete il caso di Ferrara. I fatti sono noti. Alcuni ragazzini Lgbt denunciano l’aggressione omofoba e pubblicano un video in cui si sente un ragazzo inneggiare a Mussolini. Apriti cielo. Arcigay si straccia le vesti. Il Pd tutto attacca la solfa del “se ci fosse stata la legge Zan…”. E pure il sindaco ferrarese leghista corre ai ripari prendendo le distanze da quanto successo. Bene. Nessuno però si prende la briga di verificare con precisione quanto successo. Perché stando all’altra versione dei fatti, valida per ora quanto quella delle “vittime”, il primo a ricorrere agli insulti sarebbe stato un giovane del “gruppetto Lgbt”, il quale avrebbe definito “straniero di merda” un ragazzo dello schieramento opposto. Chi la racconta giusta? Difficile dirlo. E non spetta a noi determinarlo. Però siamo alla famosa storiella del bue che dà del cornuto all’asino: si fa fatica a scendere in piazza “contro l’omofobia e i filofascisti” (come previsto oggi a Ferrara) quando tutta la pantomima sarebbe nata da un insulto xenofobo. “Giovani Lgbt si rivelano razzisti”, sintetizza con malizia un osservatore esterno. Lo stesso dicasi per Roberto Saviano. Come noto, lo scrittore è uno dei grandi sostenitori del ddl Zan. Molto si è speso, ed anche inutilmente, per l’approvazione di una legge contro la “persecuzione” (giuro, ha detto così) verso i gay. Ma se combatti il veleno gettato contro il prossimo considerato “diverso”, come puoi insultare gratuitamente chi ha idee diverse dalle tue? Perché un conto è definire “abominevoli” le posizioni di Giorgia Meloni. Un conto è contestarne, anche con parole crude, l’azione politica. Ma chiamarla “bastarda”, cioè “ibrido fra due razze” o “di nascita illegittima”, è tutt’altra cosa, soprattutto per un paladino della legge contro l’odio omotransfobico. Occorre chiedersi: nella testa di Saviano, perché denigrare Meloni sarebbe accettabile mentre definire "frocio" un omosessuale no? Sono entrambi comportamenti orribili, converrete. Eppure l'autore chiede il ddl Zan contro la transfobia ma non rispetta il codice, già scritto, che vieta di insultare gratuitamente chicchessia. Non vi sembra ipocrita? Un pochino sì. A meno che, ma allora arriveremmo ad un paradosso ancor più incredibile, non ci state dicendo che discriminare i gay è un crimine. Mentre odiare un "fascista", un po’ come ucciderlo, non configura mai reato. 

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra.

La "cancel culture" all'italiana: gruppi Lgbt contestano Scalfarotto. Roberto Vivaldelli il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Il coordinamento Palermo Pride contro la presenza di Ivan Scalfarotto alla presentazione del libro di Francesco Lepore "Il delitto di Giarre. 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia". Il Ddl Zan non ti convince al 100%? Non meriti di parlare e partecipare alla presentazione di un libro. Se pensate che la cancel culture in Italia non esiste, chiedete a Ivan Scalfarotto, sottosegretario al ministero dell'Interno ed esponente di Italia Viva, invitato a partecipare alla presentazione de "Il delitto di Giarre. 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia' di Francesco Lepore, organizzata a Palazzo delle Aquile, a Palermo. Gli organizzatori avevano chiesto a Luigi Carollo, uno dei portavoce del Palermo Pride, di portare i saluti alla presentazione ma l'invito è stato rifiutato per la presenza di Scalfarotto: "Riteniamo irricevibile l'invito dell'amico Francesco Lepore a un tavolo in cui siede chi ha svenduto i nostri diritti sull'altare delle mediazioni di governo già nel 2013 - ha fatto sapere il direttivo di Coordinamento Palermo Pride, in riferimento alla presenza del sottosegretario al ministero dell'Interno -. Non tollereremo oltre lezioni sulla buona politica e sulla necessità di mediare per ottenere una legge". "Non rinuncio al dibattito per proteste, non cambio idea", la replica di Scalfarotto, citata dall'Agi. "Nessuno si può aspettare che io rinunci a venire a Palermo perchè qualcuno fa una manifestazione contro di me". "Non trovo mai particolarmente elegante quando si individua un nemico singolo, quando si dice che il problema è Ivan Scalfarotto - ha proseguito -.Non credo sia una buona pratica politica perchè si corre il rischio di additare all'odio social un individuo. Se le associazioni vogliono contestarmi sono libere di farlo - ha concluso - ma non pensino che io cambi idea". Rispetto al Ddl Zan, Scalfarotto ha sottolineato che "è stato gestito malissimo. E' stato portato consapevolmente contro un muro, perché a luglio si era avuta una votazione palese nella quale non eravamo andati sotto per un voto. Si sapeva che questa era una votazione rischiosissima e che i numeri del Senato non sono quelli della Camera". Nel frattempo, davanti a Palazzo delle Aquile, a Palermo, è stato allestito un sit-in per protestare dopo la mancata approvazione del disegno di legge. Circa un centinaio di persone hanno protestato esponendo uno striscione con la scritta "Ma quali accordi? Ma quale mediazione? Sui nostri corpi nessuna mediazione". Non basta essere come Scalfarotto, che ha dedicato una vita a supportare le battaglie contro le discriminazioni sessuali. Per gli ultra-progressisti l'esponente di Italia Viva non meritava nemmeno di presenziare e intervenire alla presentazione di un libro alla quale era stato invitato. Un atteggiamento da sinceri democratici. Come se, peraltro, la bocciatura del Ddl Zan non avesse un unico vero responsabile, quel Partito democratico che ha voluto, a tutti i costi, andare al muro contro muro, rimediando una sonora sconfitta - largamente prevedibile - in Parlamento. Ma in questo caso Ivan Scalfarotto ha finito con l'essere il facile capro espiatorio di una sinistra che non tollera posizioni divergenti al suo interno.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

 Scontro sui gay, il Palermo Pride: «Non ci sediamo allo stesso tavolo con Scalfarotto». Tensioni dopo l'affossamento del ddl Zan. La replica del sottosegretario di Italia viva: «L'idea che le battaglie di principio delle persone Lgbt debbano sfociare sistematicamente nel nulla mi pare fallimentare». Il Quotidiano del Sud il 4 novembre 2021. L’onda lunga delle polemiche dopo l’affossamento del ddl Zan continua a produrre i suoi effetti. L’ultimo duello a distanza vede protagonisti il Coordinamento Palermo Pride e il sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto. Ad accendere la miccia la presa di posizione del Coordinamento rispetto alla presentazione del libro ‘Il delitto di Giarre. 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia’, di Francesco Lepore, organizzata a Palazzo delle Aquile.

C’È SCALFAROTTO? NON VENIAMO

Gli organizzatori avevano chiesto a Luigi Carollo, uno dei portavoce del Coordinamento, di portare i saluti alla presentazione ma l’invito è stato rifiutato per la presenza di Scalfarotto: “Riteniamo irricevibile l’invito dell’amico Francesco Lepore a un tavolo in cui siede chi ha svenduto i nostri diritti sull’altare delle mediazioni di governo già nel 2013 – ha fatto sapere il direttivo di Coordinamento Palermo Pride, in riferimento alla presenza del sottosegretario al ministero dell’Interno –. Non tollereremo oltre lezioni sulla buona politica e sulla necessità di mediare per ottenere una legge”. La nota poi prosegue citando lo slogan del Pride andato in scena il 30 ottobre nel capoluogo siciliano: “Ma quali accordi? Ma quale mediazione? Sui nostri corpi nessuna condizione”. Poi l’affondo su Scalfarotto: “Nel 2013 stava già smontando la legge Reale Mancino cedendo alle provocazioni dell’Udc e dell’ala cattodem del Pd. Scalfarotto oggi sostiene che sul ddl Zan era necessario mediare: ma su cosa? Sull’identità di genere e sulla scuola ovviamente. I nostri diritti sono stati svenduti sull’altare delle trattative per costruire una nuova coalizione politica di centrodestra che va da Italia viva fino alla Lega. In pieno accordo con Luigi Carollo, invitato come portavoce del Coordinamento Palermo Pride – continua la nota – non parteciperemo quindi alla presentazione del libro”.

LA REPLICA DEL SOTTOSEGRETARIO

A stretto giro di posta è arrivata la replica di Scalfarotto: “Come uomo politico so bene che le tutte mie decisioni sono oggetto di scrutinio e di possibili contestazioni, naturalmente del tutto legittime. E tuttavia mi pare necessario sgombrare il campo dal sottotesto di questa manifestazione e di numerosi messaggi che ho ricevuto in questi giorni, e cioè che il fatto di essere io stesso omosessuale debba vincolarmi in qualche modo a una unicità di pensiero, o a una fedeltà obbligatoria alla linea politica del mondo associativo – ha affermato –. Vorrei chiarire ora e per sempre che il fatto che io sia gay, insomma, non mi impedisce di pensarla diversamente dal Palermo Pride o da altre associazioni LGBT e di rivendicare con piena convinzione la fondatezza delle mie opinioni”.

E ancora: “L’idea che la battaglia delle persone LGBT in Italia debba risolversi in grandi battaglie di principio che sfociano sistematicamente nel nulla mi pare del tutto fallimentare. Se non si fanno le leggi, la testimonianza potrà forse servire alla carriera di qualcuno ma non produrrà nessun cambiamento reale nella vita della moltitudine dei nostri concittadini omosessuali, bisessuali e trans. Non erano leggi perfette né la legge sul divorzio, né quella sull’aborto, né quella sulle unioni civili, ma non rinuncerei mai a nessuna di quelle leggi in nome di un ‘tutto o niente’ che il più delle volte ti lascia col niente in mano”.

Secondo Scalfarotto “la gestione del cosiddetto disegno di legge Zan è stata frutto di un’imperdonabile incompetenza o di un incredibile cinismo. In una situazione come quella del Senato, completamente diversa quanto ai numeri rispetto a quella della Camera, essere rifuggiti da ogni compromesso – ha aggiunto – ci lascia oggi senza alcuna tutela giuridica contro l’omotransfobia”.

E infine: “Il Palermo Pride è libero di pensarla come vuole ma spero la medesima libertà di opinione sia concessa a me, che da parlamentare rappresento la nazione e non le associazioni rappresentative della minoranza cui appartengo. Piaccia o no al Palermo Pride, io sono parte di questa comunità, senza bisogno di autorizzazioni o di patenti da parte di chicchessia. Parlano per me la mia vita, il mio lavoro, la trasparenza e l’orgoglio con il quale ho sempre vissuto”.

Al fianco di Scalfarotto anche il capogruppo di Italia viva al Senato Davide Faraone: “Ivan sui diritti civili non prende lezioni da nessuno, la sua vita lo testimonia, le sue battaglie lo dimostrano. Noi domani saremo al suo fianco”.

La mostrificazione del dissenso. La scalfarottofobia e altre crociate fesse che ci meritiamo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Ennesimo giro di lagne di cancellettisti poco lucidi su come funzioni la realtà. Eppure basterebbe vedere Quinto Potere o il Diavolo veste Prada per capire che conta l’economia, non la trasformazione dei propri cancelletti in disegno di legge. Chissà perché non proiettano “Quinto potere” nelle scuole. Me lo chiedo ogni giorno, assistendo allo spettacolo d’arte varia degli inquilini dei social che trasecolano perché il loro cancelletto non è diventato legge, norma, educazione collettiva. Perché i loro buoni sentimenti non regolano il mondo. Perché la loro bellezza interiore non è apprezzata. «Si alza, dentro al suo piccolo schermo a ventuno pollici, e ulula dell’America e della democrazia. Non c’è nessuna America, non c’è nessuna democrazia. Ci sono solo la Ibm, e la Itt, e la At&t, e Dupont, Dow, Union Carbide, e Exxon. Queste sono oggi le nazioni del mondo. Di cosa crede parlino i russi nei loro consigli di Stato: di Karl Marx?». Tra dieci giorni “Quinto potere” compie quarantacinque anni, sono quarantacinque anni che Howard Beale dal televisore esorta gli americani ad affacciarsi alla finestra e a urlare che non ne possono più (pensateci, quando vi fate la bislacca idea che il populismo nell’era dei mezzi di comunicazione di massa l’abbiano inventato Gian Antonio Stella o Beppe Grillo o Donald Trump), e sono quarantacinque anni da quando quello che era diventato un format che moltiplicava gli ascolti si trasformava in un danno, troppe prediche anticapitaliste e gli arabi avevano ritirato gli investimenti e il capo della multinazionale lo convocava e gli faceva una stupenda tirata (Paddy Chayefsky, lo sceneggiatore, era imbattibile sulle tirate).

Sono quarantacinque anni che non serve aver studiato: basta essere andati al cinema, per capire che conta solo l’economia. E invece.

E invece ti aggiri per i social – che forse sono persino specchio della realtà, anche se l’idea mi terrorizza: voglio credere ci siano, nascosti in capanne di Unabomber non cablate, cittadini sani di mente – e gli adulti sembrano cinquenni che frignano perché la mamma non gli vuole abbastanza bene.

Che la mamma sia la Rai, che scrittura per Sanremo il più formidabile intrattenitore italiano (roba che il secondo, chiunque egli sia, sta tre giri di pista più indietro) e lo fa senza filarsi il collegio elettorale di Twitter che ne disapprova il mestiere. Il mestiere di fare tutte le battute che vuole e non scusarsi quando qualcuno immancabilmente s’offende. Con che coraggio la Rai chiama Fiorello, quando il cugino di Paperina72 fa ridere sempre tutti senza mai offendere nessuno alle cene di Natale?

Che la mamma sia Ivan Scalfarotto, colpevole di aver sottolineato la distinzione colpevole di aver sottolineato la distinzione tra stalinismo e appartenenza a una sinistra occidentale: «Vorrei chiarire ora e per sempre che il fatto che io sia gay, insomma, non mi impedisce di pensarla diversamente dal Palermo Pride o da altre associazioni LGBT e di rivendicare con piena convinzione la fondatezza delle mie opinioni». Scalfarotto – riassumo casomai foste persone serie e non buttaste energie a seguire la polemica scema dell’ultimo quarto d’ora – ha osato essere invitato a presentare il libro di Francesco Lepore sul delitto di Giarre.

Libro che evidentemente le associazioni gay che hanno invitato a boicottare l’incontro non hanno letto, così come non hanno letto il sussidiario alle elementari, sennò i fondamentali di come la politica sia l’arte del compromesso non glieli dovrebbe spiegare Scalfarotto.

Che peraltro spiega loro anche che, con una simile intolleranza e mostrificazione del dissenso, danno ragione a chi temeva che la Zan fosse un pericolo per la libertà d’opinione: «Certo, non posso non notare che avranno gioco facile coloro che, sulla base di questa contestazione dell’associazionismo LGBT nei confronti di una persona omosessuale “non allineata”, probabilmente affermeranno che il proposito di quella parte del mondo LGBT italiano non fosse quello di arrivare a una legge che ispirasse il nostro ordinamento a principi di inclusione e di rispetto ma di limitare la libertà di opinione di coloro che la pensano diversamente. Un altro capolavoro politico, non c’è che dire».

Poiché c’ero, all’alba dei social, e ricordo bene quando parlavamo di Scalfarotto come fosse un cretino, devo dirvi che mi fa una certa impressione ritrovarmi qui a constatare la sua lucidità e a vergognarmi d’averlo sottovalutato. C’entreranno gli orbi in terra di ciechi, certo, ma insomma una riflessione su questo tempo che ci costringe a considerare Berlusconi uno statista e ad avere nostalgia di Forlani andrà fatta. Aver avuto vent’anni quando si considerava il punto più basso della storia dell’uomo il fatto che a vincere le elezioni fosse stato un partito con dentro Lucio Colletti può essere fonte d’un certo qual imbarazzo retrospettivo, se campi abbastanza a lungo da veder vincere le elezioni un partito con dentro Alessandro Di Battista.

(Dice Di Battista, l’Howard Beale che questo secolo si può permettere, che parte in tour per vedere se esiste la «richiesta collettiva» di una nuova forza politica che in caso lui fonderebbe, a gentile richiesta. Speriamo sia un tour in cui fa i grandi successi e non i pezzi nuovi, almeno).

Ma torniamo all’elenco delle mamme anaffettive, quelle che fanno piangere l’adulto cinquenne dell’internet. Un ruolo che riesce a toccare persino a me, con tutta la devozione che ho per la mia sterilità.

Pochi giorni fa alcuni adulti hanno frignato perché ho scritto che i maschi si sono appropriati del rosa. Citavo un golfino di Prada con cui Jake Gyllenhaal si è fatto fotografare sulla copertina dell’inserto patinato del Sunday Times. Poiché gli adulti cinquenni non solo non hanno sfogliato il sussidiario da piccoli né Karl Marx da grandi, ma neanche hanno visto il Diavolo veste Prada, pensano che quel golfino rosa parli della loro libertà d’espressione e della loro identificazione di genere; non del fatto che, se riescono a vendere il rosa ai maschi, le multinazionali della moda fattureranno molti più golfini.

Dice Aaron Sorkin, sceneggiatore ed erede della passione di Chayefsky per le invettive, che nessuno, «neanche Orwell, ha visto il futuro con la precisione di “Quinto potere”».

Certo, l’everyman che non capisce la prevalenza dell’economia non è più un conduttore televisivo, e i social e i loro abitanti sono come l’inquisizione spagnola dei Monty Python: nessuno se li aspettava. Ma sono dettagli.

Ieri sfogliavo un New Yorker del 1998. C’era una vignetta in cui un padre indicava al figlio il panorama fuori dalla finestra: «Un giorno tutto questo sarà di Bill Gates». Il fatto che dica Gates e non Zuckerberg la rende datata. Datata, mica inattuale. Mica se nell’invettiva di “Quinto Potere” ci sono multinazionali di cinquant’anni fa allora è meno illuminante. Mica siamo ancora così scemi da pensare che il segno della nostra affermazione personale sia un golfino rosa, o urlare alla finestra. O sì?

"La scuola progressista genera disuguaglianza. Sanzioni ai docenti che attestano il falso". Gabriele Barberis il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. "Ecco il vero danno scolastico". Il saggio del sociologo e della scrittrice Paola Mastrocola. Torna in campo il sociologo Luca Ricolfi, mente lucida e voce critica dell'area liberal-progressista. Con la moglie Paola Mastrocola (scrittrice, premio Campiello 2004 ed ex docente) ha appena scritto il libro «Il danno scolastico» che denuncia le gravi responsabilità della sinistra sullo scadimento dell'istruzione pubblica.

Professor Ricolfi, un saggio sulla scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Scusi la provocazione, ma dove sarebbe la novità?

«Forse non è una novità per lei, ma forse non sa che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sociologi non ha mai riconosciuto né analizzato l'impatto della qualità dell'istruzione sulla diseguaglianza. In questo libro noi dimostriamo, credo per la prima volta, che più la scuola abbassa il livello, più si allarga il divario fra le chance di promozione sociale dei ceti bassi e quelle dei ceti alti: la scuola senza qualità è un regalo ai ricchi. E la dispersione scolastica, su cui da decenni ci si straccia le vesti, è anche un effetto non voluto dell'abbassamento».

I danni dell'«istruzione democratica» sono il fardello finale del Sessantotto o ci sono responsabilità più recenti da parte di una sinistra ideologica?

«Sì, ci sono responsabilità posteriori al '68, ma ce ne sono anche di anteriori, prima fra tutte la istituzione della scuola media unica (1962), con la progressiva eliminazione del latino e il costante annacquamento dei programmi. Per non parlare dei danni del donmilanismo (Lettera a una professoressa è del 1967), un'ideologia che avrebbe avuto un senso negli anni '50, ma che alla fine dei '60, quando si diffuse, era divenuta del largamente inattuale e profondamente anti-popolare».

E le responsabilità successive al Sessantotto?

«Sono innumerevoli, a tutti i livelli. A partire dalla liberalizzazione degli accessi (1969), passando per la soppressione della figura del maestro unico alle elementari (1990), fino alle grandi riforme della fine degli anni '90 nella scuola e nell'università, con la trasformazione delle scuole in pseudo-aziende e delle università in esamifici: il capolavoro del ministro Berlinguer».

Lei elenca casi concreti di totale ignoranza o scarsa capacità di comprensione da parte di studenti universitari preparati male. Prevede una classe dirigente nazionale fatta da figure incompetenti e inadeguate?

«Più che prevederla, la osservo. L'abbassamento è iniziato quasi 60 anni fa, e quindi ha avuto tutto il tempo di produrre un ricambio completo di classe dirigente. Direi che lo spartiacque è negli anni '70: chi è nato dopo non ha più usufruito di un'istruzione decente, semplicemente perché la maggior parte di coloro che avrebbero potuto impartirgliela era uscito di scena, e la maggior parte dei nuovi docenti avevano un livello di preparazione decisamente meno soddisfacente. Naturalmente non mancano le eccezioni (pessimi docenti di ieri, ottimi docenti di oggi), ma il trend è quello che è: chiaro e inesorabile».

Vogliamo parlare anche di docenti non all'altezza, se non imbarazzanti in certi casi? Anche loro sono passati attraverso le maglie larghe dell'egualitarismo?

«Il problema non è solo l'egualitarismo, o meglio l'egualitarismo malinteso che ha dominato la scena per mezzo secolo. Il punto cruciale, quello che rende i problemi dell'istruzione maledettamente complicati (e probabilmente irrisolvibili), è che la maggior parte delle famiglie e degli studenti hanno oggi altre priorità, e nuove scale di valori: la priorità numero 1 è il consumo, e la sciatteria non è considerata un difetto. Bastano queste due circostanze, che ogni docente trova bell'e fatte davanti a sé, a ostacolare enormemente il lavoro di chi prova a insegnare qualcosa».

Le riforme Moratti e Gelmini, varate durante i governi di centrodestra, hanno tentato di correggere storture ideologiche del passato. Come ne giudica gli effetti ad anni di distanza?

«Direi che, se ci hanno provato, hanno fallito completamente. Ma a mio parere non ci hanno provato granché, probabilmente perché condividevano un punto centrale delle mode degli anni '90: l'idea che la scuola vada pensata come un'azienda, di cui va valutata l'efficienza, e i cui azionisti di maggioranza sono le famiglie. Su questo punto cruciale vedo poche differenze fra destra e sinistra».

Se lei fosse il ministro dell'Istruzione quale provvedimento adotterebbe d'urgenza?

«Come sociologo, penso che dovremmo avere il coraggio di ammettere che ci sono problemi sociali non risolvibili. O meglio, ormai non più risolvibili perché si è lasciato passare troppo tempo. Quindi non ho proposte, tutt'al più provocazioni per far capire qual è il problema.

Una provocazione?

«Beh, un'idea ce l'avrei. Così come si parla di responsabilità civile dei giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa (si può dire così?) del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi, come un perito che è responsabile della perizia che firma. Basterebbe questo a frenare lo scandalo più grave della scuola e dell'università, ossia il rilascio di certificati che attestano il falso».

Doppia domanda come analista politico. Dove sfocerà la tensione politica sul green pass? Se Draghi diventerà presidente della Repubblica, si immagina un'Italia che torna alle urne tra pochi mesi al culmine di un clima di odio?

«Alla fine credo che il governo dovrà concedere qualcosa a chi non vuole né vaccinarsi, né accollarsi, per poter lavorare, 100-150 euro al mese di spesa per i tamponi. Quanto a Draghi presidente della Repubblica, la conseguente andata alle urne a primavera mi pare difficilmente evitabile. Però mi chiedo: siamo sicuri che votare nel 2022 sarebbe un male peggiore che andare alle urne nel 2023? In fondo prima o poi al voto dovremo andare. E sarebbe anche ora, visto che è da 13 anni che non riusciamo più a scegliere i nostri governanti».

Chiudiamo con la giustizia. Le continue invasioni di campo della magistratura condizionano la politica. Anche per lei sarebbe positivo il pieno ritorno dell'immunità costituzionale per i parlamentari per frenare lo strapotere delle procure?

«Anche in questo caso, come in quello della scuola, bisognerebbe prendere atto che una soluzione soddisfacente non esiste, e che siamo costretti a scegliere fra due mali. Nel 1993 il male maggiore era, o sembrava, il vizietto del Parlamento di negare in automatico l'autorizzazione a procedere. Dopo quasi trent'anni, il male maggiore è, o sembra, il protagonismo dei Pm, che ora si accanisce anche nei confronti dei sindaci. Di qui, per noi liberali e garantisti, il paradosso: la magistratura è caduta così in basso che siamo tentati di invocare l'immunità per un ceto politico che sappiamo essere il peggiore di sempre».

Gabriele Barberis Caporedattore Politica, Il Giornale

Paolo Mieli, il nuovo libro. Il passato sul banco degli imputati. Andrea Purgatori su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021. Esce martedì 5 ottobre «Il tribunale della storia» (edito da Rizzoli). Il saggio riesamina fatti e personaggi mistificati e ribalta l’esito di alcuni eventi, emettendo nuove sentenze (provvisorie). Ci sono nomi che, chissà perché, hanno sempre evocato significati a senso unico. Prendete Waterloo, ormai da più di due secoli sinonimo di sconfitta senza appello. Quella di Napoleone Bonaparte, beninteso. Giacché dal punto di vista di Sir Arthur Wellesley, primo duca di Wellington, la battaglia feroce che la settima coalizione anglo-russo-austriaca da lui guidata combattè il 18 giugno 1815 contro l’esercito dell’imperatore francese si era conclusa con una insperata e spettacolare vittoria (grazie all’intervento decisivo dei prussiani, sia chiaro). Eppure a chi verrebbe in mente ancora oggi di citare il nome di quel piccolo villaggio nelle campagne a sud di Bruxelles per sottolineare un qualche successo? Waterloo rimane lo sprofondo di Napoleone. Dunque Waterloo sta per disfatta, totale e definitiva. Punto.

Esce il 5 ottobre da Rizzoli il saggio «Il tribunale della storia. Processo alle falsificazioni» di Paolo Mieli (pp. 304, euro 18). E invece, no. Perché la Storia prende e restituisce. L’esito di quella battaglia che in una dozzina d’ore provocò cinquantamila morti avrebbe dovuto cancellare per sempre la memoria dell’imperatore francese. Questo credevano gli inglesi, alla cui benevolenza Napoleone si era affidato. Tanto che per raggiungere lo scopo, lo relegarono in un’isola sperduta nell’Oceano a metà strada tra le coste africane e quelle del Sudamerica: Sant’Elena. Napoleone lì sopravvisse sei anni e morì, il 5 maggio del 1821. Forse per l’aggravarsi di un’epatite o secondo alcuni avvelenato. Ma quando nel 1840 le sue ceneri tornarono a Parigi, gli fu tributato un trionfo da eroe. Invece che consegnarlo all’oblio, come a Londra avevano sperato, dall’esilio Napoleone aveva costruito giorno dopo giorno la sua leggenda celebrata da poeti e scrittori. Quella fu la sua «vera, ultima, definitiva vittoria». Altro che Waterloo. Il tribunale della storia, ultimo saggio (Rizzoli) di Paolo Mieli, storico e giornalista, indaga e ribalta l’esito di questa e altre vicende che attraverso i secoli hanno consegnato i protagonisti ad un giudizio spesso frettoloso, comunque privo di tutte le prove di cui appunto un tribunale dovrebbe in onestà tenere conto: «Un riesame, con tanto di imputati, accusa, difesa per mettere in discussione le “verità” tramandate ed emettere sentenze (provvisorie) che ci inducano a rivedere i fatti sotto una luce diversa». Ed è esattamente il percorso seguito da Mieli, con due modalità. Primo, isolando e mettendo sotto la lente uno o più dettagli sfuggiti per superficialità o per faziosità ad una precedente istruttoria su accadimenti e comportamenti che hanno generato giudizi incompleti o distorti. Secondo, concentrando anche intorno ad un unico dettaglio la possibilità di una nuova analisi che «guardando da altri angoli visuali» può portare persino a «riconsiderazioni clamorose». Dunque, ecco che così l’imputato Bonaparte Napoleone potrà lasciare l’aula del tribunale ideale della storia non più da sconfitto per l’eternità. Che l’imputato Castro Fidel, da estremo guardiano del socialismo reale caraibico potrà vedere riscritta la sua vicenda personale e politica alla luce dell’influenza gesuita che lo configura come un monarca d’ispirazione cattolica più che come un comunista ortodosso (pur sempre anticapitalista). Che l’imputata Roosevelt Eleanor, moglie del presidente Franklin Delano Roosevelt, potrà tornare a indossare con orgoglio il suo abito da liberal alla faccia del capo dell’Fbi Edgar Hoover, che oltre a tenerla sotto controllo indebitamente la considerava quasi alla stregua di una pericolosa sovversiva comunista. Che l’imputata Anhalt-Zerbst Sofia Federica Augusta, più conosciuta come Caterina di Russia, da imputata persino di schiavismo potrà al contrario vantare senza timore una fede (magari temporanea) illuminista. E che invece l’imputato Enea, combattente celebrato della guerra di Troia poi in fuga col figlio Ascanio e il padre Anchise sulle spalle, non passerà più come difensore della sua città poiché l’avrebbe venduta agli Achei, vendendo se stesso, per odio nei confronti di Priamo. Insomma, non eroe ma traditore. Virgilio permettendo. Il potere del Tribunale della storia («nell’era dell’informazione diffusa, sempre riunito in seduta permanente», avverte giustamente Mieli), è capace di assolvere anche a distanza di secoli (e per fortuna) presunti colpevoli riconsiderando gli elementi sfuggiti consapevolmente o inconsapevolmente all’accusa, e viceversa è in grado di condannare per gli stessi motivi presunti innocenti. Ma non ha bisogno di centinaia di pagine di motivazioni. Talvolta ne sono sufficienti appena quattro o cinque. Perché basta appunto un solo dettaglio inedito ad offrire quel punto di vista diverso, magari opposto, a scardinare una precedente sentenza. Prendete adesso Vittorio Emanuele III, accusato di avere oscillato al momento della destituzione del Duce. Beh, di complotti per far fuori (politicamente) Benito Mussolini il re sabaudo ne aveva intercettati tanti fin dagli Trenta, fuori e dentro al suo palazzo. Come quello tutto nella testa (nella fantasia) della principessa Maria Josè, che ben cinque anni prima della seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 aveva proposto al maresciallo Badoglio di arrestare il Duce, costringere il re ad abdicare, convincere suo marito Umberto a rinunciare al trono, mettere il regno nelle mani del figlio con la sua reggenza e affidare il governo del Paese all’avvocato Carlo Aphel, legale di fiducia della famiglia Agnelli. Badoglio ringraziò per averlo messo a parte dell’idea ma non se ne fece nulla. E fu così che Vittorio Emanuele III, in quel ginepraio di piani per spodestare Mussolini, al momento buono si perdette anche lui. Tentennando. Assolto? No, accusa confermata. Tuttavia è bene sapere che le sentenze della storia, dunque anche quelle di questo Tribunale, sono solo parte di un processo. «La lunga marcia di avvicinamento alla verità è infinita — scrive Mieli — Conosce soste, anche lunghe, ma si tratta appunto solo di soste. Poi il cammino riprende. E non si giungerà mai a una stazione finale, a un capolinea. Conta il viaggio, non la meta». Ne è il paradigma il caso dell’ebreo Yeoshua ben Yosef che visse nel primo secolo sotto Augusto e Tiberio, meglio conosciuto come Gesù. Quanto c’è di vero nella tradizione dei Vangeli che ne raccontano gesti e parole, quante le contraddizioni e le interpretazioni errate? Talvolta, in casi estremi dove la fede diventa schermo impenetrabile rendendo difficile un approccio scientifico, anche il Tribunale della storia fatica, come si dice, ad arrivare a sentenza. Ma non è detto che non ci si possa almeno provare.

Per capire la Guerra civile è molto meglio "l'usato". Alessandro Gnocchi l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. I libri meno conformisti sulla nostra Storia non si pubblicano più. Tocca fare modernariato. Per un bibliofilo, ma anche per un lettore qualsiasi, la bancarella di libri usati è croce e delizia. Croce perché c'è bancarella e bancarella: quelle specializzate in rarità impilano tesori che talvolta l'appassionato non si può permettere e lasciano il rimpianto, una struggente nostalgia per il volume così vicino eppure inarrivabile. Delizia, quasi per lo stesso motivo: c'è sempre la speranza che, guardando bene, salti fuori l'inaspettato, il capolavoro misconosciuto in vendita a pochi euro. Inoltre, davanti a una bancarella rifornita, ci si può levare curiosità a lungo coltivate oppure nate lì per lì, davanti a una copertina o a un nome attraente. E si torna a casa con una pila di libri acquistati a poco prezzo. Ah, che bello comprare tutti gli Achille Campanile e Marcello Marchesi ed Ennio Flaiano e Antonio Delfini e Giuseppe Berto e Giovanni Comisso che capitano sottomano. Che bello comprare le vecchie edizioni dei Canti di Giacomo Leopardi, con il commento di Giuseppe e Domenico De Robertis. E poi Papini, Prezzolini, Longanesi... Che bello dare la caccia alle varie edizioni di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, una diversa dall'altra, anche nel contenuto. Che miniera di intelligenza può essere una bancarella. C'è un altro aspetto interessante. Sempre più spesso, capita al bibliofilo di imbattersi in libri che oggi nessuno pubblicherebbe, per i motivi più disparati. Chi stamperebbe oggi una edizione anastatica del manoscritto del Canzoniere di Umberto Saba? Chi fonderebbe una casa editrice (Aria d'Italia) per portare sugli scaffali le opere di un solo autore (Curzio Malaparte)? Chi farebbe una plaquette con un pugno di poesie di Pier Paolo Pasolini (Dal diario, Edizioni Salvatore Sciascia, a cura di Leonado Sciascia)? Per non dire dei fuori catalogo: Bagatelle per un massacro, il pamphlet antisemita di Luis-Ferdinand Céline, tanto spregevole nel contenuto quanto prezioso nello stile, si trova unicamente sulle bancarelle. Ci sono casi che lasciano perplessi, perfino sbalorditi. A cinque-dieci euro ti porti a casa un libretto di poche pagine ma sufficienti per fare una riflessione su come è cambiato il nostro Paese. Nel 1975, il direttore di Storia Illustrata Carlo Castellaneta allegò al numero 215 della rivista una piccola antologia, dal titolo La guerra civile in Italia contenente «testi di scrittori che furono testimoni di quelle vicende dalle due parti della barricata»; testi che «vogliono essere di monito alle nuove generazioni a non ricadere negli orrori di una guerra fratricida, ma anche un esempio nei valori della Resistenza» . Il volume raccoglie scritti di Nuto Revelli, Davide Lajolo, Valdo Fusi, Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Piero Caleffi, Ubaldo Bertoli, Carlo Levi, Giose Rimanelli, Mario Gandini. Il volume era targato Mondadori, ed era in una collana di «testimonianze di prima mano». Era una raccolta «editorialmente corretta», che non metteva in discussione i capisaldi ideologici della Resistenza. Però dava la parola anche ai vinti, in particolare dava il giusto rilievo a un romanzo come Tiro al piccione di Giose Rimanelli, che raccontava con efficacia il punto di vista di un repubblichino anzi repubblicano: «È veramente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani, diciamo di essere i veri figli d'Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l'Italia appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vicenda e non sappiamo chi è nel torto e chi nella ragione». Il romanzo, autobiografico, ebbe una vita editoriale travagliata. Fu preso da Einaudi ma l'editore torinese, quando il libro era già in bozze, fermò tutto nonostante questo parere di Cesare Pavese: un «giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un'idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci». Alla fine fu pubblicato da un editore ancora più grande: Mondadori, nel 1953. Ma rientrò nel catalogo di Einaudi nel 1991, l'anno in cui lo storico Claudio Pavone, da sinistra, recuperava il concetto di «guerra civile». Nello stesso anno Einaudi ripubblicò anche Un banco di nebbia di Giorgio Soavi, un'altra testimonianza dall'altra parte della barricata, anche in questo caso scartata (con qualche dubbio di Italo Calvino) da Einaudi e approdata a Mondadori nel 1955. Altri libri si sono poi aggiunti, in particolare quelli di Carlo Mazzantini (A cercar la bella morte è in edicola allegato con il Giornale). La antologia curata da Carlo Castellaneta ci interroga fin dal titolo: quella «guerra civile» potrebbe incappare in qualche accusa di revisionismo. Il contenuto... Beh, come immaginate verrebbe presa una selezione che mette assieme, sullo stesso piano, Uomini e no di Elio Vittorini (manicheo fin dal titolo, proprio lui, Vittorini, che aveva tessuto l'elogio dello squadrismo nella prima edizione del Garofano rosso) e appunto Tiro al piccione di Rimanelli, che non ha certezze da esibire? La domanda è retorica: una antologia così finirebbe massacrata da qualche antifascista in assenza di fascismo, una specie intellettuale tornata in grande spolvero nell'Italia di oggi. Non è che, per caso, mentre eravamo distratti dalle guerricciole politiche, la cultura italiana ha fatto uno o due passi indietro al punto da apparire meno libera perfino rispetto ad anni di forti divisioni ideologiche dalle conseguenze tragiche? Non sarà, alla fine, un problema di analfabetismo di ritorno, forse anche di andata? Una o due generazioni di chierici sono convinte che i «fasci» (categoria che comprende chiunque abbia idee diverse da loro) devono tacere, e così negano, innanzi tutto a se stessi, la più umile e meno giudicante delle virtù: la conoscenza, che precede le nostre, personali idee per illustrarci la complessità del mondo. Ecco, proprio «complessità» è la parola ipocritamente sventolata dalle menti semplici, e irresponsabili, che vogliono rifarci combattere una guerra civile per fortuna terminata da un pezzo. Alessandro Gnocchi

8 settembre: i morti dimenticati di Arbe, il campo di concentramento fascista in Croazia.  Simone Modugno e Linda Caglioni su La Repubblica il 7 settembre 2021. Sull'isola croata di Arbe, in Dalmazia, c'è ancora traccia di una storia poco nota dell'occupazione della Jugoslavia, che sconfessa il mito del cosiddetto “buon italiano”. A partire dal 1942 i fascisti vi costruirono un campo di concentramento dove furono internate tra le 10 e le 15 mila persone tra croati, sloveni ed ebrei. Molti di loro vi morirono per malattie, infezioni e denutrizione. Dopo la firma dell'armistizio dell'8 settembre del '43, il sito venne smantellato in fretta e furia. La vicenda non ottenne mai particolare visibilità, benché quello di Arbe fu uno dei peggiori tra i campi organizzati dal regime fascista. Foto tratte dalla mostra "A ferro e fuoco. L'occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943"

Gianni Oliva per “La Stampa” l'8 settembre 2021. La memoria antifascista ha rielaborato l'8 settembre nella combinazione di sfascio e di rinascita: c'è un'Italia piegata, che si arrende agli angloamericani e naufraga di fronte al dilagare dell'occupazione tedesca, ma nella deriva della storia nazionale fiorisce l'Italia della scelta, quella che muove i primi passi verso il domani e stimola il Paese con l'esempio dei suoi uomini migliori. Le pagine di Roberto Battaglia (autore nel 1953 di una Storia della resistenza italiana che è stata per decenni manuale di riferimento) sono paradigmatiche: «quando andiamo a rintracciare l'inizio del movimento resistenziale, noi troviamo ripetersi dovunque lo stesso fatto: l'emergere dalle masse popolari di antifascisti, di militari, di giovani già decisi fin dal primo momento a impugnare le armi, a iniziare subito dopo l'armistizio e non domani la guerriglia, ad agire per una decisione spontanea che viene da un profondo istinto di ribellione». Confusione, indifferenza Prima di lui, Piero Calamandrei aveva parlato con intonazione poetica di un 8 settembre segnato dalla scelta corale dei tanti pronti a combattere per una stagione nuova: «era la chiamata di una voce diffusa come l'aria, era come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno». Sulla stessa lunghezza d'onda si sono espressi Guido Quazza («l'8 settembre è la data di nascita dell'antifascismo come forza decisiva») o Raimondo Luraghi («nel momento dell'armistizio, in tutte le fabbriche l'entusiasmo e lo spirito di lotta sono altissimi»). Queste ricostruzioni attingono a un elemento di verità, perché ci sono uomini che sin dai primi momenti intuiscono (come Giaime Pintor) che «un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere riscattato solo da una rivoluzione vera», ma si tratta di scelte individuali, numericamente marginali. Il tratto distintivo che avvolge l'Italia dell'armistizio è un altro: il silenzio, il silenzio della morale, della ragione, della volontà. Anche là dove brulica la confusione di soldati che si muovono senz' ordini o di cittadini che arraffano nei depositi abbandonati, la scena è dominata dalla paralisi delle energie e dall'esaurimento psicologico. La letteratura ha compreso e interpretato questo silenzio ben prima della storiografia. Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza, descrive il disorientamento di un reparto in servizio nella campagna romana: quando, dopo molte ore, giunge notizia dell'armistizio e dello sbandamento, c'è chi reagisce con rabbia («il comando non ci ha avvisati! Lascia che abbia un figlio e che la patria venga a chiedermelo soldato!»), chi si aggrappa all'ottimismo della volontà («io non ci credo, un esercito non si sbriciola così, andiamo»), sino a che si sentono gli echi di esplosioni e ognuno decide individualmente la fuga. Chi esita, come il protagonista Johnny, si ritrova solo in una camerata deserta: «Johnny risalì in camerata, nessuno dei suoi era rientrato. Ognuno si era già arrangiato da solo». Mario Tobino ne Il clandestino, descrive un 8 settembre antieroico, dove «l'esercito italiano avvilito non si diresse in alcuna direzione, tradì e non tradì, lasciò passare le ore rimanendo smarrito, non aggredì i tedeschi né si schierò con loro». Cesare Pavese in Prima che il gallo canti descrive una Torino quasi indifferente nella sua rassegnazione: «i giornali portavano in grossi titoli la resa, ma la gente aveva l'aria di pensare ai fatti suoi. Sbirciavo negli occhi i passanti: tutti andavano chiusi, scansandosi. Nessuno parlava di pace». Curzio Malaparte, corrosivo e iconoclasta, offre ne La pelle una descrizione di lucido cinismo: «tutti noi, ufficiali e soldati, facevamo a gara a chi buttava più "eroicamente" le armi e le bandiere nel fango. Finita la festa, ci ordinammo in colonna e così, senz' armi e senza bandiere, ci avviamo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli Alleati quella stessa guerra che avevamo già persa con i tedeschi». In questo disincanto amaro, la letteratura propone gli avvenimenti armistiziali con un realismo che è stato a lungo sconosciuto alla storiografia. Lo scrittore si avvicina ai fatti attraverso la propria sensibilità, li racconta come li ha visti, li ha ascoltati, li ha avvertiti sulla propria pelle: sono racconti che si sviluppano tra contraddizioni, sfumature, dubbi, perché il loro destinatario è l'emozione di chi legge e l'emozione non ha bisogno di grandi quadri esplicativi, né di un percorso di lettura predeterminato. Lo storico, invece, ha un approccio razionale, interroga il passato attraverso le domande poste dalle urgenze del presente, si muove in uno spazio stretto, dove le insidie dell'agiografia e della rimozione vanno al di là dell'onestà intellettuale del ricercatore. Semplificazioni e rimozioni Questo è ancor più vero quando il periodo che si affronta è un passato prossimo segnato da fatti traumatici: «storia», in questo caso, significa fondare la memoria e la legittimità di una stagione nuova, operazione che implica semplificazioni e rimozioni. Da qui nasce una «vulgata» dell'8 settembre così lontana dall'amarezza sofferta di Fenoglio o Malaparte e, indirettamente, un'indicazione: la letteratura spesso rappresenta gli avvenimenti meglio (e prima) della ricerca storica.

Quei martiri che hanno scelto di morire per l'Italia. Andrea Muratore il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Il martirio della divisione "Acqui" a Cefalonia fu una pagina tragica dei giorni della disfatta italiana. In cui furono però gettati i semi della rinascita del Paese. Cefalonia è un nome associato a una grande tragedia italiana, a una storia di tenacia e eroismo culminata in una delle pagine più buie del secondo conflitto mondiale: la resistenza dei militari della divisione "Acqui" all'offensiva tedesca avviata dopo la resa dell'Italia agli Alleati, avvenuta l'8 settembre 1943, e il suo successivo martirio. Sì, perché solo di un vero e proprio martirio in nome dell'onore e della dignità dell'Italia si può parlare leggendo, a oltre settant'anni di distanza, la pagina di resistenza dei militari della divisione guidata da Antonio Gandin, catapultati nel turbine della storia dall'incertezza dei comandi italiani, dalla pusallinamità della monarchia dei Savoia, dalla doppia resa dell'Italia in quelle complesse giornate. Un'Italia che capitolò dapprima davanti agli Alleati, con la firma dell'armistizio di Cassibile, e in seguito di fronte ai tedeschi trasformatisi da alleati ad invasori, la cui dignità e il cui buon nome furono difesi da militari rimasti in larga parte senza ordini e senza direttive. Dalla resistenza dei militari a Roma a Porta San Paolo al triste episodio della corazzata Roma, passando per la toccante esperienza delle unità della Regia Aeronautica mandate a combattere a tempo scaduto contro gli ex nemici a Salerno, le forze armate italiane scrissero una serie complessa di pagine di storia. Aventi il suo culmine nelle tre settimane di Cefalonia. Che cosa spinse i militari di una divisione tutt'altro che temprata da battaglie feroci e reduce da due anni e mezzo di occupazione delle isole greche a rifiutare gli ultimatum tedeschi di resa? Che cosa mosse i ragazzi della "Acqui" a scontrarsi contro gli Alpini della 1. Gebirs Division e gli agguerriti "cacciatori" della 104. Jager Division trasformatisi improvvisamente da alleati in aggressori? Che speranza avevano coloro che, dopo la resa di Cefalonia, furono trucidati o inviati nei campi di prigionia nelle autorità in via di disfacimento? Cefalonia ci insegna l'assurdità dell'eroismo, la grandezza dello spirito di corpo, il valore degli ideali patriottici e nazionali. Padre Luigi Ghilardini, che ha raccolto le testimonianze dei militari da lui assistiti durante la battaglia e l'eccidio condotto a sangue freddo dai militari tedeschi, ricorda nelle sue memorie che i soldati della Acqui cadevano invocando la propria madre e l'Italia. Cefalonia insegna la forza dello spirito di corpo dato che, come ricorda Alfio Caruso in Italiani dovete morire, inizialmente "la Acqui non fu per niente compatta nell'urlare il proprio 'no!' al tedesco" e "Gandin e i suoi collaboratori volevano giungere a un accordo" mentre solo gli elementi del 33°artiglieria e del comando di Marina "erano decisissimi a usare le armi contro l'odiato ex alleato". Furono i raid dei bombardieri Stuka a compattare Cefalonia sulla resistenza, a portare 11.700 militari a trasformarsi in guerrieri per tenere fede al giuramento alla patria sacrificando la vita. Splendeva un sole inclemente su Cefalonia il 13 e il 14 settembre, giorni in cui col "referendum" interno i militari della Acqui scelsero di non arrendersi ai tedeschi. E splendeva anche il 24 settembre, giorno in cui gli alpini sudtirolesi della 1° divisione Edelweiss fucilarono alla periferia di Argostoli 129 dei 164 ufficiali arresi dopo i combattimenti. Lungi dall'essere commessa da efferati reparti delle Ss, la strage di Cefalonia, che causò cinquemila delle 9.406 vittime accertate tra i militari della "Acqui", fu compiuta da militari della Wehrmatcht: chiamati a eseguire le leggi di guerra. Al processo di Norimberga il generale Telford Taylor definì il caso di Cefalonia come "una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato" perpetrata contro uomini che "indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra". Ciò ha influito notevolmente sul ricordo postumo della strage, sulla calata di un imbarazzante velo di silenzio rimasto steso per decenni sulla vicenda per non turbare la narrazione dei nuovi rapporti italo-tedeschi e sul mito che vedeva la Wehrmacht in larga parte esente dai più duri crimini compiuti dai nazisti. Ma a suo modo Cefalonia è stata una pagina scomoda anche per la narrazione resistenziale che ha pervaso la storia repubblicana, perché retrodata inevitabilmente l'inizio dell'opposizione italiana al nazismo e alla Germania e ci ricorda quanti semi del futuro d'Italia furono gettati nei giorni della resa. Giorni in cui mentre a Cefalonia si combatteva 600mila militari italiani, disarmati dalla Wehrmacht, scelsero la prigionia per prestare fede al giuramento verso l'Italia, preferendola alla continuazione della guerra a fianco dei tedeschi. I martiri di Cefalonia e gli internati militari italiani (Imi) salvarono, a prezzo di atroci sofferenze, il nome della nazione, mostrarono come anche nell'ora più buia della storia dell'Italia unita ci fossero uomini pronti a sacrificare la vita in suo nome, lanciarono un messaggio che a decenni di distanza scuote le coscienze. Dobbiamo a Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica che più si è impegnato sulla ricomposizione della memoria storica dei fatti più tragici del Novecento, la pubblica attestazione del fatto che Cefalonia fu l'inizio della rinascita dell'Italia. E non il punto più profondo della disfatta. Ciampi, il 1 marzo 2001, visitando Cefalonia commemorò quei soldati ricordando che "la loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza". "Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia", nazione debitrice di coloro che nel settembre 1943 si immolarono in suo nome. 

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di 

Da primaonline.it il 10 luglio 2021. Secondo quanto emerge dal nuovo studio di Kantar, i professionisti della comunicazione e delle relazioni pubbliche stanno sopravvalutando la rapidità del cambiamento e sovrastimando l’importanza dei nuovi canali, dando priorità ai social network e agli influencer rispetto a TV e giornali. La percezione dei professionisti del settore, circa le fonti d’informazione di maggior importanza per il pubblico, non corrisponde però con la realtà dei consumatori europei, che continuano a previlegiare i giornali e la televisione. Per esempio, i professionisti del settore credono che il pubblico si rivolga sempre di più ai social influencer (52%) e utilizzi maggiormente i podcast (43%) per informarsi, ma solo rispettivamente il 7% e il 5% dei consumatori afferma di farlo. Per contestualizzare, i dati TGI di Kantar indicano che solo il 9% dei consumatori del Regno Unito ascoltava podcast in una settimana tipo del 2020. Il nuovo studio, che include le opinioni di 6.000 consumatori e 700 professionisti della comunicazione di tutta l’Europa Occidentale, dimostra che le opinioni dei professionisti sono in realtà influenzate dalle abitudini dei consumatori della Generazione Z (16-24 anni), che considerano i social network come la principale fonte d’informazione. I professionisti del settore, nonostante ritengano prioritari social network e influencer, sono anche preoccupati per la perdita di valore che le loro attività di comunicazione potrebbero subire quando presenti in questi nuovi canali (percepiti talvolta come poco affidabili dal pubblico); il 52% si preoccupa della diminuzione della fiducia nei media e il 36% è preoccupato per il ruolo dell’AI e degli algoritmi nel guidare la distribuzione delle notizie. Per il 41% dei professionisti in Italia, invece, la principale preoccupazione riguarda la scarsa qualità dei dati. I leader della comunicazione hanno condiviso la loro prospettiva in merito ai risultati dello studio: Ashish Babu, Chief Marketing Officer – Europe & UK, Tata Consultancy Services commenta, “Questa analisi è precisa – le nuove fonti di informazione che crescono più rapidamente verranno sempre messe in discussione.” Mathieu Scaravetti, Director of Group Media, Financial & Institutional Communications, Sodexo aggiunge, “Per noi è fondamentale fare affidamento su qualcosa di più del solo istinto e un miglior uso dei dati ci permette di fare proprio questo.” Sophie Ponet, Corporate Affairs Communication Director for Europe, Levi Strauss & Co, afferma, “Uno studio davvero illuminante ricco di verità sul settore della comunicazione. Svela le ragioni che stanno alla base delle mutevoli abitudini del pubblico e delle tendenze di consumo che ci ritroviamo ad affrontare.” “Dal nostro studio emerge che i professionisti della comunicazione stanno sopravvalutando la rapidità del cambiamento e l’adozione dei nuovi media per il consumo delle notizie”, afferma François Nicolon, Senior Director Marketing, Media Division di Kantar. “La complessità dell’attuale panorama mediatico rende lo sviluppo di una strategia di comunicazione sempre più impegnativo, data la necessità di doversi assicurare di scegliere i canali più affidabili e di valore per i propri messaggi”. Per dimostrare il loro valore agli stakeholder e riuscire a raggiungere gran parte del pubblico, i professionisti della comunicazione devono poter accedere facilmente agli insight più rilevanti per conoscere le performance delle campagne e il comportamento dell’audience. “Benché non si possa negare il valore degli influencer nel guidare l’engagement del pubblico verso i brand, sembra che i professionisti li considerino una delle principali fonti di notizie attribuendo loro più importanza di quanto ne abbiano in realtà per i consumatori. Anche tra i consumatori della Generazione Z, gli influencer si classificano come la quinta fonte di notizie più importante, dietro a TV e giornali.” Il report dello studio mostra anche le principali preoccupazioni dei professionisti del settore e l’importanza degli insight nel guidare il processo decisione, oltre a evidenziare il loro ruolo nel dimostrare l’impatto delle strategie di comunicazione sulla marca e sul business.

"Il politically correct è la cosa più sbagliata e Fedez...", nuovo attacco di Corona. Francesca Galici il 25 Agosto 2021 su Il Giornale. Dalle pagine del settimanale Chi, Fabrizio Corona prende di mira Fedez e gli influencer, scagliandosi contro l'ipocrisia dei social. Fabrizio Corona torna a parlare e per farlo ha scelto le pagine del settimanale Chi, al quale ha raccontato la sua estate insieme al figlio Carlos e la ritrovata serenità con Nina Moric. L'ex re dei paparazzi e la madre di suo figlio da circa un mese vivono un momento di armonia familiare per il bene del ragazzo, ormai 18enne. Tra cene in famiglia e partite di basket, Fabrizio Corona non dimentica gli affari e i social network, sui quali è molto attivo. È Instagram il suo canale di comunicazione col mondo ed è anche tramite le sue storie che Corona spesso attacca i personaggi noti, tacciandoli di ipocrisia. Di recente non ha risparmiato attacchi ad Aurora Ramazzotti e a Selvaggia Lucarelli e nell'intervista ha criticato anche Fedez. "Sto solo utilizzando il mio social. Nella mia testa, nel mio progetto, il politically correct è la cosa più sbagliata del mondo, le cose che scrivo hanno un significato preciso. Le scrivo per dimostrare che tanto, ma pure tutto quello che 'vendono' gli influencer non è vero", ha dichiarato Corona al settimanale Chi. L'ex marito di Nina Moric sostiene di non farlo per guadagnare ancora più follower: "Prenda Fedez: non è ironico che tipi così cantino e narrino che vengono dalla strada e poi abbiano la famiglia perfetta, la moglie perfetta, i figli perfetti, la bici, la mamma, la tavola apparecchiata... Ma che cos'è questo sogno borghese?". Fabrizio Corona si tira fuori da questa concezione e cita anche la sua ex storica Belen Rodriguez: "Io, e ci metto dentro anche Belen, un certo genere di rivoluzione l'abbiamo fatta. Me e Belen ci vedevi girare a piedi nudi, noi eravamo veri, mandavamo tutto a quel paese, ci potevi trovare sdraiati sul prato al parchetto. Fedez se lo trovi in un parchetto è perché l'ha costruito dentro una villa". Nell'intervista al settimanale Chi c'è spazio anche per parlare dell'ultimo arresto, che sostiene di aver vissuto come "uno choc". Dopo quell'esperienza, l'ex re dei paparazzi dichiara che ora cerca "di essere migliore, più sereno, più forte". Quindi svela anche parte del suo futuro: "Professionalmente sto cercando di fare e di lavorare bene, questo nonostante io sia ai domiciliari. E per me questa è una grossa soddisfazione".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Daniela Ranieri per “il Fatto Quotidiano” il 24 settembre 2021. In un incontro coi gesuiti slovacchi in occasione del suo ultimo viaggio pastorale, Papa Francesco ha pronunciato un discorso, riportato da Antonio Spadaro su La Civiltà Cattolica, che contiene una frase molto rilevante dal punto di vista etico e antropologico. Questa: "La ideologia del “gender” è pericolosa. Lo è perché è astratta rispetto alla vita concreta di una persona, come se una persona potesse decidere astrattamente a piacimento se e quando essere uomo o donna". Il Papa ha ribadito la sua nota contrarietà alla "colonizzazione ideologica" sul genere, ciò che in passato aveva chiamato "l'indottrinamento della teoria gender" (secondo un cortocircuito, per la destra ultracattolica Bergoglio farebbe invece parte di un nuovo ordine mondiale che propugna il gender come progetto anti-umano. Carlo Freccero, in una intervista al Foglio, fa sua questa convinzione). Ha poi aggiunto: "L'astrazione per me è sempre un problema. Questo non ha nulla a che fare con la questione omosessuale. Quando parlo dell'ideologia, parlo dell'idea, dell'astrazione per cui tutto è possibile, non della vita concreta delle persone". Da un punto di vista radicalmente laico e di sinistra, siamo d'accordo col Papa. Sgombriamo subito il campo da equivoci: speriamo che la legge Zan - che ha al suo centro il concetto di identità di genere - passi, perché se non passa sarà una vittoria della destra tradizionalista e del cinico ostracismo del partito di destra Italia viva. Allo stesso tempo, ci permettiamo qualche considerazione. I Gender Studies anglosassoni hanno avuto il merito dagli anni 70 del Novecento in poi di costringere il discorso pubblico a uscire dagli steccati del dualismo biologico per fotografare tutta la realtà vitale degli orientamenti e delle identità, tanto che per alcune "scuole" oggi esistono 31 generi sessuali. Nei campus americani, liberali e paradossalmente inclini alla censura e alla sessuofobia, chi di generi ne riconosce meno di 15 può esser tacciato di razzismo.

La teoria è diventata un dogma, a dispetto della sua ispirazione libertaria. In questo quadro rientra l'accento sull'"identità fluida": se è vero che esistono persone che si sentono neutre, o che non vogliono definirsi in un nessun genere, o sono in transizione da un genere a un altro, quando dall'accademia si passa alla politica il passo non è mai fluido, né neutro. L'identità fluida può diventare, sotto la scure legalitaria, nessuna identità. Questo è anti-umano, omogeneizza le differenze e costringe a un relativismo mortifero e a tratti misogino (la scrittrice J.K. Rowling è stata marchiata come omofoba e transfoba per aver detto che le femmine esistono e hanno le mestruazioni). La domanda è: esiste un discrimine tra il tutelare le persone dalle discriminazioni lavorative ricevute a causa della loro identità di genere e il regolare per legge, sulla base di una "teoria", cioè di un insieme di leggi incontestabili (come quelle fisiche), qualcosa che pertiene ai movimenti delicati e ineffabili della vita umana? Non sappiamo se va contro il progetto divino, come dice il Papa, ma certo l'astrazione cristallizza la vita. La legge Zan prevede - oltre al sesso, al genere e all'orientamento sessuale - l'identità di genere, cioè "l'identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione". Ma, per esempio: se a un posto di lavoro riservato a operaie si candida una persona che si sente donna e che - pur senza aver fatto il passaggio da uomo a donna - vuole che la legge la riconosca come tale, è giusto che abbia il posto avendo dalla sua un curriculum più qualificato e una superiore forza fisica rispetto a una donna? O sarebbe discriminatorio non assumerla? Come ha scritto Franco Berardi "Bifo", studioso e agitatore mentale, mentre rapporti sociali si fanno sempre più feroci la politica pensa a punire una fobia. Creando nuovi diritti civili, che sono a costo zero (basta una multa comminata a chi usa un linguaggio non rispettoso dell'identità di genere), la sinistra tralascia di curare quelli sociali (lavoro, istruzione, sanità, pensioni), a erodere i quali collabora proficuamente da anni con le destre neoliberali. I rapporti sociali sono violenti non perché ci sono in giro gli omo-transfobi, ma perché la politica miserabile ha distrutto la solidarietà sociale e promosso il "merito" e la competitività. Dovrebbe insospettirci che a sponsorizzare la fluidificazione di genere a beneficio della nostra libertà sia il capitalismo, che si è mostrato pronto a riposizionarsi, e con la sua industria anche culturale sforna prodotti fluidi e no-gender adatti a tutte le identità di genere (tutto è possibile, dice il feticismo della merce, tutto è a misura del tuo desiderio), mentre abbiamo bisogno di una legge che ci riconosca il diritto di essere come siamo.

Alessandro Rico per "la Verità" il 24 settembre 2021. Peter Boghossian, filosofo americano, è un epigono della maieutica socratica. Qualche anno fu coinvolto nello scandalo degli «studi sulle lamentele»: insieme ad altri due autori, James A. Lindsay ed Helen Pluckrose, tentò di far pubblicare, sotto pseudonimo, 20 paper di teoria postcoloniale, teoria queer, gender e femminismo. Saggi pieni di fesserie, ma scritti con la serietà di Michela Murgia quando usa lo «schwa». Tra i 7 articoli che superarono le revisioni, c'era quello, divenuto famoso, sul Pene concettuale come costrutto sociale.

 Pochi giorni fa, Boghossian si è dimesso dall'Università di Portland, dove insegnava, in polemica con il clima oppressivo che si respira nell'ateneo - e in moltissime università americane. 

Professore

«Mi chiami "fratello"».

Va bene.

«Sa che mia nonna era di Predappio, il paese di Benito Mussolini?».

Le piace dire cose pericolose Allora lei è un po' italiano.

«Al 50%: ho fatto un test genetico».

Fantastico: felice per la vittoria agli Europei? (Alza le braccia in cenno di esultanza) «Assolutamente. Woooooh!». 

A scanso di equivoci: lei non è un conservatore, no?

«No».

Ed è ateo?

«Sì».

Non è di destra.

«Per niente».

Su Twitter, si è lamentato del fatto che nessun media di sinistra l'abbia voluta intervistare, a proposito delle sue dimissioni dalla Portland State University. Nel frattempo, l'ha contattata qualcuno?

«No. Mi hanno chiamato Glenn Beck e Tucker Carlson, che sono conservatori Ma a me piacerebbe tenere una conversazione su ciò che è successo». 

Immaginiamo.

«Il presidente della Portland State University ha detto che la "giustizia razziale" è la sua "principale priorità". Visto che si tratta di un'università pubblica, finanziata da chi paga le tasse, in un periodo di crisi di bilancio, mi piacerebbe tenere una conversazione, specie con chi è di sinistra, a proposito di questo. Dovrebbe essere quella la priorità di un'istituzione pubblica?». 

Dovrebbe?

«No. È una fottuta follia».

Nella bellissima lettera con cui ha spiegato i motivi delle sue dimissioni, ha scritto che l'università è diventata «una fabbrica di giustizia sociale i cui soli input sono razza, genere e vittimismo e i cui soli prodotti sono lamentele e divisione». Come si è arrivati a questo?

«Non so come funzioni nella mia madrepatria - l'Italia - ma qui negli Usa, tutti quelli che formano i docenti sono dei woke». 

Quelli fissati con razzismo, discriminazioni sessuali

«Ecco. E poi chiunque osi mettere in dubbio certe teorie diventa all'improvviso un razzista. Reo di una "microaggressione"». 

C'entra la politica delle identità, che vede la società come un coacervo di minoranze oppresse, che dovrebbero vendicarsi per le ingiustizie subite?

«Non vogliono solo vendicarsi. Vogliono abbattere il sistema. Ecco perché buttano giù le statue». 

Peggio mi sento.

«Se non ti piacciono certe statue, c'è un processo democratico che puoi intraprendere per farle sostituire. Il resto sono atti di teppismo. E chi li compie è un teppista». 

E la politica delle identità?

«Non è una caratteristica della sinistra tradizionale. È una caratteristica dei woke. Ha parassitato i valori della sinistra tradizionale». 

Cos' è allora la sinistra woke?

«I comunisti volevano livellare i privilegi economici. I woke vogliono livellare tutto».

Basta la democrazia per rimuovere la storia? La sua madrepatria celebra il centenario di Dante. Qualcuno pensa fosse un «islamofobo». Ma se anziché una banda di teppisti, ci fosse una maggioranza politica a decidere di rimuoverlo dai programmi scolastici, sarebbe comunque giusto difenderlo, no?

«È per questo che da noi esiste la Costituzione. Ci devono essere dei valori di fondo. Al loro interno, le persone possono scegliere di vivere come vogliono. In America c'era un programma tv, Judge Judy, in cui la protagonista diceva una cosa profondamente vera». 

Cioè?

«"Non farti giustizia da solo; rivolgiti a un tribunale". Non possiamo avere bande di persone infuriate con la società, che si comportano da teppisti. Se non ti stanno bene le cose, candidati. Donald Trump, a cui il sistema non piaceva, l'ha fatto. E ha pure vinto». 

Le università che lei critica formeranno le future élite del Paese. Cosa aspettarsi da loro?

«Esattamente quello che vediamo già ora. Le persone che sono state addestrate ad attaccare i valori occidentali all'università porteranno tutti quei nonsense - "trigger warning", "migroaggressioni", "spazio di sicurezza" - anche nelle imprese, sul lavoro, nello Stato». 

Invitava in aula i terrapiattisti?

«Anche».

Ha scritto che «grazie a quelle conversazioni confuse e difficili», vedeva gli studenti «mettere in questione le convinzioni rispettando chi le avanzava, rimanere calmi in circostanze complicate e, addirittura, cambiare idea».

«Confermo». 

Significa che dobbiamo ascoltare anche chi ha dubbi sulle misure anti Covid e sui vaccini?

«Dipende dal contesto. Io ho tenuto un corso di "scienza e pseudoscienza". Volevo ospiti che sfidassero la visione tradizionale. Se non consenti critiche, spingi la gente a sposare le teorie del complotto». 

Dice?

«Agli studenti vanno dati gli strumenti per mettere in questione le convinzioni. Non si mandando a quel paese gli altri. Si scavano a fondo le loro idee. Alla fine, ci guadagnano tutti». 

È il metodo socratico.

«Che ormai viene rifiutato, perché i vertici degli atenei si preoccupano solo degli studenti che si lamentano: "Non mi sento al sicuro". Ma perché cacchio studi filosofia se ti senti "insicuro"? All'università non vai per sentirti sicuro, per essere confermato nelle tue convinzioni. Allora, fatti prete. Vai in una madrasa. Vai in Afghanistan!». 

Lei ha subito diversi tentativi di sabotaggio da parte degli studenti. Quale l'ha colpita di più?

«Non mi hanno infastidito particolarmente. Quello che mi ha infastidito è stata l'accusa di picchiare mia moglie e mio figlio». 

È emersa durante un'indagine interna sui suoi corsi. Cosa c'entrava con i suoi metodi d'insegnamento?

«Nulla. Se pensi che qualcuno picchi sua moglie e i suoi figli, chiami la polizia. Non vai al Comitato per la diversità».

 Uno studente che non condivideva i suoi metodi ha potuto trascinarla in quella sorta di processo. Allora, qualsiasi professore può essere intimidito e silenziato, no?

«Proprio così».

Persino i suoi colleghi, alle sue spalle, sconsigliavano ai ragazzi di seguire i suoi corsi. Professori che si comportano possono pretendere di educare i giovani?

«Loro considerano l'università come un luogo d'indottrinamento. Pensano di possedere la verità ed esigono che gli studenti gliela ripetano tale e quale. Perciò facevo il paragone con le religioni: siamo dinanzi a una sorta di religione secolare. Costoro fanno catechismo». 

Appunto.

«E così, chi, come me, pone delle domande, non è solo uno che sbaglia. È una cattiva persona. I cattivi mettono in dubbio l'idea che il razzismo sia ovunque. Se chiedi: "Che prove avete che il razzismo sia ovunque?", hai commesso una "microaggressione". O li stai facendo sentire "non al sicuro"». 

Bisogna dedurne che la democrazia liberale è in pericolo?

«Sì».

Ha paura che qualcuno possa fargliela pagare per le sue idee?

«Certo. Gli Antifa. A casa ho delle armi. Per 53 anni non ne ho avute, adesso la casa ne è fottutamente piena. Sto in mezzo al nulla proprio per questo motivo, ma ho delle armi nel caso in cui qualcuno venga a prendermi a casa». 

Addirittura?

«Certo. Vuol vedere?».

Perché no. (Si allontana, poi torna e mostra una Glock 9 millimetri).

Incredibile.

«Per fortuna ero con il mio istruttore di ju jitsu, ma sono stato minacciato in un bar, quattro-cinque volte per strada, mi hanno tirato una bottiglia, mi hanno pure sputato addosso». 

Stando ai suoi insegnamenti, è stato un errore bannare Trump dai social?

«Domanda difficile. Facebook e Twitter sono società private, possono fare quello che vogliono».

Hanno responsabilità sociali?

«Non saprei risponderle. So che dovrebbero essere coerenti nell'applicare i loro termini di servizio. A me pare che bannino le persone per motivi ideologici».

Il portavoce dei talebani, ad esempio, ha un account.

«Appunto: non sono coerenti».

Dalla vicenda del «pene concettuale», possiamo dedurre che gli studi su argomenti come gender, femminismo, o cambiamento climatico, hanno scarso o nullo valore scientifico?

«Possiamo dedurre che il golden standard della conoscenza non è più tale. Dovremmo poterci fidare del fatto che un articolo, pubblicato su una rivista con revisione paritaria, sia basato sulle prove più solide che gli studiosi tentano di falsificare. Ma non è così. Spesso è basato sulla sola volontà di propagandare una convinzione morale».

All'epoca degli «studi sulle lamentele», l'università la punì per «cattiva condotta nella ricerca».

«Anziché prendersela con me e dirmi che non ero etico, i ricercatori avrebbero dovuto spiegare perché avevano pubblicato dei paper pazzoidi». 

Le università italiane non sono ancora arrivate a certi livelli di conformismo e intolleranza ideologica. La china, però, è quella. Come evitiamo la deriva totale?

«Il difficile è che questa ideologia è un solvente universale: corrompe e distrugge tutto ciò con cui viene a contatto. Dunque, vi direi: non lasciatela penetrare».

E se ormai è penetrata?

«Fate la voce grossa, evitate che metastatizzi. Ma se è già penetrata... È troppo tardi».

Chi era Edward Bernays, il pubblicitario capace di manipolare le masse. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'1 luglio 2021. Controllare, traviare e manipolare le masse non è mai stato semplice come oggi, ventunesimo secolo, tempo delle guerre ibride, delle infodemie, della biopolitica, del capitalismo della sorveglianza e del neuromarketing. Un tempo, quello contemporaneo, al quale appartengono fenomeni come le post-verità, la de-democratizzazione delle democrazie liberali e l’inebetimento delle masse tramite un panem et circenses al cubo di huxleyana memoria.

La nostra è un’epoca indecifrabile, dove nulla è come appare, perché tutto è o potrebbe essere una psico-arma – dalla musica all’intrattenimento –, e dove nessuno è chi dice di essere, perché chiunque è o potrebbe essere un adulteratore del pensiero sotto mentite spoglie – come gli influencer. Veri, unici e grandi vincitori di quest’era brulicante di miraggi e ircocervi saranno coloro che, risalendo al Logos nell’oceano delle post-verità, sapranno difendere la propria autonomia di pensiero dalla forza deindividuante e spoliativa della massificazione. E il segreto per vincere questa battaglia, mantenendo un “pensiero sovrano” (sovereign thinking) nell’età del comportamento e della morale del gregge, potrebbe celarsi nel vissuto di Edward Bernays, il padre dell’ingegneria del consenso e della società dei consumi.

Le origini del mito. Edwards Louis Bernays nasce a Vienna il 22 novembre 1891, ma cresce negli Stati Uniti. Allevato in un ambiente educativo altamente stimolante e connotato da metodi didattici innovativi e focalizzati sullo sviluppo del potenziale umano – era nipote di Sigmund Freud, il padre fondatore della psicoanalisi –, avrebbe dimostrato precocemente di aver interiorizzato gli insegnamenti ricevuti tra l’infanzia e l’adolescenza. Dopo aver conseguito una laurea in agricoltura all’università Cornell di Ithaca (New York), più per accontentare i genitori che per soddisfare una passione personale, entra nel mondo del giornalismo come pubblicista. Non è il lavoro dei sogni, ma gli permetterà di farsi conoscere come lo stregone della pubblicità. È il 1913 e il giovane Bernays lavora per il mensile Medical Review of Review. Il pubblicista viennese ha un’intuizione che si rivelerà profittevole al di là di ogni pronostico: recensire positivamente una controversa opera teatrale francese sul tema della sifilide – Les Avariés di Eugène Brieux – nell’aspettativa di alimentare un dibattito in America. Nel dopo-recensione sarebbe accaduto l’impensabile: Hollywood, fiutata l’opportunità della sceneggiatura, avrebbe trasposto l’opera cinematograficamente. Il caso Les Avariés avrebbe consentito a Bernays di trasferirsi dal giornalismo allo spettacolo, ovvero dalle recensioni alle pubbliche relazioni. Assunto dall’imprenditore circense Sergej Djagilev per promuovere il tour americano dei Balletti russi, una compagnia di balletto famosa in Europa ma sconosciuta negli Stati Uniti, Bernays avrebbe elaborato una strategia promozionale (di successo) basata sull’impiego simultaneo di giornali e imprese, con i primi pagati per recensire positivamente gli artisti e le seconde contattate per produrre del merchandising da distribuire al pubblico pagante. Oramai proiettato nella realtà emergente delle pubbliche relazioni – da lui foggiata e plasmata in maniera determinante –, Bernays avrebbe cominciato molto presto a lavorare per le grandi corporazioni e per il governo degli Stati Uniti.

Il grande manipolatore. È il 1917 e l’amministrazione Wilson è alla ricerca di affabulatori della comunicazione da inserire nel neonato Comitato sull’informazione pubblica (Committee on Public Information), un ente istituito allo scopo di convincere l’opinione pubblica americana ad accettare l’intervento degli Stati Uniti nella Grande Guerra, e Bernays, il genio che ha fatto la fortuna dei Balletti russi – la cui prima newyorkese avrebbe registrato il tutto esaurito –, viene contattato per prendervi parte. Le menti del Comitato sull’informazione pubblica – considerabile in tutto e per tutto un para-ministero della propaganda – non avrebbero tradito la fiducia riposta in loro dall’amministrazione Wilson, portando avanti un’opera mirabile in termini di condizionamento dell’opinione pubblica. Perché di Bernays e soci fu l’idea di trasformare Hollywood in un instrumentum regni – innumerevoli i film patriottici e antitedeschi prodotti in soli due anni –, di sfornare la celebre immagine dello Zio Sam associata alla frase “I Want You for US Army“, di creare l’esercito dei four-minute men – dei cittadini reclutati per parlare alle folle dei pro della guerra – e di militarizzare concetti quali democrazia e libertà sia a livello domestico sia a livello internazionale – dipingendo un mondo dicotomicamente diviso in buoni e cattivi e nel quale soltanto gli Stati Uniti avrebbero potuto operare per difendere la libertà propria e altrui. Nel dopoguerra, forte dell’esperienza maturata nel breve periodo trascorso al Comitato sull’informazione pubblica, Bernays fonda una propria azienda di “direzione pubblicitaria” con sede a Broadway. L’obiettivo del genio della comunicazione è semplice: mettere le conoscenze e le competenze acquisite negli anni della pubblicità e della propaganda al servizio delle grandi corporazioni alla ricerca di maggiori introiti attraverso la pubblicità. In suo soccorso sarebbe venuto lo zio, Sigmund Freud, il più grande scrutatore della mente umana del primo Novecento, che lo avrebbe illuminato sulla necessità di manipolare l’inconscio e toccare i tasti dell’irrazionalità emotiva degli esseri umani. In controtendenza rispetto ai colleghi dell’epoca, privi della fortuna di avere un consigliere quale Freud, Bernays avrebbe sviluppato un modus operandi basato sul leveraggio delle emozioni inconsce e mirante all’induzione del bisogno. La pubblicità, sosteneva Bernays, non avrebbe dovuto limitarsi a descrivere le funzionalità di un prodotto (come era d’uso a quei tempi): avrebbe dovuto trasformare l’astante in un consumatore, rendendo quel bene superfluo una necessità inderogabile. Nel 1920, dopo aver cambiato nome alla propria attività – divenuta Ufficio di relazioni pubbliche – e studiato approfonditamente le opere dello zio, si getta nel mercato della pubblicità autopromuovendosi quale primo e unico consulente in relazioni pubbliche d’America. Una curiosa campagna di self-marketing, quella di Bernays, dal cui grembo, tre anni più tardi, sarebbe nato un libro per addetti ai lavori, Crystallizing Public Opinion, e che avrebbe convinto diversi grandi marchi, dalla United Fruit Company all’American Tobacco Company. Bernays, l’uomo che inventò le relazioni pubbliche e il consumismo, aveva realmente una mente fuori dal comune. Nella sua lunga carriera al servizio di pubblico e privati, invero, avrebbe mostrato e dimostrato innumerevoli volte – e senza mai fallire – di avere una soluzione per ogni problema, o meglio una pubblicità persuasiva per ogni prodotto: Consigliò ai clienti della moda di popolarizzare i loro vestiti facendoli indossare (dentro e fuori le scene) ad attori e attrici celebri di Hollywood, che, in tal modo, li avrebbero resi dei beni Veblen – un suggerimento che, rivelatosi fruttuoso, avrebbe poi riciclato per aiutare i venditori di gioielli. Consigliò ai clienti dell’industria automobilistica di creare un’associazione positiva tra autovetture e virilità – una dritta che avrebbe avuto ricadute eccezionali sia in termini di vendite sia in termini di impatto culturale. Trasformò radicalmente l’immagine pubblica del timido presidente Calvin Coolidge, organizzando eventi alla Casa Bianca, aperti alle telecamere e presenziati dalle stelle di Hollywood e della musica, che lo avrebbero aiutato a divenire palatabile presso la stampa. Aiutò l’American Tobacco Company (ATC) a popolarizzare il vizio del fumo tra le donne attraverso un’iniziativa passata alla storia come “Sigarette – Le fiaccole della libertà“. Aiutato da uno psicoanalista freudiano, Abraham Arden Brill, il padre del consumismo elaborò una campagna pubblicitaria veicolante l’idea che le sigarette – un tabù per il pubblico femminile – fossero un simbolo di emancipazione dall’uomo. Un’idea che sarebbe entrata con veemenza nell’immaginario collettivo in occasione della parata pasquale di Broadway nel 1929, quando un gruppo di debuttanti sul libro paga di Bernays, o meglio dell’ATC, si rese protagonista di una pittoresca protesta: fumare Lucky Strike. Le sigarette, a partire da quel giorno, sarebbero divenute il simbolo, oltre che dell’emancipazione sessuale, della libertà. Sua l’idea di politicizzare l’Expo 1939 di New York in chiave antinazista e filoamericana, istruendo gli organizzatori su come creare dei padiglioni che collegassero democrazia, capitalismo e libertà e quei tre concetti agli Stati Uniti. Nel novero delle costruzioni firmate da Bernays ed esposte al pubblico, che furono tante, ebbe particolare impatto un utopistico modello di città del domani – la “Democracittà” (Democracity) – concepito allo scopo precipuo di convincere i visitatori dell’indissolubilità del binomio democrazia-futuro.

Il ruolo nel cambio di regime in Guatemala. Nella lunga rosa dei clienti d’oro di Bernays, il padre dell’ingegneria del consenso, figurava stabilmente la potente United Fruit Company (oggi Chiquita Brands). E l’incubo della UFC negli anni Cinquanta rispondeva ad un nome preciso: Juan Jacobo Arbenz Guzman. Asceta e pensatore proveniente dalle forze armate, nonché seguace di una scuola di pensiero socialisteggiante e puramente autoctona, l’arevalismo, Guzman era stato eletto alla presidenza del Guatemala del 1951 promettendo che avrebbe posto fine al dominio asfissiante della multinazionale delle banane nella vita domestica. Samuel Zemurray, il longevo direttore della compagnia, consapevole del fatto che Arbenz avrebbe potuto significare l’inizio della fine dell’impero delle banane, sia in Guatemala sia altrove, chiese a Bernays – che in passato aveva aiutato la multinazionale ad incrementare le vendite nel mercato a stelle e strisce introducendo attori e attrici negli spot pubblicitari e associando il consumo di banane ad una buona salute – di trovare un modo per convincere l’amministrazione Eisenhower, il Congresso e l’opinione pubblica che Arbenz costituisse una minaccia concreta alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Su idea di Bernays, Arbenz iniziò ad essere associato a Josif Stalin, ottenendo il doppio risultato di diffondere panico nell’opinione pubblica americana e di creare un nemico credibile lungo i confini statunitensi. Se la Casa Bianca non fosse intervenuta, Arbenz, un dittatore in divenire, avrebbe tentato di egemonizzare l’America centrale e convertirla al comunismo. Zemurray, inoltre, sempre su suggerimento dell’abile manipolatore delle masse, pagò numerosi giornalisti per scrivere articoli contro Arbenz e curò la preparazione di dispacci anonimi, distorcenti la realtà dei fatti sul Guatemala, poi inviati alle redazioni di New York Times, Time, Washington Post ed Herald Tribune – quest’ultimo invitò i lettori a boicottare il Paese come luogo di vacanze. L’opera più mirabile di Bernays, però, sarebbe stata Report on Guatemala, una relazione di 235 pagine, denunciante i legami (inesistenti) tra Arbenz e Stalin e distribuita ad ogni membro del Congresso americano nel 1953. La lettura di quel rapporto avrebbe scioccato sia i senatori – come il repubblicano Bourke Hickenlooper, che accusò il Guatemala di essere un “Paese sovietico in America centrale” – sia il neoeletto presidente Dwight Eisenhower – che si decise finalmente ad affidare alla CIA il fascicolo Arbenz. Gli sforzi di Bernays avrebbero fruttato molto rapidamente: Arbenz, il temibile nemico dell’impero delle banane di Zemurray, sarebbe stato detronizzato nel giugno 1954 nell’ambito dell’operazione PBSUCCESS. La multinazionale, ad ogni modo, non poté profittare a lungo del cambio di regime: Bernays, che sapeva manipolare le menti, ma non era in grado di anticipare il futuro, non aveva immaginato che la caduta del popolare presidente avrebbe gettato le fondamenta per la caduta della nazione mesoamericana in uno stato di guerra civile perdurato sino agli anni Novanta. L’esperienza guatemalteca avrebbe avuto un impatto notevole sul pensiero di Bernays. Perché, mentre gli Stati Uniti lo avevano portato a credere che (tutte) le masse fossero intrinsecamente e ugualmente stupide, indi manovrabili facilmente e all’infinito, il Guatemala lo avrebbe illuminato relativamente all’importanza da dedicare a quella variabile fondamentale che è il popolo. Perché se è vero che tutti i popoli sono uguali, ma che alcuni sono più uguali di altri, lo è altrettanto che ogni inganno, anche il più astuto, ha una data di scadenza; una verità che Bernays avrebbe compreso dal proprio ufficio e che i guatemaltechi avrebbero compreso sulla propria pelle.

Tic e pregiudizi politici. Il Coronavirus, la funivia del Mottarone e Falcone: quando l’ideologia offusca la verità. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Maggio 2021. Il divo della virologia Anthony Fauci ha detto che secondo lui c’è ancora da indagare per scoprire se la Cina abbia fabbricato il Covid-19, spacciandolo poi come un frutto perverso di madre natura. Lo ha detto, secondo il Wall Street Journal, dopo avere visto un rapporto filtrato – “leaked” – dai servizi segreti in cui si fa questa ipotesi. L’ipotesi sarebbe quella secondo cui la Cina non avrebbe costruito un virus per sterminare i propri clienti che comprano le sue merci, ma che il virus sia sfuggito dal laboratorio di Wuhan, una tesi questa che si riaffaccia periodicamente, e ora in maniera particolarmente autorevole, perché a dire che non tutto è chiaro, è Fauci. Vero o falso, sappiamo che un errore del genere è possibile: il premio Nobile Montaigne che ha decrittato il Dna del virus Hiv dell’Aids, disse all’inizio dell’epidemia di avere letto e riconosciuto interi brani del Dna dell’Aids sulla schiena del Covid-19. Joe Biden, che aveva trattato da pazzo paranoico Donald Trump per la sua mania di accusare la Cina per il virus, adesso ha scoperto che in geopolitica il virus cinese torna utile e ha invitato pubblicamente l’Oms a indagare più a fondo. Cosa che è priva di qualsiasi valore scientifico ma solo politico, visto che l’Oms è un’agenzia dell’Onu e non un ente di ricerca, per di più guidata da un indiano filocinese che ha sempre porto i suoi più deferenti rispetti alle autorità di Pechino da lui già scagionate. Un discorso diverso ma analogo riguarda la tremenda tragedia della funivia causata certamente da errore umano. Qui l’intrusione politica sta nel relegare ai margini delle cronache questa certezza che implica responsabilità probabilmente attraverso l’intensa collezione di dichiarazioni che puntano sulla straordinaria e inspiegabile disgrazia. Mio padre era un ingegnere delle Ferrovie dello Stato che correva sui carrelli ferroviari e mi portava spesso con sé quando collaudava montagne russe, sciovie, seggiovie, funivie e altri complessi meccanismi su cui gli esseri umani salgono rischiando l’osso del collo. Ma affinché non se lo rompano, esistono dei manuali, detti protocolli, in cui tutto è calcolato sicché quando una tragedia accade, si può essere sicuri che dipenda da un errore umano, salvo tre o quattro eccezioni facili da verificare. Ma sappiamo che una sciagura avviene soltanto se un artefatto costruito dall’uomo per funzionare nelle condizioni stabilite dall’uomo, quando si rompe e uccide esseri umani, avviene per colpa umana. Le eccezioni possibili sono casi di terrorismo come quello realmente accaduto quando un aereo, volando illegalmente a bassa quota, tranciò i cavi di una funivia, oppure casi di catastrofi naturali come lo tsunami che provocò la tragedia nucleare in Giappone. Potrebbe anche il virus Covid essere una funivia difettosa creata dell’uomo? Siamo abituati a credere al dotto Fauci come a un oracolo competente e indipendente, ma la questione dell’origine cinese del Covid è oggi una questione politica. Quali sono i collegamenti fra questi due disastri tanto diversi e lontani anche nelle proporzioni (è la prima volta da quando esiste l’epidemia che i media si concentrano su una manciata di morti)? Tutto ciò che è solo umano, è umano. Finora l’essere umano non ha mai prodotto dei virus ma li ha soltanto modificati per farne vaccini. Ma produce macchinari con i suoi stessi errori. Saper riconoscere gli errori e dichiararli tali senza ricorrere alla oscura divinità del complotto e senza prendersi le responsabilità che ne derivano equivale a mentire. Specialmente noi italiani siamo portati a scartare la ricerca della verità per il compiacimento morboso del dolore. La mia memoria mi suggerisce di ricordare quel che notai a Palermo quando andai per la strage di Capaci e vidi che tutto l’apparato informativo e comunicativo era totalmente dirottato sull’aspetto ideologico, quasi mistico di una mafia divina ancorché diabolica, ma non vedevo traccia delle indagini. Di un’inchiesta che rispondesse alla prima domanda: perché fu ucciso Falcone? L’accostamento tra la pandemia, la funivia e l’omicidio Falcone, può solo a prima vista apparire bizzarro, ma già lo diventa meno se ricordiamo che dopo Capaci venne via D’Amelio e tutti sono d’accordo nel dire che in troppi hanno mentito e seguitano a mentire, fino a confondere ogni traccia. Lascio a chi legge l’esercizio logico sull’uso della verità meccanica, di quella geopolitica ed epidemica e quella sull’uso e l’abuso della manipolazione criminale.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao. Matteo Carnieletto il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l'Italia la liberarono gli americani. La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l'inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l'Adnkronos. In questo modo "si intende riconoscere finalmente l'evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". E ancora: "Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". E questo è tutto. Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: "Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto". Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l'inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c'è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l'inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un'altra, come ricorda Il Corriere della Sera: "Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come 'inno'. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince". I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l'AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: "Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L'Unità".

Chi ha liberato l'Italia. Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che "la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni - sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale - mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però... (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall'una né dall'altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un'altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: "I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: "Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di 'autonomi': bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che 'nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati'. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, 'sono la metà o poco meno'". Nota giustamente Stefanini che il "dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!". Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di "antifascismo prêt-à-porter", che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto...

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue...

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 7 giugno 2021. «Bella Ciao» come l'inno di Mameli, almeno il 25 aprile. Nelle cerimonie ufficiali della Festa della Liberazione, subito dopo l'inno nazionale, va intonata la canzone simbolo della Resistenza. Anche se in realtà, nella proposta di legge in cui viene motivata l'iniziativa, si sottolinea il «carattere istituzionale» di "Bella Ciao", il fatto che sia «un'espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica». Nel testo, a prima firma del deputato Pd Gian Mario Fragomeli, ma sottoscritto anche da nomi noti come Fiano, Fassino o Boldrini, si ripercorre la storia della canzone, cercando di dimostrarne la neutralità politica: «Possiamo affermare con certezza - scrivono i proponenti - che "Bella Ciao" non è espressione di una singola parte politica, ma che, al contrario, tutte le forze democratiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone». Una tesi che non fa breccia a destra, come spiega chiaramente Ignazio La Russa: «"Bella Ciao", non per colpa del testo, ma per colpa della sinistra, non copre il gusto di tutti gli italiani - spiega il senatore di Fratelli d' Italia - non è la canzone dei partigiani, ma solo dei partigiani comunisti. Se proprio si vuole tornare indietro nella storia, c' è la canzone del Piave per ricordare i caduti della guerra». Netto il giudizio negativo di Rachele Mussolini, nipote del Duce, che la definisce una «proposta divisiva, che non toglie o aggiunge nulla a quello che è lo stato attuale delle cose: l'hanno sempre cantata il 25 aprile e ora vogliono avere l'ufficialità di questo inno. Ce ne faremo una ragione». La legge, presentata alla Camera lo scorso 21 aprile, è sostenuta da Pd, Italia Viva e Leu, ma tra i firmatari c' è anche un deputato del Movimento 5 stelle. Da vedere se troverà il consenso necessario in Parlamento, il testo è stato assegnato alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio lo scorso venerdì, ma l'esame non è ancora stato avviato.

“Bella Ciao” obbligatorio? La Rai ci propina il documentario sul “mito” dei partigiani buoni…Monica Pucci lunedì 7 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Mentre impazza il dibattito sulla proposta di legge che vorrebbe ‘Bella ciao’ inno del 25 aprile, al canto popolare sarà dedicato per la prima volta un documentario, che dovrebbe andare in onda il prossimo 15 dicembre su Rai1. Benzina sul fuoco nel dibattito sull’inno “partigiano”, del quale la sinistra chiede un riconoscimento istituzionale rendendolo obbligatorio subito dopo l’Inno di Mameli, in occasione di eventi celebrativi, come il 25 aprile. La Rai, intanto, si è portata avanti col lavoro… Lo scorso 31 maggio è stato annunciato che ‘Bella Ciao’ diventerà un documentario coprodotto da Palomar Doc e Rai Documentari e diretto da Giulia Giapponesi con il titolo ‘Bella Ciao – La storia oltre il mito’. Con oltre un miliardo di visualizzazioni online, Bella Ciao è il canto popolare italiano più ascoltato nel mondo negli ultimi anni. Come canzone di lotta e resistenza è stata recuperata nell’ultimo quarto di secolo da decine di realtà di protesta, dalla primavera araba alle proteste #occupy Usa e #occupy Mumbai, dalla lotta alla globalizzazione alla lotta ai cambiamenti climatici, dai funerali dei vignettisti di Charles Hebdo alle rivolte in Sudan e ai movimenti di piazza in Libano, in Cile, in Turchia. Tutto fa brodo, quando c’è da cantare “oh partigiano portami via”, anche nelle fiction di successo, come “La casa di carta” di Netflix. Ma in Italia quel canto resta di parte e divisivo, non certo rappresentativo di tutti, visto che ha segnato le fasi più cruente della guerra civile e accompagnato le azioni vendicative dei partigiani italiani senza scrupoli. 

La tragica storia di Luisa Ferida: innocente, fu fucilata dai partigiani con il bimbo in grembo. Viola Longo venerdì 30 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Qualcuno l’ha ricordata in occasione del 25 aprile, per rammentare che anche ombre si affastellano su quella data. In molti sui social la stanno ricordando in queste ore, in cui ricorre l’anniversario del suo assassinio. Luisa Ferida, al secolo Luigia Manfrini Farné, era un’attrice di successo, aveva 31 anni ed era incinta a uno stadio avanzato quando il 30 aprile 1945 venne fucilata a Milano dai partigiani. La sua unica colpa era quella di essere la compagna dell’altrettanto noto attore Osvaldo Valenti, a sua volta giustiziato quel giorno: aveva aderito alla Rsi e si era arruolato nella X Mas «in quanto simbolo di dignità e onore». Tanto bastava.

Una sentenza già scritta. Per Valenti e Ferida, come per molti che fecero la stessa fine, i partigiani, che in questo caso erano quelli della divisione “Pasubio”, al comando di Giuseppe Morozin, che rispondeva al nome di battaglia di “Vero”, celebrarono un processo sommario, con una sentenza di fatto già scritta: morte. Secondo quanto riferito dallo stesso Morozin anni dopo, fu Sandro Pertini in persona a spingere per l’esecuzione. Anche per quella della Ferida.

L’ordine di Pertini: uccideteli. Fra i molti che hanno raccontato la storia tragica di Ferida e Valenti, c’è stato anche Raffaello Uboldi, giornalista di razza e autore, tra l’altro, della prima biografia di Pertini, Il cittadino Sandro Pertini, cui seguì poi il volume Pertini soldato. Ebbene, anche Uboldi, scomparso nel novembre 2018 e che di Pertini fu collaboratore e amico, scrive nel suo 25 aprile. I giorni dell’odio e della libertà, che Pertini «non muoverà un dito per salvare dalla fucilazione Valenti e la Ferida, nemmeno lei, che era colpevole di nulla; anzi, si sarebbe speso a favore dell’esecuzione». “Vero” Morozin nel suo Odissea Partigiana, del 1965, fu molto più netto, raccontando che Pertini lo chiamò tre volte, intimando di uccidere i due attori.

Luisa Ferida, fucilata dai partigiani «senza prove». Il racconto che Uboldi fa della loro condanna a morte è drammatico e, specie per la Ferida, carico di pietà. «La loro sorte è comunque segnata, li vogliono morti, sono considerati un simbolo, al di là delle colpe che vengono loro contestate senza uno straccio di prova. Vogliono morta anche lei, che un qualsiasi altro tribunale manderebbe assolta, per di più è incinta, attende un bambino, non c’è luogo al mondo dove la condanna non verrebbe sospesa. Non nella Milano di questo aprile 1945. E così Luisa muore con lui, uccisa senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia».

Poi lo Stato ammise: «Uccisa perché amante di Valenti». Undici anni dopo, nell’ottobre del 1956, la madre di Luisa Ferida, Lucia Pasini, ottenne che le autorità italiane scrivessero nero su bianco che la figlia era stata giustiziata senza colpa. La donna chiese e ottenne, infatti, una pensione di guerra, poiché Luisa era la sua unica fonte di sostentamento. Ne scaturì un’istruttoria da parte dei Carabinieri, che si concluse con questo rapporto: «La signora Manfrini Luisa, in arte Luisa Ferida, non consta abbia fatto parte di formazioni militari ausiliarie della Repubblica sociale italiana. Le cause del decesso della Manfrini devono ricercarsi nel fatto che la predetta era amante del noto attore Osvaldo Valenti». Una esecuzione partigiana, come scritto da Uboldi, «senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia». 

I ragazzi di Salò? Veri rivoluzionari. Un libro ribalta i vecchi tabù storiografici. Redazione martedì 7 Marzo 2017 su Il Secolo d'Italia. Di titoli sulla Rsi se ne contano a bizzeffe. Alcuni sono davvero illuminanti, altri si muovono nella dimensione – sia pure importante – della testimonianza, altri obbediscono a logiche di parte. C’è ora un libro in uscita per la casa editrice Il Mulino anticipato sul Corriere da un’analisi di Paolo Mieli, L’Italia di Salò 1943-45, che tenta di fare i conti oltre ogni pregiudizio con una pagina di storia fino ad oggi rimossa o deformata. Gli autori, Mario Avagliano e Marco Palmieri, ben sottolineano – scrive Paolo Mieli – “i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla "parte sbagliata"“.  Quella scelta fu per molti giovani e giovanissimi non una macchia, non una colpa ma – affermano i due autori del libro – “una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime”. Il tabù storiografico che considera i combattenti della Rsi “avventurieri” o “idealisti in buona fede” non è utile chiave di lettura per spiegare dopo decenni un fenomeno che attirò tanti giovani, molti dei quali destinati dopo la guerra ad una brillante carriera nel mondo dello spettacolo. Tra questi, oltre alla famosa coppia di attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, Giorgio Albertazzi e Dario Fo, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Mario Carotenuto, Mario Castellacci, Fede Arnaud Pocek e Raimondo Vianello, che meglio di altri seppe spiegare cosa lo spinse ad andare volontario nella Rsi, e cioè “un impulso di ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: ‘Vianello, si salvi chi può!’ “. Un esempio classico dello stile italiano del pavido voltagabbana, una cifra esistenziale che appunto i giovani della Rsi vollero respingere col loro esempio, pur se consapevoli di andare a combattere per una causa destinata a perdere. Mieli sottolinea inoltre che il libro dedica pagine particolarmente interessanti al fascismo clandestino nell’Italia liberata, ai “non cooperanti” – in particolare quelli del campo di Hereford – e ai gruppi spontanei che si organizzano nell’Italia meridionale e in particolare in Sicilia dopo lo sbarco alleato raccogliendo i fedelissimi del fascismo. Un capitolo dove spiccano i nomi di Dino Grammatico, Maria D’Alì, Salvatore Bramante, Angelo Nicosia. La storia della rete di non cooperanti e fascisti in Sicilia è ricca di episodi poco conosciuti e per nulla approfonditi. Nella fase finale della guerra, ad esempio, in Sicilia si sviluppa – annota Paolo Mieli -una protesta “contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatsiti e comunisti. Ci si batteva, con lo slogan ‘Non si parte’, per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi negli ultimi decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sgarestano Giovanni Criscione”. Il movimento “Non si parte” creò episodi insurrezionali in vari centri della Sicilia (Modica, Vittoria, Comiso, Giarratana) mentre la Occhipinti dopo la guerra sarà eletta deputata con il Pci. 

Arriva il kit del piccolo partigiano per bambini. FdI: “Propaganda da regime coreano”.  Angelica Orlandi venerdì 23 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Ci mancava solo il “Kit del piccolo partigiano” per proseguire con l’indottrinamento dei più piccoli nelle scuole. L’idea è infelice oltre che propagandistica. Accade a  Usmate Velate, comune della provincia di Monza e della Brianza.  Scoppia la bufera politica. Da una parte il Comune che ha promosso l’iniziativa in occasione delle celebrazioni del 25 aprile; dall’altra i rappresentanti di  Fratelli d’Italia e Lega che hanno apertamente contestato la scelta di inculcare un’idea divisiva e bellicosa a bambini dai 7 ai 12 anni. Il Comune guidato da Lisa Mandelli, esponente di una lista civica sostenuta dal centrosinistra ha rilanciato l’idea della compagnia teatrale Piccoli Idilli di ideare un “kit del nuovo partigiano”. Nel sacchetto  che si ritira gratuitamente presso la biblioteca, ci sono il testo e lo spartito di Bella Ciao, la bandiera tricolore, una nota descrittiva sul 25 aprile e sulla Resistenza, e un “tesserino dAnteprima(si apre in una nuova scheda)el nuovo partigiano”: sul quale si può incollare la foto del bambino con  l’indicazione del suo “nome di battaglia”. Si può scegliere tra i vari Folgore, Tigre, Noce, Luce, Settembre, Valaperta, Jazz, Colt, Mosca etc. Ci manca solo l’arruolamento e la follia è completa. La retorica di guerra, la mentalità divisiva, proprio perché destinate ai più piccoli, trovano sulle barricate i consiglieri comunali di opposizione. Vanessa Amati  di FdI al Giornale ha dichiarato: “Si tratta di indottrinamento scolastico. La Resistenza viene già insegnata sui libri di scuola. Non c’è alcuna necessità di ricevere in dono un kit per giocare alla guerra contro un nemico che non esiste più”. E ha aggiunto: “Con il kit del nuovo partigiano si entra in una propaganda politica e guerrigliera da regime nordcoreano”. Daniele Ripamonti (Lega) contesta la spettacolarizzazione della guerra: “Non se ne sentiva il bisogno – dice al Giornale.it – Tutti gli anni sia maggioranza che opposizione hanno partecipato insieme alle celebrazioni in Piazza del Comune. In questo modo invece la ricorrenza rischia di essere strumentalizzata, per di più di fronte a bambini di 7 anni. Questi argomenti sono già studiati ampiamente sui libri di scuola. Temiamo che dietro quest’idea si nasconda un intento propagandistico. Mi meraviglia, poi, che nella maggioranza siano presenti anche rappresentanti di quella che fu la vecchia Dc, in silenzio di fronte a un’idea da Giunta di monocolore rosso. La Resistenza non fu solo quella della Brigata Garibaldi. Anzi”. A queste accuse, l’assessore alla Cultura Mario Sacchi, risponde – sempre attraverso Il Giornale.it- che invece sì, “non c’è un nemico armato da combattere, ma c’è da tenera alta l’attenzione contro movimenti che si dichiarano apertamente fascisti”.

Il "kit del partigiano" per bambini fa infuriare Lega e FdI. Daniele Dell'Orco il 23 Aprile 2021 su Il Giornale. L'amministrazione comunale di Usmate Velate (MB) ha promosso l'iniziativa di un'associazione del territorio rivolta ai bambini tra i 7 e i 12 anni di ritirare sacchetti contenenti regali e gadget evocativi della Resistenza e della lotta partigiana. A pochi giorni dalla ricorrenza del 25 aprile, c'è chi ha pensato di rispolverare le reminiscenze belliche di 80 anni fa per avvicinare i bambini ai valori della Resistenza. Succede ad Usmate Velate, comune di circa 10mila abitanti della Monza e Brianza, dove il Comune ha sostenuto e rilanciato l'idea della compagnia teatrale Piccoli Idilli di ideare un "kit del nuovo partigiano" da destinare ai ragazzi dai 7 ai 12 anni. Si tratta di un sacchetto che contiene il testo e lo spartito di Bella Ciao, la bandiera tricolore, una nota descrittiva sul 25 aprile e sulla Resistenza, e un "tesserino del nuovo partigiano" sul quale apporre la foto del bambino e la scelta del suo "nome di battaglia" (si può scegliere tra i vari Folgore, Tigre, Noce, Luce, Settembre, Valaperta, Jazz, Colt, Mosca etc.). I sacchetti, che possono essere ritirati gratuitamente presso la biblioteca, per fortuna non obbligheranno nessun bambino ad armarsi e andare nei boschi, ma serviranno nell'intento del Comune ad arricchire l'iniziativa di più ampio respiro che prevederà delle "staffette" di membri della compagnia teatrale che fuori dalle abitazioni dei "nuovi partigiani", si esibiranno con spettacoli a sorpresa dedicati alla Resistenza. Per il Comune, guidato da Lisa Mandelli, esponente di una lista civica con connotati di sinistra, si tratta di un modo per "avvicinare i più piccoli ai valori della democrazia e della libertà mai così importanti come in questo momento. Ogni famiglia potrà sperimentare, divertirsi e riflettere in piena autonomia, avviando un percorso di costruzione della coscienza civica dei propri figli". Il richiamo alla retorica di guerra, specie poiché destinato ai più piccoli, non è piaciuto però ai consiglieri comunali di opposizione. Vanessa Amati (FdI), dice al Giornale.it: "Si tratta di indottrinamento scolastico. La Resistenza viene già insegnata sui libri di scuola. Non c'è alcuna necessità di ricevere in dono un kit per giocare alla guerra contro un nemico che non esiste più". Daniele Ripamonti (Lega), invece, precisa che la critica non è rivolta alla ricorrenza in sé, bensì alla spettacolarizzazione della guerra: "Non se ne sentiva il bisogno - dice al Giornale.it - Tutti gli anni sia maggioranza che opposizione hanno partecipato insieme alle celebrazioni in Piazza del Comune. In questo modo invece la ricorrenza rischia di essere strumentalizzata, per di più di fronte a bambini di 7 anni. Questi argomenti sono già studiati ampiamente sui libri di scuola. Temiamo che dietro quest'idea si nasconda un intento propagandistico. Mi meraviglia, poi, che nella maggioranza siano presenti anche rappresentanti di quella che fu la vecchia Dc, in silenzio di fronte a un'idea da Giunta di monocolore rosso. La Resistenza non fu solo quella della Brigata Garibaldi. Anzi". A queste accuse, l'assessore alla Cultura Mario Sacchi, risponde attraverso Il Giornale.it: "Ci accusano di propaganda da regime nordcoreano, in realtà questa iniziativa contiene anche dei semi per piantare un fiore e ricordare l'eccidio di Valaperta. Anziché scrivere sui social i membri dell'opposizione avrebbero dovuto ritirare un kit e studiarlo. Non pensiamo che ci sia un nemico armato da combattere, ma c'è da tenera alta l'attenzione contro movimenti che si dichiarano apertamente fascisti. Per noi si tratta di un'iniziativa culturale, ed è volta a veicolare i valori fondanti della democrazia. Se oggi qualcuno trova divisivo il concetto di libertà è bene che studi il regime nazi-fascista".

Il vero volto del 25 aprile. Matteo Carnieletto il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Croce disse (a ragione) che nessuno aveva vinto la guerra. Troppo odio e violenza avevano contraddistinto il nostro Paese. E la scia di sangue sembra non finire mai. "Noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta 'tutti', anche coloro che l'hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l'ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra Patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della nostra Patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico quanto evidente". Benedetto Croce pronunciò queste parole di fronte all'Assemblea Costituente in occasione della ratifica del trattato di pace, il 24 luglio del 1947. Nessuno vinse il 25 aprile del 1945. L'Italia era libera, certo. Ma a che prezzo? Il Paese era distrutto politicamente ed economicamente. Gli italiani mai così divisi. L'8 di settembre, infatti, aveva spaccato il Paese in due: 160mila persone avevano deciso di aderire alla Repubblica sociale italiana, 130mila alla resistenza. In mezzo, l'immenso mare grigio degli indecisi, di coloro che stavano da una parte o dall'altra senza prendere apertamente posizione. Di quelli che, seguendo la più italica delle virtù, decisero di stare alla finestra a guardare. Fu, quello che andò dall'autunno del 1943 alla primavera del 1945, un anno e mezzo di guerriglia, rastrellamenti e, anche (forse sarebbe meglio dire soprattutto), violenza gratuita. Da una parte e dall'altra. Solo che per lungo tempo si parlò solamente dei crimini di fascisti e nazionalsocialisti. Giusto e scontato, per carità. La storia, come è noto, la scrivono i vincitori a proprio gusto e, soprattutto, consumo. La neonata repubblica aveva bisogno di un mito sul quale poggiare e quel mito doveva essere, per forze di cose, quello della resistenza. Tutte le ére politiche, si pensi ad esempio alla nascita di Roma, necessitano di un tributo di sangue: Romolo deve uccidere Remo. Benito Mussolini, l'ormai ex duce, doveva essere brutalmente ammazzato ed esposto all'odio di piazzale Loreto. Un Paese intero aveva bisogno di vederlo non solo morto, ma sfigurato. Bisognava esorcizzare la paura di esser stati con quell'uomo, di essersi fidati di lui, di averlo seguito non per due mesi ma per ventidue anni. Del resto era stato Winston Churchill a dire: "Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti". Ed è proprio quello che accadde. La resistenza fu un fenomeno di minoranza (vi parteciparono solamente 130mila persone contro i 160mila volontari della Rsi) e solo dopo la fine della guerra divenne un'epopea. Si cercò in tutti i modi di cancellare i crimini compiuti dei partigiani. Per anni non si parlò, tranne in rare occasioni, del triangolo della morte in Emilia o delle foibe sul confine orientale. La resistenza non poteva esser macchiata da alcun crimine. Nonostante ce ne fossero molti, come ogni guerra, per di più asimmetrica, prevede. E questo almeno fino al 2003, quando Giampaolo Pansa scrisse Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile (Sperling & Kupfer). Il libro, va detto, non portava alcuna verità ulteriore dal punto di vista storiografico. Ma era il nome dell'autore, la sua provenienza da sinistra e la sua potenza mediatica a ribaltare il tutto. Nella prefazione, il grande giornalista piemontese scrive: "Se scruto dentro di me, m'accorgo che sono diventato meno manicheo. Prima ero incline a dividere il mondo in amici nemici. E a distinguere con intransigenza il bene dal male. A proposito della guerra civile, il bene era la Resistenza, il male i fascisti. Oggi non sono più sicuro di questa spartizione netta. Parlo della storia delle persone, naturalmente. Non della grande storia, ossia dello scontro fra democrazia e totalitarismo". Ecco, è questo il merito di Pansa. Di aver dimostrato che sotto la grande storia, dove è facile distinguere il bene dal male, esistono le vicende dei singoli, di coloro che, i più svariati motivi, decisero di combattere da una parte o dall'altra. L'immagine più drammatica, forse, ci è data da quattordici fratelli (7 + 7) che furono brutalmente sterminati. Stiamo parlando dei sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti il 28 dicembre del 1943, e i sette fratelli Govoni, seviziati e massacrati a guerra finita dai partigiani della Brigata Paolo. Due famiglie distrutte per mano dell'odio. Furono in pochi a vincere in quei mesi. Uno di questi fu Giovannino Guareschi, che aveva deciso, per restare fedele al giuramento fatto al re, di finire nei campi di concentramento tedeschi: "Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno". Pochi riuscirono a farlo. Ed è per questo che l'Italia non perse solo la guerra. Ma anche se stessa. Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo. Antonio Giangrande25 aprile. Non era guerra di Liberazione (ci hanno pensato gli Alleati) ma una miserabile guerra civile per il Potere. "La vita deve essere aperta al rischio.

Bella ciao, pochi partigiani l'hanno cantata. Antonio Cavallaro su Il Quotidiano del Sud il 25 aprile 2021. Come reagireste se vi dicessi che “Bella Ciao” non è stato il brano più cantato dai nostri partigiani e che deve il suo successo a una vera e propria invenzione della tradizione che si è consolidata solo a guerra conclusa e con una serie di passaggi e stratificazioni successive? A raccontare la genesi e la diffusione del canto della resistenza italiano più noto al mondo è Cesare Bermani in un saggio dal titolo “Bella ciao, una canzone della Brigata Maiella”, contenuto nel volume Brigata Maiella, Resistenza e Bella ciao. Combattere cantando la libertà curato da Nicoletta Mattoscio e appena pubblicato da Rubbettino. Il termine “invenzione” accostato a “tradizione” non deve far saltare sulla sedia quanti hanno a cuore l’eredità culturale, politica e spirituale della Resistenza, né indurli a gridare alla lesa maestà. A scanso di ogni equivoco dichiaro subito che chi scrive è socio onorario ANPI nonché nipote di un fiero partigiano, scomparso due anni fa. Uso “tradizione inventata” nel senso in cui la usa Eric Hobsbawm nel celebre saggio L’invenzione della tradizione ossia come “un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale e simbolica che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato” insomma una sorta di mitopoiesi che dando origine a una storia collettiva e condivisa contribuisce a creare il senso di appartenenza. Ma torniamo a “Bella Ciao”. Stando a quanto scrive Bermani il canto era sconosciuto a molte formazioni partigiane mentre circolava diffusamente nel Modenese e nel Reggiano, a partire dal 1944. D’altronde lo stesso Giorgio Bocca ebbe a dichiarare pubblicamente “Nei venti mesi della guerra partigiana, non ho mai sentito cantare Bella ciao”. Dalle testimonianze raccolte dall’autore nel saggio pare che le versioni di “Bella ciao” che circolavano in Emilia e che venivano cantate dai patrioti della Brigata Maiella fossero in realtà diverse benché accomunate dalla melodia e da alcuni elementi simili che rimandavano tuttavia a un brano ancora più antico che avrebbe fatto da archetipo delle diverse varianti della canzone che sarebbero venute dopo. Il brano in questione era “Fior di tomba”, cantato principalmente nelle risaie padane e pubblicato per la prima volta da Costantino Nigra nel volume del 1888 Canti popolari del Piemonte. Successivamente il canto godette di una certa notorietà tra i soldati che parteciparono al primo conflitto mondiale. Leggendo il testo di “Fiori di tomba” è possibile intravedere gli elementi principali che avrebbero poi fatto da base per il riadattamento in chiave partigiana della canzone. “Stamattina mi sono alzata / un’ora prima che leva il sol / Mi san messa alla finestra / e mi go visto el me primo amar / l’era in braccio d’una ragazza / una ferita mi viene al cor. / Cara mamma serè la porta / che qua no entra mai più nisun / Cara figlia sta alegra e canta / sta alegra e canta sta qua con me / Farem fare una casetta / e ci staremo tutti e tre / Prima mio padre poi la mia madre / e il mio amore in braccio a me / E la gente che passeranno / dimanderanno cos’è quel fior / Quello è il fiore della Rosina / che Ve morta del troppo amor”. Lo stesso Bermani in un volume pubblicato lo scorso anno da Interlinea dal titolo Bella ciao: Storia e fortuna di una canzone racconta come questo canto d’amore già dopo la disfatta di Caporetto avesse conosciuto delle rielaborazioni in chiave protestataria. Ecco un frammento di una delle versioni dell’epoca riportato dallo studioso in cui si può osservare la comparsa dell’elemento “Bella ciao” che diverrà caratteristico del successivo canto della Resistenza: “Una mattina mi son svegliato / o bella ciao, ciao, ciao o bella ciao, ciao ciao / una mattina, mi son svegliato / e sono andato disertor”. Bermani, nel saggio citato all’inizio di questo articolo, riporta poi il testo della canzone così come conosciuto e cantato dalla Brigata Maiella (ovviamente facciamo tutte le avvertenze del caso sulla mutabilità dei testi trasmessi principalmente per via orale): “Questa mattina mi sono alzato / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao, / mi sono affacciato alla finestra / e ho visto il primo amor / / Io me ne vado lontano lontano / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / me ne vado lontano lontano / tra le palle di cannon. // E s’io morissi da patriota / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / mi seppellisce al camposanto / sotto l’ombra di un bel fior. // Tutte le genti che passeranno / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / tutte le genti che passeranno / diranno che bel bel fior // È questo il fiore della Maiella / bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao / questo è il fiore della Maiella / del patriota che morì”. Il canto, con i movimenti delle truppe partigiane, raggiunse poi il nord Italia negli ultimi mesi di guerra subendo ulteriori mutazioni e adattamenti. La storia di “Bella ciao” però non si esaurisce con la guerra, il testo che noi riconosciamo oggi come autentico e tradizionale è il frutto di elaborazioni successive, di adattamenti, di interpolazioni. Come spesso accade con le tradizioni e come il libro di Hobsbawm che abbiamo citato insegna, quelle che noi riveriamo come tradizioni antiche non sono che il frutto di un lento lavorio e di un successivo uso sociale che termina con una forma di cristallizzazione che, però, appare spesso anch’essa precaria. Come racconta Bermani, il canto comincia ad essere identificato quale canto simbolo della resistenza a guerra conclusa. Nel 1945 a Londra, i rappresentanti delle associazioni antifasciste di oltre 63 Paesi decidono di organizzare ogni due, tre anni un festival mondiale sui temi della pace. “Bella ciao” sarà uno dei canti più eseguiti, tradotto in più lingue, al festival di Praga del 1947, a quello di Budapest del ’49 e quello di Berlino del ’51. L’incredibile successo della canzone è certamente da ascrivere al ritornello facilmente orecchiabile che contiene due delle parole italiane più note al mondo “Bella” e “Ciao” e al battito di mani che ne accompagnava l’esecuzione e che certamente, in quel contesto, assumeva una funzione non solo aggregante ma, possiamo immaginare, quasi catartica. Anche grazie al suo successo internazionale il canto entrò a far parte dei repertori delle varie corali e a comparire nei vari canzonieri. Fu infine il festival di Spoleto a sancirne la definitiva consacrazione grazie allo spettacolo “Bella ciao” del 1964. Furono proprio gli anni Sessanta, spiega Bermani, quelli in cui il canto si diffuse capillarmente. Erano gli anni in cui la Resistenza e la guerra di liberazione cominciarono a essere sempre più identificati come il momento fondativo della Repubblica. La Resistenza veniva finalmente letta come momento che accomunava la Nazione e non solo una parte politica. In questo clima di ritrovata (o quanto meno di ricercata) pacificazione nazionale, “Bella ciao”, contrariamente a “Fischia il vento”, che pure era stata sicuramente la canzone più cantata dai partigiani al Nord (sotto nella versione cantata da Milva), si prestava a quella funzione ecumenica e identitaria di cui la società italiana aveva bisogno.

I comunisti nella Resistenza: combattivi ma inaffidabili. Marco Petrelli il 25 Aprile 2021 su Il Giornale. Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto de I partigiani di Tito nella Resistenza Italiana (Mursia 2020). Il ruolo dei comunisti italiani nella Resistenza assume una certa rilevanza sin dall’autunno del 1943. Insieme al Fronte Militare Clandestino i comunisti, nell’ambito della Resistenza che definiremo “civile" (per distinguerla da quello di Montezemolo), iniziano ad organizzarsi e a colpire già nelle settimane successive alla caduta di Roma. Sono tosti, questo nessuno poteva (e può) metterlo in dubbio, istruiti e formati da miliziani che hanno già combattuto una guerra civile, quella spagnola, dalla quale sono usciti sconfitti sul campo, ma non nella intenzione di perorare la causa comunista. In alcune realtà, come in Umbria ed in Abruzzo poi, i prigionieri di guerra jugoslavi evasi da centri detentivi quali Colfiorito e dalla Rocca di Spoleto, si uniscono alle formazioni locali recando con sé il know how di combattenti del disciolto esercito jugoslavo e dell’Esercito Popolare di Liberazione di Josip Broz. Capaci, dunque, ma poco inclini alla collaborazione. Nel 1944, quando le formazioni intensificano l’azione contro gli occupanti tedeschi, emergono le prime difficoltà con le altre anime della Resistenza, in particolare con i badogliani, con i militari e con gli autonomi. Qual è lo scopo della lotta? Colpire indiscriminatamente in nemico, causando però forti perdite fra i civili per rappresaglia o selezionare gli obiettivi? E ancora: come comportarsi con presunte spie e accusati di collaborazionismo? Processo o fucilazione sommaria? Domande alle quali non sempre si dà una risposta chiara, lasciando dietro di sé frizioni che portano alla conflittualità ed al sospetto reciproci. Se per i badogliani e per gli autonomi la sconfitta militare dei tedeschi e dei fascisti repubblicani ha la precedenza, per i comunisti la guerra di liberazione coincide con la guerra rivoluzionaria. Insomma, una replica di ciò che era già accaduto in Spagna quasi un decennio prima, con conseguente frammentazione del fronte repubblicano a vantaggio delle forze franchiste. “I compagni devono ricordare che esiste una sola bandiera, il Tricolore e che l’inno è il Piave non l’Internazionale” ammoniva così, Celso Ghini, i combattenti della Brigata “Gramsci”, operante fra le province di Terni e di Rieti. Niente bandiera rossa, dunque e rammentare che il Piave mormorava era l’inno ufficiale del Regno del Sud, l’entità statale combelligerante degli Alleati alla quale tutte le formazioni partigiane ed il Corpo Italiano di Liberazione dovevano prestare obbedienza e fedeltà. O, in altre parole, di quelle’Italia per la quale combattevano, divisioni a parte. Certo, difficile che ogni gruppo, specie nell’Italia centro-settentrionale, obbedisse agli ordini del Comitato Liberazione Nazionale e del Comando Supremo di Brindisi; tuttavia, seguire le direttive di quei due organi significava essere partigiani. Chiunque operasse al di fuori sarà stato anche combattente, certo non partigiano. È ciò che accade con gli slavi. Malgrado vi siano delegati dell’Esercito Popolare di Liberazione in seno al CLN, nelle realtà locali i partigiani jugoslavi rifiutano di prendere ordini da militari e da politici di un paese che, nel 1941, li aveva invasi insieme alla Germania. Inoltre, le maggiori aggressività e combattività, permettono loro di muoversi con maggiore autonomia, se non di imporsi sugli italiani certamente motivati, ma meno preparati. Nel ’44, a Salerno, Togliatti è chiaro: fino alla fine del conflitto le formazioni garibaldine devono concentrarsi sulla lotta a tedeschi e fascisti, sostenendo lo sforzo del Regno del Sud (riconosciuto, a marzo, anche dall’Urss) e degli Alleati. Come accennato, però, non va sempre così e le divisioni restano. Sempre a marzo, ad esempio, i gappisti romani - operando in modo autonomo - colpiscono i coscritti altoatesini del 6° Regiment-Polizei “Bozen”, causando 30 morti e provocando, così, la terribile rappresaglia che porterà all’orrore senza fine delle Fosse Ardeatine. Un eccidio tedesco, non ci sbagliamo! Ma la cui responsabilità non può - anche in piccola parte - non cadere su chi forse mancò di calcolare bene i rischi di quella sciagurata azione. I comunisti sono combattivi, ma fanno paura specie nel Friuli dove la convergenza con il IX Corpus sloveno porta le brigate autonome ed osovane a prendere le distanze dalle iniziative dei garibaldini e, soprattutto, a rifiutare la sottomissione ai titini. La strage di Porzus (che ancora fa sbuffare di noia le vestali della Resistenza) è in verità un fatto molto grave e non solo per i morti rimasti a terra. E’ la dimostrazione, chiara, che una consistente fetta di partigiani comunisti (non tutti per fortuna!) è più interessato a finalità politiche che non a difendere l’integrità territoriale della Patria. Saranno, d'altronde, gli stessi partigiani autonomi a costituire, nell'immediato dopoguerra, le primissime strutture di intelligence denominate stay-behind. Il generale Raffaele Cadorna (dirigente del CLN e capo del Corpo Volontari della Libertà) autorizza la formazione dell'Organizzazione "O" (Osoppo) sin dal 1946, con lo scopo di monitorare i confini orientali d'Italia. E di tenere sotto controllo l'ambiguo atteggiamento dei comunisti italiani. Forte di circa 4000 fra uomini e donne, erede delle tradizioni e del valore delle Brigate partigiane "Osoppo-Friuli", la "O" resta attiva fino al 1956 quando parte delle sue funzioni è trasferita alla struttura "Gladio", orientata su tutto il territorio nazionale. Ispirata alla Resistenza e con vertici partigiani, "Gladio" verrà sciolta, fra mille polemiche ed accuse infondate, agli inizi degli Anni '90. La Resistenza tradita Consapevole dell'impossibilità di una svolta rivoluzionaria ed ormai istituzionalizzato, nella Repubblica Italiana il Partito Comunista è il principale partito d'opposizione, ma con un peso ed una capacità di mobilitazione impressionanti. Consapevoli dell'importanza della memoria per un Popolo, i comunisti imprimono alla storia del movimento di liberazione un orientamento che li vede principali protagonisti di quella stagione di guerra e di libertà. Dimenticando si fosse trattato di una guerra... civile (termine che sarà accettato dalla storiografia grazie a Claudio Pavone e solo nel 1991), la Resistenza è stata trasformata in una sorta di mito fondante della Repubblica. L'importanza del Movimento partigiano non è mai stata messa in dubbio, ma la sua - poca - incisività sugli esiti della Campagna d'Italia ed il fatto che l'impegno dei partigiani non sia stato preso in considerazione dagli Alleati alla Conferenza di Pace, sono elementi tali da mostrare l'inconsistenza della sua apologia. Insomma, come in Spagna, la guerra sul campo era stata di fatto persa: gli eccessi, l'inaffidabilità e gli interessi, non sempre coincidenti con quelli nazionali, avevano finito per isolare i comunisti nello stesso movimento di liberazione. Per recuperare terreno e consenso, si combatté per decenni un'altra guerra, stavolta culturale, al fine di far passare l'idea che la Resistenza fosse a trazione "rossa". Un esempio? L'ANPI, principale sigla combattentistica, non è l'associazione di tutti i partigiani (malgrado così sia ormai conosciuta) ma di quelli legati all'area... diciamo socialdemocratica. Lo stesso Enrico Mattei, che ne era stato fondatore, se ne era discostato nel 1947 perché non in linea con le posizioni del direttivo. L'atteggiamento ostile e le accuse di revisionismo rivolte agli storici meno schierati hanno rappresentato e rappresentano, poi, ulteriori testimonianze di come quel capitolo, drammatico ed eroico della nostra Storia, siamo ormai considerato non patrimonio collettivo ma di una parte politica.

Vittorio Feltri: ecco perché il 25 Aprile ormai si è ammuffito. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Il 25 aprile 1945 l'Italia si liberò definitivamente del fascismo ed è normale considerarla una data importante, meritevole di essere ricordata. Ma bisogna vedere come. Da quel giorno sono trascorsi 76 anni e fatalmente la memoria si è offuscata. Tutti i protagonisti - tranne rarissimi sopravvissuti quasi centenari - della resistenza sono morti e non possono più testimoniare. Questo non implica che certe pagine della nostra storia debbano finire nel dimenticatoio, però sarebbe ora di ripulirle dalla muffa che su di esse si è stratificata. Sarebbe opportuno smetterla con la retorica e conferire alla ricorrenza un significato più vicino alla attualità, trasformandola in festa della libertà, della quale abbiamo bisogno anche in questo momento in cui gli italiani vivono praticamente in stato di segregazione, a causa del Covid che non è provocato da leggi di Mussolini bensì della nostra Repubblica democratica, si fa per dire. E invece questo non avviene poiché la sinistra continua a ritenere che i suoi nemici siano i fascisti inesistenti in quanto finiti al cimitero da tempo remoto. Organizzare ancora cortei e comizi per rammentare in piazza le eroiche gesta dei padri della patria è una operazione poco intelligente pure dal punto di vista propagandistico. Non c'è in giro un solo italiano che paventi il ritorno delle camicie nere. Chi parla di minaccia fascista mente sapendo di mentire, si inventa un pericolo che alberga soltanto nella mente malata di qualche comunista residuale il quale, puerilmente, gradisce combattere gli squadristi scomparsi per comodità: sconfiggere i fantasmi è molto facile. Oggi è giusto commemorare e rendere onore a chi si è sacrificato per abbattere un regime dispotico che trascinò per giunta il Paese in una guerra assurda e devastante, purché sia una cerimonia composta e svelenita, non consistente in una serie di frasi fatte dall'acre sapore nostalgico per un periodo di lotte fratricide. Mio padre fu un fascista della prima ora e un fratello di mia madre fu un partigiano, ma, a guerra ormai conclusa e quasi dimenticata, quando si incontravano brindavano insieme alla pace conquistata. Non mi pare un cattivo esempio.

25 aprile, la fine della Guerra civile si ricorda, non si "festeggia". Marco Petrelli su Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Non è difficile leggere: "caduto contro le orde nazifasciste", "caduto combattendo l'oppressione nazifascista" sulle targhe commemorative o ascoltarlo in ricorrenze pubbliche. Nazifascismo: "Denominazione con cui è stata polemicamente indicata l’unione sul piano ideologico e politico del fascismo italiano e del nazionalsocialismo tedesco [...]" lo descrive l'Enciclopedia Treccani. E il suo carattere "polemico" è palesato dal frequente ricorso in manifestazioni o durante speech che hanno molto di politico e ben poco di accademico. Nazional-socialisti e non nazisti Ma chi erano i nazifascisti? Qualunque storico preferirebbe affidarsi alle definizioni ufficiali: Regno d'Italia e Terzo Reich (guerra 1940-1943); Repubblica Sociale Italiana o Fascismo repubblicano (guerra civile 1943-1945) alleato del Terzo Reich. Sì, perché "nazi" in realtà era allora usato dalla sola propaganda alleata, mentre nei documenti si indicavano i "tedeschi" o i "nazional-socialisti". Il partito di Hitler, d'altronde, era il NSDAP (Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi) i cui membri si chiamavano fra loro "nazional-socialisti", mentre i militari erano inquadrati nella Wehrmacht (Forze Armate) a sua volta divisa in Heer (Forze di terra), Kriegsmarine (Marina da guerra), Luftwaffe (Arma aerea). Altri erano arruolati nei reparti paramilitari SS e Waffen SS. Nazifascismo o, peggio ancora, "orda nazifascista" manca dunque di valore storico. L' "orda" in origine era il nome della suddivisione amministrativa dell'impero mongolo e, solo inseguito, ha  assunto l'accezione negativa di "accozzaglia" e "soldataglia". Nel suddetto caso sarebbe quindi come dire: "provincia o contea nazifascista". Liberazione, ma...  "Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Amara constatazione e, purtroppo, vera quella di uno dei più spietati ministri dell'entourage di Hitler, quel Josef Goebbels che, da capo della propaganda, costruì ed alimentò l'odio razziale verso i "nemici" del Reich. La democrazia avrebbe dovuto insegnarci che il valore di una verità, pur di una verità ingombrante, è sempre da preferirsi alle più facili scorciatoie della menzogna. Il tentativo di analizzare la storia del fascismo e della guerra civile senza strumentalizzazioni e speculazioni ha invece sempre incontrato, in Italia, una certa opposizione politica ed accademica quasi come se l'approccio scientifico alla Storia suggerito da Marc Bloch fosse una eresia... Emblematico, a questo proposito, il caso della Liberazione. Cosa festeggiamo precisamente? Al Trattato di Pace ci siamo seduti dalla parte degli sconfitti né gli Alleati hanno tenuto conto dell'impegno della Resistenza e del Corpo Italiano di Liberazione, imponendoci invece durissime clausole nonché la perdita di territori italiani a vantaggio di Belgrado e di Parigi. Quanto alla guerra civile c'è, anche qui, poco da festeggiare: quel conflitto intestino divise intere famiglie, portando i padri a sparare contro i figli ed i figli a denunciare i genitori e i  fratelli. Se qualcuno si fosse preso la briga di far leggere ai nostri studenti Fenoglio (ex comandante partigiano ed autore di splendidi romanzi sulla Resistenza) i ragazzi avrebbero certamente compreso e condiviso il dolore del giovane Kim, personaggio terrorizzato all'idea di poter sparare al fratello, ufficiale della Guardia Repubblicana. Celebrare la fine di una dittatura e dell'occupazione nemica è dunque doveroso, ma tenendo conto di ciò che davvero rappresentò quella pagina, drammatica, del nostro passato: un bagno di sangue che lacerò il tessuto sociale ed umano di un Paese già distrutto dalle bombe e dalle rappresaglie. Celebrare, quindi, non festeggiare: nel primo caso vuol dire preservare, con razionalità e rispetto, la memoria di chi è caduto per l'indipendenza e per la libertà della Patria; nel secondo alimentare lontani echi di odio e di morte e contribuire a tramandare un'immagine della lotta partigiana che, 7 decenni di cattiva informazione, hanno trasformato da fenomeno umano e storico ad una sorta di epopea della frontiera. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 aprile 2021. Caro Dago, certo che il 25 aprile e dunque la sua commemorazione è una data che conta eccome nella storia del mondo e non solo in quella italiana. E’ il giorno che segna la “Liberazione” del suolo italiano dal tallone nazi. Solo che ci si deve intendere sulla valenza semantica di questo termine. Chi esattamente “liberò” l’Italia, un’Italia oltretutto spaccata in due dagli orrori della guerra la più atroce di tutti, quella guerra civile che mette fratelli contro fratelli? Vedo che su alcuni giornali italiani fa da foto di accompagnamento degli articoli sulla “liberazione” di Milano l’immagine di tre ragazze che per strada si avanzano munite ciascuna di un fucile più grande di ognuna di loro. E’ una foto suggestiva, epperò fuorviante. Quelle ragazze, e quei tanti uomini e donne che furono in prima linea nella lunga “resistenza” al nazifascismo, non avrebbero retto cinque minuti il confronto con i carri armati, le mitragliatrici e le truppe scelte del nazismo. Il loro peso militare fu di poco superiore allo zero. Nelle grandi battaglie sul suolo italiano che decisero l’esito della guerra a favore degli Alleati, il contributo della Resistenza fu minimo. La battaglia a conquistare Monte Cassino, la battaglia che aprì la strada che portava a Roma, vide in prima fila i soldati polacchi. Furono loro che misero piede per primi nell’Abbazia e che scoppiarono a piangere per questo. A spezzare la colonna dorsale ai nazi non furono certo gli agguati a uomo dei Gap nelle città italiane del nord e bensì le centinaia e centinaia di bombardamenti che rasero al suolo pezzi di città italiane. Il Gran Consiglio del fascismo, in cui 19 dei 28 membri votarono contro Mussolini era la diretta conseguenza dei 3000 morti romani a causa dei bombardamenti del 19 luglio. L’azione più spettacolare dei Gap romani, l’agguato micidiale di via Rasella che costò una rappresaglia di 335 uomini fucilati a gruppi di cinque nelle cave dette Ardeatine, non indebolì di una virgola la forza delle truppe nazi che difendevano Roma. Non di una virgola. Quella resistenza cadde il 4 giugno 1944 innanzi agli assalti e al coraggio dei tanti “soldati Ryan” che costituivano le forze angloamericane. Lo stesso dicasi dello sfondamento della Linea Gotica che nell’aprile 1945 aprì l’ingresso degli Alleati nella pianura padana e dunque a Milano. C’erano voluti mesi e mesi di attacchi forsennati di eserciti forti di centinaia e centinaia di migliaia di uomini, di bombardamenti mostruosi su militari e civili, altro che le tre ragazze armate di fuciloni della foto di cui ho detto. L’esercito alleato rimase paralizzato per tutto l’inverno. A Marradi, uno dei picchi della Linea Gotica, lo stato maggiore degli Alleati si piazzò nella casa natale di Dino Campana e siccome gelavano dal freddo andarono in soffitta e per riscaldarsi bruciarono un bel po’ di copie della prima edizione del leggendario poema “Canti Orfici” del 1914. Uno che nell’inverno 1944-1945 si era rifugiato in una casa di campagna veneta, il giurista e futuro (grande) scrittore Salvatore Satta in quei mesi non vide alcunché che attenesse alla Resistenza. Vide solo un aereo alleato che per 80 volte cercò di distruggere un ponte senza riuscirci. Quando nell’immediato dopoguerra si mise a scrivere quel “De profundis” che è uno dei libri italiani più belli sul tempo della Seconda guerra mondiale, della Resiistenza e dell’antifascismo di prima linea e di quelle tre ragazze col fucilone, non c’è la menoma traccia. La casa editrice Einaudi, e l’azionista Massimo Mila in prima persona, glielo rifiutarono. Tanto che i libro venne pubblicato nel 1948 da una casa editrice specializzata in edizioni giuridiche e divenne introvabile finché trent’anni dopo non lo riportò alla luce la Adelphi di Roberto Calasso. Questi sono i fatti. Quanto a quelli che commemorano il 25 aprile come se l’avversario di allora fosse ancora presente e minaccioso nelle odierne società europee, a loro va soltanto il mio disprezzo intellettuale. Nel terzo millennio in cui viviamo il termine stesso di “fascismo” non significa nulla di nulla, a meno di non confondere alcune pattuglie di ragazzotti semianalfabeti con la tragedia europea della Prima guerra mondiale con tutti i suoi annessi e connessi. Tragedia da cui promanò il fascismo storico e i suoi protagonisti, Mussolini, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Mario Sironi, Giovanni Gentile, Giacomo Acerbo, Filippo Tommaso Marinetti e ne sto dimenticando. Vi sembrano tipini che somigliassero agli odierni ragazzotti di Casa Pound che bastano un paio di idranti a cancellarli dalla scena delle città?

Il libro. “Prigionieri della storia”, il rapporto tra fatti e memoria raccontato da Keith Lowe. Eraldo Affinati su Il Riformista il 14 Marzo 2021. La storia ci tiene in ostaggio. Appena muta il nostro sguardo sul passato, gli eventi trascorsi assumono un’angolatura diversa. Ogni generazione elabora la tradizione raccolta dai padri e, nel momento in cui la interpreta, la modifica. Si tratta di un travaglio doloroso perché quasi sempre bisogna passare sopra le ossa dei morti. Ricucire gli strappi. Asciugare le lacrime. Andare avanti. È vero: il tempo lenisce le ferite, tuttavia potrebbe anche esacerbarle. Mettiamoci l’anima in pace: non finiremo mai di litigare. Quand’ero piccolo non amavo i fumetti. Facevo un’eccezione per Guerra d’eroi, sulla Seconda Guerra Mondiale, che m’intrigava assai. Da adulto credo di aver visitato quasi tutti i campi di battaglia europei. Omaha Beach, Kursk, Berlino… Senza dimenticare Anzio, Nettuno, Cassino e la Linea Gotica. A Dresda ho girato intorno alle cattedrali nere bruciate. A Mosca ho cercato il punto di massima espansione raggiunto nel 1941 dalle avanguardie della Wehrmacht: accanto allo stelo commemorativo c’era un magazzino Ikea. A Volgograd, come oggi si chiama Stalingrado, sono arrivato sino in cima all’enorme statua che svetta sul Mamev Kurgan. Volai apposta in Giappone solo per vedere Hiroshima e Nagasaki. La stessa cosa sarei disposto a fare oggi pur di toccare le statue di bronzo del Douglas MacArthur Landing Memorial sulla spiaggia di Leyte, nella rievocazione del generale americano che guidò sulla battigia i suoi ufficiali alla riconquista delle Filippine. Ecco perché un libro come Prigionieri della storia (Utet, traduzione di Chiara Baffa, pp. 322, 24 euro) di Keith Lowe per me assomiglia a una pietra incandescente. Lo studioso inglese, nato a Londra nel 1970, autore di un testo fondamentale sul bombardamento alleato di Amburgo, non ancora tradotto in italiano, e del Continente selvaggio (Laterza, 2013), sui terribili anni successivi alla guerra, si chiede cosa possano insegnarci, oggi, i mausolei, i templi, i santuari costruiti dopo la fine del secondo conflitto novecentesco. Per rispondere a questa domanda prende in esame cinque diverse tipologie monumentali: quelle nate allo scopo di celebrare gli eroi (Volgograd, Varsavia, Arlington, Leyte, Londra e Bologna); i martiri (Amsterdam, Nanchino, Seul, Jersey City, Budapest, Auschwitz), i mostri (Lubiana, Tokyo, Predappio, Berlino, Grūtas Park, in Lituania), le apocalissi (Oradour-sur-Glane, Berlino, Amburgo, Hiroshima e Nagasaki) e le rinascite (New York, affresco della sala del Consiglio di sicurezza dell’Onu, Gerusalemme, Coventry, Liberation Route Europe). Ognuno di questi capitoli rappresenta un nodo spinoso che l’autore si guarda bene dal voler sciogliere. Restano negli occhi, fra le tante pietre dello scandalo, la scultura di Wu Weishan all’ingresso del Memoriale del massacro di Nanchino, perpetrato dai giapponesi nel 1937, raffigurante una madre con il cadavere del suo bambino; il drammatico Katyn Memorial nel New Jersey, proprio di fronte a Manhattan, nel ricordo del massacro degli ufficiali polacchi da parte delle truppe sovietiche; le rovine di Oradour, paesino francese distrutto per rappresaglia dai nazisti e mai più ricostruito; il Sacrario dei caduti partigiani in piazza del Nettuno, a Bologna, nato dall’iniziativa spontanea della popolazione locale e presto diventato un simbolo nazionale dell’antifascismo: quest’ultimo mi riguarda direttamente perché fra le duemila fotografie di resistenti, ognuna accompagnata da nome e cognome, compare anche quella di mio nonno materno, Alfredo Cavina, della 36a Brigata Garibaldi, fucilato dai nazisti a Pieve di Quinta il 20 luglio 1944, insieme ad altri nove prigionieri. L’immagine che lo ritrae però è sbagliata, appartiene a un’altra persona. Dico questo per rafforzare il discorso impostato da Keith Lowe sulla potenziale fallibilità di ogni ricostruzione postuma. Come ci hanno illustrato i filosofi: un fatto, fuori dalla sua flagranza, rischia di corrispondere alla visione di chi lo riporta. A ben riflettere, è stato Sant’Agostino per primo a metterci in guardia sull’illusione storicista. Poi Leopardi ha sghignazzato sulle “magnifiche sorti e progressive”. Dovremmo quindi arrenderci al relativismo? No. Le ragioni e i torti non possono essere confuse: devono restare lì, incise nel marmo. Obelischi perenni che pure, dobbiamo metterlo in conto, verranno prima o poi sradicati dalle loro originarie sedi, proprio come è accaduto alle gigantesche statue dei dittatori sovietici che un previdente imprenditore lituano, Viliumas Malinauskas, acquistò dall’ex repubblica baltica, per trasferirle in un parco monumentale a Druskininkai, nel sud del paese, trasformandole in attrazioni, a pagamento, per grandi e piccini. Con effetti paradossali e rigeneranti: «Quando gli uccelli fanno il nido tra le dita di Stalin e Lenin e i bambini si arrampicano sui fucili che un tempo erano puntati contro i membri della Resistenza lituana, i simboli del potere dello stato non appaiono più così spaventosi». Come spiegare ai più piccoli, impegnati a nascondersi dietro ai 2711 blocchi rettangolari di cemento posti al centro di Berlino, che quel memoriale è stato edificato da Peter Eisenman in onore di tutti gli ebrei assassinati d’Europa? «La prima volta che ci portai mia figlia dodicenne», scrive Lowe, «non capì di cosa si trattasse. Il suo primo pensiero fu che fosse una sorta di enorme parco giochi: stava per arrampicarsi su uno dei blocchi e saltellare da uno all’altro, e si mortificò quando le spiegai perché sarebbe stato inappropriato». Più trascorrono gli anni, più la memoria, per essere condivisa, deve passare attraverso un cerchio di fuoco. Gli eroi non durano a lungo. Persino i martiri talvolta hanno qualcosa da nascondere. I mostri purtroppo ci aiutano ad alleggerire il peso della responsabilità. Le apocalissi ci ammoniscono sul prezzo della vittoria. Sotto ogni rinascita palpitano gli scheletri. Tutti abbiamo bisogno di una cornice mitologica per sognare un mondo nuovo.

La cultura siamo noi. Alessandro Bertirotti il 15 marzo 2021 su Il Giornale. È tutta questione di… umanità. La nostra mente è culturale e non può essere diversamente. Quando si parla di mente culturale si intende affermare che la logica della organizzazione della mente è basata sulla struttura della cultura. In altri termini, la mente (che come suo parente più tangibile possiede il cervello, per dirla con Gary Marcus) organizza i suoi contenuti in base alle categorie culturali. Anni di studi e di ricerche sistematiche consentono di asserire che l’Antropologia culturale è in grado di riconoscere e quindi utilizzare, in un modello cognitivistico, almeno 14 coordinate mentali (categorie della mente culturale), mediamente presenti nelle culture occidentali. Utilizzando questo apparato è possibile proporre un modello della organizzazione logica o struttura del patrimonio cognitivo e cioè mentale degli individui, come ha sostenuto Gavino Musio nei suoi scritti. Il termine categoria viene impiegato per indicare i significati ultimi e al più alto livello di astrazione, attribuibile a qualsiasi fenomeno od evento. Le categorie sono quindi regolative della logica della conoscenza. In questo senso esse provengono dalla osservazione dell’universo fisico e umano. Poiché sono categorie del mondo umano, esse sono categorie del modo di essere dell’uomo nel mondo. Questo modo di essere, in tutte le comunità dell’Uomo, si definisce cultura. Gli atteggiamenti, (intendendo per atteggiamento un modo stabilizzato e quindi interiorizzato di rispondere ad un evento-stimolo), risultano rivolti a 14 elementi, o categorie del reale. Ecco perché la cultura è un sistema di atteggiamenti normativi, nel senso che un atteggiamento, in quanto stabilizzato, regola comportamenti stabilizzati. Gli atteggiamenti, come sistemi normativi, costituiscono nel loro insieme ciò che i giuristi definiscono consuetudine. La consuetudine è una delle fonti primarie del Diritto, specie in alcuni ordinamenti giuridici, come quello romano o in quello inglese. Tuttavia non tutte le norme culturali possono tradursi in diritto codificato o positivo, bensì solo quelle riferibili ad atteggiamenti sociali. Nessuna legge può codificare l’invisibile rapporto uomo-territorio, ma può codificare invece il visibile modo di relazione interpersonale. Sulla base di queste considerazioni, penso che potremmo ben interpretare il periodo storico mondiale che stiamo vivendo.

Trasmettere cosa? Alessandro Bertirotti l'8 marzo 2021 su Il Giornale. È tutta questione di… prospettiva. Ho avuto modo di scrivere su quanto sia importante, per una società o gruppo etnico, organizzare al proprio interno un buon livello di integrazione socio-culturale. Uno dei meccanismi utilizzati da tutte le culture finora studiate e conosciute è quello della trasmissione culturale, ossia la tendenza a rimanere simile a se stessi da una generazione all’altra. La questione della trasmissione culturale è direttamente connessa alla possibilità che ogni essere umano possa adottare, durante il processo evolutivo, qualsiasi stile di vita futuro: non esiste in effetti questa possibilità, poiché anche nella trasmissione culturale risiede il germe cognitivo delle nostre scelte future. Ho utilizzato il corsivo per il termine “qualsiasi” perché non è in effetti possibile adottare uno stile di vita che non sia comunque ed in qualche modo accettato dalla cultura di appartenenza. La “formazione” di ogni individuo non è frutto di libere scelte educative, né frutto di un pensiero autonomo dell’educando. Ogni forma di educazione, o pedagogia alternativa, è sempre una “violenza sull’individuo”, ed è connaturata allo stesso concetto di educazione. Boris Porena rende bene questo paradosso epistemologico: “Pedagogia = guida del fanciullo acciocché diventi ciò che siamo noi (ciò che sono i migliori di noi), accetti come sua la nostra società, conosca, esperisca e scelga secondo le nostre modalità di conoscenza, esperienza e scelta, viva in sostanza una vita il più possibile simile alla nostra o a quella che avremmo voluto vivere. Il momento conservativo tende a farsi momento repressivo” (Porena B., 1975, Musica/Società. Inquisizioni musicali, Einaudi Editore, Torino). Quindi la crescita di ogni essere vivente è, sia in senso strettamente biologico sia in quello culturale, eterodiretta e non può essere altrimenti. Si acquisiscono e si sussumono modelli culturali specifici e tipici, perché si ritiene siano adatti alle diverse situazioni culturalmente apprese e, aspetto oltremodo importante, prevedibili. Un discreto grado di cognizione sulla prevedibilità è fondamentale al mantenimento sia dello status quo, che salvaguarda la trasmissione culturale, sia delle azioni legittime e rivolte alla programmazione progettuale dell’intera cultura. Ecco, proprio sulla base di queste significative considerazioni (mi riferisco a quelle di Boris Porena, ovviamente…), penso dovremmo riflettere sui tempi attuali; sulla crisi pandemica, come vera e propria occasione, per valutare attentamente il nostro passato, in vista del futuro dei nostri figli. E questa valutazione necessariamente prevede di considerare ciò che intendiamo per progresso, innovazione e conservazione.

·        Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

ODIO OSTENTAZIONE ED IMPOSIZIONE.

 

Michela Bompani per “Il Venerdì di Repubblica” il 16 novembre 2021. A destra l'ha chiamato un "Ddl Zan mascherato" che punta a introdurre, nuovamente, il concetto di "identità di genere". Così a Palazzo Madama, il 4 novembre, il dl Infrastrutture, Trasporti e Mobilità ha scatenato la bagarre. Tanto che il governo ha dovuto mettere la fiducia, intascando un risultato tondo: 190 sì e 34 no. Le polemiche che ne sono seguite hanno però "nascosto" il varo di un provvedimento importante: quello che vieta i manifesti sessisti, discriminatori e violenti lungo le strade o negli spazi pubblicitari sui mezzi pubblici. Ed è solo l'inizio, perché si sta preparando un testo analogo, per vincolare i contenuti audio-televisivi, intervenendo sulla Legge Gasparri. Si attendeva da tempo una norma che facesse argine ai messaggi promozionali che sfruttano il corpo delle donne. A rimediare ci hanno pensato la presidente della Commissione Trasporti alla Camera, Raffaella Paita, Iv, e quella della Commissione Ambiente alla Camera, Alessia Rotta, Pd, che hanno proposto un emendamento ad hoc. «Troppo spesso le pubblicità utilizzano messaggi che mortificano le donne o sono discriminatori» dice Rotta. «È il momento di dire basta e di promuovere una cultura del rispetto di tutti gli individui». Nella sezione che modifica il Codice della Strada, infatti, si introduce «il divieto di qualsiasi forma di pubblicità, su strade e veicoli, avente contenuto sessista, violento, offensivo o comunque lesivo dei diritti civili, del credo religioso e dell'appartenenza etnica ovvero discriminatorio». Per chi sgarra sono previste la revoca dell'autorizzazione della pubblicità e la rimozione. «Abbiamo introdotto un vincolo normativo a tutta la categoria della cartellonistica fissa e mobile» spiega Paita. «È stata definita anche la responsabilità di chi gestisce gli spazi stradali: la Provincia, il Comune, il concessionario autostradale o Rfi». Da oggi, quindi, i Comuni possono contare su una norma nazionale e non più su singoli provvedimenti autonomi, spesso vanificati da ricorsi vari. Per l'entrata in vigore del divieto di pubblicità sessiste servirà un decreto attuativo del governo. Lo sta preparando, per vararlo entro dicembre, la ministra delle Pari Opportunità, Elena Bonetti.

Da “Libero Quotidiano” il 10 novembre 2021. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha istituito la figura dell'inviato speciale del ministero degli Affari esteri per i diritti umani delle persone Lgbtiq+. A svolgere questo ruolo sarà il diplomatico Fabrizio Petri, attuale presidente del Comitato interministeriale per i diritti umani (Cidu), designato oggi dal segretario generale della Farnesina, ambasciatore Ettore Francesco Sequi. Petri sarà chiamato a coordinare l'azione della Farnesina per la tutela e promozione dei diritti delle persone Lgbtiq+, favorendo la più ampia decriminalizzazione dell'omosessualità nel mondo.

Daniele Priori, Segretario nazionale GayLib, per “Libero Quotidiano” il 10 novembre 2021. Gay e missionario. Il M5S che ha in testa Vincenzo Spadafora, già sottosegretario alle Pari Opportunità nel governo pentaleghista e poi ministro dello Sport nell'esecutivo pentapiddino, sposa con spirito critico e una dialettica intensa il «campo progressista» nel quale lui in persona e a mezzo stampa (anzi libro più tv) si lancia e autopromuove con coraggio e entusiasmo come profeta del politicamente corretto, indiscusso e a tutti i costi. Lo fa attraverso le pagine della sua nuovissima fatica letteraria: Senza riserve, appena edito da Solferino. Come cassa di risonanza non casuale sceglie uno dei templi televisivi del politically correct: la messa laica domenicale di Fabio Fazio su Rai 3. Un campo nel quale, sulle orme di altre celebri profetesse - dalla Boldrini alla Boschi - essere, ovvero identificarsi (meglio se in una minoranza), vale decisamente come valore aggiunto, a tal punto da poter mettere tra parentesi anche le capacità o le conoscenze. In fondo fu proprio Spadafora, lasciando l'incarico ministeriale, a dichiarare di aver conosciuto davvero l'ambito e le dinamiche sportive solo facendo il viceministro, tornando poi ripetutamente pure a spiegare il senso di tale affermazione, a suo dire giustificativa di una pretesa terzietà, tesa a favorire di fatto l'autonomia di pensiero del ministro stesso. (Sic!) Oggi, però, il vento dev'essere evidentemente cambiato e, in barba alla terzietà, la missione "omosessualista" la capisce, la racconta e la usa in prima persona come arma di scontro politico, proprio perché lui per primo la vive dal di dentro. Commozione e applausi. In questo caso, dunque, tertium non datur. Perché il brusio alle spalle di un omosessuale velato o anche solo mezzo dichiarato, peggio se pure parlamentare, a un certo punto diventa insopportabile. E poco importa, dunque, se il ddl Zan è stato affossato proprio in quello stesso campo progressista-buonista-politically correct. L'icona da seguire in materia di diritti (più editoriali che civili) è proprio il relatore del testo di legge contro l'omotransfobia, Alessandro Zan, che ha scelto di affiancare, anche lui, alla sua battaglia politica pure una bella tournée di presentazioni in libreria tendenzialmente autobiografiche. Missionari loro. Gay impegnati che, legittimamente, si preparano ormai a una prossima rielezione... ovviamente in quota gay. Zan nel Pd che lo rende suo malgrado martire. Spadafora nel M5S, gruppo che nel 2016, animato dal sacro fuoco del purismo pro adozioni gay, non votò il testo finale della legge Cirinnà sulle unioni civili, portatrici, quelle sì, di diritti civili veri a tante coppie omo-normali, anche non famose. Roba da far rimpiangere il primogenito gay grillino per eccellenza, l'ex gieffino Rocco Casalino che almeno il suo coming out l'ha fatto, ma almeno senza la coperta di Linus dell'impegno politico-frocio-progressista. Di Rocco semmai divennero ben più famose le video-gaffe grossolane sugli afrori tre volte diversi degli omosessuali «poveri e rumeni dal profumo agrodolce». E chissà quanto è casuale, allora, anche il fatto che, a finire nel mirino finto-buonista di Spadafora, c'è proprio la comunicazione del M5S, il cui vate, fino a prova contraria, nell'era pre-Draghi è stato proprio Casalino. La guerra nel M5S si fa cupa e anche gli arcobaleni, a fronte del loro altro ruolo pacifista, diventano armi contundenti. E mentre al povero Giggino Di Maio è toccato difendersi, ospite di Lilli Gruber, dall'accusa di dichiarata eterosessualità, al nuovo leader M5S, Giuseppe Conte, non resterà che chiamare a raccolta le sue fan più indefesse: le famose bimbe di Conte, possibilmente armate di borsette aguzze da utilizzare in difesa della virilità del maschio grillino eterosessuale, non più così di moda da quelle parti.

Mentalità e leggi. I diritti Lgbtq in Italia dal delitto di Giarre a oggi (passando per il ddl Zan). Linkiesta  il 13 novembre 2021. Sul palco de Linkiesta Festival si confrontano Francesco Lepore, autore de “Il delitto di Giarre” (Rizzoli) e il deputato e sottosegretario Ivan Scalfarotto, moderati da Simonetta Sciandivasci. Dal 1980 a oggi, dal delitto di Giarre fino al ddl Zan. Il percorso dei diritti Lgbtq e la lotta per rivendicarli è stato lungo, accidentato e – va detto – imperfetto. Ma qualcosa è avvenuto, anche se ancora molto è da fare. L’importante è capire la prospettiva – e la strategia – migliore da adottare. Ne hanno parlato dal palco di Linkiesta Festival il giornalista Francesco Lepore, autore del libro “Il delitto di Giarre” (Rizzoli) e l’onorevole Ivan Scalfarotto, moderati dalla giornalista Simonetta Sciandivasci. Tutto comincia dall’inizio, cioè dal caso dell’uccisione di Toni e Giorgio. I due ragazzini gay trovati assassinati – è il 1980 – nella provincia di Palermo. È una storia importante perché, per la prima volta, viene trattata dalla stampa «non come un episodio sordido di ambienti loschi, ma come un delitto omofobo». In reazione al caso viene fondato Arcigay a Palermo e comincia la stagione delle battaglie per i diritti degli omosessuali. È un momento fondante, insomma. «Il libro nasce da un articolo che ho scritto su Linkiesta», spiega Lepore. «Per scriverlo ho compulsato i documenti e gli articoli del tempo», ma è anche andato sui luoghi, ha sentito i parenti e le persone coinvolte nella storia. «La versione ufficiale fu quella di un omicidio compiuto da un infraquattordicenne, il cuginetto di uno dei due fidanzatini, che li avrebbe uccisi su loro richiesta perché non riuscivano a sostenere la loro condizione». La realtà è diversa: «Dopo molta fatica, la sorella di Toni mi ha spiegato che i veri assassini erano dei familiari. Ora morti. Per cui si può dire che si era trattato di un delitto d’onore, fatto per lavare l’onta» di una cosa vergognosa. Il fascicolo del processo è andato perduto, e «le indagini erano durate soltanto tre giorni». Insomma, «Lotta Continua aveva scritto che “Toni e Giorgio” erano rimasti senza giustizia. Io spero di aver reso loro giustizia». Il pensiero non può non andare – e viene portato da Simonetta Sciandivasci – al presente e al recente fallimento della ddl Zan. Sul tema c’è Scalfarotto, finito nel mirino delle contestazioni perché Italia Viva viene considerata, a torto o a ragione, tra i responsabili del naufragio della legge. «Una delle cose più interessanti del libro di Lepore – spiega Scalfarotto – è l’affresco di un’Italia e di una Sicilia che, per fortuna, non è più quella attuale. Il Paese in 40 non è più lo stesso. È diventato più corretto, più educato. Io ho un marito e lo posso presentare ai commensali di una cena, senza problemi. Nel 1975 il nuovo diritto di famiglia stabilisce la parità tra i coniugi, avendo rivoluzionato secoli di idee e abitudini». Tutto questo, sottolinea «è il frutto dell’approccio del riformismo. Dei piccoli passi verso l’obiettivo. Ti carichi il peso di un cambiamento, accettando leggi imperfette, in vista di un miglioramento progressivo continuo». Non viene fatta la rivoluzione (servirebbe?) ma viene migliorata la società per tutti. Il principio è quello del compromesso. «Voi rinuncereste a una legge solo perché è imperfetta? Io mai». Sul punto specifico del ddl Zan: «Italia Viva non ha cambiato idea», dice Scalfarotto. Ma non si può ragionare solo sui principi, serve farlo anche sulla strategia. «I numeri alla Camera e al Senato sono diversi. Servono tattiche diverse». La legge era andata avanti in Commissione solo grazie a un voto. Viene portata in aula con una forzatura, le destre chiedono di riportarla in Commissione e la proposta non passa – a voto palese – solo per un voto. «Questo vuol dire che a scrutinio segreto va sotto di 40, è una cosa che sa chiunque sia stato anche solo una settimana in Parlamento». Scegliere di farlo, insomma, è una scelta suicida «che rivela non la volontà di far passare una legge, ma di cercare una battaglia». Un’operazione «cinica, fatta da chi aveva un pelo sullo stomaco che ci si possono fare le trecce», spiega Scalfarotto. «I militanti Lgbt fanno benissimo ad avere l’asticella alta, e mi aiutano per rappresentarli nelle battaglie che faccio da parlamentare». Ma quando serve un compromesso, occorre avere spazio di manovra. Altrimenti non fai il parlamentare ma fai il militante: «Il problema è che chi ha gestito questa legge ha fatto militanza. Monica Cirinnà lo ha detto: “andremo in aula a cercare la bella morte”». Resta il fatto che le leggi sono una cosa, la realtà un’altra, e l’orizzonte della politica un’altra ancora. «È vero che non siamo più nel 1980», concede Lepore, «ma la mentalità stereotipica, violenta contro gli omosessuali (e non solo) c’è ancora. I casi continuano a essere riportati, sono in aumento. Nel caso specifico del delitto di Giarre, le famiglie continuano a parlarne come se i ragazzi non fossero omosessuali. Il parroco del paese, che voleva fare un funerale congiunto – cosa che venne rifiutata perché i familiari non erano d’accordo – è lo stesso che sosteneva che, in fondo, i gay cercano comunque di adescare gli altri. Questa convinzione la si ritrova, anche oggi, in ambienti di destra che pensano di poter “rieducare” i gay, di guarirli. La mentalità c’è ancora». Sul caso Zan «tutti hanno avuto colpe». Ma per Lepore l’accusa più ingiusta e fastidiosa l’accusa che fosse una legge che non estendeva diritti, ma stabilva pene. «A parte l’infelice articolo iniziale definitorio», c’era solo un articolo penale. Tutti gli altri, anche piccoli, erano diritti. Qui si arriva insomma al punto, come lo riprende Sciandivasci: le leggi hanno importanza sul piano culturale? Lei stessa ha ammesso di aver cambiato idea sul tema del femminicidio, definizione che all’inizio le appariva superflua e pretestuosa (perché distinguere l’uccisione di una donna rispetto a quella di un uomo?). Dietro alla legge c’è un pensiero, la volontà di cambiare mentalità. Vale anche per il ddl Zan. «Io penso che sia importante fare coming out. In Parlamento sono raddoppiati i gay dichiarati: da 3 a 5», ricorda con sarcasmo. Che mi risulti io sono l’unico a essere entrato al governo già da gay dichiarato». Ma la lotta per i diritti passa anche per i provvedimenti che aiutino le persone, per i modelli d chi è più o meno svantaggiato (come ha fatto Spadafora), non solo per le leggi. I temi sono tanti: non può non toccare il tema del femminismo (classico vs intersezionale), una divisione che è nata discutendo proprio sul ddl Zan e la possibilità di autodefinire la propria sessualità, né si omette la questione dei transessuali. Si fa il punto dello stato dei diritti in Italia, insomma, e se ne discutono le direzioni. A 40 anni dal delitto di Giarre qualcosa è cambiato, molti passi sono stati fatti, tanti altri servono ancora. La battaglia continua, insomma. E il libro di Lepore (andrà nelle scuole?) è uno dei tanti passaggi di questa storia.

Flavia Amabile per "La Stampa" il 5 novembre 2021. Identità di genere. Sono tre semplici parole ma hanno il potere di creare tempeste. La destra le detesta. Se potessero i cattolici più conservatori e i movimenti per la vita le cancellerebbero da ogni documento ufficiale. Con loro enorme sconcerto sono riapparse in un provvedimento diventato legge. Ieri pomeriggio l'Aula del Senato ha approvato in via definitiva il decreto Infrastrutture e Trasporti nonostante Lega, Fratelli d'Italia e le associazioni per la vita da giorni stessero provando a attirare l'attenzione su un punto del provvedimento, dal loro punto di vista una pericolosa minaccia. È il comma 4 bis dell'articolo 1 introdotto con un emendamento approvato alla Camera, che stabilisce il divieto con affissione sulle strade ma anche su mezzi pubblici o su mezzi privati di pubblicità che abbiano contenuti con «messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell'appartenenza etnica oppure discriminatori con riferimento all'orientamento sessuale, all'identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche». Sono lì le tre discusse parole che la destra non tollera, in un emendamento firmato dalle deputate Raffaella Paita di Italia Viva e Alessia Rotta del Pd, approvato dalla Camera senza alcun problema e poi in Senato con un voto di fiducia. Un paradosso se si pensa che una settimana fa Italia Viva e Pd si sono divise in Senato sul ddl Zan e sull'identità di genere contenuta nel provvedimento, come non mancano di far notare da destra. «Come è possibile - chiede Lucio Malan, senatore di Fratelli d'Italia - che in un decreto riguardante gli investimenti e la sicurezza delle infrastrutture, trasporti e circolazione stradale, sia stata inserita una norma ideologica, volta a limitare la libertà di espressione, con il pretesto che l'esercizio di questa libertà non può avvenire sulle strade e sui veicoli? Una cosa assolutamente inaccettabile, introdotta di soppiatto». «Sarà ancora possibile affermare in una pubblicità che i bambini sono maschi è le bambine sono femmine? Che un bambino nasce da una mamma e un papà?», chiede Antonio Brandi, presidente di Pro Vita & Famiglia. «L'identità di genere non è entrata con il cavallo di Troia del ddl Zan e ora surrettiziamente il Governo ci riprova inserendola in questa norma sotto la foglia di fico, come al solito, delle discriminazioni» aggiunge Jacopo Coghe, vicepresidente della Onlus. Polemiche a cui Raffella Paita risponde con decisione. «L'emendamento è il frutto di un lungo lavoro trasversale che permette di dare un valore sociale a questi temi», spiega. E accetta solo in parte il riferimento al ddl Zan. «In quel caso l'identità di genere era declinata in varie forme al contrario di quanto accade nel nostro emendamento. Aver proposto e fatto approvare la modifica però è la dimostrazione che la forza politica che esprimo cerca di dare una mano sul tema dei diritti civili e che le battaglie in solitudine frenano il progresso. Bisogna lavorare con una logica di tessitura per aiutare chi subisce discriminazioni».

L'ideologia di pochi sull'omofobia. Karen Rubin il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. La sconfitta sul disegno di legge Zan dovrebbe insegnare alla sinistra non soltanto la necessità di un confronto tra i suoi parlamentari ma soprattutto quello con la realtà culturale degli italiani che vorrebbe rappresentare. La sconfitta sul disegno di legge Zan dovrebbe insegnare alla sinistra non soltanto la necessità di un confronto tra i suoi parlamentari ma soprattutto quello con la realtà culturale degli italiani che vorrebbe rappresentare. Il relatore e i suoi supporter hanno sostenuto si trattasse di una legge a tutela delle persone che subiscono discriminazione omotransfobica, accusando i detrattori di essere contrari alla difesa di omosessuali e transessuali. Pensavano che agli avversari sarebbe sfuggita la portata dei significati contenuti nell'articolo 1 che definisce l'identità di genere come l'identificazione percepita e manifestata di sé, anche se non corrispondente al sesso biologico. La disputa in corso riguarda l'eliminazione o la conservazione di un modello binario, culturalmente diffuso, che prevede l'associazione tra sesso anatomico e identità sessuale. Finanche una parte della stessa sinistra non ha visto civilizzazione ma caos nella spinta alla liquidità sessuale verso cui vorrebbe andare, anche attraverso Zan. Normalizzare la possibilità di vivere in società nei panni del sesso opposto perché ci si percepisce soggettivamente così, senza una diagnosi di disforia di genere e un supporto medico e psicologico crea confusione identitaria e favorisce l'instabilità delle persone, soprattutto degli adolescenti che ancora sono alla ricerca della loro identità. Con il disegno Zan la sinistra ha fatto lo stesso tentativo già provato con la legge sulle unioni civili, che comprendendo la stepchild adoption, poi stralciata, apriva le porte all'utero in affitto, nel nostro paese illegale. Se avessero stralciato l'articolo 1 con molta probabilità la legge Zan sarebbe stata approvata e invece prepotentemente e in contraddizione con i valori ancora prevalenti nella società voleva imporre una visione di un gruppo sparuto di potere, che questo potere si è dimostrato non possedere. La legge deve ispirarsi all'insieme di valori, tradizioni e costumi di una società, ai suoi modelli etici e alle regole di comportamento caratteristiche dei luoghi in cui si legifera. Quando gli italiani hanno voluto le leggi sul divorzio e sull'aborto le hanno ottenute nonostante i veti religiosi ma ora a quanti di loro alletta l'idea di eliminare i simbolici madre e padre per trasformarli in genitori asessuati da chiamare uno e due? Quanti sono ad approvare l'utero in affitto per creare in laboratorio un bambino da vendere al miglior offerente anche se sarà un uomo che lo priverà della madre? Le leggi che riguardano gli archetipi dell'umanità devono tener conto di strati ampi di popolazione e non delle ideologie di pochi usate strumentalmente a scopi elettorali. Karen Rubin

Gli omofobi Rossi. Fausto Carioti per "Libero quotidiano" l'1 novembre 2021. L'odio di Fidel Castro per gli omosessuali è cosa nota. Lui stesso ammise le proprie colpe nel 2010, quando era troppo tardi e mille testimonianze lo avevano già condannato. Tra queste c'è il libro di Felix Luis Viera, Il lavoro vi farà uomini, che racconta la vita nelle Umap, i gulag cubani nei quali, a decine di migliaia, maricones ed effeminati sono passati assieme a dissidenti, seminaristi cattolici e altre «piaghe sociali» non tollerate dal regime. Soprattutto, c'è il racconto che Valerio Riva, lì presente, ha fatto della conversazione che il compagno Fidel ebbe a Cuba nel marzo del 1965 con Giangiacomo Feltrinelli. Una sera, a cena, l'editore gli chiese perché perseguitasse gli omosessuali. Tra i commensali calò il gelo. Castro, racconta Riva, «disse qualcosa come "è un bello sfacciato questo Giangiacomo!", accese un sigaro e prese lentamente a dire che all'origine c'erano stati problemi in certe scuole, che dei genitori avevano protestato, che in fondo bisognava capirli, l'idea di mandare un figlio a scuola e vederselo tornare frocio non garberà a nessuno. Disse che lui non aveva proprio niente personalmente contro gli omosessuali, purché non pretendessero di far proseliti. Se gli tirava il culo, problemi loro... Lo Stato, la Rivoluzione non poteva certo permettere la corruzione di minorenni...». C'è però un'altra vicenda, molto meno conosciuta, che ha per protagonisti Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Dacia Maraini. È emersa solo di recente, grazie a Paragone, raffinata rivista fiorentina di arte e letteratura fondata da Roberto Longhi. È la "vera" storia del viaggio di Moravia a Cuba. O comunque "un'altra" storia, diversa che da quella che si sapeva.

LA VERSIONE UFFICIALE... Sinora, c'è stata solo la versione di Moravia. Ad Alain Elkann che lo intervistava (Vita di Moravia, 1990), la raccontò così: «Fui invitato a Cuba nel 1966 alla Conferenza tricontinentale e ci andai con Dacia Maraini. La conferenza si occupava principalmente, almeno per quanto mi sembrò di capire, di questioni politico-militari. Era cioè una conferenza che lasciava indovinare nelle grandi linee quello che sarebbe stato l'intervento armato di Cuba in tante parti del mondo del futuro». Lui e la Maraini ebbero due incontri con Castro, uno pubblico e uno privato, «brevissimo». Quanto basta perché Moravia s' invaghisse del dittatore, «un ottimo oratore, pieno di calma e ragionevole autorità». «Come con Arafat e con Tito», rivelò a Elkann, «ho avuto simpatia per lui, perché ho sentito in lui l'uomo d'azione. Anzi, in quel momento lui rappresentava l'uomo d'azione per eccellenza, in quanto la rivoluzione culturale capovolgeva la credenza "veteromarxista" che il pensiero deve precedere l'azione. (...) Il fare cambia il mondo. La parola, se non diventa a sua volta fatto, non cambia nulla». Non una parola né un fatto, però, vennero da Moravia sugli aspetti più infami di Castro e della sua dittatura. Eppure, l'autore de Gli indifferenti questi aspetti li conosceva molto bene. Perché pochi giorni prima, a pagarne il prezzo, era stato il suo amico Pasolini. Il «pervertito» Pasolini. È qui che le pagine di Paragone scritte da Francesco Rognoni gettano una luce diversa su Moravia e sul suo resoconto di quei giorni all'Avana. La rivista pubblica un assaggio del carteggio che lo scrittore "irregolare" Nicola Chiaromonte, socialista libertario, ebbe con la scrittrice statunitense Mary McCarthy, alla quale era legato. Chiaromonte era molto amico di Moravia e della Maraini, e in una lettera che inviò alla McCarthy nel febbraio del 1966 le riporta questo aneddoto, stranamente sfuggito a tutti i biografi: «Ti racconto una storia divertente. Quella del viaggio di Moravia a Cuba. A dicembre, Moravia voleva farsi una vacanza con Dacia in Marocco. E dato che, per ragioni sue, sembra non sia capace di viaggiare senza Pasolini, gli ha chiesto di unirsi a loro. Pasolini ha detto che no, lui andava a Cuba. A Moravia l'idea di Cuba non piaceva per niente: voleva solo farsi una vacanza, e andare a Cuba era un gesto politico, dato che non ci si può andare se non in qualità di ospiti del Governo innanzitutto. Quindi ha provato a far ragionare Pasolini. Niente da fare. O Cuba o niente. Moravia, che è un bravo ragazzo, alla fine si è arreso ed è andato all'ambasciata di Cuba a chiedere il visto. Che, naturalmente, gli hanno servito su un piatto d'argento. Così si è preparato al viaggio. Ma da parte di Pasolini, silenzio. Alla fine Moravia l'ha chiamato per chiedergli se era pronto anche lui. Pasolini ha detto "No", gli avevano negato il visto perché notoriamente omosessuale: a Cuba l'omosessualità è un reato penale. Moravia si è arrabbiato doppiamente, è tornato all'ambasciata cubana a protestare, a chieder anche lui il visto per Pasolini ("Dopo tutto, è un grande scrittore, eccetera..."). Niente da fare. Impossibile lasciar entrare a Cuba un notorio pervertito. E così Moravia è andato a Cuba (dove mi si dice che il 15% della popolazione sia omosessuale, a cominciare da Castro) solo con Dacia. Dove è stato accolto benissimo, e oltretutto non ha dovuto spendere un centesimo. Ma Pasolini è rimasto a Roma (o forse è andato in Marocco, non so)». ...

E L'ALTRA Secondo la versione di Chiaromonte, dunque, Moravia non era stato «invitato» dal regime ad assistere alla Conferenza tricontinentale, che si era tenuta all'Avana dal 3 al 16 gennaio del 1966. L'idea di andare sull'isola era stata di Pasolini, e Moravia aveva chiesto il visto con l'intento, meravigliosamente borghese, di farsi una vacanza al sole dei Caraibi assieme alla Maraini. Ma il poeta e regista bolognese era stato umiliato dal governo di Castro, che gli aveva negato l'accesso in quanto «pervertito». E quando Moravia capì che le proteste con l'ambasciata cubana non avrebbero rimosso quel veto vergognoso, anziché denunciare la vicenda (per difendere almeno il suo amico, se non l'intera categoria degli omosessuali), o comunque cambiare meta sdegnato, lui, il più influente degli intellettuali italiani, scelse il silenzio e l'aereo che lo portò all'Avana. Dove, assieme alla sua compagna, fu accolto con tutti gli onori e non dovette «spendere un centesimo», ospite di Castro. E da dove tornò colmo di pensieri buoni per il líder máximo. Del tutto indifferente- è il caso di dirlo- al modo in cui costui aveva trattato il povero Pasolini e calpestava i diritti dei «pervertiti». E un giorno, chissà, magari sapremo pure se le voci sull'omosessualità nascosta del macho Castro, riferite dal serissimo Chiaromonte («Austero cavaliere», lo chiamava la McCarthy), fossero calunnie o verità.

La bocciatura del ddl Zan. Ddl Zan: bene i diritti Lgbt, ma nella legge alcune ombre. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 4 Novembre 2021. Sulla vicenda del ddl Zan esiste una interpretazione del tutto diversa da quella espressa da Bertinotti e da Schillaci sia per ciò che riguarda la ricostruzione dei fatti svoltisi al Senato sia sul merito. Indubbiamente la parte più oltranzista della destra era ed è contraria alla legge nel suo complesso. Invece tutto diverso è il discorso per quello che riguarda un’altra parte della destra, il centro costituito da Forza Italia e anche tutti coloro che in Italia Viva, nel Pd, nel M5s erano e sono del tutto d’accordo sull’aumento della tutela giuridica a gay, lesbiche, trans e invece sono contrari al comma d) sul gender, all’art.4 sul potere dei magistrati, all’art.7. Per fare un esempio in un’altra legislatura, quando si è discusso di unioni civili il sottoscritto si è pronunciato in aula a favore dei matrimoni fra persone dello stesso sesso, ma se adesso fosse stato in Parlamento si sarebbe pronunciato contro questi tre aspetti della legge. Luca Ricolfi in un articolo sul Messaggero ha fornito un elenco di tutti coloro, persone e associazioni che contestano alcuni aspetti della legge non essendo né omofobi, né fascisti secondo il consueto stalinismo di ritorno messo in campo da un pezzo della sinistra. Stando a Ricolfi si sono pronunciati in questo senso l’Udi, Se non ora quando, Radiem, Arcilesbica, 300 gruppi riuniti sotto la sigla WHRC, la cui rappresentante italiana è Marina Terragni. Come persone Ricolfi ha ricordato Stefano Fassina, Paola Concia, Marco Rizzo, Mario Capanna. Alla luce di ciò che abbiamo ascoltato in televisione aggiungiamo Scalfarotto e il sen. Cerno che non ha partecipato alle votazioni. Veniamo agli aspetti di merito. Sul comma d) dell’art. 1, quello che punta a introdurre la tematica gender nella nostra legislazione, Francesca Izzo, femminista ed ex parlamentare dei Ds, ha spiegato le ragioni del dissenso: «l’autodefinizione del proprio genere, indipendentemente dal sesso, ha l’effetto di mettere in discussione il rapporto che tutto il nostro ordinamento ha con il genere, è la rottura del legame tra sesso e genere e questa cosa fa sì per esempio – come avviene nei paesi anglosassoni dove sul punto si è andati più avanti e si prova a tornare indietro proprio per gli effetti che provoca – che se io dico di essere donna e che invece un transgender non è una donna come me rischio di essere accusata di transfobia. E la neolingua che viene introdotta mi impone di dire che sono una cisgender o persona con la vagina. Non posso chiamarmi donna». Tutto ciò negli Usa e in Inghilterra sta avendo conseguenze disastrose: una scrittrice come la Rowling che ha rivendicato la sua femminilità è stata attaccata duramente e centinaia di professori-esse e giornalisti-e, di operatori e operatrici culturali sono stati perseguitati e licenziati sulla base di questa teoria gender che si sta estrinsecando come una pericolosa operazione autoritaria. Per ciò che riguarda l’art.4 noi non affideremmo mai a giudici come Davigo, Caselli, Di Matteo la facoltà di decidere sulla libertà di opinione riguardante questa tematica. Facciamo due esempi, uno riguarda la tematica sollevata da Francesca Izzo, l’altra riguarda le valutazioni sull’utero in affitto. Ad esempio il sottoscritto è radicalmente contrario sull’utero in affitto, reputa che esso è la forma più abietta e più invasiva di sfruttamento su una donna da parte di uomini ricchi. Con questa legge non c’è nessuna garanzia che se ci si esprime su questa tematica non si va a giudizio per omofobia. Infine anche il tentativo di coinvolgere i bambini in predicazioni a senso unico su una tematica assai delicata suscita perplessità. Questo è il quadro, Enrico Letta sapeva benissimo qual era la situazione all’interno del suo stesso gruppo e a quello dei grillini, a parte Forza Italia e Italia Viva. Poi quando c’è un voto a scrutinio segreto su una tematica così delicata che travolge qualunque disciplina di gruppo o di partito bisogna essere sempre assai cauti. Non a caso subito prima della discussione in Senato Enrico Letta aveva espresso la disponibilità a trattare, che poi il gruppo del Pd si è rimangiato sapendo bene i rischi che correva. Allora nessuno può cambiare le carte in tavola, da nessun punto di vista, né da quello riguardante i lavori del Senato, né sul merito. Chi si permette di affermare che chi dissente da quei tre punti è omofobo e fascista è semplicemente un piccolo stalinista di ritorno. Poi se Enrico Letta ha colto questa occasione per espellere finalmente Italia Viva dall’area del centrosinistra regolando un conto aperto dal 2014 questo ci sembra un gioco molto spericolato su cui per altro verso ha detto cose assai convincenti Michele Prospero quando ha rilevato sul Riformista dell’altro ieri che con il risentimento il Pd non va lontano. Francamente non capiamo come Enrico Letta può pensare di giocare la partita della presidenza della Repubblica scomunicando Forza Italia e Italia Viva. Francamente ci sembra una tattica suicida. Fabrizio Cicchitto

DDL ZAN: MARCUCCI, BENE PRODI, ANCH'IO NON VOLEVO INCIDENTE. (ANSA l'1 novembre 2021) - "Condivido in pieno le parole che ha usato ieri sera Romano Prodi da Fabio Fazio sul ddl Zan. È esattamente la mia posizione, io volevo in tutti i modi la legge e volevo evitare l'incidente". Lo afferma il senatore del Pd, Andrea Marcucci.

LA STRIGLIATA DI PRODI A LETTA: «IL DDL ZAN? SI POTEVA SALVARE: HANNO CERCATO L’INCIDENTE». Giovanni Ruggiero per open.online l'1 novembre 2021. Tra i responsabili dell’affossamento del Ddl Zan secondo Romano Prodi c’è anche il Pd di Enrico Letta. Perché spiega l’ex premier sarebbe stato: «molto facile fare piccole modifiche, anche verbali – ha detto ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa – ma si è voluto strumentalizzare il tutto». Dal fondatore dell’Ulivo a cui lo stesso Letta dice di ispirarsi arriva insomma una ferma bocciatura su come la trattativa sia stata gestita, con il Pd fino all’ultimo irremovibile su ogni tipo di modifica, e infine la famigerata «tagliola» finita con l’affossamento appunto dopo il voto segreto: «Se uno vuole riformare quei piccoli aspetti della legge su cui si discuteva, bisognava andare caso per caso – ha detto Prodi – e si trova l’accordo». Una volontà che lui stesso sospetta non deve esserci mai stata: «Col voto segreto si voleva creare “l’incidente” e l’incidente c’è stato». Soprattutto con i renziani di Italia viva, additati come i principali franchi tiratori del disegno di legge. Alla fine, in quella: «prova di forza ha vinto la destra» ha aggiunto Prodi che ha criticato anche il comportamento di Forza Italia e Silvio Berlusconi: «che su queso tema si è un po’ appiattito». Per quanto, ha ammesso ancora Prodi, il Cav ha preferito tutelare gli equilibri interni nella sua coalizione: «Un comportamento razionale».

Sabrina Cottone per "il Giornale" il 3 magio 2021. «Come mi sono sentito? Stupito e arrabbiato, preso di mira di fronte a milioni di italiani mentre guardavo la tv con mia moglie e i miei figli» ricorda Jacopo Coghe, vicepresidente di Pro Vita e famiglia, uno dei bersagli di Fedez, reo di essere «ultracattolico e antiabortista» oltre che contrario al ddl Zan. Un' infinità di follower, un milione e mezzo di spettatori del Concertone.

Altri sarebbero stati contenti di essere citati.

«Francamente no, non era un encomio e le modalità mi hanno fatto arrabbiare. Non è la prima volta. Su Instagram mi aveva deriso con una foto con sopracciglia arcobaleno, scatenando gli haters. Fedez non è responsabile del singolo ma i suoi followers hanno scritto che starei bene appeso a testa in giù. Chi si comporta così può sembrare un bullo».

Che cosa si aspetta da Fedez e dalla Rai?

«Di avere la possibilità di rispondere a Fedez e di confrontarmi con lui. Ritengo gravissimo che abbia fatto un discorso politico in diretta, su una tv pubblica, pagata da tutti noi contribuenti, senza contraddittorio. Dopo le blasfemie di Sanremo penso che la Rai ci debba spiegazioni e che la maggioranza degli italiani siano stanchi».

In verità chiedono le dimissioni dei vertici per aver tentato di censurare Fedez. Non vede anche questo rischio?

«Ha travalicato con i toni. La sostanza è che per la Festa del lavoro un rapper milionario che fa le pubblicità per Amazon non ha parlato delle difficilissime condizioni dei lavoratori e del dramma per le famiglie causato dalla pandemia, ma si è messo a promuovere il ddl Zan come uno smalto collezionando dichiarazioni che non c' entrano con la legge. Così si denigra l' avversario e se la pensi diversamente non hai diritto di parola».

Vuol dire che siete una sparuta minoranza? Eppure avete testimonial come la Rowling.

«No, siamo una maggioranza silenziosa, anzi silenziata, perché il mainstream la pensa diversamente. Quando la Rowling si è espressa è stata massacrata. Al ddl Zan si sono detti contrari il mondo femminista con Marina Terragni, i Verdi, Marco Rizzo di Comunisti italiani, liberali come Cruciani, tutte persone non assimilabili a noi. Se c'è un parterre contrario di persone di diversi mondi qualcosa va discusso».

Lei si definisce un ultracattolico come ha detto Fedez?

«Credo di essere un semplice cattolico. Anche il Papa ha parlato più volte del gender come uno «sbaglio della mente umana» e nell' articolo 1 si parla di identità di genere».

Fedez l'ha definita anche antiabortista.

«Con le loro ecografie, Fedez e la moglie hanno seguito passo passo la gravidanza dei loro bambini. Come si fa poi a definirli un grumo di cellule?».

Che cosa vorreste cancellare del ddl Zan?

«Per noi non è emendabile. Il succo è che se mi percepisco donna devo avere tutti i diritti: entrare in un bagno delle donne, gareggiare nello sport con le donne. L'autopercezione dell'identità di genere del sé sostituisce il sesso biologico. E poi spetta ai genitori il diritto di priorità educativa e la Giornata contro l'omofobia fa entrare il gender nelle scuole di ogni ordine e grado».

Ma se tante persone chiedono maggiore tutela legislativa, un motivo ci sarà. Non pensa che le aggressioni siano frequenti?

«Le leggi già esistenti sono sufficienti: giustamente hanno garantito e garantiscono pene molto alte».

Da "il Giornale" il 3 magio 2021. Il ddl Zan (già approvato alla Camera) ha come obiettivo «prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull' orientamento sessuale, sull' identità di genere e sulla disabilità». Introduce il carcere fino a 18 mesi o multa fino a 6.000 euro per chi istiga a commettere o commette tali atti di discriminazione; il carcere da 6 mesi a 4 anni per chi istiga a commettere o commette violenza per gli stessi motivi; la reclusione da 6 mesi a 4 anni per chi partecipa o aiuta organizzazioni aventi tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza. Istituisce centri antiviolenza. Vediamo i principali punti contestati, a partire dal timore che siano a rischio libertà di pensiero, educazione e religione. All' articolo 1, tra le definizioni, il punto d (l'identità di genere), distinguendosi dagli altri tre, andrebbe a coincidere con l'ideologia gender. Nella legge si distinguono quattro concetti: «a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l' attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l' identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall' aver concluso un percorso di transizione». L' articolo 7 istituisce la Giornata nazionale contro l'omofobia e coinvolge tutte le scuole di ogni ordine e grado in iniziative per contrastare pregiudizi e discriminazioni. Il timore è che sia un mezzo per introdurre l' deologia gender nelle scuole.

Che cosa c’entrano i diritti civili con l’identità di genere? Esercitare un diritto è l’espressione libera delle proprie attitudini sessuali in un quadro di tutele contro violenza e discriminazione. Giuliano Cazzola su Il Quotidiano del Sud il 3 novembre 2021. La metempsicosi è “la reincarnazione delle anime, secondo la credenza professata da alcune dottrine religiose’’. Se facessimo una ricerca in proposito troveremmo certamente intere biblioteche che trattano l’argomento. Immagino, però, che se trovassimo scritto in un articolo di legge che nei programmi scolastici si devono dedicare ore di insegnamento a questa dottrina, forse ci porremmo delle domande. Nel libro ‘’Sottomissione’’ Michel Houellebecq ipotizzava un futuro abbastanza prossimo dove, in Francia, un partito mussulmano (le conversioni erano all’ordine del giorno anche per questioni di potere) diventava determinante per formare un’alleanza di governo. Così si cominciava a programmare l’introduzione della poligamia nel novero dei nuovi diritti civili. Poi, visto che la cancel culture si preoccupa solo delle opere dei grandi filosofi greci, ma non dell’attitudine alla pedofilia, per quale ragione vietarne la pratica, se in un Paese nordeuropeo è consentito persino avere rapporti sessuali con animali a condizione che non si provochi loro sofferenze? È chiaro che ci stiamo ponendo interrogativi che possono sembrare paradossali ad un interlocutore del nostro tempo, ma quando sono le leggi ovvero il diritto positivo a riconoscere diritti che hanno perduto ogni rapporto valoriale con il diritto naturale, possiamo aspettarci di tutto. Chi scrive è contrario al ddl Zan e non si sente un oscurantista né un bigotto, tanto meno un fascista. Uno della mia generazione – se riflette onestamente sull’educazione ricevuta – è in grado di comprendere le sofferenze e i torti subiti dalle persone omosessuali (specie se nati maschi). Nessuno lo ricorda. Ma c’erano anche loro nei campi di sterminio con la stella rosa sulla divisa a righe ora abusata dai no vax. Per decenni sono stati costretti a nascondere le loro attitudini sessuali. Nel dialetto della mia città si diceva: “l’è mej un fiol lader che un fiol buson”. Ovvero «è meglio avere un figlio ladro che ‘’busone’’» come venivano definiti i gay. In sostanza, perfino le famiglie si vergognavano di loro. Fin dalla scuola chi fosse – come si diceva allora ‘’effeminato’’ era oggetto di un bullismo violento, persino ammesso dalla comunità in considerazione dell’abnormità della ‘’deviazione’’.  È facile comprendere come si dovesse sentire un ‘’diverso’’ in quel contesto sociale e (sub)culturale. La commedia all’italiana – anche quella di grande qualità – ha prosperato sullo stereotipo dell’omosessuale, con definizioni che variavano a seconda delle realtà territoriali ma che facevano parte del linguaggio consueto. Tutto questo non si riferisce a tempi lontani e neppure recenti, ma è presenta ancora in mezzo a noi, anche se si sono compiuti importanti passi avanti nel costume e nell’ordinamento giuridico. Il ddl Zan si proponeva di contrastare con sanzioni più severe una discriminazione ormai ritenuta inaccettabile? Qualcuno ha sostenuto con argomenti che si sarebbe trattato di un eccesso di tutela rispetto alla legislazione ordinaria e che sarebbe stato un errore prevedere delle fattispecie di protezione per figure troppo specifiche, con il rischio di escluderne altre (tanto che nel disegno di legge si è reso necessario introdurre i disabili che nulla hanno da spartire con le discriminazioni basate sul sesso o come si dice adesso sul genere). Si riteneva tuttavia – come è stato detto – mandare un segnale più forte, attraverso un regime sanzionatorio più robusto? Nessuna forza politica avrebbe potuto chiamarsi fuori (ancor meno che nel caso delle unioni civili). Perché allora, col pretesto di assicurare una maggiore tutela agli omotransessuali il ddl voleva insinuare (articoli 1, 4 e 7) nell’ordinamento giuridico, con il riconoscimento del concetto di ‘’identità di genere’’, una visione ideologica, priva di qualunque riscontro scientifico.  Il sesso – che è l’unico dato reale ed evidente – era relegato ad un tratto di penna dell’anagrafe e considerato un adempimento burocratico che avrebbe imprigionato il corpo alla natura degli organi genitali. Mentre l’espressione del diritto civile avrebbe dovuto consentire di bypassare l’esistenza di differenze (visibili e intuitive) che da miliardi di anni distinguono in tutti gli esseri viventi il maschio dalla femmina. E sono le differenze che permettono la procreazione e la riproduzione sociale. Da questo vincolo non si sfugge, nonostante tutti i surrogati e le diavolerie che una scienza, un po’ disumana e mercificata, ha inventato per sottrarre il concepimento alle leggi della Natura.  Che cosa c’entrano i diritti civili (spesso evocati a sproposito) con l’identità di genere? Esercitare un diritto significa poter dare espressione libera alle proprie attitudini sessuali in un quadro di tutele contro la violenza, la discriminazione, la repressione; significa poter dare – come è stato fatto – a queste unioni un riconoscimento giuridico con i relativi diritti e doveri. L’identità sessuale di un individuo, secondo le teorie a cui il ddl si ispirava, non veniva stabilita dalla natura e dall’incontrovertibile dato biologico ma unicamente dalla soggettiva percezione di ciascuno che sarebbe stato libero di assegnarsi il genere percepito, “orientando” la propria sessualità secondo i propri istinti e le proprie pulsioni. Era il genere, secondo questa dottrina, che stabiliva, in ultima analisi, l’identità sessuale di un individuo. Non si è uomini e donne perché nati con certe identità fisiche, ma lo si è solo se ci si riconosce come tali. Non ci sono maschi e femmine ma ci sono semplicemente esseri umani, liberi di assegnarsi autonomamente il genere che percepiscono al di là dell’incomodo del loro sesso naturale le cui tradizionali specie  diventano così delle categorie mentali superate, inadatte a rappresentare la complessità sociale moderna e che per questo vanno rimosse per “decostruire”, ossia, cancellare la natura, con l’obiettivo di smantellare pezzo per pezzo, un sistema di pensiero considerato obsoleto e persino reazionario, alla stregua dei peggiori disvalori. Così si è arrivati al punto che persino quelle manifestazioni di entusiasmo che ogni opposizione attua da sempre e ovunque quando sconfigge la maggioranza in una votazione importante, viene pubblicamente stigmatizzata alla stregua di una gazzarra oscurantista, perché espletata ai danni di un ‘’diritto civile’’. Ma se l’orientamento sessuale viene difeso dalla legge, non vi è alcun motivo – e nessuno è autorizzato a rivendicare un diritto in tal senso – per consentire alla teoria dell’identità di genere (ovvero «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione») di trovare posto, in modo arbitrario e truffaldino, nell’ordinamento giuridico alla stregua di un valore comune. Determinando così una vistosa contraddizione: quanto viene percepito diventerebbe reale a norma di legge, mentre ciò che è platealmente reale (il sesso) si trasformerebbe in un’opinione, magari un po’ retrò e a rischio di essere ritenuta una prevaricazione di diritti creati in vitro dal legislatore. C’era la possibilità di approvare il ddl con una larghissima maggioranza stralciando gli articoli inquinati da un’ideologia sconosciuta come il covid-19. Ma proprio su questi articoli si è voluto dare battaglia mettendo a rischio tutto il resto; peraltro la definizione identità di genere era inclusa in tutti gli articoli come se fosse un ‘’amen’’ da recitare dopo ogni preghiera (per inciso, negli Usa, per non fare discriminazioni dopo ‘’amen’’ dicono pure “awomen”). Si vede che in fondo erano questi gli articoli giudicati più importanti della nuova metempsicosi. Un tempo la sinistra si preoccupava dell’identità di classe; adesso è passata all’identità di genere. E questo cambiamento di valori viene oggi definito evoluzione, modernità, capacità di interpretare i cambiamenti della società. 

Storia di una legge che ha acceso il dibattito. Che cos’è la legge Zan contro omotransfobia e cosa prevede. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Maggio 2021. La legge Zan è una proposta di norma contro l’omotransfobia e la misoginia. Punta a estendere le norme di tutela attualmente in vigore per le etnie e l’orientamento religioso previste dalla legge Mancino del 1993 anche all’orientamento sessuale. Propone infatti di punire con aggravante chi commette violenza o incita a commettere violenza nei confronti di un’altra persona sulla base dell’orientamento sessuale. La proposta prende il nome del deputato del Pd Alessandro Zan che ha presentato il disegno di legge avviandone così il tortuoso iter legislativo. Il testo si propone di contrastare le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, identità di genere e disabilità, per porre un freno ai numerosi episodi di violenza che sempre più accendono le cronache. Amplia l’ambito di applicazione dei delitti contro l’eguaglianza previsti dal Codice penale agli articoli 604 bis e 604 ter, aggiungendo al novero delle fattispecie condannate i comportamenti discriminatori contro disabili, omosessuali, transessuali, e qualsiasi altro atto persecutorio motivato dall’orientamento sessuale. È una legge che non solo tutela i diritti della comunità LGBT ma punisce anche il sessismo e la misoginia. Le donne sono infatti le più colpite da episodi di discriminazione, violenza, emarginazione e demansionamento sul lavoro.

Le misure e le pene proposte nella legge Zan. Il testo prevede praticamente un’aggiunta all’articolo 604 bis che punisce le discriminazioni razziali, etniche, nazionali e religiose, aggiungendo le condotte discriminatorie fondate su “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere”. Le misure consistono nella reclusione fino ad 1 anno e 6 mesi o la multa fino a 6.000 euro per chi istiga a commettere o commette atti di discriminazione nei confronti delle categorie indicate. Poi la reclusione da 6 mesi a 4 anni per chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi discriminatori. E infine la reclusione da 6 mesi a 4 anni per chiunque partecipa o presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza verso le categorie discriminate. Invece la modifica all’articolo 604 ter prevede una circostanza aggravante – quindi una pena più severa – per i reati commessi con finalità discriminatoria, odio etnico-razziale, religioso o per agevolare organizzazioni, gruppi, movimenti fondati su principi discriminatori. Per questi soggetti la pena è aumentata fino alla metà.

A che punto è la legge Zan. Il disegno di legge è stato approvato alla Camera a novembre. Ma da allora è ferma per l’approvazione in senato. Per questo motivo è partita la mobilitazione di attivisti e personaggi del mondo dello spettacolo che chiedono a gran voce che si riprenda l’iter legislativo per l’approvazione della legge che reputano fondamentale. Ma parte del governo ha ritenuto non prioritaria la discussione sulla legge Zan. A chiedere da tempo la sua discussione Pd, M5s, Leu e Italia Viva mentre tutto il centrodestra si è sempre espresso contrario. Poi finalmente è stato calendarizzato in senato. Ma le polemiche non sono finite: sarà proprio il presidente della commissione Giustizia del Senato, il leghista Andrea Ostellari, il relatore del provvedimento. Una mossa, quella di autonominarsi relatore, definita da Zan “l’ennesima forzatura di chi vuole affossare una legge voluta dalla maggioranza del #Senato. Ancora una volta dimostra di gestire la Commissione Giustizia come fosse di sua proprietà. Le istituzioni si rispettano”. Ostellari in quanto presidente della commissione ha la funzione di relatore di ogni disegno di legge. Si tratta di una facoltà che in realtà potrebbe essere delegata ad altri commissari: “Poiché sono stato confermato presidente, grazie al voto della maggioranza dei componenti della commissione, per garantire chi è favorevole al ddl e chi non lo è, tratterrò questa delega”, ha spiegato Ostallari che è lo stesso senatore che pochi giorni fa, in una intervista a Radio 24 al programma ‘La Zanzara’, disse che “dire frocio a un gay non è sempre offensivo, dipende dal contesto”.

La posizione della Cei sulla legge Zan. Dopo la notizia della calendarizzazione sono arrivate le parole della Cei, che attraverso la sua presidenza auspica che “anche la voce dei cattolici italiani possa contribuire alla edificazione di una società più giusta e solidale”. “La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, riunitasi lunedì 26 aprile, coerentemente a quanto già espresso nel comunicato del 10 giugno 2020, nel quadro della visione cristiana della persona umana, ribadisce il sostegno a ogni sforzo teso al riconoscimento dell’originalità di ogni essere umano e del primato della sua coscienza. Tuttavia, una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza, mettendo in questione la realtà della differenza tra uomo e donna”, si legge nella nota della Conferenza Episcopale. “In questi mesi sono affiorati diversi dubbi sul testo del ddl Zan in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, condivisi da persone di diversi orizzonti politici e culturali. È necessario che un testo così importante cresca con il dialogo e non sia uno strumento che fornisca ambiguità interpretative”, spiega ancora la Cei che poi aggiunge: “Auspichiamo che si possa sviluppare nelle sedi proprie un dialogo aperto e non pregiudiziale”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 7 aprile 2021. Lo scontro finale sulla legge contro l'omotransfobia approda nell'ufficio di presidenza della commissione Giustizia del Senato. Pd, Cinque Stelle, Leu e Iv tenteranno di superare il «no» della Lega che con Andrea Ostellari si oppone alla calendarizzazione del disegno di legge Zan. Franco Mirabelli (Pd) è convinto: «Supereremo quel veto». E domani potrebbe essere incardinato. Ma il leghista Claudio Borghi avverte: «Il governo nazionale è nato per il sostegno all'economia e il Recovery plan, non rompete le scatole con cannabis e legge Zan». Lo scontro si accende su alcuni punti in particolare. Il ddl parte dalla legge Mancino, che già punisce reati e discorsi d'odio fondati su nazionalità, etnia e religione, e vi aggiunge una tutela per la galassia Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender cui si aggiungono i queer, che si interrogano sulla propria sessualità, e gli intersessuali). Ma non li cita. E rende punibile la discriminazione fondata «sul genere e sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere». Espressioni più elastiche della definizione biologica di sesso. Cristina Gramolini, di Arcilesbica, lanciò su Sette l'allarme: «Così le donne rischiano di perdere le poche garanzie conquistate come le quote in politica». Invitando il legislatore a sostituire «identità di genere» con «gay, trans e stereotipi di genere». Ma il punto più contestato è l'articolo 4. Il sospetto che promuovere l'unione uomo-donna diventi punibile ha già fatto gridare i vescovi: «Attenti a derive liberticide». Nel timore che si vada oltre Papa Francesco e il suo: «Nessuna persona deve essere discriminata sulla base del proprio orientamento sessuale». E si arrivi all'eccesso dell'inchiesta in Spagna sull'Arcivescovo di Pamplona, «colpevole» di aver dichiarato che in una relazione omosessuale è preclusa la finalità della procreazione. Critiche condivise da Lega e FdI, una parte di Forza Italia e centristi. Il dem Stefano Ceccanti rassicura: «Il lavoro proficuo svolto ha consentito di superare riserve iniziali sulla libertà di espressione. Non sono punite generiche opinioni, discutibili o spiacevoli, ma quelle che determinano il concreto pericolo del compimento di atti violenti». Infine lo scontro sulla campagna di sensibilizzazione da 4 milioni di euro. Come evitare, si chiedono nel centrodestra, che si trasformi in propaganda contro le unioni eterosessuali?

Zan: “La mia legge non è liberticida, tutela la dignità delle persone”. In Italia esiste un enorme fenomeno di under-reporting sui reati a sfondo omotransfobico, proprio perché non esiste fattispecie di reato ad hoc. Alessandro Zan su Il Dubbio il 3 maggio 2021. Il valore che le madri e i padri costituenti hanno impresso nella Costituzione non è solo quello di atto fondamentale per tutta la struttura normativa su cui si basano le nostre vite, ma anche di manifesto programmatico, che tutte le sensibilità politiche condivisero, per creare una società realmente democratica e plurale, dopo gli anni del totalitarismo e della catastrofe.In particolare, all’articolo 3 la Costituzione affida alla Repubblica, e quindi al legislatore, il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Dunque anche la tutela di tutte le condizioni e i caratteri insiti in ogni essere umano, in quanto tale. Proprio seguendo il percorso indicato dalla Costituzione, la legge Reale-Mancino già contrasta i crimini d’odio per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Tuttavia negli ultimi anni i maggiori osservatori europei per i diritti umani hanno relegato l’Italia agli ultimi posti delle loro classifiche per inclusione sociale della comunità lgbt+. Hanno disegnato una vera e propria mappa dell’odio, che ci consegna una situazione critica e d’emergenza: i crimini d’odio e le discriminazioni colpiscono in particolare le donne, le persone lgbt+ e le persone con disabilità. Ovvero individui colpiti per il loro sesso, per il loro genere, per il loro orientamento sessuale, per la loro identità di genere o per la loro disabilità. Ed è esattamente utilizzando questi termini che il ddl, di cui sono stato relatore alla Camera, intende emendare la legge Reale-Mancino, estendendo anche a queste categorie (che sono pure condizioni ascritte all’essere umano, come l’etnia o la nazionalità) l’efficacia della norma. Una volta emendati, gli articoli 604 bis e ter del codice penale – che hanno codificato la legge citata poco fa – diverrebbero dunque non solo uno strumento in più di denuncia da parte delle vittime, ma anche un aiuto alle forze dell’ordine per perseguire e prevenire questi crimini. Come è stato più volte sottolineato anche da dirigenti OSCAD (Osservatorio della Polizia di Stato contro le discriminazioni) in Italia esiste un enorme fenomeno di under-reporting sui reati a sfondo omotransfobico, proprio perché non esiste fattispecie di reato ad hoc, dunque i dati in nostro possesso sono decisamente parziali e arrivano tutti dai casi che finiscono sulla stampa o sui social media, perché denunciati pubblicamente dalle vittime.Dunque, da un punto di vista tecnico-giuridico, la nostra volontà (nostra per indicare l’ampia volontà comune di tutte quelle forze politiche che hanno contribuito alla formulazione e all’approvazione alla Camera del testo) è quella di estendere una legge che esiste da più di 40 anni, con una giurisprudenza – anche costituzionale – consolidata, che ne ha chiarito ogni aspetto potenzialmente critico. Mi riferisco agli attacchi pretestuosi e infondati di chi definiscequesto provvedimento “liberticida”, e che ha creato nell’ultimo anno massicce campagne di fake news. Questa è una proposta di legge che poggia sul bilanciamento tra la libertà di espressione e la tutela della dignità delle persone. Il Presidente della Repubblica stesso, in occasione dell’ultima giornata internazionale contro l’omofobia, ha chiarito che “le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale costituiscono una violazione del principio di eguaglianza e ledono i diritti umani necessari a un pieno sviluppo della personalità umana”. Insomma la libertà di espressione non può mai degenerare in discriminazione o incitamento all’odio. Per essere chiari, un esempio: un prete in Chiesa sarà sempre libero di affermare che l’unica famiglia possibile può essere tra un uomo o una donna. È ovviamente una libera opinione, che non condivido, ma che deve essere tutelata. Ma una persona non può liberamente augurare il rogo alle persone omosessuali o auspicare che si riaprano i forni crematori per le persone trans, come purtroppo spesso accade soprattutto sui social. Uno stato che si definisce civile deve contrastare con tutta la sua forza questi fenomeni. C’è inoltre un ulteriore aspetto che mi preme sottolineare. Più volte nel corso di questi mesi mi è stato chiesto chi ha paura di questo ddl, e perché spesso chi si oppone ricorre a bufale, in totale malafede. Sono convinto che l’approvazione di questo provvedimento sancirebbe il posizionamento dell’Italia nell’Europa dei diritti, della libertà e della democrazia, tra Paesi come Francia, Germania, Belgio, Spagna, rompendo definitivamente ogni ammiccamento a derive sovraniste come quelle di Ungheria e Polonia. Lega e Fratelli d’Italia guardano ancora a quei modelli, che hanno creato profonde fratture all’interno dell’Unione Europea e che tutt’ora conducono campagne d’odio istituzionalizzate contro la comunità lgbt+ e contro i diritti delle donne. Questa non può diventare una battaglia ideologica o di parte, ma una battaglia per un patrimonio comune. In Francia fu la destra di Chirac ad approvare una norma contro l’omotransfobia nel 2004. Infatti non ci può essere alcun europeismo dove esiste esitazione o, peggio, opposizione ai diritti, ed è tempo per il nostro Paese di definire il suo modello di futuro, di definire la sua collocazione in un contesto europeo che proprio su questi temi si sta dividendo tra paesi avanzati e paesi arretrati. Dopo ben cinque tentativi falliti dal 1996, l’Italia non può più permettersi di perdere questa occasione di civiltà e tutelare ogni sua cittadina e suo cittadino semplicemente per chi è.

Da “La Zanzara – Radio24” il 6 maggio 2021. “L’omofobia è come l'antisemitismo, per questo la legge Zan va approvata. La differenza tra civiltà e inciviltà passa attraverso il rispetto di ogni singola minoranza. Oggi a causa delle campagne della destra social Liliana Segre va in giro con la scorta e ci sono dei ragazzi gay che si buttano dalla finestra perché vengono rifiutati dalla famiglia o bullizzati a scuola. Quello che è successo agli ebrei è inenarrabile, ma tutte le minoranze vanno rispettate”. Lo dice a la Zanzara su Radio 24 Alessandro Cecchi Paone. Dire che due gay sono contro natura è incitazione all’odio? “Sì”, risponde Cecchi Paone. E se dici che l’unica famiglia è quella tra uomo e donna?: “Sì, perché crei infelicità negli esseri umani, inciti all’odio. Se tu dici che i froci non possono unirsi in matrimonio per me sei perseguibile”.

Da adnkronos.com l'8 maggio 2021. "Se avessi condotto io il Concertone del Primo Maggio avrei spento le telecamere a Fedez durante il suo discorso. Per querelarlo è troppo tardi, equivarrebbe solo fargli il doppio della pubblicità". La vede così Pippo Baudo che all'Adnkronos spiega: "Fedez ha esagerato. Poteva fare spettacolo, mentre fa ogni cosa per essere protagonista. E ha sbagliato a fare quel discorso in una sede che non era sua. L’errore che ha commesso la Rai - scandisce Baudo - è stato quello di non dire semplicemente che quel palcoscenico era il suo e a lei competeva l’autorizzazione. Chiedere il testo dell’intervento di Fedez è stato senza dubbio corretto. Se tu vieni a casa mia e io ti ricevo nel mio salotto, io voglio sapere cosa ci vieni a fare. E poi gli argomenti che Fedez ha toccato sono complicati e non si può utilizzare il mezzo pubblico in maniera così indiscriminata. Bisogna stare attenti perché si ripercuote sulla società in modo divisivo". E ancora: "Quanto si prefigge il Ddl Zan è già previsto dalla nostra Costituzione nei primi 12 articoli, quelli fondamentali. Lì si legge chiaramente, al primo comma dell’articolo 3, che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, oltre che di condizioni personali e sociali. Il Ddl Zan è un raddoppio" dice Baudo, conversando con l'Adnkronos e soffermandosi sul disegno di legge che sta facendo discutere da tempo politici e personaggi pubblici, vieppiù dopo il discorso di Fedez sul palco del Concertone del Primo Maggio. "Abbiamo fra le più belle carte costituzionali del mondo - rimarca Baudo -. E' inutile aggiungere un’altra legge che confonde le cose. La nostra Costituzione è perfetta ed è garantista al massimo. Il Ddl Zan è la complicazione delle cose semplici. La vita che facciamo e, in particolare, la vita che conduciamo in Italia, ci ha dato tutte le marce che ci servono per vivere tutti insieme con tutte le diversità e le mentalità che si possono avere".

Redazione Blitz il 10 maggio 2021. Dj Ringo, noto conduttore radiofonico, attuale direttore creativo di Virgin Radio, ha commentato su MOW Magazine le polemiche circa il concerto del Primo Maggio e l’intervento sul palco di Fedez: “Non è più musica. Lui si presenta come fenomeno mediatico”.

Ringo e le scuse di Fedez per i testi vecchi. Perché, secondo il disc-jockey, “ha numeri altissimi nei social, la cosa incredibile è che nessuno lo invita come rapper”. Ringo ha infatti sottolineato l’ammenda pubblica di Fedez sui testi contenuti nelle proprie hit musicali: “perché ha chiesto scusa anni dopo aver scritto quei testi? Solo perché è venuto fuori questo casino? Le scuse doveva farle tempo fa, le offese a Tiziano Ferro erano pesanti”.

Ringo: “Dietro Fedez penso ci sia la moglie”. Dj Ringo ha però evidenziato che “quando mesi fa raccolse i soldi e aprì con la moglie il reparto anticovid sono stato il primo a fargli i complimenti, merita davvero rispetto. Io non voglio attaccarlo, sto solo analizzando. Lui fa delle cose giustissime e ha il potere per farlo”. Concludendo con un’analisi strategica circa la facile polemica mediatica: “Io penso che dietro ci sia la moglie, non si offenda, non sto dicendo nulla di male. Lei gli avrà chiesto di cambiare registro, sono sposati, hanno una famiglia. Il Ringo buono, la mia parte angelica, pensa che sia cresciuto e abbia ascoltato i consigli della moglie. Il Ringo perfido dall’anima diabolica pensa che sta sfruttando questi momenti per avere clic. La risposta la sa solo Fedez ma è chiaro che da fuori può sembrare che lui – come altri personaggi – a volte usi queste faccende importanti per cavalcare l’onda. E avere più like e più Nike. Ma questo vale anche per me, è un sistema in cui siamo tutti coinvolti”.

Dj Ringo, Fedez e la politica. Infine circa il sostegno e l’abbraccio da parte della politica: “Per me lui si sta preparando la carriera per entrare in politica. Diventerà un politico, dopo Zingaretti-Letta il prossimo leader sarà Fedez”. E, circa l’eventualità di un futuro voto, Dj Ringo aggiunge: “No, io ho altre idee. Una cosa che non capisco è che in Italia quando dici di non essere di sinistra automaticamente sei un nazista. È terribile”.

Dagoreport by Dago il 10 maggio 2021. Tutti uguali questi ragazzi-prodigio. Partono a razzo, vanno fuori di testa poi finiscono fuori orario, fuori binario, come quella cima di rap di Fedez, nato Federico Lucia, di professione idolo dei teenager, ma ormai così inquieto e pretenzioso che è finito sul materasso del conformismo web, del velleitarismo politicante, dell'estremismo retorico oggi tanto di moda. Sembrava che studiasse per diventare un Battisti da discoteca, è diventato uno di questi sirenetti del "vuoto sincronizzato", tromboneggiante le consuete opinioni generosamente generiche, ingenuamente ideologiche, ovviamente sentenziose che ci aspettiamo, che temiamo. Con quell'aria pentita, il tatuaggio da incazzato, l'occhio infelice, la maglietta stagionata e la braga espansa, che è la divisa di ordinanza dei rivoluzionari del rap, il portaborsetta di Chiara Ferragni si è messo a fare grandi discorsi, travolto da un'inarrestabile voglia di dire la sua, di dividere il mondo in buoni e cattivi, di improvvisarsi intermediario tra i giovani disorientati e una politica che ha perso la bussola. Secondo Francesco Merlo "il pensiero spelacchiato è un vecchio genere di successo in evoluzione (o involuzione). Ma Celentano è un grande cantante, Fedez per ora è un grande marito". Ma forse la formula più esatta per definire l’insostenibile birignao di Fedez è la parabola di Jovanotti. Ricordate? Dopo aver seppellito proditoriamente il funambolico digei degli anni Ottanta, il jovanottismo spensierato di "E' qui la festa?", "Un, due, tre, casino!", "Gimme five", sbandierando che "Il disimpegno è acqua passata" l'ex "profeta del cretinismo integrale" (definizione di Michele Serra) conquista le colonne dei settimanali d'opinione, discettando di Dio, Marx e Berlusconi. Senza troppo sottilizzare, frusta i governanti, canzona i politicanti, denuncia la mafia, spiegando a tutti come dovrebbero andare le cose nel nostro benedettissimo Paese. In "Penso positivo", brano-manifesto della sua opera-compact, l'ex "giovane scemo" concretizza così la sua ansia da singhiozzo: "Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano, passando da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano". Bastava aggiungere una tappa al Mulino Bianco, ed era tombola. Poveri ragazzi. Dai e dai, a forza di tracimare in campi a loro sconosciuti (la palude italiana, la politica internazionale, l'ecologia, l'ecumenismo espanso; ultima uscita: l’omofobia e l’identità di genere), si è trasformato in una macchietta. Essì: Fedez, che pur stonando anche quando dorme, soffre della stessa candida sindrome del Savonarola che ha colpito negli anni passati i vari Dalla, Battiato, De Gregori,  Venditti, Piero Pelù. Non pare che abbiano lasciato luminose tracce nella nostra legislazione. Ecco: il grande "errore" di Fedez, bardato da "opinionista" militante, è proprio un equivoco di forma: credere che sia sufficiente il buon impegno per opporsi ai problemacci della vita. La musica pop è una fabbrica per la normalizzazione dell'insolito; per il portarossetto della Ferragni è invece una gabbietta dorata in cui rinchiudersi a fare il pappagallo della banalità.

Quello che Fedez non vi dice sul ddl Zan. Giuseppe De Lorenzo l'8 Maggio 2021 su Il Giornale. Le attività Lgbt nelle scuole e i veri scopi ideologici: tutte le ombre del ddl Zan. Abbiamo già provato a dare a Federico Lucia, in arte Fedez, una breve lezione di democrazia sul rispetto delle opinioni altrui. Dunque partiamo dal presupposto che il cantante e i suoi paladini abbiano riguardo del nostro dissenso, e che dunque si possa ragionare un po’ sul ddl Zan. In maniera più approfondita di quanto non abbia fatto il n° 2 dei Ferragnez dal palco del primo maggio. Il testo del disegno di legge, già approvato alla Camera, non è né lungo né di complessa lettura. Eppure per la scaltrezza con cui è stato scritto si presta a interpretazioni e storture che giustificano in larga parte le preoccupazioni di cattolici, conservatori, femministe e pure delle lesbiche. Prendete l’articolo 1, che poi è una sorta di glossario dell’ideologia gender. Pensate che al mondo esistano i maschi e le femmine? E che al massimo qualcuno tenta una transizione da una sponda all’altra? Beh, siete dei retrogradi. Perché il ddl Zan sentenzia per legge altre definizioni antropologiche di dubbia natura. Tipo: per “genere” si intende una “manifestazione esteriore conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso” (e che vuol dire?); e addirittura arriva a disciplinare qualcosa di ancor più fumoso, “l’identità di genere”, ovvero “l’identificazione percepita e manifesta di sé in relazione al genere, anche se non corrisponde al sesso”. Oggi mi sveglio maschio, domani femmina, dopodomani chissà. Ora, è legittimo portare avanti le proprie battaglie. Pure quelle più strampalate. Ma non si dica che questo glossario arcobaleno non ha finalità ideologiche. Lasciate perdere la fregnaccia del “serve per difendere gli omosessuali”. Non è così. L’obiettivo sotteso, spiega il politologo Alessandro Campi, è quello di “lasciarsi alle spalle le differenze tra i sessi naturalisticamente definite a favore delle identità sessuali e di genere soggettivamente percepite e autocertificate”. Si tratta insomma un intento politico-culturale, intrapreso mettendo in vetrina quelle belle parole sulla lotta all’omofobia. Va bene, siete liberi di perseguire lo scopo. Ma almeno ditelo chiaramente. Chiaro, Fedez? Anche perché se l'intento fosse solo quello di combattere le violenze, le sinistre fedeziane avrebbero potuto banalmente accettare il testo scritto dai colleghi di maggioranza di Lega e Forza Italia. Senza strani passaggi gender né pilatesche Giornate nazionali per la lotta all’omofobia, la proposta del centrodestra puntava solo a riconoscere l’aggravante dei reati omofobi. Punto e basta. Ma Pd e M5S hanno preferito forzare la mano sul ddl Zan. Lo sa Federico Lucia che il 17 maggio di ogni benedetto anno i suoi figli a scuola saranno sottoposti a “cerimonie e incontri” obbligatori, ovviamente appannaggio delle associazioni Lgbt di varia natura? Direte: cosa c’è di strano? Lo ha spiegato bene Michela Murgia in tv: "Il punto è cominciare a modificare la cultura”. Modificare la cultura, chiaro? Ci è permesso non condividere? Ultimo appunto sulla libertà di espressione. I tifosi del ddl Zan ritengono i timori liberticidi eccessivi, perché l’articolo 4 contiene la cosiddetta clausola sul pluralismo delle idee. Già il fatto che una norma debba prevedere una “clausola di libertà”, teoricamente garantita dalla Costituzione, dimostra la pericolosità di quanto contenuto nel testo. E poi è previsto un limite: si può cioè dire e pensare ciò che si vuole purché le idee non siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Bene. E chi decide quando le opinioni determinano un effettivo pericolo? Spiega Campi: “Ci vuole poco a capire quali margini di discrezionalità, con una magistratura politicizzata in molte sue frange come quella italiana, lascia aperta una simile formulazione”. Ad esempio: come potremo essere liberi di dire che “l’identità di genere” è una frottola astrofisica? E come potremo sostenere che non si può scegliere la mattina davanti allo specchio se sentirsi maschietto o femminuccia, se questo principio viene sancito dalla legge? Potremo ancora affermare che le coppie omosessuali non debbono adottare bambini? O che l’utero in affitto è un mercimonio orrendo e un crimine contro le donne? Potranno i cattolici dirsi contrari al matrimonio gay? È evidente che l’incertezza giuridica del testo produrrà denunce temerarie contro chiunque si opponga all’ortodossia arcobaleno. Lo dimostra quanto detto ieri da Alessandro Cecchi Paone a La Zanzara: ritenere che l’unica famiglia sia quella tra uomo e donna sarebbe incitamento all’odio perché “crea infelicità negli esseri umani", quindi sarebbe "perseguibile". Abbiamo il diritto di dissentire?

Nessun attacco alla libertà d'opinione. Perché il ddl Zan è utile e necessario, basta bufale. Salvatore Curreri su Il Riformista il 15 Maggio 2021. Il disegno di legge “Zan” è inutile, repressivo e ambiguo, come sostengono i suoi detrattori? Oppure è opportuno, come autorevolmente affermato l’altro ieri dal presidente della Corte costituzionale Coraggio (nomen omen)? Per rispondere a questa domanda occorre approfondire il tema sotto un profilo strettamente giuridico. Operazione non facile e magari noiosa per il rischio di cadere in sottigliezze ai più incomprensibili. Eppure analizzare il testo della proposta, concentrarsi sui suoi singoli termini – che nel diritto non sono mai spesi a caso anche in forza del significato che loro deriva da consolidate tradizioni interpretative giurisprudenziali – mi sembra l’unico modo per fare ordine su un disegno di legge certo perfettibile ma che sicuramente non merita le accuse, inesatte e semplificatorie, veicolate in modo facile e strumentale da una certa propaganda politica. Ci provo. 1. Si dice: il ddl Zan è inutile perché le disposizioni per punire comportamenti violenti o discriminatori già esistono. Vero, perché è ovvio che menare un gay è già reato. Ma il ddl Zan non tratta di questo. Tratta di chi istiga a commettere tali reati. Certo, la repressione sessuale non si supera con la repressione penale. Ed è per questo (e solo in questo senso) che il ddl Zan punta a un’attività educativa da svolgere anche nelle scuole per prevenire le discriminazioni. Ma è indubbio che il legislatore deve intervenire di fronte a un fenomeno che, proprio in assenza di specifiche fattispecie di reato, è statisticamente sottostimato (come confermato dall’Osservatorio della Polizia di Stato contro le discriminazioni) e specialmente presente nei social network dove, per malinteso senso di impunità, è più reale e concreto il pericolo che – per così dire – le parole si trasformino in pietre. Mai dimenticare McLuhan: il mezzo è parte integrante del messaggio. 2. Le parole, giustappunto. Per i contrari il ddl Zan è un testo ideologico, lesivo della libertà di espressione garantita dall’articolo 21 della Costituzione, perché non definisce, con la determinatezza propria della legge penale, quali siano gli atti discriminatori e, di conseguenza, quali opinioni vanno considerate reato perché idonee a determinare il concreto pericolo di loro compimento. Falso. Innanzi tutto il ddl Zan non introduce una nuova fattispecie di reato. Piuttosto estende i delitti già previsti contro l’eguaglianza, aggiungendo ai già previsti motivi “razziali, etnici, nazionali e religiosi”, quelli per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. Quindi quanti sostengono che si tratti di una proposta di legge repressiva della libertà di espressione dovrebbero per coerenza estendere la loro accusa d’incostituzionalità all’intera disciplina in materia (la c.d. legge Reale-Mancino oggi trasfusa nell’art. 604-bis) e, dunque, invocare sempre e comunque libertà di parola anche in materia razziale, etnica, nazionale o religiosa. Non lo fanno perché (forse) sanno – come vedremo – di avere contro tutta la giurisprudenza. In secondo luogo ad essere sanzionata per i nuovi motivi che si vorrebbe introdurre (sesso, genere, ecc.) non è la propaganda di idee ma l’istigazione a commettere atti discriminatori. Tra i due concetti c’è, giuridicamente parlando, un abisso. Non deve trattarsi di semplici opinioni ma di parole che, per portata istigativa, rischiano di tradursi o si sono tradotte in concreto in azioni discriminatorie, secondo uno stretto, diretto, conseguenziale nesso di causalità. Insomma verrebbe punito il dicere diretto a tradursi (o già tradottosi) in facere. Insomma, è e rimarrà pienamente legittimo affermare (magari durante un’omelia) l’eterosessualità del matrimonio o criticare le adozioni omosessuali e l’utero in affitto (già vietati), mentre non sarà più possibile aizzare (magari davanti a un noto luogo di ritrovo degli omosessuali) contro di loro l’odio dell’opinione pubblica per i loro comportamenti ritenuti contrari al buon costume. Per fugare ogni dubbio in merito, in prima lettura alla Camera è stato approvato un emendamento cosiddetto salva idee (presentato dal deputato di Azione Enrico Costa) in base al quale «ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Si continua ad obiettare: tale articolo non risolve nulla perché rimane incerto quali siano gli atti discriminatori e, di conseguenze, le opinioni da vietare perché in grado di determinare il concreto pericolo di loro compimento. Alla fine quindi sarebbe sempre il giudice a distinguere tra opinioni riconducibili al pluralismo delle idee e quelle istigatrici all’odio e alla violenza. Ora, premesso che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e che sembra pretendersi dal legislatore un tasso di specificità che contrasta con la connaturata generalità ed astrattezza di ogni disposizione normativa – penale inclusa –, è proprio la consolidatissima giurisprudenza costituzionale e ordinaria sui cosiddetti reati di opinione a dimostrare quanto simili preoccupazioni siano infondate. Anzi, proprio la definizione di pericolo concreto affidata alla valutazione del giudice, entro i marcati confini tracciati da tale giurisprudenza, è di gran lunga più garantista rispetto ad un pericolo astratto predeterminato dal legislatore. Tali reati di opinione, tra l’altro ormai in gran parte abrogati o depenalizzati, non contrastano con la libertà d’espressione nella misura in cui l’autore vuole andare oltre la critica, sempre legittima ancorché radicale, per tradursi in un «comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti» (Corte cost., 65/1970; v. anche 126/1975). È quello che la Corte suprema Usa definisce “pericolo chiaro ed imminente” (“clear and present danger”). Per questo occorre sempre «valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta con riferimento al contesto specifico e alle modalità del fatto» (Cass., I pen. 42727/2015). Ad essere puniti per motivi discriminatori non sono stati mai i sentimenti di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, tutelati dalla libertà d’espressione ex art. 21 della Costituzione, quanto le opinioni idonee «a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori» (Cass., III pen. 36906/2015) perché esprimono una manifesta volontà d’incitamento all’odio dirette a creare in un vasto pubblico, come nel caso della diffusione ed amplificazione veicolata dai social network, il concreto pericolo del compimento di atti d’odio e di violenza (Cass., VI pen. 33414/2020). I reati d’istigazione a compiere atti discriminatori non si pongono, dunque, in contrasto con la libertà d’espressione perché «l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale, e realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali» (Cass., V pen. 31655/2001). Il lettore spero mi perdonerà questa sfilza di citazioni giurisprudenziali, ma credo sia l’unico modo, argomentato e convincente, per dimostrare quanto giuridicamente infondati siano, almeno sotto questo profilo, i timori espressi contro il ddl Zan. 3. Infine l’ultima accusa: l’ambiguità perché il ddl Zan introdurrebbe un concetto – l’identità di genere – cioè la percezione che si ha del proprio sesso anche se non corrispondente a quello biologico o anagrafico – sconosciuta al nostro ordinamento. Falso anche in questo caso. In base a una legge del 1982 (!) ciascuno, in nome del proprio diritto alla salute psico-fisica e all’autodeterminazione della propria identità sessuale, può cambiare anagraficamente sesso, senza che oggi occorra più modificare chirurgicamente i propri connotati sessuali (il soma). Ciò a seguito di un iter giudiziale in cui la semplice dichiarazione del soggetto di appartenere psicologicamente ad un sesso diverso (self-id) non deve avere di per sé rilievo esclusivo o prioritario (così Corte cost. n. 180/2017, ma v. anche la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 10.3.2015, Y.Y. c. Turchia). L’identità di genere è quindi già riconosciuta nel nostro ordinamento e chi ritiene che basti proclamarsi di un sesso diverso per esserlo dimostra ancora una volta non solo la propria ignoranza giuridica ma di avere una visione strumentale e caricaturale di temi e percorsi esistenziali senz’altro meritevoli di maggiore rispetto. Salvatore Curreri

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 14 maggio 2021. Michele Ainis è uno dei più conosciuti e stimati giuristi italiani. Costituzionalista, docente universitario, è molto noto come editorialista di Repubblica e l'Espresso, oltre che come scrittore. Il suo ultimo libro - pubblicato da La Nave di Teseo - è un romanzo intitolato Disordini: un titolo che sembra avere molto a che fare con l'attuale dibattito politico. Ainis non si può certo considerare un pericoloso sovranista, e anche per questo ha suscitato molto dibattito un suo articolo (uscito su Repubblica) che metteva in luce alcuni problemi del ddl Zan. «Penso che il problema sia che noi non riusciamo più pensare per categorie generali e allora ci impicchiamo alle microdefinizioni», spiega il professore. «C' è la preoccupazione di dimenticarsi qualche categoria, e allora si elencano tutte, anche se poi dimenticarsi comunque qualcuno è fatale. Negli anni Settanta, i giuristi tedeschi e inglesi hanno stilato delle linee guida, le checklist, per i testi legislativi. Quando ne si esamina uno, la prima domanda da farsi è: questo testo è davvero utile o una legge così esiste già, magari sommersa da mille altre?».

E di frequente si producono norme su questioni di cui i codici già si occupano.

«Succede talmente spesso che quando si fa una nuova legge si specifica che abroga le norme in contraddizione, anche se non sarebbe necessario. Il fatto che si scriva dimostra che spesso chi fa le leggi non sa se ne esistano altre dello stesso genere, e certifica la proliferazione di norme che abbiamo. Purtroppo non è un problema nuovo, ma negli ultimi tempi si è acuito. Le leggi devono essere generali, se ti metti a fare gli elenchi dimentichi sempre qualcuno».

Quindi, per quanto riguarda il ddl Zan, lei dice che basterebbe la legge Mancino.

«Sinceramente penso che la stessa legge Mancino fosse inutile. Anche la più ampia tutela della libertà di pensiero e di parola è cosa diversa dalle azioni violente, lo insegna Popper. Significa che l' istigazione a delinquere è reato e rimane reato, su questo non ci possono essere dubbi. Il ddl Zan vuole aggiungere alle categorie già contemplate dalla Mancino il sesso e il genere? Torniamo al punto precedente: una buona legge deve essere generale. Oggi esiste un problema con le categorie generali. E questa tendenza ad elencare è segno di un cattivo rapporto tra il legislatore e i giudici».

In che senso?

«Nel senso che si scrive il più possibile nel testo delle leggi per elidere gli spazi di libertà del giudice. In realtà si ottiene sempre l'effetto opposto. Più scrivi, più gli spazi di indeterminatezza e di libertà del giudice aumentano».

Zan e i suoi sostenitori insistono sulla necessità di introdurre aggravanti per alcuni reati. Queste aggravanti secondo lei esistono già?

«Esistono le aggravanti per motivi futili o abietti che aumentano la pena fino a un terzo, e non è poco. Certo, si tratta di una aggravante formulata in termini generali, poi sta al giudice decidere. Ma la possibilità di darle c' è. Esiste poi un ulteriore problema».

Quale?

«Abbiamo in circolo 35.000 fattispecie di reato. Sono tantissime. Ogni volta che si fa una legge si aggiungono 2 o 3 norme penali. Ma un conto sono i delitti naturali: tutti sappiamo che è sbagliato, che so, uccidere la suocera. Un altro conto sono i delitti di pura creazione legislativa, i quali spesso si rivelano trappole».

E perché?

«Perché i cittadini rischiano di commettere reati senza rendersene conto. In generale questa proliferazione del diritto penale rende infido l'ordinamento giuridico e concede al giudice un potere superiore a quello che gli si vorrebbe togliere. Con 35.000 reati, se io volessi prendermela con lei, mi sarebbe più facile dire: andiamo a cercare il reato che posso contestargli al supermercato dei reati».

Se ci sono già leggi per punire i cosiddetti «crimini di odio» ed esistono pure le aggravanti, mi viene da pensare che il vero cuore di questa legge sia altrove. Ad esempio nell' introduzione dell' identità di genere che si può autodeterminare.

«Anche in questo caso abbiamo un riflesso della "cultura dei diritti" in cui viviamo.

Continuiamo ad aggiungere diritti, i quali altro non sono se non desideri che si trasformano in norme giuridiche. E in questo modo spesso si alimentano gli egoismi individuali. Sull' identità di genere mi viene da dire che noi siamo individui fatti di corpi, di carne. Invece qui mi sembra che si alimenti la dematerializzazione ormai imperante. Non possiamo prescindere dal fatto di avere carne e ossa. Infatti le femministe - alcune, non tutte - si sono accorte che l' identità di genere significherebbe cancellazione del corpo femminile (perché questo vuol dire) e dicono che sarebbe un arretramento».

C'è poi la questione della libertà di espressione e dei suoi limiti.

«In questo periodo si ragiona molto sulla libertà di parola e l' hate speech. Gli americani, che hanno il culto della libertà di espressione, hanno anche una grande tolleranza nei confronti degli intolleranti. Quella sì che ha un valore pedagogico».

Sul serio?

«John Stuart Mill diceva che ha maggior impatto la rappresentazione dell' errore rispetto a un bel sermone. Si impara di più dal cattivo esempio. Se sento qualcuno dire che gli omosessuali sono una sciagura, il moto di esecrazione che scaturisce rafforza le convinzioni positive. La circolazione delle idee, anche le più aberranti, rafforza i valori della cittadinanza. Le opinioni si combattono con altre opinioni: vietarne alcune per legge le santifica».

Secondo lei il ddl Zan rischia in qualche modo di «ghettizzare» le persone Lgbt?

«Anche qui dobbiamo tornare al dibattito statunitense. Con Kennedy prima o poi con Johnson si sviluppò la cosiddetta affirmative action, con il sistema delle quote che conosciamo. Ad esempio, se si voleva promuovere l' ingresso dei neri nelle università o in certi luoghi di lavoro, li si favoriva attribuendo punti in più nelle graduatorie. Sappiamo però che questo modo di agire ha prodotto l' effetto opposto a quello che si voleva ottenere. Io in realtà sono anche abbastanza favorevole ad azioni positive, ma non all' azione penale».

Giancarlo Coraggio, presidente della Consulta, ha detto ieri che sui «nuovi diritti» anche la corte Costituzionale deve intervenire se la politica non provvede a garantirli. Ma non si rischia così di scavalcare il Parlamento?

«Il punto è che se lasci una sedia vuota prima o poi qualcuno la occupa. Se la politica non interviene, allora scatta l' azione di supplenza da parte dei giudici costituzionali e pure dei giudici comuni. Ad esempio sulla stepchild adoption esistono varie sentenze. Emblematico in questo senso è il caso che ha riguardato Marco Cappato. È un effetto a catena. In Parlamento c' è un proliferare di commissioni i cui poteri sono quelli dell' autorità giudiziaria. Mentre il legislatore si occupa di azioni giudiziarie, l' autorità giudiziaria si occupa di legiferare».

Curioso cortocircuito. In conclusione, mi pare di capire che secondo lei il ddl Zan non sia necessario.

«Io credo che, in generale, ci sia bisogno di sottrarre, non di aggiungere; di usare la gomma e non la matita. E non vale solo per le leggi».

Verissimo, la confessione dolorosa di Alessandro Zan: "Non avevo neanche cinque euro". Libero Quotidiano il 06 novembre 2021. Ospite di Verissimo Alessandro Zan. Dopo aver incassato in Senato la sconfitta del suo ddl contro l'omotransfobia, l'esponente del Partito democratico ha promesso a Silvia Toffanin che la battaglia continua. "Ho conosciuto la paura quando mi sono reso conto che essere gay non era un’opzione possibile nella società in cui vivevo - ha confidato per poi lasciarsi andare a dichiarazioni ben più personali -. In famiglia non era accettato e i miei compagni di classe facevano battute omofobe. L’unica possibilità che avevo era nascondermi". Zan ha raccontato di aver capito da piccolo di essere omosessuale e questo lo ha reso oggetto di atti discriminatori. La libertà Zan l'ha trovata in Inghilterra. Da quel momento il deputato ha deciso di aprirsi con la madre: "Quando sono tornato ho parlato con mia mamma. Con mio padre, però, è stato una tragedia: si è messo le mani in faccia e ha detto ‘io non capisco più niente’ e da lì non ci siamo più parlati. Allora ho deciso di andarmene di casa. Studiavo e lavoravo, ero arrivato a non avere neanche cinque euro in tasca". Un momento difficilissimo, superato, però, visto che il padre ha poi deciso di accettarlo: "Mi ha detto ‘quando ti sposi con un uomo?’ e lì ho capito che lo aveva accettato. Si è anche impegnato nella mia campagna elettorale". 

Chi è il deputato che vuole imporci la dottrina arcobaleno. Giuseppe De Lorenzo il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Alessandro Zan, omosessuale e attivista Lgbt+, ex Sel ed ex renziano, è il primo firmatario del ddl sull'omofobia. È il deputato del momento, il cognome che tutti usano e pochi comprendono. Alessandro Zan, onorevole Pd, paladino dei diritti Lgbt. Prima che il disegno di legge sull’omofobia di cui è firmatario diventasse terreno di scontro politico, non è che fosse davvero noto al grande pubblico di stirpe non veneta. Sul sito dei deputati Pd, in teoria vetrina ufficiale per gli onorevoli eletti sotto le insegne dem, la sua pagina è praticamente bianca. Inoltre non ha un sito ufficiale e di ritratti lui dedicati ne esistono ben pochi. Chi volesse conoscerlo un po’ deve spulciare su Google per trovare una vecchia pagina del sito del gruppo parlamentare Pd. Nella foto Alessandro è senza barba, quella che ora invece lo identifica insieme al capello tirato all’indietro. Dicono sia un bell’uomo. Tanto che sotto la foto profilo di Facebook, un follower apprezza e scrive: “Comprendo perché è nato il gruppo a sostegno chiamato ‘Le bimbe di Zan’”. Si tratta probabilmente di una boutade (non ce n'è traccia), anche perché sarebbe un controsenso: Alessandro è omosessuale dichiarato, anzi fiero. Nel 2016 un suo intervento alla Camera fece spellare le mani ai colleghi di partito quando raccontò di come i genitori abbiano accettato e sostenuto il suo outing senza problemi. Nato a Padova, classe 1973, la militanza politica inizia sin dalle superiori. Prima si avvicina ai movimenti per la pace, poi sposa la bandiera arcobaleno per le battaglie Lgbt. Organizza manifestazioni per i diritti civili, va in piazza, si fa sentire. Ma soprattutto nei primi anni Duemila s’inventail “Kiss2Pacs”, una sorta di gaia slinguazzata collettiva in piazza, e i cosiddetti “pacs alla padovana”, il primo registro anagrafico per le coppie di fatto aperto ai gay. Negli anni è stato presidente dell’Arcigay Veneto e ancora oggi risulta tra i soci benemeriti del circolo Tralaltro Arcigay di Padova. Inoltre non nasconde di essere tra i fondatori dell’enorme Padova Pride Village, il tempio della cultura e del divertimento Lgbt+, una manifestazione estiva vietata agli omofobi (ma ce l’hanno scritto in faccia?) che dura da giugno a settembre e che - dicono i politici locali - “ha surclassato tutte le altre manifestazioni gay”. Zan non è solo ancora oggi un fervido sostenitore del “più grande evento Lgbt+ d’Italia”, ma risulta essere anche azionista di maggioranza al 52% della Be Proud srl, cioè la società che si occupa di organizzarne i dibattiti. Lui all’Espresso ha assicurato di non aver “alcun ritorno economico” né compensi per il ruolo di amministratore unico di una società “che non fa alcun tipo di utile”. Ma certo essere a capo di un evento da 200mila visitatori all’anno non è roba da poco, anche in termini di ritorno elettorale. Eletto per la prima volta consigliere comunale nel 2004 nelle liste dei Ds, a Padova è stato anche assessore al lavoro, all’ambiente e alla cooperazione internazionale in quota Sel, il partito di quel Nichi Vendola che 1996 provò a far passare una legge simile all'attuale ddl. Di quegli anni, dal 2009 al 2013, Zan ricorda lo sforzo fatto per installare pannelli fotovoltaici in città (ammazza) e per aver incrementato il flusso di racconta differenziata (arrabbiete). La prima volta alla Camera risale al 2013, dove entra subito dopo essersi dimesso dall’assessorato. Eletto nella lista di Sel, uscirà poco dopo dal partito per finire nel gruppo Misto e appoggiare la salita a Palazzo Chigi di Matteo Renzi. I suoi avversari lo definiscono un “renziano che, appena l’ex premier è andato in vacca, ha smesso di essere renziano”. Nel novembre del 2014 confluisce nel Pd, dove ancora oggi risiede senza più travasi partitici. Pochi mesi prima, secondo quanto racconta una fonte padovana, “aveva partecipato alle primarie di coalizione di sinistra per la scelta del sindaco, d’accordo con l’uomo scelto dal Pd, Ivo Rossi, al solo scopo di portare via voti al vero avversario di Rossi, tale Roberto Fiore, esponente dell’area riferibile a coalizione civica”. Questo suo “gesto di lealtà verso il Pd”, sostengono i detrattori, “è stato ovviamente premiato” con l’accoglienza nel partito e “con la successiva ricandidatura in Parlamento”. Solo malelingue?

La collega Alessia Rotta lo definisce un “grande lavoratore”, “attento”, “empatico”, “garbato” e “generoso”. Uno che in Parlamento si è “sempre occupato del tema dei diritti omosessuali” e che ora col ddl Zan “mantiene un cammino coerente”. Parole smielate, e ci saremmo sorpresi del contrario. Anche perché oggi dalle fila piddine Zan muove la sua battaglia politica contro la Lega per approvare il “suo” disegno di legge e tutti i colleghi gli danno corda. E poco importa se sull’argomento la maggioranza è spaccata, quasi a rischio tracollo; poco importa se la Cei e i cattolici chiedano di rivedere il testo, spaventati dal rischio che possa essere il cavallo di Troia del gender e dell’utero in affitto nelle scuole; poco importa se anche giuristi, politologi, femministe e arcilesbiche siano contrari all’introduzione per legge del concetto di “identità di genere”. Lui è “molto determinato” e “convinto delle proprie ragioni”. E infatti l’idea di mettere mano al suo testo non lo entusiasma: “La politica decida, o approvare questo testo oppure presentare migliaia di emendamenti per affossarla”, dice perentoreo. Il compromesso ci sarà? Difficile immaginarlo, viste le ultime dichiarazioni. Nei giorni scorsi, per dire, Zan ha affermato che in Italia “i gay dalla destra sono ancora visti come persone diverse, da curare”, quando esistono esponenti omosessuali (e pure elettori) che militano in Lega e FdI. Non proprio il miglior modo per trovare una mediazione.

Il relatore del disegno di legge si racconta. Alessandro Zan, dall’outing al Ddl: “Mio padre non la prese bene, la militanza nata in Erasmus”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 26 Maggio 2021. Alessandro Zan era un deputato del Partito Democratico pressoché sconosciuto. Almeno prima del Ddl che ha preso il suo nome, perché relatore del disegno di legge alla Camera. Ddl per “la prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. È uno dei temi del momento. Si discute e si dibatte e si litiga tutti i giorni sul Ddl. Zan, padovano, già nell’amministrazione comunale della giunta del sindaco Flavio Zanonato, laureato in ingegneria delle telecomunicazioni, in Parlamento dal 2013 prima con Sinistra e Libertà e quindi con il Pd, si è raccontato in una lunga intervista al Corriere del Veneto. “Prima di fare coming out, ero agitato e impaurito, perché ovviamente il giudizio dei genitori è importante per ogni figlio. Appena mi sono dichiarato, mia madre è stata molto tenera e comprensiva, mentre mio padre non l’ha presa bene. Poi però ha fatto un suo percorso personale, perché anche i genitori devono fare un percorso di accettazione dei propri figli, e alla fine è diventato un mio grande sostenitore”, ha raccontato. Si è formato all’Arcigay di Padova, ha organizzato il Gay Pride del 2002 nella sua città. I Democratici di Sinistra (Ds) il primo partito cui è stato iscritto. Nessuna violenza nell’infanzia e nell’adolescenza per il suo orientamento sessuale. Battute, offese, epiteti quelli sì. “Lo scherno verbale contro la comunità Lgbt+ era ed è ancora frequentissimo. Anche se, con le nuove generazioni, questo atteggiamento sta cambiando radicalmente”. A portarlo all’impegno politico l’esperienza dell’Erasmus in Inghilterra. “Quei mesi mi hanno fatto capire che la società italiana era, ed è, ancora fortemente machista e patriarcale, mentre l’esperienza vissuta in Gran Bretagna mi ha fatto capire che un’alternativa è possibile. Una volta tornato, ho iniziato la mia militanza”. Barricate intanto in Parlamento di Pd, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali che accusano la Lega di ostruzionismo. Si sono detti pronti a portare il testo in aula senza relatore. “Questa legge non sta dividendo l’Italia, piuttosto sta portando allo scoperto coloro che vogliono un Paese proiettato verso l’Europa sovranista di Orban e Duda, anziché l’Europa della democrazia e dei diritti”. A Padova, alle prossime comunali, potrebbe candidarsi Andrea Ostellari, l’onorevole della Lega che ha frenato il ddl e che ha presentato ieri 170 audizioni. Il Carroccio vuole modificare il disegno in maniera sostanziale. Non solo la destra, anche parte del movimento femminista è contrario al Ddl. CHE COS’E’ IL DDL – Il Ddl Zan è un disegno di legge per “la prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. È stato approvato alla Camera il 4 novembre e ora è all’esame della commissione Giustizia al Senato. Accorpa più progetti di legge e integra la Legge Mancino del 1993 contro le discriminazioni e le violenze per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Non introduce pene nuove ma amplia quelle già esistenti. Gli articoli sono 10. Il primo articolo definisce i termini per descrivere le categorie oggetto del disegno. La novità sta nell’identità di genere, che indica “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. La nozione non modifica la legge sul cambio di genere del 1982 che prevede la modifica del sesso all’anagrafe solo dopo un lungo processo. Il secondo articolo aggiorna l’articolo 604-bis del codice pensale e punisce con reclusione da un anno a sei mesi e multa da seimila euro “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” e con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi “istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Lo stesso articolo vieta l’organizzazione di movimenti volti alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Il Ddl Zan integra l’articolo con motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”. Il Ddl punisce l’istigazione e non la propaganda. L’istigazione è considerata un “reato di pericolo concreto”. L’articolo 4 riguarda la libertà di espressione ed è definito la “clausola salva-idee”: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. L’articolo 5 si coordina con la legge Mancino. Il 5 applica le norme previste per le “vittime particolarmente vulnerabili”. L’articolo 7 istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. L’articolo 8 del Ddl Zan stabilisce altri compiti all’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali. L’articolo 9 chiarisce chi può usufruire delle case accoglienza o dei centri contro le discriminazioni motivate da orientamento sessuale e identità di genere; centri già istituiti dal decreto legge 34 del 2020, poi convertito in legge, finalizzati a proteggere e sostenere le vittime lgbt+ di violenza, anche domestica. E quindi gli adolescenti malmenati perché gay, lesbiche, bisessuali o transgender oppure coloro che per gli stessi motivi vengono allontanati o minacciati dalla famiglia. L’articolo 10 affida all’Istituto nazionale di statistica e all’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori di raccogliere dati sulle discriminazioni per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, oppure fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Alessandro Zuin per il Corriere del Veneto il 26 maggio 2021. Sarà che ha un cognome di appena tre lettere, così facile da memorizzare e con un suono quasi onomatopeico, fatto sta che, per essere un soldato semplice del Parlamento italiano, di questi tempi lo conoscono davvero in tantissimi: «Ddl Zan» – cioè il disegno di legge contro l’omotransfobia, che mira a rendere punibile ogni forma di discriminazione basata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità – è diventata una di quelle formule che entrano nel linguaggio comune e, almeno fino a quando l’argomento continuerà a scaldare gli animi, sono destinate a rimanerci per un pezzo. Il rapper Fedez, attaccando frontalmente dal palco del concertone del Primo Maggio la Lega - che osteggia l’approvazione del disegno di legge, come gran parte del centrodestra - e la Rai, accusata di fare censura preventiva sull’argomento, gli hanno dato un’eco potentissima, innescando una colata lavica di reazioni e polemiche. Persino la presidenza della Cei - la Conferenza episcopale italiana - ha sentito il bisogno, pochi giorni fa, di prendere posizione sul «Ddl Zan», esprimendosi con un salomonico «modificare, non affossare». Ma chi è e da dove viene Alessandro Zan, l’esponente padovano del Pd che, in quanto relatore del provvedimento alla Camera (dove è già stato approvato, mentre ora si è impantanato al Senato), ha finito per identificare con il proprio nome la proposta di legge? Nella città del Santo, dove in passato ha fatto parte dell’amministrazione comunale nella giunta del sindaco Flavio Zanonato, lo ricordano soprattutto per avere promosso e ottenuto - era la fine del 2006 - l’istituzione del primo registro anagrafico italiano delle coppie di fatto, aperto anche alle coppie omosessuali. Ancora prima, nel 2002, era stato in prima fila nell’organizzazione del Gay Pride nazionale a Padova. Classe ‘73, una laurea in ingegneria delle telecomunicazioni, dal 2013 siede in Parlamento, prima per Sel e poi per il Pd. I colleghi alla Camera lo descrivono come un gran lavoratore, attento ed empatico verso il prossimo. Da qualche anno, porta fieramente la barba.

Deputato Zan, avrebbe mai immaginato di dare il suo nome a una proposta di legge capace di dividere trasversalmente l’Italia?

«Questo ddl porta il mio cognome perché sono stato nominato relatore alla Camera, ma è una legge di tutti quei colleghi parlamentari che, da un anno e mezzo, si battono e si impegnano per portarla a casa. Questa legge non sta dividendo l’Italia, piuttosto sta portando allo scoperto coloro che vogliono un Paese proiettato verso l’Europa sovranista di Orban e Duda, anziché l’Europa della democrazia e dei diritti».

Partiamo dalla sua esperienza personale: le è mai capitato di essere bullizzato da ragazzo o discriminato per il suo orientamento sessuale?

«Sono stato fortunato: nessuna violenza fisica pesante, come oggi ancora troppo spesso accade. Ma ho spesso ricevuto battute, scherzi omofobi, qualche danno alla bicicletta. Devo anche ammettere che la mia mente li aveva rimossi, poi, in questi ultimi mesi, ascoltando tante storie di discriminazione, ho ripercorso anch’io quegli anni e ho focalizzato quanto mi era accaduto».

Nella Padova della sua adolescenza (anni Ottanta) immaginiamo che certi epiteti rivolti agli omosessuali non fossero così infrequenti: le è capitato di riceverne?

«Sì, certo. Lo scherno verbale contro la comunità Lgbt+ era ed è ancora frequentissimo. Anche se, con le nuove generazioni, questo atteggiamento sta cambiando radicalmente».

C’è stato un momento o un episodio precisi in cui ha capito che avrebbe dovuto combattere per i suoi diritti e la sua identità?

«L’Erasmus in Inghilterra. Quei mesi mi hanno fatto capire che la società italiana era - ed è - ancora fortemente machista e patriarcale, mentre l’esperienza vissuta in Gran Bretagna mi ha fatto capire che un’alternativa è possibile. Una volta tornato, ho iniziato la mia militanza».

La sua scuola politica qual è stata?

«Ho cominciato nell’Arcigay di Padova, dove ho capito quanto sia importante l’associazionismo, esperienza culminata con il Pride nazionale del 2002: Padova fu invasa da decine di migliaia di persone, fu veramente incredibile. Mentre i DS furono il primo partito a cui mi iscrissi, un’esperienza politica a cui devo moltissimo e un’ottima scuola».

L’esperienza del Pride Village padovano quanto è stata importante?

«Ho un grande orgoglio per il Padova Pride Village: dal 2008 a oggi è stata fatta tantissima strada, ormai è un tutt’uno con la città. I padovani aspettano con gioia questo evento ogni estate. Siamo riusciti a coniugare positivamente momenti di approfondimento culturale e politico con il divertimento. Inoltre, ora è il festival lgbt+ più importante d’Italia, un vero baluardo dei diritti».

Come si è rivelato ai suoi genitori e all’ambiente familiare in genere?

«Prima di fare coming out, ero agitato e impaurito, perché ovviamente il giudizio dei genitori è importante per ogni figlio. Appena mi sono dichiarato, mia madre è stata molto tenera e comprensiva, mentre mio padre non la prese bene. Poi però fece un suo percorso personale, perché anche i genitori devono fare un percorso di accettazione dei propri figli, e alla fine diventò un mio grande sostenitore. È mancato quattro anni fa».

È uno sportivo praticante? Esiste una squadra del cuore?

«Sì, amo fare attività fisica, penso sia fondamentale, cerco sempre di ritagliarmi del tempo per lo sport. Tuttavia non seguo nessuno sport in particolare, né tifo per una squadra di calcio».

Ha letto che il leghista Andrea Ostellari, che in Senato sta frenando con grande applicazione il cammino del «ddl Zan», potrebbe essere il candidato sindaco del centrodestra nella sua Padova?

«Chiunque sia il candidato del centrodestra, sono convinto che Sergio Giordani, che sta facendo un ottimo lavoro, sarà riconfermato sindaco di Padova, una città che sta cambiando ed evolvendo, e che deve guardare all’Europa, non certo a ottuse ricette sovraniste».

Quanti omosessuali «nascosti» ci sono nelle forze politiche che osteggiano la sua legge?

«Non ne ho idea. Quello che so è che noi stiamo facendo questa battaglia di civiltà anche per loro, affinché non ci sia più nessuno costretto a nascondersi. Questa legge è per tutta la società, non per una minoranza».

Quando Zan chiese alla Rai di censurare i cattolici in tv. Stefano Zurlo il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. Il cantore della libertà con il bavaglio fra le mani. Un post del 2013 pescato dal battagliero periodico Tempi accende i riflettori su Alessandro Zan. Il cantore della libertà con il bavaglio fra le mani. Un post del 2013 pescato dal battagliero periodico Tempi accende i riflettori su Alessandro Zan, il politico del momento, autore del ddl sull'omotransfobia al centro delle polemiche, ancora di più dopo l'esplosione del caso Fedez. Oggi Zan dà lezioni di galateo e buone maniere politically correct, ma all'epoca sparava al bersaglio grosso: «Possibile che in Rai se si parla di gay bisogna ricorrere per forza ad ospiti ultra cattolici e omofobi?». Per la cronaca l'ultrà segnalato da Zan era l'avvocato Giancarlo Cerrelli, non proprio un passante ma il vicepresidente dell'Unione giuristi cattolici italiani: l'avevano invitato in Rai, a Uno Mattina, per discutere del ddl contro l'omofobia presentato da un altro deputato del Pd, Ivan Scalfarotto, antesignano di quello targato Zan. Allora la presenza di Cerrelli, contrario alla proposta Scalfarotto, suscitò un vespaio di polemiche e la componente lbgt dei 5 Stelle si rivolse al neopresidente della Commissione di vigilanza Rai Roberto Fico per spingerlo a fare pressioni sui vertici Rai, così da avere ospiti più «accomodanti». Insomma, la stessa censura denunciata da Fedez, ma otto anni prima e in forma quasi conclamata, non strisciante ma quasi esibita in nome della lotta ad ogni forma di prevaricazione verbale. Solo che a farne le spese erano i tradizionalisti, quelli che nel linguaggio double face di molti politici e opinionisti sono chiamati gli «oscurantisti» solo perché la pensano diversamente. La libertà è sempre un esercizio difficile e le opinioni non possono calpestare l'altrui dignità. Su questo tema Zan ha scritto una lettera al Foglio dai toni rassicuranti, spiegando che la nuova norma non calpesterà la possibilità di avere idee in contrasto con il pensiero alla moda: «Un prete in chiesa potrà sempre dire che l'unica unione è fra un uomo e una donna, come un politico durante un comizio potrà sempre dire che è contrario alla stepchild adoption». Ci mancherebbe. Zan aggiunge che verranno perseguite invece le espressioni offensive, crudeli, insultanti, per esempio contro i gay. Concetti che sfiorano l'ovvio ma che convincono fino a un certo punto perché i ragionamenti controcorrente potrebbero essere incasellati come l'anticamera di posizioni discriminanti e scorrette. Vedremo. Nel 2013 però Zan andava all'attacco di Cerrelli con quel post a forma di spillo: «Chiederò l'intervento della Commissione di vigilanza. È impensabile che il servizio pubblico si faccia megafono di tesi, teorie e personaggi che esprimono opinioni discriminanti e che si scagliano contro la discussione in corso in Parlamento, senza alcun contraddittorio politico». Parole allarmanti che suscitano dubbi e retropensieri listati a lutto sulla capacità di far convivere e rispettare scuole di pensiero differenti. Certo che non c'è solo la censura gridata da Fedez ma ci sono forme sottili di emarginazione delle idee che non piacciono agli artisti di successo, agli intellettuali che stanno sempre dalla parte giusta, ai leader che cavalcano l'indignazione facile e ai collezionisti di like. Insomma, una specie di censura al contrario, talvolta strisciante, qualche volta esplicita. Cerrelli fu invitato ancora da Mara Venier nel salotto di Domenica in ma poi fu congedato senza tanti complimenti. Una coincidenza? Chissà. L'inappuntabile Zan, che oggi ringrazia Fedez e gli porta la sua solidarietà, aggiungeva a proposito del solito Cerrelli: «Per caso quando si parla di questioni legate al cattolicesimo la Rai invita rappresentanti delle comunità gay per esprimere un'opinione?». Una domandina suggestiva che, se si riflette, chiude a doppia mandata la complessità e la ricchezza dell'evento cristiano dentro il ghetto di una speciosissima questione di genere. Peggio di una discriminazione.

Ddl Zan, smontiamo le bufale della destra una per una. Simone Alliva su L'Espresso il 3 maggio 2021. “È una norma che non serve”, “Sono gli eterossessuali quelli da difendere”, “scompariranno la mamma e il Natale”, “ti arrestano se sei contrario all’utero in affitto”. Tutte falsità della propaganda di destra. Ecco cosa prevede davvero la norma contro l’odio omotransfobico, punto per punto. Distratti dal dibattito scatenato dalle parole del rapper Fedez al Concertone del Primo Maggio, la legge Zan rimane per molti un oggetto distorto. La confusione sul suo contenuto è grande e porta spesso fuoristrada. Alcune dichiarazioni arrivate da politici ed esponenti del centrodestra sono pure e semplici bufale: la cancellazione del Natale, l’accesso all’utero in affitto, l’ideologia gender nelle scuole. La maggior parte di queste fake-news sono intenzionali. Lo scopo è quello di intorbidire le acque e avvelenare il dibattito. Ma la verità dei fatti sull’oggetto, cioè sulla luna (la legge Zan) e non il dito (Fedez), è proprio nel disegno di legge approvato alla Camera il 4 novembre 2020 e attualmente fermo in commissione giustizia. È un documento di 12 pagine che riporta dieci articoli.

Cosa c’è dentro la legge Zan? La legge mette sullo stesso piano la discriminazione per orientamento sessuale, identità di genere, genere, sesso, disabilità a quella razziale, etnica e religiosa. Interviene su due punti del codice penale e attraverso un'aggiunta alla già esistente legge Mancino-Reale (del 1992), mira a sanzionare gesti e azioni violenti. Oltre a reprimere i crimini d’odio misogino, omotransfobico e abilista prevede una serie di azioni positive che puntano a prevenirli. Di una legge contro l’omotransfobia nel nostro paese se ne parla esattamente da 25 anni. Analizziamo le più diffuse fake-news:

“Il nostro ordinamento giuridico già punisce le aggressioni omotransfobiche”

Falso. Oggi il Codice penale non colpisce le condotte motivate da omotransfobia ma si può solo sperare - laddove il diritto dovrebbe dare, nei limiti del possibile, certezze - che venga contestata e applicata l’aggravante dei “motivi abietti e futili”. Cosa che non avviene sempre. Inoltre, i reati previsti con formule generali vengono ad assumere un aspetto diverso e peculiare sotto il profilo criminologico quando colpiscono una minoranza, arrivando a qualificarsi come "crimini d'odio". L'articolo 3 della legge Mancino-Reale prevede reati commessi per odio etnico, nazionale, razziale o religioso. La legge Zan estende questi reati anche alle persone Lgbt, alle donne e alle persone con disabilità. Il reato d’odio si rivolge proprio contro quell’individuo e contro la sua differenza allo scopo di annullarla. Dare uno schiaffo a una persona nell’ambito di una lite non è la stessa cosa che picchiare una persona perché ebrea. Proprio per questo non si ritiene sufficiente l’applicazione dell’aggravante dei “motivi abietti e futili”: perché nel caso dei delitti d’odio non vi è solo una motivazione riprovevole ma un diverso e ulteriore bene giuridico tutelato. Colpendo una persona in quanto minoranza, il reo ottiene l’effetto che tutte le persone appartenenti alla minoranza (esempio: neri, Lgbt, ebrei, persone con disabilità) si sentano minacciate e abbiano paura. Entra in discussione il diritto alla tranquillità, alla sicurezza, alla libertà di circolazione di più soggetti. Proprio per questo si giustifica una reazione dello Stato.

“La legge Zan minaccia la libertà di opinione”

Falso. La proposta di legge Zan punisce solo l’istigazione e il compimento di atti discriminatori e violenti. L’articolo 4 della proposta di legge chiarisce che sono fatte salve le opinioni che non siano idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti.

È vero che la legge Zan estende la legge Mancino-Reale, ma non la estende al reato di "propaganda di idee fondate sull’odio etnico e razziale” (art. 604 bis c.p.). Facciamo un esempio: il giudice potrebbe applicare l’aggravante Zan a un’associazione che pubblicando la foto di un attivista gay invita i suoi seguaci a linciarlo. Non a un cittadino che potrà ancora liberamente dire: “Le persone omosessuali sono malate”, “l'utero in affitto è un abominio”, “il matrimonio omosessuale è sbagliato”. Giuridicamente si rispetta quel confine sottile tra determinatezza e indeterminatezza, quello che caratterizza il reato di diffamazione per intenderci, e riserva dunque ai gruppi anti-Lgbt quella libertà di pensiero presente anche nell’articolo 21 della nostra Costituzione. Determinare un soggetto, metterlo all'indice e invitare alla discriminazione è un reato già ampiamente condannato dal già citato reato di diffamazione. Con la legge Zan, potrebbe diventare "aggravato" in caso di soggetti vulnerabili come le persone Lgbt, le persone con disabilità, le donne.

Questo perché la proposta sui diversi reati, previsti dallo stesso articolo 604 bis, di “istigazione a commettere atti discriminatori o violenti” e sul “compimento” di quei medesimi atti, si estendono al caso di condotte motivate da genere, orientamento sessuale, sesso, disabilità e identità di genere. La condotta istigatoria è quella suscettibile di determinare il “concreto pericolo” del compimento di quegli atti. Dunque, non ogni opinione sarà oggetto della norma penale, ma solo l’opinione istigatoria che – determinando un concreto pericolo di compimento di atti discriminatori o violenti – leda l’identità personale altrui, in relazione al genere, all’orientamento sessuale o all’identità di genere.

I nostri giudici sono particolarmente chiari sul punto: il diritto di esprimere il proprio pensiero non è assoluto ma può essere limitato per proteggere “i diritti e le libertà altrui”. Insomma, anche nel caso di critica politica - che pur rende ammissibile una maggiore asprezza nei toni e nelle parole - devono essere pienamente rispettati i limiti della “verità” e “dell’interesse sociale” (come riportato negli articoli 9 e 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre del 1950).

Il bilanciamento deve dunque essere effettuato tra la libertà di esprimere il proprio pensiero, da un lato e la necessità di garantire comunque il rispetto della dignità umana e dell’uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere dalle caratteristiche personali e sociali. Un giusto equilibrio tra libertà e dignità, tra libertà e persona. In questo senso, spiegano i nostri giudici, le norme in tema di discriminazione razziale costituiscono anche l’applicazione del fondamentale principio di uguaglianza (indicato nell’articolo 3 della Costituzione), sicché è ampiamente giustificato il sacrificio del diritto di libera manifestazione del pensiero.

Insomma, tutti possiamo esprimere la nostra opinione, purché nel limite del rispetto degli altri e in ossequio a un principio che dovrebbe ispirare sempre l’azione politica di chi occupa posti di potere, la guida è nell’articolo 3 della Costituzione che è una garanzia di tutela dall’odio.

“La legge Zan introduce l’ideologia gender nelle scuole”

Falso. La legge Zan prevede la strategia Nazionale attivata dall'UNAR, l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Sono già presenti oggi interventi anti-discriminazioni negli ambiti dell’educazione e dell’istruzione, del lavoro, della sicurezza e delle carceri. Spesso vanno sotto il nome di “corsi di educazione al rispetto”. La legge Zan punta sulla cultura, quella che serve veramente per arginare il fenomeno dell'omotransfobia. Un lavoro in sinergia con le associazioni anti-discriminazioni già rodato da anni. Arcigay, ad esempio, a Siena, organizza ‘Orientiamoci alle differenze’, progetto di formazione per operatori di sportello specializzati in tematiche Lgbt. Ma anche ‘Prof Presente’ corso gratuito per gli insegnanti che offre strumenti per prevenire o affrontare il bullismo omotransfobico. Nessuna ideologia gender, solo educazione al rispetto. I corsi sono già riconosciuti dalle alte istituzioni da più di vent’anni. Nel 2011 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferì ad Arcigay-Trieste una medaglia di bronzo per il progetto “A Scuola per conoscerci”, realizzato in Friuli-Venezia Giulia. Dopo dieci anni di impegno contro il bullismo la giunta guidata dal leghista Massimiliano Fedriga ha dato lo stop al progetto.

“L’identità di genere introdotta dalla legge Zan cancellerà le donne”

Falso. Basti pensare che tra le caratteristiche personali che possono determinare discorsi e crimini d’odio nella legge Zan è stato aggiunto, accanto al genere, proprio il sesso, per nominare anche tale componente dell’identità personale. Il concetto di identità di genere non è astratto ma già presente nella giurisprudenza, lo si trova nell’ordinamento penitenziario ( articolo 1, legge 354/1975. Articolo 14, ultimo comma). Lo si riscontra nell’articolo 8 (comma 1, lett. d) del decreto legislativo n. 251/2007 in materia di riconoscimento dello status di rifugiato, a proposito della nozione di gruppo sociale perseguitato. Più recentemente possiamo leggere il termine “identità di genere” nella sentenza n 221/2015 della Corte Costituzionale, a proposito della legge n. 164/1982, in materia di rettificazione dell’attribuzione di sesso. E ancora anche nei trattati internazionali (su tutti, la Convenzione di Istanbul) o nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. L’identità di genere non è dunque un’invenzione della proposta di legge Zan, ma è un concetto ampiamente presente nel nostro ordinamento. Il suo riconoscimento riporta alla “necessità di un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato” (è ancora la Corte costituzionale, sent. n. 180/2017). Il termine viene ripreso dalla proposta di legge Zan per proteggere le persone trans oggetto di comportamenti discriminatori e violenti fondati sull’odio verso la loro condizione personale. La definizione di identità di genere contenuta all’articolo 1 della proposta di legge Zan è coerente con la nozione di identità di genere propria dell’ordinamento vigente: si parla, infatti, di: “identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Spesso a questa obiezione si aggiunge quella che la legge Zan nominando “l’identità di genere” possa consentire alle persone transessuali, transgender e non binarie di scardinare il vigente sistema di rettificazione anagrafica del sesso. Non è così. La proposta Zan riguarda il contrasto della discriminazione e della violenza, contiene disposizioni penali che devono essere formulate nel modo più preciso possibile e, soprattutto, essere adatte a colpire discorsi e crimini d’odio lì dove si manifestano, riconoscendo il motivo specifico per il quale si manifestano. E l’identità di genere è uno di questi motivi, le persone transgender del resto, sono il 70% delle persone aggredite.

La legge Zan assimila le donne a una minoranza da proteggere, quando invece sono la maggioranza

Falso. La proposta di legge Zan non tutela minoranze, ma dimensioni dell’identità personale, compresi il sesso e il genere, rispetto a discriminazioni, violenza e odio.

Sul piano penale, non considera (o aggrava) reati, sulla base di chi ne sia vittima: colpisce il movente d’odio, e dunque le specifiche ragioni di una condotta, dovute alle condizioni personali della vittima.

“La legge Zan discrimina le persone eterosessuali. Serve una legge contro l’eterofobia”

Falso. La proposta Zan è già una legge contro le vittime di eterofobia. Cioè quegli etero aggrediti da persone Lgbt (le cronache sono asciutte di questi crimini d’odio ma l’obiezione viene dal leader leghista Matteo Salvini). La proposta Zan tutela le vittime per “orientamento sessuale” e questa espressione include tutti gli orientamenti, compreso quello eterosessuale.

“La Legge Zan cancellerà la festa della mamma, i presepi, il natale, i canti”

Falso. La legge Zan prevede l'istituzione della giornata mondiale contro l'omotransfobia il 17 Maggio. Si celebra nel mondo dal 2004. Il 17 maggio 1990 è stata una giornata di svolta nella storia della civiltà: l'Organizzazione mondiale della Sanità, cioè l'organismo a cui la comunità internazionale affida il compito di stabilire le conoscenze cardine sulla salute della popolazione planetaria, ha depennato l'omosessualità dall'elenco delle malattie mentali. In Italia, ogni anno, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio e i Presidenti di Camera e Senato rilasciano dichiarazioni a riguardo. La legge Zan prevede che, in occasione della Giornata mondiale contro l’omotransfobia, le scuole organizzino attività di sensibilizzazione per «contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere». Quindi prevenire atti di bullismo e discriminazioni. Non avrà carattere di festività e le iniziative si svolgeranno nel rispetto dell'autonomia scolastica della corresponsabilità educativa con le famiglie.

“La legge Zan introduce l’utero in affitto”

Falso. Questa è una legge sulle aggressioni. Inoltre, in Italia la “gestazione per altri”, definita da altri “utero in affitto”, non è legale.

"No all'identità di genere", "Urgente": il ddl Zan divide tutti. Francesco Curridori il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo sentito le opinioni di Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay, e della giornalista Marina Terragni. Il ddl Zan continua a far discutere, anche all'interno del campo della sinistra. A tal proposito, per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo sentito le opinioni di Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay per i diritti LGBT+, Solidale, Ambientalista e Liberale, e della scrittrice e giornalista Marina Terragni.

Cosa pensa del ddl Zan?

Marrazzo: "La legge contro l’omotransfobia, è una legge che affronta temi urgenti e che ha recepito istanze importanti e riprende molti articoli suggeriti anche da me, elaborati sulla base dell'esperienza maturata nei molti anni passati nel mondo dell'associazionismo LGBT, è utile ma deve marciare nella giusta direzione. Infatti, presenta criticità che vanno risolte per non risultare controproducenti, come l'art.4 che consente di definire malati ed inferiori le persone LGBT e l'art.7 che di fatto blocca le attività formative contro l'omotransfobia nelle scuole. Sappiamo bene che la Lega di Salvini è contraria alla legge, ma PD, M5S, IV e LEU hanno la maggioranza in commissione ed al Senato. Quindi, chiediamo che non venga utilizzata la proposta della Lega come alibi per far passare emendamenti peggiorativi, anzi i sostenitori dichiarati migliorino la legge, come da noi indicato rendendola più simile a quella contro il razzismo, eliminando cosi articoli pericolosi".

Terragni: "Penso che il testo vada modificato. Ci sono delle cose che non vanno bene, in particolare la misoginia perché vengono coinvolte le donne che non sono una minoranza e l'identità di genere perché comporta un impatto molto pesante sulle società dove viene riconosciuta".

Perché il termine 'identità di genere' divide?

Marrazzo: "Non direi che è così. L'identità di genere non é un tema su cui ci si può dividere: ogni individuo esprime la propria soggettività identificandosi anche in un genere diverso dal sesso biologico. Secondo me ci sono alcune attiviste che hanno un atteggiamento un pò ingeneroso e con un fondo di pregiudizio nei riguardi delle persone trans. È una piccola barriera che supereranno da sole, tutto qui, non drammatizzerei un fenomeno abbastanza circoscritto".

Terragni: "Divide perché è il portone d'ingresso al cosiddetto post-umanesimo. Non viene chiarito che l'identità di genere è il concetto centrale della legge e che si impedisca ogni forma di discussione pubblica perché riguarda la sessuazione umana, cioè il fatto che nasciamo con due generi diversi. Si lascia, dunque, libero accesso a qualunque genere con semplici atti amministrativi. Mi sembra una questione che vada discussa ampiamente".

Ci possono essere dei rischi per la parità tra uomo e donna, se passa questa legge?

Marrazzo: "Quale parità'? Oggi purtroppo non c'è. La legge è fatta per difendere anche le donne vittime di discriminazione, anzi paradossalmente un uomo potrà usufruire della legge se discriminato o oggetto di violenza di genere! Ma non capita spesso".

Terragni: "Non è in questione la parità. Ci sono dei rischi perché il fatto che ognuno possa decidere liberamente decidere di essere uomo o donna tocca la radice dell'umano e non può essere approvato in fretta e furia e clandestinamente".

Si potrebbe migliorare il ddl Zan? E, se sì, come?

Marrazzo: "Certo, ci possono essere molte migliorie, ma come appena detto, bisognerebbe almeno eliminare l'art.4 perché è superfluo ed ambiguo, con ipocrite circonlocuzioni per inzuccherare la pillola. La libertà di pensiero è garantita dall'art.21 della Costituzione. Ma non è prevista la licenza di offendere. Considerare inferiore un popolo rispetto ad un altro è razzismo, considerare le donne inferiori rispetto agli uomini è maschilismo, ma disprezzare gli LGBT, che è omo-bi-transfobia, secondo l'art.4 si puo', basta non provocare reazioni concrete di odio riconducibili a tali affermazioni. Ossia cosa quasi impossibile da provare, perché se uno dice una frase discriminatoria, poi qualcuno dovrà provare che una persona che lo ha sentito compie contestualmente una discriminazione, come si fa? Si devo pedinare per giorni tutti coloro che lo hanno sentito?. Quindi, a causa di questo articolo, di noi LGBT si può anche dire che siamo malati, come se la definizione di malattia o normalità fosse un'opinione personale e non una condizione definita dalla scienza. La quale ha stabilito tramite L'O.M.S. nel 1990 che l'omosessualità non è una malattia e nel 2018 che anche la transessualità non lo è. Anche l'art. 7 è mal impostato per la parte che riguarda la scuola. Infatti rispetto ad oggi rende più difficili interventi educativi sia organici che estemporanei. Contro il bullismo omotransfobico dilagante ci vorrebbe un'educazione al rispetto verso le differenze, ma ci vengono a dire che con questa scusa vogliamo introdurre la fantomatica ed assurda teoria gender, che semplicemente non esiste, è una truffa culturale. Nelle scuole va solo fatto capire che le persone LGBT non vanno discriminate, ma accolte. Lo dovrebbe fare l’educazione civica. Invece, per l’art. 7 se succede un episodio di discriminazione o di bullismo non si potrà intervenire subito nella scuola, perché servirà un progetto che entri nel piano triennale e sia approvato da tutti i genitori! Mentre oggi basta solo l’approvazione del consiglio di istituto che rappresenta già genitori, studenti e docenti".

Terragni: "Si deve levare ogni riferimento alla misoginia e all'identità di genere e si devono consentire corsi Lgbt che sono già presenti nelle scuole lasciando la libertà ai genitori di decidere se mandare i propri figli a questi corsi oppure no".

Teme che le femministe contrarie al ddl Zan possano fare il gioco degli ultracattolici?

Marrazzo: "Lo stanno già facendo, spero che se ne accorgano. Concludo: nonostante la società civile accetti, comprenda e rispetti il pluralismo culturale, razziale, sociale, ecc, permane in certe persone un retaggio dei pregiudizi tradizionali difficile da estirpare perché spesso inconscio. Non solo sugli LGBT ma anche su donne, migranti e non solo. Quante volte ci sentiamo dire: 'io non sono razzista ma....'. 'Io ho tanti amici gay ma...'. Finché non cambia questa mentalità, un minimo di rispetto dell'altro deve essere imposto per legge e, in mancanza, sanzionato. Come il codice della strada, per poter circolare tutti senza troppi incidenti. O come il "Politically Correct", che è una forma di tutela sociale non violenta".

Terragni: "Noi non facciamo il gioco di nessuno. Noi ascoltiamo la nostra coscienza e conosciamo bene il concetto dell'identità di genere che in altri Paesi, come la Gb, è già stato abolito. La destra farà la sua battaglia, noi faremo la nostra. La differenza è che la destra non vuole la legge tout-court, mentre noi vogliamo la legge ma senza il riferimento all'identità di genere come in Spagna, in Germania e in altri Paesi".

Ddl Zan, la Lega chiama come “esperti” periti agrari, curatori di gay e sacerdoti. Ma anche Platinette, il presidente di Pro Vita e l’infettivologa che vedeva nelle unioni civili la causa dell’Hiv. Ecco chi sono i 170 chiamati dal presidente della Commissione Giustizia Andrea Ostellari a esprimersi sulla legge contro l’omostransfobia. Simone Alliva su L'Espresso il 25 maggio 2021. C’è la negazionista, il curatore, il gay in astinenza. La drag queen leghista, il figlio del leader di Forza Nuova e il perito agrario. È destinata a far discutere la lista dei 170 “esperti” presentata dal Presidente della Commissione Giustizia, Andrea Ostellari, che dovranno pronunciare un parere “tecnico” sul ddl Zan contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. “Casa Ostellari”, l’ha definita Monica Cirinnà riferendosi al numero altissimo di auditi che rischia di allungare i tempi di una discussione che ha subito freni e contraccolpi. Una mossa che “ha come unica finalità quella di affossare la legge” commenta Franco Mirabelli, senatore del Partito Democratico e capogruppo in Commissione Giustizia. A scorrere la lista però il colpo d’occhio è da baraccone ambulante per via dei nomi che poco hanno a che fare con l’esperienza tecnica-scientifica richiesta per esprimersi su un provvedimento di legge. Da Platinette (alias Mauro Coruzzi) a Nino Spirlì, presidente facente funzioni della Calabria ("Dirò negro e frocio fino alla fine dei miei giorni, la lobby frocia vuole toglierci le parole”). Tra i nomi spicca quello di Giorgio Ponte, richiesto dal centro-destra in quanto “scrittore”. Ponte è noto alle cronache per una lettera pubblicata dal settimanale Tempi nel 2015, l'uomo si era definito omosessuale e felice di non avere gli stessi diritti di tutti gli altri, affermando che la sua «condizione» avesse «cause psicologiche» e che necessariamente dovesse essere modificata o ignorata attraversare la totale astinenza. Ci sarà spazio anche per ascoltare Chiara Atzori, professione infettivologa, il centro-destra chiede dunque un parere su una legge di contrasto ai crimini d’odio a alla dottoressa che nel 2008 scatenò un mare di polemiche quando, dai microfoni di Radio Maria, sostenne che la “normalizzazione” dell’omosessualità (ovvero unioni civili e matrimoni egualitari) fosse la causa dell’aumento delle infezioni da HIV”. Chiara Atzori ha curato la prefazione del libro “Omosessualità maschile: un nuovo approccio” testo dell’americano Joseph Nicolosi, il padre di tutte le terapie riparative, e collabora con il gruppo Chaire, un gruppo di cristiani che vuole “confutare gli argomenti dei propagandisti dell’ideologia gay” e che dicono di poter rendere eterosessuali i gay. Dall’universo anti-Lgbt del Family Day non manca nessuno: c’è Toni Brandi, presidente di Pro-Vita e Famiglia. C’è Marina Casini per Il Movimento per La Vita. E ancora Jacopo Coghe sempre di Pro-Vita, Rachele Ruiu, di Generazione Famiglia. Immancabile Massimo Gandolfini, audito come neuro-chirurgo ma noto come portavoce del Family Day, nel 2015 offrì la sua soluzione al suicidio di moltissimi giovani gay a causa dell’omofobia: “Spingiamoli all’eterosessualità”. L’omosessualità non è più ritenuta una malattia da 31 anni, in Aula al Senato tuttavia è prevista anche l’audizione di Tonino Cantelmi, psichiatra di area cattolica e vicino alle istanze del Family day e dei movimenti anti-gay italiani. Nel 2013 in un documento pubblicato sul sito dell’onorevole Paola Binetti, in merito al ddl sull’omofobia allora in discussione alla Camera dei Deputati (contro cui prese posizione), in un suo articolo dichiarava: «Nella sua attuale formulazione, questa legge potrebbe impedire un approccio clinico-terapeutico, ledendo la libertà di cura del medico e dello psicologo (fatte salve le prescrizioni già previste nell’ordinamento deontologico delle professioni interessate), e soprattutto del paziente stesso». Cantelmi, in seguito alla pubblicazione dell’articolo ha inviato a L’Espresso una nota in cui precisa: «All’epoca (2013, ndr)  la mia preoccupazione era circa l’impatto che la formulazione di allora avrebbe potuto avere sulla libertà di ricerca clinica. In effetti successivi emendamenti e cambiamenti hanno accolto le mie osservazioni e attualmente, tranne alcune problematiche terminologiche (identità di genere), non ho grandi riserve sull’attuale formulazione del DDL Zan». Riccardo Cascioli, audito in qualità di semplice “giornalista” è in realtà direttore responsabile de “La Nuova Bussola”, sito ultracattolico che miscela complottismi gender e teorie no-vax. Alessandro Fiore, si presenterà in qualità di giurista. In realtà è militante di Pro-vita, figlio del più noto Roberto Fiore, leader di Forza Nuova. In questo girone di cariche omesse c’è anche la co-fondatrice delle “Sentinelle in Piedi”, Raffaella Frullone presentata nella lista come “giornalista esperta”. Gaetano Montante, infine si presenta a nome dell’ “Assemblea di Dio in Italia” sul proprio sito raccoglie video di presunti "ex-gay" prodotti da organizzazioni americane commerciali come la PPfox. Immancabili sono anche i vari link che rimandano ad articoli del Narth (National Association for Research and Therapy of Homosexuality) di Joseph Nicolosi al fine di sostenere che «l’omosessualità è un disturbo dell’identità Sessuale. Un disordine che può essere rimesso in ordine se l’individuo decide di riordinare la propria vita secondo il disegno del Creatore». Massimo Polledri è invece ex deputato leghista. Viene presentato per le sue esperienze in psichiatria e neuropsichiatria con l’onlus “Umanitaria Padana”: “L'omosessualità può essere una condizione di infelicità che può anche essere reversibile” aveva sostenuto ai microfoni di Radio 24 nel 2012. Il 31 marzo 2011 in aula alla collega con disabilità Ilaria Argentin del PD urlò: “Stai zitta handicappata del cazzo”. E il 23 giugno 2011 sussurrò in diretta radiofonica a Pina Picierno, deputata del Pd, “Se ci caliamo le braghe noi, può esserci una bella sorpresa per te”. La lista continua, presente l’area femminista radicale rappresentata da Marina Terragni e Monica Sargetini. Il leghista Alberto Zelger, consigliere comunale leghista di Verona diventato noto per le dichiarazioni riportate dal rapper Fedez, sul palco del primo maggio: “Le unioni civili sono una sciagura per la riproduzione e la conservazione della specie”. Andrea Williams, capo della Chiesa Cristiana Evangelica d’Inghilterra noto per le sue posizioni conservatrici e omofobe. E c’è spazio anche per un perito agrario: Daniele Zampolini, presidente dell’associazione non proprio nota “Famiglia nel cuore”, che su Facebook conta 235 like.

Non era mai successo prima. Vaticano contro il ddl Zan, una "nota verbale" per fermare la legge: “Viola il Concordato”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Il Vaticano interviene ‘a gamba tesa’ nel già complicato dibattito italiano sul ddl Zan, disegno di legge contro l’omotransfobia che prende il nome dal deputato Dem Alessandro Zan, attualmente fermo in commissione Giustizia del Senato. Monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, ha chiesto formalmente al governo italiano di modificare il ddl Zan poiché “viola il Concordato”. Una mossa che stupisce, quella del Vaticano: è la prima volta infatti che la Chiesa interviene durante l’iter di approvazione di una legge, esercitando le facoltà previste nei Patti Lateranensi. Come riporta il Corriere della Sera Gallagher, di fatto il ‘ministro degli Esteri’ di Papa Francesco, si è presentato lo scorso 17 giugno presso l’ambasciata italiana in Vaticano consegnando una “nota verbale”, ovvero una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata, nelle mani del primo consigliere. Nel testo si legge che “alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato”. Cosa vuol dire? Il riferimento è quei commi del Concordato tra Santa Sede e Vaticano dl 1984 che assicurano alla Chiesa la “libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale”, come recita il comma 1, e che garantiscono “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” col comma 2. L’accusa che arriva dal Vaticano è, pur con un linguaggio ‘sobrio’, di quelle pesanti: secondo la nota verbale il ddl Zan attenterebbe alla “libertà di pensiero” della comunità cattolica, oltre alla “libertà di organizzazione”. Per quest’ultimo caso l’esempio sarebbe l’articolo 7 del ddl Zan, che non esclude le scuole private dall’organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia. La mossa del Vaticano, pur straordinaria perché mai prima d’ora la Chiesa era intervenuta nell’iter di approvazione di una legge italiana, in parte non sorprende. La Cei, Conferenza episcopale italiana, già due volte è intervenuta ufficialmente per bocciare il disegno di legge, mosse però “politiche” e mai arrivate con l’uso ufficiale della diplomazia. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giovanni Viafora per corriere.it il 22 giugno 2021. Il Vaticano ha attivato i propri canali diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il «ddl Zan», ovvero il disegno di legge contro l’omotransfobia. Secondo la Segreteria di Stato, la proposta ora all’esame della Commissione Giustizia del Senato (dopo una prima approvazione del testo alla Camera, lo scorso 4 novembre), violerebbe in «alcuni contenuti l’accordo di revisione del Concordato». Si tratta di un atto senza precedenti nella storia del rapporto tra i due Stati — o almeno, senza precedenti pubblici —, destinato a sollevare polemiche e interrogativi. Mai, infatti, la Chiesa era intervenuta nell’iter di approvazione di una legge italiana, esercitando le facoltà previste dai Patti Lateranensi (e dalle loro successive modificazioni, come in questo caso).

La «nota verbale». A muoversi è stato monsignor Paul Richard Gallagher, inglese, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. In sostanza, il ministro degli Esteri di papa Francesco. Lo scorso 17 giugno l’alto prelato si è presentato all’ambasciata italiana presso la Santa Sede e ha consegnato nelle mani del primo consigliere una cosiddetta «nota verbale», che, nel lessico della diplomazia, è una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata. Nel documento — pur redatto in modo «sobrio» e «in punta di diritto» — le preoccupazioni della Santa Sede: «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato — recita il testo — riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato».

I commi. Questi commi sono proprio quelli che, nella modificazione dell’accordo tra Italia e Santa Sede del 1984, da un lato assicurano alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale» (è il comma 1); e, dall’altro garantiscono «ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (il comma 2). E sono i veri nodi della questione.

«Libertà a rischio». Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la sopracitata «libertà di organizzazione» — sotto accusa ci sarebbe, per esempio, l’articolo 7 del disegno di legge, che non esenterebbe le scuole private dall’organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia —; ma addirittura attenterebbero, in senso più generale, alla «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Nella nota si manifesta proprio una preoccupazione delle condotte discriminatorie, con il timore che l’approvazione della legge possa arrivare persino a comportare rischi di natura giudiziaria. «Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni», è infatti la conclusione del documento consegnato al governo italiano.

Cosa succede. Il giorno stesso, a quanto risulta al Corriere, la nota sarebbe stata consegnata dai consiglieri dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede al Gabinetto del ministero degli Esteri di Luigi Di Maio e all’Ufficio relazioni con il Parlamento della Farnesina. E ora si attende che venga portata all’attenzione del premier Mario Draghi e del Parlamento. Ma cosa potrebbe succedere adesso? In teoria, stando al Concordato, potremmo essere davanti anche all’ipotesi in cui, di fronte ad un problema di corretta applicazione del Patto, si arrivi all’attivazione della cosiddetta «commissione paritetica» (prevista dall’articolo 14). Ma è presto per trarre conclusioni. L’unica cosa certa è che siamo oltre ad una semplice moral suasion.

Il salto di qualità. Il punto, come detto, riguarda proprio il «livello» su cui la Santa Sede ha deciso, questa volta, di giocare la partita. Le critiche della Chiesa al «ddl Zan» non sono certo nuove. Sul tema la Cei è già intervenuta ufficialmente due volte: la prima nel giugno del 2020 («Esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio», dissero all’epoca i vescovi); e la seconda non più tardi di un mese e mezzo fa («Una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza», era stata la nota del presidente Gualtiero Bassetti). Per non parlare delle singole prese di posizione («È un attacco teologico ai pilastri della dottrina cattolica», ha affermato di recente, per esempio, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta»). Ma si è sempre trattato di pur legittime prese di posizione «esterne», «politiche». Come le tante, dirette e indirette, cioè mediate dai partiti di riferimento, registrate negli anni (nel 2005 il cardinal Ruini arrivò a schierarsi pubblicamente a favore dell’astensionismo nel voto referendario sulla fecondazione assistita). Ma mai si era attivata la diplomazia. Mai lo Stato Vaticano era andato a bussare alla porta dello Stato Italiano chiedendo conto, direttamente, di una legge.

Omofobia: Letta, sosteniamo ddl, pronti a dialogo su nodi. (ANSA il 22 giugno 2021) "Noi sosteniamo la legge Zan e, naturalmente, siamo disponibili al dialogo. Siamo pronti a guardare i nodi giuridici ma sosteniamo l'impianto della legge che è una legge di civiltà". Lo ha detto il segretario del Pd Enrico Letta a "Radio anch'io" su Radio Rai 1 a proposito della notizia riportata dal Corriere della Sera di una iniziativa della Santa Sede contro il disegno di legge Zan contro l'omotransfobia in quanto violerebbe il Concordato.

Giovanni Viafora per il "Corriere della Sera" il 22 giugno 2021. Il Vaticano ha attivato i propri canali diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il «ddl Zan», ovvero il disegno di legge contro l'omotransfobia. Secondo la Segreteria di Stato, la proposta ora all' esame della Commissione Giustizia del Senato (dopo una prima approvazione del testo alla Camera, lo scorso 4 novembre), violerebbe in «alcuni contenuti l'accordo di revisione del Concordato». Si tratta di un atto senza precedenti nella storia del rapporto tra i due Stati - o almeno, senza precedenti pubblici -, destinato a sollevare polemiche e interrogativi. Mai, infatti, la Chiesa era intervenuta nell' iter di approvazione di una legge italiana, esercitando le facoltà previste dai Patti Lateranensi (e dalle loro successive modificazioni, come in questo caso). A muoversi è stato monsignor Paul Richard Gallagher, inglese, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. In sostanza, il ministro degli Esteri di papa Francesco. Lo scorso 17 giugno l'alto prelato si è presentato all' ambasciata italiana presso la Santa Sede e ha consegnato nelle mani del primo consigliere una cosiddetta «nota verbale», che, nel lessico della diplomazia, è una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata. Nel documento - pur redatto in modo «sobrio» e «in punta di diritto» - le preoccupazioni della Santa Sede: «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato - recita il testo - riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall' articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato». Un passaggio delicatissimo. Questi commi sono proprio quelli che, nella modificazione dell'accordo tra Italia e Santa Sede del 1984, da un lato assicurano alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale» (è il comma 1); e, dall' altro garantiscono «ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (il comma 2). E sono i veri nodi della questione. Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la sopracitata «libertà di organizzazione» - sotto accusa ci sarebbe, per esempio, l'articolo 7 del disegno di legge, che non esenterebbe le scuole private dall' organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia e la transfobia -; ma addirittura attenterebbero, in senso più generale, alla «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Nella nota si manifesta proprio una preoccupazione delle condotte discriminatorie, con il timore che l'approvazione della legge possa arrivare persino a comportare rischi di natura giudiziaria. «Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni», è infatti la conclusione del documento consegnato al governo italiano. Il giorno stesso, a quanto risulta al Corriere, la nota sarebbe stata consegnata dai consiglieri dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede al Gabinetto del ministero degli Esteri di Luigi Di Maio e all' Ufficio relazioni con il Parlamento della Farnesina. E ora si attende che venga portata all' attenzione del premier Mario Draghi e del Parlamento. Ma cosa potrebbe succedere adesso? In teoria, stando al Concordato, potremmo essere davanti anche all' ipotesi in cui, di fronte ad un problema di corretta applicazione del Patto, si arrivi all' attivazione della cosiddetta «commissione paritetica» (prevista dall' articolo 14). Ma è presto per trarre conclusioni. L' unica cosa certa è che siamo oltre ad una semplice moral suasion. Il punto, come detto, riguarda proprio il «livello» su cui la Santa Sede ha deciso, questa volta, di giocare la partita. Le critiche della Chiesa al «ddl Zan» non sono certo nuove. Sul tema la Cei è già intervenuta ufficialmente due volte: la prima nel giugno del 2020 («Esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio», dissero all' epoca i vescovi); e la seconda non più tardi di un mese e mezzo fa («Una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l'obiettivo con l'intolleranza», era stata la nota del presidente Gualtiero Bassetti). Per non parlare delle singole prese di posizione («È un attacco teologico ai pilastri della dottrina cattolica», ha affermato di recente, per esempio, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta). Ma si è sempre trattato di pur legittime prese di posizione «esterne», «politiche». Come le tante, dirette e indirette, cioè mediate dai partiti di riferimento, registrate negli anni (nel 2005 il cardinal Ruini arrivò a schierarsi pubblicamente a favore dell'astensionismo nel voto referendario sulla fecondazione assistita). Ma mai si era attivata la diplomazia. Mai lo Stato Vaticano era andato a bussare alla porta dello Stato Italiano chiedendo conto, direttamente, di una legge.

Il colpo "segreto" che ha paralizzato i Dem. Francesco Boezi l'11 Luglio 2021 su Il Giornale. Una singola nota verbale del Vaticano ha mandato in confusione democratici e laicisti non solo sul Ddl Zan, ma su tutta la narrazione ultra-progressista. Un colpo ben assestato. Una mossa capace di animare il dibattito, rendendo in salita l'approvazione del Ddl Zan: se l'intenzione del Vaticano era quella di complicare l'iter del disegno di legge più discusso del momento, quel proposito ha avuto un seguito di tutto rispetto. Dalla nota diplomatica in poi, la politica ha avuto un bel da fare. Con una postilla: la Santa Sede ha dichiarato di non essere contraria alla legge. Il Vaticano ha, al massimo, domandato modifiche per tutelare la libertà d'espressione prevista anche nell'ambito del Concordato, che è un trattato internazionale che l'Italia ha il dovere di rispettare. Lo ha ribadito anche il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente Cei, in un'intervista rilasciata a Repubblica: è stata chiesta una rivisitazione, non uno stralcio. E poi quella nota, stando alle intenzioni delle mura leonine, tutto doveva essere tranne che pubblica. Il Partito Democratico è rimasto comunque spiazzato. Il segretario Enrico Letta ha reagito, erigendo una barriera contro cui il Ddl Zan potrebbe schiantarsi. Al Nazareno sono in difficoltà palese. Che i Sacri Palazzi siano maestri di tattica non è mistero. Che certa politica non spicchi per capacità strategica anche. Il clamore che ha accompagna questa fase è indicativo: lo scombussolamento riguarda le stesse certezze su quel provvedimento. Quelle che i Dem non hanno più. Se il Partito Democratico avesse deciso di mediare, oggi racconteremmo un'altra storia. Ma tant'è. Martedì è la giornata clou: quella in cui dovrebbe chiarirsi il destino di una legge che è divenuta il simbolo dello scontro ideologico contemporaneo. Una discussione politica più elastica avrebbe fatto del Ddl Zan un argomento magari perfettibile, ma comunque realizzabile. Il Pd ha deciso che questa possibilità non c'è. Così, la bioetica e i suoi dintorni sono stati elevati a terreno di scontro. Come accade nel quadro polarizzato degli States, dove quasi non si parla d'altro, con tutto quello che ne consegue sul clima. In questa storia, c'è almeno un fraintendimento: Papa Francesco è sempre stato cristallino in materia. Chi pensava che il pontefice fosse un sostenitore della cosiddetta "teoria gender" legge poco o sbaglia i calcoli. Inoltre, la segretezza di quel documento avrebbe dovuto garantire un volo a bassa quota. Qualcuno (c'è chi parla di "manina") ha optato per la pubblicazione: il resto è cronaca. Il Vaticano non voleva irrompere sulla scena - come pensano gli anticlericali - , bensì sollevare alcune questioni, con strumenti appropriati e in punta di penna. Tanto è bastato a mandare in confusione i teorici del "Papa progressista". Gli stessi che sono stati smentiti dai fatti. E che ora non vogliono sentire ragione. I laicisti - dicevamo - hanno replicato con un coro condito dalle consuete punte di anticlericalismo. Il Vaticano ha posto questioni giuridiche e di compatibilità tra un'eventuale legge dello Stato ed il Concordato. Fedez si è domandato "chi ha concordato il Concordato". Sono due metodi diversi: uno, legittimo, che ha alzato il livello dialettico; l'altro, sempre legittimo, ma semplicistico, che fa del furore ideologico il suo substrato. La Santa Sede non sembra temere l'approvazione di una legge che contrasti e sanzioni l'omotransfobia, anzi. Semmai a preoccupare gli ambienti ecclesiastici è proprio il terriccio culturale entro cui si muovono i promotori del Ddl Zan, con le possibili evoluzioni illiberali a fare da sfondo. Una singola nota diplomatica ha mandato in tilt un intero universo ideologico. Diventa legittimo chiedersi, come qualcuno si aspettava, cosa sarebbe accaduto se Papa Francesco avesse manifestato aperto disappunto, affacciandosi su piazza San Pietro.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". Sono giornalista pubblicista.

La nota, gli incontri e il Papa: ecco cosa è successo in Vaticano. Francesco Boezi il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Il Vaticano reagisce al Ddl Zan. Con l'atto formale emerso ieri, la Santa Sede rivendica libertà. Ecco cosa si muove in queste ore tra le mura leonine. Molti si stupiscono perché non se lo sarebbero mai aspettato. Ma l'atto formale con cui il Vaticano è intervenuto sul Ddl Zan, oltre a essere legittimo, è in linea con quanto scritto e detto in materia bioetica (e non solo su quella) durante questo pontificato. La nota verbale di cui si parla in queste ore è un atto formale. Se la Conferenza episcopale italiana avesse espresso un parere non sarebbe stato lo stesso, e non avrebbe fatto il medesimo rumore. Ecco perché, con buone probabilità, la protagonista di questa vicenda è la Segreteria di Stato. Non solo: visto che l'oggetto della discussione è divenuto il Concordato, è normale che a intervenire sia il dicastero presieduto dal cardinale Pietro Parolin. Diviene un discorso di competenze, cosa che Oltretevere è ancora molto sentita.

La scelta dei tempi. Le tempistiche sono un fattore da non sottovalutare in questa storia. Sarebbe stata una "interferenza", come vanno denunciando adesso certi ambienti progressisti, se l'iter parlamentare fosse appena iniziato. Ma il Ddl Zan è già in discussione, e ad oggi più di qualche esponente politico di spessore ha già rimarcato la necessità di approvarlo così com'è. Poi c'è chi come il segretario del Pd Enrico Letta sembra aver cambiato idea in maniera repentina. Il timing dei sacri palazzi, insomma, sembra tenere conto pure della politica e dei suoi tempi. Perché siamo in una fase avanzata.

Quegli incontri nei Sacri Palazzi. Fonti qualificate hanno riferito a ilGiornale.it di incontri che sarebbero avvenuti nei giorni scorsi, in particolare di meeting tra la segreteria di Stato ed esponenti del mondo conservatore. Insomma, qualcuno dotato di un certo peso politico avrebbe insistito con il "ministero degli Esteri" della Santa Sede con motivazioni tagliate sulle criticità del Ddl in oggetto. Altre fonti sostengono che la segreteria di Stato avesse già deciso di agire attraverso una mossa ufficiale, che si sarebbe declinata nelle asserzioni che vengono accostate a monsignor Paul Richard Gallagher. Se ne dicono tante. Certo è un evento raro. E questo forse perché quasi mai una norma aveva messo in discussione il Concordato nella sua stessa impostazione. Almeno stando ai contenuti della nota che sono rimbalzati ieri di quotidiano in quotidiano. L'alto ecclesiastico originario di Liverpool, del resto, avrebbe posto proprio la questione del rispetto del Concordato, che è un architrave della storia diplomatica italiana e vaticana: "Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall'articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato". Tra le frasi che abbiamo avuto modo di leggere, quella sulla libertà garantita alla Chiesa cattolica; è di sicuro tra le più rilevanti. Roma ne fa pure una battaglia di libertà, quindi.

I protagonisti della vicenda e il ruolo del Papa. I protagonisti di questa vicenda sono almeno tre. Il primo è il cardinale Pietro Parolin, teorico e pratico del multilateralismo diplomatico e figura chiave di questo pontificato. Il secondo è monsignor Paul Richard Gallagher, che sarebbe l'autore della nota e dunque il consacrato preposto, pure per via del suo status di segretario per i Rapporti con gli Stati, ad occuparsi in prima persona della faccenda. Infine, Papa Francesco, che molti associano al progressismo ideologizzato (quindi indirettamente ad un presunto riguardo verso qualunque provvedimento provenga da parte progressista), ma che non può non aver letto i contenuti della nota verbale. Questa storia secondo cui il pontefice argentino non verrebbe messo al corrente di alcune prese di posizione ufficiali provenienti dalle mura leonine (o che non le condividerebbe) è ormai un leitmotiv. In termini di procedure tipiche nelle stanze vaticane, però, è sostanzialmente impossibile che un atto del genere venga inoltrato senza la previa visione ed approvazione del pontefice. Vale pure per le benedizioni alle coppie omosessuali che certi ambienti tedeschi vorrebbero approvare. Jorge Mario Bergoglio, sin da quando si è seduto sul soglio di Pietro, ha identificato la cosiddetta "teoria gender" - quella che per i conservatori sarebbe alla base del Ddl Zan - con qualcosa che andrebbe "contro il progetto di Dio". Ipotizzare che Francesco la pensi in un modo e la segreteria di Stato in un altro, dunque, risulta un po' forzato, per usare un eufemismo. Possibile che la Curia viva una fase di scontro interno? Pensare che all'interno del Vaticano esistano sia ecclesiastici favorevoli al Dll Zan sia elementi contrari è del tutto naturale. La Chiesa cattolica, durante questi ultimi decenni, è stata animata da un pluralismo che coinvolgerà in via indiretta anche certi scossoni legislativi che la politica avrebbe intenzione di dare. Questo però non può significare che la segreteria di Stato agisca senza badare al pensiero e alla pastorale del sovrano pontefice.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta". Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, via...

Paul Richard Gallagher, il diplomatico vaticano dietro la missiva contro il ddl Zan. Roberto Vivaldelli il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. L'arcivescovo di Liverpool, nominato da Papa Francesco Segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, è il firmatario della nota contro il Ddl Zan che sta facendo discutere la politica italiana. Paul Richard Gallagher, 67 anni, è il responsabile della diplomazia del Vaticano, Segretario per i rapporti con gli Stati nominato da Papa Francesco nel 2014. Com'è emerso nelle ultime ore grazie a uno scoop del Corriere della Sera, con un atto senza precedenti nella storia dei rapporti tra Vaticano e lo stato italiano, l'arcivescono Gallagher ha firmato la nota consegnata il 17 giugno scorso nella quale chiede formalmente al governo italiano di modificare il "ddl Zan", ovvero il disegno di legge contro l’omotransfobia. Secondo la Santa Sede, infatti, "alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato". Posizione che ha scatenato il dibattito politico italiano e le prese di posizione dei vari partiti che compongono la maggioranza. Ma chi è Paul Richard Gallagher? Nato a Liverpool il 23 gennaio 1954, frequenta in gioventù il collegio "San Francesco Saverio" di Woolton.

Dal 2014 Gallagher è responsabile della diplomazia vaticana. Dopo il servizio prestato presso l'arcidiocesi di Liverpool, Gallagher si iscrive alla Pontificia accademia ecclesiastica a Roma, la scuola che forma i diplomatici della Santa Sede. Dal 1º maggio 1984 diventa ufficialmente membro della diplomazia della Santa Sede e ricopre incarichi diplomatici per conto del Vaticano in Tanzania, Uruguay e Filippine. Nel 2000 il grande salto di qualità nella sua carriera, quando viene nominato da Papa Giovanni Paolo II inviato speciale con funzioni di Osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio d'Europa. Dopo un'esperienza in Australia come nunzio apostolico nel 2012, nel 2014 diventa Segretario per i rapporti con gli Stati per volontà dell'attuale Pontefice. Come sottolinea il Corriere della Sera, l'arcivescono inglese è "cordiale, simpatico in privato ma blindato in pubblico, pragmatico, molto inglese". Sulla politica estera della Santa Sede ha però le idee chiarissime. Come ricorda proprio il Corriere della Sera, nel recente passato Gallagher si è schierato contro il ritorno del nazionalismo nel mondo: "I nazionalismi scatenati hanno la tendenza ad escludere e il Papa ci invita a fare attenzione ai pericoli insiti nei sovranismi". La Chiesa, sottolineò, "non ha visioni nazionalistiche, apprezza molto l’amor di patria ma questo deve essere condito da un senso di apertura verso gli altri". In Vaticano, è uno dei principali promotori dell'apertura diplomatica alla Cina. Nel febbraio 2020 incontrò, nella cornice importante a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco 2020, Munich Security Conferente 2020, Wang Yi, ministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese. "Nel corso del colloquio" riportava il comunicato della Sala Stampa della Santa Sede "sono stati evocati i contatti fra le due Parti, sviluppatisi positivamente nel tempo". In particolare, si è evidenziata l’importanza dell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi, firmato il 22 settembre 2018, rinnovando la volontà di proseguire il dialogo istituzionale a livello bilaterale per favorire la vita della Chiesa cattolica e il bene del Popolo cinese". Una svolta diplomatica fondamentale, della quale l'arcivescovo inglese è stato assoluto protagonista. Ora la nota dell'arcivescovo resa nota dal Corriere della Sera sta facendo discutere la politica italiana, tutta. E non c'è alcun dubbio che - piaccia o meno - le parole del responsabile della diplomazia vaticana peseranno come un macigno nella discussione del Ddl Zan, come dimostra peraltro l'apertura al dialogo da parte del segretario del Pd, Enrico Letta.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al...

L'arcivescovo e la polemica sul disegno di legge. Chi è Paul Richard Gallagher, il Segretario di Stato del Vaticano della nota contro il ddl Zan. Vito Califano su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Paul Richard Gallagher è arcivescovo e segretario per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. Sarebbe stato lui a muoversi, secondo lo scoop de Il Corriere della Sera, con un documento consegnato all’ambasciata italiana in Vaticano e quindi al ministro degli Esteri, per sollevare le preoccupazioni della Santa Sede in merito al disegno di legge Zan, in esame al Senato, contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo. Il compito ricoperto da Gallagher è quello di una sorta di ministro degli Esteri della Santa Sede. Parla correntemente l’italiano, il francese e lo spagnolo, oltre che all’inglese naturalmente. Gallagher infatti è nato a Liverpool nel 1954. È cresciuto al collegio San Francesco Saverio di Woolton. È stato ordinato sacerdote nel 1977 e ha conseguito il dottorato in medicina presso la Pontificia accademia ecclesiastica a Roma. È membro diplomatico della Santa Sede dal 1984, presso la quale ha cominciato la sua attività in Tanzania, Uruguay e nelle Filippine. È stato membro della diplomazia della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa, nominato da Papa Giovanni Paolo II; quindi nunzio apostolico in Burundi, in Guatemala, in Australia. È stato nominato arcivescovo titolare di Holdelm nel 2004. Dal 2014 è Segretario per i Rapporti con gli Stati, nominato da Papa Francesco. Gallagher si sarebbe presentato lo scorso 17 giugno all’ambasciata italiana presso la Santa Sede e al Primo Consigliere avrebbe consigliato una cosiddetta nota “non verbale”. Lo scoop de Il Corriere della Sera, se confermato, configurerà un gesto emblematico, senza precedenti: la prima volta che viene impugnato la revisione del Concordato tra Stato e Chiesa del 1984. O almeno pubblicamente impugnato. Per la Santa Sede il ddl potrebbe mettere in discussione l’articolo 2 dell’accordo, e in particolare il comma 1 che assicura alla Chiesa “libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale”; e il comma 2 che garantisce “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Altro punto di discordia: l’articolo 7 del disegno di legge che prevede l’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia che metterebbe in difficoltà le scuole cattoliche e che gli oppositori del ddl hanno strumentalizzato facendola passare come un’occasione di propaganda per la Comunità Lgbtq+. Contro il disegno di legge si era esposta anche la Cei, la Conferenza Episcopale dei Vescovi Italiani, senza arrivare al livello del dibattito configurato dalla “nota non verbale” qualora fosse confermata. Immediata la reazione dei promotori e sostenitori del ddl: la libertà di espressione non viene messa in discussione dal disegno, hanno spiegato, a differenza di chi si rende protagonista di episodi che possano incitare alle molestie e alla violenza. Il ddl mantiene insomma separate la propaganda dall’istigazione, punendo la seconda a differenza della prima.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il ddl Zan mette a nudo la definitiva debolezza della Chiesa. Carlo Tecce su L'Espresso il 22 giugno 2021. Il Vaticano che impugna il concordato contro il disegno di legge è un atto contro la storia che umilia la Conferenza episcopale e i presunti cattolici in politica. Come è successo in passato, anche stavolta perderà. Il Vaticano che impugna il concordato con lo Stato per chiedere all’Italia di modificare il disegno di legge contro le discriminazioni di genere, più noto come ddl Zan, compie un atto di inedita e ormai definitiva debolezza. Com’è accaduto nell’ultimo mezzo secolo, appena la Repubblica è diventata matura e la società ha cominciato a rimuovere la cappa di oppressione civile con i referendum su divorzio e aborto, anche stavolta la Chiesa è destinata a perdere. Non con l’Italia: con la storia. Il documento ufficiale che il monsignor Paul Richard Gallagher, il ministro degli Esteri di papa Francesco, ha consegnato all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede per protestare formalmente, come ha ricostruito nei dettagli il Corriere della Sera, è un doppio messaggio che si rivolge all’interno più che all’esterno della Chiesa: sancisce il fallimento politico della Conferenza episcopale italiana, sin dal principio del pontificato di Jorge Mario Bergoglio delegata a esercitare la sua influenza (o ingerenza) sui governi e sui partiti; risolve l’equivoco di un Papa troppo progressista (o secolarizzato) che rischia di provocare uno scisma. Francesco si pone come il capo di una organizzazione religiosa che si apre al dialogo col mondo, il mondo nuovo, ma non deroga ai suoi princìpi, ai suoi dogmi, ai suoi scritti. Già sette anni fa, mentre ancora si scopriva il pontefice argentino che scelse il nome di Francesco e una croce di ferro, era palese l’approccio diverso rispetto a Benedetto XVI o Giovanni Paolo II, lo spirito conciliare, il ricordo di Paolo VI. Però Bergoglio non è il liquidatore di ciò che rappresenta il cattolicesimo: “Il pensiero dominante – disse – propone una falsa compassione. Quello che si ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un gesto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientifica produrre un figlio considerato come un diritto invece di accoglierlo come dono. Aborto, eutanasia e fecondazione: sono risultati di una falsa compassione, come anche lo è usare vite umane come cavie di laboratorio per salvarne presumibilmente altre”. Bergoglio intervenne dopo la sentenza della Consulta che autorizzava la fecondazione eterologa. Da allora si stima siano nati circa 10.000 bambini.

Quando l’Italia reclamò maggiori diritti, per esempio con il divorzio, la Chiesa schierò la Democrazia cristiana e il segretario Amintore Fanfani che, nel comizio conclusivo della campagna elettorale, si spese con il celebre anatema: “Vostra moglie andrà con la serva”. Dopo il concordato col governo di Bettino Craxi e il lento crollo della prima Repubblica e di uno schema consolidato, ci fu il lungo regno del cardinale Camillo Ruini alla Cei che professò il trasversalismo: non c’erano più un partit0 di riferimento, ma dei politici di riferimento, sparsi ovunque e capaci di muoversi quando serve. Fu così che il Pdl trasformò il caso di Eluana Englaro e l’eutanasia in una profonda e violenta bandiera del centrodestra che ebbe il suo apice quando l’onorevole Gaetano Quagliariello, fra i banchi di Montecitorio, gridò all’omicidio. Il 14 dicembre del 2017, l’Italia si è data una legge, non esaustiva, ma una legge: il testamento biologico, approvato in Senato dal centrosinistra e dagli odierni alleati dei Cinque Stelle. La Chiesa ha scarsa aderenza nei partiti se si va oltre le dichiarazioni alle agenzie di stampa. La Conferenza episcopale italiana ha tentato anche di promuovere un movimento politico cattolico nel mentre condannava Matteo Salvini baciatore di santini e corone. Divisa dalle correnti e lontana dalla realtà, monsignor Gallagher certifica la confusione di una Chiesa che non insegue fedeli, ma fantasmi. 

Il Vaticano contro il ddl Zan. Letta apre al dialogo, ma il Pd blinda la legge. Dem sulle barricate per difendere la norma voluta dal deputato Alessandro Zan contro l'omotransfobia. Quello del Vaticano, che fa ricorso a facoltà previste dai Patti Lateranensi, è di un atto senza precedenti. Simona Musco su Il Dubbio il 22 giugno 2021. Il Vaticano interviene a gamba tesa nel dibattito politico italiano, chiedendo di «rimodulare» il ddl Zan «in modo che la Chiesa possa continuare a svolgere la sua azione pastorale, educativa e sociale liberamente». Un intervento invocato attraverso una nota verbale informale, consegnata da monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato Vaticana, all’Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede il 17 giugno 2021, in quanto il testo violerebbe, in alcuni punti, «l’accordo di revisione del Concordato», come riportato ieri dal Corriere della Sera. Una richiesta che, dunque, ha riacceso il dibattito politico, con il Pd sulle barricate a difendere la norma voluta dal deputato Alessandro Zan per punire violenza e discriminazione contro la comunità Lgbti+ e la Lega che spinge affinché si ridiscuta il testo, a lungo osteggiato in Aula. E in mezzo c’è anche il giallo della “correzione” fatta dalla base del Pd alle parole del segretario Enrico Letta, che si era detto disponibile al confronto. Si tratta di un atto senza precedenti, compiuto dal Vaticano facendo ricorso a facoltà previste dai Patti Lateranensi. «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato — si legge nella nota — riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato». Tali commi prevedono che l’Italia assicuri alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica». Inoltre, garantisce ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni «la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». La norma, secondo il Vaticano, metterebbero in discussione la «libertà di organizzazione», attentando, più in generale, alla «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Sotto accusa, in particolare, l’articolo 7 del disegno di legge, «che non esenterebbe le scuole private dall’organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la trasnfobia e attenterebbe alla libertà di pensiero della comunità dei cattolici». In un primo intervento a Radio Anch’Io, il segretario del Pd, Enrico Letta, si è detto aperto «al confronto in Parlamento», dicendosi disponibile a guardare «con il massimo spirito di apertura ai nodi giuridici, pur mantenendo un favore sull’impianto perché la norma è di civiltà per il nostro Paese». Parole alle quali hanno subito replicato il presidente della Commissione Giustizia al Senato Andrea Ostellari e il leader del suo partito, Matteo Salvini. «La mia proposta è sempre valida – ha evidenziato Ostellari -. Riuniamo i presidenti dei gruppi del Senato e i capigruppo in commissione e sediamoci a un tavolo. Le audizioni si possono ridurre. Inauguriamo, finalmente, una fase di confronto, leale e costruttivo». Per il segretario della Lega, l’intervento del Vaticano è di «buon senso»: «Del Ddl Zan – ha sottolineato Salvini – abbiamo sempre contestato il fatto che fosse un bavaglio nei confronti della libertà di opinione, quindi se c’è la volontà di ragionare insieme su un testo che non cancelli la libertà di opinione, ma che tuteli da aggressioni e discriminazioni, noi siamo assolutamente d’accordo». Ma respinge ogni accusa l’autore del ddl, il dem Zan. «Alla Camera sono sempre state ascoltate con grande attenzione tutte le preoccupazioni e, come anche confermato dal Servizio studi Senato, il testo non limita in alcun modo la libertà di espressione, così come quella religiosa. E rispetta l’autonomia di tutte le scuole. L’iter non si è ancora concluso. Vanno ascoltate tutte le preoccupazioni e fugati tutti i dubbi, ma non ci può essere alcuna ingerenza estera nelle prerogative di un parlamento sovrano», ha affermato. Attorno a lui si è stretto subito il Pd, che ha manifestato il proprio sostegno convinto al ddl. «Naturalmente vogliamo leggere con attenzione le carte sui nodi giuridici, che al momento sono solo in un articolo di giornale», affermano fonti del Nazareno, specificando la posizione del segretario Letta. Precisazione che non è passata inosservata tra i leghisti: «Letta parla, e subito dopo fonti del Nazareno correggono le sue parole sulla legge Zan. Già una volta il Pd aveva sfiduciato clamorosamente Letta, quando era a Palazzo Chigi, e recentemente buona parte del partito l’ha smentito sulla tassa di successione come fatto anche dal presidente Draghi. Ora il Partito democratico si prepara a cacciare Letta dalla segreteria?». Contro la presa di posizione del Vaticano si è schierato, invece, il Partito Radicale: «Pur essendo convinti che la repressione sessuale si superi con la liberazione sessuale e non con la repressione penale o con una imposizione culturale di Stato, le ragioni della Santa Sede per chiedere il rispetto del Concordato sono pretestuose – si legge in una nota -. La Santa Sede è preoccupata di dover parlare nelle proprie scuole della Giornata nazionale contro l’omofobia. Ma questo problema non esiste a meno che le scuole private godano di finanziamenti pubblici (da poco raddoppiati!). È difficile rinunciare ai denari pubblici in nome dei propri convincimenti ma è la stessa Chiesa cattolica che insegna che non si può servire Dio e Mammona. E non si capisce perché, se la Santa Sede brandisce il Concordato, come suo diritto, non lo abbia mai fatto lo Stato, come sarebbe stato suo dovere, nei confronti della Santa sede per le politiche dello Ior o per quelle sulla pedofilia», si conclude la nota.

Zan, la bomba di Fico: "Nessuna ingerenza". Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Alle preoccupazioni sulla contrazione delle libertà di pensiero derivanti dal ddl Zan del Vaticano ha risposto Roberto Fico, ospite di Agorà. La nota verbale della Santa sede allo Stato italiano in cui si manifesta preoccupazione per la limitazione della libertà di pensiero nel caso in cui il ddl Zan venisse approvato nella sua attuale stesura sta facendo molto discutere a tutti i livelli. Dopo le dichiarazioni a favore di social da parte di Fedez e di Elodie, eletti maître à penser del pensiero unico (ma solo su certi temi) si è fatta sentire la voce istituzionale, quella di Roberto Fico. Il presidente della Camera dei deputati è intervenuto nel programma Agorà su Rai3 per difendere il ddl Zan, chiedendo al Vaticano un passo indietro nelle questioni dello Stato italiano. "Come rispondere alla richiesta del Vaticano di modificare il ddl Zan? È molto semplice, il Parlamento è assolutamente sovrano, i parlamentari decidono in modo indipendente quello che vogliono o non vogliono votare", ha dichiarato Roberto Fico. Il presidente della Camera, quindi, ha proseguito: "Il ddl Zan è già passato alla Camera ed è stato votato, frutto di discussione e dibattito nelle commissioni e in Aula, adesso è al Senato e quindi fa la procedura parlamentare normale. Noi come Parlamento non accettiamo ingerenze, il Parlamento è sovrano e tale rimane sempre". Lo Stato Vaticano ha chiesto maggiore attenzione all'Italia sulla base dell'articolo 7 della Costituzione italiana, che dice: "Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi". Il Concordato tra Stato e Chiesa è considerato alla stregua di un trattato internazionale, che regola i rapporti tra i due Stati. Ma a differenza dei normali trattati internazionali, essendo i Patti inseriti nella Costituzione, questi non possono essere modificati unilateralmente senza modificare la Costituzione, ma solo in caso di accordo bilaterale. Infatti, come si specifica nel terzo comma dell'articolo 7 della Costituzione, "le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale". Lo Stato Vaticano si è limitato a ricordare all'Italia l'esistenza del Concordato e, in base a quello, è stato chiesto di verificarne l'accordanza con il ddl Zan. Ma prima di Roberto Fico, è stato Alessandro Zan, primo firmatario della legge che porta il suo nome, parlare di ingerenze dal suo profilo Twitter: "Vanno ascoltate tutte le preoccupazioni e fugati tutti i dubbi, ma non ci può essere alcuna ingerenza estera nelle prerogative di un parlamento sovrano".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Da lastampa.it il 23 giugno 2021. Draghi ha iniziato a rispondere alle richieste dei senatori. Tra le tante domande, la risposta più attesa è quella annunciata ieri sul caso del concordato tra Italia e Vaticano: «Mi preme ricordare che il nostro è uno stato laico, non è confessionale, quindi il parlamento ha tutto il diritto di discutere e legiferare. Il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per verificare che le nostre leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il Concordato con la Chiesa». Specificando come «la laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso. La laicità è tutela del pluralismo e delle diversità culturali». Poi ribadisce brevemente la posizione del governo italiano sulla situazione dell’Ungheria e la legge contro l’omosessualità: «Ieri l'Italia ha sottoscritto con 16 Paesi europei in cui si esprime preoccupazione per gli articoli di legge in Ungheria in base a cui si discrimina l'orientamento sessuale». E ha esaurito la risposta alle polemiche tornando sul Ddl Zan: «Senza entrare nel merito della discussione parlamentare, che il governo sta seguendo, questo è il momento del Parlamento, non è il momento del governo».

Ddl Zan, il giurista del Concordato: «Nessuna violazione». Ma Draghi non la pensa così. Chiara Pizzimenti su Vanityfair.it il 24/6/2021. «Il nostro è uno Stato laico, non confessionale. Il Parlamento è libero di discutere e legiferare e il nostro ordinamento è in grado di dare tutte le garanzie verificare che le nostre leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il Concordato con la Chiesa». Mario Draghi alla fine è intervenuto sulla questione Ddl Zan-Vaticano ribadendo la laicità dello stato italiano. Una risposta che probabilmente nemmeno serviva per Francesco Margiotta Broglio, giurista fra i più importanti in Italia, a capo della commissione paritetica sul Concordato fra lo Stato italiani e la Santa Sede dal 1984 al 2014. Secondo Margiotta «non c’è alcuna violazione». La nota consegnata da monsignor Gallagher all’ambasciatore Sebastiani dice il Ddl Zan violerebbe l’articolo 2 del Concordato quello in cui si dice che la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa. «Nel Ddl Zan», spiega il professore a Repubblica, «non c’è ingerenza negli affari della Chiesa. Uno dei punti del contendere, da parte dei vescovi, è l’articolo 7 del disegno di legge in cui si prevede l’istituzione della Giornata nazionale contro omofobia e transfobia, con le scuole invitate ad organizzare incontri, attività sul tema. Se è evidente che non si possono obbligare le scuole private “confessionali” a festeggiare questa giornata, è altrettanto evidente che la Chiesa non può certo chiedere allo Stato di non fare leggi che essa, la Chiesa, ritiene contrarie alla propria dottrina cattolica». Al professore pare che il Vaticano ripeta la via e l’esperienza dei referendum su divorzio e aborto, superando i confini degli accordi, non il contrario, e mostrando con questo agire debolezza. «La Chiesa fece fuoco e fiamme prima contro il divorzio e poi contro l’aborto, minacciando la rottura dei patti. Non è successo ed entrambe sono poi diventate leggi dello Stato. Così sarà per il disegno di legge Zan che oltretutto, vorrei ricordare, vieta anche ogni discriminazione fondata su motivi razziali o religiosi».

Fedez e Cappato guidano la crociata contro Papa Francesco e le ingerenze del Vaticano sul Ddl Zan. Piero de Cindio su Il Riformista il 22 Giugno 2021. Papa Francesco è stato esautorato dalla base della Chiesa e scoppia la polemica social sul Ddl Zan. A margine della richiesta formale al Governo Italiano attraverso il Segretario per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher. Di “rivedere il decreto a contro l’omotransfobia e le disabilità” perché in conflitto con il concordato. L’atto consegnato il 17 giugno ed emerso all’attenzione della cronaca dopo meno di una settimana, ha fatto esplodere migliaia di commenti sulla rete che hanno inveito contro la scelta dello Stato Vaticano di esporsi contro una riforma in itinere nel Parlamento Italiano. Il dibattito derivato dalla discussione di questa notizia ha in poche ore generato su Twitter la bellezza di 12.269 tweets, 209.876 mi piace, 30.960 condivisioni, 10.693 commenti e 5.245 citazioni. “Un dato impressionante che ha rappresentato un colpo molto duro all’immagine della chiesa – dichiara al Riformista Livio Varriale, autore della ricerca – non ci sono commenti positivi nei confronti del Vaticano e questo fa in modo che si oscuri la narrazione delle motivazioni poste in essere dallo Sato comandato da Papa Francesco”. HASHTAGS – Le parole chiave per individuare tali discussioni sui social sono state, oltre a Vaticano, ddlzan e concordato “la maggior parte delle persone non sapeva manco che esistesse il concordato come strumento giuridico di relazione tra Stato e Chiesa Vaticana – spiega Varriale – bene però che questa polemica abbia insegnato qualcosa di nuovo alla massa. Oltre all’hashtag LGBT e Chiesa, rimbalza all’occhio quello di Emanuela Orlandi e questo dimostra che il livello di aggressività e di strumentalizzazione nei confronti del clero abbia avuto anche toni accesi che fanno riferimento ad una delle peggiori pagine della storia Vaticana”. 

LIKES – Ad avere la meglio in termini di like e condivisione, il marito di Chiara Ferragni, Fedez, che ha incalzato quanto lasciato dopo le polemiche del primo maggio dove fece un endorsement pubblicamente contro coloro che ostacolavano il percorso di approvazione del Decreto. Marco Cappato, attivista per l’eutanasia in Italia, quest’ultima osteggiata proprio dal Vaticano, ha raccolto consensi posizionandosi al secondo posto. Al terzo c’è invece Vladimir Luxuria, rappresentante del mondo LGBT in Italia, insieme all’avvocato attivista per i diritti della categoria Cathy la Torre ed allo stesso Alessandro Zan. 

MENZIONI – “Dalle menzioni è possibile capire quali sono stati i personaggi inghiottiti dalla polemica indipendentemente dalla parte assunta” Spiega Varriale “Il Corriere ha fornito la notizia di riferimento, seguito dalla Repubblica e Fatto Quotidiano mentre Fedez per la seconda volta coglie un’occasione ghiotta per rappresentare i suoi interessi anticlericali più volte predicati. Boldrini e Papa Francesco sono le figure politiche più coinvolte, seguiti dal duo del Pd Letta e Zan. Per quanto riguarda la Lega, il trio Salvini, Borghi e Pillon si conferma il bersaglio preferito dalla massa su questioni afferenti le tematiche LGBT, mentre chiude la classifica dei top 20 il pro vita Mario Adinolfi che ha avuto posizioni sempre molto nette contro Ddl Zan”. 

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

"Fedez ha detto fesserie. Il Vaticano paga le tasse, ecco le cifre". Fabio Marchese Ragona il 24 Giugno 2021 su Il Giornale. Il presidente dell'Apsa smentisce il rapper: "È disinformato, nel 2020 oltre 5 milioni di Imu". Nella polemica sul Concordato tra Italia e Santa Sede, con il Vaticano che ha chiesto al Governo la rimodulazione del testo Zan, si è inserito anche il rapper Fedez che da tempo sostiene pubblicamente il ddl. Il re del tormentone estivo, ha lanciato dal suo profilo Instagram, che conta 12,6 milioni di followers, accuse al Vaticano sul tema degli immobili. «Amici», ha chiesto con ironia il cantante ai suoi seguaci, «voi avevate concordato qualcosa? Non avevamo concordato, amici del Vaticano, che ci davate delle tasse arretrate sugli immobili e che l'Unione Europea ha stimato in cinque miliardini o forse di più? In realtà non si sa, perché avete perso il conto degli immobili, ne avete troppi». Affermazioni che non vanno giù a monsignor Nunzio Galantino, presidente dell'Apsa, l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica che gestisce gli immobili della Santa Sede.

Monsignor Galantino che cosa risponde a Fedez?

«L'unica risposta che si può dare a una persona disinformata sono le carte, i fatti. Non so se lo faccia per ignoranza o per malafede. Non ci sono alternative. A fronte di affermazioni che lui non può documentare, io posso invece documentare che il Dicastero che presiedo paga».

Avete pagato?

«Nel 2020 l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato 5,95 milioni di euro per l'Imu e 2,88 milioni di euro per l'Ires. A queste vanno aggiunte le imposte pagate da Governatorato, Propaganda Fide, Vicariato di Roma, Conferenza Episcopale italiana e singoli enti religiosi. Nel 2019 abbiamo pagato oltre 9 milioni e 300 mila euro. Ed è tutto documentato! Poi se si vuole andare in processione con Fedez, si vada pure. Il problema è che qualcuno, pur sapendo queste cose, continua a dire che la Chiesa non paga...»

Fedez parla di miliardi di euro di arretrati...

«Chi dice che il Vaticano ha evaso 5 miliardi di Imu allo Stato non offre nessun dato che permetta di verificare questa affermazione. Da chi denuncia la rilevante somma che il Vaticano avrebbe evaso bisognerebbe farsi dire: in base a quale legge, su quali immobili e in riferimento a quale periodo è stato quantificato il debito del Vaticano? Bisogna ribadire che sugli immobili dati in affitto quelli che rendono davvero da sempre le imposte vengono pagate senza sconti o riduzioni. In passato, le polemiche furono alimentate perché l'Ici prevedeva l'esenzione per gli immobili degli enti senza scopo di lucro, integralmente utilizzati per finalità socialmente rilevanti (come scuole, mense per i poveri o centri culturali). È da sapere che l'esenzione non riguarda solo la Chiesa, ma tutte le Confessioni religiose, i partiti, i sindacati ecc. Ho persino chiesto a coloro che fossero a conoscenza di evasione da parte di enti ecclesiastici, di denunciarli subito alle competenti autorità, assicurando il mio appoggio».

Perché secondo lei Fedez ha fatto queste affermazioni?

«Bisognerebbe chiedere a lui, è difficile dare spiegazioni, io non lo conosco nemmeno, non so chi sia, lui può fare quello che vuole, ma chi lo ascolta deve sapere che almeno su questo argomento ha detto cose che, nella migliore delle ipotesi, non conosce. Perché a fronte delle mie parole ci sono dei fatti e ho le prove per smentirlo. La gente decida se vale più un documento o la parola di Fedez...»

La questione degli immobili vaticani è terreno fertile per chi vuol fare polemica...

«A metà luglio pubblicheremo il bilancio dove ci sarà elencato il numero degli immobili, in Italia, all'estero, ecc. e così saranno serviti anche questi benpensanti».

Forse il problema è che in passato la Chiesa non rendeva tutto pubblico?

«La responsabilità è anche nostra che talvolta, all'epoca, non abbiamo fatto buona o sufficiente comunicazione...».

Adesso con Papa Francesco le cose son cambiate?

«Dobbiamo riconoscerlo, oggi posso dire tu hai detto una fesseria e parli di cose che non conosci. O lo fai in malafede o perché lo ignori. Io ti aiuto a superare la tua ignoranza, se lo accetti o non lo accetti sono problemi tuoi. Grazie a Dio, il tempo del silenzio è finito!». Fabio Marchese Ragona

Ddl Zan, la vergogna di Fedez: se non la pensi come lui ti insulta, sfregio e insulti alla Chiesa. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Per il ddl Zan, finché c'è Fedez c'è speranza. C'è sempre un innegabile tempismo nel rapper Federico Lucia, quando si tratta di cavalcare l'onda arcobaleno. Prendete il suo ultimo j' accuse su Twitter. È bastato che il Vaticano, attraverso il cardinale Paul Gallagher ministro degli Esteri del Papa, levasse gli scudi diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il disegno di legge contro l'omotransfobia in quanto violatore dei Patti Lateranensi, che subito Fedez il templare delle minoranze chiassose, insorgesse. E che, armato di tweet e telecamera, muovesse contro i preti a testa bassa: «Il Vaticano che ha un debito stimato di 5 miliardi di euro su tasse immobiliari mai pagate dal 2005 ad oggi per le strutture a fini commerciali dice all'Italia 'guarda che con il Ddl Zan stai violando il concordato». Aggiungendo, inoltre: «E comunque, siamo uno Stato laico. Un'altra cosa, voi potete mettere becco sulle leggi italiane però perchè quando in Italia viene sgamato un pretino pedofilino, il pretino non viene processato dalla giustizia italiana?». A far da eco a Fedez contro il Concordato si alzano voci dal web e quelle di Paola Turci ed Elodie («Ringrazio i miei per non avermi battezzata») in una furiosa giostra anticattolica. Ora, l'intervento della diplomazia vaticana che -rivela il Corriere della sera- esprime "preoccupazione" per una legge dello Stato italiano e che va oltre la semplice moral suasion, è tanta roba. E, nella visione di uno stato laico, c'è poco da confutare nella reazione di Fedez. La Chiesa ha i suoi problemi con immobili e pedofili. Ma il problema è che con quel documento squisitamente giuridico del Vaticano depositato all'ambasciata italiana, il Fedez-pensiero c'entra come i cavoli a merenda. È parlare due lingue diverse, è come chiedere un giudizio sul Recovery e sentirsi rispondere sui gol di Insigne. Tra i commenti che plaudono al rapper ne estraggo due controcorrente: «Attenzione a parlare del Concordato, perché è citato nella nostra Costituzione all'art 7 (Patti lateranensi). Ti supporto in tante battaglie, compreso il ddl Zan, ma parlare del Concordato vuol dire parlare della Costituzione. Occhio a non fare il passo più lungo della gamba». E ancora: «Non condivido la posizione del Vaticano, questo accostamento non ha molto senso. Che la Chiesa cattolica sia portavoce di una grande fetta della popolazione italiana è un dato di fatto, la democrazia è anche questo». Sono due giudizi emblematici. È esattamente questo il senso: il rispetto dell'opinione altrui e il tracciato della democrazia da cui Fedez tende a deviare pericolosamente. Tra l'altro, se proprio non si sente minoranza e vuol fare il figo con la forza dei suoi 12 milioni e rotti di followers, la lotta con 1,32 miliardi dei seguaci della Chiesa cattolica sarebbe impari. In realtà la faccenda è tecnica. Per la Santa Sede l'art.7 del ddl Zan non esenterebbe le scuole private dall'organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro omofobia, lesbofobia e transfobia, violando la "libertà di organizzazione" al comma 1 e 3 dell'art.2-; e attenterebbe alla «libertà di pensiero» dei cattolici. Il che, in punta di diritto, è impeccabile. Suggerisce Gennaro Acquaviva revisore con Craxi del Concordato dell'84: la Chiesa non ha torto, se la libertà e l'autonomia della scuola cattolica vengono messe a rischio nel momento in cui la stessa scuola «viene obbligata a fare qualcosa che va contro la propria coscienza e i propri principi». Qui, la disputa è tra Stati sovrani. Credo che Fedez ne sappia quanto io della discografia di Guè Pequeno o di Fabri Fibra.

Dagoreport il 23 giugno 2021. "La Chiesa non è contro il Ddl Zan e non lo contesta né sul piano teologico né nel merito. Si chiede solo la rimodulazione di due punti caratterizzati da una criticità tecnica affinché siano più facilmente interpretabili". Don Filippo Di Giacomo, giornalista e canonista, interviene sulla ridda di polemiche scatenate dalla pubblicazione della "nota verbale" con cui il Vaticano segnalava al governo le sue perplessità sul Ddl Zan. "Il primo equivoco della vicenda - precisa Di Giacomo - è legato alla natura del documento in questione. Si tratta di una "nota verbale", ovvero il modo usuale con cui le diplomazie si parlano, si confrontano e scambiano osservazioni. Enfatizzarlo come una 'lettera ufficiale' è pura idiozia, anche perché siamo in una fase interlocutoria del dialogo tra due parti, lo Stato italiano e la Chiesa, i cui rapporti sono regolati dall'articolo 7 della Costituzione. Il confronto verte sulla difesa di quegli spazi di libertà religiosa che riguardano non solo i cattolici ma anche ebrei, musulmani e i seguaci di altre confessioni". Gli attacchi di Fedez alla Santa Sede? Il cantante ha berciato: "Il Vaticano non paga le tasse immobiliari e dice che l'Italia sta violando il Concordato". Notizia mezza tarocca visto che, nel 2020, l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha pagato 5,95 milioni di euro di IMU, 2,88 milioni per l'Ires senza contare le imposte pagate da Governatorato, Propaganda fide, Vicariato di Roma, Conferenza Episcopale italiana e singoli enti religiosi… "Evidentemente il cantante si considera uno specchio di virtù - ironizza Di Giacomo - In Italia è diffusa un'idea di laicità che fa ridere: della serie, se parla un prete bisogna metterlo a tacere. E' una "laicità" in chiave anti-cattolica. Uno stato laico non interviene, non si intromette e non ha pregiudizi. Negli ultimi mesi, invece, una quindicina di funzioni religiose sono state interrotte mentre si stava pregando per i malati o per le persone bisognose. Alcuni parroci sono stati denunciati solo perché nel bollettino parrocchiale ricordavano, sui temi della sessualità, quel che c'è scritto nel catechismo…". "Si parte sempre dal preconcetto - prosegue Di Giacomo - che ogni volta che parla un prete, stia esprimendo un "no". Mentre sul caso del Ddl Zan si sta solo manifestando, nel rispetto dell'articolo 21 della Costituzione, una perplessità su due articoli (tra cui quello legato alle sanzioni) non chiari e, dunque, non idonei a garantire la piena libertà di coscienza. D'altronde quel che la Chiesa chiede, cioè una rimodulazione di due passaggi del testo per una più facile interpretazione e una più serena osservazione della legge, è stato espresso anche dagli esperti, tra cui ex presidenti della Corte costituzionale, sentiti dalla Commissione parlamentare". Di Giacomo piccona anche l'apparente monolite di consenso intorno al controverso disegno di legge: "Dieci giorni fa c'è stato un convegno, organizzato da un'associazione Lgbt, dal titolo "Per salvare il Ddl Zan, cambiamo il Ddl Zan". Siamo sicuri che il mondo Lgbt, nella sua totalità, aderisca senza riserve alla proposta?". Resta una questione "politica", tutta interna al Vaticano, sulla diffusione della "nota verbale": chi l'ha data alla stampa? Di Giacomo non ha dubbi: "E' uno sgarbo al Papa. La diplomazia non è un oggetto rococò da mettere in salotto e si muove a un livello in cui la discrezione è sovrana. Come diceva l'arcivescovo Marcinkus 'il Vaticano è un paese abitato da 500 lavandaie'. Quel che va precisato è che chiunque abbia deciso di dare il documento ai giornalisti non è certo estraneo alla gestione Bergoglio. Nella Santa Sede vige uno spoil system totale: da quando è stato eletto, otto anni fa, il Papa ha nominato molte persone, ne ha sostituite altre. E oggi chi ricopre un incarico di responsabilità Oltretevere, è stato scelto da lui…"

Ddl Zan, il paradosso di una legge che va contro la Costituzione: pena aumentata se l'aggressore fosse di colore? Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 01 giugno 2021. «L'odio si combatte con i fatti», dice l'onorevole Alessandro Zan, che è il relatore del disegno di legge che porta il suo nome e inventa aggravanti nel caso di atti violenti e di discriminazione «fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere o sulla disabilità». E quali sarebbero i fatti con cui si combatte l'odio è presto detto: galera, galera e galera, perché è questo il presidio progressista a tutela delle vittime di quei comportamenti odiosi, la galera e ancora la galera. Non conta che la Costituzione indichi il sesso tra le condizioni che la legge non può considerare per attribuire o revocare diritti, e non conta che un atto violento contro un omosessuale, un transessuale, un sessualmente orientato di qui o di là, o l'istigazione a commetterlo, siano oggi perfettamente punibili: niente da fare, ci vuole questa legge perché la cronaca riporta casi di aggressione ai danni di quelle categorie (brutta parola: ma sono i sostenitori di questa ignominia legislativa a dividere la società in corporazioni sessiste). E così la coppia gay picchiata a Palermo, la lesbica presa a testate a Catanzaro o le bottigliate all'omosessuale pugliese diventano riprove che è indifferibile creare un diritto speciale perché altrimenti quei delitti rimangono impuniti: una bugia bella e buona, confezionata mentre il legislatore ordinario si incarica di spiegare che non intende intervenire sulla libertà di manifestazione del pensiero e sulle «condotte legittime», stabilendo lui, il legislatore ordinario, le ragioni di compatibilità del proprio lavoro con la Costituzione. Per capirsi: domani un'altra maggioranza chiude un giornale scomodo e spiega che però non è mica intervenuta sulla libertà di stampa. Ma facciamo un esempio più scottante. Si ipotizzi che qualcuno denunci un alto tasso di criminalità tra quelli con la pelle scura, e sulla base di questo rilievo proponga un aggravamento di pena per il responsabile del delitto che appartenga a quella categoria: e immaginiamo che nel mettere in legge questa trovata spieghi che la norma non vuole interferire col precetto costituzionale. Bene: cosa fa se non applicare in altra direzione lo stesso criterio del ddl Zan? Alcuni (pochissimi) hanno tentato di spiegare queste cose ai tanti (pochi soltanto ignoranti, moltissimi in malafede) per i quali l'approvazione di questa legge costituisce l'avvenimento capitale del nostro progresso civile, ma non ci sono santi: chi rema contro sotto sotto si compiace della violenza omofoba. Ed è bestemmia l'idea che la contestazione di questo ddl sia sorretta da ragioni altrettanto degne rispetto a quelle agitate da chi ne sostiene l'indispensabilità: ragioni sistematiche e liberali, le prime, che esigono un po' di studio e qualche consuetudine con la prassi democratica, roba antipatica presso i cultori del modello Greta-Fedez-Zan.

Dalla Boldrini a Luxuria, in campo il fronte anti Vaticano. Luca Sablone il 22 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra sulle barricate contro la Santa Sede dopo le critiche al ddl Zan: "Inaccettabile intromissione della Chiesa, ora acceleriamo ancora di più e aboliamo il Concordato". Non potevano ovviamente mancare infiniti comunicati stampa da parte di esponenti della sinistra, fortemente indignati per la presa di posizione del Vaticano sul ddl Zan. Al governo italiano è stato chiesto di accogliere le preoccupazioni avanzate soprattutto perché si ritiene che siano minacciate la libertà di organizzazione e di pensiero della comunità dei cattolici. A guidare il fronte rosso contro la mossa della Santa Sede è Laura Boldrini, secondo cui l'approvazione del ddl Zan resta assolutamente prioritario: "È una legge di civiltà. Punisce i crimini d'odio per omolesbobitransfobia, misoginia, abilismo e promuove il rispetto. Non c'è rischio per la libertà di pensiero poiché esclude la propaganda di idee". La deputata del Partito democratico si è detta sì disponibile ad ascoltare il Vaticano, ma ha tenuto a ribadire che la decisione finale spetterà al Parlamento: "Ascoltiamo anche il Vaticano, ma il Parlamento è sovrano".

Il Pd non molla. In mattinata Enrico Letta ha provato a blindare di nuovo il testo del ddl Zan: "Noi siamo sempre stati favorevoli a norme molto forti contro l'omotransfobia. Rimaniamo favorevoli a queste norme e al ddl Zan". Ma alla posizione del Vaticano è seguita una sostanziale sottolineatura non indifferente: il segretario del Pd ha aperto a possibili modifiche. "Siamo pronti a guardare i nodi giuridici pur mantenendo un favore sull'impianto perché la norma è di civiltà per il nostro Paese. Il nostro è sempre stato un atteggiamento di apertura", ha dichiarato. Fonti del Partito democratico però tengono comunque a far passare un messaggio piuttosto chiaro: "Il Pd sostiene convintamente il ddl Zan. Naturalmente vogliamo leggere con attenzione le carte sui nodi giuridici, che al momento sono solo in un articolo di giornale". Non molla neanche il senatore dem Andrea Marcucci, che non vuole perdere ulteriore tempo e chiede arrivare rapidamente a una decisione finale: "È sempre tempo di libera Chiesa in libero Stato, non di guerre di religione. Il ddl Zan vada al più presto in Aula, il Parlamento decida autonomamente".

Il fronte rosso anti-Vaticano. Non solo dal Pd. Le dure risposte al Vaticano arrivano in generale dall'area di centrosinistra. Ad esempio per Chiara Appendino, sindaco di Torino, questa è addirittura l'occasione per imprimere una forte accelerata: "Una posizione senza precedenti, il Parlamento è stato votato dal popolo, legittimato giustamente a legiferare e il mio auspicio è che, alla luce di quello che è accaduto con questa lettera, si vada avanti ancora di più rapidamente con tutte le forze politiche che hanno deciso di sostenerlo". Polemiche le parole di Vladimir Luxuria, secondo cui la Santa Sede - intervenendo come legislatore e suggerendo quali sono i punti da modificare - ha compiuto un "enorme passo indietro". Ritiene che sia "una grande bufala" pensare che una scuola privata cattolica debba sentirsi obbligata a parlare di omofobia il 17 maggio, che potrebbe diventare la Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la tran­sfobia. Dunque Luxuria invita a proseguire la battaglia per arrivare all'ok definitivo al ddl Zan: "Questo è un banco di prova sul rispetto di un principio costituzionale. Abbiamo fatto grandi battaglie come quella sull'aborto e sul divorzio. Teniamo duro anche su questa". "Uno Stato laico non può subire simili ingerenze e intromissioni", lamenta a gran voce Riccardo Magi. Il deputato di +Europa si è espresso duramente su Facebook dopo la tesi del Vaticano per cui il ddl Zan violerebbe - in alcuni contenuti - l'accordo di revisione del Concordato: "Una cosa mai successa prima, un fatto di una gravità inaudita nel rapporto mai davvero limpido tra l'Italia e il Vaticano. "Ama il prossimo tuo", ma solo se rispetta le loro norme. Noi lo diciamo da decenni e ora lo ribadiamo: aboliamo il Concordato!".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in d...

Da "corriere.it" il 22 giugno 2021. «Oggi un ringraziamento speciale va ai miei genitori che non mi hanno battezzata. Grazie». Elodie, con una story su Instagram, prende una posizione chiara in relazione alla vicenda del ddl Zan, dopo le notizie secondo cui il Vaticano ha chiesto di modificare il provvedimento. La cantante, già in passato, aveva manifestato in maniera eloquente le proprie opinioni sul tema. Sui social, davanti al no della Chiesa alle unioni omosessuali, aveva affermato: «Per fortuna la gente continuerà ad amarsi pur non avendo la "benedizione" del Vaticano».

"Grazie ai miei non sono battezzata". Ma Elodie scorda un particolare. Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Non tutti i sostenitori del ddl Zan si sentono rappresentati da Elodie, che rivendica di non essere stata battezzata con la croce tatuata sul braccio. Da ieri il discorso sul ddl Zan è tornato prepotentemente alla ribalta per la nota con la quale il Vaticano ha chiesto allo Stato italiano maggiore attenzione perché, così com'è scritto, violerebbe il Concordato. La Santa sede ha manifestato seria preoccupazione per la libertà di pensiero dei cattolici ed è divampata la polemica da parte dei sostenitori del disegno di legge a firma di Alessandro Zan, che hanno chiesto meno ingerenza della Chiesa nel processo decisionale dello Stato italiano. Tra loro anche Fedez ed Elodie, i due cantanti sempre pronti a schierarsi dalla parte delle battaglie più social che hanno già ampia eco mediatica e non di quelle che, per esempio, avrebbero bisogno di maggiore visibilità. Il populismo permea i discorsi dei due cantanti, probabilmente all'oscuro dell'articolo 7 della Costituzione, nel quale si specifica che, tra Stato e Chiesa, i "rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi". E, proprio in virtù del Concordato, il Vaticano ha chiesto all'Italia di verificare che il ddl Zan non vada a ledere la libertà e l'autonomia delle scuole cattoliche. Che Elodie si presenti in video con una storia nella quale, con orgoglio, dice "oggi un ringraziamento speciale va ai miei genitori che non mi hanno battezzata", è avulso dal senso del discorso. E lo è al pari di Fedez che chiede alla Chiesa di pagare "5 miliardi di tasse immobiliari". Il battesimo è un percorso personale che non dovrebbe essere utilizzato a fini propagandistici. Le parole di Elodie, che sembra porsi in posizione moralmente superiore rispetto a chi, invece, ha ricevuto il battesimo, hanno indignato molti. E c'è chi ha fatto notare alla cantante la supponenza delle sue parole: "Elodie non è stata battezza, il che la pone al di sopra di ogni battezzato. Cara Elodie, facciamo che se tu sia battezzata o meno ce ne frega poco e niente ma facciamo anche che come vuoi che gli altri rispettino il tuo pensiero tu debba rispettare quello degli altri". Un presupposto che spesso manca in chi sostiene il ddl Zan, soprattutto sui social. Ma è un altro l'elemento che maggiormente stride con il "ringrazio che non mi hanno battezzata". Sul braccio sinistro di Elodie spicca una grande croce, simbolo di cristianità. Appare quanto meno contraddittoria la sua presenza sul corpo di chi rivendica con onore di non aver ricevuto il sacramento del battesimo. E infatti non manca chi glielo fa notare. Uno dei tanti che ha sottolineato questa ipocrisia, dopo aver riportato le sue parole ha aggiunto: "E ha una croce tatuata sul braccio. Dal club degli illuminati de sinistra è tutto, a voi studio". Ma c'è di più, perché anche tra chi spinge affinché venga approvato il ddl Zan c'è chi critica il modo di porsi dei due cantanti: "Si può essere favorevoli al ddl Zan e, allo stesso tempo, non sentirsi rappresentati da Fedez ed Elodie? Rendiamo più maturo il dibattito, please!". Una richiesta più che legittima da parte di chi si è stancato delle strumentalizzazioni social e vuol portare il discorso a un livello più alto, che prescinde dalla smania del consenso.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Tagadà, Antonio Padellaro e il pesantissimo sospetto su Papa Francesco: "Cosa succede lì dentro?". Vaticano e ddl Zan, una bomba. Libero Quotidiano il 22 giugno 2021. Antonio Padellaro ha commentato la notizia della richiesta del Vaticano di modificare il DdlZan, richiesta inviata con una missiva al governo. Un caso enorme, rivelato dal Corriere della Sera: "Interferenza pesante, che pensa Papa Francesco, cosa succede lì dentro?", si chiede il direttore del Fatto Quotidiano, ospite di Tagadà in onda su La7 condotto da Tiziana Panella. Il Vaticano infatti ha chiesto al governo italiano di modificare il ddl Zan, il disegno di legge contro l'omotransfobia ora in commissione Giustizia del Senato, perché "violerebbe in alcuni contenuti l'accordo di revisione del Concordato". Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la "libertà di organizzazione", ma in senso più generale, alla "libertà di pensiero" della comunità dei cattolici. L'intervento della Santa Sede sul governo italiano ha l'obiettivo "non di bloccare" il ddl Zan ma di "rimodularlo in modo che la Chiesa possa continuare a svolgere la sua azione pastorale, educativa e sociale liberamente", spiegano fonti vaticane.  Questo però ha dato molto fastidio a Padellaro che ci vede una grossa ingerenza del Vaticano nella politica italiana. Il giornalista chiede così il parere del Papa. Nel frattempo al Vaticano ha subito risposto l'autore del disegno di legge: "Il ddl Zan è stato approvato da un ramo del Parlamento a larga maggioranza, e l'iter non si è ancora concluso. Vanno ascoltate tutte le preoccupazioni e fugati tutti i dubbi, ma non ci può essere alcuna ingerenza estera nelle prerogative di un parlamento sovrano". Così Alessandro Zan del Pd su twitter. 

«Così la Santa sede mette in discussione la laicità dello Stato». Il Vaticano contro il ddl Zan, parla la senatrice dem Monica Cirinnà: «Siamo di fronte a una presa di posizione molto netta in una materia che è affidata al Parlamento». Simona Musco su Il Dubbio il 23 giugno 2021. Nessun pericolo per la libertà di opinione – «che è resta distinta da una inesistente “libertà” di istigare alla discriminazione o alla violenza» – e nessun pericolo per l’autonomia scolastica. A dirlo è la senatrice del Partito democratico Monica Cirinnà, tra le più agguerrite sostenitrici della legge presa di mira dal Vaticano. Legge alla quale, a nome dell’intero partito, ribadisce oggi il più incondizionato appoggio. «Sicuramente ci sono dei profili molto delicati di tenuta del principio di laicità dello Stato – dice al Dubbio -. Mi auguro non si arrivi ad una crisi diplomatica».

Come giudica l’intervento del Vaticano sul ddl Zan?

Mi fa riflettere molto, come cittadina e come rappresentante delle istituzioni repubblicane, che la Santa sede senta la necessità di pronunciarsi in modo così duro su una legge che ha il solo obiettivo di proteggere le persone da discriminazione e violenza.

L’autonomia legislativa e la laicità dello Stato sono messe in discussione?

Siamo di fronte a una presa di posizione molto netta in una materia che, al momento, è affidata al Parlamento, avvenuta in forme inedite e con un’intensità senza precedenti nella storia della Repubblica. Come tale deve essere valutata, alla luce del principio costituzionale di laicità e della lettera dell’articolo 7 della Costituzione. Sarà necessario riflettere su quanto accaduto, anche al di là degli stretti profili di merito legati al ddl Zan.

Come risponde alle obiezioni sollevate da Monsignor Gallagher?

La nota vaticana riprende obiezioni largamente diffuse nel dibattito sul ddl Zan. Posso solo rispondere ribadendo che a queste obiezioni è stato dato ascolto e risposta già alla Camera, in sede di discussione e approvazione del testo. Non ci sono pericoli per la libertà di opinione – che è resta distinta da una inesistente “libertà” di istigare alla discriminazione o alla violenza – e non ci sono pericoli per l’autonomia scolastica.

Secondo l’arcigay si tratta di un “attentato alla Costituzione” e di un tentativo di aprire una crisi diplomatica. Secondo lei è davvero così?

Sicuramente ci sono dei profili molto delicati di tenuta del principio di laicità dello Stato. Non so se si arriverà a una crisi diplomatica e sicuramente non me lo auguro. Quel che è certo è che la politica deve essere in grado di dare una risposta equilibrata ma netta, rivendicando il proprio ruolo nel quadro dei principi sanciti dalla Costituzione.

Per coloro che da sempre si sono opposti a questa norma una delle note dolenti è quella che riguarda la scuola. Ci sono margini di trattativa su questioni come questa?

L’articolo 7 del ddl – quello che istituisce la Giornata contro l’omolesbobitransfobia prevedendo anche che possano svolgersi iniziative nelle scuole – è stato modificato alla Camera proprio per ribadire il pieno rispetto del principio di autonomia scolastica. Non ci sono pericoli di sorta. Concentriamoci sull’importanza di prevenire discriminazioni e violenza a partire dalla formazione e dalla cultura, piuttosto che agitare fantasmi inesistenti.

Come influirà questa vicenda sui lavori parlamentari?

La posizione del Partito democratico non muta. È necessario porre fine all’ostruzionismo di queste settimane, portando al più presto il ddl in Aula. È l’ostruzionismo a impedire il confronto democratico sui contenuti, non altro.

Alessio Poeta per “Chi” il 22 giugno 2021. Alessandra Mussolini, negli anni, ha capito che la coerenza appartiene solo a chi non ha idee. Ha abbandonato la politica, ha trovato il suo equilibrio, si è interrogata spesso sul senso della vita e per questo ha scelto di supportare il Ddl Zan. «Non la chiamerei conversione, né redenzione. Sarebbe riduttivo. Io non faccio altro che analizzare le situazioni, senza barriere e senza essere condizionata, in alcun modo, dalle etichette. Eppure, ciononostante, viviamo una realtà così particolare dove la tolleranza non vale per tutti, ma solo per alcuni».

Domanda. La foto pubblicata sui suoi social con scritto Ddl Zan, sul palmo della mano sinistra, ha scatenato il putiferio e fatto il giro del mondo.

Risposta. «Ho aderito a una campagna per una battaglia che considero più che giusta. Niente di straordinario, tra l’altro, visto che è sempre stato il leitmotiv della mia esistenza. Oggi più che mai bisogna combattere tutti assieme le tante discriminazioni che, purtroppo, esistono ancora». 

D. C’è chi sostiene che questa sia una legge che limiti, in qualche modo, la libertà d’espressione.

R. «Sono dell’idea che, in questo caso specifico, la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri».

D. A sposare certe lotte, non ha paura di deludere i suoi sostenitori?

R. «La verità? No! Chi ha apprezzato e condiviso il mio spirito libero e liberale, nonché le tante battaglie fatte, sono sicura che continuerà a farlo. E poi, io, parlo per me in quanto cittadina. Non rappresento, né voglio condizionare nessuno».

D. L’Italia e gli italiani sono pronti?

R. «Occorre iniziare oggi per le generazioni future. Ogni rivoluzione culturale necessita di tempi molto lunghi e su questo dissento da chi vorrebbe cambiare sempre tutto e subito. Se si pensa che ancora oggi la donna viene accompagnata all’altare, dal padre, e viene consegnata al futuro marito...».

D. Fa strano sentirla parlare così visto che, nel 2006 ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, urlò a Vladimir Luxuria: «Meglio fascista che fr***o».

R. «Usai quell’espressione in risposta a una violenta provocazione sul mio cognome. Non volevo offendere, ma porre fine a una spiacevole discussione».

D. Ha mai chiesto scusa?

R. «Le basti pensare che io e Vladimir, oramai, siamo amiche. Ci troviamo spesso come ospiti nelle stesse trasmissioni televisive e non rinunciamo mai a due risate assieme». 

D. Sarebbe favorevole alle adozioni per le coppie dello stesso sesso?

R. «I bambini abbandonati negli istituti sono la peggiore sconfitta di ogni società. L’amore deve prevalere su tutto».

D. I detrattori delle battaglie arcobaleno usano la Gpa (gestazione per altri, volgarmente chiamata utero in affitto) per seminare dubbi.

R. «Non le nascondo che anche io, su questo argomento spinoso e delicato, nutro molte perplessità. Figuriamoci quando si parla di sfruttamento della donna dietro questa pratica». 

D. Se uno dei suoi tre figli, un domani le rivelasse la propria omosessualità?

R. «Per me conta, oggi più che mai, solo ed esclusivamente la loro felicità». 

D. E si è mai chiesta del perché molte famiglie siano così reticenti nell’accettare la sessualità dei propri figli?

R. «Perché, nonostante tutto, la nostra società non è così aperta come sembra, tanto che talvolta l’omosessualità di un figlio diventa un’onta per tutta la famiglia. Quando poi la sessualità non è nient’altro che la più intima condizione di ogni individuo sulla quale nessuno dovrebbe discutere. Invece oggi mi sembra ci sia una vera e propria ossessione».

D. Quando Platinette dichiara che “inserire l’identità di genere nei programmi scolastici è una violenza”, che cosa pensa?

R. «Mi torna in mente il mio disagio quando da bambina sulla pagella c’era scritto: “Firma del padre o di chi ne fa le veci”. I miei genitori erano divorziati e firmava sempre mia madre e questo non ha idea di quanto mi facesse soffrire». 

D. È più importante l’educazione in casa o nelle scuole?

R. «Senza alcun dubbio quella dei genitori».

D. Questo è il mese dell’orgoglio gay. Ritiene sia ancora utile marciare, tra carri e colori, sulle note di I will survive?

R. «Trovo che musica e colori siano la migliore cura dopo un periodo buio e triste come quello dal quale stiamo faticosamente tentando di uscire. Mi auguro che questo spirito si riversi in ogni manifestazione, politica e non».

D. Se venisse invitata come madrina?

R. «Madrina? Semmai padrina!». 

D. Il politicamente corretto e quest’attenzione maniacale alle desinenze affinché finiscano con la “a”, porterà a qualcosa?

R. «Trovo inutile e anche un po’ ridicolo cambiare al femminile un termine maschile. Non sarà mai questo a eliminare le disparità esistenti. E non è certo per questo che un sindaco, un notaio, un avvocato donna si sentono meno rappresentative della categoria». 

D. Ha mai ricevuto avance da parte di una donna?

R. «No, sempre e solo “disavance”». (Ride).

D. Sono stati più gli uomini o le donne, negli anni, a entrare in competizione con lei?

R. «In modo anche piuttosto preponderante gli uomini e, talvolta, usando anche mezzi abbastanza sleali, ma le dirò: meglio guardare avanti». 

D. E se le chiedessi di guardare al futuro?

R. «Mi fermerei al presente. La pandemia mi ha insegnato a vivere giorno per giorno».

D. E io che pensavo rispondesse, dopo questa intervista, “un ritorno in politica con il Pd”.

R. «Allora, come temevo, la strada che porta all’accettazione dell’altrui pensiero è ancora lunga. Molto lunga». (Sorride). 

D. Quando si guarda allo specchio, oggi, chi vede?

R. «Una donna soddisfatta di ciò che ha realizzato e che, con fatica, cerca di mantenere un atteggiamento di ottimismo nonostante quello che stiamo vivendo da oltre un anno».

D. Si piace?

R. «A fasi alterne». 

D. E se tornasse indietro poserebbe ancora per Playboy?

R. «Certo, a patto che venisse fatto un servizio anche per... Playgirl!».

«Ma io, giurista cattolico, dico: quello del Vaticano non è un atto di guerra». Scontro sul ddl Zan, parla l'ex presidente della Consulta Cesare Mirabelli: «Siamo all'interno di un rapporto tra due soggetti di diritto internazionale che hanno stipulato un accordo». Valentina Stella su Il Dubbio il 23 giugno 2021. Il professor Cesare Mirabelli, giurista, ex presidente della Corte Costituzionale, è stato Segretario della Commissione per l’attuazione dell’Accordo di revisione del Concordato e per le intese con le altre confessioni religiose. In merito alla nota della Santa Sede inviata al nostro Governo per lanciare un allarme sul Ddl Zan che potrebbe determinare una violazione del Concordato del 1984, Mirabelli dice: «Gli articoli 4 e 7 lasciano troppo margine interpretativo. La Chiesa non può rischiare sanzioni penali se decide di non benedire unioni omosessuali o se una associazione cattolica è formata da persone di un unico sesso».

Presidente in base a quale principio la Santa Sede ha inviato una richiesta formale al nostro Governo di modifica del Ddl Zan?

Non la qualificherei come una richiesta formale di modifica del Ddl Zan. Siamo all’interno di un rapporto tra due soggetti di diritto internazionale che hanno stipulato un accordo e uno dei due segnala all’altro che esiste il rischio che quell’accordo sia violato. Non si tratta di un atto di protesta o di contestazione ma di un gesto di cooperazione. Le pongo una domanda: è intrusivo segnalare il rischio che un patto sia violato? Oppure bisogna aspettare che sia violato per poi contestarlo e aprire un contenzioso? Le note verbali rappresentano uno strumento usuale di comunicazione, di segnalazione di problemi, di formalizzazione di osservazioni o richieste di chiarimenti. Non è una dichiarazione di guerra, ma un tentativo di prevenire un contenzioso. Una reazione diplomatica dopo la presunta violazione sarebbe stata certamente più grave e avrebbe irrigidito di più i rapporti tra i due Stati.

In che cosa potrebbe consistere un contenzioso?

Tutto quello che riguarda la violazione di un accordo di tipo internazionale. Può darsi che lo Stato italiano ritenga che l’accordo non sia violato e allora nascerebbe un conflitto che dovrebbe pervenire ad una composizione amichevole della controversia.

Secondo la Santa Sede il Ddl Zan violerebbe l’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato del 1984. Può spiegare in che termini?

L’articolo 2 sostanzialmente riafferma sul piano bilaterale delle garanzie di libertà che la Costituzione già riconosce: quella religiosa nella forma dell’esercizio del magistero ecclesiastico, dell’insegnamento, della libertà della Chiesa di avere una sua visione antropologica e di manifestarla. E poi anche la garanzia per i cattolici, ma non solo evidentemente per loro, di piena libertà di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

E allora quali sarebbero gli elementi critici?

Soprattutto gli articoli 4 e 7 del Ddl Zan dovrebbero fornire delle garanzie per la libertà di pensiero e religiosa ma in realtà lasciano un ampio margine interpretativo sulle eventuali conseguenze penali. Si può sanzionare una opinione manifestata, una convinzione, una scelta di idee se non è diretta intenzionalmente a determinare atti di violenza? Oppure non si può manifestare una idea che sia difforme da un sentire diverso? Il disegno di legge cerca di garantire la libertà delle scelte e il pluralismo delle idee ma lo fa in una maniera ritenuta non adeguata e non appropriata che mette a rischio penale determinate espressioni, indipendentemente dalla volontà della parte di scatenerà della violenza. Si tratta di un rischio per i cattolici ma anche per tutti gli altri cittadini. È discriminazione, ad esempio, non consentire da parte della Chiesa la benedizione di unioni omosessuali? Questo rientra nella libertà della Chiesa che va garantita. Non ci può essere il rischio di denuncia penale per queste situazioni. Trattandosi di reati occorre davvero la massima chiarezza. L’altro punto sul quale mi pare la nota della Santa Sede faccia delle osservazioni concerne la libertà della scuola culturalmente orientata. Le scuole cattoliche non sarebbero esentate dall’organizzazione della futura Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia. Inoltre, nella scuola pubblica va rispettato l’indirizzo educativo dei genitori. La scuola deve essere un luogo di educazione alla tolleranza e di rispetto della dignità di ogni persona. In generale il rapporto temporale e di contesto tra una posizione culturale e religiosa espressa e l’eventuale successivo atto violento o discriminatorio è assolutamente vago. Addirittura le associazioni cattoliche potrebbero essere perseguite per i ruoli differenti al loro interno tra uomini e donne: immagini che ci sia una associazione che per statuto è formata solo da donne o solo da uomini. È una discriminazione non tollerabile? Può costituire un elemento che sprona alla violenza? Voglio ricordare una cosa.

Prego…

Tempo addietro un giornale ha pubblicato l’opinione di una giurista la quale si riservava di denunciare una università, non appena il Ddl Zan fosse stato approvato, perché un libro di bioetica usato nel corso degli studi aveva posizioni antropologiche rispetto agli omosessuali non conformi alla linea che la legge segue. Fin quando rimangono opinioni o insegnamento vanno contrastati con opinioni ed insegnamenti, non con sanzioni penali. Perciò va garantita la libertà di espressione. Ma mi preme sottolineare un’altra cosa.

Mi dica.

Questo non toglie nulla all’esigenza di assicurare il pieno rispetto delle persone quale che sia la loro condizione o la loro scelta di vita. Non è in gioco la dignità della persona, che deve essere garantita in modo assoluto.

Assodato che la nota della Santa Sede sia legittima, Lei ritiene che sia anche opportuna? Molti l’hanno letta come una ingerenza del Vaticano nei nostri affari.

Non la riterrei una ingerenza se si tratta di una enunciazione rispetto ad un accordo che vincola le parti. Il Parlamento potrà – e a mio giudizio dovrebbe – tenere in considerazione le osservazioni della Santa Sede per valutare il merito delle questioni. Tra l’altro si tratta di temi dibattuti anche nell’ambito dello Stato.

Ci sono dei precedenti come questa nota, non divenuti pubblici?

Non possiamo saperlo ma comunque si tratta di strumento diffuso quello delle note verbali in cui si condensa in un piccolo scritto quello che direi al mio interlocutore.

Ci sono spazi per un’ulteriore revisione del concordato dopo quella del 1984 che, come nel 1946, raccolse il favore sia della maggioranza che dell’opposizione?

Mi pare che il concordato del 1984 abbia funzionato e che ci sia stato un clima di cooperazione come quello attuale che permane tra lo Stato e la Chiesa. Il principio alla base è quello della collaborazione nella distinzione delle competenze.

Concordato Vaticano Italia del 1984, cos’è e perché, secondo la Chiesa, il Dl Zan lo viola. Giampiero Casoni il 22/06/2021 su Notizie.it.  Concordato Vaticano-Italia, perché secondo la chiesa il Dl Zan lo viola: la nota consegnata da monsignor Gallagher allo Stato italiano solleva un vespaio. Concordato Vaticano-Italia, ricordare cos’è e perché secondo la chiesa il ddl Zan lo violerebbe è improvvisamente diventato faccenda cruciale. Lo è nella misura in cui in questi giorni il Vaticano ha formalmente chiesto al governo italiano di modificare il disegno di legge contro l’omotransfobia approvato dalla Camera il 4 novembre del 2020. Ma innanzitutto: perché il Vaticano ha il diritto, non la facoltà, si badi, ma il diritto, di chiedere allo Stato italiano di modificare una sua legge? La risposta sta proprio nella natura del Concordato che si intende violato con il Dl Zan, almeno secondo la dichiarazione ufficiale consegnata dal segretario per i Rapporti con gli Stati della Santa Sede, monsignor Gallagher, all’ambasciata italiana e arrivata fresca e venefica sul tavolo del ministro Di Maio.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan viola un “contratto” che risale al 1929. I Patti Lateranensi che si sostanziarono nel Concordato risalgono al 1929, quando il Regno d’Italia decise di porre fine alla “Questione romana” postasi anni prima con il culmine del Risorgimento. Con la presa di Roma resa iconica dall’episodio della Breccia di Porta Pia l’Italia pose fine al potere temporale dei papi, che per mezzo del loro rappresentante di allora, Pio IX, reagirono malissimo e vietarono ai cattolici di partecipare alla politica italiana. L’allora capo del governo Mussolini però aveva (ancora) bisogno di legittimare il fascismo in punto di diritto e consenso, soprattutto per accedere al serbatoio delle associazioni cattoliche giovanili e farne un “balillificio”. Perciò promosse e stipulò i Patti del Concordato con cui Chiesa e Regno d’Italia mettevano a contratto i reciproci rapporti.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan e la revisione del 1984. Il Concordato venne poi sottoposto a conferma e revisione nel 1984, quando Bettino Craxi e il cardinale Casaroli rinnovarono l’impegno e ne modellarono l’impalcatura alle mutate circostanze storiche. Insomma, il sunto spiccio è che ci sono cose in cui per legge e non per velleità “invasive” la Chiesa può mettere il naso nelle faccende dello Stato. E perché questa facoltà è stata esercitata a proposito del Dl Zan? Qui la faccenda si fa complicata e in aiuto arriva una “rinfrescata” su cosa disciplina il disegno di legge contro l’omotransfobia. Il Ddl voluto dal dem Alessandro Zan prevede la reclusione fino a 18 mesi o una multa fino a seimila euro nei confronti di chi commette o istiga ad atti di discriminazione. Inoltre prevede anche il carcere da 6 mesi a 4 anni nei confronti di chi istiga o commette violenza: poi, e qui lo snodo giuridico cruciale, prevede l’esercizio dell’azione penale per chi partecipa a organizzazioni che incitano a discriminazione o violenza. Il testo annovera dieci articoli con l’estensione dei cosiddetti reati d’odio per discriminazione razziale, etnica o religiosa a chi compia discriminazioni verso omosessuali, donne, disabili.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan viola il “diritto di discriminare”. In buona sostanza e per metterla giù bruta il Vaticano ritiene che il Dl Zan “discrimini il suo diritto a discriminare”, e siccome quel diritto è sancito da una legge precedente e prevalente (Il Concordato) quella successiva (Il Dl Zan) scardinerebbe spirito e legiferato del ‘29 e la conferma dell’84. Ma in quali punti si sostanzierebbe questo peloso paradosso giuridico? Nell’articolo 2 ed ai commi 1 e 3 della versione revisionata del Concordato del 1984. Leggiamo: “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”.

Concordato Vaticano-Italia, quali commi viola il Dl Zan. Poi il comma 3 che garantisce “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ora, dato per assunto che per sua impalcatura etica (discutibile) e per Diritto di Stato Sovrano (inattaccabile) il Vaticano fa un punto di orgoglio ed azione normativa manifestare il pensiero, per singole o associate istanze, secondo criteri che non sono proprio aderenti ed afferenti con la condanna dell’omotransfobia, una legge che vieta la manifestazione di quei sentimenti in realtà vieta al Vaticano di esercitare un diritto sancito da una legge, quella scaturita dall’accordo di Villa Madama, quando Stato e Chiesa “rinnovarono i voti” della pace fatta nel 1929.

Concordato Vaticano-Italia, il Dl Zan, le scuole e la Giornata Nazionale contro l’Omotransfobia. E sulla scorta di questo principio il Vaticano critica anche un altro effetto del Dl Zan: quello per cui le scuole private non sono esentate dal partecipare alla istituita Giornata Nazionale contro l’Omotransfobia. Le scuole cattoliche sono private e il Vaticano non vuole che i suoi spot didattici celebrino una cosa che proprio in forza della sua mistica didattica ritiene che non sia affatto faccenda da festeggiare.

Perché è impossibile abolire il Concordato. Andrea Muratore su Inside Over il 23 giugno 2021. Il Vaticano è entrato in gamba tesa nel dibattito pubblico italiano pronunciandosi ufficialmente sul Ddl Zan-Scalfarotto, il discusso e controverso disegno di legge sull’omotransfobia che violerebbe l’accordo di revisione del Concordato siglato nel 1984 dalle autorità d’Oltretevere e dal governo italiano di Bettino Craxi. Secondo la Santa Sede, infatti, il Ddl sull’omotransfobia andrebbe rivisto (non eliminato, come erroneamente riportato) laddove violerebbe la libertà garantita alla Chiesa cattolica dall’articolo 2, commi 1-3 dell’accordo di revisione del Concordato  che assicurano alla Chiesa Cattolica in Italia “libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale”  e garanzie “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. “Chi ha concordato il Concordato?” è stato il commento del principale alfiere del Ddl Zan nel dibattito pubblico italiano, Fedez, che assieme a diversi esponenti della sinistra progressista ha alzato le barricate contro il Vaticano in una giornata, quella del 22 giugno, che dopo le esclusive rivelate dal Corriere della Sera è stata caratterizzata da un forte tam-tam mediatico e social attorno all’ipotesi radicale di abolizione del Concordato. La nostra società odierna vive chiaramente in una fase contraddistinta dalla fine del mito dei competenti, e questo è palesemente sotto gli occhi di tutti, ma il mondo dei social, degli influencer e dell’immediatezza ha prodotto un fenomeno decisamente inverso, una diffusione generalizzata e spesso dannosa di opinioni semplicistiche, raffazzonate e fuorvianti, molto spesso promosse proprio da coloro che hanno i seguiti più vasti di follower e contatti. Riccardo Magi, deputato di +Europa, è stato il primo esponente delle istituzioni a portare nel dibattito il tema dell’abolizione del Concordato in ritorsione alla mossa senza precedenti della Santa Sede. Una posizione che, come vedremo, è semplicemente inattuabile. In primo luogo perché il Concordato fondato sui Patti Lateranensi del 1929 e sugli Accordi di Villa Madama del 1984, sottoscritto da Italia e Santa Sede, ha un surplus di profondità giuridica e politica, stabilendo di fatto la costituzione della Città del Vaticano come Stato sovrano ed indipendente e trovandosi ad essere un ibrido tra un trattato internazionale e un accordo tra un’istituzione politica e una confessione religiosa come molti stipulati in precedenza dai Papi sin dai tempi di Napoleone. In secondo luogo, perché la Costituzione italiana, all’Articolo 7 (dunque nel pieno dei principi fondamentali dello Stato), tutela con forma speciale l’intesa siglata dal nostro Paese con la Chiesa cattolica e le sue istituzioni. Il fatto che l’Articolo affermi che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani” segnala per che motivo la nota vaticana si sia concentrata sulle questioni di merito del Ddl Zan e non sia stata strutturata come un’entrata in gamba tesa rischiosa. Nel 1948 la Costituzione entrò in vigore anche grazie alla mediazione che la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista riuscirono a trovare sull’inserimento del Concordato nella suprema carta, accettato con lungimiranza da Palmiro Togliatti. In sostanza, nota Il Sussidiario, “la Costituzione italiana ha tutelato la realtà considerata parte integrante del sistema di valori civili, morali, politici e religiosi – ovvero la Chiesa: se questo dovesse cambiare in futuro, non è dato saperlo ad ora e di certo non dovrebbe essere il punto di discussione all’interno di un disegno di legge in tema di diritti civili-libertà di opinione”. Infine, vi è una questione d’ordine politico di cui tenere conto. Il Vaticano non ha fatto, in fin dei conti, che esplicitare in termini chiari e precisi quanto già sottolineato dalla Conferenza episcopale italiana, che nelle scorse settimane non aveva chiuso unilateralmente al Ddl Zan ma chiesto solo, semplicemente, che i punti più controversi venissero chiariti e sanati. La nota con l’appello al Concordato è sicuramente dura, ma in sostanza dà applicazione a quanto aveva espresso nelle scorse settimane il cardinale Bassetti, presidente della Cei, che rispetto al ddl Zan contro l’omofobia aveva dichiarato che ci fosse ancora tempo per un “dialogo aperto” per arrivare a una soluzione priva di “ambiguità e di forzature legislative”. E la reazione aperturista di Enrico Letta, segretario di quel Partito Democratico che è il primo propugnatore della nuova legge, alla nota vaticana fa capire che proprio questo è l’obiettivo politico dell’Oltretevere. Il punto, dunque, è sulla lettera del Concordato, sui suoi articoli espliciti, e non sulla ratio di fondo che ne ha giustificato la promozione e la stipulazione. Ogni dibattito da social sugli inviti al governo italiano a recedere unilateralmente da un accordo che regola i rapporti con la principale confessione religiosa del Paese e determina l’indipendenza di uno Stato sovrano per le questioni del Ddl Zan è semplicemente malposto o fuorviante. Sarà la mediazione politica a dover sanare ogni effettivo punto di attrito.

Il sospetto di Bizzarri che asfalta la sinistra: "Ddl Zan scritto male?". Francesca Galici il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Luca Bizzarri si espone domandando se, forse, il ddl Zan non avesse problemi di stesura e contro di lui si è scatenato il fuoco amico. Se anche a sinistra iniziano a esserci dubbi sul ddl Zan, forse un problema effettivamente esiste. E Luca Bizzarri ci ha provato a farlo notare su Twitter con una lucidità invidiabile, la stessa con la quale si è poi dovuto difendere dai kompagni per aver azzardato una critica al disegno di legge di Alessandro Zan, che da ieri è tornato al centro dell'attenzione per l'appunto fatto dal Vaticano sulla possibilità che nella sua attuale stesura violi il Concordato. "Però, dopo mesi, dopo che viene attaccata da destra (evabè, ci sta) da una parte di sinistra, dalle femministe, e ora pure dai preti… Non è che questa legge Zan è, semplicemente, scritta male? Perché a volte i pasticci e gli slogan fanno più danni degli omofobi, temo", ha scritto l'attore sollevando un legittimo dubbio. La legittimità del dubbio e il diritto di critica, però, non fanno parte del mondo radical chic, al quale comunque Bizzarri appartiene. Infatti sono bastati pochi minuti all'attore per ricevere centinaia di commenti, molti dei quali infarciti di populismo spiccio e di poca conoscenza dell'argomento. Diversi anche i personaggi noti che hanno contraddetto Luca Bizzarri, che ha semplicemente espresso un suo libero pensiero in merito al ddl Zan sul quale, forse, i kompagni vorrebbero non ci fosse critica in nome di un concetto democratico molto particolare. A Luca Bizzarri, per esempio, ha risposto Luca Viotti, ex europarlamentare del Partito democratico: "No, caro Luca. Sul #ddlzan decine di giuristi hanno scritto opinioni favorevoli e contrarie. Puoi leggerli, farti un’idea e sostenerla pubblicamente. Fare una domanda su twitter sai bene che non risolverà il tuo dubbio ma, ripeto, creerà polemiche e avvelenerà i pozzi". Quindi Twitter va bene solo per fare propaganda pro ddl Zan per i dem, non per sollevare dubbi? E infatti Luca Bizzarri ha replicato: "Scusa ma sei tu che dici che decine di giuristi hanno scritto opinioni favorevoli E CONTRARIE. Visto che le ho lette, mi chiedo se non sia migliorabile. O quei giuristi con idee contrarie sono tutti dei pericolosi omofobi? Ma perché ogni volta che mi dai torto poi mi dai ragione?". Messo con le spalle al muro, Viotti ha risposto: "Se hai letto quelle opinioni ti sarai già fatto un’idea: la legge va bene o non va bene. Dì liberamente quel che pensi e se pensi che sia 'migliorabile' aiuta il dibattito dicendoci cosa va modificato, quali parti". E Luca Bizzarri ci ha provato a dire la sua sul modo di migliorare il ddl Zan: "Per esempio vorrei sapere se nella legge viene trattato il caso in cui qualcuno possa dirti: 'Puoi partecipare al dibattito ma solo nei modi e nei termini che dico io'". Ma dopo questa domanda, di Viotti, si sono perse le tracce. Luca Bizzarri ha avuto modo di scontrarsi anche con un giornalista che, per aver espresso un dubbio sul ddl Zan, ha accusato l'attore di sostenere le fake news. E la reazione di Bizzarri non si è fatta attendere: "Ma cosa sostengo? Ma quali fake news? Lo ripeto, la reazione pavloviana di quelli come te che se uno non urla immediatamente 'bravo, giusto!' ma si pone semplicemente delle domande sulla soluzione (sul problema siamo tutti d’accordo, spero) sarebbe esilarante, non fosse tragica".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Ma l'ingerenza è un autogol. Marco Zucchetti il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Per anni, chi in Italia ha difeso la sacrosanta libertà di parola e pensiero delle gerarchie ecclesiastiche sui temi etici della politica italiana, ha usato un argomento semplice: la Chiesa fa la Chiesa. Per anni, chi in Italia ha difeso la sacrosanta libertà di parola e pensiero delle gerarchie ecclesiastiche sui temi etici della politica italiana, ha usato un argomento semplice: la Chiesa fa la Chiesa. Ovvero tutela legittimamente il suo magistero, la sua dottrina, anche i suoi interessi. Ma se appelli, prediche e moral suasion sono un diritto, l'atto formale con cui il Vaticano chiede al governo italiano «non di bloccare, ma di rimodulare» il disegno legge Zan è qualcos'altro. Non una discussione fra due istituzioni (e Nazioni, giova ricordarlo), ma una battaglia di carte bollate su una norma, peraltro non ancora promulgata. È il segno che la Chiesa, oltre a fare la Chiesa, torna a sentire l'impulso - covato dai tempi di San Pietro e messo in soffitta dalla breccia di Porta Pia e dal Non expedit - di fare anche lo Stato. Su questo Giornale lo abbiamo scritto molte volte: il disegno di legge Zan contro l'omotransfobia è divisivo, pasticciato e presenta più di un nodo sulla salvaguardia della libertà di pensiero e sulla propaganda fra i minori a scuola. Posto che queste criticità sono state espresse da un ventaglio molto eterogeneo di categorie, dai comunisti ai vescovi, dalle femministe ai conservatori, davvero serviva al dibattito questa specie di anatema? L'intervento della Santa Sede sposta il centro del discorso. Perché ora non si discetta più di una legge buona o cattiva, ma di chi deve decidere se lo è. E la sensazione è che anche quei liberali che osteggiano il provvedimento siano infastiditi da un'ingerenza così pesante. Gli italiani meritano di essere rappresentati da una classe politica che si prenda la responsabilità di decidere se il ddl Zan fa schifo, è ottimo o è da modificare, senza essere imbeccata o commissariata da un'autorità esterna. Invece lo spettacolo dei partiti in queste ore è penoso. La sinistra degli ultrà arcobaleno che ha fatto muro in Parlamento ora si affretta a dire che è giusto dialogare. I sovranisti che tuonavano contro il «ce lo chiede l'Europa», ora esultano se le richieste arrivano da Oltretevere. Pochi che ricordino un semplice punto: compito degli eletti, a cui spetta il potere legislativo da Costituzione, è ascoltare tutti (dunque anche una Chiesa cristiana cattolica su cui si fonda la cultura nazionale) e poi legiferare in autonomia, salvo assumersi le responsabilità davanti agli elettori delle proprie scempiaggini. E sull'eventuale incompatibilità con i trattati internazionali è la Consulta a doversi esprimere. Fine della querelle dallo stantio sapore Risorgimentale. Invece questa scomposta entrata a gamba tesa senza precedenti polarizza le posizioni, rinfocola le solite accuse da bar alla Chiesa che non paga le tasse e difende i pedofili e riesce nel miracolo di trasformare un provvedimento discutibile nella bandiera dell'indiscutibile primato dello Stato laico. Così che - invece di salvaguardare «la libertà garantita ai cattolici dall'articolo 2 del Concordato» - il Parlamento finirà per approvare la legge per ripicca, e per dimostrare un'orgogliosa autonomia (presunta). Con il risultato che la legge passerà e limiterà la libertà di tutti, non solo dei cattolici. In punta di diritto starà ai giuristi decidere se la protesta è fondata. Ma politicamente è un autogol goffo, ostile e anche un po' fastidioso. Viene da dire che per fortuna chi amministra il Vaticano non viene eletto a suffragio universale: difficilmente verrebbe rieletto. Marco Zucchetti

La nota, gli incontri e il Papa: ecco cosa è successo in Vaticano. Francesco Boezi il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Il Vaticano reagisce al Ddl Zan. Con l'atto formale emerso ieri, la Santa Sede rivendica libertà. Ecco cosa si muove in queste ore tra le mura leonine. Molti si stupiscono perché non se lo sarebbero mai aspettato. Ma l'atto formale con cui il Vaticano è intervenuto sul Ddl Zan, oltre a essere legittimo, è in linea con quanto scritto e detto in materia bioetica (e non solo su quella) durante questo pontificato. La nota verbale di cui si parla in queste ore è un atto formale. Se la Conferenza episcopale italiana avesse espresso un parere non sarebbe stato lo stesso, e non avrebbe fatto il medesimo rumore. Ecco perché, con buone probabilità, la protagonista di questa vicenda è la Segreteria di Stato. Non solo: visto che l'oggetto della discussione è divenuto il Concordato, è normale che a intervenire sia il dicastero presieduto dal cardinale Pietro Parolin. Diviene un discorso di competenze, cosa che Oltretevere è ancora molto sentita.

La scelta dei tempi. Le tempistiche sono un fattore da non sottovalutare in questa storia. Sarebbe stata una "interferenza", come vanno denunciando adesso certi ambienti progressisti, se l'iter parlamentare fosse appena iniziato. Ma il Ddl Zan è già in discussione, e ad oggi più di qualche esponente politico di spessore ha già rimarcato la necessità di approvarlo così com'è. Poi c'è chi come il segretario del Pd Enrico Letta sembra aver cambiato idea in maniera repentina. Il timing dei sacri palazzi, insomma, sembra tenere conto pure della politica e dei suoi tempi. Perché siamo in una fase avanzata.

Quegli incontri nei Sacri Palazzi. Fonti qualificate hanno riferito a ilGiornale.it di incontri che sarebbero avvenuti nei giorni scorsi, in particolare di meeting tra la segreteria di Stato ed esponenti del mondo conservatore. Insomma, qualcuno dotato di un certo peso politico avrebbe insistito con il "ministero degli Esteri" della Santa Sede con motivazioni tagliate sulle criticità del Ddl in oggetto. Altre fonti sostengono che la segreteria di Stato avesse già deciso di agire attraverso una mossa ufficiale, che si sarebbe declinata nelle asserzioni che vengono accostate a monsignor Paul Richard Gallagher. Se ne dicono tante. Certo è un evento raro. E questo forse perché quasi mai una norma aveva messo in discussione il Concordato nella sua stessa impostazione. Almeno stando ai contenuti della nota che sono rimbalzati ieri di quotidiano in quotidiano. L'alto ecclesiastico originario di Liverpool, del resto, avrebbe posto proprio la questione del rispetto del Concordato, che è un architrave della storia diplomatica italiana e vaticana:"Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall'articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato". Tra le frasi che abbiamo avuto modo di leggere, quella sulla libertà garantita alla Chiesa cattolica; è di sicuro tra le più rilevanti. Roma ne fa pure una battaglia di libertà, quindi.

I protagonisti della vicenda e il ruolo del Papa. I protagonisti di questa vicenda sono almeno tre. Il primo è il cardinale Pietro Parolin, teorico e pratico del multilateralismo diplomatico e figura chiave di questo pontificato. Il secondo è monsignor Paul Richard Gallagher, che sarebbe l'autore della nota e dunque il consacrato preposto, pure per via del suo status di segretario per i Rapporti con gli Stati, ad occuparsi in prima persona della faccenda. Infine, Papa Francesco, che molti associano al progressismo ideologizzato (quindi indirettamente ad un presunto riguardo verso qualunque provvedimento provenga da parte progressista), ma che non può non aver letto i contenuti della nota verbale. Questa storia secondo cui il pontefice argentino non verrebbe messo al corrente di alcune prese di posizione ufficiali provenienti dalle mura leonine ( o che non le condividerebbe) è ormai un leitmotiv. In termini di procedure tipiche nelle stanze vaticane, però, è sostanzialmente impossibile che un atto del genere venga inoltrato senza la previa visione ed approvazione del pontefice. Vale pure per le benedizioni alle coppie omosessuali che certi ambienti tedeschi vorrebbero approvare. Jorge Mario Bergoglio, sin da quando si è seduto sul soglio di Pietro, ha identificato la cosiddetta "teoria gender" - quella che per i conservatori sarebbe alla base del Ddl Zan - con qualcosa che andrebbe "contro il progetto di Dio". Ipotizzare che Francesco la pensi in un modo e la segreteria di Stato in un altro, dunque, risulta un po' forzato, per usare un eufemismo. Possibile che la Curia viva una fase di scontro interno? Pensare che all'interno del Vaticano esistano sia ecclesiastici favorevoli al Dll Zan sia elementi contrari è del tutto naturale. La Chiesa cattolica, durante questi ultimi decenni, è stata animata da un pluralismo che coinvolgerà in via indiretta anche certi scossoni legislativi che la politica avrebbe intenzione di dare. Questo però non può significare che la segreteria di Stato agisca senza badare al pensiero e alla pastorale del sovrano pontefice.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario

Il risveglio della Chiesa. Felice Manti il 23 Giugno 2021 su Il Giornale. Eppur si muove. La Chiesa tuona contro le storture del ddl Zan che vincola la libertà di pensiero. Di tutti, non solo dei cattolici. Eppur si muove. La Chiesa tuona contro le storture del ddl Zan che vincola la libertà di pensiero. Di tutti, non solo dei cattolici. Lo fa a sorpresa, senza troppe liturgie, con un atto inusuale che i detrattori del Papa ammantano di fragilità per svilirne la potenza, ovattarne il fragore. E invece è un sussulto d'orgoglio che fa tremare chi pensava di poter addomesticare un pensiero che sopravvive immutato da migliaia di anni. E che risveglia un senso di appartenenza un po' sfiorito sotto i colpi della secolarizzazione, ammonendo tutti che la liquidazione dei cattolici è ancora di là da venire. È come negli anni Settanta, osserva qualcuno, quando la Chiesa ha scommesso contro l'aborto e il divorzio. Ha perso una battaglia, certo. Ma non la sua identità. Con questa nuova scommessa il Vaticano rivendica il suo bottino, la supremazia dei suoi valori non negoziabili, striglia una classe politica imbelle, le ricorda che non si possono mescolare diritti e desideri e superare indenni la traversata del Tevere. Certo, passata la paura per la scossa che ha terremotato il Parlamento, l'armata Brancaleone del ddl Zan ha schierato i suoi cavalli e i suoi alfieri a difesa della laicità dello Stato. Ex sacerdoti sposati con uomini, cantanti convintamente mai battezzati, laici di professione, tutti insieme appassionatamente a sperticarsi di esegesi biblica, a interpretare la parola di Dio al Vaticano e alla Cei, ad ammonire i cattolici, a vagheggiare di una Chiesa profondamente divisa. Come se uno juventino volesse spiegare il tremendismo granata al Grande Torino, e fa già ridere così. Anziché entrare nel merito del ddl Zan e della sua deriva ideologica si ritira fuori il solito distillato anticlericale, «pénsino ai preti pedofili», «e allora l'Imu», «aboliamo il Concordato». Chi lodava il Bergoglio pro immigrazione ora ne reclama l'interferenza, smascherando la sua sulfurea ipocrisia. Puoi parlare finché reciti a memoria il pensiero unico. Ma non praevalebunt, non prevarranno. Non questa volta. La ferita al Paese aperta negli anni Settanta brucia ancora. Per spezzare «in nome del popolo sovrano» un legame deciso a tavolino, senza sentimenti e pieno di violenza, abbiamo svuotato i legami familiari, abusandone fino a codificarli in mediocri contratti. Per togliere al padre padrone qualsiasi diritto sul corpo della donna abbiamo spento la luce a milioni di creature la cui unica colpa è non avere parola, figurarsi diritto di voto. Oggi la risposta è una famiglia frammentata, l'utero che si voleva proteggere si svende al mercato della genetica. Il nuovo, comodo alibi si chiama «omotransfobia», lo spauracchio è la violenza contro gli omosessuali. Fenomeno spregevole, già ampiamente normato e lontano dall'essere un'emergenza, a meno di una difficile alchimia statistica. Lo dice un costituzionalista «laico» come Michele Ainis: «Il ddl Zan è superfluo perché le fattispecie che enumera sono tutte già nel nostro codice penale». Imporre una giornata sulle teorie gender alle scuole elementari, cattoliche o meno, è un abominio. Si vuole manipolare la chimica, la biologia e financo l'italiano per rivendicare una presunta molteplicità di identità di genere, rendere eguali nelle officine dell'ipocrisia le diversità, imbrigliare l'intimità e renderla mutevole in base a una «percezione», indipendentemente da un «percorso di transizione sessuale». Una fictio juris, che inventa una realtà che non esiste. Come sempre la Chiesa, che mette al centro la persona, non i suoi desideri, rivendica una verità cristallina. Eppure, in questi tempi è un atto rivoluzionario, il peso di una croce che solo la Chiesa può sollevare senza il timore di soccombere. Felice Manti

DAGONEWS il 23 giugno 2021. Come riportato nel suo articolo di oggi sul “Corriere della Sera” da Massimo Franco, la diffusione della nota verbale del Vaticano sul DDL Zan è uno sgambetto che colpisce il Papa, ma principalmente indirizzato al Cardinal Bassetti, segretario della Conferenza Episcopale Italiana. A far circolare il documento è stato “il partito di Ruini”, che ha voluto mandare un segnale contro la timidezza e l’immobilismo delle gerarchie ecclesiastiche sul disegno di legge. Tra le mura leonine si vocifera di un messaggio fatto recapitare da Bergoglio direttamente a “Mariopio” Draghi: “Pace con l’Italia”. Un segnale di via libera al DDL Zan che passerà con piccoli ma sostanziali aggiustamenti.

Massimo Franco per il "Corriere della Sera" il 23 giugno 2021. «Se non fossimo intervenuti, rischiavamo un pronunciamento della Cei simile a quella su Joe Biden dei vescovi americani contrari a dare la comunione ai politici che sostengono il diritto all' aborto». La lettura che nel cuore del potere vaticano si dà dello strappo della Santa Sede sulla legge Zan in materia di omofobia rimanda agli equilibri precari nel mondo cattolico; al rapporto complicato tra il papato di Francesco e l'episcopato italiano; e all' insoddisfazione nei confronti del presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti, e della stampa di area cattolica, accusati sottovoce di eccessiva timidezza. Le rimostranze contro governo e Parlamento dove è in discussione una legge contestata e divisiva vanno filtrate con lenti che non riguardano soltanto le relazioni con Palazzo Chigi, il M5S e una parte consistente della sinistra. La nota di protesta della quale ha dato notizia il Corriere, con l'accusa di violare alcune norme del Concordato, è in primo luogo un modo per ricompattare un'unità in bilico. E riflette la preoccupazione della Chiesa italiana di ritrovarsi con una legislazione che farebbe finire «nel tritacarne delle accuse di discriminazione e omofobia» qualunque sacerdote. D' altronde, erano mesi che cresceva la pressione di alcuni settori dell'episcopato su Bassetti. Si voleva una presa di posizione netta, dura: anche a costo di essere accusati di un'ingerenza di altri tempi. Ma si è aspettato a causa dell'epidemia del coronavirus, e dell'esigenza di non esasperare una contrapposizione sgradita al Papa e scivolosa per le implicazioni politiche. «La Cei aveva parlato due volte, ma con toni troppo accomodanti», si spiega. «Un segnale di debolezza». Esponenti come l'ex presidente della Cei, Camillo Ruini, hanno dato voce a chi voleva un atteggiamento di netta contrarietà. Ai vescovi che lo hanno interpellato, Ruini ha detto che occorreva «battersi nella certezza di avere ragione». Secondo il cardinale, «sarebbe una follia se con la legge Zan si pretendesse di chiuderci la bocca, di non farci insegnare il catechismo. È una legge che non può essere applicata così com' è». La svolta vaticana si è avuta dopo che il 17 giugno scorso l'ambasciatore d' Italia presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, ha ricevuto la nota dalle mani del «ministro degli esteri», l'inglese monsignor Richard Gallagher. Alla fine ha prevalso l'esigenza di battere un colpo, per quanto clamoroso e senza escludere l'eventualità di un irrigidimento delle forze politiche. Nell' iniziativa vaticana si avverte un calcolo: quello di dividere partiti e schieramenti meno granitici nel sostegno alla legge di quanto appaia ufficialmente. La legge Zan è considerata figlia di una fase di governo cementata lungo l'«asse radicaleggiante», viene definito così, tra l'allora premier grillino Giuseppe Conte e l'allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti. Sotto voce, esponenti dei Cinque Stelle e del Pd ammettono che qualche ragione il Vaticano può accamparla. È noto, ad esempio, che in questi mesi si sono consolidati i rapporti tra monsignor Gallagher e il ministro degli Esteri grillino, Luigi Di Maio. Ma si tratta di posizioni che appaiono minoritarie. Anche perché non mancano nemmeno vescovi perplessi dall' iniziativa presa da Gallagher per conto della segreteria di Stato e avallata da Francesco. Il timore è che ridia fiato a chi invoca una disdetta del Concordato; a chi chiede alla Chiesa di pagare gli arretrati sui suoi immobili; e punta il dito contro la pedofilia dei sacerdoti. A caldo qualcuno ha tentato perfino di accreditare la nota della Santa Sede come «uno sgambetto a Bassetti e un dispetto al Papa»: tesi grottesca e insultante nei confronti del pontefice. La realtà è che l’asse giallorosso M5S-Pd ha avuto a lungo sponde potenti nelle gerarchie cattoliche. La confusione delle reazioni che l'iniziativa sta provocando testimonia quanto la mossa arrivata da Oltretevere spiazzi posizioni date per scontate. Al vertice del Pd, che un Ruini defilato definisce in privato «una pagliuzza», il segretario Enrico Letta ha parlato subito della possibilità di ridiscutere alcuni aspetti giuridici del disegno di legge, pur difendendone l'impianto. Il problema è che voci anonime filtrate dal partito hanno ribadito una linea di chiusura totale. Il Vaticano ora fa sapere che l'obiettivo è «rimodulare, non bloccare la legge Zan». Il leader della Lega, Matteo Salvini, schierato con la Cei col resto del centrodestra, con toni moderati ha chiesto di vedere Letta per trovare una mediazione. Ma non sarà facile, con un sistema politico e un mondo cattolico divisi e sfibrati. Forse è un caso ma è in uscita un libro di intellettuali cattolici, tra cui Giuseppe De Rita, Andrea Riccardi e Romano Prodi, ma anche la regista Liliana Cavani, sul declino della Chiesa italiana. Titolo: «Il gregge smarrito».

Fiorenza Sarzanini e Francesco Verderami per "il Corriere della Sera" il 23 giugno 2021. La segreteria di Stato vaticana «auspica che la parte italiana possa tenere in debita considerazione le argomentazioni e trovare così una diversa modulazione del testo continuando a garantire il rispetto dei Patti lateranensi». Eccolo il passaggio chiave della nota verbale consegnata dal cardinale Paul Richard Gallagher il 17 giugno e subito tramessa dall' ambasciatore italiano presso la Santa Sede Pietro Sebastiani al ministero degli Esteri, a Palazzo Chigi e al Quirinale. Ecco la frase che impegna il governo - la «parte italiana» - a trattare. La comunicazione è giunta per via diplomatica, ma non c' è dubbio che il premier fosse già stato informalmente messo a parte dalla Sante Sede del disagio per la possibile approvazione della legge, se è vero - come sottolinea un ministro - che «le note verbali sono elementi abituali, sempre frutto di precedenti incontri». Numerose fonti di governo lo confermano, spiegando come sia «impensabile che il Vaticano abbia formalizzato una posizione così netta senza alcuna avvisaglia precedente. Il tema viene valutato con grande attenzione». E già oggi in Parlamento Mario Draghi dirà che «dovranno essere valutati gli aspetti segnalati da uno Stato con cui abbiamo rapporti diplomatici». Un modo per rispondere alle sollecitazioni vaticane in attesa di trovare - grazie anche al lavoro degli esperti - una soluzione che non appare facile. Il disegno di legge Zan è infatti già stato approvato dalla Camera e l'esecutivo dovrà scegliere la strada per inserirsi nel percorso parlamentare senza «interferire». Secondo la Santa Sede «alcuni contenuti della proposta legislativa avrebbero l'effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa e ai suoi fedeli». La norma contestata riguarda la mancata esenzione delle scuole cattoliche dalle attività previste nella Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia e la transfobia. In particolare si stigmatizza «il riferimento alla criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi fondati sul sesso». Nella nota verbale c' è un passaggio in cui si sottolinea che «ci sono espressioni della sacra scrittura e della tradizione ecclesiale del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa rivelazione divina». Proprio sulla base di questa considerazione si sollecita la revisione del ddl Zan. Da qui si dovrà adesso ripartire per sbrogliare la matassa di una legge che aveva già evidenziato profonde divisioni tra i partiti della maggioranza. Una moral suasion da portare avanti con estrema cautela, ma anche con la determinazione di non mettere in discussione gli accordi tra l'Italia e lo Stato Vaticano. La reazione del premier Draghi nel corso della conferenza stampa convocata dopo l'incontro con la presidente della commissione Ue, Ursula von der Leyen, a chi gli chiedeva che cosa farà il governo, dimostra quanto spinosa sia la questione. «È una domanda importante», ha sottolineato evidenziando la necessità di «rispondere in maniera strutturata». E così confermando l'esigenza di garantire i rapporti con la Santa Sede, di salvaguardare l'indipendenza del Parlamento ma anche di accompagnare l'approvazione di norme che proteggano le libertà. Per questo viene letto come un segnale importante la scelta del ministro per gli Affari europei Vincenzo Amendola di firmare - insieme ad altri 13 Stati membri dell'Unione - una «richiesta di chiarimenti» avanzata nei riguardi dell'Ungheria su alcune leggi approvate in quel Paese che «producono discriminazioni in base all' orientamento sessuale». E finora «non sono arrivati chiarimenti soddisfacenti». Intervenendo oggi in Parlamento, Draghi fornirà chiarimenti lasciando probabilmente intendere che la soluzione non è comunque imminente. Servirà una riflessione approfondita, e il tempo verrà usato per far decantare il clamore. Magari consentendo ai gruppi della larga maggioranza di lavorare a un compromesso su un testo che è diventato terreno di scontro politico. E che peraltro non avrebbe i numeri per essere definitivamente approvato. Si vedrà se la mossa del Vaticano spingerà i partiti verso un accordo. 

l "non possumus" sui diritti scatena la rissa tra partiti. Cosa sono i Patti Lateranensi e cosa c’entrano con il Ddl Zan. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 23 Giugno 2021. È un fatto senza precedenti (almeno quelli noti) la richiesta del Vaticano al governo italiano di modificare il ddl Zan, il disegno di legge contro l’omofobia. Dalla Segreteria di stato – secondo quanto ha rivelato ieri il Corriere della Sera – è partita una nota a firma del segretario vaticano per i Rapporti con gli stati, mons. Paul Richard Gallagher. Nel documento, prontamente inoltrato al governo dall’Ambasciatore italiano presso la Santa Sede – che l’ha ricevuto il 17 giugno – si sottolinea che alcuni passaggi del decreto legge Zan violerebbero “l’accordo di revisione del Concordato” del 1984. Secondo quanto è trapelato la Nota rileva che «alcuni contenuti della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato». Di che si tratta esattamente? Il comma 1 dice: “La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. Il comma 3 stabilisce invece che «è garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». Il costituzionalista Cesare Mirabelli ha spiegato quali siano le questioni problematiche in una lunga conversazione con VaticanNews, la testata informativa italiana del Dicastero per la Comunicazione. «Non si tratta di contestare o di contrastare la protezione particolare che vuole essere assicurata a determinate categorie di persone», ha spiegato Mirabelli. Gli aspetti rischiosi hanno a che fare con la tutela «della libera espressione di convinzioni che possono essere legate a valutazioni antropologiche su alcuni aspetti. È particolarmente rischioso se la previsione di norme penali possano limitare la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero. Sotto questo aspetto la nota verbale della Santa Sede è una comunicazione che viene fatta, una segnalazione di attenzione per il rischio di ferire alcuni aspetti di libertà che l’accordo di revisione del Concordato assicura. Non si chiedono quindi privilegi». In maniera ancora più specifica il costituzionalista ha notato: «Si deve evitare che ci sia un rischio di sanzionare penalmente espressioni o comportamenti che sono riconducibili a convincimenti, ma che non sono né di aggressione, né di violenza, né di incitazione all’odio, anche se possono altri su queste opinioni fondare le loro condotte». Inoltre un “punto critico” riguarda la libertà della scuola e la libertà educativa dei genitori. «Se varata (la legge Zan, ndr), questo tipo di garanzie, che la legge vuole introdurre, diventa una presenza non allineata con l’impostazione educativa dei genitori o l’orientamento, ad esempio, di istituzioni che possono essere cattoliche, ma anche di altro orientamento culturale, che hanno una diversa identità». Tra le questioni sollevate c’è il fatto che le scuole cattoliche non sarebbero esentate dall’organizzazione della futura Giornata nazionale contro l’omofobia, ma si evidenziano anche timori più generali per la “libertà di pensiero” dei cattolici e anche delle possibili conseguenze giudiziarie nell’espressione delle proprie idee. Sollecitata in proposito, la Sala stampa vaticana ha confermato all’agenzia Ansa l’intervento sul ddl Zan, spiegando che ha l’obiettivo “non di bloccare” il ddl Zan ma di «rimodularlo in modo che la Chiesa possa continuare a svolgere la sua azione pastorale, educativa e sociale liberamente». Tra i capi-dicastero della Santa Sede, è toccata una domanda, nella conferenza stampa di ieri su tutt’altro tema, al cardinale Kevin Joseph Farrell, Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita. Il porporato ha spiegato genericamente che «certamente c’è la preoccupazione della Santa Sede e di ciascuno di noi». Sul piano politico, dopo le anticipazioni del Corriere della Sera, sono fioccate le dichiarazioni dei partiti. Il deputato Pd Alessandro Zan non ha dubbi: «Il testo non limita in alcun modo la libertà di espressione, così come quella religiosa. E rispetta l’autonomia di tutte le scuole». Il segretario del Pd Enrico Letta, su Twitter, ha scritto: «Attendiamo quindi di vedere i contenuti della Nota della Santa Sede lì preannunciata. Ma abbiamo fortemente voluto il ddl Zan, norma di civiltà contro reati di odio e omotransfobia e confermiamo il nostro impegno a farla approvare». «Sul ddl Zan io sono pronto a incontrare Letta, anche domani, per garantire diritti e punire discriminazioni e violenze, senza cedere a ideologie o censure, e senza invadere il campo di famiglie e scuole», ha sottolineato il leader della Lega, Matteo Salvini, sempre su Twitter. Il senatore leghista Andrea Ostellari ha precisato che dopo aver sentito la presidente del Senato «ho fatto richiesta formale di acquisire il testo della rilevante nota che lo Stato Vaticano ha inviato alla Farnesina. Ai fini del lavoro che sta compiendo la commissione Giustizia del Senato, è fondamentale conoscere e valutare i rilievi sollevati dalla Santa Sede». Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay, dal canto suo rileva che «l’attivazione della diplomazia Vaticana con l’utilizzo del Concordato per cercare di bloccare l’iter della legge Zan al Senato è un qualcosa senza precedenti nelle relazioni tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede, il tentativo esplicito e brutale è quello di sottrarre al Parlamento il dibattito sulla Legge e trasformare la questione in una crisi diplomatica, mettendola nella mani del Governo Draghi per far si che tutto venga congelato». Per Antonio Tajani di FI «non siamo una caserma e ci sarà qualcuno che può pensarla in maniera diversa». Per la ministra della Famiglia Elena Bonetti «c’è un dibattito in Parlamento e Italia Viva porta avanti un’idea di ricomposizione della politica. Per dotare il Paese di una legge che condanni l’omotransfobia va usato il metodo del dialogo tra i partiti, non del dibattito ideologico». Barricadero Nicola Fratojanni, segretario nazionale di Sinistra Italiana: «Occorre che governo e Parlamento reagiscano in modo deciso. E voglio dire al Vaticano che, se vede minacciato il Concordato, allora quel Concordato lo possiamo anche ridiscutere».

La Conferenza episcopale italiana è intervenuta due volte, il 10 giugno 2020 ed il 28 aprile 2021, per ribadire che non serve una nuova legge rispetto alle norme attualmente esistenti che puniscono l’omofobia. Il presidente dei vescovi italiani, cardinale Bassetti, il 17 maggio, sempre al Corriere della Sera, diceva che «se si ritiene utile una legge specifica contro l’omofobia, va bene», ma occorre “la chiarezza”: perché «così com’è ora è un testo che si presta a essere interpretato in varie maniere e può sfociare in altre tematiche che nulla hanno a che vedere con l’omofobia, gli insulti o le violenze». Ma l’ultima parola spetterà a Mario Draghi. «Domani io sono in Parlamento e risponderò in maniera ben più struttura di quanto possa fare oggi», ha detto il premier a margine della conferenza stampa con Ursula von der Leyen.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Vittorio Feltri e la follia del ddl Zan: "Vietato dire onora il padre e la madre", i Dieci Comandamenti da stracciare. Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. “Occhio. Se passa la legge Zan bisogna correggere i dieci comandamenti: non si potrà dire onora il padre e la madre, ma onora il genitore uno e il genitore due. Divertente”. Così Vittorio Feltri in un commento su Twitter ha scatenato la sua proverbiale ironia, centrando però un punto importante. Sul ddl Zan la discussione si è infiammata nuovamente dopo che il Vaticano ha chiesto formalmente di modificare alcuni passaggi che violerebbero il Concordato. Ovviamente si è scatenata una feroce polemica politica, anche se Pd e M5s si sono poi tirati indietro alla Camera, non ponendo la questione a Mario Draghi, che pure aveva fatto sapere di aver preparato una risposta articolata. Si confida che al Senato qualcuno si faccia avanti, anche perché gli italiani pretendono giustamente risposte. Nel frattempo Feltri nel suo editoriale odierno ha espresso il suo punto di vista: “Il Vaticano c’è. È uno Stato che con l’Italia ha firmato un concordato che fissa le regole di buon vicinato. E queste regole vanno rispettate in forma bilaterale”. “Pertanto - ha aggiunto - è da fessi prendersela col monsignor Gallagher, ministro degli Esteri del Papa, soltanto perché dichiara apertis verbis che la legge Zan, di cui si discute da tempo, non è conforme ai patti sottoscritti tra la chiesa e il nostro nevrotico paese. Attaccare i preti, come sta avvenendo, poiché la pensano diversamente dai progressisti è una operazione scorretta sotto ogni punto di vista”. 

Ddl Zan, Vittorio Feltri denuncia la vergogna della sinistra: i compagni che vogliono imbavagliare la Chiesa. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Il Vaticano c'è. È uno Stato che con l'Italia ha firmato un concordato che fissa le regole di buon vicinato. E queste regole vanno rispettate in forma bilaterale. Pertanto è da fessi prendersela col monsignor Gallagher, ministro degli Esteri del Papa, soltanto perché dichiara apertis verbis che la legge Zan, di cui si discute da tempo, non è conforme ai patti sottoscritti tra la Chiesa e il nostro nevrotico Paese. Attaccare i preti, come sta avvenendo, poiché la pensano diversamente dai progressisti è una operazione scorretta sotto ogni punto di vista.  La libertà di opinione è sacra e inviolabile, ed è garantita tra l'altro dalla nostra Costituzione. Quindi le gerarchie ecclesiastiche non possono essere zittite perché esprimono le loro idee circa l'omofobia. Esse, secondo le norme vigenti, sono autorizzate a intervenire sulle questioni etiche senza subire ritorsioni di alcun genere. È assurdo impedire a vescovi e cardinali di osteggiare una leggediscutibile. Personalmente non sono credente e neppure omofobo. Delle abitudini sessuali dei miei simili non mi importa un accidente. Dirò di più, non ho mai conosciuto una persona che detesti gli omosessuali e li combatta come nemici dell'umanità. Non capisco il motivo per cui si debba varare una regola per puni rechi non abbia in simpatia gli omosex, i quali se vengono aggrediti da qualcuno ovvio siano tutelati dal codice penale, come qualsiasi connazionale. Ma è assurdo che menare un invertito sia più grave, e meriti sanzioni più pesanti, che non menare altri cittadini. Gli uomini e le donne sono tutti uguali e meritano lo stesso rispetto. Creare distinzioni tra chi ama i maschi ole femmine è fuori da ogni logica, ciascuno faccia ciò che desidera, non c'è bisogno di creare una graduatoria per stabilire se sia peggio dare un cazzotto a un omosessuale che a un etero. In certe nazioni islamiche si arriva al punto di impiccare quelli che il popolo definisce froci, il che ci ripugna. Ciononostante non si può neppure considerare, come ci accingiamo a fare noi, che gli omofili costituiscano una razza eletta degna di maggior rispetto. Tra l'altro alcuni giorni fa la scrittrice Murgia ha manife stato il suo disgusto nei confronti di Figliuolo, quello dei vaccini, in quanto indossa la divisa militare. E nessuno l'ha rimproverata. Ergo. Gli alpini se ti stanno sulle scatole è una cosa normale, se non apprezzi i trans devi essere condannato. Siamo alla follia. Adesso tocca al Vaticano essere messo sotto accusa perché critica, usando argomenti che non è importante condividere, la legge Zan. Ormai la censura è scatenata e colpisce chiunque non si adegui al conformismo più bieco. Non si tiene neanche conto che gli italiani e gli europei sono tutti pervasi dalla cultura cristiana, la quale abbiamo assimilato in famiglia e a scuola. Come diceva Benedetto Croce: non possiamo non dirci cristiani. 

Ddl Zan, la clamorosa frase "rubata" a Papa Francesco: "Ora me li chiedono tutti", terrorizzato da Sergio Mattarella. Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Un caso deflagrato con lo scoop del Corriere della Sera. Si parla della lettera inviata dal Vaticano alla Farnesina, ossia al governo, in cui viene avanzata la richiesta di fermarsi sul ddl Zan, il contestatissimo disegno di legge sulla omotransfobia contro il quale, ora, piove il veto anche della Santa Sede. Una missiva, quella del Vaticano, che sarebbe dovuta rimanere segreta: risale infatti a giorni fa. Eppure è diventata di dominio pubblico. E, forse, alla Santa Sede era proprio l'obiettivo che volevano raggiungere. Il dibattito, ovviamente, si è infiammato: che ne sarà del disegno di legge tanto voluto dal Pd e tanto osteggiato dal centrodestra, Silvio Berlusconi compreso? E nel frattempo fioccano indiscrezioni, retroscena, illazioni. Papa Francesco sapeva? Il Pontefice condivide? Probabilmente sì, dato che la missiva è vergata dal ministro degli Esteri vaticano, fedelissimo di Bergoglio. E ancora, si legge di spaccature profondissime alla Santa Sede dopo quanto accaduto. Un contesto esplosivo, insomma, nel quale entra a gamba tesa l'irresistibile Osho, ovviamente sulla prima pagina de Il Tempo, il quotidiano capitolino diretto da Franco Bechis, nell'edizione di oggi, mercoledì 23 maggio. In prima pagina, ecco il titolo: "Il Vaticano non fa Zan Zan. No alla legge sull'omofobia". E in calce l'ironia di Osho. Una foto di Papa Francesco, alle sue spalle Sergio Mattarella, e quella frase "rubata" al Pontefice: "Mò questi me chiedono tutti l'arretrati Ici... guarda eh". Insomma, Osho, a modo suo, svela il vero e inconfessabile timore del Papa.

Vaticano contro il ddl Zan, Antonio Socci: Papa Francesco divorzia dalla sinistra, "le vere ragioni dello strappo". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Il fatto che la Santa Sede sia stata costretta a fare un passo diplomatico formale per segnalare al Governo italiano che il disegno di legge Zan, attualmente sotto esame parlamentare, violerebbe il Concordato fra Stato italiano e Chiesa Cattolica sul tema della libertà (attenzione: non si sta parlando di un "privilegio" della Chiesa, ma delle libertà di tutti gli italiani) è un evento eccezionale, che è accaduto raramente e che dovrebbe far suonare un campanello d'allarme. Infatti in questa occasione la Chiesa non entra nel merito di questa o quell'opinione su omosessualità, genere o famiglia, temi su cui ci sono molte idee diverse (di sicuro sotto l'attuale pontificato non sono mai state intraprese particolari "battaglie culturali" in proposito). Ma la Santa Sede ha preso questa iniziativa eccezionale proprio in difesa delle tante sensibilità diverse, cioè in difesa del diritto di libertà che, in Italia, dovrebbe accomunare tutti in base al dettato costituzionale che è recepito nella revisione del Concordato del 1984 fra Stato italiano e Chiesa Cattolica. È curioso che quella Sinistra che applaude il papa ogni volta che interviene su temi politici riguardanti altri stati, non di diretta competenza della Santa Sede, come l'emigrazione, si irriti se la stessa Santa Sede interviene su temi che attengono al Concordato che ha sottoscritto con lo Stato italiano. In particolare la nota diplomatica vaticana richiama l'attenzione del Governo sull'articolo 2, commi 1 e 3, del Concordato. Il comma 1 recita: "La Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica". E il comma 3: "È garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione". La Santa Sede ha voluto porre formalmente all'attenzione del Governo il problema della libertà religiosa, della libertà educativa e della libertà d'opinione a proposito del Ddl Zan - scrive il vaticanista Giuseppe Rusconi - in particolare per gli articoli 1 (identità di genere), 4 (libertà d'opinione), 7 (istituzione della Giornata nazionale sui temi Lgbt) e 8 (la "strategia della Corte Costituzionale, ieri ha ricordato alcuni problemi posti da questa legge che preoccupano la Santa Sede: «Addirittura le associazioni cattoliche potrebbero essere perseguite per i ruoli differenti al loro interno tra uomini e donne. Ancora: un'università cattolica potrebbe essere denunciata penalmente per l'adozione di testi di bioetica, come già c'è chi preannuncia di fare, non ap pena il Ddl Zan sarà approvato». Carlo Giovanardi, già ministro per la famiglia, esulta per l'iniziativa vaticana: «Da mesi stiamo spiegando come quel testo, già approvato dalla Camera, non riguarda affatto violenze o discriminazioni, ma si prefigge l'obiettivo di colpire penalmente chi vuole essere libero di esprimere una opinione e di indottrinare i bambini sin dalle elementari alla ideologia Lgbt». Ma oltre ai politici cattolici e a giuristi come Alfredo Mantovano, autore del libro "Legge omofobia perché non va" (Can tagalli), anche un costituzionalista come Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Consulta ed ex ministro di Grazia e Giustizia, si è espresso per la modifica del Ddl Zan. Perfino un giurista laico come Michele Ainis, editorialista di Re pubblica e L'Espresso, ha sotto lineato le grosse criticità dique sta legge. Probabilmente in Vaticano hanno sperato fino all'ultimo di evitare il passo diplomatico. In questi mesi hanno sperato che il Pd (in particolare il suo segretario, Letta) accettasse il dialogo per concordare con tutti una legge contro l'intolleranza, senza ledere diritti di libertà. Era intervenuta anche la Cei, chiedendo di evitare «derive liberticide» e più recentemente è arrivata a dire che non era necessario cancellare tutta la legge, ma solo correggerla. Ma le Sinistre (Pd, M5S, Leu) - ricorda Giovanardi - «hanno innalzato un muro, opponendosi con arroganza e sicumera ad ogni tipo di confronto, non soltanto con la opposizione parlamentare e la società civile, ma anche con le femministe, che attraverso l'imposizione del gender vedono messe a rischio storiche battaglie per la emancipazione delle donne». Enrico Letta, di fronte alle critiche di alcuni dirigenti Pd, aveva indicato di approvare il Ddl Zan «così com' è». Perché? Si ritiene che - con il crollo del governo giallorosso - il Pd lettiano, smarrito e confuso per l'arrivo del governo Draghi, abbia cercato una qualche vittoria politica per dare un segno di vitalità. Forse fiutando la strumentalizzazione, Italia viva si era dissociata, aprendo alle modifiche del testo della legge. È chiaro perciò che ora l'iniziativa vaticana sia sentita da Letta come una pesante bocciatura per sé. Ma è anche un segnale forte per certi settori "rivoluzionari" del mondo cattolico. Il Pontefice, soprattutto nelle ultime settimane, sembra voler smentire chi finora ha auspicato (o temuto) che volesse ribaltare la Chiesa. Pare che siano in corso - in queste ore - sottili "pressioni" perché il Papa sconfessi la sua Segreteria di Stato. Ma - come dice il professor Mirabelli - «non si può immaginare che un passo di questo genere sia avvenuto senza l'assenso esplicito di Papa Francesco». Tutto può essere, ma una smentita delegittimerebbe lo stesso Pontefice e demolirebbe la Segreteria distato, cioè il governo della Chiesa. A chi ha parlato della nota vaticana come «un dispetto della Curia contro il Papa», ha replicato il sito Il Sismografo (molto vicino alla Segreteria di Stato vaticana e di idee bergogliane) scrivendo: «Una certa stampa che dice di rispettare i cattolici dovrebbe per primo rispettare il Papa e non usarlo per i suoi giochi di potere». Far credere che certe iniziative «accadano alle spalle del Pontefice, non è accettabile» ha aggiunto, «questa narrazione danneggia enormemente il prestigio e la credibilità di Papa Francesco poiché lo fa percepire come un pastore poco lineare, non trasparente, manipolatore del vero e del falso». Invece, per capire il suo pontificato, c'è chi ricorda il magistero di questi anni di Francesco sulla libertà dei popoli, per esempio gli interventi in cui ha messo in guardia dalle «colonizzazioni culturali». Come questa sua omelia: «Si toglie la libertà, si decostruisce la storia, la memoria del popolo e si impone un sistema educativo ai giovani».

Vaticano contro ddl Zan, Pietro Senaldi: "Il Pd? Convinto che Papa Francesco debba comportarsi come loro". Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Il condirettore di Libero Pietro Senaldi sul Ddl Zan e la reazione del Pd: "Il Pd si è perso il Papa, perché al Ddl Zan il Vaticano si è opposto: in base a questa legge noi del Vaticano potremmo essere accusati di essere omofobi e razzisti. Ovviamente, i progressisti, convinti che il Papa tifasse per loro si sono indignati. Direi che siamo al cortocircuito: la sinistra quando qualcuno sostiene qualcosa che gli fa comodo diventa un idolo, sennò diventa un poveretto. Questa è la stessa sinistra che si inginocchia di fronte a Binden, all'Europa, a Macron, quella pronta a cedere la sovranità all'Europa su tutto. I nodi stanno arrivando al pettine: si vuole imporre il proprio pensiero per legge vietando agli altri di esporre le proprie idee. Siamo alle soglie di una dittatura politico-mediatica".

Otto e Mezzo, delirio-Michela Murgia sul ddl Zan: "Se uno viene pestato?". Per lei chi dice "no" vuole nascondere le violenze. Libero Quotidiano il 24 giugno 2021. Nel salottino di Lilli Gruber a Otto e Mezzo, nella puntata in onda su La7 mercoledì 23 giugno, tiene banco il ddl Zan. Il tutto al termine della giornata in cui in Parlamento, dopo l'intervento del Vaticano contro il disegno di legge, Mario Draghi ha ribadito la laicità dello Stato aggiungendo però che toccherà alle aule decidere sul testo in questione. Insomma, da parte del premier non sembra esserci la volontà di tirare dritto su un provvedimento troppo divisivo per la sua maggioranza. Ed ecco che in studio dalla Gruber campeggia Michela Murgia, la scrittrice rossa e fierissima sostenitrice del ddl Zan, la quale argomenta: "Il termine è nella natura della legge, che istituisce quella omofobica e transfobica, oltre che quella verso i disabili e le donne, come una discriminazione. Quello che non si vuole che venga scritto nero su bianco è che queste categorie subiscono una discriminazione", la spara. "Se uno viene picchiato per strada, si dice che viene picchiato da un balordo e non perché omosessuale o in quanto donna. Nel momento in cui si nega il fenomeno, non si vuole una legge che il fenomeno lo certifica. Quando dicono che vogliono modificare il testo, significa che vuole fermare il testo", sentenzia la Murgia. Insomma, secondo lei l'obiettivo di chi è contrario al ddl Zan è imboscare violenze e discriminazioni. Non, semmai, tutelare la libertà d'espressione che in alcune circostanze sembra essere seriamente minacciata. La Murgia, per inciso, si è distinta nelle ultime ore anche per un intervento su La Stampa, in cui ha messo nero su bianco come, a suo giudizio, la contrarietà del Vaticano al ddl Zan sarebbe dovuta alla paura di "dover insegnare il rispetto delle persone nelle scuole paritarie". Frasi che danno la cifra del personaggio in questione...

Ddl Zan, Michela Murgia contro il Vaticano: "La paura di rispettare le persone" (e quella balla sui licenziamenti). Libero Quotidiano il 23 giugno 2021. Parla di una "entrata a gamba tesa" che non si vedeva "dai tempi non rimpianti della presidenza Cei del cardinal Ruini" del Vaticano sul ddl Zan Michela Murgia. Che in un articolo su La Stampa scrive. Addirittura l'attacco viene, sottolinea la scrittrice dalla "segreteria di stato vaticana, l'equivalente del ministero degli esteri, con una nota a firma del segretario per i rapporti con gli stati". Insomma, prosegue la Murgia. "la percezione è che il ddl zan sia solo l'ennesima arma della guerra che va consumandosi nelle stanze vaticane, dove c'è da mesi la corsa a chi più mette in imbarazzo papa Francesco allo scopo di delegittimarne l'autorevolezza esterna, visto che quella interna è compromessa da tempo". Quindi la scrittrice sinistra lancia una frecciata a Matteo Salvini e Giorgia Meloni: "La parte più retriva dello scenario politico, quella che si fa i selfie con Orban, è già pronta a sfruttare questa lotta intestina, ma il timore fondato è che tutta la politica italiana, sempre intimorita dallo spauracchio curiale, possa essere incline a dar retta alla richiesta di rivedere un disegno di legge che è già frutto di mille compromessi". Ma, attacca la Murgia, "la principale preoccupazione vaticana è che, se la legge viene approvata, le scuole cattoliche non saranno esentate dal dover insegnare il rispetto per le persone, quale che sia la loro condizione e il loro orientamento. Ma perché mai dovrebbe essere diversamente? Perché per una parte del sistema scolastico finanziato dallo stato dovrebbero valere leggi diverse da quelle che valgono per tutti gli altri? Se le scuole cattoliche rivendicano la qualifica di paritarie, sarebbe ora che lo fossero in tutto, non solo quando si tratta di ricevere i fondi pubblici". E conclude durissima: "Purtroppo, anche senza aspettare il ddl Zan, la realtà è che le scuole cosiddette paritarie la discriminazione la praticano già. Se divorzia o va a convivere, chi vi insegna corre già il rischio di poter essere licenziato, nonostante sia anche con le sue tasse che viene garantita l'esistenza degli istituti cattolici all'interno del sistema educativo pubblico". Anche se non è esattamente così. 

Da ansa.it il 24 giugno 2021. Il presidente della commissione Giustizia del Senato, il leghista Ostellari, ha convocato per mercoledì un tavolo di confronto della maggioranza sul ddl Zan contro la omotransfobia. un passo verso la trattativa dopo la tensione con il Vaticano. “Lo Stato italiano è laico, non confessionale. Concordo pienamente con il presidente del Consiglio Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano”, ha detto anche il Segretario di Stato vaticano Parolin, aggiungendo che la Santa Sede non vuole bloccare la legge ma esprime una preoccupazione su possibili interpretazioni. Il card. Parolin spiega la genesi dell'iniziativa della Santa Sede: "Avevo approvato la Nota Verbale trasmessa all'ambasciatore italiano e certamente avevo pensato che potevano esserci reazioni. Si trattava, però, di un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica. Un testo scritto e pensato per comunicare alcune preoccupazioni e non certo per essere pubblicato". Il Segretario di Stato vaticano rileva poi che "l'intervento è stato preventivo proprio per fare presenti i problemi prima che sia troppo tardi. Il disegno di legge è stato già approvato, peraltro, da un ramo del Parlamento. Un intervento solo successivo, una volta cioè che la legge fosse stata adottata, sarebbe stato tardivo. Alla Santa Sede si sarebbe potuto imputare un colpevole silenzio, soprattutto quando la materia riguarda aspetti che sono oggetto di un accordo". Infine spiega perché sia intervenuto il Vaticano e non la Cei: ""La Conferenza episcopale italiana - dice Parolin a Vatican News - ha fatto tutto il possibile per far presenti le obiezioni al disegno di legge. Ci sono state due dichiarazioni in proposito e il quotidiano dei cattolici italiani, Avvenire, ha seguito con molta attenzione il dibattito. Anche la Cei, con la quale c'è piena continuità di vedute e di azione, non ha chiesto di bloccare la legge, ma ha suggerito delle modifiche. Le preoccupazioni della Santa Sede sul ddl Zan sono legate al fatto che "il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo. L'esigenza di definizione è particolarmente importante perché la normativa si muove in un ambito di rilevanza penale dove, com'è noto, deve essere ben determinato ciò che è consentito e ciò che è vietato fare".  Le preoccupazioni della Santa Sede sul ddl Zan sono legate al fatto che "il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo. L'esigenza di definizione è particolarmente importante perché la normativa si muove in un ambito di rilevanza penale dove, com'è noto, deve essere ben determinato ciò che è consentito e ciò che è vietato fare".

Ddl Zan, il cardinale Pietro Parolin: "Mario Draghi ha ragione, lo Stato è laico". Libero quotidiano il 24 giugno 2021. Ora, dice la sua il cardinal Pietro Parolin. Si parla ovviamente del ddl Zan, della lettera del Vaticano e di quanto detto alla vigilia in aula alla Camera da Mario Draghi. "Non è stato in alcun modo chiesto di bloccare il ddl Zan. Siamo contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale, come pure della loro appartenenza etnica o del loro credo. La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è", ha rimarcato il porporato. Uno schiaffo alla sinistra, insomma, che ha puntato il dito affermando che la sovranità del Parlamento fosse in pericolo. Quella sovranità che, spiega Parolin, nessuno ha voluto mettere in discussione. Il sottosegretario di Stato in Vaticano, interpellato da Vatican News, aggiunge di condividere le parole di Draghi al Senato: "Lo Stato italiano è laico, non è uno Stato confessionale, come ha ribadito il presidente del Consiglio. Concordo pienamente con il presidente Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano. Per questo si è scelto lo strumento della Nota Verbale, che è il mezzo proprio del dialogo nelle relazioni internazionali", puntualizza. Tutto chiaro: il Vaticano chiede semplicemente di modificare il ddl Zan poiché violerebbe il Concordato. Parolin, successivamente, si spende nello spiegare le principali preoccupazioni della Chiesa, che sono legate al fatto che "il concetto di discriminazione resta di contenuto troppo vago. In assenza di una specificazione adeguata corre il rischio di mettere insieme le condotte più diverse e rendere pertanto punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna, con delle conseguenze che possono rivelarsi paradossali e che a nostro avviso vanno evitate, finché si è in tempo - rimarca Parolin -. L'esigenza di definizione è particolarmente importante perché la normativa si muove in un ambito di rilevanza penale dove, com'è noto, deve essere ben determinato ciò che è consentito e ciò che è vietato fare", conclude il sottosegretario di Stato.

Chi è Pietro Parolin, lo stratega di papa Francesco. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 25 giugno 2021. Dietro ogni grande statista aleggia l’ombra di abili diplomatici e strateghi lungimiranti, novelli cardinali Richelieu che alla luce dei riflettori del palcoscenico internazionale preferiscono l’anonimato e il buio garantiti dal dietro le quinte, il luogo in cui si decide il film e in cui vengono scritti i copioni degli attori. Nel caso della Chiesa cattolica, unica nell’essere una potenza di cielo, nell’avere un’agenda innatamente votata all’universalità, nel possedere un esercito armato di croci e nell’operare su un orizzonte temporale orientato alla Fine dei tempi, colui che sta suggerendo all’orecchio dell’attuale sovrano di Roma, Francesco, risponde al nome di Pietro Parolin.

Una vita dedicata alla Chiesa. Pietro Parolin nasce il 17 gennaio 1955 nel micro-comune vicentino di Schiavon. Di umili origini – la madre insegnava alle scuole elementari, il padre era ferramenta –, Parolin sperimenta il dolore del lutto a soli dieci anni, perdendo il padre in un incidente stradale. Quattro anni più tardi, nel 1969, all’età di soli quattordici anni, il giovane Parolin riceve la “chiamata” ed entra nel seminario vescovile di Vicenza: sarà l’inizio di una lunga ed ascendentale carriera all’interno della Chiesa cattolica. Dopo aver ricevuto l’ordinazione sacerdotale nel 1980, cioè undici anni dopo l’entrata in seminario, Parolin trascorre i primi tre anni da chierico presso la diocesi di Vicenza. In lui, però, i superiori vedono qualcosa; perciò lo inviano a Roma. Una volta qui, nella capitale d’Italia e nel cuore della Cristianità occidentale, Parolin si iscrive alla Pontificia università gregoriana e viene ammesso alla Pontificia accademia ecclesiastica – è il 1983 –, ovvero la storica scuola di formazione della diplomazia vaticana. Nel 1986, dopo aver conseguito una laurea in diritto canonico presso la Gregoriana, parte alla volta della Nigeria per servire nella nunziatura apostolica ivi operante. Rimarrà a Lagos tre anni, cioè fino al 1989, per poi essere trasferito in Messico. E sarà precisamente qui, a Città del Messico, che il promettente Parolin riuscirà a far sì che il suo nome venga conosciuto a San Pietro, negoziando con il governo messicano il riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica e l’apertura di relazioni diplomatiche ufficiali con la Santa Sede – due fascicoli congelati da sessant’anni, ovvero dalla sanguinosa guerra cristera degli anni Venti e Trenta. Raggiunto l’accordo con Città del Messico, Parolin viene richiamato a Roma: per lui c’è un posto all’interno della Segreteria di Stato, l’equivalente vaticano di un ministero degli Esteri, che, naturalmente accettato, ricoprirà fino al 2000.

La scalata ai vertici della piramide pietrina. La guerra fredda è finita e la Chiesa cattolica può e deve trarne vantaggio per espandersi in nuovi territori, evangelizzando laddove, fino ai primi anni Novanta, era stato tanto impossibile quanto impensabile – come la Cina –; questa era l’idea che accomunava Giovanni Paolo II, il futuro Benedetto XVI e anche gli strateghi Tarcisio Bertone e Parolin. Quest’ultimo, mostrando una predilezione per l’Oriente, dopo essere stato investito dal papa polacco del ruolo di sottosegretario agli Esteri della Segreteria di Stato – è il 2002 –, comincia a viaggiare in Asia, gettando le basi per la svolta cinese del Vaticano. Nel 2009 viene nominato nunzio apostolico in Venezuela dall’allora Benedetto XVI. L’obiettivo del pontefice è chiaro: delegare all’abile Parolin la gestione dello spinoso fascicolo Hugo Chavez, con il quale la Chiesa venezuelana è ai ferri corti sin dagli albori del bolivarismo per una serie di ragioni, in primis per le accuse di interferenza negli affari interni del Paese. I rapporti, pur continuando ad essere tesi, con il tempo miglioreranno progressivamente: un altro successo per il Parolin, che, non a caso, lo stesso anno della nomina a nunzio apostolico, verrà consacrato arcivescovo.

Al servizio di papa Francesco. Profondo conoscitore dell’America Latina – Parolin parla fluentemente spagnolo –, nella quale ha aiutato la Chiesa a prosperare dal Messico al Venezuela, ma anche abile negoziatore, nonché lungimirante stratega – a lui si deve la posa della prima pietra nei rapporti con Pechino, visitata per la prima volta nel 2005 –, l’arcivescovo viene eletto segretario di Stato da papa Francesco nel 2013. Fatto cardinale l’anno successivo alla nomina a segretario di Stato, Parolin si mette subitaneamente a lavoro per dare concretezza a quelli che sono i sogni propri e del nuovo vescovo di Roma: la costruzione di una “Chiesa in uscita” – uscita definitiva dall’Occidente ed ingresso più marcato nelle “periferie del mondo” –, la formulazione di un corso d’azione equilibrato nell’ambito nella cosiddetta “terza guerra mondiale a pezzi” e la trasformazione del Vaticano in una forza catalizzatrice della transizione multipolare. A Parolin si devono, tra le altre cose, il raggiungimento della dichiarazione di L’Avana del 2016 con la Chiesa ortodossa e l’accordo sulla nomina dei vescovi cinesi; due avvenimenti storici che hanno condotto il Vaticano ad avvicinarsi rispettivamente alla Russia e alla Cina, ossia i due principali rivali dell’Occidente nel contesto della nuova guerra fredda, inimicandosi gli Stati Uniti e, a latere, l’intera internazionale sovranista. E a lui si deve anche, ad esempio, l’accordo di pace tra il governo colombiano e le Farc del 2016 – mediato dal Vaticano. Descritto da alcuni vaticanisti come un vincitore della “guerra civile vaticana” che ha dilaniato San Pietro negli anni della transizione dall’era Ratzinger all’era Bergoglio, Parolin, oggi, può essere ritenuto a tutti gli effetti il secondo uomo più potente della Chiesa cattolica e l’artefice del grande ritorno del Vaticano nell’arena internazionale. E, nello stesso modo in cui Agostino Casaroli è ricordato dai contemporanei per aver aiutato Giovanni Paolo II ad abbattere l’impero sovietico, Parolin, forse, potrebbe essere celebrato dai posteri come colui che ha facilitato la transizione multipolare e che, soprattutto, ha saputo traghettare la Chiesa dall’anziano, poststorico e postcristiano Occidente alle giovani e vibranti periferie del mondo, riconfermandone la natura unica di catéchon impegnato a lavorare per il bene e per la pace in un mondo afflitto dal male e dalle guerre.

Massimo Franco per il "Corriere della Sera" il 25 giugno 2021. «Mario Draghi non poteva che dire quanto ha detto in Parlamento. Sa che il Vaticano vuole una mediazione, e credo sia la stessa intenzione del governo...». Il messaggio che arriva dai vertici della Santa Sede è di chi ritiene di avere compiuto una mossa obbligata, e di avere ricevuto una risposta. E adesso si prepara a una trattativa lunga e difficile, avendo di fronte non Palazzo Chigi ma un Parlamento percorso da fremiti ideologici che al momento sembrano non dare spazio al dialogo; e soprattutto mostrano uno schieramento che va dal M5S al Pd, aggrappato in apparenza alla bandiera della legge Zan sull' omofobia così com' è, quasi fosse una sorta di confine invalicabile tra progresso e reazione. L' ostacolo più serio sono «le due tifoserie che si combattono a colpi di ideologia», impedendo qualunque passo avanti. Il primo effetto è che si incrina la collaborazione stretta, perfino la subalternità della Chiesa cattolica allo Stato italiano nei mesi della pandemia. E la paura è che questo faccia riemergere un fronte ostile al Concordato. Il paradosso politico è che a difendere il Vaticano sono Lega, Fratelli d' Italia e Forza Italia: partiti considerati non in sintonia con l'attuale pontificato su temi dirimenti come l'immigrazione, il sovranismo, e il modo di intendere l'identità e i valori cristiani. L' imbarazzo delle gerarchie ecclesiastiche è palpabile. Da leader come Matteo Salvini «ci divide un alfabeto culturale diverso», spiega un alto prelato. Il problema è che il lessico della Santa Sede fatica a fare breccia nell' intero arco politico. Colpisce la mancanza di partiti considerati sponde affidabili. «Al massimo ci sono individui in grado di dare voce alle nostre ragioni», si spiega. «Ma sono troppi e insieme troppo deboli». Trasuda l'irritazione nei riguardi del vertice del Pd, oscillante tra aperture e chiusure: viene ritenuto condizionato dalla componente ex comunista e vittima di una «deriva radicale». Quanto al grillismo, l'atteggiamento è stato sempre di profonda diffidenza: sebbene sia emersa a intermittenza la tentazione di utilizzare esponenti che ricoprono ruoli istituzionali. Ma la questione è drammatizzata dalle divisioni che attraversano lo stesso mondo cattolico. Intorno alla nota ufficiale consegnata il 17 giugno all' ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, fioriscono le voci più curiose: indiscrezioni che segnalano confusione e tensioni nelle gerarchie ecclesiastiche. Ma il fatto che sia stata la Santa Sede a compiere il passo ribadisce un principio: è il Vaticano come Stato a chiedere il rispetto del Concordato con l'Italia. I vescovi hanno un ruolo diverso: anche se la pressione è arrivata da lì. Il modo in cui ieri il cardinale Pietro Parolin, «primo ministro» di Francesco, ha rivendicato con Vatican News l'iniziativa, conferma la divisione dei compiti con una Cei accusata di eccessiva timidezza. L' idea di un Papa defilato, quasi neutrale, è goffa e strumentale; e riceve smentite a tutto tondo. «Il principio è che di tutto quello che si fa si informano sempre i superiori», ha detto Parolin. E a ribadire al Messaggero la sintonia sull' iniziativa tra Francesco e il segretario di Stato è anche Giovanbattista Re, decano del Collegio cardinalizio. L' obiettivo primario è disarmare chi parla di ingerenza: si vedrà con quale esito. Parolin afferma di concordare «pienamente con il presidente Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano. Per questo si è scelto lo strumento della Nota verbale, che è il mezzo proprio del dialogo nelle relazioni internazionali». Aggiunge che si trattava di «un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica». Sono toni difensivi che tradiscono un disagio. Cercano di giustificare una mossa che, sebbene definita un «mezzo proprio», rimarca l'assenza di dialogo tra le due sponde del Tevere e la preoccupazione per il testo del deputato del Pd, Alessandro Zan, in discussione in Parlamento. Difensivo è anche il modo in cui Parolin assicura di non voler chiedere «in alcun modo di bloccare la legge»; e di essere «contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale». Il tema, semmai, è come la legge può essere interpretata, con il rischio di «spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è». Traduzione: il Vaticano teme che la magistratura possa usare la legge contro i sacerdoti, e «rendere punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna». Per questo si chiede che venga cambiata in alcuni punti «prima che sia troppo tardi» e si imputi alla Santa Sede «un colpevole silenzio». Da chi? Evidentemente, dall'interno dello stesso mondo cattolico. La parolina magica è «modulazione». Ma trasferirla in un testo che radicalizza e agita il Parlamento non sarà facile: a meno che alla fine il governo o qualcun altro, con gradualità e cautela, abbandoni la sua «terzietà» e offra un consiglio per uscire da una situazione al momento senza sbocchi.

Legge Zan, il paradosso del Vaticano: in campo contro i pasdaran clericali. Paolo Pombeni su Il Quotidiano del Sud il 24 Giugno 2021. E’ DIFFICILE gestire qualsiasi cosa in un paese in cui ormai si parla a ruota libera anche a livelli molto alti. La vicenda delle reazioni alla nota verbale vaticana su quanto prevederebbe il ddl Zan se diventasse legge (il che per il momento ancora non è) porta a considerazioni poco consolanti. Iniziamo dall’aspetto più banale: la canea sulla presunta violazione della sovranità del parlamento perché il Vaticano ha reso noto, nei termini più soft possibili fra quelli ovviamente che restano agli atti (questo non avviene con telefonate, incontri informali, ecc.), che a suo giudizio alcune limitate norme ledevano diritti che il Concordato aveva riconosciuto alla Chiesa. Banalmente tutti dovrebbero sapere, anche al vertice della Camera, che un trattato internazionale è di suo uno strumento che nei limiti previsti limita la sovranità di entrambe le parti. Tanto per capirci, ricordiamo un episodio emblematico. Quando nel febbraio 1998 un aereo dei marines Usa volando troppo basso rispetto alle normative tranciò i cavi della funivia del Cermis in Trentino provocando la morte di 20 persone, in base ad un trattato internazionale quei militari non poterono essere sottoposti alla giustizia italiana, perché c’era una riserva di giurisdizione per quella americana (che, sia detto per inciso, vergognosamente non punì poi gli avventati militari). Il fatto era gravissimo, ma purtroppo un trattato legava le mani e non ci fu nulla da fare. Il Concordato del 1984 sottoscritto fra l’Italia e la Santa Sede è un trattato internazionale ed è stato approvato dal parlamento italiano, dunque è un atto che promana anche dalla sovranità italiana. Se il Vaticano chiede il rispetto di quel testo si muove nel suo buon diritto e l’Italia farebbe una pessima figura a livello internazionale se ritenesse che i patti che sottoscrive sono carta straccia se così viene deciso da una quota di opinione pubblica eccitata. Ovviamente si può discutere del merito dei rilievi della Santa Sede, dimostrando che non sono fondati, perché non ci sarebbe nessuna violazione degli accordi. Questo è un punto molto delicato e meriterebbe considerazioni diverse dal far rivivere scontri fra clericali e anti clericali, scontri del tutto fuori luogo oltre che fuori tempo. Si viene così ad affrontare il secondo punto della questione, che è ancora una volta la resa a trasformare in legge pulsioni demagogiche con scarsa attenzione alla porta generale delle norme. Nel caso specifico non si tratta dell’approvazione di una legge che sanzioni in modo adeguato quelli che sono crimini d’odio e di intolleranza verso persone con orientamenti sessuali che in passato sono stati ingiustamente e infondatamente ritenuti aberranti. Fin qui sono tutti d’accordo, inclusa la Santa Sede. Si tratta invece del fatto che si è esagerato nel perseguimento dell’obiettivo, non solo proponendo di definire per legge un aspetto delicato e privato delle relazioni sessuali fino ad arrivare a codificare delle teorie sul “genere” la cui determinazione non è compito dello stato laico (giustamente si respinge che lo facciano gli stati che sono organizzati su base religiosa), ma arrivando ad imporre che la novità sia insegnata nelle scuole con apposite giornate dedicate. Con molta ironia ci verrebbe da dire che se si dovessero dedicare specifiche giornate a discutere di tutte quelle che i diversi gruppi definiscono storture, alla scuola non resterebbe tempo per insegnare altro (e già abbiamo deficit di apprendimento nei ragazzi). Più seriamente sappiamo bene in cosa si tramuterebbero le giornate scolastiche contro l’omotransfobia: occasioni perché docenti più militanti si mettessero a far concioni ideologiche sul tema aumentando la confusione già esistente, mentre per la maggior parte diventerebbe occasione per uno svolgimento burocratico e annoiato di quanto prescritto coi ragazzi ben felici di un giorno senza interrogazioni, compiti e obblighi di studio. E’ triste pensare che per portare un po’ di ragionevolezza in questa impennata di radicalismo alla moda sia dovuta intervenire la Santa Sede. Come è stato già messo in evidenza da più parti, l’ha fatto per evitare che risorgesse uno spazio per il clericalismo arrabbiato a cui strizzano l’occhio i partiti di destra che si sono riscoperti cristiani. Con ciò ha reso un servizio ad un paese che impegnato com’è su temi assai rilevanti per il nostro futuro non ha proprio bisogno di queste crociate all’amatriciana a cui si è pronti da destra e da sinistra. C’è da sperare che i partiti prendano al volo l’occasione e senza farsi condizionare dai nuovi pasdaran del radicalismo da social trovino modo di fare una buona legge che giustamente colpisca in maniera efficace i crimini e le discriminazioni ispirati da preclusioni verso gli orientamenti sessuali delle persone (che sono e devono rimanere nella sfera privata intangibile dallo stato). Si può farlo senza cadere nell’imposizione di una sorta di religione-ideologia di stato, contribuendo invece a far progredire la cultura diffusa del paese sulla via del rispetto per le persone e per le loro legittime scelte di vita. Sarebbe stato meglio che a queste conclusioni la politica italiana fosse giunta da sola senza bisogno di esservi costretta da un intervento esterno. Purtroppo in questi tempi dominati dalla simpatia per leggi che “spazzano” di qui e di lì, di su e di giù, la buona cultura giuridico-istituzionale sta diventando un optional non molto richiesto.

DAGONEWS il 25 giugno 2021. Quante cose si scoprono spippolando sui social. Può capitare, ad esempio, di imbattersi nell'account twitter di Padre Antonio Spadaro, direttore della rivista "La Civiltà Cattolica". Il gesuita giornalista, penna anche del "Fatto", posta un tweet in cui annuncia: "Saluti da Anagni. A Fiuggi con i ministri Carfagna, Brunetta, Patuanelli, Garavaglia, il Presidente Zingaretti, il Segretario Generale della Farnesina Sequi, il sindaco di Firenze Nardella e altri a raccontare l’Italia che verrà". Ah, beato lui che ha tempo da perdere a disegnare scenari nei convegni! In ogni caso, a corredo dell'annuncio, c'è il faccione di Spadaro e sullo sfondo il campanile della cattedrale di Santa Maria ad Anagni. Una torre di 30 metri che si erge in tutta la sua svettante potenza. Pochi minuti dopo, su un altro social (Instagram) e su un altro account, quello di Francesco Sechi, appare una foto praticamente identica. L'ex autore di "Mattino 5" viene fotografato ad Anagni, con lo sfondo della cattedrale, stesso cielo grigio. Nulla di male, ovviamente. Soprattutto perché Francesco Sechi, ex segretario di Marcello Dell'Utri, è l'assistente di Padre Spadaro. Insieme hanno anche pubblicato su "La Civiltà Cattolica" una lunga intervista a Mogol. Sechi ha un profilo facebook molto seguito (427 mila follower) che inonda di meme, opinioni pret-à-porter e scemenze raccattate in rete. A volte tuona contro la proroga dello stato d'emergenza ("E' un colpo di stato"), si schiera con il poliziotto che alla stazione Termini ha sparato al migrante svalvolato armato di coltello, snocciola tutti i suoi dubbi sulle vaccinazioni e fa battute sugli elettori del M5s. In un'intervista di novembre 2016 concessa alla rivista "Slide", Sechi viene definito "professionista della comunicazione", "spin doctor per personaggi illustri" (ma di chi?). Sostiene di aver "affiancato 'grandi''" e di avere nel curriculum "oltre agli studi all'Università anche la laurea nell'università della strada". Il 40enne sardo spargeva umiltà a fiotti: "Ho appreso tanto quanto da un pastore del mio paese quanto da un ministro, tanto da un muratore quanto da un presidente del Consiglio" (ma quali ministri e presidenti ha frequentato?). Confessa che "la mamma è il suo primo amore" e altre banalità un tanto al chilo che è possibile leggere  qui su issuu.com. Sul suo account instagram, Sechi posta la foto con papa Francesco, la benedizione da lui ricevuta, un selfie con San Pietro sullo sfondo ma anche immagini più "intime". Una mentre fa la doccia (chissà chi c'era a fotografarlo…), un'altra mentre si allena con deltoide in bella vista, un'altra ancora con camicia aperta e petto in mostra. C'è persino una foto cui imbraccia un bel kalashnikov, a evocare forse l'ispirazione della sua carità cristiana: porgi l'altra guancia e poi spara. Padre Spadaro, da sempre molto sensibile alle tematiche Lgbt (tanto da intervenire a favore dell'approvazione del Ddl Zan: "Occorre appoggiare norme che hanno senso difensivo di persone vulnerabili e non abbiano senso offensivo di legittime idee"), sbertucciato da "la Verità" che maliziosamente lo ha definito esponente della "Chiesa arcobaleno", ha avuto modo di fare una ricognizione dei social del suo amico e collaboratore? Ha tastato con mano e verificato il misterioso quanto roboante curriculum di Sechi? Ah, saperlo…

Lorenzo Bertocchi per "la Verità" il 25 giugno 2021. C'era una volta l'uso politico della religione secondo padre Antonio Spadaro. Il direttore de La Civiltà Cattolica, solo una settimana fa, dalle colonne del New York Times, richiamava alla pia devozione i vescovi statunitensi, rei di «usare l'accesso all' eucaristia come arma politica». Del Vangelo secondo Spadaro però 168 vescovi americani non hanno saputo che farsene, probabilmente ritenendolo apocrifo, visto che hanno deciso a larga maggioranza che il documento sulla coerenza eucaristica s' ha da redigere, anche per quei politici cattolici (vedi il presidente Joe Biden) che si dicono tali e poi sostengono politiche contrarie all' insegnamento della Chiesa. È una questione di libertà religiosa. Ancora ieri, nel giorno della grande sberla sul ddl Zan, il gesuita americaneggiava su Twitter: «"Quando il cristianesimo è ridotto a costume, a norme morali, a rituali sociali, allora perde la sua vitalità e il suo interesse esistenziale per gli uomini e le donne del nostro tempo" (monsignor Christophe Pierre, Nunzio apostolico negli Usa)». Sulla legge anti omofobia, la dottrina Spadaro ha fatto un po' il controcanto ai vescovi italiani che, almeno nel comunicato del 10 giugno 2020, scrivevano di non riscontrare alcun vuoto normativo. «Occorre appoggiare norme», cinguettava, invece, uno Spadaro un po' criptico, «che hanno senso difensivo di persone vulnerabili e non abbiano senso offensivo di legittime idee». Probabilmente l'intento del consigliere del Papa era sempre quello di evitare l'uso politico della religione e aprire il mondo cattolico all' inclusione, un po' come il quotidiano dei vescovi, Avvenire. Nel giugno 2020, infatti, la penna d' elezione per questioni Lgbt, Luciano Moia, intervistava lo stesso Alessandro Zan, esattamente il giorno dopo che era stata pubblicata la già citata nota Cei. Ovviamente l'intervista appare oggi un po' in ginocchio, visto che faceva risaltare le parole del relatore sul fatto che «non sarà una legge bavaglio, né una legge liberticida». Talmente poco liberticida che, infatti, il 17 giugno la Segreteria di Stato vaticana ha fatto pervenire al governo italiano una «nota verbale» in cui si chiede di fare attenzione al testo del ddl Zan in quanto c' è il rischio di veder ridotta la «libertà garantita alla Chiesa cattolica dall' articolo 2, commi 1 e 3 dell'accordo di revisione del Concordato». Qui, di uso politico della religione, a ben vedere, c' è pochissimo, perché la Santa Sede gioca in «punta di diritto», che, potrà anche non piacere, ma è una posizione laica. Certo, il direttore del quotidiano dei vescovi, Marco Tarquinio, lo scorso 15 aprile, rispondendo proprio a una lettera di Alessandro Zan, sottolineava che il testo ha subito «un'evoluzione indubbia anche se non sufficientemente chiara e ancora insidiosa», in ossequio al diktat che il testo va fatto, sebbene «rimodulato». Ma l'inclusione del quotidiano dei vescovi non dava troppo spazio a quel manipolo di prelati coraggiosi che, invece, sul ddl Zan le parole chiare le hanno dette. Innanzitutto il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, monsignor Antonio Suetta, che in una lettera del giugno 2020 scriveva che «non si può accettare che una legge, perseguendo un obiettivo "ideologico", metta a rischio la possibilità di annunciare con libertà la verità dell'uomo, sia pur con l'obiettivo di prevenire forme di discriminazione contro le quali, come già ricordato, è sufficiente applicare le disposizioni già in vigore». E ieri lo stesso Suetta ha ribadito che quello del Vaticano, con riferimento al Concordato, è un «atto opportuno fatto da chi ha competenza per farlo». Ma tanti altri si sono seduti sulla comoda posizione di dare un colpo alla botte e uno al cerchio, nel nome dell'inclusione e del rispetto della dignità di tutti. Un po' per convinzione, un po' per pavidità. Bisogna però riflettere che l'atto posto dallo Stato del Vaticano nei confronti dello Stato italiano è un fatto storico e in un certo senso unico che cambia le carte in tavola. Il livello su cui si è spostato il contendere è ben altro di quello dei comunicati o delle lettere pastorali, delle articolesse o dei cinguettii, qui la preoccupazione della Santa Sede è formale e riguarda una materia delicatissima e fondamentale come la libertà religiosa, declinata in questo caso nella libertà di predicazione e di educazione. Tutti coloro che fino a ieri martellavano sui ponti da gettare, e sui cui spesso trascinavano anche oltre la sua volontà il Papa, dovranno fare i conti con questa laicissima presa di posizione a cui Francesco ha dato il suo placet. Ricordiamo che tra le cose che urtano la libertà di predicazione e educazione ci sono anche passaggi del Catechismo o delle Scritture o atti del Magistero che forse qualcuno all' interno della Chiesa mal digerisce, ma su cui lo Stato del Vaticano ha chiesto conto al governo italiano affinché venga rispettata la libertà religiosa. La pastorale, per quanto inclusiva e dialogante con tutti, vede tracciarsi davanti una sottile linea rossa invalicabile. Da ieri, quelli che avendo da eccepire sulle derive liberticide del ddl Zan venivano trattati da cripto-omofobi, impresentabili, hanno un paio di alleati in più per sostenere le loro idee. Per quanto la linea del «troncare e sopire» ora venga messa in atto dalle regie mediatico-curiali, con ampio utilizzo del «non affossare», ma «rimodulare», il ddl Zan, se non è morto, è gravemente ferito.

«L’attacco del Vaticano al ddl Zan sembra un dispetto della Curia contro il Papa. Di cui non si sentiva il bisogno». Lo sconcerto di padre Alberto Maggi. «Ma guardando alla storia non è una novità: la Chiesa da sempre si è opposta al progresso». Simone Alliva su L'Espresso il 22 giugno 2021. “Un dispetto al Papa”. Sconcertato Padre Alberto Maggi, sacerdote e biblista, frate dell'Ordine dei Servi di Maria che a Montefano ha fondato il Centro studi biblici " Vannucci" commenta la nota della Segreteria di Stato del Vaticano secondo cui il ddl Zan violerebbe "l'accordo di revisione del Concordato". Padre Maggi che già quarant’anni fa dava la comunione agli omosessuali cattolici ben conoscendo le loro sofferenze per l’esclusione della Chiesa si dice attonito: «Sembra tutto così surreale. Non so se è stata un’iniziativa dall’alto oppure se è stata una mossa. Certo è sorprendente ma non se ne sentiva il bisogno».

Ha detto “una mossa”. Forse per colpire la presunta apertura di Papa Francesco alle questioni Lgbt?

«Mi sembra chiaro che Papa Francesco abbia i bastoni tra le ruote e questi non vengono dagli esterni ma dall’interno della Chiesa. Quelli che non tollerano questa sua apertura. Ma è sempre stato così. Le Curie sono sempre state la palla al piede dei Papi. Non apertamente, il tentativo però è stato quello di rallentare o affossare. Tanto i Papi passano ma la Curia resiste a sé stessa. Può darsi che sia un dispetto al Papa. Può darsi. Ma guardando alla storia non è una novità: la Chiesa da sempre si è opposta al progresso. Eppure alla fine ci deve arrivare. Pensi che c’è stato un Papa contrario anche all’uso della bicicletta e scomunicava i preti che la usavano. Papa Giuseppe Sarto. Ma si rende conto? La bicicletta era una novità scandalosa».

Lei crede che sui diritti civili i fedeli siano più avanti di questa Chiesa?

«Non lo penso io. Il Cardinale Carlo Maria Martini disse che la Chiesa era indietro di duecento anni. Ma Martini era stato generoso. La Chiesa è molto più indietro. Come preti abbiamo una garanzia: lo Spirito del signore che ci apre gli occhi di fronte ai nuovi bisogni della società. La società non è statica ma cambia. Il rischio è quando di fronte a nuove situazioni, come questa, restiamo impauriti o incapaci e quindi diamo vecchie risposte. Sa, quando diamo vecchie risposte la gente non ci ascolta e fa bene, va avanti. La garanzia della Chiesa è essere capaci di dare nuove risposte e vedere il bene dell’uomo come valore assoluto». 

Ascoltandola direi che lei è favorevole al ddl Zan. Nella Chiesa siete in pochi a dirlo apertamente.

«Il cardinal Bassetti aveva parlato di miglioramenti. L’apertura c’è. Ma certo nessuna legge è perfetta. Ci saranno sempre dei punti che vanno migliorati. Ma appunto il Cardinal Bassetti non l’ha bocciata. Abbiamo tirato un sospiro di sollievo. Poi però la Chiesa si muove un passo avanti e due indietro ma la società va sempre avanti. Questa di oggi e molte altre sono pietre di inciampo della Chiesa. Pensi che oggi, parlando della legislazione ecclesiastica, se lei divorzia non può accedere alla comunione. Se ammazza sua moglie basta confessarsi. Possibile che sia più grave il peccato del divorzio che quello dell’omicidio? Oggi per la Chiesa è così. Distruggere un amore, che pensiero inaccettabile. Il buon senso della gente ha lo stesso valore dello Spirito Santo. La chiesa deve imparare ad ascoltare». 

Lei disse: si benedicono le case, gli animali, gli oggetti, ma due persone che si vogliono bene no.

«Sì è incredibile. Il peccato è il male che fai agli altri. Cosa c’è di male nelle persone che si vogliono bene? È una novità? No, nei secoli passati queste persone erano semplicemente nascoste. Oggi parlano di degenerazione dei tempi ma non è vero. Sono sempre esistite solo che prima venivano lasciate ai margini, si nascondevano nell’oscurità mentre oggi, per fortuna, vivono alla luce del sole. Per vedere il male in due persone che si vogliono bene quanta perversione bisogna avere in testa?»

Il ddl Zan riguarda anche il futuro. Gli studenti, i giovani lgbt. Lei è diventato un punto di riferimento per moltissimi giovani cattolici lgbt.

«Io non sono esperto di morale. La mia piccolissima competenza sono i vangeli. I gruppi omosessuali hanno sentito nel mio messaggio un tono diverso e mi hanno coinvolto. Una volta partecipai a programma televisivo (Uno Mattina, ndr ) per parlare di omosessualità e Vangelo. Sa, da quella volta non mi hanno chiamato più. Comunque, tre giorni dopo ho ricevuto la lettera di un ragazzo di Lugano. Quella mattina questo ragazzo di 30 anni aveva tentato il suicidio, dopo una notte passata a piangere. Decise di arrampicarsi sul tetto, per non farsi sentire accese il televisore a tutto volume. Era sintonizzato su Rai1. Mi scrisse: “ascoltai le sue parole scoppiai in un pianto. Padre Maggi qualsiasi cosa accada sappia che lei ha salvato una vita, la mia” Pensi a quanta gente ha sofferto, si tolgono la vita, la mortificano perché? Per quale motivo?» 

Salvare vite e difendere i più deboli dovrebbe essere la missione cardine della Chiesa

«La buona notizia è per tutti. Il peccato nei Vangeli è il male che si fa agli altri. Gesù ci ha avvertito: attenti, perché voi ponete dei pesi sulle spalle delle persone e non le risollevate neanche con un dito. Oggi per gli omosessuali l’unica soluzione è vivere casti. Io sono frate da 50 anni e ho scelto questo celibato e so quanto sia difficile. Ma non posso imporlo agli altri, non posso dire devi essere celibe, non devi avere una famiglia così facendo metto dei pesi sulle spalle di queste persone. Comunque andiamo avanti sereni. Queste uscite sono cose che non andrebbero neanche considerate, l’umanità va avanti. Ecco perché il Papa dice spesso: pregate per me. Preghiamo per il Papa e sosteniamolo».

Piergiorgio Odifreddi per “La Stampa” il 24 giugno 2021. Rispondendo all'intervento del Vaticano sulla legge Zan, il presidente del Consiglio ha dichiarato che «lo stato Italiano è laico e il Parlamento è libero», e i parroci di strada hanno accusato una manina di aver agito all'insaputa del papa. In realtà, il Vaticano ha semplicemente sollevato un dubbio di incostituzionalità, com' è nel suo pieno diritto, confermato implicitamente da Draghi. L'articolo 7 della Costituzione stabilisce infatti che i rapporti fra Stato e Chiesa siano regolati dal Concordato ereditato dal fascismo. Non bisogna dunque prendersela con il Vaticano che rivendica l'attuazione di quei patti, ma con coloro che dapprima li hanno voluti, da Mussolini a Togliatti, e in seguito li hanno mantenuti. Cioè, con tutti i nostri leader politici, nessuno dei quali ha mai chiesto una revisione costituzionale o una denuncia unilaterale di quell'anacronismo: meno che mai gli ex democristiani come Renzi e Letta, o gli ex allievi dei preti come Conte e Draghi. Quanto al papa, solo gli ingenui e i disinformati possono non sapere che il suo "progressismo" è una leggenda mediatica, e che quand'era in Argentina intervenne ben più pesantemente di ora contro i matrimoni civili, con toni definiti allora "medievali e inquisitori". Il Vaticano si preoccupa che la legge Zan possa obbligare le scuole a insegnare l'identità di genere, e paradossalmente non ha tutti i torti: quest' ultima, infatti, viene definita nell'Articolo 1 della legge come "l'identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso". La legge decreterebbe in tal modo una cesura tra la percezione psicologica di un individuo e la sua realtà fisiologica: la prima dev' essere naturalmente tutelata e difesa, perché ciascuno ha diritto di avere le opinioni e i sentimenti che desidera, ma la seconda non può semplicemente essere negata o rimossa, perché anche i fatti hanno i loro diritti. Per fare un altro esempio, di cui si può forse parlare più serenamente, tutti conoscono il detto di Thomas Mann nei Buddenbrook: "si ha l'età che si sente di avere". Ora, nessuno si sogna di negare a un ottantenne il diritto di sentirsi un ventenne, o viceversa, ma questo non significa che allora dobbiamo tutti dire, o addirittura insegnare nelle scuole, che non esistono l'età biologica o il tempo, e che non possiamo misurarli. Eppure, è proprio questo che i post-moderni predicano da decenni, all'insegna del motto di Nietzsche: "non ci sono fatti, solo interpretazioni". E non è un caso che gli scienziati si secchino, perché sanno che invece i fatti ci sono eccome, e che le interpretazioni non vanno affatto tutte bene, se li negano o li rimuovono. E' singolare che a cercare di introdurre l'ircocervo dell'identità di genere nella legislazione italiana sia un decreto che porta la firma di un ingegnere come Zan, invece che di un filosofo del pensiero debole come Vattimo. Ma è proprio l'accoppiamento della sacrosanta difesa del diritto alle scelte sessuali e affettive, da un lato, con la condannabile introduzione dell'identità di genere, dall'altro, che rischia di affossare l'uno e l'altra. Ora, sono più importanti i fatti, e in particolare la necessità di tutelare le scelte di vita individuali, e di difenderle dalle vessazioni e dalle violenze, o le interpretazioni, e cioè le ideologie sociologiche post-moderne? Non sarebbe meglio riconoscere che anche da sinistra si sono sollevate perplessità di vario "genere" su queste ideologie, che rischiano di far buttare nel lavandino il bambino insieme all'acqua sporca? A proposito di sinistra, ammesso che la parola abbia ancora un significato qui e oggi, non sarebbe meglio migliorare la legge anche dal punto di vista dei diritti sessuali e affettivi? Ad esempio, si parla sempre di "coppie", dimenticando questa volta il detto di Alexandre Dumas figlio: "le catene del matrimonio sono così pesanti che a volte bisogna essere in tre per portarle". La vera liberazione non è il riconoscimento delle coppie di fatto, ma dei triangoli e degli altri poligoni. Ecco, parlare di legalizzazione della poligamia sarebbe sicuramente un argomento interessante e di sinistra, e forse quello sì che potrebbe finalmente far saltare il banco con il Vaticano!

L'intervento del Vaticano per fermare i diritti. Preti in cella per il ddl Zan, una tesi che sfiora il ridicolo. Salvatore Curreri su Il Riformista il 28 Giugno 2021. Quando uno Stato può dirsi laico? Certo, quando non c’è una religione di Stato. Ma non basta, e le reazioni di segno opposto alla nota verbale della Santa Sede sul ddl Zan lo dimostra. C’è chi, soprattutto tra i non credenti, la considera un’inaccettabile ingerenza perché considera la laicità innanzi tutto come separazione istituzionale tra Stato e Chiese. E chi, all’opposto, soprattutto tra i credenti, l’ha apprezzata perché considera la laicità soprattutto come libertà d’esercizio del magistero pastorale. In realtà, benché la laicità presupponga e richieda ovunque la distinzione tra dimensione temporale e dimensione spirituale, il modo in cui si realizza varia storicamente nel tempo e nello spazio. Così abbiamo Stati laici che s’ingeriscono negli affari della Chiesa nazionale (giurisdizionalismo) fino al punto che il Sovrano ne è a capo (Gran Bretagna); Stati che considerano la religione il collante sociale che fonda la loro identità (God Bless America…); Stati che considerano la laicità in senso negativo (per sottrazione) come assoluta neutralità delle istituzioni pubbliche nei confronti del fenomeno religioso, visto come fattore di potenziale divisione sociale (Francia, dove ad esempio per questo motivo è vietata l’ostensione di simboli religiosi). Stati, infine – come il nostro – che intendono la laicità in senso inclusivo (per addizione) perché considerano la religione non solo come un’esperienza spirituale privata, ma anche un fattore di rilievo sociale al quale lo Stato deve guardare con favore perché espressione della personalità di ciascuno (Corte cost., sentenza n. 334/1996). Per questo, l’art. 19 della nostra Costituzione precisa che “tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa” non solo “in qualsiasi forma, individuale o associata” ma anche “di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. E per questo lo Stato regola la dimensione pubblica del fenomeno religioso, stipulando accordi bilaterali con la Chiesa cattolica (Concordato) e con le confessioni acattoliche (intese) per soddisfare loro esigenze specifiche, concedere loro particolari vantaggi o imporre particolari limiti, dare rilievo giuridico a loro atti (come nel caso del matrimonio), disciplinare infine materie di comune interesse. Bene dunque ha fatto il presidente del Consiglio Draghi in Parlamento a non limitarsi a ribadire l’ovvia laicità del nostro Stato, aggiungendo piuttosto che essa non equivale a “indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni” ma si traduce nella “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (Corte costituzionale, sentenza n. 203/1989). Questo spiega perché, nel nostro Paese, è sancito, ad esempio, il diritto d’obiezione di coscienza per motivi religiosi; il diritto all’assistenza religiosa nei luoghi pubblici (i ricoverati negli ospedali, i detenuti nelle carceri, i militari nelle caserme, gli studenti che vogliono frequentare l’ora di religione); il diritto di non lavorare per onorare determinate festività religiose; i finanziamenti pubblici per costruire edifici destinati al culto. Alla luce di una concezione inclusiva, in cui Stato e Chiesa cattolica sono chiamati nei loro rapporti “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese” (art. 1 Concordato), la suddetta nota verbale esprime legittimamente le preoccupazioni della Santa Sede sulla possibilità che il ddl Zan incida negativamente sulla libertà della Chiesa cattolica di svolgere la sua missione pastorale e di quella dei fedeli di esercitare i loro diritti politici (riunione, associazione, espressione). Libertà garantite dal Concordato (v. rispettivamente artt. 2.1 e 2.3) e per questo che potevano essere oggetto d’intervento solo da parte della Santa Sede e non della Conferenza Episcopale Italiana, alla quale l’art. 14.2 del Concordato lascia solo la regolazione tramite intese di “ulteriori materie”. Ma, ancor prima, libertà garantite dalla Costituzione(artt. 17-21) per cui, sotto questo profilo, il richiamo al Concordato non aggiunge nulla agli argomenti a sostegno della pretesa natura liberticida del ddl Zan (dovendosi ovviamente escludere che la Chiesa si sia mossa per esservi esentata, rivendicando la propria libertà a essere omofoba…). Ciò chiarito, continuo a ritenere infondate le preoccupazioni espresse sul ddl Zan. Così come contro il referendum sul Trattato costituzionale dell’Ue i francesi nel 2004 furono terrorizzati dall’arrivo degli idraulici polacchi che gli avrebbero tolto il posto di lavoro, ora l’argomento principe della propaganda contro il ddl Zan è quella del povero prete che verrebbe arrestato dai gendarmi (con i pennacchi, con i pennacchi…) al termine della sua omelia a favore del matrimonio solo tra uomo e donna, oppure contro le adozioni delle coppie omosessuali o la maternità surrogata. Argomento d’indubbia presa ma giuridicamente infondato. Come ho già cercato di argomentare su queste colonne (v. il mio intervento dello scorso 15 maggio) a essere colpito è soltanto il pensiero che istiga a compiere atti discriminatori e violenti. Si continua a obiettare: come si fa a stabilirlo? Non si lascerebbe così troppa discrezionalità al magistrato di turno, magari anticlericale? E a nulla varrebbe scrivere nella proposta di legge (art. 4) che «sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti», perché, secondo tali critici, tale articolo finirebbe per ammettere la fondatezza del pericolo segnalato (strano argomento, invero: quando non c’era tale precisazione, la si richiedeva; ora che è scritta, la si ritiene un’auto-accusa: insomma, come fai sbagli…). Tutte queste obiezioni hanno un difetto: considerano il ddl Zan come se introducesse per la prima volta i reati contro l’eguaglianza quando invece essi già esistono. Il ddl Zan, infatti, si limita ad estendere i delitti già previsti contro l’eguaglianza, aggiungendo alle discriminazioni per motivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi” quelle fondate su sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. Quanti sostengono, quindi, che si tratti di una proposta di legge repressiva della libertà d’espressione e lesiva dei principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale, a causa della fumosità dei concetti di “istigazione” e “atto discriminatorio” dovrebbero per coerenza estendere la loro accusa d’incostituzionalità all’intera legge Reale-Mancino (oggi trasfusa nell’art. 604-bis c.p.) e, dunque, temere per la loro libertà di parola anche in materia razziale, etnica, nazionale o religiosa. Se non l’hanno mai fatto prima e non lo fanno è perché sanno che hanno contro tutta la giurisprudenza che, pronunciandosi sulle fattispecie oggi previste, ha chiarito da tempo che l’istigazione a compiere atti discriminatori è punita perché «realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali». Difatti, «l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale» (Cass., V pen. 31655/2001). Ad essere punito per tali motivi non è, dunque, la propalazione di un sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, o le mere manifestazioni di ostile disprezzo nei confronti di una persona, tutti rientranti sotto la tutela della libertà d’espressione ex art. 21 Cost., bensì le opinioni che, per il contesto in cui vengono espresse, sono per stretta consequenzialità idonee «a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori» (Cass., III pen. 36906/2015) nei confronti di un soggetto non per quel che fa ma per quel che è da parte di chi la considera deviante dall’unico modello ritenuto ammissibile (Cass., VI pen. 33414/2020). L’istigazione esprime quindi una manifesta volontà diretta a creare in un vasto pubblico, come nel caso della diffusione ed amplificazione veicolata dai social network, il concreto pericolo del compimento di atti d’odio e di violenza fisica e morale. L’ha ricordato di recente anche la Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Beizaras e Levickas c. Lituania condannata per non aver previsto sanzioni penali nei confronti di utenti di Facebook che avevano postato auguri di morte a due omosessuali fotografati mentre si baciavano. Forse quando si lamenta la violazione della libertà d’espressione i critici del ddl Zan farebbero bene a guardare altrove. All’Ungheria? Esatto. Salvatore Curreri

Ddl Zan, Augusta Montaruli a Omnibus: "Finiremo tutti alla sbarra", il più pericoloso degli errori nel testo della legge. Libero quotidiano il 24 giugno 2021. Si parla del ddl Zan e della reazione del Vaticano da Gaia Tortora a Omnibus nella puntata di oggi 24 giugno e Augusta Montaruli, di Fratelli d'Italia, spiega perché il suo partito è contrario. "Non ci piace perché non è scritto bene", dice in collegamento: "Un provvedimento scritto male su temi fondamentali come la libertà di vivere la propria sessualità e la libertà di espressione debba invitare tutti a fare una riflessione aggiuntiva", attacca la Montaruli. "Affrontiamo il tema ma scriviamolo bene". Ma oltre a un problema di forma, c'è un problema di sostanza. Secondo la Montaruli, infatti, "nel merito ci sono aspetti che sono un'ombra. Non si discute il diritto sacrosanto di vivere la propria libertà sessuale. Ma dove finisce questa libertà? Nella libertà di espressione come il ddl Zan?", si chiede la meloniana. Che sottolinea un altro aspetto fondamentale: "Non si specifica quali siano gli 'atti discriminatori'. Cosa si intende per 'atti discriminatori'? Tutto verrà rimesso nelle mani della magistratura".  E ancora, "tutto è soggetto all'interpretazione". Quindi c'è il tema per esempio dell'utero in affitto e quello delle adozioni per le coppie omosessuali. La Montaruli si riferisce al fatto che con "atti discriminatori" potrebbe poi per esempio rientrare l'adozione per le coppie gay, la registrazione di coppie monogenitoriali eccetera e soprattutto si pone con essa un'altra questione: "Un sindaco può diventare imputato se per esempio si rifiuta di iscrivere una coppia monogenitoriale". Insomma, il rischio che tutto finisca in mano ai magistrati e alla loro libera interpretazione c'è tutto.

Ddl Zan, Concordato e le polemiche. Anche il Vaticano teme i Pm, la legge crea arbitrio. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Giugno 2021. Per carità, siamo tutti d’accordo. Chi volete che in questo Paese, vocazionalmente conformista, si accodi a Orban o a suoi consimili a proposito dell’omofobia? Salvo qualche aspirante alla lapidazione mediatica, o qualche grullo che non manca mai, è impossibile o quasi che si trovi qualcuno sano di mente che ritenga siano ammissibili atti di discriminazione o peggio ancora di violenza «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità», come recita il titolo del disegno di legge Zan. Il tema, però, non è se una legge sia opportuna per prevenire e contrastare simili comportamenti, ma quale legge si debba approvare senza che, per tutelare anche la più minuta diversità sessuale e identitaria, sia messa in pericolo la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa, la libertà di insegnamento di tanti. Si è ricordato nelle polemiche recenti che la Repubblica è uno Stato laico. Ce lo dicono autorevoli e recenti asseverazioni che certo ci tranquillizzano, ma questo non vuol dire che si possa sostituire alla confessionalità di un credo o di una fede, una inflessibile religione della tolleranza assoluta che, a ben guardare, non rinviene spazio e legittimazione in alcuna norma della Costituzione. Benché una generica e bonaria tolleranza sia largamente predicata e invocata come la nuova religione del Terzo millennio, in verità i Costituenti la tennero fuori dalle porte della Carta. Non la menzionarono affatto nei suoi articoli, preoccupati com’erano dal possibile incedere di un relativismo che poteva minare l’etica repubblicana la quale, invece, si fonda su valori non negoziabili né suscettibili di mediazioni al ribasso. Relativismo e tolleranza non sono sinonimi, né si equivalgono poiché la comprensione e anche la difesa delle altrui convinzioni non può comportarne l’equivalenza con le proprie le quali, in una coscienza rettamente orientata, prevalgono sulle altre per il solo fatto di essere profondamente accettate e vissute da ciascun individuo. Dopo il 1750 la Francia fu inondata da scritti sulla tolleranza, tra i quali il famoso Trattato sulla tolleranza di Voltaire che riassumeva, si badi bene, la tolleranza nella regola aurea del «non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fatto a sé stessi». Roba scontata si potrebbe dire, ma che con il relativismo ha poco a che vedere. È scontato, è vero, ma a patto che, nel momento in cui si mette mano alla pistola del codice penale, si sia sufficientemente chiari su cosa si intenda sanzionare e su quali condotte si intenda punire. Ed è su questo crinale che la Chiesa italiana sembra aver inteso reagire. Invero a muoversi è stata la Segreteria di Stato, ossia il ministero degli Esteri del Vaticano, uno Stato estero che ha in piedi un Concordato con la Repubblica, ossia un patto che pone vincoli precisi al Parlamento il quale – invece che baloccarsi nella retorica dell’assoluta sovranità legislativa (che non esiste in Costituzione) – dovrebbe ricordare che ha il preciso dovere di far fronte agli obblighi internazionali assunti verso la Santa Sede. È noioso e didascalico, ma piuttosto che accodarsi al coro di quanti strepitano senza aprire un codice, è bene intendersi almeno su alcuni degli obblighi che la Repubblica ha assunto con il Vaticano in favore della Chiesa italiana e dei cattolici, intesi come singoli. Tra questi spiccano «la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare, è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale» (articolo 2, comma 1) e poi «è garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». In altre parole, i cattolici presenti nel Paese – siano essi o meno cittadini italiani – usufruiscono formalmente di una tutela rafforzata della propria libertà di manifestazione del pensiero e finanche della propria libertà educativa (articolo 9) che ha fondamento insieme nella Costituzione e nel Concordato. Da questo punto di vista si deve comprendere che il Vaticano non può arretrare neanche di un millimetro su questo crinale e che il Soglio di Pietro opera non a proprio vantaggio, quale Stato straniero, ma in favore della comunità dei cattolici residenti in Italia, della Chiesa che la Repubblica riconosce, nel suo ordine, come indipendente e sovrana (articolo 1). Roba da sbadiglio è chiaro. Mentre hanno causato una mezza insurrezione alcune autorevoli dichiarazioni che al rispetto di questi patti si sono richiamati. Monsignor Nunzio Galantino, uomo di primo piano delle gerarchie ecclesiastiche italiane, ha detto: «Non è mia competenza, ma penso che si debba stare attenti a non usare formulazioni che nelle mani, e nelle teste, di malintenzionati diventino strumenti di intolleranza». Poi, il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato della Santa Sede: «La nostra preoccupazione riguarda i problemi interpretativi che potrebbero derivare nel caso fosse adottato un testo con contenuti vaghi e incerti, che finirebbe per spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è». Qualcuno ha pensato che il cardinale, convenendo sul dato della laicità dello Stato, abbia inteso fare una sorta di marcia indietro, laddove è chiaro che proprio quella laicità impedisce derive verso una sorta di religione neutra della tolleranza che con quella posizione è palesemente incompatibile. Ma non è questo il punto. Entrambi hanno manifestato la preoccupazione che si rimetta ai tribunali il compito di stabilire cosa sia discriminatorio e cosa non lo sia. Una magistratura cui la Santa Chiesa, e non da sola di questi tempi, guarda con circospezione e con un certo sospetto almeno a partire dalla guerra dei crocifissi nelle aule scolastiche che venne vissuta come il segnale di un’intolleranza laicista verso ogni fede religiosa. Al di là dei tecnicismi che possono riguardare le singole norme penali, manca nella legge Zan una nozione chiara di atti discriminatori e, ad esempio, non è evidente se il rifiuto di una scuola confessionale di iscrivere i figli di coppie omogenitoriali possa o meno essere sanzionato penalmente o civilmente. Non è in discussione se sia un comportamento giusto o ingiusto, condivisibile o deplorevole, quel che conta è se possa portare o meno a un processo. E basta leggere l’articolo 4 per capire che un po’ di cautela non guasterebbe affatto: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime ri­conducibili al pluralismo delle idee o alla li­bertà delle scelte, purché non idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti». A parte il fatto che, per fortuna, quella libertà è «fatta salva» dalla Costituzione e non dalla legge Zan, è davvero singolare che «condotte legittime» sono tollerate alla condizione però che non determinino «il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti». È chiaro che si è fuori da ogni tipicità e che così si affidi ai tribunali un compito immane e preoccupante, ossia quello di stabilire ex post e sulla base di opinioni in gran parte opinabili cosa sia consentito o cosa vietato. Battaglia dura e oltre Tevere hanno il patema di chi sa bene che la fede affonda la propria storia in un processo ingiusto celebrato in una piazza di esagitati. Alberto Cisterna

Ddl Zan, Giulia Bongiorno: "Paradossale, chi vuole difendere l'uguaglianza pone limiti alle nostre libertà". Libero Quotidiano il 28 giugno 2021. "Sta facendo un ottimo lavoro, non ha bisogno di consigli". Un elogio quello indirizzato a Marta Cartabia arrivato direttamente da Giulia Bongiorno. L'avvocato, nonché senatrice della Lega, non ha potuto fare a meno di spendere belle parole per il ministro della Giustizia: "Trovare una sintesi è complicato, perché sul tema giustizia si agitano sensibilità molto diverse: per esempio, c'è chi pensa che il garantismo sia un esercizio di vuota retorica, dimenticando che è un principio inserito nella nostra Costituzione". Soddisfazione da parte del Carroccio sulla riforma del processo penale: "Sono molto soddisfatta della proposta del Ministro di superare il testo Bonafede sulla prescrizione, che è stato oggetto di un duro confronto tra la Lega e i Cinque Stelle quando eravamo al governo". Non mancano comunque piccole divergenze su appello e Cassazione. Per la Bongiorno si tratta di una fase particolarmente delicata, dove la magistratura è in crisi, "frutto delle distorsioni di un correntismo esasperato". Da qui l'appello rivolto dalle colonne de La Stampa affinché "non possiamo limitare i controlli sulle sentenze". Una richiesta non per forza legata alla sfiducia nei giudici, ma "essere innocenti - spiega la leghista a chi si presenta da lei - potrebbe non bastare per essere assolti. Sui piatti della bilancia, simbolo della giustizia, temo che a volte potrebbero non esserci solo le prove. È grave, ma è così". L'esempio è dietro l'angolo e conferma quanto denunciato dall'ex membro del Consiglio superiore della magistratura, Luca Palamara: "Se ci si imbatte in un giudice ambizioso e il pm di quel processo appartiene a una corrente che potrebbe incidere su una promozione, è lecito avere dei dubbi sulla sua imparzialità? Le impugnazioni sono forme di controllo degli errori dei giudici precedenti e a questa garanzia non si può rinunciare". È proprio questo l'obiettivo dei referendum proposti in tandem con i Radicali: l'indipendenza della magistratura. Non meno schiette le posizioni sul disegno di legge Zan. La proposta tutta piddina contro l'omotransfobia ha trovato un forte avversario, oltre che nel centrodestra, anche nel Vaticano. Eppure non c'è da stupirsi, visti i pericoli giuridici che si verrebbero a creare. Quali? Presto detto: "Si usano definizioni normative che paiono contrastare con la difesa del pluralismo. Si deve tener conto della libertà di religione, di insegnamento e di espressione. È paradossale che una legge volta a tutelare l'uguaglianza si presenti come un limite alla libertà altrui. Nessuno vuole affossare il ddl Zan, ma servono alcune correzioni per raggiungere una condivisione tra tutte le forze politiche su un tema delicato".

Alessandro Sallusti, magistrati e verginelli della politica mi fanno più paura del Vaticano. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 25 giugno 2021. Tutti a dire che "il parlamento è sovrano" e che di conseguenza la nota di protesta sulla legge Zan in discussione al Senato inviata dallo stato Vaticano al governo italiano è irricevibile in quanto costituisce una indebita interferenza. Non so, a me risulta che i rapporti tra Stati, soprattutto se tra due Stati intercorrono trattati vincolanti, siano regolati anche da pressioni più o meno debite, altrimenti dovremmo abolire la diplomazia sia nelle sue forme sotterranee che esplicite. E mi sembra altrettanto chiaro che comunque nessuno, tantomeno il Vaticano, abbia mai pensato che il nostro parlamento non sia sovrano. Esattamente come facciamo noi a parti opposte: il fatto che l'Egitto sia uno stato sovrano non ci impedisce di protestare con Il Cairo per l'arresto dello studente Patrick Zaky, il giovane attivista egiziano che studiava all'università di Bologna. Ma soprattutto mi piacerebbe che altrettanta fermezza nei confronti dell'autonomia del parlamento venisse esibita anche in campi diversi dalla legge Zan, per esempio per quanto riguarda la riforma della giustizia. I minacciosi comunicati dell'Associazione nazionale magistrati, le esternazioni altrettanto dure di singoli magistrati verso qualsiasi tentativo della politica di riordinare il sistema giudiziario costituiscono o no una "indebita ingerenza" di un potere nei confronti dell'autonomia di deputati e senatori? Su questo il presidente della Camera Fico e la sinistra tutta non hanno nulla da obiettare? Quelli che fanno i verginelli sono una delle categorie peggiori della politica, mi preoccupano più loro del Vaticano. Solitamente accade che le "pressioni" sono accolte se provengono da ambienti amici tipo appunto i magistrati, denunciate e respinte con sdegno se intralciano i propri piani. La laicità dello Stato va ribadita contro ogni fede invasiva, compresa quella dei giustizialisti che in quanto a violazione dei diritti e dogmatismo cieco sono assai più pericolosi di cardinali e vescovi. 

L'Ungheria sfida la Ue. Referendum sulla legge che discrimina i gay. Gaia Cesare il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. Il premier Orbán: "Dite No ai cinque quesiti". L'opposizione: "Boicottiamolo come nel 2016". Come fece nel 2016, per rigettare le quote di ripartizione dei migranti decise dall'Unione europea, Viktor Orbán alza l'asticella dello scontro con Bruxelles e chiama a raccolta il popolo d'Ungheria. Stavolta c'è di mezzo lo scontro con la Ue sulla legge per la «tutela dei minori» che regola le informazioni sulla comunità Lgbtqia (lesbiche, gay, bisex, trans, intersessuali, queer, asessuali). Armato del suo ultranazionalismo, marchio di fabbrica dell'esecutivo di Budapest, Orbán annuncia il referendum: «Quando la pressione contro la nostra patria è così forte, solo la volontà comune del popolo può difendere l'Ungheria». Entrata in vigore l'8 luglio, la norma rende illegale mostrare o promuovere, a scuola e nei media, contenuti che rappresentino «deviazioni dall'identità corrispondente al proprio sesso assegnato alla nascita» se i destinatari sono minori, mettendo di fatto sullo stesso piano omosessualità e pedofilia. Il provvedimento, considerato discriminatorio dalle Ue, è stato definito «una vergogna» dalla presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen tanto che Bruxelles ha aperto una procedura d'infrazione contro l'Ungheria, ha rinviato l'approvazione del Recovery Fund (7,2 miliardi) destinato a Budapest e medita l'introduzione di sanzioni dopo che l'Europarlamento ha votato una risoluzione che esorta l'Unione ad avviare un'azione legale contro il Paese, già condannato per «evidente rischio di violazione grave dei valori» europei. Governata dalla maggioranza assoluta di Fidesz, il partito nazionalista e ultraconservatore sospeso dal Ppe nel 2019 e poi uscito per sua scelta a marzo di quest'anno, l'Ungheria sovranista spaventa l'Europa ma non intende arretrare. E allora referendum sarà. Composto da cinque quesiti. Uno: «Sostieni che i minori dovrebbero frequentare le lezioni scolastiche sul tema degli orientamenti sessuali senza il consenso dei genitori?». Due: «Sostieni la promozione di trattamenti per il cambiamento di genere tra i minori?» Tre: «Sostieni che la chirurgia di riassegnazione del sesso debba essere disponibile per i minori?». Quattro: «Sostieni che i contenuti dei media che influenzano lo sviluppo sessuale dovrebbero essere presentati ai minori senza restrizioni?». Quinto e ultimo: «Sostieni che i contenuti multimediali che descrivono il cambiamento di genere debbano essere mostrati ai minori?». L'invito del premier è a votare sempre «No». «È un'iniziativa per distogliere l'attenzione dai guai del governo ungherese», attacca l'opposizione citando lo scandalo Pegasus: migliaia di politici, oppositori e giornalisti spiati anche dall'Ungheria, sulla quale la Ue ha avviato anche un'indagine per spionaggio. L'invito della minoranza è a boicottare il referendum, che vuole «mettere gli ungheresi gli uni contro gli altri» e usa i minori per «vili fini di propaganda». Nel 2016 finì male per Orbán: il referendum non raggiunse il quorum (votò il 43,2%) ma il primo ministro si convinse di aver dato comunque un segnale politico forte. Il 98% degli ungheresi che si recò alle urne disse «No», non vogliamo che la Ue «imponga a ogni paese membro quote di ripartizioni di migranti, senza consultare governo e Parlamento nazionali e sovrani magiari». Il portavoce del partito Coalizione democratica (DK), Barkóczi Balázs, è convinto che anche stavolta finirà come allora, con il referendum nullo. «Come conseguenza della sua disperazione, Orbán fa la solita cosa, inventa un'ennesima guerra con la Ue». Gaia Cesare

Si stringe il cerchio dei Paesi Ue contro Orban sulla legge anti-Lgbt. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 giugno 2021. È massima la pressione politico-mediatica contro il governo ungherese, promotore di una legge che vieta la propaganda Lgbt rivolta ai minori nelle scuole e sui media. Da una parte, come abbiamo già osservato sulle colonne di questa testata, ci sono gli europei e il calcio, sfruttato come arma politica dagli avversari del governo magiaro per fomentare e sensibilizzare l’opinione pubblica: dall’altra si muovono le cancellerie europee e l’Unione europea stessa, mentre i leader dell’Ue si trovano a Bruxelles per il consiglio europeo. “Questa legge ungherese è una vergogna. Ho incaricato i commissari responsabili di inviare una lettera per esprimere le nostre preoccupazioni legali prima che il disegno di legge entri in vigore. Discrimina chiaramente le persone in base al loro orientamento sessuale. Va contro i valori fondamentali dell’Unione europea: dignità umana, uguaglianza e rispetto dei diritti umani. Non scenderemo a compromessi su questi principi”, ha affermato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, durante la presentazione del Pnrr belga, in una presa di posizione piuttosto inusuale e inconsueta per il vertice della Commissione, che di prassi non dovrebbe intervenire nel dibattito interno dei Paesi membri dell’Ue. Nella giornata di ieri, come riporta l’agenzia LaPresse, il presidente ungherese, Janos Ader, ha firmato la tanto discussa legge anti-Lgbt. Secondo Ader, la legge non contiene alcuna disposizione che determini come deve vivere una persona maggiorenne e non lede il diritto al rispetto della vita privata, determinato dalla Costituzione. Come spiega l’Huffpost, la normativa, presentata la scorsa settimana da Fidesz, mira principalmente a combattere la pedofilia, ma include anche emendamenti che vietano altre forme di rappresentazione di orientamento sessuale oltre all’eterosessualità, nei programmi di educazione sessuale nelle scuole, nei film e nelle pubblicità rivolte agli under 18. Di fatto, Con la nuova legge sarà possibile vietare o censurare libri per ragazzi che parlano apertamente di omosessualità e non sarà permessa la diffusione di campagne pubblicitarie pro-Lgbt rivolte ai minori. I Paesi Ue la vedono come una forma di discriminazione, a differenza di Budapest. Secondo la Cancelliera tedesca Angela Merkel, la legge approvata dal Parlamento ungherese che mira a impedire la “promozione” dell’omosessualità e della comunità Lgbt è “sbagliata”. “La legge ungherese è una vergogna. Userò tutti i poteri che abbiamo per bloccarla e garantire i diritti dei cittadini. Brava Von der Leyen. Questa è l’Unione Europea che vogliamo” ha osservato su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta. “L’Italia – ha sottolineato il presidente del Consiglio, Mario Draghi – ha sottoscritto con altri 16 Paesi europei una dichiarazione comune in cui si esprime preoccupazione sugli articoli di legge in Ungheria che discriminano in base all’orientamento sessuale”. I Paesi firmatari (al momento) sono: Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna, Svezia, Lettonia, Italia, Grecia, Austria e Cipro. Nella dichiarazione, gli stati Ue esprimono “profonda preoccupazione per l’adozione da parte del Parlamento ungherese di emendamenti che discriminano le persone Lgbtiq e violano il diritto alla libertà di espressione con il pretesto di proteggere i bambini”. Contro la legge del governo magiaro si è mosso anche David Sassoli che, come riporta Italpress, ha scritto alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, chiedendo alla Commissione di adempiere agli obblighi previsti dai trattati dell’Ue per garantire il rispetto dello stato di diritto in tutti gli Stati membri. “Come indicato dalla nostra risoluzione del 10 giugno 2021, ho scritto alla Presidente della Commissione, a nome del Parlamento europeo e sulla base dell’articolo 265 del TFUE, per invitare la Commissione ad adempiere ai suoi obblighi di custode dei trattati e a garantire la piena e immediata applicazione del regolamento relativo alla condizionalità sul rispetto dello Stato di diritto”, ha ricordato Sassoli in apertura della sessione plenaria del Parlamento europeo a Bruxelles. Contro il governo ungherese si è espresso anche il Partito popolare europeo, attraverso le parole di capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, Manfred Weber: “L’Europa è sinonimo di libertà e tolleranza. Costituiscono la base del nostro stile di vita e del nostro successo. Per proteggerlo non c’è posto per leggi che vanno contro le libertà fondamentali delle persone. Supportiamo pienamente la presidente von der Leyen per sostenere fermamente questi valori e le nostre leggi ovunque in Europa”. Mentre i capi di Stato e di governo dell’Unione europea si riuniscono oggi da Bruxelles per un Consiglio europeo che avrà come temi centrali i flussi migratori, la ripresa economica e le relazioni esterne, con particolare attenzione ai rapporti con la Turchia e la Russia, Budapest replica alle dichiarazioni di Ursula von der Leyen, definendole senza mezzi termini “una vergogna”. Affermazioni vergognose perché basate su “accuse false”. La legge oggetto del contendere “protegge i diritti dei bambini, garantisce i diritti dei genitori e non si applica ai diritti di orientamento sessuale di coloro che hanno più di 18 anni”, ragione per la quale non è discriminatoria, sottolinea in una nota il governo magiaro. Per l’opinionista statunitense Rod Dreher, prestigiosa firma della rivista the American Conservative, von der Leyen avrebbe spudoratamente mentito nella sua offensiva contro Budapest. La presidente della Commissione Ue, nota Dreher, “derubrica la legge come contraria a un’Unione europea dove sei libero di essere chi vuoi essere e dove sei libero di amare chi vuoi. Ma la legge ungherese non vieta l’omosessualità o l’essere transgender”. Al contrario, vieta la propaganda Lgbt rivolta ai minori. “Von Der Leyen afferma che difendere la Blue’s Clues Pride Parade e Drag Queen Story Hour è una questione di “diritti umani fondamentali” – ma non il diritto dei genitori a proteggere i propri figli da queste parate. Che il presidente della Commissione europea scelga di inquadrare il conflitto in questo modo la dice lunga su come la burocrazia europea consideri la famiglia tradizionale”. Da Bruxelles, il premier magiaro Viktor Orban è intervenuto per difendere la legge da poco approvata dal parlamento di Budapest. Sotto il comunismo in Ungheria l’omosessualità era punita per legge, e “io sono un combattente per la libertà, ho difeso i diritti degli omosessuali” ha spiegato, come riportato dall’agenzia Adnkronos. Le leggi approvate dal Parlamento ungherese “non riguardano l’omosessualità”, bensì “la difesa dei diritti dei bambini e dei genitori”. Rispondendo alle domande sulle norme riguardanti i contenuti per i minori dei pochi cronisti ammessi ai doorstep del Consiglio Europeo a Bruxelles., Orban ha poi aggiunto che “è sempre meglio prima leggere e poi parlare – continua Orban -. Le leggi riguardano il modo in cui i genitori vogliono educare i figli”. La legge ungherese sui contenuti destinati ai minorenni “non è nell’agenda” del Consiglio Europeo, osserva, ma “sono a disposizione di chiunque” voglia chiarimenti. In ogni caso, precisa, “la legge è fatta e funziona”. 

L’ultimatum dei Paesi membri contro l’Ungheria. Diritti gay, Draghi stoppa Orban: “Ritiri la legge”. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Giugno 2021. A Bruxelles una ventina di paesi dell’Unione hanno dato l’ultimatum a Viktor Orban perché ritiri quella legge che vieta di parlare di genere, identità sessuale e omosessualità nelle scuole fino a 18 anni di età. In Italia si apre il Tavolo per trovare una sintesi parlamentare sul ddl Zan, contro l’omotransfobia, con Salvini nei panni del “mediatore”, Alessandro Zan, il deputato Pd che della legge è l’ideatore, che lo avverte: «giù le mani dalla mia legge, volete solo svuotarla» e il segretario dem Letta che chiarisce: «La legge non si tocca». Fino a mercoledì primo luglio, giorno di convocazione del Tavolo con i capigruppo al Senato, si andrà avanti così. Lavorando a una mediazione che a oggi non sembra possibile. Poi ci sarà la conta in aula. Come se non bastasse Giorgia Meloni, presidente del gruppo conservatore Ecr, in missione a Bruxelles scatta selfie con Orban e si schiera col presidente ungherese: «Chi critica quella legge non l’ha letta». Facendo come minimo andare di traverso la giornata a Salvini che con Orban è in trattativa per farci un gruppo parlamentare europeo e in Italia a questo punto non può più “perdere” la battaglia sul ddl Zan. Per non parlare della Uefa che in pieno campionato europeo ha avviato un’indagine sulla partita Ungheria-Germania dove tifosi ungheresi avrebbero fatto cori e alzato il dito medio contro la Germania, “paladina dell’omosessualità”. Il premier Draghi pensava, sperava, di essersela cavata con “l’Italia è uno stato laico e il Parlamento sovrano” per tornare così a occuparsi di quello che preferisce, Pnrr, riforme, ripresa economica e dossier immigrazione. Nella conferenza stampa di fine Consiglio europeo neppure nomina il caso diritti lgbt, lo strappo dell’Ungheria e la lettera del Vaticano che martedì scorso ha scatenato il dibattito anche in Italia. Nel comunicato finale dell’EuCo la questione non è neppure citata perché non era all’ordine del giorno. Ma è sempre così, i dossier scomodi tenuti fuori dalla porta hanno la prerogativa di saper rientrare sempre dalla finestra. E nonostante pandemia («il virus non è sconfitto, la varianti sono aggressive ed è necessario accelerare sulle vaccinazioni»), Russia (il vertice con Putin resta congelato) e immigrazione («il dossier è tornato in agenda dopo tre anni, i ricollocamenti non erano l’obiettivo del vertice che invece si è concentrato sugli interventi europei nei paesi africani di partenza e transito»), tutte notizie di cui Draghi rivendica gli aspetti “utili e positivi, è il dossier diritti quello che tiene banco nella due giorni al Palazzo Europa, sede del Consiglio Europeo. E nelle dichiarazioni post Consiglio. Con Orban si sfiora la rottura. Macron, Merkel, Rutte, Kurz, lo stessa von der Leyen, il presidente Sassoli e Michel, tutti i principali leader europei usano toni ultimativi. «La questione dei valori è fondamentale per l’Europa», dice Macron. «C’è un aumento dell’illiberalismo nelle società che si sono battute contro il comunismo e che oggi sono attirate da modelli politici che sono contrari ai nostri valori» ha aggiunto denunciando “due blocchi europei”, quello dei paesi dell’Ovest e dei paesi dell’Est. Macron non vuole usare l’articolo 50 (recesso unilaterale di un paese dall’Unione, ndr) però invoca “procedure efficaci per isolare queste derive”. Che sono simili a quelle dei paesi di Visegrad contrari agli accordi sui flussi migratori. Il premier austriaco Kurz dice che “tocca alla Commissione Ue agire”. Draghi ha ricordato che l’articolo 2 del Trattato Ue – quello relativo ai diritti umani – è legato alla storia di oppressione dei diritti umani vissuta in Europa. «Il Trattato, sottoscritto anche dall’Ungheria, è lo stesso che nomina la Commissione guardiana del trattato stesso» ha detto rivolto a Orban. Spetta quindi alla Commissione «stabilire se l’Ungheria viola o no il Trattato». Angela Merkel, al suo ultimo consiglio Ue con pieni poteri (in ottobre si vota in Germania), non ricorda di «aver mai avuto in tanti anni una discussione di questa profondità e certamente non armoniosa. Con l’Ungheria restano problemi molto seri che vanno affrontati». Ursula von der Leyen congela al momento la faccenda denunciando «grande preoccupazione per una legge, quella ungherese, che viola i principi fondamentali dell’Unione». Tra Rutte e Orban si è arrivati quasi “alle mani” sui social. «Vattene», ha detto l’olandese… «Porta più rispetto agli ungheresi», ha replicato l’ungherese. Quello sui diritti è un incendio che va bloccato in fretta. Potrebbe diventare alibi per atti di odio e intolleranza come si sono visti negli stadi di Euro2020 con una Uefa impreparata a gestire questi fenomeni che pure sono frequenti negli stadi ormai da anni. In Italia è cominciata la conta su chi al Senato il prossimo 6 luglio potrebbe votare la calendarizzazione della legge così com’è a partire dal 13 luglio. Le posizioni non si avvicinano. Il Pd con Italia viva, 5 Stelle (chi, come e quanti ad oggi nessuno lo può dire), Leu sembrano granitici: la Nota diplomatica della Santa Sede ha accelerato l’iter del ddl Zan che la Lega tiene impantanato in commissione Giustizia da novembre scorso con l’alibi di 170 audizioni, l’equivalente di una tonnellata di cemento. Tutto il centrodestra chiede invece di correggere il testo Zan con le indicazioni arrivate dalla Santa Sede. «Importante è punire i violenti, la strada l’ha indicata la Santa Sede, ma togliamo dal tavolo il gender nelle scuole e i reati d’opinione. Ho scritto a Letta ma avrà molto da fare e non mi risponde». S’è fatto sentire anche Berlusconi che, a ridosso del semestre bianco, annusa aria di pretesto per disturbare il manovratore, cioè Draghi. «Abbiamo un governo di emergenza – ha detto il Cavaliere – che deve andare avanti per il tempo necessario per uscire dalla crisi sanitaria ed economica e realizzare grandi riforme come quella del fisco, della burocrazia e della giustizia. Non certo per occuparsi di argomenti divisivi come il ddl Zan». Il cui torto principale, par di capire, è di introdurre (articolo 1) i concerti di sesso, genere, identità di genere e orientamento sessuale. Concetti “non nella nostra disponibilità” ha scritto la Santa Sede.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Ultimatum europeo a Orban: "Cambi la legge o passiamo ai fatti". Lorenzo Vita il 7 Luglio 2021 su Il Giornale. La legge approvata in Ungheria infiamma il dibattito. L'Ue chiede che Orban modifichi la normativa che limita i materiali Lgbt. E qualcuno mette in dubbio l'approvazione del piano per il Recovery Fund. Si infiamma lo scontro tra Unione europea e Ungheria sui diritti Lgbt e nel mirino c'è ovviamente Viktor Orban. La legge approvata da Budapest, che limita la visione di materiale Lgbt ai minori, è considerata contraria ai valori dell'Ue, e Bruxelles chiede che sia modificata prima di passare direttamente alla procedura di infrazione. La sfida si è allargata anche alla Polonia, altro Paese del Gruppo Visegrad che da tempo è al centro del dibattito per la sua legislazione sui diritti Lgbtq. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è scesa in campo con affermazioni che fanno intendere tutta la contrarierà dell'Unione europea alle ultime mosse di Orban. "Questa legge non serve alla protezione dei bambini, viene utilizzata la protezione dei bambini come pretesto per discriminare l'orientamento delle persone, questa legge è vergognosa", ha detto von der Leyen in sessione plenaria. Il capo della Commissione ha poi ribadito che la norma approvata in Ungheria "contraddice profondamente i valori fondamentali dell'Ue" minacciando di usare tutti gli strumenti a disposizione per "difendere questi valori". Il rischio è che in questo meccanismo di controllo e di procedure di infrazione rientri anche il piano per il Recovery Fund proposto dall'Ungheria. L'ipotesi era stata paventata dal capogruppo di Renew Europe, Dacian Ciolos, che aveva soprattutto posto l'accento sulla mancanza di trasparenza da parte di Orban. Per adesso l'ipotesi non sembra trovare conferme né in sede Ue né in sede magiara. I vertici dell'Unione hanno parlato di procedure di infrazioni, ma non hanno ancora menzionato in modo definitivo la possibilità di intaccare il piano sull'utilizzo dei fondi europei. "La Commissione Ue sta proseguendo la sua valutazione approfondita del piano ungherese di risanamento e resilienza rispetto agli undici criteri stabiliti nel regolamento Rrf", ha spiegato un portavoce dell'organo europeo. "Gli undici criteri richiedono in particolare una valutazione del fatto che le misure affrontino le sfide individuate nelle raccomandazioni specifiche per paese o un sottoinsieme significativo di esse e se i piani forniscono un adeguato meccanismo di controllo e verifica. Poiché la valutazione approfondita è in corso, non forniremo alcuna valutazione preliminare". Un discorso simile l'ha fatto Paolo Gentiloni, che ai giornalisti ha chiarito come i l'approvazione del piano di resilienza ungherese si basi sugli undici criteri definiti dall'Europa. Gentiloni ha confermato l'ipotesi di "strumenti paralleli" per convincere l'Ungheria a modificare la legge, ma sulla questione del piano lascia le porte aperte. Da Budapest, invece, ha parlato la ministra della giustizia ungherese, Judit Varga, che in un tweet ha smentito la voce rilanciate dall'agenzia tedesca Dpa e ha confermato che Bruxelles non ha respinto in alcun modo il piano ungherese. Segno che anche nel governo guidato da Orban si vogliano distinguere i due piani di azione.

Lorenzo Vita. Nato a Roma il 2 febbraio 1991, mi sono laureato in giurisprudenza nel 2016 con una tesi in diritto internazionale. Dopo la laurea, ho conseguito un master in geopolitica e ho seguito corsi sul terrorismo internazionale. Lavoro per ilGiornale.it dal 2017 e seguo in particolare Gli Occhi della Guerra. Da settembre 2018 mi sono trasferito a Milano e lavoro nella redazione del sito. Mi occupo prevalentemente di Esteri, con un occhio.. 

Ursula Von der Leyen minaccia Orban: "Legge vergognosa, cambiatela o passiamo ai fatti". L'Europa sanziona l'Ungheria?

 Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. "Se l'Ungheria non aggiusterà il tiro la Commissione Ue userà i poteri ad essa conferiti in qualità di garante dei trattati. Noi ricorriamo a questi poteri a prescindere dallo Stato membro".  Così Ursula von der Leyen la Commissione non solo si appresta ad aprire una procedura d'infrazione per la legge anti-Lgbt che Budapest non vuole cambiare, ma sarebbe anche pronta a bloccare il suo Recovery plan. La legge anti Lgbt adottata in Ungheria, ha precisato la von der Leyen nel suo intervento alla plenaria sulle conclusioni dell'ultimo Consiglio europeo, "è vergognosa". La legge ungherese, ha affermato ancora, "dice che pubblicazioni con rappresentazioni di giovani Lgbt non possono essere più mostrate ai minori: praticamente l'omosessualità e la transessualità vengono poste allo stesso livello della pornografia. Questa legge non serve alla protezione dei bambini, viene utilizzata la protezione dei bambini come pretesto per discriminare l'orientamento delle persone, questa legge è vergognosa", spiega la von der Leyen. La legge, ha proseguito von der Leyen, "contraddice profondamente i valori fondamentali dell'Ue. Userò tutti gli strumenti che sono a disposizione della Commissione per difendere questi valori. Non lasceremo che una parte della società sia stigmatizzata. Dall'inizio del mio mandato abbiamo aperto circa 40 procedure di infrazione legate al rispetto dello stato di diritto e se necessario apriremo altre procedure", ha proseguito, spiegando che "non possiamo rimanere a guardare quando ci sono regioni che si dichiarano liberate da persone Lgbt. Non lasceremo che una parte della nostra società sia stigmatizzata, quando difendiamo parti delle nostre società noi difendiamo la libertà di tutta la nostra società", ha concluso la von der Leyen. 

Omofobia, Ue senza vergogna: affida il “processo” a Orban a un condannato per revenge porn. Sveva Ferri giovedì 8 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. È atteso per oggi il voto del Parlamento europeo sulla risoluzione contro l’Ungheria, per costringerla a modificare la legge a tutela dei bambini che dispone, tra l’altro, di non coinvolgerli nella propaganda Lgbt. Una legge “omofoba” secondo gli apparati di potere Ue, che in questa battaglia contro il governo Orban sono rappresentati da un uomo, il laburista maltese Cyrus Engerer, condannato in passato per revenge porn nei confronti dell’ex fidanzato.

Il «ricatto» Ue a Orban: a rischio i fondi del Recovery. Engerer è, infatti, l’estensore della risoluzione che chiede alla Commissione di intervenire contro Orban e che è parte di un più ampio «processo», ormai in atto da tempo, nei confronti di uno «Stato membro colpevole di non omologarsi al pensiero unico di Bruxelles», come ha commentato il copresidente del gruppo Ecr-FdI, Raffaele Fitto, al termine del «dibattito surreale» di ieri sul tema. La presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, del resto, sempre ieri ha già fatto sapere che «userà tutti i suoi poteri in qualità di guardiano dei Trattati». In ballo ci sono anche i 7,2 miliardi di euro del Recovery. «Utilizzare le nuove regole sulla condizionalità di bilancio come strumento per fare pressione sui governi non allineati con Bruxelles è un ricatto inaccettabile», ha commentato il capodelegazione di FdI a Bruxelles, Carlo Fidanza.

La risposta ungherese all’offensiva di Bruxelles. Dunque, tutta la faccenda prende i connotati di un vero e proprio «ricatto», che per altro rappresenta un precedente gravissimo rispetto alle ingerenze che l’Ue è pronta a esercitare sugli Stati membri e sui suoi governi legittimamente in carica. «Bruxelles non può rimuovere per nessun motivo politico ciò per cui gli ungheresi hanno lavorato», ha avvertito il ministro della Giustizia ungherese Judit Varga, ribadendo la posizione di un esecutivo che è pronto a ribattere colpo su colpo. Sempre Varga ha chiarito che Budapest promuoverà una campagna di informazione presso governi e istituzioni Ue per smontare le fake news contro una legge «mal interpretata». Intanto, ha lanciato la bomba: «Quanto è credibile il relatore dell’Europarlamento che contesta la legge sulla protezione dell’infanzia dopo essere stato condannato per un crimine sessuale?», sono state le sue parole, riportate da La Verità.

Il grande accusatore di Orban condannato per revenge porn. I fatti cui si riferisce Varga sono pubblici e se ne trova ampia conferma sul Times of Malta dell’epoca. Vi si legge che Engerer nel 2014 ricevette una condanna a due anni di carcere per aver «distribuito foto pornografiche del suo ex fidanzato nel tentativo di screditarlo». Un caso da manuale di «revenge porn», come lo definisce senza mezzi termini anche il Times of Malta: Engerer e l’ex fidanzato si lasciano; l’attuale europarlamentare spedisce foto intime al datore di lavoro dell’ex; l’ex sporge denuncia e parte un processo che, alla fine, porta alla condanna del laburista, che però ha ottenuto la sospensione della pena e, in virtù delle leggi maltesi, ha potuto comunque candidarsi, conquistando poi il seggio all’Europarlamento.

E poi parlano di odio…Con questo pregresso, dunque, Engerer si presenta come capofila del fronte parlamentare anti Orban, che ha l’appoggio incondizionato della Commissione. «L’Ue non è posto per la politica dell’odio», tuona oggi Engerer, aggiungendo che «il fatto che Orbán abbia introdotto una legge omofoba in stile russo nel quadro legislativo dell’Ue deve essere condannato e punito». Ancora La Verità ricorda come del caso di revenge porn in capo a Engerer si occupò anche la giornalista Daphne Caruana Galizia, uccisa in un attentato nel 2017.

Dalle sue cronache emergono ulteriori dettagli sul comportamento dell’attuale eurodeputato. Engerer, ricostruì Galizia, entrò in casa dell’ex senza permesso e rubò le foto dal suo computer, usandole poi «per ferirlo agli occhi del suo datore di lavoro e dei colleghi, sperando che perdesse il lavoro o almeno il loro rispetto». «Se non riuscite a capire che si tratta di un crimine grave, allora – concludeva la giornalista – dovreste mettere in discussione i vostri valori». 

Ddl Zan, la Garante dell’Infanzia della Regione Umbria: “Legittima rapporti con animali e cose”. Giampiero Casoni il 07/07/2021 su Notizie.it. Ddl Zan, la Garante dell’Infanzia: “Legittima rapporti anche con animali o cose. Ogni desiderio sarà considerato un bisogno e il bisogno un diritto”.  Ddl Zan e iperboli interpretative, iperboli come quella della Garante dell’Infanzia della Regione Umbria per cui le legge concepita così com’è legittimerebbe “rapporti anche con animali o cose” e incentiverebbe incesti, poligamie e gang banghismo con i mobili di casa. Insomma, fra le tante decorose ragioni in punto di dialettica democratica per esprimere perplessità su alcune parti del Ddl Zan Maria Rita Castellani, garante dei diritti dell’Infanzia per la Regione Umbria, è andata ad elaborarne una che ha il pregio dell’iperbole da sodomia biblica, che è però pregio solo in letteratura fetish.  In buona sostanza e con piena coscienza del suo ruolo istituzionale che le fa divieto di buttarla troppa massa critica la signora ha detto perché a suo parere bisogna dire di no alla legge che sanziona l’omotransfobia. E la risposta è certa, granitica e senza tema di equivoco perché le cose equivoche le fanno solo quelli là: perché approvarla legittimerebbe il sesso con i bambini o con gli animali. Dove sta il nodo cruciale a parare della Garante? Nella definizione ondivaga e soggettiva del concetto di identità di genere.  Insomma, l’equazione è, o sarebbe “se io attribuisco in punto di libertà individuale al genere una natura diversa da ciò che natura ed anagrafe in quel momento significano in esteriorità allora potrò avere rapporti con chiunque perché non esiste più legame fra ciò che si è davvero e ciò che si appare”. Con chiunque e qualunque cosa a questo punto, perché a seguire il ragionamento della dottoressa Castellani, amica dell’ortodosso Simone Pillon, un comodino non è detto che sia tale e potrebbe coltivare sogni identitari precisi e divergenti dalla sua natura di coso su cui poggiare gli occhiali la sera. Fuor di celia e di iperbole (ma ha cominciato lei) le affermazioni della Garante umbra per l’Infanzia hanno sollevato un vespaio grosso come quel Palazzo Madama che il 13 luglio si appresta a diventare ring per Pd e Lega, divisi sul tema come Totò e Peppino a Berlino e  con Matteo Renzi a fare da Check Point Charlie. È stata depositata anche una formale richiesta da parte di associazioni e partiti di opposizione che chiedono la testa della Castellani. Ecco in polpa le sue affermazioni sul tema: “Il concetto d’identità cambia, non è più quello antropologico che conosciamo da sempre e che distingue persona da persona a ragione di evidenze biologiche, ma diventerà qualcosa che io, cittadino, posso decidere arbitrariamente secondo la percezione del momento”. E ancora: “Di conseguenza ogni desiderio sarà considerato un bisogno e il bisogno un diritto. Si potrà scegliere l’orientamento sessuale verso cose, animali, e/o persone di ogni genere e, perché no, anche di ogni età, fino al punto che la poligamia come l’incesto non saranno più un tabù”. Messa al sicuro la nonna dalle scalmane del pappagallo di casa e del ferro da stiro resta il dato storico per cui le affermazioni della garante sono finite dritte in una lettera indirizzata alla governatrice Donatella Tesei. Lo scopo? Manco a dirlo, sempre la testa della Castellani che con tre frasi tre è riuscita a superare in appeal di periglio pure Billy The Kid. La richiesta porta in calce la firma di associazioni Lgbt, partiti, sindacati, studenti, medici, psicologi e marmitte catalitiche in crisi di identità. Ecco cosa dice in stralcio lo scritto: “Castellani ha realizzato un’acrobazia pericolosa in bilico fra propri convincimenti personali e pregiudizi inqualificabili, dimostrando un’ignoranza colpevole per chi ricopre il suo ruolo, acrobazia che rappresenta una realtà fantascientifica, inesistente nel mondo delle cose concrete e non scritta nel Ddl Zan”. Nessun problema per le chiocciole della mail list: loro sono ermafrodite.

Assedio a Orban per una legge che non parla di omofobia ma di pedofilia. Meloni: quanti l’hanno letta? Adele Sirocchi sabato 26 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Viktor Orban, l’Europa è in pressing contro il premier ungherese per la legge che vieta la propaganda gender ai minori. Orban non cede di un millimetro ma intanto la retorica anti-Ungheria si fa sempre più asfissiante e va dalle tirate d’orecchio di Ursula von der Leyen al documento dei 17 paesi in difesa dei diritti sconfinando nei campi di calcio tinti di arcobaleno.

La legge parla di minori e non dell’omosessualità. Orban intanto replica attaccando: «L’omosessualità non c’entra con questa legge. Si parla dei minori e dei loro genitori, tutto qui». Con lui si è schierato l’omologo sloveno Janez Jansa. E Judit Varga, ministro ungherese della Giustizia, si infuria: «L’orientamento sessuale e l’identità di genere rientrano pienamente nelle tutele della Costituzione ungherese». E sostiene che nel suo Paese «tutti sono liberi di esprimere la loro identità sessuale come ritengono». In pratica si attacca una legge di cui nessuno vuole conoscere il contenuto. Un appunto che anche Giorgia Meloni fa proprio. Ieri ha dichiarato in proposito: “Io la legge l’ho letta e le cose sono distanti da come vengono raccontate. La legge è scritta con toni che non mi piacciono. Ma è una legge che vieta la propaganda gender nelle scuole da parte di organizzazioni che non appartengono al sistema di istruzione ungherese”.

Cosa contiene la legge ungherese. Oggi solo Libero e la Verità si preoccupano di informare i lettori su cosa contiene la contestata legge ungherese, il cui titolo è «Sull’adozione di misure più severe contro i pedofili e sulla modifica di alcune leggi per la protezione dei bambini». Il primo titolo – scrive la Verità – prevede un emendamento alla legge sulla protezione dei bambini e l’amministrazione della tutela. Il nuovo articolo recita: «Per garantire la realizzazione degli obiettivi stabiliti nella presente legge e l’attuazione dei diritti dei minori, è vietato rendere accessibile alle persone che non hanno raggiunto l’età di 18 anni un contenuto pornografico o che rappresenta la sessualità in modo gratuito o che diffonde o ritrae la divergenza dall’identità corrispondente al sesso alla nascita, il cambiamento di sesso o l’omosessualità».

Le norme e i divieti della legge di Orban. Il terzo titolo – scrive ancora La Verità – riguarda la modificazione della legge sulla pubblicità. La nuova norma recita: «È vietato rendere accessibile alle persone che non hanno raggiunto l’età di 18 anni la pubblicità che ritrae la sessualità in modo gratuito o che diffonda o ritragga la divergenza dall’autoidentità corrispondente al sesso alla nascita, il cambiamento di sesso o l’omosessualità». Vi è poi il titolo 5, che prevede una stretta sui programmi classificati come «non adatti a un pubblico di età inferiore ai 18 anni», cioè quelli in cui elemento centrale è «la violenza, la diffusione o la rappresentazione della divergenza dall’identità personale corrispondente al sesso alla nascita, del cambiamento di sesso o dell’omosessualità o la rappresentazione diretta, semplicistica o gratuita della sessualità». In pratica, la legge censura i contenuti che ritiene impropri e legati a tutta la sfera della sessualità e non solo a quella dell’orientamento sessuale Lgbt. Si può discutere se sia opportuno “proteggere” i minori in questo modo ma non è certo corretto presentarla come una normativa anti-gay.

La leader di Fdi dice la sua. Roma Pride 2021, Meloni: “Cristo lgbt è irrispettoso”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 26 Giugno 2021. Il corteo Roma Pride 2021 è arrivato a piazza della Repubblica e la manifestazione si è conclusa. Ad aprirsi invece ora sono le polemiche, e a farlo è la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “Leggo che il corteo del Roma Pride è aperto da un ragazzo travestito da ‘Cristo Lgbt’, con stimmate colorate e bandiera arcobaleno. Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c’è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi? E aggiungo: come si concilia la lotta alle discriminazioni, alla violenza e all’odio con i cori di insulti e minacce contro chi non è d’accordo con il ddl Zan? Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno. Io la penso così. Qualcun altro evidentemente no”, conclude così il suo pensiero affidato alla pagina Facebook. Il corteo del Roma Pride 2021 ha raggiunto piazza della Repubblica. Sono partiti in migliaia, dall’Esquilino senza i tradizionali carri. I sostenitori Lgbti+ hanno sfilato in modo pacifico e senza scontri di sorta, sventolando bandiere arcobaleno e cartelli in favore del ddl Zan. Si sono sentiti cori di Bella Ciao e le canzoni di Raffaella Carrà. L’organizzazione del Pride è stata a cura del circolo di cultura omosessuale Mario Mieli che ha curato anche lo striscione di apertura del corteo che recitava: “Orgoglio e Ostentazione”. Alle sue spalle, in riferimento alle ultime dichiarazioni del Vaticano in merito al ddl Zan: “Per la laicità dello Stato aboliamo il concordato”. Riccardo Annibali

L'ira della Meloni: "Guardate questo cristo Lgbt..." Federico Garau il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Al corteo arcobaleno di Roma compare anche il "Cristo Lgbt". Meloni: "Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno". Mentre si continua a discutere in merito al Ddl Zan, sale la tensione per le strade italiane, dove proprio oggi hanno sfilato cortei a favore dei diritti Lgbt. Almeno sei le città dello stivale coivolte, da Milano a Roma, fino ad arrivare ad Ancona, L'Aquila, Faenza e Martina Franca, in provincia di Taranto. Nel corso delle sfilate, anche manifestazioni di insofferenza: al gay pride di Bologna, nella giornata di apertura, impronte rosa sono state volutamente impresse sui volti di alcuni famosi politici appartenenti alla destra, come Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Simone Pillon, Mario Adinolfi, Viktor Orbàn e Donald Trump. Ma le provocazioni del popolo arcobaleno non sono finite, come mostrato dalla leader di Fratelli d'Italia sulla propria pagina Facebook.

Il "Cristo Lgbt". A guidare il corteo del Roma Pride di oggi, infatti, c'era un ragazzo travestito da "Cristo Lgbt". Un'immagine difficile da accettare per chi ha a cuore certi simboli religiosi. "Leggo che il corteo del Roma Pride è aperto da un ragazzo travestito da 'Cristo Lgbt', con stimmate colorate e bandiera arcobaleno", ha dichiarato Giorgia Meloni, postando la foto della sfilata. "Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi?", si è domandata la presidente di FdI. E ancora: "Aggiungo: come si concilia la lotta alle discriminazioni, alla violenza e all'odio con i cori di insulti e minacce contro chi non è d'accordo con il ddl Zan? Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno. Io la penso così. Qualcun altro evidentemente no". Con il loro atteggiamento intransigente nei confronti di chi non la pensa come loro, i sostenitori del Ddl Zan stanno mostrando proprio quel comportamento discriminatorio che tanto condannano.

"La Chiesa mi vuole morto". Fra i manifestanti, del resto, c'è anche chi non ha rispetto per le istituzioni religiose, e arriva addirittura a condannarle. "La Chiesa perseguita le persone Lgbt da 2000 anni. Di fronte a un ddl che può provare ad arginare i fenomeni di odio dovrebbe almeno rispettare l'autonomia del Parlamento italiano invece di appellarsi a un concordato vecchio di 90 anni", ha apertamente dichiarato all'AdnKronos un manifestante del corteo di Roma, che sfilava con un cartello recante la scritta 'Sono gay e la Chiesa cattolica mi vuole morto'. In realtà le intenzioni della Chiesa con la sua richiesta di rimodulazione del decreto di legge erano ben altre, come dichiarato dal Segretario di Stato Pietro Parolin, ma evidentemente il messaggio non è passato.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger).

Il gay pride blasfemo fa esplodere le polemiche. Federico Garau il 27 Giugno 2021 su Il Giornale. Non è piaciuta la provocazione del mondo Lgbt, in tanti ad insorgere sui social. Dopo le parole della Meloni, arriva la condanna di Salvini: "Una schifezza, un’offesa e una sgradevole mancanza di rispetto". È scoppiata un'autentica bufera in seguito ai cortei arcobaleno che ieri hanno sfilato per le strade dello Stivale al fine di riaffermare i diritti del popolo Lgbt e sostenere con forza il Ddl Zan: da Milano a Roma, fino ad arrivare a Martina Franca (Taranto), tante le immagini delle sfilate, dove non sono mancate provocazioni nei confronti della Chiesa, rea di aver chiesto una rimodulazione del disegno di legge. Fra queste, a fare scalpore è stata di sicuro quella del "Cristo gay" impersonato da un giovane agghindato ad arte, con tanto di stimmate colorate. Una foto che ha fatto il giro dei social, scatenando l'ovvia reazione dei religiosi. La prima a far sentire la propria voce è stata la leader di Fratelli d'Italia, che postando sui propri account social l'immagine del "Cristo gay" ha commentato: "Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi? Aggiungo: come si concilia la lotta alle discriminazioni, alla violenza e all'odio con i cori di insulti e minacce contro chi non è d'accordo con il ddl Zan? Se sei convinto delle tue idee e delle tue posizioni, non hai bisogno di insultare nessuno. Io la penso così. Qualcun altro evidentemente no". Parole che hanno poi provocato la reazione dell'ex deputato grillino passato al gruppo misto Giorgio Trizzino: "Che Giorgia Meloni si erga a difensore della Cristianità rivendicando che al Roma Pride non possa mostrarsi un ragazzo travestito da Gesù Cristo, mi fa molto pensare. Mi chiedo come mai la patriottica Giorgia si ricordi di essere cattolica e praticante solo in queste circostanze, mentre mostra gravissimi vuoti di fede quando urla che bisogna respingere al mittente quei poveri migranti che cercano un po' di vita approdando sulle nostre coste". A replicare alla frecciata del deputato Trizzino è stato il rappresentante di FdI Andrea Delmastro. "Si atteggia ad ayatollah della cristianità e lancia una laica scomunica a Giorgia Meloni, rea di aver stigmatizzato il disgustoso Cristo Lgbt", ha commentato Delmastro, riferendosi all'ex pentastellato. "Meloni ha, con equilibrio e pacatezza, difeso il sentimento di cristianità, offeso e vilipeso dalla manifestazione Lgbt chiedendosi perché l'affermazione di presunti diritti debba passare per la denigrazione di Cristo". In realtà sono in molti a non aver affatto gradito le provocazioni del popolo arcobaleno, che avrebbe potuto tranquillamente manifestare ed esprimere le proprie idee senza attaccare quei simboli ritenuti preziosi non soltanto dai cristiani praticanti, ma anche da coloro che nutrono un forte rispetto nei confronti delle tradizioni religiose del Paese. Durante le manifestazioni di ieri si è visto di tutto, non solo il "Cristo gay", ma anche un papa Francesco mascherato e striscioni ed insulti rivolti contro il Vaticano ("Per la laicità dello Stato aboliamo il Concordato", o "Vaticano vaff...", solo per citarne alcuni). "Nel 2021 è chiaro a tutti quanto la comunicazione conti. E che nessuno si permetta di fare lo splendido con la figura di Maometto perché lì si tratta di “rispetto”, o paura. Allora mi chiedo il senso di sputare in faccia ai cristiani. Accorcia le distanze?", ha sbottato la senatrice di FdI Daniela Santanchè. Ad unirsi agli indignati, anche il giornalista e scrittore del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi: "Ieri il Gay Pride di Roma è stato aperto da uno striscione antivaticano con un tizio che irrideva la figura di Gesù, nudo con corona di spine, stimmate e drappo arcobaleno", ha commentato. "Ho invidiato i musulmani che riescono a far rispettare Maometto, inculcando in quei 4 cialtroni la paura". Parole pesantissime che hanno naturalmente scatenato un autentico putiferio sui social network. A far discutere anche il pride di Milano, dove non sono mancati gli slogan contro la Chiesa. A postare le immagini del corteo, dove è apparsa una "seconda versione" del Cristo gay, è stato un indignato Matteo Salvini. "Ieri in piazza a Milano..." ha scritto il leader della Lega. "Secondo me raffigurare Gesù Cristo con minigonna e tacchi a spillo non è una simpatica provocazione, è una schifezza, un’offesa e una sgradevole mancanza di rispetto".

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Felice Manti per "il Giornale"  il 28 giugno 2021. Orgoglio e pregiudizio. No, Jane Austen non c'entra, anche se nella comunità Lgbt lei è un'icona perché si favoleggia fosse lesbica. Balle. L'orgoglio è quello andato in scena ieri ai Gay Pride, da Milano a Roma, il pregiudizio è il solito: siccome «la Chiesa perseguita i gay da 2mila anni» (altra balla) allora perché non trasformare anche Gesù in un'icona gender, mettergli dei tacchi a spillo, imbrattare la sua croce con un simbolo fallico e guadagnarsi una foto sui giornali? Un attivista l'ha fatto, e il risultato l'ha ottenuto. «Secondo me raffigurare Gesù Cristo con minigonna e tacchi a spillo non è una simpatica provocazione, è una schifezza, un'offesa e una sgradevole mancanza di rispetto», twitta Matteo Salvini. «Che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi?», aveva detto già l'altro giorno la leader Fdi Giorgia Meloni. Se oggi qualcuno volesse sostenere che questo attivista gay ha insultato una religione nel cui nome, nel 2020, sono morte 4.761 persone, potrebbe farlo senza timore di smentita. D'altronde, i dati parlano chiaro: l'anno scorso 340 milioni di persone sono state perseguitate perché credono che un ragazzo di 33 anni morto in croce fosse il figlio di Dio. Ma con il ddl Zan sarà ancora possibile difendere il proprio credo da una bestemmia arcobaleno? Sarà ancora possibile dire che un bambino ha diritto a una mamma e a un papà senza finire davanti a un giudice? Secondo il Vaticano e molti esperti, no. La Chiesa è un facile bersaglio, soprattutto se rivendica la propria libertà di culto prevista nel Concordato. Ma, come dice padre Laurent Cabantous, «la libertas ecclesiae è il cuore di ogni altra libertà, e la Chiesa nel proteggere i suoi diritti difende la libertà di tutti». Nessuno nel centrodestra vuole giustificare i reati di omotransfobia, tanto che Lega, Fdi e Forza Italia hanno presentato una proposta di legge, molto più ragionevole e meno ideologica, per venire incontro alle istanze della comunità Lgbt. Eppure il tema resta lo stesso: il ddl Zan serve perché copre un vuoto normativo o è solo un cavallo di Troia per imbavagliare i cattolici? La Pd Monica Cirinnà ha gettato la maschera: «Va approvato così com'è - ha detto a margine del Gay Pride di Roma - se dovesse essere modificato meglio non avere nessuna legge». Segno che il problema non è combattere veramente l'omotransfobia, ma approfittare di un clima favorevole per mettere fuori gioco chi si ostina ad opporsi al pensiero unico che predica amore vero ma razzola di utero in affitto, fluidità di genere e ideologia gender nelle scuole. «Se non ci sarà una legge perché la parte oltranzista del Parlamento non si siederà con la volontà di approvare una norma buona e condivisa, ai cittadini sarà chiaro chi stava realmente dalla parte dei diritti e delle libertà e chi, invece, faceva solo finta», dice Licia Ronzulli di Forza Italia. Intanto ieri un ragazzo, Orlando Merenda, si è gettato sotto un treno a 18 anni, i pm indagano per bullismo e omofobia, altro segno che una nuova legge non serve. Il ragazzo sui social aveva scritto «il problema delle menti chiuse è che hanno la bocca aperta», qualcuno ha replicato «morte ai gay». Non è puntando il dito contro il nemico, che sia un prete o un militante Lgbt, che si risolve il problema dell'omofobia. Non è spaccando il Paese mettendo all'indice cattolici e moderati che si insegna la tolleranza per chi percepisce il proprio corpo come qualcosa di estraneo. È anche per questo che Papa Francesco lunedì scorso ha scritto (a mano e in spagnolo) al padre gesuita James Martin, considerato un difensore dei diritti Lgbt, dicendo che «il cuore di Dio è aperto a tutti, si avvicina con amore ad ognuno dei suoi figli». Perché il rispetto prevede altrettanto rispetto, l'odio semina odio, e nessuna legge potrà impedirlo. Qualcuno, duemila anni fa, è morto per amore di tutti. Anche di Orlando.

Pride, così la piazza ha scatenato d'odio: parlano d'amore ma vogliono annientare chi non la pensa come loro. Renato Farina su Libero Quotidiano il 28 giugno 2021. Gay pride, sabato scorso. Si può discuterne senza essere appesi per i piedi? Provando a disobbedire all'obbligo dell'inginocchiatoio dinanzi a questa colonna marciante del pensiero unico? Ci provo. Il corteo di Roma per la difesa dei diritti omosessuali è stato un lungo ululato di odio, che resta tale anche se fluisce circondato dai dolci colori dell'arcobaleno. Lo scopo della marcia è la divisione dell'umanità in due razze. Da una parte quella superiore, che esige l'approvazione sic et simpliciter del disegno di legge Zan. L'altra, tipicamente sub -umana, che chiede se ne discuta, si provi almeno a prendere sul serio le ragioni chi ne intravede un uso intimidatorio verso i dissenzienti. L'allegro serpentone è stato preceduto da un tale che rappresentava Gesù Cristo, reso idoneo a partecipare al carnevale Lgbtqi+. Che cos'è se non cosciente cristianofobia? Maledizioni non solo contro chi osi citare la Bibbia sulla condanna della sodomia, ma anche contro chi vorrebbe che il ddl Zan lasciasse la libertà di dar ragione al catechismo senza la prospettiva di finire in tribunale. In questo quadro il vaffa al Vaticano è quanto di più mite si sia scandito. Queste cose si possono dire anche oggi? Anche dinanzi all'orrore di un ragazzino suicida a Torino travolto- dicono gli amici - dai bulli omofobi, che possano sprofondare?

Il consenso dei media. Si è soliti udire una critica da parte degli omosessuali più seri ai vari gay pride che suona così: è una pagliacciata, non mi ritrovo in una manifestazione di cattivo gusto così esibito. D'accordo. Ma non è questo il punto. Chiunque abbia un minimo di coscienza di sé, senza bisogno di essere omo o bio transessuale, sa che la cifra sessuale della vita intima e sociale di ciascuno è comunque un dramma, perché i rapporti con l'altro/a di qualsiasi genere e tipo sono attraversati da questo essere maschio o femmina. Ma guai a ridurre la questione a scontro tra etero e i diversi (o, detta altrimenti, tra Lgbt e i diversi), come se fosse una lotta di classe, al termine della quale saremo tutti felici come predicava il comunismo. Balle. Nei Paesi come la Svezia dove la questione è risolta pienamente, e i diritti a qualsiasi amore e al loro riconoscimento sociale sono pienamente sanciti, la tragedia incombe comunque (si veda su Netflix il film Dancing Queen). La volontà di potere e di mercificazione del prossimo (concupiscenza come la definisce san Tommaso o sfruttamento -alienazione, vedi Marx, Nietzsche e Freud) è un demone a cui ciascuno è chiamato a mettere le catene per far prevalere l'amore come dono di sé. Dunque mettersi le piume o indossare la tiara colorandola di arcobaleno e andare in piazza sui carriaggi come al carnevale butta la questione un po' troppo sul ridicolo. Del resto esiste il diritto umano ad essere farseschi. Il problema è che ogni anno di più questi spettacoli pubblici di orgoglio Lgbt, mano a mano che cresce intorno ad essi il consenso, e il Tg1 ne parla con la stessa devozione della messa di Natale, acquisiscono la tracotanza dell'intolleranza e dell'odio. Ma qualcuno ha letto davvero i cartelli, ascoltato i canti, osservato i travestimenti che ufficialmente sarebbero satirici? Altro che partito dell'amore, queste sono pure sceneggiate di odio in maschera, con la complicità condiscendente dei media. È vero. L'odio è un sentimento, e cometa le non è un reato. Eppure il primo esercizio di libertà è di chiamare le cose con il loro nome. Accettando il parere di chi dà un altro nome, ma nel rispetto dell'interlocutore. Tutto questo è impossibile. Chi contraddice il tema del "si può amare chi si vuole come si vuole" (un famoso maître à penser ha aggiunto "anche i cani") è perciò stesso infilato tra gli omofobi, e perciò, prima ancora che messo nelle mani dei magistrati, sottoposto a scorticatura dell'anima. Altro che "chi sono io per giudicare?". Sei impalato al volo.

Diritti fasulli. Ecco, in questo senso il clima da gay pride che sta trionfando oggi (e che l'intervento della Santa Sede ha cercato di riportare sui binari della pacata razionalità) è pericoloso. Non perché da quei cortei rischino di partire pattuglie di omo-black-bloc, solo un cretino potrebbe pensarlo. Il fatto è che esistono i manganellatori del pensiero e delle coscienze. E i gay pride si basano su un dogma che è impossibile mettere in discussione senza essere scomunicati dai sacerdoti dell'amore libero e sbattuti fuori dal recinto della civiltà. Un po' come il movimento Black Lives Matter. Tutti in ginocchio. Chi non si inginocchia appartiene al mondo delle bestie, com' è sfuggito con un mirabile lapsus a Chiellini, passa per un nazista, vuole l'Auschwitz per i neri e in questo caso per le persone di orientamento omosessuale, con le varianti che mano a mano si aggiungono con una letterina ed oramai con il + per sottolineare che sono infinite quanto i pareri di ciascuno. Ecco, chiederei che in quelle categorie di diversi da rispettare, comprendendoli misericordiosamente in quel +, ci siano anche coloro che ieri il gay pride ha schernito, assoldando all'uopo anche un finto Gesù Cristo. P.S. Per intenderci, so per certo citando Pier Paolo Pasolini a proposito della Dc e delle stragi -, so, sono sicuro, ma non ho le prove, che le poche migliaia che si esercitano al gay pride sono le arcobaleniche avanguardie di poteri assai meno vezzosamente piumati, il cui scopo da decenni è di sciogliere ciò che resta delle radici giudaico cristiane nell'acido dei diritti fasulli. Qualcosa però resiste nella memoria nebbiosa dei popoli.

Alessandro Sallusti contro il ddl Zan: i fascisti di oggi cantano Bella Ciao. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 27 giugno 2021. Tranquilli, dicono a sinistra che la legge Zan non limiterà le libertà di pensiero e opinione. È la stessa sinistra che in queste ore, con un appello firmato da 150 pseudo illustri economisti d'area, chiede la rimozione di due autorevoli consulenti del governo, Riccardo Puglisi e Carlo Stagnaro non perché giudicati incapaci, non perché pregiudicati e neppure perché raccomandati, ma in quanto pensatori liberisti. Parità di genere quindi per i trans, ma non parità di pensiero per i liberali: un economista che crede nel libero mercato non ha diritto di parola e di rappresentanza, tanto meno di accesso alle stanze del potere. Ieri il fascismo, oggi il liberismo, presto se passa il decreto Zan così come è - il cattolicesimo. Mai l'offensiva per eliminare il pensiero non di sinistra è stata così violenta e diffusa. La parola d'ordine è "omologarsi" e non mi stupirei se il Pd iniziasse a emanare liste di proscrizione di professori, giornalisti e pensatori da cacciare da università, mezzi di comunicazione e uffici pubblici. Il precedente c'è: 1938, quando in concomitanza con la sciagurata firma delle leggi razziali furono espulsi dagli atenei italiani 96 docenti, ben il 7%, oltre a circa 200 altri ricercatori e liberi insegnanti per il solo fatto che erano ebrei. Oggi i fascisti non portano la camicia nera, cantano Bella Ciao e hanno in tasca la tessera del Pd o di uno dei tanti partitini d'area. Professori che pensano di poter imporre alle scuole cattoliche cosa insegnare, agli economisti cosa pensare, a noi come scrivere (alcune parole sono già state messe al bando e usarle comporta andare in seri guai professionali). E chi non si adegua? Ora cacciato, punito, deriso, messo all'indice, un domani - perché no? - un bel campo di rieducazione come pena alternativa al carcere. Chiedere la testa di due economisti in quanto liberisti è un fatto gravissimo. Che a farlo siano 150 professori e non un gruppo di invasati sui social spazzatura rende la cosa assai pericolosa. E dà la misura di che cosa sia e in che mani sia finita l'università italiana (sulla immoralità della sinistra non abbiamo mai nutrito dubbi).

Lo sfregio al Gay Pride: calpestati i volti dei leader di destra. Francesca Bernasconi il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. A Bologna inizia la settimana transfemminista. Per la performance di apertura, le impronte rosa imbrattano volti noti. In testa una mitra rosa, il tradizionale copricapo del vescovo, e in mano cartelloni e bandane dello stesso colore. Lasciano impronte (anche queste rosa) sui volti di personaggi noti, come Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Simone Pillon, Mario Adinolfi, Viktor Orbàn, Donald Trump e Papa Francesco. La chiamano "performance", ma è l'ennesima manifestazione violenta del popolo arcobaleno. È andata in scena in piazza Nettuno a Bologna per lanciare la settimana transfemminista e transnazionale che, da oggi fino al 3 luglio coinvolgerà diverse realtà del territorio bolognese. La trovata non distende certo gli animi in un momento dove la politica si sta già profondamente dividendo sul ddl Zan.

Il popolo arcobaleno all'attacco. "Da oggi fino al 3 luglio invaderemo lo spazio pubblico con i nostri corpi - spiegano le femministe al microfono e nei post pubblicati sui social -la nostra rabbia e la nostra gioia contro i continui attacchi misogini e omolesbobitransfobici". Gli attacchi di cui parlano i fautori della manifestazione hanno assunto una dimensione transnazionale: "L'uscita dalla convenzione di Istanbul voluta da Erdogan ha come base la stessa retorica degli attacchi alla legge Zan in Italia", spiegano nel post, citando anche la posizione del Vaticano in merito al Ddl Zan. "Questi attacchi familisti e ultraconservatori di fatto legittimano la violenza che subiamo quotidianamente e sono la reazione eterocispatriarcale alla nostra rivendicazione di autodeterminazione". I collettivi, le associazioni Lgbtqia+ di Bologna e il nodo locale di Non Una Di Menosi scagliano contro i sostenitori della famiglia nucleare e intendono rispondere agli"Stati Generali della Natalità, dove il primo ministro sfila davanti al Papa additando le donne di rifiutarsi di accogliere il dono della maternità per questioni individualistiche" con gli "Stati GENDERali", che si terranno per tutta la prossima settimana. Due i principali appuntamenti lanciati dalle associazioni. Giovedì prossimo, "data ufficiale di uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul" alle 18 sfilerà in piazza dellUnità un corteo transfemminista e transnazionale, che si unirà a quello lanciato "dai movimenti delle donne e persone Lgbt*qia+ in Turchia e della rete EAST (Essential Autonomous Struggles Transnational), in connessione con le mobilitazioni femministe e transfemministe contro la violenza maschile e di Stato in America Latina, per dire chiaramente che non accetteremo di pagare le conseguenze delle sindemia sui nostri corpi". Il secondo appuntamento si terrà invece il 3 luglio, giorno della Rivolta Pride, l'appuntamento annuale del movimento Lgbtqia+, che quest'anno "assume connotati molto più radicali". Infatti, spiegano le diverse realtà, "quest'anno il Pride sarà Rivolta Pride. Prendiamo parola per rivendicare molto più di Zan, perché una misura repressiva non ci basta. Non abbassiamo la testa e non rimaniamo in silenzio".

Lo sfregio alla manifestazione. I volti degli avversari calpestati. Sulle loro foto spuntano impronte rosa, che mirano a coprire e cancellare le facce di uomini e donne, politici di tutto il mondo e non solo, stampate su fogli di carta con cui è stata tappezzato qualche metro della piazza. È lo sfregio messo in atto dai manifestanti che a Bologna hanno lanciato la settimana transfemminista e transnazionale. Lo hanno fatto ballando a suon di musica, come mostra il video postato da Non una di meno, sulle foto di chi non la pensa al loro stesso modo. "L’Ansa ci informa che il Gay Pride unitario di Bologna, che prende il nome di Rivolta Pride, sarà 'molto più radicale'- ha commentato Mario Adinolfi, tra i protagonisti (suo malgrado) della distesa di stampe di volti noti, comparse in piazza a Bologna-e prevede una performance in cui esponenti Lgbt indossando una mitra vescovile e armati di vernice rossastra calpestano i volti tra gli altri del sottoscritto e di Papa Francesco. È un onore. E vedasi il mio post antecedente a questo". Tra gli altri, sono stati calpestati i volti di Matteo Salvini, Donald Trump e persino Papa Francesco: "Chiunque dissenta, per qualsiasi ragione, deve sparire nel sangue rappresentato dalla vernice rossastra", commenta Adinolfi. E si chiede: "Ma se avessimo mai organizzato noi una performance in cui calpestavamo i volti di Luxuria e Cecchi Paone, più cancellandoli con vernice rossastra, che ci avrebbero fatto?".

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.

Malika, polemica sulla raccolta fondi: "Mi sono comprata una bella macchina". Andrea Vivaldi su La Repubblica il 30 giugno 2021. Il caso sollevato dopo una intervista firmata dalla giornalista Selvaggia Lucarelli. La giovane era stata cacciata di casa dalla sua famiglia quando aveva rivelato di amare una donna: dalla Toscana ora vive a Milano. "Ho 22 anni e volevo togliermi uno sfizio, mi sono comprata una bella macchina, potevo comprarmi un'utilitaria e non l'ho fatto". A innescare il caso attorno a Malika Chalhy, la ragazza di Castelfiorentino (Firenze) cacciata di casa dai genitori perché lesbica, una intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli per TPI (The Post Internazionale). La giovane che adesso vive a Milano con la compagna ha rivelato, in un modo un po' confuso, di aver utilizzato una parte dei soldi ricevuti dalle raccolte fondi per acquistare un'auto nuova. "Ho preso la casa in affitto a Milano, abbiamo dato un anno di affitto più duemila euro di caparra. Poi ho pagato dentista, avvocato, ho comprato dei vestiti. Non avevo niente, era rimasto tutto a casa dei miei - riferisce la giovane nell'intervista - Adesso ho avuto delle spese per la macchina". Una vettura che le sarebbe costata intorno ai "17mila euro", aggiunge durante la telefonata Roberta, agente e sua portavoce. Per Malika erano state lanciate due raccolte fondi tramite la piattaforma gofundme, ricevendo da tutta Italia circa 150 mila euro. La 22enne avrebbe venduto la vecchia auto per poi sostituirla con la Mercedes nuova. La notizia ha sollevato subito numerose reazioni polemiche sui social. Emergono anche un paio di foto da Instagram, in cui Malika è stata fotografata alla guida dell'auto e taggata da Gaia Zorzi, sorella di Tommaso Zorzi, il vincitore del Grande Fratello VIP 2020. "Perché quando giorni fa ti è stato chiesto privatamente da altre persone di chi fosse la Mercedes che guidavi, hai detto che era dei genitori della tua fidanzata?", incalza Lucarelli. E Malika ammette: "Sì ho detto una bugia. Mi scuso. Mi è stato chiesto che ero sotto pressione". La ragazza attraversa, spiega chi le sta intorno, una fase di fragilità. Nell'intervista viene chiesto alla 22enne a chi avesse deciso di destinare le donazioni, visto che in passato più volte aveva annunciato di elargire quei soldi in beneficenza. La ragazza in un primo momento risponde di non aver ancora deciso. Poi l'agente Roberta prova a spiegare la motivazione: "La ragione è che insieme alla Boldrini avevamo deciso di fondare un'associazione per le vittime di discriminazioni. Abbiamo cercato - dice la portavoce - di coinvolgerla ma lei non sta bene e la cosa si è allungata un po'. Siamo in una fase in cui non sappiamo ancora bene, mettiamo dei paletti. Malika però non sta bruciando i soldi". Pubblicata l'intervista, è arriva però la precisazione della deputata: "Tengo a precisare che mai è stata discussa con me o con alcun collaboratore o alcuna collaboratrice del mio staff l'ipotesi di costituire una associazione per le vittime di discriminazione tanto meno di una raccolta fondi - spiega Laura Boldrini, smentendo quanto dichiarato dall'agente di Malika -. Si tratta perciò di una vera e propria fake news. Il mio nome quindi viene tirato in ballo in maniera totalmente impropria".

Da "corriere.it" l'1 luglio 2021. Una storia di Instagram della sorella di Tommaso Zorzi, vincitore del Grande Fratello VIP 2020, ha colto Malika Chalhy, la ragazza di Castelfiorentino cacciata da casa dalla propria famiglia perché lesbica, alla guida di una Mercedes. Questa storia postata sui social ha generato alcune perplessità: si può vedere Malika alla guida di una Mercedes appena uscita dal concessionario. Fin qui nulla di male se non fosse che per permettere alla ragazza di farsi una nuova vita lontano da una famiglia che non la voleva più, erano state lanciate due raccolte fondi che avevano racimolato complessivamente 140 mila euro. Soldi che le erano serviti per trovare una casa a Milano, dove ha deciso di trasferirsi, e, a quanto pare, di comprarsi un’automobile. Una macchina costata, in offerta, 17 mila euro, come ha confessato la stessa Malika in un’intervista a Tpi.it. «Ho 22 anni e volevo togliermi uno sfizio, mi sono comprata una bella macchina, potevo comprarmi un’utilitaria e non l’ho fatto», così Malika ha risposto a Selvaggia Lucarelli per TPI (The Post Internazionale). «Ho preso la casa in affitto a Milano, abbiamo dato un anno di affitto più duemila euro di caparra. Poi ho pagato dentista, avvocato, ho comprato dei vestiti. Non avevo niente, era rimasto tutto a casa dei miei - racconta ancora la giovane nell’intervista - Adesso ho avuto delle spese per la macchina». «Perché quando giorni fa ti è stato chiesto privatamente da altre persone di chi fosse la Mercedes che guidavi, hai detto che era dei genitori della tua fidanzata?», chiede Lucarelli. E Malika: «Sì ho detto una bugia. Mi scuso. Mi è stato chiesto quando ero sotto pressione». «Ha venduto la sua macchina vecchia, è andata in una concessionaria, le serviva una macchina per essere una persona libera e si è comprata una macchina nuova», afferma Roberta, agente e portavoce della ragazza di Castelfiorentino incalzata dalle domande. A questo punto l’acquisto della Mercedes ha spinto molte persone a chiedersi se le donazioni siano state destinate alla risoluzione dei problemi finanziari dovuti a un violento cambio di vita, o se servano solo per togliersi degli sfizi. Nell’intervista la Lucarelli chiede alle 22enne a chi avesse deciso di destinare le donazioni, visto che più volte aveva annunciato di dare quei soldi in beneficenza e lei risponde di non aver ancora deciso ma che ci sono stati contatti anche con Laura Boldrini. Che ha poi smentito completamente la notizia.

Malika, non solo la Mercedes ma anche un cane da 2500 euro. Altro schiaffo ai buonisti. Redazione giovedì 1 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Non solo la Mercedes, ma anche un bulldog francese. Costo: 2500 euro. Si amplia il caso di Malika Chalhy, la giovane di Castelfiorentino cacciata da casa dalla propria famiglia perché lesbica. Dopo che la sua disavventura è venuta alla luce è partita una raccolta fondi per aiutarla, che ha raggiunto la cifra considerevole di 150mila euro. La scoperta dell’uso che la giovane ha fatto dei soldi ricevuti in segno di solidarietà in quanto vittima di omofobia ha suscitato non poche perplessità dando il via sui social a una sequela di critiche, soprattutto dopo che la ragazza in un’intervista con Selvaggia Lucarelli su The Post Internazionale ha ammesso con un certo imbarazzo di avere usato quei soldi per un bene di lusso come la Mercedes. E ciò dopo avere promesso che li avrebbe dati in beneficenza. E l’acquisto della Mercedes non è stato l’unico “sfizio” per Malika. E’ sempre Selvaggia Lucarelli a pubblicare la notizia che la ragazza ha comprato anche un cane. Lucarelli rintraccia l’allevatore, Simone, che le ha venduto il bulldog francese: “Malika? Non l’avevo riconosciuta quando è venuta in allevamento, ma poi ho capito. Ha comprato il cane più caro”. “Le chiedo – scrive Lucarelli – come mai abbia comprato un cane da 2.500 euro. “Perché mi piaceva la razza, devo giustificarmi perché spendo i miei soldi come voglio?”. Le rispondo che se le persone donano perché lei si ricostruisca una vita, perché paghi avvocati o supporto psicologico o perché faccia beneficenza, forse qualche spiegazione la deve”. E la conversazione che Selvaggia Lucarelli riporta va avanti così: ““Il cane è un bene di prima necessità, ok?”, insiste. “Potevi prenderti un trovatello”. “Avrei potuto ma sono cavoli miei. Il cane è un supporto psicologico”. “Il bulldog da 2500 euro?”. “Sono amante di questa razza, e ho preso un bulldog. La Mercedes e il bulldog sono beni necessari”. “Ma quando rispondi così pensi che non ti arriverà altra merda addosso?”, le dico sinceramente incredula. “Mi arriverà, chi se ne frega. Ciaooo!”. E mi attacca il telefono in faccia. Per la cronaca, mi aveva telefonato lei”. Malika, eroina delle schiere progressiste, aveva partecipato a Milano alla manifestazione in favore della celere approvazione del ddl Zan. E nelle molte interviste rilasciate aveva anche annunciato che si sarebbe data da fare per aiutare le vittime di violenza e bullismo.

Malika Chalhy “assolta” da GoFundMe, la direttrice: “La Mercedes e il cane? Spese legittime”. Alessandro Artuso il 02/07/2021 su Notizie.it. La direttrice di GoFundMe in Europa è intervenuto in merito alla donazione di Malika Chalhy: le sue parole. Continuano le polmiche sulla raccolta fondi destinata a Malika Chalhy, la ragazza di Castelfiorentino tolta di casa dai genitori perché lesbica. Gli organizzatori hanno avviato la raccolta con lo scopo di permettere alla giovane di rifarsi una vita. Sulla questione ha parlato ai microfoni di Fanpage.it Elisa Liberatori Finocchiaro in qualità di direttrice di GoFundMe in Europa. Su GoFundMe sono partite due diverse campagne per aiutare la giovane della provincia di Firenze. La polemica è nata nel momento in cui la giovane ha parlato di aver utilizzato parte dei fondi per acquistare una nuova auto, precisamente una Mercedes, insiema ad un cane di quasi 3mila euro.  “Nel caso della campagna di raccolta fondi che sta facendo tanto rumore, quella per Malika, i due organizzatori delle raccolte – commenta la direttrice Liberatori Finocchiaro – che hanno impostato i fondi a suo beneficio, hanno chiarito che i fondi sarebbero serviti a permettere alla ragazza di rifarsi una vita. La direttrice ha parlato anche di una clausola indicata come una sorta di garanzia per chi dona su GoFundMe. “Chi ha donato lo ha fatto consapevole del fatto che quel denaro sarebbe servito a Malika a comprare quello di cui ritenesse avere bisogno. Inoltre l’obiettivo era impostato a 10mila euro ma nonostante questo le persone hanno continuato a donare.

 donatori su GoFundMe sono protetti dalla cosiddetta garanzia GoFundMe. Se le finalità della campagna non vengono rispettate tutti i donatori avranno la possibilità di chiedere e ottenere il rimborso”. Malika Chalky è salita alle cronache nel mese di aprile del 2021, quando era stata cacciata dalla casa con cui abitava con i genitori perché lesbica. In suo favore venne istituita una raccolta fondi. Adesso si scopre che i soldi donati sono stati usati da Malika per comprarsi una Mercedes e per un costoso cane di circa 3mila euro. GoFundMe ha comunque assicurato che ogni tipo di illegittimità viene scoperta nel momento in cui le verifiche con il beneficiario dichiarato non vanno a buon fine. In questo caso, infatti, la campagna viene annullata e gli eventuali donatori rimborsati. 

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 2 luglio 2021. Più che le istituzioni, gli italiani preferiscono finanziare le storie. E Malika era la storia perfetta: una ragazza cacciata di casa dalla mattina alla sera perché aveva detto ai genitori di essere lesbica. In un batter di ciglia umide, furono raccolti centoquarantamila euro. Nella testa di chi glieli metteva a disposizione, dovevano servire a Malika per costruirsi un futuro, ma adesso si scopre che li ha usati per godersi il presente: ha comprato una Mercedes e un cane di razza. Così l'onda di commozione le si è rovesciata contro, tramutata in indignazione. I finanziatori hanno peccato d'ingenuità. Che cosa immaginavano che facesse, una ragazza di vent'anni appena arrivata a Milano, di tutti quei soldi che le piovevano addosso di colpo e senza fatica? Pensavano che li avrebbe accantonati per pagarsi gli studi e sottoscrivere fondi-pensione, e che nel frattempo si sarebbe accontentata di viaggiare in utilitaria e di portare al parco un trovatello del canile, come forse avrebbe fatto un adulto giudizioso? Gli eroi sono tali finché restano confinati nella dimensione aerea del racconto, ma appena toccano terra, dietro il mito spunta inesorabilmente l'essere umano con i suoi limiti, i suoi vezzi e i suoi vizi. Se era esagerato esaltare l'eroina, lo è adesso colpevolizzare la ragazza per non essere stata all'altezza dell'immagine artefatta che (con il suo aiuto) molti le avevano cucito addosso per pagarsi l'iscrizione al partito dei buoni.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 2 luglio 2021. Questo è ancora il Paese in cui due genitori, quando scoprono che la figlia di vent'anni è lesbica, la cacciano di casa. Questo è anche il Paese in cui, per quella giovane rimasta senza un soldo e senza nemmeno un cambio di biancheria, scatta una gara di solidarietà che raccoglie ben 140 mila euro. Fin qui, per ciascuna coscienza è facile sentire da che parte stare. Le cose si complicano quando la ragazza, Malika, di Castelfiorentino, usa parte dei soldi per comprarsi una Mercedes, sebbene Classe A, la più economica, sebbene d'occasione, a 17mila euro. Adesso, sui social, c'è chi le augura di andarci a sbattere contro un albero, con quell'auto. Lei dice al Corriere: «La gogna me la prendo tutta, ma chi mi ci mette non è migliore di me. A 22 anni nessuno ha fatto uno sbaglio?». Chiedi qual è lo sbaglio e lei: «Ho fatto una scelta affrettata. Magari dovevo trovarmi prima un lavoro». L'ha capito tardivamente e dopo un'uscita infelice: a Selvaggia Lucarelli che la intervistava su Tpi, aveva detto «mi sono tolta uno sfizio». Ora, Malika ritratta: «Sono stata travisata». Travisata come? Ha detto «sfizio» o no? Lei: «Io penso che le persone mi hanno donato dei soldi per la mia serenità». Insomma, la linea è quella dei pochi supporter che, sui social, dicono che la donazione non era fatta con la condizionale. Ma l'Italia che per Malika aveva messo mano al portafogli, si è sentita tradita perché lei aveva promesso di usare le donazioni per rifarsi una vita e fare beneficenza. La Mercedes non era contemplata. Peggio di tutto è stata la bugia: in principio, Malika aveva giurato che l'auto era dei genitori della fidanzata. Poi, si è scusata per la bugia: «Ero sotto pressione». La pressione era, in effetti, comprensibile. La storia di Malika, operaia in fabbrica ma in cassa integrazione, inizia a gennaio, quando scrive ai suoi confessando di amare una ragazza. La madre le invia trenta messaggi vocali di insulti. «Mi fai schifo, schifo, schifo!», le urla. E anche «spero ti venga un tumore, se ti vedo, t'ammazzo». Madre e padre le fanno trovare la serratura di casa cambiata. Lei, per cercare di recuperare le sue cose, va dai carabinieri. È così che la Procura di Firenze apre un'inchiesta per violenza privata. Arrivano, quindi, su Gofundme, le donazioni. Malika si trasferisce a Milano, va in tv da Bianca Berlinguer e da Maurizio Costanzo. Si fa amici vip. Il video alla guida della Mercedes compare sull'Instagram di Gaia, sorella di tale Tommaso Zorzi, uno diventato famoso facendo sciabolate di champagne in un docureality sui figli di papà intitolato #Riccanza. Questo è il Paese in cui per accedere al mondo dei vip o sei molto ricco e molto esibizionista o basta una sciagura qualsiasi, e in cui per rimanerci non puoi guidare una 500 usata. Non puoi avere per cane neanche un trovatello: l'ultima è che Malika ha comprato un French Bulldog da 2.500 euro. «Era un bene di prima necessità», ha detto sempre a Tpi. «Sono stata travisata», giura ora. Di nuovo. «Ho detto che il cane era un supporto psicologico. E poi: se i soldi mi sono stati donati, perché non vi va bene niente di quello che faccio?». Insomma, nella vita dell'operaia, ora, tutto è nuovo e anche le «pressioni» non sono più quelle di una volta. Non stupisce, si fa per dire, scoprire che, nel frattempo, si è procurata un agente e persino una portavoce. Poi, la portavoce, per mettere una pezza alla storia della Mercedes, combina un pasticcio peggiore: annuncia contatti con l'onorevole Laura Boldrini per la lotta contro le discriminazioni; ma Boldrini smentisce. Intanto, al Corriere, l'agente rivela di aver abbandonato l'incarico già prima del patatrac. Non vuole essere citato, ma è amareggiato: racconta d'aver aiutato Malika pro bono, che lei gli aveva fatto credere di volersi impegnare nel sociale. La Mercedes l'aveva insospettito, ma lei gli aveva giurato che non era sua. Sembrava una brutta, bella, storia di violenza, discriminazione e riscatto. Lei ancora la rivendica: «Sono una ragazza che ha perso i punti di riferimento e che qualcuno voleva mandare al Grande Fratello, ma ha detto no. Io voglio lottare per delle buone cause e, in Panda o in Mercedes, lo farò». Il tempo dirà se invece era il solito abbaglio da luccichio dei social, successo facile, riccanza.

Malika Chalhy, "cosa fece nel giugno 2019": sbugiardata pure dal fratello. Per lei ora si mette davvero male. Libero Quotidiano il 03 luglio 2021. Continua a tenere banco il caso di Malika Chalhy, che tra Mercedes, cane di lusso e telefonate con Selvaggia Lucarelli si è praticamente sbugiardata da sola. Cacciata di casa perché lesbica, la ragazza avrebbe marciato su questo aspetto ottenendo 140mila euro tramite una raccolta fondi organizzata per permetterle di “rifarsi una vita” e di pagare le spese di avvocati e psicologo. Invece Malika ha finora speso i soldi per soddisfare il proprio benessere: ha sbagliato dal punto di vista etico e morale, ma la colpa è di chi l’ha assecondata. Mentre la bufera social imperversa su di lei, il fratello Samir ha parlato a La Nazione e ha spiegato che non parla con la sorella da mesi. Però ci ha tenuto a condannare gli insulti e le offese che stanno piovendo su sua sorella: “Sono assolutamente sbagliati. Le persone dovrebbero stare zitte e invece giudicano senza sapere come stanno le cose. Questa vicenda doveva rimanere in famiglia fin dall’inizio. Non è stato giusto giudicare prima e non lo è nemmeno adesso”. Però parlando della Mercedes e del french bulldog, Samir ha ammesso che “tutto questo non mi stupisce, ho sempre pensato che Malika avesse usato gli audio di mia mamma per avere notorietà. Quegli audio con insulti erano e restano sbagliati - ha precisato - ma lei avrebbe potuto evitare di andare a vivere a Milano, la città più cara d’Italia per gli affitti. Ha sempre sognato la bella vita e i soldi, non a caso nel giugno 2019 fece dei provini per entrare a Uomini e Donne”. 

Malika Chalhy, "truffa aggravata". Chi la porta in tribunale: i soldi della beneficenza per Mercedes e cagnolino, la rovinano. Libero Quotidiano il 03 luglio 2021. Si mette male per Malika Chalhy, la ragazza cacciata di casa perché lesbica e aiutata attraverso due raccolte fondi, i cui soldi sono stati utilizzati per acquistare un'auto di lusso e un cane. A denunciare l'accaduto era stata per prima Selvaggia Lucarelli. Ora però si muove anche il Codacons, che annuncia di aver fatto un esposto alla magistratura "per la possibile fattispecie di truffa aggravata". Secondo l'associazione "la vicenda di Malika dimostra ancora una volta come nel settore regni l'anarchia: chiunque può chiedere soldi ai cittadini attraverso piattaforme come Gofundme, ma poi non c'è alcun controllo sulla reale destinazione dei soldi raccolti, e le stesse società che ospitano le campagne di solidarietà declinano qualsiasi responsabilità per eventuali usi non conformi dei fondi donati dai cittadini. Pertanto - si legge ancora - sul caso di Malika Chalhy abbiamo deciso di presentare un esposto alle Procure della Repubblica di Milano e Firenze, affinché avviino una indagine sulla vicenda alla luce della possibile fattispecie di truffa aggravata, accertando i fatti e le relative responsabilità anche nei confronti dei gestori delle piattaforme che ospitano le raccolte fondi, per omissione di controllo e concorso in eventuali reati che saranno ravvisati". A nulla sembrano essere serviti i tentativi di difesa della ragazza. Proprio nella giornata del 2 luglio, dopo la bufera sollevata, la giovane ha reso pubblici su Instagram i bonifici fatti a varie associazioni. Non solo, perché ha spiegato che l'auto fa parte "della ricostruzione della mia vita", mentre per lei il cane (un bulldog francese pagato 2.500 euro) altro non era che "un bene di prima utilità". Rimangono però ancora molti dubbi, uno dei quali sulla manager che ha affiancato la ragazza dopo il servizio de Le Iene e le varie apparizioni, da Maurizio Costanzo a Bianca Berlinguer.

DA adnkronos.com il 2 luglio 2021. "La Malika che cercate non sono io". Malika Ayane su Twitter deve mostrare la propria carta d'identità virtuale alle persone che hanno preso d'assalto i suoi profili e la sua mail. La cantante è stata scambiata per Malika Chalhy: la giovane toscana è al centro di grosse polemiche per aver lanciato una raccolta fondi dopo aver detto di essere stata cacciata di casa in quanto omosessuale, ed aver invece speso i soldi ricevuti per acquistare una Mercedes e altri beni non di prima necessità. "Cari #fulminidiguerra che mi intasate la mail e i social con insulti o espressioni di solidarietà, ho una notizia per voi: la Malika che cercate non sono io. Incredibile che nel 2021 ci siano più donne con lo stesso nome, eh? Che poi, se volete mandare messaggi d’amore siete i benvenuti -se d’odio un po’ meno ma avrete le vostre ragioni- purché siano per me stessa medesima. #sipuofare", scrive Malika Ayane.

Lo schianto dei buonisti beffati dall'idolo arcobaleno. Andrea Indini il 2 Luglio 2021 su Il Giornale. La sinistra cavalca la cronaca per imporci le sue crociate. Ma le polemiche sulla giovane cacciata di casa perché lesbica mettono ancora una volta in ombra la narrazione buonista. Lo scorso aprile, in pieno fermento pro ddl Zan, i buonisti crearono l'ennesimo simulacro per piegare l'opinione pubblica alla causa Lgbtqi+: Malika Chalhy. La 22enne di Castelfiorentino, cacciata dalla famiglia (musulmana più o meno praticante) dopo il coming out, divenne in breve tempo un altro simbolo della lotta all'omofobia. Le accuse mosse contro i genitori (rilanciate in tv dalle Iene) monopolizzarono il dibattito per qualche giorno nonostante il fratello Samir si sgolasse a dire che l'intero teatrino fosse stato messo in piedi "solo per soldi". Allora nessuno gli dava retta. In molti si fiondarono a sottoscrivere la donazione su Gofundme per "aiutarla a ricostruirsi una vita". Ora, però, sono tutti infuriati perché Malika ha usato parte dei 140mila euro raccolti per affittare un appartamento a Milano (e fin qui nessun problema) e togliersi qualche "sfizio" (come si è giustificata lei), ovvero una Mercedes nuova di zecca (una fiammante classe A), un bulldog da 2.500 euro e un po' di vestiti. E qui, di problemi, ce n'è più di uno. Oggi i buonisti sono tutti inorriditi. Si sentono presi in giro: hanno abboccato alla campagna di liberazione e sono finiti per schiantarsi contro i capricci di una 22enne a cui "piacciono i motori". A farli sbarellare è stato, tra le tante cose, anche il teatrino sui soldi da dare in beneficenza scoperchiato nei giorni scorsi da Selvaggia Lucarelli su Tpi. Prima ha detto che le sarebbe piaciuto fondare "un’associazione con la Boldrini, solo che la cosa va per le lunghe, lei non è stata bene". Peccato che non appena l'ex presidente della Camera è venuta a saperlo si è fiondata a smentire tutto: "Si tratta di una vera e propria fake news". Messa con le spalle al muro, Malika ha prima tirato in ballo la Fondazione Nadia Toffa, poi denunciato imprecisate "persone" che volevano costringerla "a donare al gruppo ospedaliero San Donato". Il commento di Matteo Salvini è stato lapidario: "Vergogna ne abbiamo?". La risposta alla domanda del leader del leghista oggi appare scontata. E probabilmente se la sta ponendo anche la sinistra che nelle scorse settimane ha innalzato Malika a nuovo idolo della battaglia arcobaleno. A metà maggio, in occasione della Giornata internazionale contro le discriminazioni di genere, c'era anche lei in piazza a Firenze accanto alle sigle che pretendevano (e pretendono tuttora) che "il ddl Zan venga immediatamente calendarizzato e approvato in Senato". "Amare una persona dello stesso sesso non è una malattia", diceva. Qualche giorno prima aveva presenziato pure alla manifestazione organizzata dai Sentinelli a Milano dove, tra i tanti, era accorso pure il piddino Alessandro Zan. "La famiglia tradizionale non ha colori, non ha orientamento sessuale - ha detto parlando dal palco - quindi approvate questo disegno di legge perché io come tante altre persone sono stata vittima di violenza verbale". Ad ogni uscita pubblica seguiva immancabilmente una copertura mediatica che fa invidia alle migliori influencer. Tanto che, come svelato alla Lucarelli, la 22enne è corsa a farsi affiancare da una ragazza che le fa da portavoce e da un agente che tratta i rimborsi quando va in tv. Una vera e propria star, insomma. Oggi la stella di Malika è in fase di spegnimento. Non è il primo idolo della sinistra a fare questa fine. Nelle settimane scorse (prima ancora che Enrico Letta imponesse agli Azzurri di inginocchiarsi a inizio partita) abbiamo assistito allo stesso schianto della fondatrice di Black Lives Matter, Patrisse Cullors, quando si è venuto a sapere che si era comprata una villa da 1,4 milioni di dollari in un quartiere di Los Angeles composto per l'88% da bianchi. I buonisti dovrebbero smetterla di cercare simulacri da sbattere sui giornali per far valere le proprie ragioni. Tranvate in questo senso le hanno prese sia quando hanno tentato di spacciare Seid Visin come vittima del razzismo italiano per promuovere lo ius soli sia quando hanno cavalcato il suicidio di Orlando Merenda per accelerare il via libera al ddl Zan. Già un paio di "incidenti" del genere avrebbero dovuto farli riflettere. Ma a quanto pare i buonisti non imparano mai la lezione.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvo…

Malika Chalhy dimostra che non basta essere vittima per diventare portabandiera di una battaglia. Flavia Piccinni l'01/07/2021 su Notizie.it. L'acquisto di una Mercedes e di un cane trasformano la vittima di omofobia in una delusione per chi l'ha trasformata nella portabandiera di una battaglia. Comprare una Mercedes (da 17mila euro). Comprare un cane (da quasi 2500 euro). Prendere una casa in affitto a Milano. Spendere i soldi ricevuti attraverso una raccolta fondi – dove si spiegava che sarebbero stati donati anche in beneficienza – non solo per ricostruirsi, ma per compiacersi. Permettersi dei lussi attraverso delle donazioni, esponendosi alle critiche, ma anche svilendo una battaglia (quella contro l’omofobia), deludendo chi ha partecipato alla raccolta fondi (esercitata attraverso due piattaforme online, e arrivata alla cifra affatto trascurabile di 150mila euro) e in qualche modo sprofondare da vittima in carnefice (di se stessi). Potrebbe essere questa la sintesi della parabola di Malika Chalhy, 22 anni, fiorentina. Prima vittima degli atteggiamenti omofobi dei genitori, dunque cacciata di casa dopo aver dichiarato il suo amore per un’altra ragazza, infine eletta a transitoria eroina contro l’omofobia. La recente primavera, la giovane si è infatti imposta all’attenzione dei media per la sua struggente storia, divenendo rapidamente simbolo dello sgomento italiano di fronte all’ennesimo esempio di violenza omofoba. Intervistata in molte trasmissioni, protagonista di numerosi show televisivi, ha raccontato il suo difficile vissuto, ha prestato la voce per cause simili e altrettanto dolorose, si è accompagnata ad agenti dello show business che evidentemente hanno provato a metterla a sistema come si fa con una starlette. Poteva essere una storia a lieto fine – la giovane sfortunata che riesce a ricostruirsi e a rimettersi in piedi – invece è diventata una storia sulla pochezza dei nostri tempi. A distanza di tre mesi dal primo interesse mediatico, la storia di Malika Chalhy ha infatti gloriosamente dimostrato due assunti elementari. Il primo è che entrare nel ciclone mediatico è un terremoto che in pochi sanno superare indenni. Il secondo, forse più elementare, è che vivere un’esperienza straordinaria – essere vittima di una storia infelice, o di quella storia essere carnefice – non ti trasforma necessariamente in un portabandiera. Per essere dei portabandiera, non è sufficiente aver sofferto. Per essere degli attivisti serve anche – soprattutto? – studiare, prepararsi, tenere un rigore reale. Anche quando la telecamera si spegne. Anche quando il tuo manager ti fa sembrare che non sia così. E ti salta in mente che forse, dopo aver tanto sofferto, puoi anche toglierti uno sfizio. Una macchina. Una casa nuova. Un cane che costa quasi il doppio del tuo vecchio stipendio. Dovremmo saperlo, però ci sorprendiamo ogni volta. Eppure quotidianamente ormai assistiamo alla nascita di mostri. Personaggi che vengono sbalzati dalle loro vite – più o meno semplici – alla ribalta nazionale, increduli per quello che stia accadendo loro (e, naturalmente, del tutto inadeguati a comprendere le conseguenze delle loro azioni). Negli anni la cronaca nera, esattamente come il gossip, hanno partorito diversi esempi di questo straordinario fenomeno di “ista-celebrity”, ovvero persone qualsiasi travolte da una popolarità repentina. Abbiamo assistito – forse all’inizio cinicamente divertiti, dunque spaesati, infine piuttosto disturbati – all’apoteosi di personaggi inadeguati che, assediati dai giornalisti, venivano invitati a parlare in diretta nazionale con la stessa frequenza con cui prima siedevano per chiacchierare al bar, erano scelti come testimoni di cause, dotati di manager televisivi in grado di gestirne l’immagine. Il fine era unico: trasformarli in piccoli eroi del quotidiano. La verità è che viviamo tempi di eroi ed eroine necessarie e fulminee, chiamate alla ribalta per ruoli molto più ingombranti e impegnativi di quelli che potrebbero sopportare. Nella lunga lista di eroine all’arrembaggio – dopo l’apoteosi di Asia Argento, da paladina del #metoo a presunta violentatrice – la storia di Malika Chalhy è solo l’ennesimo esempio, purtroppo, di una cultura vampirizzatrice e molesta. L’intervista di Selvaggia Lucarelli su TPI è la fotografia di un malessere più grande di quello che possiamo immaginare. Malika Chalhy traballa su molte verità – spiega di aver mentito sui proprietari dell’auto, definisce bene di prima necessità un cane di razza -, dunque corre ai ripari facendo dei bonifici per delle associazioni benefiche e postandone su Instagram le foto (dove le cifre sono nascoste), rilascia un’intervista a Fanpage in cui spiega: “in tutto io ho speso 55mila euro dei 140mila della raccolta fondi, e 14mila li ho dati in beneficenza (Fanpage ha visionato alcune ricevute di bonifico datate oggi, ndr)”. Quarantunomila euro in una manciata di mesi non è male, ed è naturale venire sommersi da critiche perché quei soldi avevano uno scopo ben lontano da togliersi degli “sfizi”. In ogni caso, la giovane cade in diverse contraddizioni, forse è consigliata male, alla fine decide – come sempre più accade in questo tempo in cui la comunicazione avviene su più livelli – di confidarsi su Instagram, dove la seguono quasi 100mila persone. Utilizza un linguaggio sempre più frequente sui social network, si rivolge al “suo pubblico” definendolo la sua “famiglia” che in quanto tale “merita tutta la trasparenza del mondo”, dice “vi voglio bene” e sottolinea come “da oggi voglio mostrarvi la persona che sono senza filtri mediatici, e quindi vi invito a chiedermi qualsiasi cosa”. Speriamo solo che questa storiaccia non incida sulla buona fede dei donatori, e resti per quello che è: l’immagine dolente di una ragazza giustamente immatura – considerata l’età -, e l’eccessiva necessità dei nostri tempi di cercare portabandiera in chicchessia. Almeno per quindici minuti di popolarità.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 giugno 2021. Da ogni fatto di cronaca, ogni volta, dobbiamo aspettare che si diradino le nebbie preventive dell'omofobia, del razzismo e della discriminazione: salvo scoprire che, una volta dissolte queste nebbie, la cronaca e il fatto nudo perdono interesse da parte del gregge massmediatico: non sono più rilevanti, manca il link con lo spirito del tempo, insomma chi se ne frega. Se non c' è discriminazione, in altre parole, la realtà viene discriminata. L' ultimo caso è quello del suicidio di un ragazzino omosessuale, che subito, di riflesso, è diventato un suicidio in quanto omosessuale, perché discriminato. Da chi? Boh, «qualcuno», «forse». Cioè: dei singoli suicidi non bisognerebbe neppure scrivere, non si contano le ricerche che dimostrano come le notizie dei suicidi, più di altre, possano essere fonte di emulazione; troppe persone hanno tratto linfa dal gesto altrui - di una celebrità come di uno sconosciuto - per compiere il proprio. È la ragione per cui sui giornali si tende a non parlarne (i suicidi sono migliaia ogni anno, e nelle grandi città la media è quasi due al giorno). Ma ecco che diventa eccezione il caso del povero Orlando Merenda, un diciottenne che domenica 20 giugno, a Torino, si è ammazzato gettandosi sotto un treno. Che cosa sappiamo, di certo? Che frequentava una scuola professionale (Engim) al pari di un bar in corso Vittorio Emanuele II, Cristalife. Che era un ragazzo tranquillo ma a tratti ansioso, come potremmo dire quasi di chiunque. Che, a domanda su come stesse, ha risposto «oggi sono un po' così». In questi casi, l' elenco degli aggettivi spesi dai testimoni si somigliano tutti: Orlando «riservato», «persona seria», «puntale e preciso», «un ragazzo splendido», «perfettamente a suo agio nell' ambiente scolastico», «i suoi compagni sono profondamente turbati», poi il corredo della solidarietà, e all' ingresso della scuola palloncini bianchi a forma di cuore legati stretti con un fiocco nero ai selfie scattati durante l' anno scolastico», e «fiori e striscioni che invadono il parapetto del cavalca -ferrovia dal quale si è gettato». Perché ne parliamo? Perché ne scriviamo? Perché Orlando Merenda ha fatto eccezione alla regola? Non c' è risposta: se non nel linguaggio giornalistico più ambiguo, il rapporto con il padre «conflittuale, con un genitore severo, poco incline a certi argomenti», l'omosessualità come «malessere interiore che non è più riuscito a dominare», al di là di quelle «menti chiuse che hanno la bocca aperta», come scriveva su Instagram. Apprendiamo che «Orlando non si sentiva completamente accettato», che «qualcuno gli rinfacciava la sua omosessualità», «altri potrebbero essersi approfittati delle sue fragilità quando ancora era minorenne», «aveva paura di qualcuno». Qualcuno. Potrebbero. «La polizia», si legge sul Corriere, «sta scandagliando la vita del ragazzo». Poveretto. «In un primo momento gli accertamenti si sono concentrati su omofobia e bullismo, ora si lavora su altre piste». Quindi ne esistono altre. Si parlicchia di un ricatto sessuale, addirittura di un fascicolo aperto per «istigazione al suicidio»: sta di fatto che le ragioni per cui il suicidio è sfuggito al citato e giustificato riserbo sono già cadute, forse non sono mai esistite, forse sono state solo il riflesso condizionato di una stampa idiota: come se la mente di un suicida non resti l'insondabile e l'imprendibile, come se fosse solo materiale all' ingrosso per alimentare le fobie della propria epoca. Povero ragazzo, povero amico e compagno, circondato da quella cricca impietosa chiamata genere umano. All'inizio del mese c'era stato il suicidio di un ragazzino nero, Seid Visin, a Nocera inferiore: e, pure, era subito diventato un suicidio in quanto nero, perché discriminato. L' orgoglioso distinguo di suo padre («Il razzismo non c' entra: basta speculare sul dolore di nostro figlio») spesso era stato impaginato a margine degli stessi articoli in cui il razzismo veniva appunto fatto entrare a forza, dove appunto si speculava sulla morte di un ragazzo. Perché non puoi fermare la macchina. Tutto si sfrutta. Tutto si tiene. 

Ddl Zan, “quelli di Bibbiano” rispuntano a Sassuolo: ora di gender in un liceo. L’ira di FdI. Redazione giovedì 1 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Dopo quelli di Bibbiano, questi di Sassuolo. Gira e rigira, la rossa Emilia si conferma laboratorio di ingegneria sociale. Ieri a Bibbiano attraverso una rete di assistenti sociali e psichiatri specializzati nel sottrarre bambini alle famiglie di origine per affidarle a coppie amiche, meglio ancora se omosessuali. Oggi a Sassuolo, schiudendo le porte del liceo Formiggini all’ideologia gender infiocchettata sotto forma del controverso ddl Zan. Peccato per loro che se ne sia accorto Marco Lisei, capogruppo di FdI in Consiglio regionale. Reca la sua firma, oltre a quella di Michele Barcaiuolo, l’interrogazione rivolta alla giunta Bonaccini, sebbene la competenza primaria sia in realtà del ministero. I firmatari, infatti, si sono limitati a chiedere al governo regionale «se non si ritenga sbagliato l’indottrinamento a scuola su un tema d’attualità come il ddl Zan». Tanto più, hanno sottolineato, che la “spiegazione” sull’argomento non ha registrato la presenza «di una controparte». In pratica, il solito confronto per solisti così caro alla sinistra soprattutto quando ha torto marcio nel merito del provvedimento. Eppure, e Lisei lo ha ricordato, esiste una norma della legge sulla cosiddetta “Buona scuola” che fissa il perimetro entro il quale è possibile per un istituto scolastico affrontare temi quali la «pari opportunità, la prevenzione della violenza di genere e le discriminazioni». C’è anche una nota del Miur del 2015 che vieta espressamente la promozione di «pensieri o azioni ispirati a ideologie di qualsivoglia natura». Altra cosa, infatti, è illustrare avendo cura di tener conto di tutte le voci. A Sassuolo è invece accaduto che un singolo docente organizzasse l’ora di indottrinamento su un argomento – il gender – espressamente escluso dal novero delle materie su cui confrontarsi. E, per giunta, senza neppure avvertire le famiglie. «In Gran Bretagna, a settembre – ha ricordato Lisei -, il dipartimento per l’Educazione ha bandito dalle scuole statali ogni tipo di insegnamento sull’identità di genere (vero punto fermo del ddl Zan, ndr) poiché pericolosa per i minori». In Italia invece le spalanchiamo le porte prima ancora che diventi obbligo di legge.

Francesco Grignetti per "la Stampa" il 6 luglio 2021. Due soltanto sono i punti fermi. Primo, oggi il presidente della commissione Giustizia, il leghista Andrea Ostellari, presenterà una sua riscrittura del ddl Zan sulla base degli emendamenti di Italia viva, Forza Italia e Lega; proporrà di ripartire da lì, per verificare se questa nuova versione (sostanzialmente ha cassato il riferimento all' identità di genere, tanto contestata; cancellata ogni ipotesi di reato d' opinione; e smussato l' obbligo per le scuole, statali o parificate, di organizzare iniziative contro la cultura dell' odio omofobo e transfobo) può avere una più larga maggioranza. In teoria potrebbe votarlo pure Giorgia Meloni. Da parte del Pd, M5S e Leu però gli verrà risposto che il testo non si tocca e che secondo loro bisogna andare avanti con il ddl Zan come approvato già alla Camera. Secondo punto, concatenato al primo: subito dopo la questione Ostellari, la maggioranza sarà chiamata a votare in Aula il calendario delle prossime sedute, e i partiti di cui sopra insisteranno che il 13 luglio si deve iniziare l'esame del ddl Zan; questo calendario sarà votato anche da Iv, non dalla Lega, e di conseguenza martedì prossimo al Senato si parte. Tutto il resto è puro caos. Matteo Renzi e i renziani insistono che nel muro contro muro sarà impossibile approvare alcunché. Per questo motivo si sono fatti protagonisti di una mediazione. Ma i toni si sono infiammati. E a sinistra si grida al tradimento. Peggio, alla collusione con Salvini. «Sulla vicenda Zan - replica Renzi - sta accadendo la stessa cosa di sei mesi fa sul Conte-Draghi: i social ci massacrano senza sapere di che cosa stanno parlando. Chi va ControCorrente (citando il suo libro in uscita, ndr) fa politica e ottiene risultati. A distanza di mesi, ci stanno dando ragione su Draghi. Ma anche su molto altro». E comunque il clima si è fatto pesante. «Sto ricevendo - dice ancora Renzi - insulti, minacce, auguri di morte. Questo in nome della tolleranza. La tolleranza degli intolleranti, per recuperare un concetto di Pasolini. Io ho firmato la legge sulle Unioni Civili, mettendo la fiducia dopo che gli altri avevano solo fatto convegni e progetti a vuoto. Non prendo lezioni da chi usa i diritti come bandierine, senza ottenere risultati: io i diritti li allargo, davvero. Ma servono le riforme, non i tweet». Gli «altri» a cui accenna, sono forse Enrico Letta e i dirigenti attuali del Pd? Il rapporto tra i due è tornato ai minimi. Dice Letta, ospite di Concita De Gregorio e David Parenzo su La 7: «Si dice che queste battaglie identitarie non portano consenso? Ma se facessi le cose perché voglio lo 0,2% nei sondaggi del pomeriggio, farei uno sbaglio. Gli italiani daranno un giudizio alla fine, quando si voterà, sulla serietà. Per esempio, sul fare dell'Italia un Paese completamente europeo quanto al rispetto e tolleranza, che punisce severamente i reati d' odio. Ripeto: il giudizio si vedrà alla fine, e la coerenza sarà molto importante». Matteo Salvini a questo punto fiuta ormai il successo: «Spero che non si ostinino a andare fino in fondo. Se la legge viene affossata, il signor Letta se ne prende la responsabilità». E insiste: «Quello che non va nel ddl Zan - dice il leghista, intervistato a Radio Radio - è la parte ideologica. Che è contestata non solo da Salvini, ma dal Santo Padre, da associazioni di femministe, di gay e lesbiche, da costituzionalisti. Un' ideologia che prevede reati di opinione e carcere per chi ha una certa idea di famiglia, che non pretendo sia quella giusta, ma che deve avere la libertà di confrontarsi con altri». Ripete invece Letta: «Salvini non vuole questa legge; l' ha sempre detto. Il suo alleato principale in Europa è Orban, e lo stanno sanzionando per i passi indietro su questo tema. Ma la Lega è stata coerente. Non capisco la posizione di Italia viva: alla Camera hanno fatto un lavoro importantissimo, e poi improvvisamente hanno cambiato posizione. Nel momento in cui Renzi si sfila e si copre dietro il problema del voto segreto, io dico: il Pd non chiederà mai il voto segreto».

Ddl Zan, Pietro Senaldi contro Enrico Letta: "Robe che neanche Orban, perché è lui il vero nemico degli omosessuali". Libero Quotidiano il 05 luglio 2021. Secondo Pietro Senaldi, condirettore di Libero, il vero nemico degli omosessuali è Enrico Letta. Nel suo video editoriale di oggi spiega che "il Partito democratico ha questo progetto di legge contro l'omotransfobia, ma la maggior parte degli italiani e del parlamento ritiene che, più che difendere gli omosessuali, la legge Zan limiti la libertà d'espressione. E così da destra e da sinistra sono piovuti emendamenti o progetti di legge alternativi per modificarli. Sono tutti disponibili a fare una legge che dia una stretta a chi insulta o usa violenza contro i gay, ma la maggioranza del parlamento non vuole la legge Zan". "La posizione di Enrico Letta e del Pd", prosegue Senaldi, "è: o legge Zan o non se ne fa nulla". "Siamo ancora in democrazia e il parlamento si preoccupa di fare leggi che tutelino le minoranze", tuona il direttore, "ma le leggi della democrazia impongono che ci sia una maggioranza parlamentare per fare queste leggi. Letta se ne frega, pensa che con il suo 18% può disporre e fare leggi etiche, cosa che non fa neanche Orban. Alla fine", conclude Senaldi, "dopo tanto strepitare in favore degli omosessuali, il vero ostacolo a una legge che limiti le violenze contro di loro e punisca severamente chi le fa è il Pd di Enrico Letta".

La controversa interpretazione del concetto di identità di genere nel ddl Zan. Giuliano Cazzola il 6 luglio 2021 su L'Inkiesta. Il testo contro l’omotransfobia presentato dal deputato del Partito democratico rende a norma di legge ciò che viene percepito, ovvero l’orientamento sessuale, mentre ciò che è platealmente reale, il sesso della persona, si trasformerebbe in un’opinione soggetta a prevaricazioni e definizioni fuorvianti. Non vedo sostanziali differenze tra il gender e il terrapiattismo. Anzi; poiché ambedue i casi si basano sulla percezione mi sembra più comprensibile ritenere che Terra sia piatta (l’umanità lo ha creduto per secoli), piuttosto che non riconoscere le differenze (visibili e intuitive) che da miliardi di anni distinguono in tutti gli esseri viventi il maschio dalla femmina. E sono le differenze che consentono di procreare. Da questo vincolo non si sfugge, nonostante tutti i surrogati e le diavolerie che una scienza, un po’ disumana e mercificata, ha incentrato per sottrarre il concepimento alla Natura. È lontano il tempo in cui, agli studiosi di diritto costituzionale comparato, veniva spiegato che il Parlamento del Regno Unito poteva legiferare in tutti i campi, ma non gli era consentito di trasformare l’uomo in donna e viceversa. Tuttavia, come dicevano i versi di una vecchia canzone: «Cambian con la moda gli usi e le tradizion». In quell’Europa in cui si aggirava, nel XIX secolo, il fantasma del comunismo, oggi siamo chiamati a fare i conti con una nuova visione della biologia e dell’evoluzione, assolutamente priva di basi scientifiche. Almeno Darwin aveva concepito le sue teorie, non conformi al libro della Genesi, osservando i fenomeni naturali delle Isole Galapagos; mentre William King aveva individuato il lungo processo evolutivo che in milioni di anni risaliva dall’Uomo di Neanderthal all’Homo sapiens (non abbiamo approfondito la questione del cosiddetto anello mancante), basando le sue teorie su dati reali come la forma degli oggetti e i disegni sulle pareti delle caverne. Ma su che cosa si basa, invece, il concetto di gender? I suoi sostenitori – va loro riconosciuto – rifiutano i concetti di dottrina e di teoria; inoltre chi volesse documentarsi deve sapere che nel corso degli anni, si sono sviluppati diversi approcci, elaborazioni e studi sul genere, ognuno dei quali ha approfondito un aspetto dell’intera questione: è quindi plausibile che non esista in realtà un pensiero organico sul gender (come dicono al di là della Manica) che possa assurgere a teoria o a dottrina. Certo, come quel personaggio di Molière che all’improvviso si accorge «di aver fatto sempre della prosa», alcuni possono formulare dottrine e teorie a loro insaputa. Ma è nostra intenzione evitare una guerra di parole. Poiché da noi – la Patria del diritto – è in discussione al Senato, dopo una prima lettura della Camera, un disegno di legge noto col nome di Alessandro Zan del Partito democratico, suo primo firmatario (in realtà si tratta di un testo che ne ha unificati altri) attingiamo da lì le definizioni che potrebbero esserci imposte con il potere della legge. Non è necessario impegnarsi nell’interpretazione dei 10 articoli che compongono il ddl, anche perché sono tante le spiegazioni dei sostenitori come se parlassero a nome dei giudici che saranno chiamati a sanzionare le violazioni. Basta citare l’articolo 1 dal titolo indicativo di “Definizioni” che ci autorizza a usare questo termine anche per il gender.

1. Ai fini della presente legge: a) per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione.

Sulla base di queste coordinate, il ddl Zan è presentato come un deterrente all’omotransfobia (è un obiettivo sicuramente encomiabile) e come un ampliamento dei diritti civili. Premesso – ma non è questo il caso – che per un certo «dirittismo» (copyright di Alessandro Barbero) ricorda spesso un verso di Dante (libito fé licito in sua legge), è sicuramente un diritto civile esprimere il proprio orientamento sessuale anche attraverso il riconoscimento di rapporti giuridici più solidi di quelli attualmente previsti, pur continuando ad appartenere al sesso biologico denunciato all’anagrafe (a meno che non si segua la procedura molto più complessa della trasmigrazione sessuale) che non toglie o aggiunge nulla al diritto di provare, in piena libertà, «attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi». Che omosessuale è una persona, creata uomo, che per andare a letto con un’altra dello stesso sesso deve percepirsi come donna? Se l’orientamento sessuale viene difeso dalla legge, per quale motivo la teoria dell’identità di genere (ovvero «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione») deve trovare posto, in modo arbitrario e truffaldino, nell’ordinamento giuridico alla stregua di un valore comune? Determinando così una vistosa contraddizione: quanto viene percepito diventerebbe reale a norma di legge, mentre ciò che è platealmente reale (il sesso) si trasformerebbe in un’opinione, magari un po’ retrò e a rischio di essere ritenuta una prevaricazione.

Alessandro Rico per "la Verità" il 5 luglio 2021. Storica, professoressa di storia contemporanea all' Università La Sapienza di Roma, Lucetta Scaraffia è membro del Comitato nazionale di bioetica. Da anni scuote l'establishment accademico e culturale per le sue posizioni tanto acute, quanto refrattarie ai dogmi del pensiero unico. Femminista, ma anche cattolica, risoluta oppositrice di certe derive dell'ideologia arcobaleno. Qualche giorno fa, ha suscitato vivo interesse un suo editoriale sul Quotidiano Nazionale, in cui difendeva il diritto della Chiesa d'intervenire sulla delicata e divisiva questione del ddl Zan.

Professoressa, erano anni che non si sentivano più lamentele sull'«ingerenza» del Vaticano negli affari politici italiani. Crede che la nota verbale sulla legge contro l'omotransfobia fosse legittima?

«Sì, perché era una nota di tipo giuridico e diplomatico. E aveva a che fare solo ed esclusivamente con il rapporto tra due Stati. Qualcuno, invece, l'ha erroneamente scambiata per una nota di tipo morale». 

È un problema il fatto che si stia cercando di conferire sanzione normativa a una concezione filosofica e antropologica - l'identità di genere?

«Sì, secondo me è un problema. Soprattutto se poi vengono puniti quelli che non condividono quest' ideologia. Perché, semmai, è proprio la libertà di pensiero ed espressione a costituire la base di tutti i diritti». 

Esiste, quindi, il pericolo che, in virtù del ddl Zan, si sottopongano le opinioni a una sorta di scrutinio giudiziario?

«A mio avviso, sì. Questo pericolo esiste». 

In una recente intervista, lo stesso Alessandro Zan, nel tentativo di sottrarre la legge a questa obiezione, ha praticamente dettato al sacerdote ciò che può dire e non può dire durante un'omelia.

«Non ricordo questo episodio in particolare, ma è una cosa che non mi meraviglia».

No?

«Nell' articolo 4 del ddl Zan, c' è una clausola che ribadisce la punibilità delle opinioni che integrerebbero il "concreto pericolo" che si compiano discriminazioni o violenze». 

Quindi?

«Decidere cos' è che incita alla violenza e cosa no rimane una prerogativa del magistrato. E questo è molto pericoloso». 

Sembra che, nonostante le forti resistenze del Pd di Enrico Letta, si stia aprendo uno spiraglio di mediazione politica. Italia viva, ad esempio, propone di convergere su un testo che elimini i riferimenti all' identità di genere, cassi l'articolo 4 e, quanto alla giornata sull'omotransfobia, che andrebbe celebrata nelle scuole, ribadisca l'autonomia degli istituti. 

Crede sia un compromesso accettabile?

«Mi sembra di sì, perché si eliminerebbero i rischi più gravi. Dopodiché, io ho proprio una posizione diversa». 

Cioè?

«Ho un'idea antica: penso che ai bambini si debba insegnare il rispetto dell'altro in generale: di ogni persona, di ogni essere umano». 

E invece, cosa si cerca di fare?

«Qualcuno è convinto che si debba insegnare il rispetto per categorie: i disabili, gli omosessuali... Alcune categorie sono protette e vanno rispettate. E gli altri? La trovo un'idea profondamente sbagliata».

I critici vanno oltre: sostengono che sia in atto un tentativo di manipolare i bambini e di conculcare la libertà educativa delle famiglie. Sono ansie giustificate?

«Guardi, tutto sommato credo che nella realtà quotidiana queste cose non succedano così di frequente. Quelle sono posizioni ideologiche che, per fortuna, hanno poco a che fare con la realtà delle scuole». 

Esiste l'ideologia gender? Chi ne propugna i principi, al contempo, lo nega.

«Esistono tante forme di questa ideologia. E alcune sono anche forme positive di attenzione all'appartenenza a un genere sessuale».

Ad esempio?

«Io sono una storica. Una volta si faceva storia senza distinguere gli uomini dalle donne.

Adesso, oltre che studiare gli avvenimenti di cui erano protagonisti gli uomini, ci si deve interrogare anche su quale fosse la condizione femminile in quel dato periodo. Mi sembra buono e giusto». 

La «diversità» è diventata una specie di dogma. A ben vedere, però, promuovere l'annullamento delle differenze sessuali significa scivolare proprio dalla «diversità» alla «fluidità». Non sono due concetti antitetici?

«Sì, sono due cose diverse. Ma anche in questo caso, ho la sensazione che siano elaborazioni teoriche che nella realtà della vita non hanno alcuna presa. Sono posizioni ideologiche a cui nessuno presta veramente attenzione».

Nel suo editoriale sul Qn difendeva - cito - «una verità che è sotto gli occhi di tutti», ovvero, «che i desideri trovano un limite nella realtà». Intende dire che siamo esposti a una specie di dittatura del desiderio?

«Senz'altro: ne sono convinta». 

E da cosa scaturisce?

«È una forma tipica del nostro tempo. I desideri sono sollecitati continuamente per via del consumismo. E questa continua sollecitazione ci convince che abbiamo diritto a tutto». 

È da questo paradigma filosofico che originano anche pratiche come l' utero in affitto?

«Sì. Tra l' altro, io sono una delle più impegnate contestatrici dell' utero in affitto. E ci ho scritto un libro contro, La fine della madre».

Riflettiamoci su un secondo. I gay pride invocano il libero accesso a tutte le tecnologie riproduttive. In Francia è stata appena approvata una legge che consente la fecondazione eterologa a coppie lesbiche e donne single. 

In Spagna, la ley trans ha ridotto mamma e papà a persona «incinta» e individuo «non gravido». Non le pare sia in atto una rimozione della figura del padre?

«Al contrario: a me sembra che si tratti piuttosto di una cancellazione della figura della madre».

Perché?

«Quello della madre diventa una specie di lavoro pagato, con uno spezzettamento tra la donna che vende gli ovuli, quella che vende l'utero e quella che paga per avere il bambino. È soprattutto una distruzione della figura della mamma». 

Ma chi è che spinge per quello che, a questo punto, è un vero e proprio sconvolgimento della natura umana? E perché?

«La logica sottesa è sempre quella: la pretesa di avere tutto ciò che si desidera, anche quando non si è donne. È la volontà di appropriarsi della specificità delle donne: il loro potere generativo. E poi c' è un altro aspetto».

Quale?

«Mi sembra che l'obiettivo finale sia quello di distruggere le identità sessuali». 

In che modo?

«Siccome l'identità femminile si fonda sulla maternità, se uno fa a pezzi la maternità, distrugge anche la femminilità». 

Si può trovare un punto di equilibrio tra l'ascolto del disagio di chi non si identifica con il proprio genere sessuale biologico e la necessità di difendere, in ogni caso, un'elementare verità antropologica, cioè che esistono uomini e donne?

«Si può trovare benissimo. Basterebbe lasciare ogni persona libera di scegliere il comportamento sessuale che preferisce, senza che questo debba avere a che vedere con la sua identità sessuale. Al netto di quei casi patologici di confusione dell'identità sessuale, che sono rarissimi».

Un'altra questione dibattuta è la transessualità infantile. Siamo su una china pericolosa?

«Come sa, faccio parte del Comitato nazionale di bioetica e abbiamo scritto un documento proprio su questo tema: le cure ormonali sui ragazzi giovani che percepiscono un'incertezza quanto alla loro identità sessuale». 

Chiedete prudenza nei loro confronti?

«Di più: fino alla maggiore età siamo contrari a queste terapie. Ma io stessa, nella mia esperienza personale, ho notato che c'è una preoccupante tendenza a intervenire molto precocemente con cure ormonali che possono danneggiare gravemente il loro sviluppo e la loro personalità».

Ci sono commentatrici femministe secondo le quali il mondo Lgbt è misogino. È vero?

«Credo di sì». 

Perché?

«Be', in fondo, quella intorno alla maternità è una lotta per il potere, che è sempre costata molto alle donne - è costata l'oppressione. Chi non ha la capacità di generare la vita, cerca di toglierla anche a chi ce l'ha». 

Le persone Lgbt hanno sicuramente patito discriminazioni. Oggi, però, si stanno trasformando in soggetti prevaricatori, peraltro con l'appoggio del cosiddetto woke capitalism, del potere politico e dei media?

«Questo è successo sempre nella storia. Non mi stupisce per niente».

Le due cose, però, sono in contraddizione: se è perseguitata, una minoranza non può avere dalla sua il capitale, il potere politico e il mainstream mediatico.

«Il fatto è che questi gruppi non accettano che la mentalità delle persone abbia bisogno di tempi lunghi per cambiare. La gente non cambia a comando. Se costoro usano quelle leve per forzare i cambiamenti, è perché non riescono a tollerare che per ottenerli serva del tempo». 

“Il dogma gender non si discute”. Gli esperti rossi in audizione in Parlamento fanno muro. Carlo Marini giovedì 8 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Arrivano tristi conferme dall’audizione (in videoconferenza alla Commissione Infanzia della Camera) sulle pratiche della transizione di genere dei soggetti minori di età. Il dogma gender regna anche tra gli addetti ai lavori. Ne scrive oggi il quotidiano La Verità, citando la seduta della commissione parlamentare per l’Infanzia presieduta dal leghista Simone Pillon, convocata per far luce su quelle linee guida che avevano suscitato clamore sia per l’impostazione – favorevole al «cambio di sesso» dei minori con disforia di genere -, sia per le prese di distanza da parte della Regione e dell’Azienda ospedaliera San Camillo Forlanini di Roma. Il quotidiano riporta a mo’ di esempio, l’intervento del dottor Luca Chianura. Il responsabile di Psicologia clinica presso il SAIFIP (Servizio di adeguamento tra identità fisica ed identità psichica) del San Camillo Forlanini di Roma. «Mi trovo un po’ a disagio, non capisco qual è il senso di questa audizione», ha detto il dottor Chianura. Mistero fitto anche sul rapporto, avviato dal 2005, tra il Saifip e il Tavistock, l’ospedale britannico che ha seguito centinaia di «cambi di sesso» di minori. Tutto questo prima di finire al centro di uno scandalo giudiziario. Sono diverse le denunce di ex medici e di ex pazienti, che hanno denunciato d’essere stati prematuramente avviati all’iter di riassegnazione sessuale. Lo stesso Chianura da una parte ha preso le distanze dalla struttura britannica («noi abbiamo un protocollo diverso»), ma dall’altra al Tavistock ha riservato parole d’encomio: «È ancora oggi il punto di riferimento per tutti i servizi dell’età evolutiva del mondo». Si è alzato un muro di gomma anche quando i commissari hanno chiesti ragguagli sulla collaborazione del Saifip con lo psichiatra Domenico Di Ceglie, che del Gids è stato direttore e che risulta vicino al gruppo autore delle linee guida laziali. Linee che vorrebbero imporre il ddl Zan di fatto. «Di Ceglie è uno dei massimi esperti della sua disciplina», ha minimizzato la psicoterapeuta Maddalena Mosconi, responsabile “Area Minori” del SAIFIP presso l’A.O. San Camillo Forlanini di Roma. Un buco nell’acqua anche quando i membri della Commissione Infanzia hanno citato il caso di Keira Bell, trans pentita, che ha citato i medici inglesi per danni. “Un caso isolato”, hanno tagliato corto gli esperti. Guai a mettere in discussione il dogma gender.

Maria Teresa Martinengo per "la Stampa" l'8 luglio 2021. Il primo caso è arrivato nel 2005, il secondo nel 2007, un altro due anni dopo. Poi sempre di più, fino a contarne 37 nel triennio 2019 - 2021 e 162 in totale. È la crescita esponenziale delle famiglie con bambini, bambine, ragazzi o ragazze con disforia di genere che si sono rivolte ai servizi torinesi dedicati, quelli che possono aiutarle nell' accompagnare i loro figli e figlie a comprendersi e a seguire il percorso che in una minoranza di casi, nella maggiore età, può portare al cambiamento di sesso. Chi vive questa condizione non percepisce la sua identità di genere come corrispondente all' assegnazione avvenuta alla nascita. Le prime famiglie si sono rivolte al Cidigem, il Centro Interdipartimentale Disturbi Identità di Genere dell'ospedale Molinette, mentre dal 2009 è entrato in funzione l'ambulatorio Varianza di Genere dell'ospedale infantile Regina Margherita, entrambi appartenenti alla Città della Salute e della Scienza di Torino, i cui medici e psicologi collaborano e si confrontano. Di questi tempi molto si discute di «identità di genere», ma rispetto ai minori la questione emerge soprattutto attraverso vicende drammatiche. L'ultima, poche settimane fa, dolorosissima, è stata quella di Orlando Merenda, diciottenne torinese, morto suicida sotto un treno. «La domanda di aiuto da parte delle famiglie oggi è diventata molto più frequente che in passato, e i centri, con le forze che hanno, sono sommersi», racconta Damiana Massara, psicologa, coordinatrice del Gruppo di lavoro minorenni del Cidigem (che accoglie dai 16 anni) e coordinatrice della Commissione Minorenni dell'Osservatorio Nazionale sull' Identità di genere a cui fanno riferimento quasi tutti i centri italiani dove è possibile effettuare l'intervento chirurgico. «L' osservazione dei 162 casi dice qualcosa: 100 sono minori "assegnate femmine alla nascita", 62 sono "assegnati maschi". Un tempo si diceva maschi o femmine "biologici". Quando abbiamo cominciato - prosegue Massara - era il contrario, arrivavano più maschi. Le famiglie erano spaventate, si preoccupavano per loro, la condizione delle femmine aveva meno risonanza. Nel tempo è cresciuta la sensibilità e oggi arrivano le femmine». In questo momento sono 16 le famiglie che attendono un primo colloquio al Regina Margherita. Per la dottoressa Massara non ci sono cause «sociali» per questo aumento. «I casi sono tanti perché il servizio è conosciuto dai pediatri, dagli psicologi, dalle stesse famiglie. Noi ne parliamo in tutti i corsi che teniamo. Il problema è sempre esistito - osserva la psicologa - ma ora viene affrontato e chiamato col suo nome. Cambiamento significa riconoscimento della dignità, del rispetto. Tanti bambini e ragazzi che non si sentono "nella norma" si isolano, non vanno più a scuola, hanno paura di essere evitati, temono il bullismo. Il punto è riconoscere il loro travaglio, assicurare loro lo spazio nella società, nella scuola». La neuropsichiatra infantile Chiara Baietto, che coordina l'ambulatorio del Regina Margherita, parla di «un percorso decisamente lungo, che per qualche bambino può incominciare a 2-5 cinque anni, ma l'età media è 14-15 anni, ed è differente da caso a caso. Le famiglie ci presentano il problema di un figlio che non si sente di appartenere al sesso assegnato e chiedono una consulenza. Sono famiglie attente, non liquidano la cosa proibendo comportamenti, ma cercano di capire». Con i più piccoli lavoriamo per eliminare le paure in loro e nella famiglia, facciamo prevenzione delle psicopatologie. Naturalmente, più i bambini e i ragazzi crescono in un ambiente sereno, meno cadono in ansia, depressione, meno mettono in atto tentativi di suicidio o forme di autolesionismo, molto comuni in questi casi». La dottoressa Baietto spiega che «spesso il bambino o la bambina, il ragazzo o la ragazza si sentono "strani". Per questo il percorso per comprendere è molto lungo, capita che i ragazzi non sappiamo inquadrare il loro problema e vadano per tentativi, vedono magari una persona transgender su internet e dicono "forse sono così". Arrivando poi alla pubertà, solo un terzo conferma la disforia di genere». Ancora: «La pubertà è il momento spartiacque. Se dopo l'inizio l'adolescente si vive male si può intervenire con i farmaci bloccanti, per dare ancora tempo al ragazzo o alla ragazza per considerare cosa è meglio per lui o lei. Dai 16 anni si può avviare la terapia con ormoni che inducono il sesso desiderato. La transizione non è certamente una scelta facile. Tutto il percorso è molto complesso, comunque si risolva. Per questo in tutta Italia i servizi dovrebbero essere più strutturati e numerosi».

Da "liberoquotidiano.it" il 10 luglio 2021. Tutta la follia gender riassunta dalla storia di Keira Bell, trans inglese che ha cambiato sesso a soli 23 anni. Nata femmina, è diventata maschio e oggi, a 23 anni, ha fatto causa alla clinica Tavistock and Portman NHS Trust di Manchester, dove è stata operata perché a suo dire i medici non le avrebbero spiegato nel dettaglio tutte le implicazioni e le ripercussioni di una scelta così radicale, maturata da adolescente. Keira ha raccontato al sua storia al seguitissimo show mattutino Good morning Britain del canale Itv: "Non si possono prendere decisioni simili a 16 anni, così in fretta. I ragazzi a quell’età devono essere ascoltati e non immediatamente assecondati. Io ne ho pagato le conseguenze, con gravi danni fisici. Ma così non va bene, servono cambiamenti seri". "Era il percorso sbagliato", ammette ora la ragazza diventata ragazzo. "Ero molto depressa da ragazzina, non mi sentivo a mio agio nel mio corpo da donna e così ho sviluppato presto una disforia di genere", riconosce la 23enne, che accusa poi le autorità sanitarie: "Non c’è stato un vero esame psichiatrico nei miei confronti, è stato tutto così rapido e basato sul mio passato. Non c’è mai stata una vera discussione: i miei sentimenti dovevano essere scandagliati e non semplicemente accettati per quello che erano. Perché quando inizi il percorso, poi è molto complicato tornare indietro". Con buona pace di chi crede che la vita si possa decidere già quando si è ancora bambini, come fosse semplicemente una scuola da cambiare nel caso non andasse come sperato.

Si fa presto a dire Zan, la clinica inglese dei gender riconosce: “Certi cambi di sesso affrettati”. Luisa Perri mercoledì 7 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Sul palmo della mano al posto del Ddl Zan dovrebbero scrivere Keira Bell. E’ il nome della trans pentita, che a 16 anni fu indotta a cambiare sesso. E che ora ha fatto causa alla clinica britannica Tavistock, considerata la Mecca dei minorenni gender. 

Il caso di Keira Bell, trans “pentita”. Keira, nata biologicamente di sesso femminile, da bambina si è sentita uomo. Così, ad appena 16 anni, ha deciso di cambiare sesso. La clinica a cui si è rivolta, la Tavistock and Portman NHS Trust, ha approvato abbastanza velocemente la sua decisione di intraprendere il suo percorso transgender. Ora, però, Keira, che nel frattempo di anni ne ha 23, si è pentita della scelta fatta, accusando le autorità mediche di aver “acconsentito troppo presto al desiderio di cambio di identità e di genere”. “Ero troppo giovane per decidere, non dovevano assecondarmi. Non si possono prendere decisioni simili a 16 anni, e così in fretta. I ragazzi a quell’età devono essere ascoltati, e non immediatamente assecondati”, ha dichiarato Keira a Good Morning Britain su Itv.

Le dichiarazioni allarmanti dalla clinica di Londra. Per il trattamento dei casi della cosiddetta disforia di genere la clinica di Londra è un punto di riferimento in Europa. In questo centro bambini e ragazzi, in un’età compresa fra i 24 mesi e i 17 anni, vengono sottoposti a terapie per cambiare sesso. Dal 2014 al 2019, sono stati 2.500 tra bambini e adolescenti e il fenomeno è in aumento. Uno psicologo che ha lavorato presso la stessa clinica Tavistock, ha confidato al Times dei suoi timori che la clinica stesse eseguendo una “terapia di conversione per bambini gay”. Il dottor Matt Bristow ha affermato di temere che la clinica Tavistock e Portman NHS stesse ignorando la possibilità che i ragazzi e le ragazze che hanno affermato di voler cambiare sesso possano essere semplicemente gay. L’affermazione di Bristow è emersa nelle dichiarazioni dei testimoni per Sonia Appleby, una psicoterapeuta responsabile della salvaguardia dei bambini presso la clinica per l’identità di genere, che sta facendo causa alla fiducia. La scorsa settimana ha detto a un tribunale del lavoro di essere stata “denigrata” per aver sollevato preoccupazioni sulla sicurezza dei bambini sottoposti a trattamento, che includeva la clinica che segnalava bambini di appena 12 anni per farmaci che bloccavano la pubertà. Come riferisce Panorama, un’indagine interna, voluta dal dottor Dinesh Sinha, a capo del Tavistock and Portman Nhs Trust ha raccolto “decine di testimonianze di medici e infermieri, tutti dubbiosi sull’effettiva moralità dei trattamenti ormonali per bambini e bambine affetti da presunta disforia di genere. Bambini magari depressi, anoressici o autistici o semplicemente incerti, incoraggiati a una transizione senza ritorno. Il tutto in nome di una tendenza, di una propaganda. Anzi, forse di una moda”. E mentre in Gran Bretagna si riconoscono gli errori qui, con le lezioni di transomofobia imposte con la legge Zan, si vorrebbe fare lo stesso. 

La Ferragni parla del Ddl Zan, ma sa di che cosa parla? Il caso di Keira non è l’unico, in merito ai danni fisici procurati dagli ormoni bloccanti.  Come riporta il sito Provita e famiglia, l’endocrinologo Michael Laidlaw, ha pubblicato sui Social i dati sulla fascia d’età dei giovani transgender, ai quali erano stati somministrati i farmaci, in età compresa tra i di 12 e i 15 anni. Lo studio in questione, come spiega Laidlaw, avrebbe confermato una “massiccia diminuzione della densità ossea di questi pazienti rispetto ai loro coetanei”, tramite un grafico che ne mostrava la diminuzione graduale nel tempo, soprattutto sulla spina dorsale. Quello che la Ferragni di turno non dice è che si fa presto a scrivere “Ddl Zan” sul palmo della mano. Tornare indietro, per molti bambini e ragazzi, sarebbe troppo tardi. 

Fratoianni e Fassina compagni contro. Ma sul Ddl Zan ha torto il primo e ragione il secondo. Francesca De Ambra mercoledì 7 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Nicola Fratoianni non riesce a farsene una ragione. Ha letto dei seri dubbi di Stefano Fassina circa la costituzionalità del ddl Zan e l’ha presa quasi come un fatto personale. Leggere, per conferma, quel che ha scritto sull’Huffington Post. Più che un ragionata disamina, la sua è una raffica di anatemi all’indirizzo di chiunque osi dissentire dal testo sull’omotransfobia all’esame del Senato. Passi per la destra, che «ha sempre paura di ogni libertà», e transeat pure per Renzi, da cui «viene il solito opportunismo di purezza», ma non per Fassina. Qui il tono di Fratoianni, da ironico e leggero si fa accorato e ferito. Bolla come «confuse e infondate» le sue parole per poi inerpicarsi lungo un sentiero irto di spigolature giuridiche che il leader di Sinistra Italiana avrebbe fatto meglio a scansare che ad affrontare. E sì, perché lui è uno di quelli per i quali la legge è un’insieme di concetti moralistici incollati da più o meno belle parole. E quella magica, per lui come per tanti compagni della sua parrocchietta, è “diritti“. E perciò non si capacita del come del perché a Fassina sia saltato in mente di definire l’identità di genere, così come formulata nell’articolo del ddl Zan, cioè accostata all’orientamento sessuale, «un veicolo per un progetto ideologico». Orrore. «È piuttosto il contrario», sentenzia Fratoianni con l’aria di chi la sa lunga. Per lui, infatti, chi vuole rimuovere l’identità di genere lasciando nel testo il sesso, il genere e l’orientamento sessuale «sta tentando di affermare il valore generale e universale di un punto di vista da cui in tanti non si riconoscono sentendosi quindi esclusi e discriminati».

Il nodo dell’identità di genere. E siamo al punto. Già, perché la lettera d) dell’articolo 1 definisce l’identità di genere come «la manifestazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere». E questo anche quando non corrisponde al sesso e «indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». Tutto chiaro per Fratoianni. «Quali sarebbero – chiede, infatti – gli effetti negativi della sanzione contro la discriminazione fondata sull’identità di genere? Nessuno, non se ne ravvisa nessuno». Peccato che dimentichi che il ddl Zan è norma penale e come tale deve possedere quei requisiti della determinatezza e della tassatività, impossibili da rinvenire nella succitata lettera d). Il sesso degli angeli, insomma, non è materia del codice. Il compagno Fassina se n’è accorto in tempo. Il compagno Fratoianni non l’ha ancora capito.

"Testo giusto nei fini, non nel metodo. I giudici hanno troppa discrezionalità". Sabrina Cottone l8 Luglio 2021 su Il Giornale. Il professore: "I reati devono essere sempre definiti: qui non lo sono. Così si rischia che per un'omelia si venga accusati di omofobia". L'arrivo del ddl Zan nell'aula del Senato il 13 luglio, voluto dall'asse Pd M5S Leu per un voto al buio che spacca maggioranza e opinione pubblica, è accompagnato dalla rinascita di «Insieme», partito solitario, più pensatoio che numeri e sondaggi. Punto di riferimento intellettuale, garante dal principio, è il professor Stefano Zamagni. L'ex premier Giuseppe Conte ha tentato un avvicinamento che non è finito bene. Al congresso romano dello scorso fine settimana hanno mostrato interesse il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin e il laico Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio. «Condivisibile nei fini, sbagliato nel metodo» sintetizza Zamagni parlando del ddl Zan.

Che cosa trova condivisibile di questa legge che spacca il Parlamento?

«Nessuno mette in discussione la necessità di combattere i fenomeni di dileggio discriminazione violenza verso le persone che hanno orientamento sessuale diverso, completando la famosa legge Mancino sui crimini d'odio che aveva lasciato da parte il sesso. Il fine è sacrosanto ma il metodo, cioè la via seguita, è sbagliato».

Che cosa la preoccupa maggiormente?

«Io da cittadino devo sapere se l'atto che vado a compiere è reato oppure no. Un gruppo di costituzionalisti, credenti ma anche no, hanno detto che il testo non regge proprio perché in una legge penale i reati devono essere definiti e invece il livello di discrezionalità dei giudici rimane molto alto».

In molti ne fanno una questione di libertà. L'identità di genere, la possibilità di scegliersi il sesso, non va in questa direzione?

«Questioni di bioetica non possono diventare biogiuridiche senza la mediazione culturale necessaria. Quando si parla di identità di genere non si può far dipendere il genere da una questione individualistica legata al singolo perché chi vive in società sa che ci sono regole che vanno rispettate. Non posso dire: faccio quel che voglio in questa come in altre questioni perché distruggo la coesione sociale. C'è una grande differenza tra libertà e libertarismo».

Perché è a rischio la libertà di espressione?

«Il confine non è tracciato. O la legge determina dove finisce la libertà di espressione e dove inizia il reato o è evidente che succederanno cose simili a ciò che è già accaduto in Spagna, in Canada e nei Paesi dove esistono leggi simili. L'arcivescovo di Valencia, per un'omelia in cui difendeva il matrimonio tra uomo e donna, è stato accusato di omofobia. Se anche poi a processo vieni assolto, resta grave, perché intanto devi prendere un avvocato, incorrere in spese ingenti. Se un rettore di seminario invita un seminarista omosessuale a lasciare il seminario, il seminarista potrebbe denunciarlo».

Molte obiezioni riguardano la libertà d'educazione. Concorda?

«Nelle scuole non può essere lo Stato che decide sull'educazione dei figli minorenni perché per Costituzione tocca alla famiglia. Lo Stato ha la responsabilità dell'istruzione, non dell'educazione. Dalla confusione tra questi due livelli nascono molti equivoci».

Come si spiega la radicalità del segretario del Pd, Enrico Letta, che arriva da un partito popolare?

«Noto che all'interno delle migliori intenzioni iniziali, in corso d'opera il testo è stato strumentalizzato da una parte o dall'altra. Comunque vadano le cose e si concluda la vicenda in Parlamento, non finirà bene. Lascerà strascichi in un caso o nell'altro».

Che cosa pensa del dibattito sulla giustizia? È così malmessa?

«Lo vede anche un cieco che non funziona. Io sfido a trovare un italiano che non sia d'accordo. Ma anche queste tematiche sono merci di contrattazione in cui si perdono di vista principi e valori. Nel dopoguerra non era così. E la scuola? Non possiamo isolare una questione dall'altra perché altrimenti scattano i divieti incrociati. Non è sufficiente riformare la giustizia, dobbiamo trasformarla».

In che senso una riforma non è sufficiente? E i referendum?

«La riforma cambia la forma e lascia immutata la sostanza. È una pezza, come il mastice quando buchi la ruota della bici. La trasformazione è la giustizia che ha come fine il bene comune, non solo punitiva. I referendum non li ho ancora approfonditi: non si può esprimersi su tutto».

"Vi dico perché il Pd fa muro sul ddl Zan". Francesco Curridori il 7 Luglio 2021 su Il Giornale. Alessio De Giorgi, ex direttore di Gay.it, ci spiega perché ieri il Pd ha sprecato un'occasione: "Peccato, potevamo far passare il ddl Zan con i voti della Lega nonostante guardi a Orban". "Personalmente voterei il ddl Zan così com'è, ma nel lavoro, negli affetti e anche in politica l'arte della mediazione è fondamentale". Alessio De Giorgi, a lungo direttore di Gay.it ed esponente di Italia Viva, ci spiega perché ieri il Pd ha sprecato un'occasione importante.

Perché era così necessario arrivare a una mediazione?

"Se è vero che la Camera ha approvato quel testo sulla base di una mediazione proposta sempre da Italia Viva, ma è altrettanto vero che la maggioranza è diversa da quella del Senato dove i numeri sono più risicati. Non prendere atto dei rischi che corre questa legge col voto segreto è da folli perché ci sono dubbi nel Pd, tra i Cinquestelle e non solo. La presidente del gruppo delle Autonomie, Julia Unterberger, ha detto che è irragionevole non trovare una mediazione. Poi, faccio notare che Giuseppe Conte, su tutta questa vicenda, non ha detto una parola e, quindi, non ho idea di cosa possano fare i deputati contiani per mettere in difficoltà Draghi. C'è il rischio di arrivare a una 30ina di defezioni e lo schiaffo dato alle posizioni più ragionevoli nel centrodestra a me sembra un corpo a corpo inutile di cui potevamo fare a meno".

La frase 'incrociamo le dita' di Alessandro Zan può danneggiare l'iter del suo Ddl?

"Trovo che sia una follia dire “incrociamo le dita”, una frase che può dire un uomo della strada, un massimalista che vuol fare scoppiare le contraddizioni nell'avversario. Non può dirla un uomo come Zan che ha una storia importante dentro il movimento gay. Capisco e condivido il punto di vista del Pd, ma non capisco e non condivido il punto di vista del movimento Lgbt che dovrebbe essere come un sindacato. E, se un sindacato vede che l'avversario va verso le sue posizioni non deve tirargli uno schiaffo in faccia. Ieri, a parte una battuta stonata di Ostellari in Aula, dalla Ronzulli e dallo stesso Ostellari ho sentito parole di grande apertura. Un sindacato non si permetterebbe mai di non apprezzare una parte politica non vicina che condivide una sua posizione".

Ma è vero che la mediazione proposta da Italia Viva non protegge i trans?

"È una fake-news colossale perché una legge deve comunque essere interpretata da un giudice e, se vogliamo parlare di casi concreti, voglio proprio vedere un giudice che, per esempio, non valuta come transfobia la violenza subita, per fare un esempio, da chi non ha neppure iniziato un percorso di transizione ma occasionalmente indossa abiti non del proprio sesso".

Le critiche al ddl Zan non provengono solo dal centrodestra. Cosa turba non solo il Vaticano, ma anche le femministe e una parte del mondo Lgbt?

"La discussione è uguale a quella che ci fu sulle unioni civili. Si vuol far fare alla legge qualcosa in più rispetto agli obiettivi della legge. L'approccio è eccessivamente ideologico. Nel momento in cui inserisci una norma come l'identità di genere, inserisci una norma che definisce un punto di vista diverso rispetto alla legge sulla transizione sessuale. Legge aggiornata dalla Corte Costituzione la quale ha riconosciuto che l'operazione per passare da un sesso all'altro è molto invasiva e, dunque, si può cambiare sesso anche senza farla. Dal mio punto di vista, transfobia è un termine assolutamente appropriato".

Ma perché il Pd non tiene conto dei rilievi provenienti dal mondo femminista?

"Il Pd non tiene conto delle posizioni delle femministe per ragioni di posizionamento politico perché, in un governo di unità nazionale col centrodestra, ha bisogno di caratterizzarsi e di rinsaldare l'alleanza col M5S. Facendo così, però, passa sopra come uno schiacciasassi a quelle persone che la legge vorrebbe tutelare e le mette a rischio di non avere una legge che le protegga. Poi, il Pd non si rende conto che i Cinquestelle sono allo sbando. La settimana scorsa, in Commissione il M5S ha annunciato il voto favorevole al provvedimento, ma tre quarti di loro ha votato contro. Io ho vissuto le battaglie dei Dico e dei Pacs e so perfettamente che sono stati usati questi temi per caratterizzarsi politicamente a sinistra e poi, però, si è rimasti con un pugno di mosche in mano".

Crede che la forzatura del Pd possa essere un modo per affossare la legge?

"Mi auguro non ci sia un accordo sotto banco per non far passare la legge, facendo muro contro muro. Sarebbe un calcolo cinico veramente grave perché ci sono episodi di omofobia e transfobia e abbiamo delle persone da tutelare ed è importante il messaggio culturale che può dare questa legge. Mi auguro che dentro il Pd si facciano sentire le voci più ragionevoli. Ma ci rendiamo conto quanto sarebbe importante se l'Italia si dotasse di una legge contro l'omofobia anche con i voti di quel pezzo di centrodestra che guarda a Orban? Dopo aver portato Salvini su posizioni europeiste, questa sarebbe una vittoria di tutti da festeggiare". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma.

Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 7 luglio 2021. Tommaso Cerno è parlamentare nel gruppo del Pd e omosessuale, ma contrario all' ostinazione dei dem nell' approvare il ddl Zan così com' è. Condivide piuttosto la linea di Renzi e Salvini, favorevole a togliere dal testo le parti più divisive, relative a identità di genere, reati di opinione e giornata contro l' omotransfobia. 

Cerno, perché questa sua posizione?

«La legge Zan ha due pilastri. Il primo è la parte migliore della legge: e cioè la condanna delle violenze contro gli omosessuali, intese non più come violenze private ma come atti contro i rappresentanti di una minoranza. Questa parte supera i limiti della legge Mancino, che di fatto istigava a delinquere contro i gay, tutelando tutte le minoranze tranne gli omosessuali. La seconda parte, che riguarda i reati di opinione e l'identità di genere, invece non mi soddisfa perché è scritta male e fa troppo poco per conseguire gli obiettivi che si propone. E allora io la lascerei in sospeso. La sinistra dovrebbe rendersi conto che, se la destra per la prima volta nella storia è disposta a votare una legge che punisce i reati di odio contro i gay, si tratta di un passo enorme. E perciò mi terrei stretto quel primo passo. E poi, oltre al testo della legge, pesa il contesto: la sinistra ha deciso di fare un governo con la Lega? Bene, allora deve tenerne in considerazione le posizioni».

Se la legge arriva in Aula con il voto a scrutinio segreto e non modificata, c' è il rischio che non passi?

«Sì, e per questo non si dovrebbe arrivare a quel punto. Se legge non passasse, romperebbe la maggioranza e metterebbe Draghi nelle condizioni di dimettersi. Perciò dico al Pd: sarebbe folle creare una crisi di governo per una parte di legge scritta male. Idem ricordino che non è un testo intoccabile: Zan non è Mosè e non ha ricevuto le tavole della legge dal dio dei gay». 

Renzi è stato minacciato di morte sui social per questa sua posizione. Anche lei ha ricevuto attacchi dalla comunità Lgbt?

«Sì e, in nome della libertà intellettuale, accetto queste critiche, purché non siano violente. Se invece sono intolleranti, mi batterò contro la loro intolleranza. In generale, i membri della comunità Lgbt hanno tutto il diritto di esprimere il loro pensiero fino a quando non diventa eterofobico. A me comunque interessano molto di più le minoranze silenziose, quei gay che sono discriminati sul posto di lavoro o picchiati dai genitori, e non hanno voce per difendersi». 

Il ddl Zan, da battaglia etica, si è trasformato in una battaglia politica con cui i partiti stanno saggiando la loro forza?

«È possibile. Renzi, che aveva fatto passare le unioni civili un po' perché ci credeva e un po' perché gli interessava, ora farà passare la parte migliore della legge un po' perché ci crede e un po' perché gli interessa. Lui, come Salvini, è un animale politico e sa come muoversi. Anzi, è più segretario del Pd da quando non lo è più di quanto non lo sia stato nel periodo in cui lo era». 

Secondo lei, è sotto attacco perché rischia di essere decisivo nella partita per il Colle?

«Lui è sotto attacco a prescindere: fa di tutto per esserlo a causa delle sue opere e omissioni. Ma è difficile dire se l'asse Salvini-Renzi sul ddl Zan sia il banco di prova per una futura convergenza tra centrodestra e Iv nell' elezione del capo dello Stato. Può essere anche che la votazione finale sia la prova generale per un governo che segni la fine del bipolarismo. Se la legge modificata viene votata da Salvini, Renzi e Letta, si può immaginare un governo con loro dentro, che lasci agli estremi le destre e le sinistre. E potrebbero essere quelle stesse forze a eleggere il nuovo capo dello Stato».

"Hanno rimosso un video dove mi dicevo critico sul ddl Zan". Francesco Boezi il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Il viceministro Alessandro Morelli, esponente della Lega, segnala la rimozione di un video in cui venivano esposte le problematiche del ddl Zan. Il viceministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili Alessandro Morelli, esponente della Lega contrario, almeno per come il provvedimento è strutturato sino a questo momento, al disegno di legge Zan, ha reso noto di essere stato "censurato" da Facebook in relazione proprio al Ddl che si è discusso al Senato in queste ore. Quella in corso è una fase fervente, perché il Partito Democratico, che non è disposto al dialogo sul ddl Zan, potrebbe presto schiantarsi contro la realtà dei numeri. Le previsioni parlavano di un "Vietnam" parlamentare. E oggi il Senato ha iniziato a lavorare sul testo, senza prendere una decisione definitiva. La sensazione è che la trattativa sia destinata a durare nel tempo. L'unica novità riguarda il respingimento delle pregiudiziali. La Lega sembra convinta della necessità di modifiche al ddl Zan. Ma nonostante le aperture in merito, il Pd tira dritto. Morelli, dal canto suo, ha illustrato i motivi della sua contrarietà in un video, che può ancora essere visto dagli utenti su YouTube. Durante il filmato, l'esponente leghista elenca gli articoli di legge a suo dire problematici, partendo dal primo, che è poi uno di quelli accusati di voler introdurre nel nostro sistema giuridico la cosiddetta "teoria gender". Il viceministro, che è espressione del partito guidato da Matteo Salvini, prende poi in considerazione l'articolo 2, ponendo il tema della libertà d'espressione e quello della discrezionalità, che sono altre due argomentazioni utilizzate dai critici del ddl Zan per mettere in evidenza la natura problematica del provvedimento. L'articolo 4, ancora, sarebbe contraddittorio. E così via, sino a toccare punto per punto tutte le perplessità che il viceministro ha in materia. Una particolare attenzione viene riservata da Morelli alla Giornata dedicata alla comunità Lgbt. Insomma Morelli punta il mirino sia in relazione ai contenuti giuridici sia rispetto al sottofondo ideologico su cui il ddl Zan potrebbe contare. Al netto delle preoccupazioni relative alla poca chiarezza dei confini di alcune fattispecie introdotte, la Lega ha manifestato, Morelli compreso, preoccupazione per come il ddl Zan potrebbe essere in qualche modo sfruttato per diffondere l'"ideologia gender" all'interno degli istituti scolastici italiani. In conclusione del filmato, il leghista, dopo aver spiegato tutti i suoi perché, ribadisce la sua posizione. Ma qualcosa non va come previsto con il filmato: il politico della Lega, attraverso una nota stampa, ha reso noto che il video è stato rimosso dal social network. Il viceministro, nella sua premessa, cita il caso di Donald Trump a mo' di esempio, sottolineando come la policy dei social possa "minare" la "libertà d'espressione". Poi l'accusa: "La settimana scorsa pubblico un video in cui spiego i contenuti della legge. Ne evidenzio i punti critici, mettendo in fila le ormai arcinote perplessità sulle questioni relative a identità di genere, reato di opinione e priorità educativa dei genitori. Passa poco tempo e il video viene cancellato dalla piattaforma che, sinora, ha evaso le mie reiterate richieste di spiegazioni". Facebook non avrebbe dunque fornito i perché della sua scelta al viceministro Morelli, che ne fa anche una questione complessiva: " Una società privata che svolge un servizio di pubblica utilità si riserva il potere di limitare la libertà di espressione. Siamo arrivati così al paradosso che i sacerdoti del pensiero unico, nel nome della tolleranza, riducano a brandelli la libertà di parola. Chi non la pensa come loro non ha diritto di cittadinanza sulla pubblica piazza e viene esiliato dai social", chiosa il parlamentare, che ha voluto mettere al corrente della "rimozion" subita attraverso un altro video pubblicato su Facebook.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso".

«Il ddl Zan è più grave del codice fascista». E il Senato diventa la curva anti-gender. Simone Alliva su L'Espresso il 15 luglio 2021. Gli interventi durante la discussione generale trasformano la legge contro l’omotransfobia in un’apertura all’utero in affitto, che limita le libertà a diffonde le ideologie fluid. E “ghender”.

Parla Giacomo Caliendo, senatore di Forza Italia: "Questa legge è più grave del codice Rocco, il codice del fascismo". È la prima battuta della giornata. Ce ne sarà un festival a Palazzo Madama, tutto dedicato al ddl Zan. Il bestiario politico offerto dal Senato parte da qui. Due giorni di discussione generale. Una giostra di accuse, insulti, complotti. C’è tutto: la fantomatica teoria del gender (che diventa fluid-gender o ghender a seconda del senatore), l’utero in affitto, la lentissima caduta dell’impero.

Perosino, anche lui senatore di Forza Italia, ha il fiato corto e la mascherina sotto il naso: "Conosco tanti gay che vivono la loro condizione con dignità. Questa legge è l'anticamera dell'utero in affitto. La diffusione della teoria gender e le trasformazioni dei bambini che sono contronatura". Fa una pausa e poi conclude: "Il ddl Zan è la costruzione di un concetto nichilista della società ha gli stessi sintomi della caduta dell'impero romano". Applausi e fischi. Il web segue questo spettacolo ogni minuto sorprendente in cui succede proprio quello che non ha logica: il capogruppo al Senato di Italia Viva, Davide Faraone accusa la senatrice del PD Monica Cirinnà di averlo messo alla gogna: “Mi ha ripreso mentre applaudivo Matteo Salvini. Chiedo provvedimenti”. Ignazio La Russa, oggi in Fratelli d’Italia, esprime solidarietà a Faraone e confessa che anche lui è stato discriminato “dai Cirinnà dell’epoca” per le sue idee politiche.

Tutti applaudono, tutti urlano. Il senatore Pillon, leghista e noto alle cronache per aver annunciato una “caccia alla stregoneria nelle scuole”, parla per 20 minuti. Forse per questo si confonde: "Con il ddl Zan si potrà dire che due uomini sono famiglia, due donne sono famiglia". Ma lo sono già. Per lo stato dal 2016, legge sulle unioni civili.

Dopo di lui interviene Tiziana Drago, ex cinquestelle, oggi in Fratelli d’Italia. Nel 2019 si presentò a sorpresa al Congresso delle Famiglie di Verona. Oggi fa parte dell’intergruppo parlamentare che raccoglie i sostenitori pro-vita e anti-lgbt: “Vita, Famiglia e Libertà”. Fa lunghe pause. Ogni tanto si inceppa e poi ricomincia sorreggendo un foglio scritto a mano: "Assistiamo a un'ingerenza governativa sul ddl Zan” la stoccata è diretta all’ex collega di partito, Barbara Floridia che sul proprio profilo Facebook ha sostenuto il ddl Zan per i corsi contro il bullismo omotransfobico: “La sottosegretaria all'istruzione ha pubblicato un post a favore dell'art.7. Non solo le istituzioni. Le produzioni cinematografiche e anche i cartoni animati hanno cercato a informare sul ddl Zan a senso unico".

Sonia Fregolent, senatrice Lega, fa riferimento all’istituzione della giornata contro l'omotransfobia prevista dalla legge Zan e già riconosciuta dall'UE e dall'ONU dal 2004, per ricordare il 17 maggio del 1990, giorno in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha depennato l'omosessualità dalle malattie mentali: "Perché non istituire una giornata contro l'eterofobia o l'orgoglio eterosessuale?".

La vicepresidente del gruppo Forza Italia al Senato e responsabile del movimento azzurro per i rapporti con gli alleati, Licia Ronzulli, fa sempre riferimento alla Giornata contro l’omotransfobia: “con l’articolo 7 si vorrebbe introdurre la teoria del fluid gender nelle scuole, una cosa che ci trova assolutamente contrari”. Da gender a fluid gender. Mentre Giampiero Maffoni senatore di Fratelli d’Italia vede nella legge: “Una discriminazione al contrario. Presentare il ddl Zan come una proposta per aggiungere altre discriminanti alla Mancino è fuorviante. Siamo sicuri che allungare l'elenco non costituisca un discrimine nei confronti delle altre: i senzatetto?"

L’intervento più infervorato è del senatore Vescovi anche lui Fratelli d’Italia: “Qual è il vostro intento? distruggere i valori?”. Non riesce a tenere la mascherina, interviene con una veemenza e un afflato che fanno temere i commessi: “Fermiamoci. Una bambina di sette anni è venuta a dirmi: si possono sposare due uomini o due donne. Ma dove lo hanno imparato. Lasciamoli giocare".

Calma è invece Nadia Pizzoli, leghista, l’incipit è semplice: "I bimbi hanno diritto a un padre e a una madre. Quando sono grandi vogliono sapere perché la madre li ha abbandonati e soffriranno moltissimo per tutta la vita. Non potete pretendere questo con l'utero in affitto. Fateli nascere normalmente". E continua: "Non siamo nell'ex unione sovietica dove i bambini venivano tolti dalle famiglie ed educati dal partito. I vostri desideri non vanno confusi con i diritti. Sono capricci ideologici e quindi mi opporrò con ogni mezzo a questa legge. Penso che ai bambini non vada assolutamente trasmessa l'ideologia gender. Ma cosa volete insegnare ai bambini se non c'è nessuna evidenza scientifica. E come affermassi che piovono patate e non acqua". Applauso. Uno. Quello della collega di banco. 

Segue sul finale la senatrice leghista Raffaella Fiormaria Marina, di professione psicologa: "La scuola che non vorrà celebrare la giornata contro l'omofobia potrà farlo o sarà destinata a pagare questa libertà?” chiede “Chi osa obiettare finisce sotto processo. Della cosiddetta ideologia gender o ghender si è capito che anziché promuovere libertà di scelta, solleva dubbi sulla libera espressione. Chiunque potrà essere vittima di un procedimento penale, intercettazione o addirittura misure cautelari". Chiude per oggi Stefano Lucidi, senatore umbro alla seconda legislatura ex M5s oggi con la Lega: "Non abbiamo bisogno di modelli europei, di modelli trans europei ma ricordarci le nostre tradizioni e la nostra cultura". La discussione generale sulla legge contro l’omotransfobia riprenderà martedì 20, giorno in cui scade il termine di presentazione degli emendamenti al ddl. Attesi gli interventi del leghista Andrea Ostellari, del capogruppo del Carroccio Massimiliano Romeo e del leader Matteo Salvini. Lo spettacolo continua.

Capanna contro il ddl Zan: legge da buttare, crea solo nuovi reati e non la voterei. Redazione venerdì 16 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Mario Capanna non voterebbe il ddl Zan. L’ex leader del Movimento studentesco sessantottino ha spiegato perché a margine della presentazione al Senato del libro di cui è co-autore "Parlamento mondiale – Perché l’umanità sopravviva" scritto per Santelli editore.  “Non lo voterei perché è sbagliato – ha detto – continuare a produrre provvedimenti di legge che creano nuovi reati. Noi dobbiamo creare nuovi diritti, non nuovi reati”. Alla domanda se sia opportuno un dialogo perché il testo superi il vaglio dell’aula, Capanna replica reciso: “No, detto papale papale: il ddl Zan va buttato via. Non serve. Per punire certi reati le norme esistono già”. La stessa posizione dunque di molti esponenti di destra, accusati per questo di essere omofobi e contro i diritti delle minoranze. Anche verso Capanna arriveranno accuse di questo tipo? E’ improbabile, a dimostrazione della strumentalità di un dibattito che mira solo a colpire chi non ai adegua al “pensiero unico” dell’ideologia gender. Capanna non è stato tenero, nelle sue dichiarazioni, nei confronti della sinistra. “Se la sinistra non torna a fare il suo lavoro – ha detto – è ovvio che lo spazio viene invaso dalla destra e da vari populismi”. “Lo stato della sinistra – ha aggiunto- è chiaramente sofferente: perché ha largamente introiettato il punto di vista dominatore e non fa più il suo mestiere. Quando ha fatto il suo mestiere, ed era all’opposizione, mi riferisco al Pci, con le lotte di massa si conquistarono cose fondamentali di cui ancora oggi godiamo i frutti: Statuto dei lavoratori, divorzio, assistenza sanitaria nazionale, il nuovo diritto di famiglia”. “Era opposizione -sottolinea- ma aveva rapporto diretto e linfa vitale con larghi settori popolari. Oggi niente, la sinistra galleggia in questa iper-coalizione in cui non svolge più il suo mestiere. Se non svolta, la storia la costringerà a chiudere bottega”. Quanto al Pd da lungo tempo – chiosa Capanna – non ha più nulla di sinistra. “E’ un semplice partito riformista che non ha la levatura e il prestigio della Spd o del Labour. E’ in difficoltà, non solo perché lo dicono i sondaggi ma perché è in difficoltà nella stessa azione di governo”.

Fabio Amendolara per "la Verità" il 14 luglio 2021. L'ultimo flop della legge Mancino, codificata nell'articolo 604 bis del codice penale, è targato Verona. Lì il Tribunale, ieri, ha assolto 19 imputati che rischiavano 32 anni di reclusione, rei di aver protestato contro una coop dell'accoglienza che a Roncolevà di Trevenzuolo voleva trasformare una villetta residenziale in un centro per rifugiati. I fatti risalgono al 2017, quando due comitati di cittadini per mesi portarono avanti la loro battaglia con slogan e striscioni. «Fu un assedio», secondo l'accusa, rappresentata in aula dal procuratore Angela Barbaglio, con finalità di «odio razziale». Una contestazione pesantissima che, però, è crollata miseramente durante il processo, con le difese che hanno fatto en plein. All'inizio gli imputati erano 22. Poi si è scoperto che uno era minorenne e, quindi, gli atti sono stati mandati alla Procura minorile. Un secondo imputato è stato prosciolto perché vittima di uno scambio di persona. Ma per gli altri 19, tra gli attivisti di «Roncolevà alza la testa» e «Verona ai veronesi», la Procura chiedeva con forza una condanna. Si è ritrovato imputato perfino un pensionato settantaduenne che con gli altri cittadini aveva manifestato il suo «no» contro le attività della coop Versoprobo. Il Tribunale ha quindi stracciato i capi d'imputazione pieni di insulti, che non hanno trovato riscontro, agli ospiti del centro d'accoglienza: da «scimmie» a «sporchi negri». E alla rappresentante della cooperativa: «Schiavista, sfruttatrice». La pena più alta era stata chiesta per Nicola Bertozzo di «Verona ai veronesi», 2 anni di reclusione, mentre per gli altri 18 la Procura aveva chiesto una condanna a 1 anno e 8 mesi. Bertozzo, considerato l'uomo che «dirigeva il movimento costituito per finalità di odio razziale», era accusato anche di aver pubblicato sulla sua pagina Facebook quella che la Procura riteneva un'istigazione, ovvero aveva invitato «a difendere Roncolevà dal business dell'accoglienza... la popolazione si è raccolta per contrastare il nuovo affare che specula sulla pelle dei migranti». Non solo, l'accusa è piena di ricostruzioni di «aggressioni», «provocazioni ai richiedenti asilo e aglio operatori della cooperativa», «danneggiamenti», «lanci di luce laser» e strombazzate «di clacson». E addirittura si era ipotizzato che l'imprenditore che doveva costruire la recinzione attorno all'immobile fosse stato minacciato con queste parole: «Sappiamo chi sei, se accetti di fare il lavoro ti bruciamo il furgone». L'indagine è partita da una segnalazione via email molto generica, mandata alle autorità da una operatrice della coop. Si è poi nutrita di alcune annotazioni di servizio dei carabinieri che effettuavano servizio sul posto. Ma le accuse sono state smontate durante le udienze dai difensori. L'assoluzione è stata una botta pure per l'Osservatorio migranti, che con la stessa coop si era costituito parte civile. Il gruppo consiliare della Lega a Verona esprime «solidarietà ai veronesi ingiustamente attaccati». «La paura», scrivono i consiglieri leghisti, «era che quella ventina di richiedenti asilo finisse a bighellonare e vagabondare turbando la tranquillità del piccolo centro, che conta 700 anime». «Una grande vittoria processuale con indagini alquanto lacunose, che hanno coinvolto persone, anche di una certa età, totalmente incensurate e innocenti», ha commentato l'avvocato Andrea Bacciga, difensore di alcuni imputati, che ha aggiunto: «Quella protesta non aveva alcun fondamento discriminatorio. Era nata per ribadire il fermo no al business dell'accoglienza». Una sonora sconfitta di un tentativo maldestro di applicare una legge ideologica.

 Ddl Zan, Alessandro Sallusti e le conseguenze pericolose: "Gender nostro che sei nei cieli..." Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Se la legge Zan passasse come chiedono i promotori si aprirebbe un enorme problema di libertà di opinione dagli esiti imprevedibili perché affidati, in buona sostanza, al giudizio dei magistrati che in quanto uomini hanno idee diverse tra loro e spesso un equilibrio instabile. Prendiamo il caso dell'insegnamento cattolico. Non solo le sacre scritture al punto "Dio li creò maschio e femmina" ma anche buona parte del catechismo finirebbe fuori legge perché discriminante e tendenzialmente omofobo là dove si legge che "l'omosessualità è una condizione disordinata contraria alla legge naturale" e che le persone in tale stato "devono essere chiamate alla castità". Fino a oggi gli insegnamenti in campo etico e sessuale della Chiesa sono semplicemente un pensiero della Chiesa che nessuno è tenuto a leggere e tantomeno a seguire. Insegnarli, crederci e applicarli è una scelta libera e privata. Con il decreto Zan invece un magistrato - su denuncia di qualcuno o per sua iniziativa- potrebbe, anzi dovrebbe, intervenire a tutela della parità di genere. Una sorta di Medioevo all'incontrario nel quale finiscono al rogo non i miscredenti ma i credenti. Già me lo vedo: avvisi di garanzia a parroci ed educatori, sequestri di vangeli e testi sacri sospensione delle prime comunioni che prevedono per l'appunto lo studio del catechismo. Vogliamo arrivare a tutto questo? Che i cattolici facciano i cattolici e i laici i laici in piena libertà. E a chi sostiene che ciò non potrà mai accadere ricordiamo le follie avallate dalle istituzioni tipo togliere i presepi dalle scuole e dai luoghi pubblici per non offendere i credenti di altre religioni. Io già me la vedo l'interpellanza parlamentare che chiede al ministro dell'Interno come sia possibile che si reciti il Padre Nostro e chieda di sostituire le prime parole con: "Gender nostro che sei nei cieli" perché non esiste più la differenza tra padre e madre (in molte anagrafi è già così, i famosi genitori uno e due). Questo è un giornale laico che difenderà la laicità dello Stato fino alla morte. Ma ci batteremo anche per la libertà di religione ed educativa delle comunità cattoliche. Non sarà uno Zan a cancellare la storia della nostra civiltà.

Il discorso in Senato. Chi è Barbara Masini, la senatrice di Forza Italia a favore del ddl Zan che ha fatto coming out. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Luglio 2021. Barbara Masini si è commossa in Senato, parlando in difesa del ddl Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia. La senatrice di Forza Italia ha fatto coming out a inizio luglio. Masini ha votato con la maggioranza (Forza Italia, contraria al ddl, ha lasciato libertà di coscienza ai suoi parlamentari). “A voi tutti auguro di poter guardare negli occhi i vostri cari. Quelli di oggi e quelli di domani, e anche quelli che un domani saranno diversi dai vostri desideri. E poter dire loro, io nel mio piccolo ti ho protetto dalla paura”, ha detto Masini ringraziando il suo partito “per il rispetto che mi ha sempre dimostrato”. La senatrice ha 47 anni. Laureata in scienza politiche all’Università degli Studi di Siena. È stata eletta consigliere comunale a Pistoia con Forza Italia, risultando la donna più votata della coalizione di centro-destra sostegno del sindaco Alessandro Tomasi. È stata eletta al Senato alle politiche del 2018. Fa parte della commissione Politiche dell’Unione Europea. Masini si è raccontata in un’intervista a Il Corriere della Sera. Ha raccontato della sua infanzia, quando “per noi lesbiche nate negli anni Settanta c’era soltanto Lady Oscar” e quando per imitare le amiche aveva dei fidanzatini e aveva anche pensato di costruirsi una famiglia. Questo prima di innamorarsi di una donna e di staccarsi da tutto andando a vivere in Belgio. Quindi il ritorno. “Mia madre è una donna eccezionale, anche bellissima. Però devo dire pure mio padre lo è, non lo nomino mai. Loro due, medici, hanno una mentalità apertissima, hanno sempre votato per i radicali. A mia madre poi non ho dovuto nemmeno dirlo – ha raccontato – Una volta mi ha guardato e mi ha detto: ‘Barbara ma quell’amica che ti è venuta a salutare all’areoporto…’. Era la mia fidanzata dell’epoca”. La stessa madre, come ha raccontato l’onorevole in aula, aveva paura per la figlia, che non potesse “vivere felice”. Paura che oggi Masini percepisce “più di qualche anno fa. C’è stata una recrudescenza”.

La sua idea sul ddl: “L’articolo 1 lo cancellerei, sono solo definizioni che esistono già nella giurisprudenza e non deve essere certo Zan a spiegarcele. È l’articolo 2 che dà le tutele. Poi toglierei il 4, non stravolge la legge. E sul 7 metterei dei limiti: nessuna educazione ai bambini delle elementari. Però siamo chiari: se la legge rimane così com’è io la voto tutta la vita“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

ALESSANDRA ARACHI per il Corriere della Sera il 17 luglio 2021.

Senatrice Barbara Masini, giovedì mattina nell'aula del Senato si è emozionata parecchio...

«Le emozioni sono un atto di coraggio». 

Nel suo intervento ha parlato di sua madre, della sua omosessualità: si può dire che di coraggio ne abbia avuto abbastanza?

«Sì, ma mi sono emozionata di più nel ringraziare il mio gruppo, Forza Italia, che sulla parte personale». 

Una decina di giorni fa, sempre in aula, aveva già fatto il suo coming out.

«L'ho fatto perché ho pensato di poter aiutare il dibattito sul ddl Zan. Nella mia vita ho sempre vissuto la mia omosessualità alla luce del sole, ma senza farne troppa pubblicità». 

Adesso la sua sessualità è nota a tutti...

«Servirà ad aiutare qualcuno. Sono contenta di poter essere un modello. Ai miei tempi di modelli non ce n'erano. Per noi lesbiche nate negli anni Settanta c'era soltanto Lady Oscar».

Il cartone animato?

«Sì, una grande donna disegnata che mi è stata molto utile da piccola».

Già da piccola ha capito di essere omosessuale?

«No, non bene. Avevo dei fidanzatini, ce l'avevano tutte e io imitavo. Poi ho avuto un fidanzato vero, dai 18 ai 25 anni, avevo anche pensato di mettere su famiglia». 

Poi?

«C'era qualcosa che non mi tornava. Poi mi sono innamorata di una donna».

Che ha fatto?

«Sono scappata da tutti, anche da me stessa, e sono andata a vivere in Belgio per un anno».

E il suo fidanzato?

«Non gli ho detto la verità quando sono scappata. Dopo ho deciso di tornare e di affrontare tutto con tutti».

Come è andata?

«Mia madre è una donna eccezionale, anche bellissima. Però devo dire pure mio padre lo è, non lo nomino mai. Loro due, medici, hanno una mentalità apertissima, hanno sempre votato per i radicali. A mia madre poi non ho dovuto nemmeno dirlo».

Se ne è accorta lei?

«Sì, le mamme sanno. Una volta mi ha guardato e mi ha detto: "Barbara ma quell'amica che ti è venuta a salutare all'aeroporto...". Era la mia fidanzata dell'epoca». 

E adesso?

«Adesso ho 47 anni e convivo con Pamela da dodici».

In aula ha detto che sua madre quando ha saputo ha avuto paura.

«Per me, che non potessi vivere felice».

Lei ha paura?

«Adesso più di qualche anno fa. C'è stata una recrudescenza».

I suoi colleghi di partito?

«Mi rispettano tutti. Con Annamaria Bernini c'è anche un legame di affetto, come con altri. Giovedì ho avuto pure messaggi affettuosi dai leghisti». 

Che sul ddl Zan si sono messi di traverso.

«È vero, ma sul ddl Zan adesso è Letta che sbaglia. Noi siamo parlamentari, dobbiamo mediare, non stiamo giocando la finale degli Europei. Per avere una legge si può accettare anche di togliere qualche bandierina». 

Lei quale bandierina toglierebbe?

«L'articolo 1 lo cancellerei, sono solo definizioni che esistono già nella giurisprudenza e non deve essere certo Zan a spiegarcele. È l'articolo 2 che dà le tutele. Poi toglierei il 4, non stravolge la legge. E sul 7 metterei dei limiti: nessuna educazione ai bambini delle elementari. Però siamo chiari: se la legge rimane così com' è io la voto tutta la vita». 

Oltre alla Lega c'è anche il suo partito che è molto contrario alla legge Zan.

«Lo so, al Senato sono stata l'unica a votare a favore, ma sono sicura che col voto segreto sarebbero molti di più. E poi alla Camera sono stati in cinque a votare a favore, tra questi Elio Vito, un grande». 

Ha mai pensato di unirsi civilmente?

 «Non ci tengo particolarmente. Però sono felice che ci sia una legge così in Italia». 

A proposito del suo unico fidanzato, siete rimasti in buoni rapporti?

«Altroché. È il commercialista di mia madre e della mia compagna. Non penso di dover aggiungere altro». 

"Io, femminista, vi spiego perché la legge è sbagliata". Sabrina Cottone il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ex deputata dei Ds: "È un capovolgimento della realtà, mi sorprendo che la sinistra la appoggi". «Che cosa sta succedendo in Senato?». Francesca Izzo, storica del pensiero moderno e contemporaneo specializzata in cultura politica delle donne, deputata ds tra il 1996 e il 2001, impegnata da sempre nei movimenti femministi, spera ardentemente che la legge Zan sia modificata. «È un capovolgimento della realtà. Per questo insieme ad altre donne continuo a battermi senza lasciarmi intimidire. Sono sorpresa da come la sinistra sposi queste posizioni senza dibattito».

I sondaggi dicono che le persone sono in maggioranza favorevoli alla legge Zan. Lei pensa che la contrapposizione in Senato rispecchi una divisione viva nel Paese?

«Per fortuna si è aperta un po' più di discussione nell'ultimo mese e mezzo, anche se molto limitata, ma la gente non ha ancora chiaro quali siano i contenuti del testo. Fondamentalmente c'è quest'idea che la legge Zan cerchi di tutelare al meglio le persone omosessuali e trans e per questo si dichiara favorevole. Ma non c'è solo quello».

La legge Zan non combatte le discriminazioni?

«Insieme a questo obiettivo è presente in maniera surrettizia la volontà di far passare in una legge di rilievo penale una posizione sulla sessualità umana molto discutibile. È giusto che se ne discuta nelle sedi accademiche, nell'opinione pubblica, ma non che la questione entri in sedi penali».

Si riferisce all'identità di genere? L'espressione è già stata usata in sentenze della Consulta.

«È stata utilizzata in un altro senso, non in quello che è specificato all'articolo uno della legge Zan, ovvero il concetto di sesso percepito. In tutto il nostro ordinamento, quando si parla di identità di genere riferita alle persone transessuali, ha sempre un ancoraggio al sesso. Utilizzando la polisemia si dice: è già nell'ordinamento ma non è così».

Come donna e come femminista, che cosa teme di più?

«Molte femministe sono contrarie perché questa concezione espressa dal termine identità di genere mette in discussione radicalmente il binarismo, cioè che il genere umano è diviso in donne e uomini. La legge sottende che la divisione in due sessi è una costruzione ideologica, culturale, che organizza la famiglia in un certo modo, mentre invece esiste una pluralità di espressioni sessuali. Così, la legge Zan mette in discussione l'esistenza delle donne. Nega che possa esserci una differenza tra una donna biologicamente tale e una donna transgender. Diventerebbe un atto di discriminazione affermare che una donna di sesso femminile è differente da un transessuale o da un uomo che si percepisce donna».

Questo è confusivo e dannoso per i bambini?

«Ovviamente le conseguenze possono essere anche molto spiacevoli sui bambini, perché si introduce un'altra idea di umanità e lo si fa di nascosto, in due articoli che cambiano una legge penale. C'è l'idea che per combattere la discriminazione nei confronti di omosessuali e transessuali bisogna dire che siamo tutti uguali. Io penso che la discriminazione si superi mantenendo le differenze e non discriminando, accettando che esistano omosessuali, transessuali e queer senza discriminarli, ma mantenendo che esistano donne e uomini».

C'è un capovolgimento della realtà in questa legge?

«Certo, perché salta il dato biologico, che non sono solo cromosomi ma l'intera corporeità umana, l'esistenza fisico- relazionale. In questa visione il corpo non esiste più. Io mi vesto da donna, ho atteggiamenti da donna e sono una donna. Ormai sembra che biologico sia una parola offensiva».

Vede in questa legge il rischio della maternità surrogata?

«Non è un rischio, è una conseguenza. Se io mi sento una donna e voglio avere un figlio che faccio? Viene rivendicato il ricorso alla maternità surrogata perché una volta che io sono una donna non mi si può discriminare».

Ha timori anche per la libertà di espressione?

«Se si toglie l'identità di genere cadono moltissimi rischi. Siamo tutti d'accordo sul non colpire omosessuali e transessuali. Ma con questa legge, nel minimo, se io dico che sono una donna e che l'umanità è divisa in uomini e donne, rischio come già accade in altri Paesi di essere censurata. Sono molto preoccupata». Sabrina Cottone

Ddl Zan, la sinistra perde pezzi. Le femministe di “Se non ora quando”: «Così com’è non serve». Redazione mercoledì 30 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Il Pd non cede: il ddl Zan deve andare in aula così com’è. L’appuntamento è già fissato per il 13 luglio. A sostenerlo, il senatore Franco Mirabelli. «La Lega perde tempo», dice. A muovere i dem, tuttavia, è più la forza della disperazione che un’ordinata disamina del campo di battaglia. Enrico Letta, infatti, non mette in conto né la nota verbale della Santa Sede né, più prosaicamente, la dissoluzione in atto nel M5S che rischia di provocare un “rompete le righe” dagli esiti imprevedibili, ricacciandogli in gola la sua legittima voglia di rivincita. Per lui, infatti, il ddl Zan è solo una bandierina da sventolare in segno di avvenuta riscossa. Ne è in qualche modo ossessionato, come un centravanti da troppo tempo a digiuno di gol. È per questo che non s’accorge che non sta giocando in attacco bensì in difesa. Anzi, è addirittura sotto assedio. Prova ne siano i rilievi al ddl Zan avanzati da “Se non ora quando”, associazione molto accreditata a sinistra. La sua portavoce Fabrizia Giuliani è un’ex-deputata del Pd. È proprio lei a rivelare che l’attuale testo non la convince fino in fondo, pur ricordando che l’Italia «sconta un ritardo» sull’omotransfobia. «Così com’è il – è la sua critica – ddl Zan manca l’obiettivo, non rispettando i principi di tassatività e determinatezza». Per poi aggiungere: «Identità di genere è poi il punto più controverso che è necessario emendare. La nostra proposta è sostituirla con identità sessuale». Non ha torto: tassatività e determinatezza sono requisiti essenziali della norma penale. Non tenerne conto, equivale esporre il disegno di legge – se approvato senza modifiche – ai rilievi della Corte Costituzionale. Anche per questo, Italia Viva continua a rilanciare l’intesa del tavolo sul ddl Zan. La loro preoccupazione è che l’assenza di un accordo finisca per favorire il pantano parlamentare con tanti saluti alla legge contro le discriminazioni omotransfobiche. Un esito confermato indirettamente dall’indisponibilità leghista ad avanzare proposte di mediazione. A quanto si apprende da fonti parlamentari, durante la riunione di maggioranza gli esponenti del Carroccio avrebbero ribadito le loro perplessità sul provvedimento che andrebbe modificato in larga parte. Segno evidente che la partita non è ancora chiusa. Il 13 luglio è solo l’inizio.

Alessandro Rico per "La Verità" il 29 giugno 2021. Marina Terragni: giornalista, scrittrice, femminista, che proprio nel nome del femminismo, contrasta l'identità di genere. 

Il ddl Zan vuole imporla nelle scuole?

«Vada su Feministpost.it: si parla di una mamma americana che si rivolta contro la propaganda trans tra i banchi. Una contestazione rarissima, perché lì vivono nel terrore».

La prospettiva post Zan sarebbe questa?

«Ovunque è così. Ma dopo anni di dominio delle associazioni come Mermaids, in Gran Bretagna questi corsi non si fanno più. Il punto di svolta è stato la sentenza Keira Bell». 

Keira Bell è la ragazza britannica alla quale, a 16 anni, furono somministrati in modo molto disinvolto i farmaci per bloccare la pubertà. Poi scelse di tornare indietro, ma i danni erano già irreparabili. Ha fatto causa al Sistema sanitario e i giudici hanno stabilito che a 16 anni non si può prestare un vero consenso informato a questi trattamenti. Corretto?

«Sì. Ora siamo in attesa della sentenza d'appello. Quello è stato il giro di boa, perché si è intervenuti in difesa di bambini che vengono già bombardati dalla propaganda». 

In che modo?

«Ho visto addirittura dei cartoni animati con la famiglia arcobaleno di castori e la castorina che aveva la doppia mastectomia. Una castora trans. La propaganda è pesantissima, soprattutto in Canada e negli Usa. E in Gran Bretagna ci hanno dato un taglio: evidentemente, hanno messo in correlazione questo lavoro di propaganda con l'aumento vertiginoso delle transizioni infantili».

Di nuovo: è questo che ci aspetterebbe dopo il ddl Zan?

«Ma guardi che già qualche anno fa, nello scuole, lo spettacolo più rappresentato non era Pirandello, Molière, Goldoni o Shakespeare, ma Fa'afafine». 

Il Corriere lo presentò come lo spettacolo sul «terzo sesso dei bambini».

«Appunto. E poi c'è tutto il filone della "carriera alias"». 

Cioè?

«Ti chiami Luigi, ma ti senti Luigia e quindi ti fai assegnare un'identità di genere diversa da quella anagrafica, valida dentro la scuola o l'università. Lo sa che in Canada adesso c'è l'unicorno Gegi?». 

Cos'è?

«Un pupazzetto disegnato che aiuta i bimbi che si sentono di un genere diverso da quello biologico a far fronte alla resistenza dei genitori. Una specie di "consulente legale". Perché in Italia lo scenario dovrebbe essere diverso? Anche sull'utero in affitto». 

Scusi, ma lo scopo qual è? Aumentare i casi di transessualità infantile?

«A quanto pare». 

Ma perché?

«C'è un mercato. E non è un concetto banale. Tra i più grandi sostenitori di Barack Obama c'è stata la famiglia Pritzker: Big pharma». 

Allude alla vendita dei farmaci che bloccano la pubertà?

«Certo». 

C'è chi obietta: se si sospetta una disforia di genere nel minore, è meglio somministrargli quei farmaci e sospendere la pubertà. Tanto, il processo è reversibile.

«No, assolutamente. È stato comprovato da vari studi che gli effetti sono irreversibili: ad esempio, quelli sulla densità ossea. E ci sono rischi sulla fertilità futura. Ma c'è anche un altro aspetto impressionante». 

Quale?

«Molti dei bambini ai quali si diagnostica la disforia di genere, in realtà sono autistici. Sarebbero più o meno la metà di quelli che si rivolgono alle cliniche per l'identità di genere. E poi qualsiasi consulto psicologico viene liquidato come una "terapia riparativa"».

Cioè, un tentativo di far diventare eterosessuale un omosessuale.

«Il che sarebbe una forma di tortura. Ma Keira Bell dice un'altra cosa: dovevo essere aiutata perché ero depressa, invece, dopo due incontri alla Tavistock, mi hanno prescritto gli ormoni. Perciò, di recente, la Finlandia ha reintrodotto le terapie psicologiche. C'è un paradosso». 

Ovvero?

«Gran parte di questi ragazzini sono semplicemente gay e lesbiche. Ma con loro si fa come in Iran, dove se sei gay ti attaccano a un albero, ma se invece cambi sesso, vieni accettato».

Il documento politico del gay pride milanese ha chiesto esattamente che le transizioni di genere siano consentite senza alcun consulto psicologico.

«Si chiama self id». 

Sarebbe?

«Lei domani si sveglia e fa un atto amministrativo in cui, senza alcuna perizia, senza sentenze, senza testimoni, chiede di essere registrato come donna. Esiste a Malta, in Canada. In Inghilterra, invece, dopo anni di lotte hanno chiuso...».

Chiaro. Ma se dopodomani mi risveglio e voglio tornare uomo?

«Non saprei. Questo fenomeno non l'hanno ancora esplorato. Intanto, il 29 giugno, in Spagna, il cdm esamina la ley trans. All'inizio, Podemos era scatenato, mentre il Psoe aveva fatto molta resistenza».

E poi?

«I socialisti hanno improvvisamente cambiato posizione. Ora sa qual è una delle mediazioni che hanno trovato?». 

Qual è?

«Lei può sempre andare all'ufficio a dire che si chiama Alessandra. Ma poi deve tornare tre mesi dopo a confermarlo. Questa sarebbe la mediazione. Ma mi lasci tornare un attimo alla questione dei soldi». 

Prego.

«Lo spiegò benissimo Ivan Illich in un libro profetico del 1984, Gender. L'obiettivo è creare individui sciolti da ogni relazione, perfino quella con il loro corpo». 

Perché?

«Perché questi sono i precari assoluti: non hanno più nemmeno la certezza del corpo. Sono perfettamente funzionali a produzione, consumo. Quello che mi serve, sei».

Il gay pride milanese chiede anche il pieno accesso degli omosessuali a tutte le tecnologie riproduttive. Incluso l'utero in affitto, allora.

«Be', questo lo hanno sempre rivendicato». 

In sostanza, lo scopo è andare ben oltre Zan, no?

«Zan è l'apripista, con l'imposizione del concetto di identità di genere. È questo che a loro interessa di quella legge, insieme alle scuole. Tutto il resto è contorno». 

Il mondo Lgbt è misogino?

«Sì» 

Ma in che senso?

«I rapporti tra il mondo gay e quello femminista sono molto antichi. Da parte delle donne c'è sempre stato questo approccio protettivo nei confronti di persone che, fino a un certo punto della nostra storia, sono state effettivamente perseguitate». 

Però?

«Ora c'è una specie di emancipazione del mondo gay dal femminile». 

Che intende?

«Il gay "femmineo" non è più una figura apprezzata: sono tutti palestrati, barbuti. C’è una maschilizzazione del mondo gay, che ci riporta in dinamiche di contrasto tra donne e uomini. Ma bisogna stare attenti».

A cosa?

«Non facciamo l'errore di pensare che tutto il mondo gay sia questa roba qua. Ad esempio, non tutti i gay sono di sinistra». 

Naturalmente.

«Se vai in certi ritrovi gay di Milano, a Porta Venezia, trovi pure gente che vota Lega, Forza Italia, Giorgia Meloni. Ci sono imprenditori di grande talento, che hanno aperto locali molto belli, e che se va Monica Cirinnà a fare la lezione sull'utero in affitto, vivono la cosa con una certa insofferenza. Non gliene frega niente degli obiettivi politici dell'Arcigay».

Il caso Saman ha messo in imbarazzo le femministe?

«Non attribuiamo al femminismo gli imbarazzi della sinistra. Il femminismo non appartiene né alla sinistra né alla destra». 

Ma ha senso ricondurre un episodio del genere alla stessa matrice del cosiddetto «femminicidio»?

«Il dominio di un sesso sull'altro, che Joseph Ratzinger ha definito perversione, è un fatto incontestabile».

In Italia è un reato.

«Ma come vede non basta. In più ci sono una cultura estremamente arretrata e un feroce autosessismo delle donne: la mamma ha avuto una funzione essenziale in questo presunto omicidio. Abbiamo il peggio del peggio del patriarcato, che s'intreccia con motivi legati a fondamentalismo religioso che, per esempio, impongono il velo, perché il corpo di una donna è considerato un pericolo». 

Appunto.

«Però non si può nemmeno incolpare l'islam. L'islam era anche l'Egitto di Nasser, la Persia di Reza Pahlavi, Kabul con i night club Certo, in questo momento, la ripresa del fondamentalismo fornisce una cornice culturale e religiosa a questi fenomeni». 

E la fatwa dell'Ucoii?

«Una cosa sbagliatissima. Così si equipara la legge coranica alla legge dello Stato». 

Si condanna il matrimonio forzato, ma non quello combinato. Una femminista non dovrebbe inorridire?

«Se hanno scritto questo, è perché devono salvare capra e cavoli. È comunque illibertà femminile: corpi di donne intese come oggetti che servono allo scambio tra famiglie». 

Citava il velo.

«Lo rispetto. Ma in questi giorni di caldo, io sto in canotta e la ragazza islamica sta con una coperta sulla testa. Faccio fatica a capire: il corpo chiederebbe anche a lei di scoprirsi, ma il suo corpo è concepito solo come il disordine pre Maometto». 

Cioè?

«L'idea di una donna sessualmente incontentabile, vorace, che va costantemente controllata, a cui si affida il compito di custodire l'onore maschile. Una fantasia drammatica, che nasce dalla paura».

Gli ultras del Ddl Zan usano la Carrà appena morta. Ignazio Stagno il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. Già partita la petizione per cambiare nome al disegno di legge. Tra i fan della proposta anche nomi dello spettacolo. Il Ddl Zan sta accendendo la politica di casa nostra da parecchie settimane. Mentre sfuma l'intesa nella maggioranza e ci si avvia verso lo scontro finale in Senato il prossimo 13 luglio, gli ultras del ddl non si arrendono e arruolano pure Raffaella Carrà morta solo 24 ore fa. Già sul web e soprattutto sui social diversi profili hanno rilanciato messaggi e post per legare il nome della Carrà al disegno di legge sulla omotransfobia. Ma c'è anche chi si è spinto oltre usando la morte della conduttrice per dare un'accelerazione all'approvazione della norma. E così è nata l'idea sul web di cambiare nome al Ddl Zan tramutandolo in Ddl Carrà. La conduttrice non era mai entrata nel merito del provvedimento. Ma tant'è. Così lo sceneggiatore Enrico Cibelli ha deciso di lanciare online una vera e propria petizione per cambiare il nome della norma. Non ha usato giri di parole, come riporta l'Adnkronos: "Direi di chiamarlo Ddl Carrà, approvarlo e fine del discorso". E la proposta ha fatto il giro del web ed è stata retwittata anche da nomi dello spettacolo come ad esempio il cantante Ermal Meta che ha sentenziato: "Sono totalmente d'accordo". Insomma i tifosi del Ddl Zan sono disposti a tutto. Usano la morte di una delle conduttrici, showgirl e attrici più amate per portare acqua al mulino delle proprie battaglie ideologiche e politiche. Un vizio che soprattutto a sinistra sta diventando una sorta di moda. Per un intero giorno è stata usata la morte del giovane Seid, suicida ad appena 20 anni, per sponsorizzare lo Ius Soli. Solo l'intervento dei genitori ha riportato le cose al loro posto e ha zittito, in un momento di estremo dolore, i cori dei kompagni. Proprio in quell'occasione furono i genitori ad affermare che con la morte del ragazzo il razzismo aveva poco a che fare. La scena si è ripetuta con la morte di Orlando Merenda che si è tolto la vita qualche giorno fa. Anche in quel caso la morte è stata usata per tirare la volata al Ddl Zan. Ma niente da fare, puntuale è arrivata la frenata.

Gli stessi inquirenti e gli amici del ragazzo hanno affermato che il motivo del gesto potrebbe essere figlio di altri contesti e altri problemi che avevano reso la vita impossibile a questo ragazzo. Ora con la Carrà si è fatto il salto di qualità. Usare la morte di un vip per cavalcare le battaglie politiche. Forse il vero omaggio che merita la Carrà è quello di questa sera quando Spagna e Italia si riscalderanno sulle sue note. Infine ricordiamo le parole di Mogol che tenendosi alla larga dagli ultrà del ddl Zan ha proposto un gesto concreto per ricordare la Carrà, dedicarle l'Auditorium Rai del Foro Italico: "Non devo spendere troppe parole per raccontare cosa ha rappresentato Raffaella Carrà per la televisione nel nostro paese e in particolare per la Rai. Un'eccellenza assoluta che ha dato prestigio all'azienda e al nostro Paese nel mondo. Auspico che questa proposta, sostenuta dai centomila associati SIAE che rappresento, venga accolta con favore". Un gesto semplice che non ha il sapore dello sciacallaggio partito sui social.

Ignazio Stagno. Nato a Palermo nel 1985. Palermitano prima di tutto, a Milano da quasi 10 anni. Dal 2015 lavoro per il sito de ilGiornale.it. Due passioni: il Milan e le sigarette. Un solo vizio: la barba lunga.

Lo sciacallaggio rosso che fa politica sui morti. Ignazio Stagno il 29 Giugno 2021 su Il Giornale. Dopo il caso Seid, la sinistra ci ricasca: questa volta "usa" la morte di un ragazzo di 18 anni per spingere il Ddl Zan. Lasciate stare in pace i morti. Regola non scritta, scolpita nel galateo del rispetto, ma totalmente ignorata e dimenticata dalla sinistra. Negli ultimi tempi il blocco rosso (e anche parte dei Cinque Stelle) cavalcano i casi di cronaca (con corpi ancora caldi) per portare acqua al mulino delle battaglie ideologiche. Solo qualche settimana fa la morte del povero Seid è stata usata e strumentalizzata per spingere il progetto della legge sullo Ius Soli. Da più parti a sinistra si erano affrettati a mettere il cappello sul gesto disperato di un ragazzo tirando fuori la solita retorica sul razzismo. Solo l'intervento degli stessi genitori del ragazzo ha spento lo sciacallaggio vergognoso su quel suicidio. Parole chiare: "Con la morte di Seid il razzismo non c'entra". In pochi attimi Seid è stato abbandonato nell'oblio da tutti i vari Saviano e Letta che avevano cercato di usare quella morte per sponsorizzare lo Ius Soli e attaccare i nemici classici di turno come Salvini e Meloni. Dall'esperienza del caso Seid, la sinistra non ha imparato nulla.

 Giuseppe Legato per "la Stampa" il 9 luglio 2021. No. Quel messaggio postato su Instagram da Orlando Merenda, il diciottenne morto suicida a Torino il 20 giugno scorso, non c' entra niente con il movente di questa tragedia. «Il problema delle menti chiuse è che hanno la bocca aperta», aveva scritto sul suo profilo social forse per superare l'ennesimo insulto di qualche deficiente a caccia di battutone demenziali sui gay e sugli orientamenti sessuali. Ma non è omofobia e nemmeno bullismo la chiave del giallo sulla morte di questo giovanissimo ragazzo. Si è gettato sotto un treno per uscire da un vicolo cieco che avevo reso, di colpo, tutto buio nella vita che a quell' età può conoscere fragilità, ma non merita tenebre. Nella riservatezza delle indagini della procura che lavora alla soluzione del caso, c' è una svolta che da alcuni giorni ha orientato le indagini lontano dall' ignoranza di chi non rispetta le scelte soggettive di ognuno. Non è qui la soluzione al mistero. Orlando, che aveva compiuto 18 anni da un mese, era - in qualche modo e chissà per quale motivo - finito (già da quando era minorenne) a contatto con un giro legato alla prostituzione. Forse obbligato, forse ingannato. Certo non aiutato a prenderne le distanze quando forse stava cercando la forza di farlo per allontanarsi velocemente da un contesto che non gli apparteneva. E' in questo quadro che si muovono le indagini del pm Alessandra Barbera e della polizia. In questo contesto sarebbe maturato un ricatto che potrebbe averlo portato a togliersi la vita. La omosessualità non era, per la vittima, vissuta come una diminutio della sua personalità. Non c' era imbarazzo, adesso. Il percorso, probabilmente, non era stato facile, ma da un po' di tempo rivendicava le sue scelte con personalità. I profili social del giovane restituiscono l'immagine di un ragazzo che voleva e aveva deciso di essere se stesso. Gli insulti omofobi post mortem che hanno riempito le cronache fino a pochi giorni fa, sono gravi e contemporaneamente estranei alla dinamica dei fatti. Ma quella storia del ricatto, del brutto giro in cui sarebbe finito negli ultimi tempi ha iniziato ad affiorare dalle testimonianze di alcuni amici, dalle chat del telefono analizzate dagli investigatori. Quel turbamento che non ha saputo superare, diventato insormontabile - di colpo - alla sua età, avrebbe contribuito a maturare la scelta di gettarsi sotto un treno al confine tra Torino e Moncalieri. In quest' ottica - e con una inquietante logica - tornano in mente le parole raccontate dal padre a La Stampa in una recente intervista: «Nelle ultime settimane mi aveva detto che aveva paura di un paio di persone. Mi aveva raccontato di essere stato minacciato, ma non aveva aggiunto altro. Forse per timore. Gli avevo chiesto chi fossero. Gli avevo proposto di incontrarli con lui, di avere un confronto. Ma Orlando minimizzava. Diceva che non era il caso. Gli avevo anche chiesto se dovesse dei soldi a qualcuno. Di spiegarmi quale fosse il problema, che l'avremmo affrontato insieme. Però i suoi atteggiamenti non sembravano allarmanti e così gli avevo consigliato di pensare alle vacanze». Il giovane sarebbe partito a breve per trascorrere i mesi estivi in Calabria. L' inchiesta - per istigazione al suicidio - è a un bivio. La pista del giro di prostituzione in cui il giovane sarebbe caduto senza riuscire a uscirne rimanendo intrappolato in un ricatto troppo complesso da affrontare per chiunque, amplierebbe peraltro la sfera dei reati ipotizzati.

La storia si ripete. E puntualmente la storia si è ripetuta. Questa volta al centro delle cronache c'è la morte tragica di Orlando Merenda, un ragazzo di appena 18 anni che ha deciso di togliersi la vita a Torino. Immediatamente è scattata la corsa a dare subito, in modo affrettato, un movente a quel gesto. A sinistra è partito il coro di chi voleva collegare ad ogni costo questa morte al bullismo omofobo tirando la volata al Ddl Zan. Eppure, secondo quanto riportato dagli inquirenti, sarebbe già caduta l'ipotesi che il gesto estremo di Orlando possa essere collegato a offese o insulti per il suo orientamento sessuale. I primi a strumentalizzare la morte di Orlando sono stati proprio gli esponenti del mondo Lgbt politicizzato: "Diamo la nostra solidarietà alla famiglia di Orlando Merenda, suicidatosi a 18 anni, gettandosi contro un treno perchè vittima di omofobia", ha affermato Fabrizio Marrazzo, portavoce nazionale del Partito Gay per i diritti LGBT+. E ancora: "Siamo stufi di sentire solidarietà dalle istituzioni, quando avvengono fatti tragici come quello di oggi, ma in realtà mancano azioni concrete e quotidiane - ha dichiarato Davide Betti Balducci, candidato sindaco di Torino per Partito Gay per i diritti LGBT+, Solidale, Ambientalista e Liberale - la lotta al bullismo ed alle discriminazione è uno dei punti principali del nostro programma, per dare maggiori tutele ai nostri studenti ai nostri cittadini, per fare si che casi come quello di Orlando non si ripetano più". E la musica non cambia se ad esempio si leggono le parole di Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia alla Camera e parlamentare M5s: "Continuano le violenze omofobe. Siamo ad un bollettino quasi quotidiano di casi anche estremi, come quello del suicidio del giovane Orlando. Eppure la destra insiste nella sua campagna di bugie, continuando a dire che nel ddl Zan sono previsti reati di opinione: è falso, l'opposizione alla legge nasce da un oscurantismo ideologico che penalizza i diritti delle persone LGBT ed ha il terrore di affrontare certe tematiche. Si approvi il testo al Senato, il parlamento dia questa prova di responsabilità".

Dem in prima fila. Anche dalle parti del Pd non si sono certo lasciati sfuggire l'occasione. Con un comunicato congiunto, la segretaria metropolitana del Pd di Milano, Silvia Roggiani e il responsabile dei Diritti, Michele Albiani hanno affermato: "Storie come queste o come quella di Orlando che, a soli 18 anni, si è tolto la vita, molto probabilmente perché sopraffatto dall'omofobia, dimostrano il clima pericoloso di intolleranza, che sta crescendo nel nostro Paese. E, nonostante tutto, c'è ancora qualcuno che lo nega. C'è ancora chi dice che non serve una legge. Una legge serve eccome. Serve per punire chi pensa che sia uno scherzo insultare due persone dello stesso sesso che si tengono per mano. Nessuno di noi resti in silenzio, adesso c'è bisogno di dire tutti insieme che il tempo è finito e va approvato il disegno di legge Zan". Ebbene sul fronte delle indagini ora si va in altre direzioni. La stessa procura che indaga sulla morte di Orlando usa prudenza. Come riporta il Corriere, in un primo momento le attività di indagine si sono concentrate su omofobia e bullismo. Poi la svolta: il fascicolo aperto dal pm Antonella Barbera ipotizza il reato di istigazione al suicidio. A quanto pare negli ultimi tempi il ragazzo era molto turbato. A raccontarlo è stato il fratello Mario: "Aveva paura di qualcuno...". Ma non finisce qui: alcuni amici hanno parlato di un "brutto giro" e di un "ricatto" che non riusciva più a sopportare. Di certo in questa sede non vogliamo certo trovare le cause di questo gesto estremo. Un gesto che solo la prudenza e la serietà delle indagini chiariranno. Non certo le uscite ideologiche a sinistra che servono solo a fare (ancora una volta dopo Seid) di una morte il simbolo di una battaglia politica.

Ignazio Stagno. Nato a Palermo nel 1985. Palermitano prima di tutto, a Milano da quasi 10 anni. Dal 2015 lavoro per il sito de ilGiornale.it. Due passioni: il Milan e le sigarette. Un solo vizio: la barba lunga.

La Serie A difende i gay ma non da chi li uccide: la vergogna, ecco il logo fatto ad hoc per gli arabi. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 29 giugno 2021. Mancherebbe soltanto una versione arcobaleno in versione araba e la battaglia per i diritti lgbtq+ diventerebbe globale. La Lega Calcio di Serie A però non ha avuto il coraggio di osare tanto e si è limitata a rendere variopinto il proprio logo solo sul profilo twitter in italiano, inglese e spagnolo. Le comunicazioni in lingua araba destinate ai Paesi islamici rimangono rigorosamente tinte di azzurro e con una scritta tricolore dello sponsor Tim, tranne pochi retweet in inglese. Forse avevano finito i pennarelli, ironizza il pubblico che ha notato la differenza di stile. In realtà sono rimasti a secco per un problema culturale che riguarda non solo il Medio Oriente, ma anche l'Africa, il Brunei, le Isole Maldive e in genere tutti gli Stati i cui ordinamenti giuridici si fondano sulla legge coranica e dove le autorità vietano la celebrazione del Gay Pride: l'omosessualità è un reato punito in vari modi. Se molti, come in Indonesia, prediligono le frustate e in Iran invece hanno ormai adottato la consuetudine dell'impiccagione per chi viene condannato per atti di sodomia, altrove, come nei territori governati dal Califfato o dai Talebani, vi sono varianti locali, tutte ispirate alla lapidazione per gli atti impuri: il colpevole viene in qualche gettato dal tetto di un edificio preferibilmente alto per favorirne lo sfracellamento, oppure va immobilizzato vicino a un muro che poi sarà abbattuto da un bulldozer rovinandogli addosso fino a ucciderlo. Forse sarebbe il caso di sensibilizzare quei popoli e le loro istituzioni civili e religiose a una maggior tolleranza nei confronti del vizio, piuttosto che prendersela con l'Ungheria. Al Parlamento di Budapest si sono limitati ad approvare una legge che tutela il diritto dei genitori a educare i figli in conformità con le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche, come recita la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. E proprio da Bruxelles li attaccano come omofobi. Le pressioni internazionali nei confronti dell'Italia, affinché approvi il disegno di legge Zan, che si trasformerebbe in un attacco alla libertà educativa dei genitori, sono speculari. Ma si preferisce prendersela con le presunte ingerenze della Santa Sede, che si è limitata a ricordare le «esigenze della libertà di religione, insegnamento ed espressione», come ha sottolineato il segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin. Per tutta risposta, sabato scorso al Gay Pride di Milano qualcuno ha messo in scena una rappresentazione della salita al Calvario, messa in scena da un uomo travestito da donna. Del resto, dai cristiani non c'è da temere una rappresaglia violenta per gli atti di blasfemia. Semmai la cronaca è piena di atti di terrorismo compiuti da musulmani, come nel caso di Charlie Hebdo o delle vignette satiriche danesi su Maometto e il Corano. L'accusa di islamofobia fa notevolmente più paura dell'omofobia. Perciò contro il Qatar, che ospiterà i prossimi mondiali di calcio, nessuno si permette di protestare e nemmeno contro gli Emirati Arabi Uniti, le cui linee aeree sponsorizzano almeno una squadra di serie A italiana. Gli sceicchi non minacciano vendetta, ovviamente, ma si sa che hanno a disposizione cospicue ricchezze e detengono importanti partecipazioni azionarie in società occidentali. Vedere calare gli investimenti esteri dal mondo arabo si rivelerebbe economicamente più dannoso di un eventuale boicottaggio da parte della comunità gay. La scelta di essere forti con i deboli e deboli con i forti può anche trasformarsi in una pratica politica. Si traduce nel cedimento alla logica del ricatto. E non in un progresso civile.

"Bullismo etico della sinistra". Ricolfi demolisce il ddl Zan. Martina Piumatti il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. Il ddl Zan, la prepotenza della sinistra che non è più di sinistra e la destra che è diventata “un po’ di sinistra”. Lucido, diretto, spesso tranchant. Luca Ricolfi all’establishment progressista piace poco. “Pochissime recensioni, nessuna intervista, rari inviti in tv”. Fuori dai salotti che piacciono alla gente che piace, ma teme il “confronto di idee”. Mentre a citare come faro dell’indipendenza di pensiero il sociologo, da sempre di sinistra, ci pensa la destra. Un ribaltamento di ruoli ormai evidente nella politica spaccata in due sul ddl Zan. Da una parte, una sinistra prona alla prepotenza progressista, che ‘bullizza’ chi non si sottomette ai suoi diktat. Dall’altra, la difesa della libertà di espressione che diventa prerogativa di una destra sempre “un po’ più di sinistra”.

Il ddl Zan dovrebbe approdare in Senato entro la metà di luglio. Ma la scia di polemiche che lo accompagna è lontana dall’essere archiviata. La sua posizione a riguardo è netta: l’ha definito il “cavallo di Troia del politicamente corretto”, cosa intende?

"Intendo sottolineare il suo carattere proditorio. Basta leggere i disegni di legge precedenti, Zan-Annibali e Scalfarotto-Zan, entrambi ragionevoli e accettabili per chiunque (destra compresa), per rendersi conto che con il ddl Zan la cosiddetta comunità LGBT ha visto una ghiotta occasione di imporre a tutti la propria, specifica e minoritaria, visione del mondo: un atto di pura prepotenza culturale".

Quale tra gli “effetti aberranti” del disegno di legge teme di più?

"L’articolo 1, il più temuto anche dal mondo femminista, perché scatenerebbe un uso opportunistico della scelta soggettiva del genere, con i carcerati che chiedono il trasferimento nei reparti femminili, gli atleti 'ex maschi' che gareggiano con le atlete, e più in generale l’assalto ai benefici di genere, ossia riservati a uno dei due sessi. E poi l’articolo 7, che apre le porte all’indottrinamento degli scolari e – nella

misura in cui sancisce per legge che il genere è una questione di scelte soggettive – rischia pure di suscitare dubbi, e innescare crisi esistenziali, in un periodo della vita molto delicato per qualsiasi ragazzo o ragazza".

C’è bisogno davvero di una legge ad hoc contro l’omotransfobia o in fondo basterebbe l’impianto vigente?

"Prima di rispondere alla domanda, mi consenta una riflessione linguistica. Le parole con il suffisso 'fobia' (paura), tipo omofobia, transfobia, ma anche xenofobia, andrebbero completamente bandite dalla legge penale, e sostituite con parole che utilizzano suffissi derivati dal greco 'misein', odiare, come correttamente già avviene quando si parla di misoginia (odio verso la donna), o di misantropia (odio contro gli esseri umani). Già è assurdo e illiberale sindacare sui sentimenti, ma è ridicolo demonizzare la paura. In una società libera ognuno ha il diritto di provare i sentimenti che vuole, e stigmatizzare la paura è semplicemente un non senso".

Quindi serve o no?

"Dipende. Se si accetta che lo strumento per combattere le discriminazioni e la violenza sia la legge Mancino, non si può non riconoscere che quella legge è incompleta, perché dimentica omosessuali e transessuali, nonché una caterva di altre categorie talora oggetto di atti aggressivi più o meno gravi: ad esempio i disabili, i barboni, i bambini 'diversi' in quanto grassi, timidi, secchioni, con pochi like,

eccetera. Ma, più ci penso, più mi convinco che il difetto stia nel manico, cioè nella legge Mancino, ovvero nell’idea che per combattere violenza e discriminazioni la strada sia quella di moltiplicare le categorie protette: l’elenco delle categorie degne di protezione, infatti, è arbitrario e potenzialmente illimitato".

Quanto c’è di vero nell’endorsment della sinistra? Intercetta un’istanza sentita dalle masse o insegue i trend dettati da un’élite di pseudo influencer?

"La seconda che ha detto".

Lei che conosce bene le pieghe della società, qual è lo sfondo culturale che ha trasformato, proprio ora, la legge contro l’omotransfobia in una necessità? In fondo la sinistra è stata al governo dal 2013 fino al 2018, poteva farlo prima…

"Forse conosco 'le pieghe della società', ma ignoro quasi del tutto quelle della politica. Perché sono stati fermi nel 2013-2018? Mah, forse pensavano di non avere i voti al Senato, forse non volevano irritare il Vaticano, forse erano troppo impegnati sul versante dei migranti. Insomma: non lo so".

Ma non è che per essere sempre ‘più civili’ diventeremo sempre meno liberi? Penso anche alla polemica sull’inginocchiarsi o meno. Chi non lo fa viene considerato automaticamente razzista…

"Siamo già molto meno liberi anche di solo 20 anni fa. Io noto questa differenza: nell’ultima parte del secolo scorso il politicamente corretto era un modo di affermare la propria superiorità morale, nel XXI secolo sta assumendo tratti intimidatori. È un passaggio sociologicamente molto importante, perché segnala una pericolosa mutazione dell’establishment progressista. Ieri si accontentavano dell’egemonia culturale, oggi aspirano al dominio. Dalla 'maestrina dalla penna rossa', al prepotente che umilia chi non si sottomette. Dal pavone al bullo. È per questo che, oggi, io non parlo più di 'razzismo etico' (una espressione coniata vent’anni fa da Marcello Veneziani), ma mi sento costretto a parlare di 'bullismo etico'".

Se chi vota (a giudicare dai sondaggi impietosi) e soprattutto una parte, le nuove leve, dentro il Pd si sgola per dire che le battaglie sono altre, perché la sinistra insiste?

"Perché la base sociale della sinistra, da almeno 30 anni, sono diventati i 'ceti medi riflessivi' (così li battezzò lo storico Paul Ginsborg), e la sua base popolare in parte è scomparsa (con il restringimento della classe operaia), in parte è stata ceduta alla destra, che difende il lavoro autonomo e il diritto delle periferie ad aver paura dell’immigrazione".

Non è un po’ il solito “complesso dei migliori” in cui cade la sinistra: “Solo noi sappiamo cosa è giusto e ve lo imponiamo, democraticamente”?

"In realtà, come accennavo prima, al complesso dei migliori è subentrata la prepotenza dei paladini del bene. Ma non è strano, se si evidenziano tutti i passaggi. Dopo il 1989 c’è stata una saldatura fra l’establishment politico-finanziario, che vuole solo globalizzazione e frontiere aperte, l’establishment mediatico, che vuole solo intrattenimento, internet e buone cause (dal riscaldamento globale al Black Lives

Matter), e l’establishment politico progressista, che vuole solo espandere il proprio potere per guidare il cambiamento sociale. Avendo quasi tutti i poteri forti dalla propria parte, l’establishment progressista si è fatto più aggressivo: non gli basta dire 'noi siamo moralmente superiori', ora pretende di stabilire come dobbiamo parlare, come dobbiamo comportarci, a quali valori dobbiamo inchinarci".

Creando delle categoria protette il paradosso è che la discriminazione rischia di essere doppia: per chi ne è fuori, ma anche per chi è dentro, in un certo senso ghettizzato come specie da tutelare. Neri, donne, omosessuali non sono semplicemente persone?

"È così, e molte femministe lo hanno capito. Forse l’effetto sociale più importante del ddl Zan è stato di spaccare il mondo femminista".

Dalle favole riscritte al linguaggio declinato in chiave inclusiva: l’attenzione, a volte ridicola, nel proteggere queste categorie per non urtarne la sensibilità le protegge davvero?

"È difficile valutare quale sia il saldo fra gli effetti di protezione e quelli di umiliazione. Quel che però mi sembra indubbio è che ci sono anche effetti negativi sui non protetti: la protezione speciale accordata a determinate categorie, inevitabilmente suscita il risentimento delle categorie escluse. E poi c’è l’effetto perverso del linguaggio politicamente corretto: a forza di proclamare che non devi dire negro ma nero, non devi dire handicappato ma diversamente abile, non devi dire cieco ma ipovedente, automaticamente metti in mano ai portatori di cattivi sentimenti un armamentario di parole contundenti che prima – quando Cesare Pavese parlava tranquillamente di negri, e Edoardo Vianello esaltava i Watussi 'altissimi negri' – semplicemente non c’erano, perché quelle parole erano neutre, puramente descrittive. È come se, a un certo punto, qualcuno avesse deciso che per ogni cosa che nominiamo, debbano esistere due termini, uno rispettoso e l’altro irrispettoso, anziché un solo termine neutro: come si fa a pensare che sia una buona idea?".

Poi, però, la difesa a spada tratta non vale sempre. Su Saman la sinistra ha taciuto, perché?

"La sinistra ha un occhio di riguardo per l’Islam, e le persone di sinistra coraggiose e intellettualmente oneste (come Ritana Armeni, che ha denunciato il silenzio sul caso di Saman), sono troppo poche".

Ma la strumentalizzazione ad uso e consumo della politica può essere un boomerang. Come nel caso di Malika, la ragazza lesbica ripudiata dalla famiglia ‘usata’ come eroina pro ddl Zan. Poi, si è scoperto che con i soldi raccolti per sostenerla si è comprata auto di lusso e cani di razza. Anche qui tutti zitti da sinistra. Dice che avranno imparato qualcosa?

"No. L’incapacità di imparare dall’esperienza è uno dei tratti del software mentale dell’establishment progressista".

Lei ha dichiarato di essere stato abituato a pensare che la censura fosse “una cosa di destra” e che la difesa delle libertà di opinione, di pensiero e di espressione fossero “ben incise nelle tavole dei valori del mondo progressista”. Ora ha cambiato idea?

"Il trionfo del politicamente corretto, ma soprattutto l’autocensura in atto da anni fra scrittori, giornalisti, artisti, intellettuali, mi hanno costretto a prendere atto che sinsitra e libertà di espressione sono diventate due cose incompatibili".

Il ddl contro l’omotransfobia del centrodestra, con Licia Ronzulli come prima firmataria, tutelerebbe meglio la libertà di espressione?

"Ovviamente sì, ma non abbastanza. Finché non si riscrive la legge Mancino la libertà di espressione è in pericolo, perché quella legge lascia in mano ai giudici la facoltà di stabilire se una certa idea determina oppure no il 'concreto pericolo' di azioni violente o discriminatorie".

Lei che è dichiaratamente di sinistra viene citato spesso dalla destra. Come vive la cosa?

"Potrei dirle, citando una frase di Alfonso Berardinelli del 2005: 'non credo che la sinistra sia di sinistra'. Ma c’è una risposta più radicale, che mi trovo costretto a darle: la realtà è che alcune, fondamentali, bandiere della sinistra sono passate a destra".

Quali?

"Almeno tre: la libertà di espressione, chiaramente insidiata dal politicamente corretto; la difesa dei veri deboli, che oggi sono innanzitutto i membri della 'società del rischio', ossia le partite Iva e i loro dipendenti, esposti alle turbolenze del mercato ed ora decimati dal Covid; e poi la parità uomo-donna in politica, un tema su cui la sinistra è addirittura retrograda. Le sembra possibile che, in tanti decenni, non sia mai emersa una leadership femminile a sinistra né in Italia né in Europa? È mai possibile che un elettore che auspicasse un premier donna sia costretto, oggi come in passato, a guardare a destra? In Europa tutti i leader-donna importanti degli ultimi 50 anni sono di destra: Margareth Thatcher, Angela Merkel, Marine Le Pen, Marion Le Pen, Theresa May, Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni. Come possiamo credere in una sinistra in cui tutti i posti chiave sono occupati da maschi?".

E se gliel’avessero detto trent’anni fa, che sarebbe diventato simbolo di libertà di pensiero per la destra contro le degenerazioni ideologiche della sinistra?

"Non ci avrei creduto, trent’anni fa. Ma vent’anni fa, quando scrissi La frattura etica e cominciai a lavorare a Perché siamo antipatici?, forse sì".

Da sinistra però qualche nemico se lo sarà fatto per le sue 'sparate' politicamente scorrette?

"Mi spiace che lei le definisca 'sparate', io di solito mi baso sui miei studi, e sono piuttosto analitico, poco umorale. Anche se, questo lo ammetto, non ho peli sulla lingua. Quanto ai nemici a sinistra, non saprei. Quel che mi succede è semplicemente di essere ignorato. Pochissime recensioni, nessuna intervista, rari inviti in tv. L’establishment di sinistra, fatto non solo di politici ma di giornalisti, scrittori,

conduttori televisivi, operatori culturali, si comporta come se avesse paura del confronto di idee, e forse anche per questo si è così spesso lasciato spiazzare dai cambiamenti della realtà".

Ma soprattutto: quella italiana, il Pd di Letta si può ancora definire sinistra?

"No, non è sinistra, ma non è nemmeno destra. Il Pd di Letta è semplicemente establishment, nient’altro che establishment".

Lei si riconosce in questa sinistra o no?

"No".

Non sarà davvero diventato di destra?

"No. È la destra che è diventata un po’ di sinistra". Martina Piumatti

Chiara Ferragni e Fedez, se sul ddl Zan superano Letta a sinistra. Riecco la coppia dei miracoli contro il compromesso sull'omotransfobia (ma ci sarà un motivo se le femministe sono contro la legge, no?) Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 09 luglio 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Rieccoli all’attacco. Riecco i Ferragnez in versione arcobaleno, nella consueta posa da templari del Ddl Zan, mentre la legge contro la omostransfobia s’arrampica su sentieri legislativi tortuosi, ostacolata dal centrodestra, dal Vaticano e dal Renzi Matteo che butta un occhio al proprio elettorato cattolico e l’altro al suo nuovo palcoscenico. Dunque, avviene questo. Di prima mattina l’influencer da 20 milioni di followers Chiara Ferragni pubblica, a raffica, tre stories su Instagram immerse nella denuncia sociale e nel dileggio del Palazzo. Nella prima storia, in particolare, svetta una foto di Matteo Renzi con sopra la scritta “L’Italia è il paese più transfobico d’Europa” (cosa, peraltro non vera); e il commento: “Che schifo che fate politici”. Che suona un po’ come “quelli che la politica è una roba sporca” della canzone di Enzo Iannacci sul qualunquismo. E spiegazione dello “schifo” non è esattamente un articolato di legge: «La triste verità è che nonostante una legge che tuteli donne, disabili e persone appartenenti alla categoria lgbtq+ serva nel nostro paese e sia attiva nel resto dell’Europa da decenni, in Italia non verrà mai approvata perché la nostra classe politica preferisce guardare sempre il proprio interesse personale. La tutela contro l’odio verso queste categorie dovrebbe essere un obiettivo di tutta la popolazione e di tutti i partiti politici e il fatto che il ddl Zan non verrà probabilmente mai approvato è una grande sconfitta per tutti noi. Una sconfitta per ognuno di noi». Renzi che nei social ci zampetta assai, viene tramortito dall’impeto di Ferragni, e replica su Facebook: “Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista”. E continua il segretario di Italia Viva: “Da una persona che stimo mi aspetterei un confronto nel merito. Perché sapete chi fa davvero schifo in politica? Fa schifo chi non studia, chi non approfondisce, chi non ascolta le ragioni degli altri, chi pensa di avere sempre ragione”. Non che Renzi abbia tutti i torti. Anche perché pur il senatore ribadendo e articolando tutti i punti su cui Iv chiederà la modifica del ddl Zan –ossia gli articoli 1,4 e 7 su definizione di genere, libertà d’espressione e autonomia delle scuole cattoliche- non riesce ad ottenere dalla Ferragni che una silente indifferenza. Renzi si dice anche “pronto a un dibattito pubblico con la dottoressa Ferragni, dove vuole e come vuole. Sono sempre pronto a confrontarmi con chi ha il coraggio di difendere le proprie idee in un contraddittorio. Se ha questo coraggio, naturalmente”. Ma pare che Chiara, impegnata nella pubblicità di un prodotto per capelli di cui è testimonial non abbia questo coraggio. O forse, banalmente, non ha tempo. L’indifferenza è l’ultimo terrore, scriveva Tommaso Landolfi (e Renzi, all’indifferenza, è molto sensibile). Ma ecco, ad un tratto, intervenire Fedez, nelle veci della moglie, stavolta via Twitter. “Stai sereno Matteo, oggi c’è la partita. C’è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia”, dice il rapper. Ce ne fosse uno che usasse lo stesso social. Reazioni politiche? Pochissime, la materia è incandescente. C’è giusto l’ipercattolico Mario Adinolfi: «Con il mio nuovo look fresco e estivo mi rendo conto di non poter competere con lo stile di Chiara Ferragni e del marito Fedez. Allo stesso modo, consiglio ai suddetti d’adottare messaggi dubitativi quando s’occupano di politica, evitando il qualunquismo e accettando il confronto». E neppure Adinolfi ha torto. Anzi, in questa ennesima querelle, dal loro punto di vista, avrebbero tutti ragione. Ha ragione Chiara Ferragni nel dire che non c’è interesse della classe politica ad attuare una “legge di civiltà”; pure se non ha interesse nemmeno la sinistra ad andare al voto in aula senza modifiche, a testa bassa, senza avere i numeri, col voto segreto (anche perché se passa così è un trionfo ma se non passa la colpa sarà comunque di Renzi e di Salvini). E ha ragione Renzi quando richiama l’arte del compromesso in politica e dice che è meglio una legge lievemente modificata che nessuna legge (d’altronde le Unioni civili sono nate stralciando la stepchild adotion, e pure il Concordato e lo Statuto dei lavoratori sono stati il frutto di accordi). La differenza tra la coppia shakespeariana dei social e i politici che “fanno schifo” sta nel fatto che per i primi non puoi pensarla diversamente da loro che subito ti scaraventano addosso la forza d’urto dei propri followers. Ma, in realtà, cari Fedez e Ferragni, servirebbe far transitare le idee. Per esempio: vi siete chiesti se passasse l’interpretazione dell’art.1 della Legge Zan che fine farebbero le quote rosa? Ci sarà un motivo se molte femministe sono incazzatissime contro lo Zan? Dite che Renzi in Senato ripudia il testo che aveva firmato alla Camera? Certo, ma non era intervenuta la Santa Sede col suo elettorato. Magari la politica farà schifo, ma se la si prendesse sul serio ho idea che varrebbe della marca di una lacca o di legioni di followers… 

Fedez e Chiara Ferragni, figuraccia colossale sul ddl Zan: per chi scambiano Ivan Scalfarotto. Libero Quotidiano il 10 luglio 2021. Figuraccia colossale per Fedez e la consorte Chiara Ferragni, ormai divenuti paladini della sinistra pro-ddl Zan. Peccato però che sulla legge contro l'omotransfobia la coppia di influencer sappia ben poco. È bastata la diretta Facebook tra il rapper, Pippo Civati ex deputato dem della Brianza, Marco Cappato ed Alessandro Zan, il promotore della legge, a dimostrarlo. "Nell'imbarazzo - spiega Il Tempo -si ritrova, l'onorevole Zan, a dover spiegare al Lucia (cognome di Fedez), quelli che sono i meccanismi parlamentari difendendo pure Matteo Renzi". Il quotidiano romano parla di continui "strafalcioni". Uno a caso? Il marito della Ferragni scambia Ivan Scalfarotto, deputato renziano, per un giornalista. Non solo perché poi il rapper si lascia andare a difese ridicole: "Mia moglie è una imprenditrice e dice ciò che pensa come cittadina italiana. Renzi è invece pagato dagli italiani". E ancora: "Che Renzi voglia confrontarsi con mia moglie, è qualcosa di imbarazzante". E in effetti, visto il livello...La nota più divertente della diretta è però il siparietto che vede coinvolta proprio la Ferragni che a un certo punto manda un messaggio in diretta, ricordando a tutti quanti, l'importanza del dibattito in corso: "Ciao Fede amore mio, che fai? Mi saluti in diretta?". Chiarissimo. 

Da "liberoquotidiano.it" l'11 luglio 2021. Un Vittorio Sgarbi da prendere, ritagliare e incorniciare. Un video postato sui suoi canali social in cui punta il dito contro Fedez, nuovo "totem" del Pd e della sinistra. Un video in cui punta il dito anche contro quel Pd che rifiuta ogni tipo di dialogo sul ddl Zan, affidando nei fatti la sintesi della propria posizione proprio al rapper più amato dalle bambine che, in modo grottesco e impresentabile, si sta "spacciando" come punto di riferimento politico. Eh già, i compagni sono messi male. Malissimo. "Una volta si chiamava dialogo - esordisce Sgarbi -. E iniziarono a dialogare due omosessuali, l'amico Zan e l'amico Ivan Scalfarotto. Quest'ultimo poi è andato in Italia Viva, dunque si è contaminato con quell'eterosessuale di Matteo Renzi. Perché oggi non si possa far ancora dialogare i due appare incomprensibile. Salvo che a Fedez... uno statista, un grande personaggio, uno che ha espresso grandi teorie sulle teorie dell'uomo. Invece è uno stronz*** malc*** che ha scritto canzoncine dimenticabili, si è sposato con una donna molto fortunata e decide di fare politica in Italia. Quindi Scalfarotto è uno str***", picchia durissimo il critico d'arte.  Quindi Sgarbi ricorda il caso di Rosamaria Sorge, esponente del Pd, che per essere "politicamente scorretta" con Scalfarotto si è rivolta a lui affermando: "Froc*** di mer***". E Sgarbi commenta: "Se ci fosse il ddl Zan sarebbe già in galera". E ancora: "Nessuno vuole condannare nessuno, ma il dialogo cos'è? Persone che parlano per trovare punti comuni. Ma Fedez crede in maniera irrevocabile e definitiva solo a Zan. Scalfarotto gli fa schifo perché ha osato toccare quell'eterosessuale di Renzi". "Non si può dialogare, bisogna ascoltare Fedez". Quindi Sgarbi riprendere un'intervista di Ettore Rosato a Libero, colloquio in cui l'esponente di Italia Viva ricorda proprio come il Pd stia rifiutando ogni tipo di dialogo e mediazione sul ddl Zan. E Sgarbi rincara: "Non si può dialogare, bisogna ascoltare Fedez. Mi pare che sia precisa la posizione di Rosato: il dialogo. Tutta la vita ci hanno parlato di dialogo. Ora abbiamo il monologo di quel mona di Fedez. Ma vaff***, ma vaff***", conclude un monumentale Vittorio Sgarbi.

Francesco Olivo per "la Stampa" il 9 luglio 2021. Più degli emendamenti poterono i post. Una storia, un tweet, un video di pochi secondi può cambiare il codice penale e magari anche il risultato elettorale. Per Elodie i politici «sono indegni». Per Chiara Ferragni «fanno schifo». Alessandra Amoroso mostra la mano con lo slogan e l'hashtag disegnato, Fedez attacca Renzi. Milioni di visualizzazioni, tantissimi like. Segue dibattito, ma dura il tempo di una «storia» su Instagram. Emozioni molte, e impegno, forse effimero ma molto diffuso. Al centro dello scontro c' è il ddl Zan, il disegno di legge contro l'omo-transfobia, che è finito quasi da subito dallo stenografico del parlamento alla popolarità, ormai non più virtuale, dei social. Con gli influencer, grandi e piccini, che dominano la scena e i politici costretti ad adeguarsi, quasi mai ribellandosi. Dietro ci sono rischi e opportunità: un dibattito semplificato e superficiale, che però per la prima volta non esclude la cosiddetta generazione Z, che volutamente evita la politica dei partiti (spesso ricambiata) e diffida dei media tradizionali. I numeri dell'Osservatorio di Buzzoole, una società che si occupa del cosiddetto «influencer marketing», certificano la realtà: da gennaio a oggi sono oltre 12 mila i post pubblici degli influencer, etichettati con gli hashtag della campagna a favore del disegno di legge (#ddlzan; #iostoconzan; #alessandrozan; #leggezan). Le persone raggiunte, sempre secondo i calcoli di Buzzoole, sono 5,5 milioni. Così, se ci si limita a seguire la vicenda parlamentare di un disegno di legge, si rischia di perdere il grosso dello scontro nel Paese. «Il ddl Zan funziona molto bene sui social è un tema adatto per la costruzione di una propria identità - spiega Nicoletta Vittadini, docente di Sociologia della Comunicazione e dei Media Digitali alla Cattolica di Milano -, con una dinamica polarizzata tipica del tifo, si è pro o contro e lo si esprime negli spazi pubblici di oggi». Quello che appare chiaro è che questo modello non scomparirà presto: «Non ce ne libereremo - dice Alberto Marinelli, professore di Sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma -, si è creato uno schema in cui la politica, in forma più o meno consapevole, assume le forme delle piattaforme: messaggi secchi, semplificati, a volte settari. I primi a capirlo sono stati Trump e in Italia Salvini e ora la cosa si estende. I partiti non controllano il dibattito, ma gli corrono dietro, cavalcandolo o al limite tacendo». Non è la prima volta che l'introduzione o, come in questo caso, l'estensione dei diritti provoca divisioni nel Paese, «ma nel caso dell'aborto o del divorzio - conclude Marinelli - il Parlamento aveva la consapevolezza della propria centralità e i partiti non rinunciarono a operare delle mediazioni». Proprio la difficoltà di trovare compromessi, come emerso in questi giorni, «è la conseguenza dell'aumento della polarizzazione e dello scontro tra tifoserie - spiega Giovanni Diamanti, comunicatore politico, co-fondatore di YouTrend -, ma va sottolineato che gli influencer avvicinano alla politica una generazione la cui fiducia nei partiti è inferiore al 10 per cento. Sul ddl Zan in tanti stanno partecipando per la prima volta al dibattito pubblico ed è un fatto rilevante». L' allargamento del pubblico è il dato più rilevante, secondo Vincenzo Cosenza, responsabile del marketing di Buzzoole, «sono molte di più le persone alle quali arrivano le informazioni. Magari sono pochi quelli che approfondiscono, ma è comunque un allargamento. La politica ora subisce la fascinazione, d' ora in poi dovrà tenere conto degli influencer, le aziende già lo fanno da tempo». C' è poi una nuova frontiera: i media si concentrano sulle "celebrities", «ma stanno nascendo influencer impegnati su temi specifici, come l'ambiente e le questioni di genere. Non hanno ancora il seguito dei più noti, ma stanno crescendo». «La pandemia ha cambiato molte cose - conclude Vittadini -. Durante la pandemia gli influencer hanno preso posizioni che sono state molto valorizzate, aiutando la campagna di vaccini. Ora hanno un ruolo ed è impossibile non considerarli».

Chiara Ferragni contro Renzi e Salvini: "Politici, fate schifo". Ddl Zan e insulti: "Sei hai coraggio, parliamone". Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Ci mancava solo Chiara Ferragni contro Matteo Renzi. La polemica sul Ddl Zan spacca la sinistra e fa guadagnare ai suoi leader una bella raffica di insulti. Per Matteo Salvini, due piccioni con una fava. L'influencer, potentissima su Instagram, è da tempo schierata insieme al marito Fedez a favore della legge contro l'omostransfobia sostenuta dal Pd e difesa a spada tratta da Enrico Letta, mentre il leader di Italia Viva si è schierato a favore dell'alternativo Ddl Scalfarotto, alla ricerca di un "compromesso" con la Lega per far passare "una buona legge". All'insegna del motto "piuttosto che niente, meglio piuttosto". Ma la Ferragni non ci sta e sui social tuona, senza mezzi termini, contro il Parlamento che non sa (o non vuole) decidere su un argomento spinoso sì, ma molto sentito dai giovani. "Entra nel dibattito sulla Legge Zan dicendo ai suoi 24 milioni di follower 'Che schifo che fate politici', con la mia faccia - scrive su Facebook Renzi, in tutta risposta - Sono pronto a un dibattito pubblico con la dottoressa Ferragni, dove vuole e come vuole. Sono sempre pronto a confrontarmi con chi ha il coraggio di difendere le proprie idee in un contraddittorio. Se ha questo coraggio, naturalmente". Già a maggio, al famoso concertone, Fedez si era schierato a favore del Ddl Zan e accusando la Lega di posizioni omofobe, per poi montare la polemica contro la Rai che a suo dire aveva tentato di censurarne il monologo sul palco. "L'Italia è il Paese più transfobico di Europa - è l'accusa ora della Ferragni -. Ed Italia viva (con Salvini) si permette di giocarci su". La foto di Renzi e la scritta "Che schifo che fate politici" era piuttosto inequivocabile. "Ho sempre difeso Ferragni da chi la criticava quando postava dagli Uffizi o da chi vorrebbe minimizzare il ruolo degli influencer - continua Renzi nella sua replica -. Lo faccio anche oggi. Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista. Dire che i politici fanno schifo è il mediocre ritornello di chi vive di pregiudizi. Da una persona che stimo mi aspetterei un confronto nel merito. Perché sapete chi fa davvero schifo in politica? Fa schifo chi non studia, chi non approfondisce, chi non ascolta le ragioni degli altri, chi - incalza - pensa di avere sempre ragione. Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge - ammonisce - dura più di una storia su Instagram. Per firmarla ho preso insulti, ho rischiato la vita del governo, ho fatto compromessi".

Ddl Zan, Pietro Senaldi contro Fedez dopo gli insulti a Renzi: "L'uomo delle caverne di Chiara Ferragni, maschilista con la clava". Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. "Si scopre che anche le menti più evolute e moderne hanno istinti da uomini delle caverne". Pietro Senaldi, condirettore di Libero, interviene oggi sul botta e risposta tra Chiara Ferragni - che ha attaccato Matteo Renzi perché non condivide le sue idee sul Ddl Zan -, il leader di Italia Viva e il rapper Fedez. Senaldi ricorda che "Chiara Ferragni è la più grande influencer italiana, una potenza economica, mediatica in confronto alla quale Renzi è polvere sul comò". Il problema, è che "anziché lasciarli dibattere fra di loro", puntualizza il direttore, "interviene il John Wayne della situazione, il maschio forte: Fedez. Che subito tira fuori tutta l'attrezzatura in difesa della moglie dicendo, con la consueta gentilezza che 'Renzi piscia sulla testa degli italiani'". "Un comportamento, quello di Fedez, che è maschilista", dice Senaldi che continua rivolgendosi direttamente al rapper: "Tu sei sposato con la donna più potente d'Italia, lei critica legittimamente un politico anche se lo fa in maniera ruvida, il politico risponde in maniera più garbata di come è stato trattato, e tu subito devi tirare fuori la clava". "Francamente è un po' ridicolo", puntualizza il direttore Senaldi facendo notare che "siccome i Ferragnez non hanno grande classe, prenderanno una bella lezione da Renzi". "Immagino che Agnese, la moglie di Renzi, non risponderà in difesa del marito perché ha una classe superiore", conclude Senaldi.

E Fedez risponde: "Matteo stai sereno". Rissa tra Renzi e i Ferragnez sul ddl Zan: “Banale e qualunquista dire che i politici fanno schifo”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Quel voltafaccia, quell’antipatico, quel machiavellico opportunista di Matteo Renzi e di tutta Italia Viva. Chiara Ferragni, e il marito Fedez, per brevità detti Ferragnez, si sono indignati per l’inversione a U di Iv sul ddl Zan. “Che schifo che fare politici”, ha scritto l’influencer condividendo una stories della pagina felicementelgbt che recitava: “L’Italia è il Paese più transfobico d’Europa ed Italia Viva (con Salvini) si permette di giocarci su!”. È scoppiato un caso, soprattutto sui social network, riguardo al disegno di legge che sta agitando e dividendo la politica negli ultimi mesi. Renzi ha risposto, ha proposto un dibattio. Fedez è intervenuto e ha rispolverato lo “stai sereno” di renziana matrice e memoria, ai danni dell’allora premier e attuale segretario del Partito Democratico Enrico Letta. Il punto è sempre il Ddl Zan dunque. Prevista oggi pomeriggio la calendarizzazione del disegno di legge contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo. È stato approvato alla Camera nel novembre 2020 e in impasse al Senato per l’opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e parte di Forza Italia. Il relatore è il leghista Andrea Ostellari. All’ultimo giorno e momento disponibile Iv ha presentato i suoi emendamenti gettando scompiglio sul ddl. Renzi & co. hanno proposto modifiche agli articoli 1, 4, 7 del testo di legge, gli stessi fortemente contestati da Lega e Forza Italia. A firmare gli emendamenti il capogruppo al Senato Davide Faraone e il capogruppo in commissione Giustizia Giuseppe Cucca. I passaggi più delicati prevedono di cancellare il riferimento all’”identità” di genere” e “tornare al testo di Ivan Scalfarotto dove si parlava soltanto di omofobia e transfobia” e quindi il rispetto “dell’autonomia scolastica” per quanto riguarda l’istituzione della Giornata contro omotransfobia prevista dall’articolo 7. Italia Viva aveva votato la legge alla Camera. Da qui il patatràc degli ultimi giorni. E l’indignazione dell’influencer italiana più famosa al mondo, e tra le più famose al mondo in assoluto, oltre che la più imitata e anche corteggiata, anche dalla politica, sulla quale negli ultimi tempi non ha esitato a esprimersi, in particolare sulla gestione della pandemia. “Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista. Dire che i politici fanno schifo è il mediocre ritornello di chi vive di pregiudizi”, ha osservato Renzi sulla sua pagina Facebook rispondendo alla stories di Ferragni. “Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge dura più di una storia su Instagram. La politica è serietà, passione, fatica: non è un like messo per far contenti gli amici – ha aggiunto l’ex premier – Se Chiara Ferragni vuole confrontarsi sugli articoli 1, 4, 7 della legge Zan e sugli emendamenti Scalfarotto io ci sono. Se chiara Ferragni vuole conoscere come funziona il voto segreto al Senato, ai sensi dell’articolo 113.4 del Regolamento, io ci sono. Se Chiara Ferragni vuole discutere, criticare, approfondire io ci sono. Ma sia chiaro. La politica, cara Ferragni, è un’attività nobile e non fa schifo. E la politica si misura sulla capacità di cambiare le cose, non di prendere i like”. Un dibattito tra un politico, ex premier, contro un’influecer sarebbe sicuramente un inedito. I dibattiti ormai vanno avanti d’altronde a colpi di post. E infatti: manco il tempo di postare che è arrivato il post, decisamente più aggressivo, di Fedez: “Stai sereno Matteo, oggi c’è la partita. C’è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia”. Fedez che pure si è costantemente espresso sul Ddl Zan facendo scoppiare un mezzo caso sul palco del Primo Maggio, nell’ultima edizione, leggendo un messaggio e accusando la Rai di averlo voluto censurare. Nessun accordo intanto fuori dai social: alle 16:30 in Senato di voterà per calendarizzare il testo in Aula per il 13 luglio. Italia Viva si è impegnata a votare tale calendarizzazione con Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali. Il centrodestra avrebbe provato a portare a domani il voto di oggi. Niente da fare.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro. 

Selvaggia Lucarelli? Se non nomini Alessandro Zan ti bastona: "Non so se è peggio Chiara Ferragni o Matteo Renzi", a cosa si è ridotta. Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Poteva mai la sacerdotessa del giusto, ovvero Selvaggia Lucarelli, esimersi dall'alzare il metaforico-ditino social e dire la sua sul caso politico del giorno, ossia la presa di posizione di Chiara Ferragni contro Matteo Renzi in primis ma anche contro Matteo Salvini? L'influencer, infatti, si è spesa in un democraticissimo "che schifo i politici" riferendosi ai due, "rei" - secondo l'insindacabile giudizio della Ferragni - di star brigando per limare il ddl Zan, così come chiesto dalla Lega. Insomma, la Ferragni appiattita sulle posizioni del Pd: vietato il dialogo, o il ddl Zan lo si fa così come chiesto e imposto dalla sinistra o si fa "schifo", ci permettiamo di produrci in una brevissima sintesi del pensiero della moglie di Fedez, il rapper più amato dalle bambine il quale, parimenti, si è assai speso in favore del ddl Zan (tutti ricorderanno la sceneggiata del presunto martire Fedez, quando gridò alla censura contro la Rai in occasione del concertone del primo maggio, salvo poi essere tutto tranne che censurato). Bene, e dopo queste lunghe e inevitabili premesse, ecco che si arriva alla sacerdotessa del giusto. La sentenza di Selvaggia Lucarelli, va da sé, piove su Twitter, laddove cinguetta: "Non so se è peggio la Ferragni che 'CHE SCHIFO I POLITICI' dimenticando che anche Alessandro Zan è un politico o Matteo Renzi che la invita a UN CONFRONTO", conclude la Lucarelli. Se ne evince, insomma, che per certo Renzi le faccia schifo. Ma anche la Ferragni, insomma, tanto giusta non è: si è addirittura dimenticata di mettere tra le esenzioni a quel "che schifo" il piddino Alessandro Zan, dimenticanza questa che, per la sacerdotessa del giusto Selvaggia, è più che sufficiente per provare "schifo", nei confronti della Ferragni. La sacerdotessa ha sentenziato... 

Selvaggia Lucarelli per "tpi.it" il 9 luglio 2021. Confesso che avevo paura di guardare l’incontro Fedez/Civati/Zan/Cappato perché temevo la sensazione atroce che mi avrebbe permeata in seguito. E in effetti la sensazione che mi permea dopo essermi sorbita un’ora di Fedez è che siamo sempre troppo severi nei confronti di Matteo Renzi. Che è quello che è, senza sconti, ma sa quello che dice, sempre. Il problema insuperabile di Fedez è quello di non sapere mai nulla di quello che dice oltre le 4 cose che gli segnalano le Fiorellino98 sul web o che si appunta sulla mano come in terza elementare e di diffonderle, però, con il piglio del rivoluzionario cubano. Mi ricorda un po’ Flavia Vento quando parlava di animali, che a forza di sentirle dire scemenze pure quando nella sostanza aveva ragione, si finiva per comprare un fucile a canne mozze per impallinare cerbiatti. Io una volta dopo che ho sentito Flavia Vento dire che “Verrà un giorno che io sarò premier, tutti saranno felici, i canili non ci saranno più e le guerre pure”, ho mangiato una marmotta viva. E il bello è che Fedez ha fatto una figura incresciosa giocando in casa con quei tre fuoriclasse amici di Civati/Zan/Cappato, figuriamoci cosa potrebbe fare in un confronto con degli avversari. Ti credo che rifiuta il caffè con Salvini. Roba che probabilmente scapperebbe prima di aver girato lo zucchero come Sandra Milo chiamando Ciroooooo e la Lega arriverebbe al 98 per cento, con voto della Boldrini incluso. Come al solito, la moglie che si sottrae alla dialettica e scrive banalità nelle sue storielle su Instagram senza rischiare nulla, è più furba di lui. Conosce i suoi limiti, si ferma prima. Lui no. Lui si lancia con la superba vanità dell’arruffapopoli, con un italiano zoppicante, con una totale assenza di cultura giuridica e politica ma con indosso la maglietta del suo podcast che vende come gadget perché “parlo di ddl Zan e la foto finirà nelle home di tutti i siti, mica so’ scemo”. E quindi, in questa surreale diretta in cui con le facce imbarazzate dei suoi interlocutori si potrebbero ricreare le controfigure del pubblico di Sanremo durante “Dov’è Bugo?”, succede nell’ordine che:

a) Fedez premette subito che segue la politica, è appassionato, ha una coscienza civica e politica quindi lui si interessa di questi temi e ha il diritto di parlare. 

b) Che uno dice “e va bene, parla”. Parla “Ora vi leggo una cosa che ha scritto il giornalista Scalfarotto”. IL -GIORNALISTA-SCALFAROTTO. Cioè, Scalfarotto è da mesi sui tutti i giornali e le tv prima per le dimissioni da sottosegretario dal governo assieme alle due ministre, ora per aver rivisto la sua posizione sulla legge Zan, dopo che lui stesso ne era stato firmatario. In questi giorni occupa la discussione politica, la infiamma, è accusato da tutta la comunità Lgbt (o quasi) di essersi venduto a Renzi e Fedez, l’appassionato di politica e il grande sostenitore della Legge Zan, crede che anziché un deputato e sottosegretario sia un editorialista di Libero.

c) Quando dice “il giornalista Scalfarotto” a Zan viene la faccia di quello che non sa se correggerlo tipo quando Di Maio ha detto che Matera era in Puglia e Emiliano ha suggerito “no, in Basilicata” sottovoce, tipo anche un po’ ai bambini quando si stanno scaccolando al ristorante e non vuoi sgridarli ad alta voce. Zan alla fine sceglie saggiamente di fingersi morto e di farlo finire di leggere le parole del giornalista Scalfarotto sperando che non citi anche la testata perché se poi dice “sull’Unità di oggi” gli deve anche spiegare che l’Unità non esce più da un po’.

d) Poi Fedez chiarisce che Zan (?), Cappato e Civati gli piacciono perché fanno politica fuori dal palazzo e allora uno dice “Accidenti, non conosce quelli che stanno nel palazzo, conosce quelli che stanno fuori!”. Ma tu pensa. 

e) Allora inizia a chiarire finalmente quello per cui si sta battendo da quando sul palco del Primo Maggio ci ha ricordato che i lavoratori ‘sti cazzi dello stipendio e dei licenziamenti anche perché io so’ testimonial Amazon e devo distrarvi, devo sventolare il drappo rosso sennò il toro incorna me. E allora uno dice: bene ora finalmente ci spiega i nodi principali della battaglia.

f) Solo che lui non ha capito niente del ddl Zan e, come la Meloni che però ha la faccia di dire “il gender non so che sia”, non ha capito neppure cosa sia l’identità di genere. Notare che l’identità di genere è il cuore del dibattito che vuole cavalcare, della legge che sostiene, delle paure delle destre che lui schifa, dell’avversione nei confronti della Legge che vuole venga approvata. E quindi Fedez, nella sua beata ignoranza, afferma: “Ho visto un video bellissimo con una ragazza che ha in mano la carta di identità e dice ‘guardate ho cambiato sesso!’, insomma, ha cambiato la sua identità di genere!”.

Zan fa di nuovo la faccia di Emiliano con Di Maio a Matera patria delle orecchiette con le cime di rapa. Ma Zan è un uomo buono, un tollerante vero sennò avrebbe chiuso la diretta in tutta fretta dicendo che aveva yoga e fa lo gnorri. Non gli spiega che l’identità di genere è come uno si percepisce al di là di un eventuale percorso di transizione e dell’eventuale cambio di sesso. Ma Fedez non lo sa, si crede beatamente istruito e preparatissimo e sorride senza sospettare l’immane figura di merda che ha appena fatto.

g) Poi comincia a discettare di ego, di idea grandiosa di sé, di manie di protagonismo, di cose fatte non per reale interesse ma per obiettivi altri e di una tendenza accentratrice. Si riferisce a Renzi ma potrebbe tranquillamente parlare di sé, nessuno noterebbe la differenza. 

h) Poi è tutto un premettere “io sono una mente semplice”, “io sono ignorante”, “io non so niente eh però”, che uno dice: e allora visto che hai milioni di follower e vuoi parlare di politica e diritti civili perché non vai a studiare e torni quando sai qualcosa, per esempio? 

i) Cappato, eroicamente, prova a spiegargli che la questione del voto segreto è un po’ più antica e complessa di come la mette giù lui (“io voglio sapere cosa votano i miei senatori di riferimento!”), ma Fedez è troppo preso dallo stupore di aver scoperto come si fanno i referendum, descrivendo i “banchetti per le firme” come unicorni rosa volanti. 

j) Quindi Fedez spiega che tranquilli, lui e Chiara Ferragni non vogliono buttarsi in politica, ma parlare di politica da cittadini. Che voglio dire, non avevamo dubbi: ce li vediamo i due a rinunciare alle marchette milionarie per uno stipendio da parlamentari, come no. Molto meglio “fare politica” conservando tutti i privilegi del caso, mica scemi.

k) Poi cita Montanelli, che è il giornalista più citato da tutti quelli che non l’hanno mai letto e più in generale da tutti quelli che non hanno mai letto, e questa volta, al contrario che con Scalfarotto, non specifica “giornalista”, quindi sarà stato convinto di citare un ex segretario di partito. 

l) Poi la grande chiusura: “Renzi potrebbe far passare la legge Zan così si fa perdonare l’Arabia Saudita”. E’ certo. Invece lui che va in vacanza con tutta la famiglia a Dubai, altra culla del nuovo Rinascimento in cui i gay sono accolti con le collane di fiori in aeroporto come in Polinesia, è già perdonato. Del resto, mica è un politico, l’ha detto lui. È solo un gran paraculo. E no, non è nemmeno utile a cause che spoglia di profondità, di spessore, di valore. Cause che veste di boria furba e superficiale.

Del resto, per rimanere in tema, è la percezione che ha di sé, il suo guaio, ma per capirlo dovrebbe studiare cosa sia l’identità di genere. Lo farà con calma, magari dopo che una legge di cui non ha capito nulla sarà approvata, chissà. Senza fretta.

Da liberoquotidiano.it il 7 luglio 2021. "A fr****e di m***". Chissà Rosamaria Sorge, dirigente Pd ed ex candidata a Civitavecchia, invocherà il diritto di satira oppure dirà di essere stata fraintesa. Ma la frase scritta dall'incauta e improvvida esponente democratica su Facebook scatena un nuovo psicodramma a sinistra sul Ddl Zan. Sono le ore, caldissime, dello scontro tra Pd e Italia Viva sulla legge contro l'omotransfobia. I dem non rinunciano al disegno il cui capofirmatario è il deputato Alessandro Zan e vogliono lo scontro in aula, il voto che potrebbe far approvare in Senato la norma, oppure affossarla clamorosamente. Dall'altra parte ci sono i renziani, ufficialmente "compagni di coalizione" nel centrosinistra ma in realtà nemici giurati, vuoi per agenda, vuoi per strategia politica vuoi per semplici rancori personali. Matteo Renzi ha sganciato la bomba nei giorni scorsi proponendo a Matteo Salvini e alla Lega una mediazione, "un compromesso per portare a casa una buona legge" piuttosto che fare il gioco delle bandierine ideologiche e rimanere, alla fine, con un pugno di mosche in mano (il rischio che corre Enrico Letta, niente di più, niente di meno). Il terreno della trattativa è rappresentato dal Ddl Scalfarotto, che prende il nome da Ivan Scalfarotto, ex Pd e oggi tra i big di IV. Al Nazareno l'hanno presa malissimo, accusano i renziani di tradimento, di voltafaccia a gay, lesbiche e trans (avevano votato il Ddl Zan alla Camera, anche se in un contesto politico totalmente differente), di inciuci con Salvini (ora, ma soprattutto in vista dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica tra 6 mesi). E così le frasi della Sorge, non certo una dirigente di primo piano dei dem, non possono che scatenare la reazione piccata di quelli di Italia Viva. "Mi chiedo cosa ne pensi Enrico Letta delle parole vergognose", chiede polemica su Twitter l'ex ministra dell'Agricoltura Teresa Bellanova, pubblicando lo screenshot del post della Sorge. "Non stiamo forse esagerando?". A voi la risposta.

Da repubblica.it il 7 luglio 2021. Non è finita. Continua anche oggi lo scontro via social tra politici e influencer. I protagonisti sono sempre i “Ferragnez” contro i due 'Matteo', Renzi e Salvini. L'oggetto? Sempre il ddl Zan, che il 13 luglio sarà all'esame finale dell'aula del Senato. Questa mattina Fedez è tornato sul botta e risposta a distanza tra la moglie Chiara Ferragni e il leader di Italia viva. A colazione con la tazza in mano, ha fatto una nuova storia su Instagram dove ha attaccato di nuovo Matteo Renzi dopo la replica di ieri al commento di Ferragni ("Che schifo che fate politici") sul Ddl Zan e l'invito da parte del leader di Italia viva ad un dibattito sul tanto discusso disegno di legge. "Cogliere la bassezza della politica italiana è vedere Matteo Renzi chiedere un dibattito pubblico a Chiara Ferragni, questa è la cosa triste", commenta il rapper che chiede di non fare più paragoni tra Renzi che "è un politico pagato dagli italiani per rappresentarli" e la moglie che "è un'imprenditrice che non grava sulle tasche degli italiani e che esprime un suo pensiero e può permettersi di farlo anche in maniera banale''. I toni quindi non si abbassano. Oggi anche Matteo Salvini ha lanciato la sua frecciata al rapper di Rozzano: "Renzi nel mirino di Fedez per il ddl Zan? Mi piace l'ultimo pezzo ma io preferisco Orietta Berti". Tra i due la tensione è alta da tempo, soprattutto dopo il Concertone del Primo maggio quando dal palco Fedez ha attaccato il partito di Salvini sul disegno di legge contro la omotransfobia accusando anche la Rai di censura. Ora Ferragni e, di conseguenza anche suo marito, hanno puntato il dito contro Italia viva che ha chiesto modifiche al testo come anche la Lega, altrimenti il disegno di legge in Senato non passerà. "Meglio un compromesso che nessuna legge", ha dichiarato Renzi in una intervista a Repubblica. ''Quello che mi stupisce è che ogni volta che io e mia moglie ci permettiamo di esprimere un nostro libero pensiero sul nostro paese è vedere questa distesa di intellettuali, politici e giornalisti che, dandoci degli ignoranti a noi, non fanno altro che mettere sullo stesso livello il pensiero di Chiara Ferragni e quello dei politici italiani", continua il rapper su Instagram dove ha annunciato la diretta nel pomeriggio dedicata proprio al Ddl Zan. "Per chi volesse approfondire cosa sta succedendo in Senato - spiega - ho organizzato una diretta stasera alle 18.30 con Alessandro Zan, Marco Cappato e Giuseppe Civati, voci più autorevoli della mia, che posso farvi comprendere meglio quello che sta accadendo e che potrà avvenire''. Poi rivolgendosi a Matteo Renzi chiede: "Ci tiene davvero al Ddl Zan o è il solito parac... che ha sempre dimostrato di essere in questi anni di politica italiana? Il voto segreto sul Ddl Zan è davvero necessario? Perché io, mente stupida, semplice e ignorante da cittadino - dice ironico - vorrei sapere che cosa votano i senatori che ci rappresentano per valutare il loro operato e allora perché secretare il loro voto?''. Il leader di Iv risponde con la dedica che compare in "ControCorrente", il suo ultimo libro: "'A chi in quelle ore difficili ha creduto ancora in noi e a chi sa ancora riconoscere la differenza tra politici e influencer'. L'avevo scritta un mese fa. Vedendo quello che sta succedendo in queste ore sembra costruita a tavolino. O fai politica con le tue idee o segui la massa e i populisti. Noi siamo ControCorrente", dice Renzi. Nel dibattito sul ddl Zan interviene anche il segretario del Pd, Enrico Letta: "Nella legge di Orban l'omosessualità è posta al livello della pornografia e la protezione dei bambini è usata solo per discriminare dice @vonderleyen. Noi stiamo con Ue. Salvini e Meloni con Orban. Come si può dar credito alle loro presunte proposte di mediazione sul ddlZan???". Gli risponde direttamente il leader della Lega: "Noi continuiamo a chiedere a Letta ascolto, confronto e dialogo, non è possibile non voler ascoltare e andare allo scontro in aula che significa non approvare nulla - dice a L'aria che tira estate su La7 - Letta parla dell'Ungheria? Ma cosa c'entra l'Ungheria? Perché Letta scappa? Ha paura del confronto, ha paura del Papa e delle associazioni gay e lesbiche che chiedono un confronto?".

Piergiorgio Odifreddi per “La Stampa” il 7 luglio 2021. Sul ddl Zan gli schieramenti contrapposti sono da tempo al muro contro muro, e ciascuno ha i suoi dubbi sponsor: Salvini e il Vaticano, da una parte, e Fedez e la Ferragni, dall'altra. Chi abbia i modi eterei e raffinati di quest'ultima, può dire semplicemente che "fanno schifo tutti", e finirla così. Ma nel frattempo a scompaginare le carte si è intromesso pure Renzi, sul quale si può peraltro pensarla allo stesso modo. Forse sarebbe però più sensato evitare di fare la ola per l'uno o per l'altro, come se le vicende parlamentari fossero un'estensione dei campionati di calcio. Sulle leggi non si dovrebbe tifare per una squadra, ma ragionare tranquillamente sulla teoria e sulla pratica di ciò che esse intendono regolamentare. La cosa sembra semplice, ma che sia complicata lo ricorda un'osservazione che fece una volta Yogi Berra, il famoso giocatore di baseball dal quale ha preso il nome l'Orso Yoghi. Berra era famoso per pronunciare frasi enigmatiche, e una di queste era appunto: "La teoria e la pratica, in teoria sono uguali, ma in pratica sono diverse". Ora, la pratica del ddl Zan è che non ci devono essere discriminazioni di tipo sessuale: ognuno ha il diritto di scegliere con chi avere dei rapporti sentimentali e sessuali, e sono e devono essere soltanto fatti suoi. La teoria su cui il decreto basa questa sacrosanta pratica, è invece la "dannata" ideologia di genere: secondo i promotori, il diritto alla libertà sessuale si baserebbe sull'affermazione che i sessi non esistono. O, se proprio esistono, comunque non contano, perché a contare non è quello che uno è, ma quello che uno sente di essere. In questa logica c'è però un "non sequitur". Si possono infatti benissimo difendere i diritti dei diversi, senza dover per forza affermare che i diversi non esistono. Anzi, forse si dovrebbe fare proprio questo: un mondo in cui ci sono diversità è molto più bello e variegato di uno monolitico in cui tutti sono uguali. In politica però le cose si ingarbugliano sempre, perché i ragionamenti logici cedono il passo agli interessi partitici, che nel caso in questione sono abbastanza chiari ed evidenti. Il Pd ha trovato nella difesa a oltranza dell'identità di genere una battaglia considerata "di sinistra", la Lega nel suo rifiuto a oltranza della stessa nozione una battaglia considerata "cattolica", e Renzi nel suo ondivagare dall'approvazione alla Camera alla disapprovazione in Senato un modo per diventare di nuovo visibile e determinante nella scena politica. In realtà, sbagliano tutti. Sbaglia il Pd, perché semmai è di sinistra la difesa dei diritti dei diversi, e non la professione di un'ideologia che è stata contrastata, anche a sinistra, da tutti coloro che credono che l'identità di genere non abbia senso. Ad esempio, le femministe, che per poter essere tali devono appunto pensare di essere femmine. O i transessuali, che per poter pensare di voler cambiare sesso, devono appunto pensare di essere del sesso sbagliato, e di poter transire a un altro. Per non parlare degli eterosessuali, che sono la stragrande maggioranza (secondo l'Istat, superiore al 90%), e pensano semplicemente che i sessi sono i loro due. Sbaglia la Lega, perché il cattolicesimo è variegato, e mentre esiste al suo interno uno schieramento conservatore e ottuso, che rifiuta le unioni civili e i diritti dei sessualmente diversi (schieramento che, a scanso di equivoci, comprende anche il Papa regnante), esiste anche uno schieramento contrapposto che la pensa al contrario, e che è l'analogo dei cattolici che nel 1974 votarono a favore del divorzio civile, pur pensando che il matrimonio religioso dovesse essere indissolubile. E sbaglia Renzi, perché non sarà certamente su un argomento così marginale e di nicchia che un partito potrà basare la propria diversità politica. L'identità di genere non è affatto un problema sentito dalla maggioranza della popolazione, com'era appunto il divorzio negli anni '70. È piuttosto un problema sentito da una minoranza della politica, che è disposta a tutto pur di inserirlo in una legge: anche a non fare compromessi sulla difesa dalla violenza sui diversi, che rischia di essere sacrificata sull'altare di un'ideologia alla moda.  

La diretta con Zan, Civati e Cappato. Fedez contro Renzi su Instagram per il ddl Zan: ma il bastonatore finisce bastonato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Fedez è l’influencer che ha deciso di dimostrare plasticamente che la quantità di follower non ha nulla a che fare con la quantità di informazioni in gioco. Anzi, talvolta il bilancio è davvero magro. Nella diretta di queste ore il cantante ha deciso di attaccare Matteo Renzi a testa bassa, forte di un appunto di carta che ha tenuto accanto a sé durante l’improvvisato show. E lo ha attaccato sul Ddl Zan, chiamando Alessandro Zan a fargli da spalla. Il senso dell’attacco di Fedez? “Renzi non vuole questa conquista di civiltà. Cerca un pretesto per non votare la legge Zan”. Come tutti sanno, fino a oggi Renzi al contrario ha certificato nero su bianco il suo voto e quello di Italia Viva a favore, ma messo tutti in guardia per i prevedibili agguati che il voto segreto riserva a chi si avventura in Senato su questioni etiche. Fedez, a quanto pare, non l’ha capito. “Renzi si è messo d’accordo con Salvini”, è quello che ripete. Come? Quando? Perché? Non lo si dice. Ma si sarebbe accordato con Salvini per far naufragare il Ddl Zan. Zan, che è presente, alza il sopracciglio. Non obietta a muso duro ma si vede l’imbarazzo. Fedez non sa che Zan è stato eletto in quota renziana, nel Pd a guida Renzi. Fu proprio il Matteo di Firenze a volerlo in lista come esponente di punta del mondo Lgbt. “Ma Renzi ce l’ha con i gay”, continua Fedez. E allora Zan lo ferma, ed obietta: “Veramente è quello che ha realizzato la legge sulle Unioni Civili”. Allora Fedez guarda al foglio che deve aver appeso accanto al telefono con cui va in diretta. “La ministra Bonetti è di Italia Viva e non difende il Ddl Zan”. Il diretto interessato lascia cadere, sempre più in imbarazzo. E allora Fedez chiama in live anche Marco Cappato. L’esponente radicale si collega e sorride, ma inizia con i distinguo. Non può essere Renzi l’obiettivo di tutto questo circo. “Renzi al Senato vuole far votare i suoi con il voto segreto per affossare la legge”, va giù duro Fedez. Cappato lo prende idealmente per mano, sorride ancora e spiega: “Veramente non è Renzi, è che il regolamento del Senato prevede il voto segreto sempre, per le questioni etiche”. Fedez non ha capito. Torna: “È perché si vergognano a votare in modo diverso dalle indicazioni dei partiti”. Cappato è gentile ma fermo: “No, si fa sempre così. È la prassi del Senato”. E gli tocca precisare: “Renzi non ha detto una cosa sbagliata, ha fatto notare un rischio reale, perché da Pd e M5S è lecito aspettarsi diversi franchi tiratori, che in aula voteranno secondo coscienza e dunque contro il Ddl Zan”. Fedez non demorde: “Bisognerebbe avere il coraggio di votare apertamente, di metterci la faccia”. A quel punto anche Cappato alza le mani, capisce che non c’è partita senza avere un playground su cui giocarla. “Ho letto un articolo del giornalista Scalfarotto…” prova a dire Fedez disperato, arrampicandosi su specchi che non ha. Ivan Scalfarotto è in realtà un parlamentare di Italia Viva, non un giornalista. I fan si accorgono della mala parata e qualcuno commenta in diretta: “Forse è meglio se non parli di politica, si vede che non ne sai”. In effetti chi guarda si fa un’opinione piuttosto severa sul bastonatore che finisce bastonato. A Fedez mancano alcune imprescindibili basi: la politica è fatta di regolamenti, leggi, prassi, conseguenzialità, correlazioni, accordi, disaccordi: parti di una strategia articolata e di lungo corso che contempla e contempera mille cose. Non servono quarti di nobiltà, né doti particolari. Bisogna però studiarli in controluce, i passaggi in filigrana di quelle leggi di cui si parla. Piano piano, magari quando la diretta è finita.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Salvatore Dama per "Libero quotidiano" l'8 luglio 2021. I "Ferragnez" non mollano il polpaccio di Renzi. Dopo Chiara, che aveva dato dello "schifoso" a Matteo per aver ipotizzato un compromesso che salvasse il ddl Zan (messo a rischio al Senato dalla prova di forza di Enrico Letta), ora tocca a Fedez. Martedì lo aveva accusato di pissing. Cioè di «pisciare in testa agli elettori» facendo passare la minzione per pioggia. Ieri mattina il rapper è tornato alla carica definendo il leader di Italia viva «un paraculo». E annunciando un dibattito nel pomeriggio sul suo canale Instagram. Dibattito che in realtà si rivela a tratti un comizietto di periferia, a tratti un processo in contumacia. Federico Lucia chiama al confronto non Renzi, come magari era opportuno fare, ma Alessandro Zan, promotore della legge sull' omotransfobia, e il radicale Marco Cappato. A seguire, in uno dei quadrati della diretta Instagram, riciccia fuori anche un vecchio nemico renziano sparito dal radar: Giuseppe Civati. Ed è subito effetto "Primarie Pd 2013". Manca solo Gianni Cuperlo.

IN DIFFICOLTÀ Fedez lascia la parola ai suoi interlocutori. Ai quali però fa delle domande. Dalle quali si intuisce tutta la difficoltà della webstar con i regolamenti parlamentari. Lucia prova a spiegare cosa sia il voto segreto: «È un non senso». Però poi, nel definirne il funzionamento, si incasina. E lo aiuta Marco Cappato. Quindi Fedez sale di livello. E tenta di spiegare ai suoi follower il referendum, ma si inceppa nella differenza tra "costituzionale" e "abrogativo". Anche qui lo salva l'ex leader radicale. Bocciato pure sulla cronaca parlamentare: «Non era Pillon il relatore del ddl Zan?», chiede a Zan. Sbagliato: «Era Ostellari», lo riprende il deputato democratico. C' è pure qualcuno fuori onda che prova a dargli qualche suggerimento. Ma non è una cima manco lui. Il gobbo. «Però i politici non sono depositari della politica», insiste il marito di Chiara Ferragni, «io cerco di dare il mio contributo da cittadino, mettendo a disposizione la mia utenza», 12 milioni di seguaci, «a persone che possono dire qualcosa di interessante». Purché siano contro Renzi. Visto che i suoi ospiti però non gli danno grande soddisfazione (a parte un po' Civati), alla zeppa pesante ci pensa lui: «Voglio lasciare un messaggino all' ego di Renzi: con il ddl Zan ha l'occasione di riscattarsi, dopo aver fatto quell' elogio dell'Arabia Saudita, che non è proprio un esempio sui diritti». Questa se l'era preparata. È chiaro. Nell' attacco al Vaticano, invece, Federico trova la sponda di Cappato e un po' meno quella di Zan: i dem non vogliono fare arrabbiare ulteriormente la curia romana. A difendere Renzi interviene poi Ivan Scalfarotto, a SkyTg24: «La cosa singolare è che Fedez pensi che sia lecito parlare di Renzi ma non con Renzi». Poi il sottosegretario all' Interno ricorda quando il cantante nei suoi testi offendeva i gay: «In passato su di noi ha detto cose terribili. Sono felice che ora Fedez difenda le persone lgbt, che abbia cambiato idea».

VOTO SEGRETO Italia viva fa sapere che non chiederà il voto segreto sul ddl Zan al Senato. Ma lo farà il centrodestra. Ed è un bel problema soprattutto per il Pd. Perché non sono pochi i senatori dem che hanno perplessità sul testo da votare. Ieri è venuto allo scoperto Mino Taricco: «L' attuale testo presenta delle criticità e la necessità di alcune correzioni nei punti più sensibili di cui molto si è parlato in queste settimane ed anche in questi ultimi giorni». Pure lui cita gli articoli 1,4 e 7. Il paradosso è che, con il voto segreto, potrebbe non venire meno il consenso di Italia viva, ma quello del partito di Zan e Letta. Cosa che entrambi fanno finta di non vedere. Apparentemente. Il segretario dem mette di nuovo nel mirino il leader leghista: «Noi stiamo con l'Unione Europea. Salvini e Meloni con Orban». Matteo replica così: «Noi proveremo col dialogo fino all' ultimo, se Letta vuole affossare la legge, ci sta riuscendo». E su Fedez che attacca Renzi: «Mi piace l'ultimo pezzo, ma io preferisco Orietta Berti…»

Guia Soncini per "linkiesta.it" l'8 luglio 2021. C’è un momento in cui il marito della Ferragni dice «come diceva Montanelli», e io penso ma tu guarda, che apertura mentale, non è più un vecchio porco, razzista e pure pedofilo, è un saggio il cui pensiero è citabile dal club dei giusti – e invece no. È solo che l’intersezionalismo non funziona, almeno non l’intersezionalismo delle sinapsi, quello che mentre la giusta causa del mese è la lotta alla transfobia pretenderebbe tu ti ricordassi di chi era il nemico la settimana in cui la giusta causa era la lotta al sessismo, o quella al razzismo. Ieri, dunque, è andata così. Che al mattino il marito della Ferragni ci ha spiegato quanto siamo scemi a scrivere di lui e di sua moglie come avessero il dovere di capirci qualcosa: mica sono politici, loro; e al pomeriggio ha organizzato una diretta Instagram, con ospiti Alessandro Zan, Giuseppe Civati, e Marco Cappato (che in confronto al resto dei convenuti pareva Churchill). La moglie era a Cannes, e in diretta scriveva nei commenti, lasciava bandierine arcobaleno o compitava solleciti «ciao amore». È stata, quella della diretta Instagram dell’Harvey Milk che ci possiamo permettere, un’ora interessante non per aspiranti giuristi o per preoccupati omosessuali, ma per studiosi del concetto di personal branding. A un certo punto il marito della Ferragni dice: «C’è un po’ di protagonismo, di voler mettere il cappello su questa storia». Sta parlando di sé? Macché: sta parlando di Renzi, che incombe sulla conversazione tra i quattro come neanche Rebecca la prima moglie. Poco dopo dice: «Non vorrei che passasse la narrazione che un politico con manie accentratrici che non aveva a cuore i diritti delle persone si mettesse il gagliardetto “io ci ho provato”». Dice «politico», ma intende «influencer», è ovvio. A un certo punto mi viene in mente Berlusconi, e la sua saggia convinzione che l’elettore sia un ragazzino delle medie che non è neanche il primo della classe. I presenti, consapevoli d’aver davanti uno con gli strumenti culturali d’un ripetente di seconda media, col quale è tuttavia bene essere ossequiosi per non alienarsi i dodici milioni e fischia di follower (trentamila che seguono la diretta, e dodici milioni che senz’altro la recupereranno successivamente), fanno dei giri di parole per non dirgli di ripresentarsi quando avrà studiato. Il marito della Ferragni dice che loro sono su Instagram perché «non esiste un luogo depositario in cui parlare». Nessuno gli chiede: intende «preposto»? Non è madrelingua? Non è paroliere? Il marito della Ferragni dice che è scandaloso il voto segreto, l’elettore ha diritto di sapere, e Civati aspetta mezz’ora prima di illustrargli il concetto di libertà di coscienza con parole così semplici che secondo me sta pensando «Ti faccio un disegnino». Il marito della Ferragni fa un esempio delirante per spiegare l’identità di genere – una ragazza operata che fa vedere il documento con scritto «femmina» – e mezz’ora dopo (cosa sarà mai mezz’ora, con la soglia d’attenzione con cui guardiamo le dirette Instagram) arriva Cappato e dice che la ragazza col documento problemi di identità di genere non li ha, il punto è chi non s’è operato ma ha la sua brava disforia, è lui che dovresti tutelare (nessuno dice «disforia», perché sono tutti abbastanza svegli da non usare parole più complesse di «cane, pane, minestrina col dado»). Nell’articolare il suo esempio, il marito della Ferragni aveva anche pronunciato la formidabile frase «Identità di genere è: maschile, femminile». Che, considerato che l’indispensabilità del concetto nell’articolazione della legge viene sostenuta in relazione alla questione dei non binari, dimostra che il portavoce delle giuste cause che ci possiamo permettere non ha capito quale giusta causa sostiene. Il personal branding ti vuole sostenitore di buone cause, mica informato sulle stesse: se non è Zeitgeist questo (mi permetto di dire «Zeitgeist» perché ho meno pubblico della famiglia Ferragni: quando ti rivolgi alla nicchia a volte puoi osare persino un quadrisillabo bisdrucciolo). È la diretta del vale tutto, è evidente quando Zan dice «bisogna aiutare questi bambini nel loro percorso di transizione», e lì non c’è non dico uno psichiatra ma anche solo uno che abbia letto mezzo testo sul tema e sappia che la maggior parte delle disforie infantili si risolve senza alcun bisogno di transizione. A proposito di «non c’è uno»: sono tutti maschi (maschi cis, direbbero loro: maschi nati maschi, orrendi colonizzatori e padroni dell’universo), ma nessuno pare notarlo, o comunque non chi commenta «Questa diretta è un orgoglio nazionale». Meno male che Cappato c’è, e prova a spiegare che la testa della gente non si cambia a botte di codice penale, e che tuttavia da ’sta benedetta legge si può solo sperare che cambi la testa di chi è così rincitrullito da menare la gente per strada, non certo che uno pensi che non gli conviene menarti perché gli danno sei anni di galera invece di quattro. Poco dopo arriva Civati e dice «se una cosa è giusta e la fanno altri paesi europei», ed evidentemente i suoi genitori non gli hanno mai spiegato che a loro non importava di cosa facessero gli altri bambini, gli è rimasta la smania di emulare gli altri. Sembra ieri che i suoi promotori dicevano che la Zan sarebbe stata la prima legge di questo impatto in Europa: in un niente è diventata l’ultima. Il marito della Ferragni dice che viviamo in «uno scenario distopico», e invoca «l’opportunità di essere un pochino al passo coi tempi, di non essere anacronistici», e non sta ipotizzando un paese in cui i gay possano adottare o i paralitici possano trovar liberi i marciapiedi (ci sarebbe anche l’abilismo, nella Zan, ma va meno di moda parlarne). Sta parlando solo di darci il permesso di dirci maschi seppur con molte tette, ovvero di tutelare l’identità di genere, quella cosa che lui crede sia «maschile, femminile». Va tutto bene. «Siamo ai primi di luglio e già il pensiero è entrato in moratoria. Drammi non se ne vedono, se mai disfunzioni», scriveva cinquanta estati fa Montale, che persino a casa Ferragni avranno avuto nei testi delle medie. Zan, un altro che non è certo lì per il personal branding, a un certo punto promette di dare il merito a Renzi se la legge passerà, col tono con cui potrebbe dire che Bruto è un uomo d’onore (scusate, lo so che alle medie non si fa Shakespeare). Intanto, sotto, passano i commenti del paese reale che sta guardando la diretta che ci renderà un paese migliore: «Ciao Fede mi saluti?».  

Massimiliano Panarari per "la Stampa" il 7 luglio 2021. Renzi vs. Ferragnez. No, non è un peplum - quei film che furoreggiavano nell' Italia balneare di qualche decennio or sono, stile Maciste contro Ercole -, ma il rumore di spade e il clangore di trombe è il medesimo. Come lo sono le botte da orbi che si sono scambiate l'influencer e il politico intorno al ddl Zan. Il duello tra Chiara Ferragni e Matteo Renzi è un compendio degli effetti del tracimare della disintermediazione, allorché la classe politica sempre più sovente (e sconsolatamente) segue - un po' come l'intendenza. E un'istantanea degli eccessi della celebrity politics, che ha fragorosamente abolito da tempo le distinzioni di ambito professionale in materia di acquisizione della popolarità e della visibilità nelle democrazie del pubblico, composto di cittadini-consumatori, cittadini-elettori, cittadini-spettatori e "opinionisti" a seconda delle tipologie dei media.  E dove tra spettacolo e politica spesso non vi è più alcuna soluzione di continuità. Esattamente come in queste «baruffe chiozzotte» che si nutrono, infatti, della chiacchierata infinita che si svolge sui social network. Solo che - per citare l'«antropologa del cyberspazio» Sherry Turkle - non siamo dalle parti della «conversazione necessaria» del faccia a faccia (che è stato fondamentale per portare in tanti casi la lotta politica a convertirsi in dialogo tra i diversi), ma alla guerra simulata transmediale. E, una volta di più, alla starizzazione della politica, alimentata da politici-star contro star che si mettono a fare quella che può sembrare politica. Nella fattispecie, la singolar tenzone è, ovviamente, smaterializzata. E, quindi, in attesa di sapere se Ferragni, sfidata da Renzi a incrociare le lame de visu, raccoglierà il guanto, per adesso la saga si può seguire solo via social. In un tripudio di litigation e tifoserie, come tipico del processo di hooliganizzazione da cui la politica viene pressoché istantaneamente assorbita una volta trapiantata sui media sociali e "personali". Ovvero quegli strumenti tecnologici che avrebbero dovuto garantire le sorti magnifiche e progressive di una rinnovata partecipazione e «democrazia diretta», e hanno invece generato soprattutto un'escalation di aggressività. A conferma del fatto che chi di disintermediazione colpisce, può perire. O, quanto meno, si ferisce. Perché è stato proprio l'attuale leader di Italia viva che, da segretario del Pd e premier, ha spinto più in alto l'asticella della disintermediazione - insieme a quella della personalizzazione - nel campo del centrosinistra. Infrangendo dogmi e consuetudini per sintonizzarsi sullo spirito del tempo postmoderno e antipolitico, ma scoperchiando così un vaso di Pandora che ha liberato potenze incontrollabili. E ha prodotto un effetto boomerang che finisce per ritorcerglisi contro, dal momento che nel mare magnum del web vale la stessa regola sintetizzabile con le (presunte) parole pronunciate da Stalin al vertice di Yalta: «Quante divisioni ha il Papa?». Che su Internet si chiamano milioni di follower, come i 24 sonanti posseduti da Chiara Ferragni. Il match Renzi-Ferragnez, quindi, è soltanto l'ultima pagina di una politica pop sempre più mediatizzata in cui le barriere sono cadute da tempo, e si sconfina "allegramente" alla ricerca dell'obiettivo fondamentale, che è di tipo rigorosamente quantitativo. Un like non corrisponde precisamente a un voto (e men che meno a uno ponderato), ma sempre e comunque di costruzione del consenso si tratta per la campagna elettorale permanente di un partito (specie se non baciato dalla fortuna nei sondaggi). Così come certe forme di impegno civico degli influencer, a volte, danno l'impressione di essere l'equivalente della voce «allargamento del mercato» di un business plan, o di risultare ispirate da una forma opportunistica di marketing. Nel frattempo ci tocca così assistere pure all'«istituzionalizzazione» di Instagram, diventato la "Quinta" o "Sesta Camera" (ormai si è perso il conto...). Per Renzi, boxeur e pokerista, la battaglia con i Ferragnez è una sorta di «piatto ricco, mi ci ficco», ancor più perché alla vigilia dell'uscita di un libro (e il suo fiuto autopromozionale oramai sopravanza parecchie altre cose che sarebbero più opportune per chi fa politica). Ma dire - come ha fatto Ferragni - «che schifo che fate politici» suona effettivamente come uno slogan populista (e pure, giustappunto, un po' qualunquista). E, difatti, c' è chi scommette che il marito Fedez stia scaldando i muscoli per inserirsi nel vuoto politico lasciato da un grillismo prossimo alla smobilitazione.

«Politici fate schifo», Ferragnez influencer da gabbia e da voliera. Carlo Fusi su Il Quotidiano del Sud il 7 luglio 2021. LA STORIA insegna che “Politici fate schifo” è il bramito più squisitamente qualunquista che ci sia. È ricorrente, perché periodicamente riempie la gola di chi scaglia il proprio disprezzo verso il Palazzo e ciò che rappresenta. Esempi vecchi e nuovi non mancano: il dannunziano lancio del pitale sul Parlamento ad opera del pilota Guido Keller nel novembre del 1920. O il cappio sventolato in aula a Montecitorio dal leghista Luca Leoni Orsenigo il 16 marzo del 1993. Stavolta l’urlo è arrivato via social dall’influencer Chiara Ferragni, moglie del rapper Fedez, già noto per la polemica con Salvini e la Rai nel concertone del primo maggio. Il post della signora Ferragni conteneva l’immagine di Matteo Renzi e il riferimento era alla legge Zan e ai suoi tortuosi – e platealmente criticati – arabeschi parlamentari. A condimento, la scritta “l’Italia il Paese più transfobico d’Europa ed Italia Viva con Salvini si permette di giocarci su”, per togliere ogni dubbio a chi ci si voleva riferire. Renzi ha replicato per le rime: per ora la cosa è finita così ma non sono escluse repliche. Il punto di partenza obbligato, come detto, è il singulto qualunquista – che naturalmente è cosa che non c’entra nulla col diritto intoccabile di ciascuno di esprimere ciò che pensa – che stavolta però assume una curvatura particolare. Negli anni, infatti, in particolare per ciò che concerne i sistemi democratici, un simile riflesso scattava quando andava in tilt il rapporto tra Paese reale e Paese legale. Quando cioè il legame tra rappresentanti e rappresentati si deteriorava fin quasi a spezzarsi e uno iato inquietante finiva per dividere i cittadini dalle istituzioni. Adesso a quel binomio si è aggiunto un terzo attore, ossia la dimensione social. Che è capace di, appunto, influenzare il dibattito pubblico perché alimentato da personaggi che hanno una dimensione virtuale ma che sono in grado di trascinare con loro milioni di utenti. Naturalmente i like sono tutt’altro rispetto ai voti raccolti nelle urne, hanno una qualità e un peso molto differente.  Per loro natura sono più “leggeri”. Tuttavia sarebbe sbagliato sottovalutare la capacità di orientamento degli influencer, che passano con tranquillità dalla moda alla politica trascinandosi appresso i tantissimi che si fidano di loro. Forse però il punto è proprio questo. La distanza tra Paese reale e Paese legale veniva di norma riempita dalle elezioni: il voto popolare ridisegnava i rapporti di forza tra i partiti e dunque assegnava a quelli più in sintonia con l’umore dei cittadini il potere di governare. Niente del genere avviene nell’universo digitale. I like vanno e vengono con velocità non paragonabile ai voti, costruendo così una bolla autoreferenziale che smarrisce il rapporto con la realtà. Il che fa sì che nel perimetro social non solo si possano scatenare gli impulsi più primordiali e dare in tal modo spazio ad eserciti di “odiatori” in grado di scegliersi di volta in volta i bersagli. Quel che davvero conta è che la possibilità di confronto ne risulta fortemente ridotta, in non pochi casi del tutto azzerata. Uno dei riflessi condizionati del caleidoscopio social è che ritiene di esportare la propria capacità di condizionamento sul mondo legale. Quando ciò non avviene perché le regole della politica e il ruolo delle istituzioni hanno finalità opposte e il compito specifico di favorire il confronto, di stimolare la discussione e soprattutto di definire una sintesi finale da mettere nero su bianco, allora il mondo social esplode. Per il semplice motivo che appare evidente che la sua presa sul “reale-istituzionale” è inevitabilmente limitata. Di qui il bramito, figlio di un ridimensionamento considerato inaccettabile. Se si innesca una simile discussione, a questo punto di norma ci si trova di fronte alla considerazione “però la politica oggi si fa così”.  È una valutazione del tutto legittima, ma parziale: bisogna aggiungere che in tal modo si avvelenano i pozzi, anche se per onestà intellettuale va detto che quelli della politica sono in forte via di essiccazione. Ma anche fosse, quell’essiccazione non può essere considerato un alibi per nessuno. Per quanto screditata, infatti, la politica e le modalità con la quale viene esercitata nel circuito della democrazia delegata, rimane l’unico strumento – concreto, non virtuale – in mano ai cittadini per far sentire la loro voce e, stavolta sì, influenzare direttamente le scelte parlamentari e di governo. Solo rispettando questa mission e anche tutelando la legittimità di chi la pensa diversamente è possibile ottenere risultati che implementino la civiltà della vita sociale. Il mondo social esercita una perversa attrattività  perché fornisce la sensazione che le regole si fanno e disfano praticamente a piacimento. E in caso di tracimazioni, nessuno o quasi paga dazio. È possibile, e per alcuni casi persino doveroso, bannare. Tuttavia si tratta sempre e solo di una parodia del meccanismo democratico. Anche per gli influencer da milioni di follower succede che la realtà è altrove. Fuori portata, o se si preferisce a distanza di sicurezza, dei like.

Luigi Mascheroni per "il Giornale" il 7 luglio 2021. La più grande impresa di Chiara Ferragni e del marito Fedez - in arte, e business: «Ferragnez» - alla fine sarà quella di averci reso simpatico Matteo Renzi. Anche se resta ancora da capire chi sia il più insopportabile fra i tre. I primi due sono furbi. L' altro, cinico. E non si sa cosa è peggio. Solo in una Repubblica 2.0 in cui la democrazia è fondata sui like invece che sui voti poteva succedere che un ex presidente del Consiglio che gioca a fare il ragazzino si mettesse a litigare sui social con due ragazzini che si credono gli Obama. In mezzo: il Ddl Zan. Prima la influencer su Instagram accusa Renzi di boicottare il decreto pro gender, aggiungendo: «I politici fanno schifo». Renzi replica su Facebook: «Banale e qualunquista, parliamone se hai coraggio. Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge dura più di una storia su instagram...». E alla fine, a chiudere il post, arriva Fedez, fine politologo: «Stai sereno Matteo. C' è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia». I Ferragnez hanno rispettato la prima regola dei social: «Sapere poco, commentare tutto». Renzi ha infranto quella della politica: «Mai scendere a livello dei tuoi avversari». La celebre coppia dello spettacolo che da tempo si è buttata in politica ha dimostrato di non avere idea di come sia fatta una proposta di legge: ignora cosa sia un iter legislativo. Il famoso politico al quale è sempre piaciuto dare spettacolo ha confermato di mancare di senso delle proporzioni: se hai il 2% è suicida polemizzare con chi ha 24 milioni di follower. Come l'ideologia da salotto e il fatturato dei clic possono battere l'intelligenza e l'arte della politica. Ferragnez supremacy. E così, la Sinistra - che ha perso il popolo e ha guadagnato le «celebrity» - riparte dai #Ferragnez: qualunquismo (dire che i politici fanno schifo è solo un gradino sotto i Cinque Stelle), populismo (aizzare i propri follower contro il nemico lo è) e grandi patrimoni. L' élite all' italiana. I diritti civili ultimamente sono un trend sui social. E i #Ferragnez sono un marchio. Il combinato disposto, oltre a aumentare i ricavi della Ditta, influenza il dibattito pubblico. Probabilmente Enrico Letta ha anche messo un «Mi piace» alle Instagram Stories dei due influencer... Opportunismo commerciale, rap omofobo, unghiette arcobaleno e protagonismo comunicativo. Non ne usciremo, nonostante tutto l'impegno di Mario Draghi. E per il resto, se i #Ferragnez vogliono fare politica, come disse quel tale (di Sinistra), fondino un partito. E vediamo quanti voti prendono! (Speriamo di no).

Giuliano Guzzo per "la Verità" il 7 luglio 2021. Da quando domenica, in prima pagina su Repubblica, è uscita la notizia di alcuni emendamenti da parte di Italia viva al ddl Zan, il clima festoso tra i sostenitori della legge contro l' omotransfobia è improvvisamente venuto meno, lasciando spazio a critiche velenose, frecciatine, perfino insulti. Così, dove prima risplendeva l'arcobaleno, ora volano stracci. Ad accendere la miccia dello scontro ci ha pensato direttamente il primo firmatario del ddl, Alessandro Zan. Il deputato del Pd, in una diretta su Facebook lunedì pomeriggio, ha preso di mira il partito di Matteo Renzi e, in particolare, l'idea di Italia viva di espungere dal testo già approvato alla Camera a novembre il concetto di identità di genere, riprendendo quelli di omofobia e transfobia contenuti nel ddl a suo tempo proposto da Ivan Scalfarotto. Una proposta giudicata irricevibile. «La locuzione "contro tutte le discriminazioni motivate da omofobia e transfobia" del testo Scalfarotto», ha spiegato Zan, «non si può utilizzare da un punto di vista giuridico. Perché in una proposta di legge si devono inserire termini neutri, per garantire la tassatività dell'azione penale». «Per questo abbiamo usato "identità di genere", "orientamento sessuale" e "sesso", che sono parole che comprendono tutti», ha concluso il dem. Ora, a parte che il ddl Scalfarotto fu firmato appena due anni fa pure dallo stesso Zan, il quale dunque dovrebbe spiegare come mai ieri sottoscriveva proposte che invece oggi boccia così sonoramente, comunque il parlamentare Pd sul punto ha ragione. Nel senso che, in effetti, «omofobia e transfobia» sono termini che difettano di precisione e univocità. Beninteso, la stessa identità di genere è in realtà un concetto di vaghezza notevole - tanto che il suo significato ricade nell' inafferrabile sfera delle «percezioni di sé» -ma non si può dire che «omofobia e transfobia» siano parole il cui senso sia da tutti condiviso. Da tale constatazione, però, scaturisce un dilemma di non poco conto, e cioè: perché allora questi termini, così poco «neutri» da non poter rientrare in una norma a detta di Zan, possono restare centrali sui media e, ancor prima, nel dibattito pubblico? L' ambiguità non dovrebbe esser rifiutata sempre? L' impressione è che omofobia e transfobia, proprio per la loro vaghezza, siano clave lessicali perfette in mano al movimento Lgbt, che grazie ad esse può bollare in malo modo chiunque si opponga ai diktat arcobaleno. Del resto, gli indizi che vanno in questo senso abbondano. Per dire, nel marzo 2017 perfino Repubblica venne accusata di omofobia solo perché in un articolo aveva definito «compagno» - anziché marito - il partner del premier lussemburghese Xavier Bettel. A muovere l'accusa sul suo profilo Facebook, manco a dirlo, fu proprio Ivan Scalfarotto. Lo stesso che oggi, per aver detto che «il ddl Zan è un'ottima legge, ma senza modifiche non passerà», è sotto il fuoco delle critiche. Per rendersene conto, basta farsi un giro su Twitter, dove Scalfarotto è descritto in un modo al cui confronto Giuda Iscaritota diventa un emblema di fedeltà: «Stai deludendo tanti di noi», «non ti vergogni?», «ipocrita», «pagliaccio». Questo il tenore dei commenti grandinati a decine sul suo profilo in queste ore. Per completezza, va precisato che i critici non sono stati più teneri con Matteo Renzi. Contro l'ex sindaco di Firenze e quanti osano giudicare emendabile il ddl Zan sono infatti scesi in campo nientemeno che i Ferragnez. «Fate schifo», è stato il raffinato commento della reginetta delle influencer postato sotto una foto di Renzi, mentre il marito, per non essere da meno, ha rincarato la dose: «Stai sereno Matteo, oggi c' è la partita. C' è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia». Così, tra richiami urinari e accuse di tradimento, sia Renzi sia Scalfarotto sono finiti nel tritacarne social di chi osa dissentire dal verbo Lgbt. Il risultato è quindi che il ddl Zan finirà nell'aula del Senato il 13 luglio, e non solo manca un accordo tra le forze di governo, ma potrebbero davvero non esserci i numeri. Del resto, se si pensa che l'ago della bilancia è ancora una volta nelle mani di Italia viva - che, come dimostra il naufragio del Conte bis, quando si impunta poi son dolori -, c' è da aspettarsi di tutto. Nel frattempo, per tornare a noi, non si può che ringraziare Alessandro Zan per aver confermato che omofobia e transfobia sono termini da prendere con le molle. Peccato che siano tra quelli che lui per primo, ogni santo giorno, usa di più. 

Pietro Senaldi a gamba tesa: "Fate una legge per Renzi. Altro che gay, è lui l'unica minoranza che si può insultare". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. Bisognerebbe fare una legge che punisca il reato di Renzi -fobia. In questo clima di tutela assoluta delle minoranze, i seguaci dell'uomo di Rignano e i parlamentari di Italia Viva sono la sola minoranza che chiunque può insultare, e perfino minacciare di morte, senza incorrere  in sanzioni o reprimende. Eppure, oggi in Italia i renziani sono molto meno degli immigrati, degli omosessuali o dei disabili che vuole tutelare la legge Zan, almeno a guardare i trattamenti Inps che vengono erogati. L'insulto a Renzi è di moda, lo si fa per sentirsi democratici. E se il tapino si difende, si passa direttamente alla lapidazione. Quanto successo ieri con Chiara Ferragni e Fedez è solo l'ultimo capitolo. La premessa è che il Matteo di sinistra, come quello di destra, non condivide la legge Zan e la vuol cambiare. L'influencer milionaria lo ha perciò insultato in rete, postando la sua foto sopra la scritta «i politici fanno schifo». L'ex potente ha risposto «parliamone» e per questo è stato investito dagli improperi del marito della signora, un Fedez in versione John Wayne. «Matteo stai sereno, guarda la Nazionale e smettila di pisciare in testa agli italiani» è stato il civile messaggio del rapper che ama la libertà d'espressione al punto da coltivare il vizietto di registrare a tradimento chi parla con lui al telefono. Il macho dalla parte degli omo ha alzato la voce per perorare la causa della sua donna come un bullo di periferia, malgrado la Ferragni sia in grado di difendersi da sé. Al momento Renzi non gli ha fatto rispondere dalla moglie Agnese, impartendo alla bella e al tatuato una lezione di stile. Non c'è da stupirsi. Per aver successo sui social basta vedere cosa dice la massa e ripeterlo con parole meglio confezionate. Se poi c'è un bersaglio facile, come è Renzi, gli si spara contro con la maggior violenza possibile e il gioco è fatto, si passa per maitre a penser sagaci, spietati e illuminati. Ci provano anche i politici, solo che non sono del mestiere e per questo gli va sempre male quando si scontrano contro i guru della rete. Il Pd lo ha capito meglio di tutti e ormai si serve di cantanti, calciatori e influencer per fare politica. Si limita a fornire loro l'obiettivo e questi sparano. Matteo Renzi è la preda preferita dalla sinistra, ancora più di Salvini e della Meloni. Ma perché tanto odio? Certo, Letta non gli ha perdonato di avergli fatto le scarpe con un messaggino canzonatorio, il famigerato «Enrico stai sereno». La sinistra poi mal sopporta che l'ex premier abbia cercato di usare il Pd come un tram e ora si faccia gli affari suoi. Ma quello che i dem non possono tollerare è che l'ex capo levi loro per la prima volta il pallino nella scelta del presidente dello Repubblica. Letta e i suoi sono terzi o quarti nei sondaggi, dopo le scissioni hanno una forza parlamentare del 14% scarso, ma ritengono di avere il diritto divino di decidere chi deve andare al Colle. Solo che, se Renzi si mette di traverso, con i grillini squagliati come sono, la sinistra non ha i numeri. La modifica della legge Zan suona alle orecchie dei dem come un campanello d'allarme, una prova generale di una nuova maggioranza, che oggi può cambiare la legge anti-omofobia e domani scegliere il sostituto di Mattarella. Per esempio Draghi, un nome che Letta dovrebbe trangugiare senza poter fare storie. Nel caso, chi sostituirà SuperMario a Palazzo Chigi, un tecnico indicato direttamente dal nuovo capo dello Stato, potrebbe essere poi lo stesso uomo che guiderà l'Italia del governo di centrodestra che scaturirà dalle elezioni del 2023. Una figura di garanzia, all'estero e in patria, inattaccabile dai soloni della sinistra.  

(ANSA il 6 luglio 2021) - "Fdi ha presentato in Parlamento una mozione per impegnare il Governo ad andare in Europa per chiedere che la UE condanni apertamente gli Stati che prevedono nei loro ordinamenti il reato di omosessualità e non stringa con loro accordi di cooperazione culturale. Sono ben 69 le Nazioni che, spesso in virtù dell'applicazione della legge coranica, prevedono pene variabili da un anno fino all'ergastolo e alla pena capitale. Vedremo come si esprimeranno i cosiddetti 'paladini dei diritti Lgbt', che oggi chiedono di censurare le leggi rimasti in silenzio quando si parla di difendere gli omosessualii"- Lo ha detto la Giorgia Meloni. 

Ddl Zan, cortocircuito: "Vergognatevi, giù le mani dagli immigrati". Lesbiche contro gay pride: se ci fosse già la legge...Libero quotidiano il 24 giugno 2021. “Non aderiamo al Milano Pride perché nel suo documento politico si avanza indirettamente la richiesta per noi inaccettabile dell’utero in affitto. Il Milano Pride mette nero su bianco che le persone omosessuali sono ‘costrette a migrazioni per costruire la propria famiglia. Lo Stato italiano deve vergognarsi’. Ma secondo noi la vergogna è paragonare coppie bianche, privilegiate e facoltose alle persone migranti”. Così in una nota stampa Cristina Gramolini, presidente di Arcilesbica Nazionale. Insomma, siamo al cortocircuito: la scissione delle lesbiche dal Pride di Milano. Uno strappo che arriva proprio nei giorni in cui si discute del ddl Zan. Un'accusa, quella della Gramolini, in cui si parla apertamente di discriminazioni. Insomma, circostanza che potrebbe portare proprio all'applicazione della tanto discussa legge. Curioso anche il fatto che il movimento delle donne si scagli contro quello del Pride, che raccoglie tutto l'universo Lgbt, tirando in ballo gli immigrati. Che vergogna, questa la sintesi del loro pensiero, paragonarsi ai poveri migranti, voi uomini bianchi e ricchi che potete migrare all'estero per coronare i vostri sogni. Pagando. Insomma, un assoluto e totale cortocircuito, come accennato qualche riga sopra. “Il Milano Pride chiede anche che si possa autocertificare il cambio anagrafico di sesso, trasformato in una ‘procedura comunale’, questa per noi è una banalizzazione della transessualità e altererebbe le statistiche (su gap salariale, violenze ad esempio) danneggiando le donne in tanti i campi: quote, sport, pari opportunità. A noi- continua Gramolini- importano i diritti lgbt+, i diritti delle donne e i diritti umani, che devono progredire insieme in una sintesi responsabile e senza mercificazioni. Per questo la nostra giornata di Pride a Milano sarà domenica 27 giugno con il convegno "Differenti, non escludenti", pieno di voci decise a confrontarsi affinché continui la dialettica delle idee”.  “Ascolteremo la giornalista di Micromega Cinzia Sciuto, la filosofa Raffaella Colombo, la scrittrice Monica Lanfranco, l’assessora del PD Irene Zappalà. E parleremo con tante attiviste di nuovi diritti e falsi diritti, di realtà del sesso, di necessari emendamenti al ddl Zan e di relazioni tra donne”, spiega ancora la Gramolini. Intanto, Palazzo Marino si è acceso da mercoledì e fino a sabato coi colori dell’arcobaleno proprio per il Milano Pride 2021. Per la prima volta l’illuminazione dura quattro notti: dal tramonto fino all’alba la facciata della sede istituzionale in piazza della Scala si tingerà dei sei colori della bandiera arcobaleno.

Povia contro Fedez: "Vergogna, il ddl Zan è una dittatura". Federico Garau il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. Povia attacca il ddl Zan e chiama in causa anche Fedez: "Ti devi vergognare di dare spazio a questa gente. Se passa la legge rischiamo una dittatura". Nuovo affondo di Povia contro il ddl Zan, durante il quale il cantante attacca apertamente i sostenitori della proposta di legge con lo scopo principale di tutelare i bambini e la loro innocenza. "Allora, guardate, se l'evoluzione del comunismo e di tutta la sinistra si riconosce oggi in questa gente, anni di lotta operaia, di lotta per la famiglia, di movimento studentesco, articolo 18, sindacati in piazza...anni di Gramsci, di Togliatti, di Hegel, di Marx, che non si sarebbero mai sognati di violare la mente dei bambini...", esordisce polemicamente Povia in un video caricato sui social. "Per carità, potete seguire questa gente, potete dargli spazio, tutti hanno diritto allo spazio, ma non potete dirmi che quello che dicono è giusto". Il cantante passa poi a tirare in ballo direttamente due dei principali protagonisti del dibattito di questi giorni, in primis il collega Fedez: "Ti devi vergognare a dare spazio a questa gente". Poco dopo Povia punta il dito contro il promotore del disegno di legge: "Zan, lei si deve vergognare anche solo di proporre una legge che imporrà ai genitori di accompagnare i bambini nell’altro sesso perché si percepiscono opposti al loro sesso di nascita...bambini..." sottolinea con enfasi mista a profondo stupore. "Ma i bambini sono spugne, sono registratori perfetti di informazioni, quello che tu gli dici lo prendono per buono", prosegue il cantante, rimarcando l'enorme rischio di compromettere l'innocenza dei più piccoli. "Noi adulti abbiamo la capacità di capire che tutto questo è una follia. Ma i bambini...i bambini comprati, venduti, imbottiti di farmaci, informazioni sbagliate e influenze esterne. I bambini non hanno la capacità di capire che state facendo un torto a loro e alla loro crescita spontanea e naturale", affonda Povia. "Ma che fretta avete di colonizzare ideologicamente la testa dei bambini? Eh no, caro Zan", dice rivolgendosi ancora una volta a colui che ha dato il proprio nome al tanto contestato disegno di legge, "i genitori oggi non sono fortunatamente più sensibili, li state confondendo con la vostra propaganda ideologica, che nulla ha a che fare con il bene dei bambini. Mi meraviglio proprio che venga discusso un testo così assurdo. E se passa", dichiara preoccupato il cantante, "è invece l'inizio di una nuova dittatura". Sulla difesa dell'innocenza dei più piccoli, Povia non transige: "Io posso parlare perché ho scritto “I bambini fanno oh”, e ho scritto anche 'Dobbiamo salvare l'innocenza'. Ma anche Giorgio Gaber, prima di morire, scrisse 'non insegnate ai bambini la vostra morale malata e le vostre illusioni sociali", conclude il cantante. Povia si era apertamente schierato contro il ddl Zan lo scorso maggio, quando aveva spiegato che nel nostro Paese già esistono leggi in grado di punire chi si macchia di reati connessi alla discriminazione sessuale: "Nel 2013 a Napoli fu picchiato un ragazzo gay, sapete quanti anni di galera hanno dato agli aggressori applicando la legge più l’aggravante? 10 anni! Abbiamo 200mila leggi in Italia, di che stiamo parlando?".

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprat…

L'arcobaleno che nasconde le purghe della sinistra. Marco Zucchetti il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. A sinistra non si respira aria buona. Il clima intorno al ddl Zan, infatti, è ben più mefitico e cupo di quanto le gioiose manifestazioni arcobaleno di piazza lascino immaginare. A sinistra non si respira aria buona. Il clima intorno al ddl Zan, infatti, è ben più mefitico e cupo di quanto le gioiose manifestazioni arcobaleno di piazza lascino immaginare. Perché il paradosso è che una legge nata per garantire libertà, sicurezza e uguali diritti a chiunque sta diventando l'occasione per una caccia alle streghe e un ritorno delle «purghe» staliniane. Con due differenze: in Urss finivano nei gulag gli oppositori di una dittatura; ora finisce perseguitato sui social media e defenestrato dal consesso dei veri progressisti (l'unico consesso con dignità umana secondo loro) chiunque sollevi anche il minimo dubbio sul testo di legge, ormai diventato sacro e intoccabile come Il Capitale di Marx, o il Corano. Nelle ultime settimane sono tante le personalità - di certo non catalogabili come vicine alla destra - che hanno provato a mediare, a sostenere la tesi del compromesso. Che è semplice e assai di buonsenso: se giuristi, associazioni di femministe, filosofi, politici, scienziati e perfino attivisti dei diritti degli omosessuali hanno espresso riserve su alcuni punti della legge, forse è meglio metterci mano. Soprattutto sul tema dell'identità di genere, sull'educazione gender a scuola e sulla libertà di espressione. Meglio una legge che tuteli dalla violenza omotransfobica di nessuna legge. Nulla di retrogrado o violento, dunque, eccetto la reazione dei fondamentalisti, di cui il Pd lettiano è diventato guida spirituale, tipo gli ayatollah. Chi ha provato a chiedere un'intervista a qualcuno dei pochi che ha avuto il coraggio di esporsi in tal senso sui social ha ricevuto cortesi rifiuti. Basta così, sul ddl Zan non voglio più dire nulla. Come se si parlasse della Stasi, dei boss di camorra o del Grande Fratello di Orwell. Zitto, la psicoZanpolizia ti ascolta. E la psicoZanpolizia fa paura, perché in un attimo può distruggere la tua storia e devastare la tua carriera. Poco importa che tu sia stato sostenitore dei diritti Lgbt da quando ancora il Pci considerava tutti «deviati» o che tu abbia fatto approvare le unioni civili omosessuali. Diventi nemico del popolo, omofobo. «Fai schifo», come insegnano le squadracce dei Ferragnez, il braccio virtuale violento della legge (Zan). Poi, se per caso sul tema voti contro la linea del partito, rischi di non venire ricandidato, la tua patente di superiorità morale ti verrà stracciata in faccia. E finirai i tuoi giorni accomunato ai leghisti che vogliono riaprire i forni crematori per gli invertiti. La domanda è: ma perché dovrebbe fare schifo chi vuole approvare una legge con una modifica? Perché si dovrebbe vergognare uno scienziato fieramente ateo come Piergiorgio Odifreddi, che sostiene come «la percezione psicologica del genere non è la stessa cosa della realtà fisiologica», o Stefano Fassina di Leu, per cui «si lascia troppa discrezionalità ai giudici»? Perché fare a pezzi un uomo di spettacolo come Luca Bizzarri se scrive che forse la legge è scritta male e «a volte gli slogan e i pasticci fanno più danni degli omofobi»? La risposta è sempre la stessa: perché non si parla più di una legge, ma di un totem ideologico indiscutibile. Ragion per cui non siamo più nel campo della politica, ma della religione più oltranzista. Con i suoi inquisitori e le sue lettere scarlatte di infamia, i suoi peccati mortali e i suoi roghi, i suoi eretici e la sua promessa di dannazione eterna. No, nel Pd non si respira più, si consiglia di areare il partito prima di soggiornarvi.

Gabriele Laganà per ilgiornale.it il 9 luglio 2021. Sì all’approvazione del ddl Zan ma con modifiche. L’ultima richiesta di correzioni del disegno di legge contro l’omotransfobia non arriva da settori della Chiesa o da qualche esponente del centrodestra bensì da Cristina Gramolini, presidente nazionale di Arcilesbica. "Questo conflitto sulla legge Zan mi addolora", ha spiegato a Repubblica la Gramolini. Quest’ultima ricorda di essere "attivista lesbica da una vita, ho 58 anni, insegno in un liceo, ma è da quando facevo la supplente che so cos'è la paura: di essere discriminata, insultata, aggredita. Perciò vorrei che il ddl venisse approvato: è importante che un Paese stabilisca che l'omotransfobia è una cosa brutta, da punire in modo esemplare". Una lunga premessa che allude ad un però. Ed è un però grande quanto una casa. Per la presidente nazionale di Arcilesbica il ddl Zan va cambiato perché "così com'è non va bene". Una posizione, questa, che già da tempo era stata evidenziata da Arcilesbica. "Lo diciamo da mesi. Da quando il testo era in discussione alla Camera abbiamo scritto, fatto delle riunioni con Alessandro Zan per spiegargli che in quegli articoli ci sono grossi rischi di interpretazione che spalancano le porte a scenari aberranti", ha ricordato la Gramolini. La presidente di Arcilesbica, infatti, ha evidenziato che senza modifiche potrebbe verificarsi il caso che "chi critica le persone che vanno all'estero a fare la Gpa" (in sostanza la pratica dell'utero in afffitto, ndr) potrebbe essere denunciato per omofobia. Ed i rischi sono concreti. Per evitarli basterebbe compiere modifiche del testo. Un po’, ha spiegato la Gramolini, come ha fatto il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, che nel 2019 ha fatto una legge contro l'omotransfobia "in cui c'è scritto chiaramente che la Regione non finanzierà quelle associazioni che promuovono la surrogazione di maternità”. “Perché allora non inserirlo anche nella norma nazionale?", si è chiesta la presidente di Arcilesbica. Modificare il ddl Zan al Senato comporterebbe un nuovo passaggio alla Camera dove rischia di arenarsi a causa dell'ingorgo di decreti e leggi. Una eventualità che la Gramolini è disposta a correre viste le conseguenze che potrebbero derivare da un’approvazione del testo così come è. Estremamente difficile considerare la presidente di Arcilesbica vicina a Italia viva. Ma la Gramolini ha spiegato che le considerazioni lanciate da Matteo Renzi sono codivisibili: "Senta, io vengo dalla militanza in Rifondazione, non posso certo essere considerata renziana. Però Renzi ha detto una cosa di buon senso: rivediamo i punti più controversi e poi stringiamo un patto solenne fra tutte le forze politiche per approvarla subito alla Camera. Mi pare che Lega e Fi siano d’accordo". Secondo la Gramolini è "ottuso" pretendere di non cambiare il ddl "di un millimetro pur in presenza di pesanti controindicazioni. Soprattutto sull'identità di genere". E questo è un altro punto su cui insiste la Gramolini. La presidente di Arcilesbica vede su questo tema un altro grande rischio: "Specificare che l'identità di genere è "l'identificazione percepita di sé" anche se "non corrispondente al sesso" significa aprire un varco all'autodefinizione legale di genere. Basta dichiararsi donna all'anagrafe per diventarlo". Per la Gramolini ciò è sbagliato perché "nuoce ai diritti delle donne, alle nostre poche quote, alle nostre poche pari opportunità, ai nostri sport subalterni che non possono essere ceduti al primo uomo che si alza un giorno e decide di dichiararsi femmina". Per rimarcare il concetto la Gramolini prende d’esempio le Olimpiadi di Tokyo che inizieranno tra pochi giorni: "Se un maschio dice che si sente donna e vuole partecipare ai tornei, con la Zan lo può fare. Pensiamo a Valentina Petrillo, una trans italiana che intende concorrere alle competizioni femminili". In sostanza, per la presidente di Arcilesbica l'espressione "identità di genere" è "troppo ampia. Basterebbe estendere la definizione di transessuale, già prevista da una legge dello Stato, anche a quelli che sono nel percorso della transizione, non solo a chi lo ha completato". In considerazione di tutto ciò la Gramolini ha spiegato di ritenere questa "una cattiva legge" perché "minaccia i diritti delle donne e ingenera solo confusione e problemi, aprendo a contenziosi legali a pioggia che pagheremo tutti".

Legge anti-omofobia, i gay si ribellano: "Casta di ottimati omosessuali, ce la vediamo in Tribunale". Antonio Rapisarda Libero quotidiano il 26 luglio 2020. «Sostengono a parole il fatto che siamo tutti "uguali" e poi proprio loro creano una casta di "ottimati" Lgbt? Rispetto alla quale è vietata, codice penale in mano, persino la critica?». Finirà che per difendere gli insegnamenti di «Alessandro Magno o di Yukio Mishima», omosessuali che «hanno garantito la continuità di imperi e ridestato tradizioni», anche Mario Ravetto Flugy, gay e conservatore, 61enne e dirigente di Fratelli d'Italia, se la vedrà in Tribunale. Tutto questo grazie al cosiddetto ddl Zan: il controverso testo unico che intende perseguire gli atti discriminatori fondati «sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere». Un paradosso? Lo stesso accadrà ad Umberto La Morgia, 31enne romano con la tessera della Lega in tasca, che in un video-denuncia diventato virale spiega che sarà messo all'Indice come «omofobo interiorizzato» per il semplice fatto di essere un gay che crede nella famiglia naturale. E che dire, poi, di Giorgio Ponte - scrittore e insegnante - consapevole che con tale dispositivo «pensano di aver trovato il modo per fermarmi»: ossia di bandire la sua storia di omosessuale cattolico «come fanno i Black lives matter con le statue». Non se ne sorprende, infine, Carlotta che dal Veneto racconta come fin dagli anni di Sociologia si è sentita «più discriminata come donna di destra dagli stessi militanti "arcobaleno" che come lesbica da tutti gli altri». Sono quattro storie "diversamente omosessuali", quattro testimonianze raccolte da Libero di quella maggioranza silenziosa che si oppone a fianco delle piazze pro-family di "Restiamo liberi" al dispositivo della legge liberticida, ammantata di anti-omofobia, targato Pd. Progetto che in realtà rappresenta per tanti gay "non allineati", di destra, cattolici o conservatori, nient' altro che l'arbitrio vetero-marxista e decostruzionista di una «classe sì ma di privilegiati». Da Palermo Mario Ravetto, di destra fin dai tempi dei calzoni corti, smonta alla radice l'allarmismo che sta alla base del ddl: «In Italia non c'è mai stato odio contro noi omosessuali. Pensiamo solo che addirittura era un tratto distintivo sotto l'impero romano...». A surriscaldare il clima, al contrario, sono proprio gli agenti di quella che lui chiama «intolleranza arcobaleno»: «Molti giovani genitori mi dicono di essere spaventati non dal naturale sviluppo dell'orientamento sessuale del proprio figlio, quanto dal fatto che alcune presunte "innovazioni" didattiche come le favole impregnate dalla teoria gender o le campagne Lgbt innestate dentro le serie tv possano influenzare e confondere i più piccoli. Ecco: con questa legge opporsi a tutto questo sarà penalmente rilevante».

LA COSTITUZIONE

Trent' anni in meno ma spinto dallo stesso afflato conservatore è Umberto La Morgia, sviluppatore di start-up che si è messo in testa di creare un "ponte" fra comunità gay e Family day: «Credo che la famiglia, a prescindere dai sentimenti, sia quella inserita e riconosciuta nella nostra Costituzione: l'unione fra uomo e donna, cellula fondamentale per lo sviluppo». Affermare un'ovvietà del genere sarà presto reato con la legge Zan? «Lo scopriremo dopo il 25 luglio», sorride anche se ammette che già questo dubbio è preoccupante: «L'impianto della legge è nebuloso. Ma ancora più pericoloso è il meccanismo logico: per tutelare e per difendere una minoranza non si può essere "eterofobici", ossia discriminatori verso una maggioranza, o avere comportamenti intimidatori nei confronti di chi dissente. Io stesso sono stato vittima di insulti inquietanti da parte degli estremisti Lgbt per il solo fatto - da consigliere comunale nel bolognese - di essermi dichiarato omosessuale di destra già lo scorso anno, contro le volgarità dei Gay Pride e la follia dell'utero in affitto».

Giorgio Ponte da parte sua si è rivolto direttamente ai vari Zan, Scalfarotto e Boldrini. «Ho chiesto a loro: per quale ragione ritenete quella Lgbt una categoria protetta in maniera "speciale" rispetto a qualsiasi altra? Qual è il senso di essere diseguali di fronte alla legge? Non credete che sia questa discriminazione?». Risposte non pervenute. La sua è la storia di un omosessuale che ha trovato nella Chiesa la spinta per accettarsi senza scadere nel rivendicazionismo: «Mi ha reputato all'altezza dell'esistenza e mi ha scosso dal mio vittimismo». Troppo per certo attivismo gay, dato che per «loro devi essere della "giusta" visione». Il risultato? «Dal 2015 sono riempito di messaggi in cui mi incitano ad ammazzarmi o che mia madre avrebbe fatto meglio ad abortire». Giorgio ha continuato a testimoniare la sua esperienza, «come fanno i medici e gli psicologi che sostengono che un bambino ha bisogno di una madre e di un padre». Il dubbio monta adesso, leggendo il testo unico Zan: «Con una legge simile hanno uno strumento in più per bloccarci. Un bavaglio di massa».

CRIMINALIZZATI

Il paradosso dei paradossi è incarnato da Carlotta. Stigmatizzata da sinistra in quanto donna di destra e come donna lesbica da parte degli integralisti dei diritti gay. «Tentano di criminalizzarci: ci accusano di non essere omosessuali come gli altri...». Tutto questo per il fatto di credere che i sessi esistono: «Noi siamo fatti di natura e cultura, non siamo essere "fluidi"». Uno stigma per i sostenitori del ddl Zan che gridano alla transfobia contro lesbiche e femministe: «Con la scusa di combattere l'odio intendono istituire l'odio per legge. Chiunque osa dire qualcosa di diverso - come è avvenuto alla Rowling (la creatrice della saga di Harry Potter, ndr) - diventa un discriminatore da bastonare con la legge». Insomma, anche per gli omosessuali non irregimentati quella contro il ddl Zan è una battaglia di civiltà. «È una Lepanto sociale», tuona Ravetto, contro «una religione mortifera: l'omosessualismo ideologico non contempla la continuità...».

Sulla stessa scia La Morgia secondo il quale tutta questa temperie nichilista è parallela all'implosione della sinistra: «Prima l'obiettivo era la lotta di classe, poi è diventata lotta fra i sessi. Oggi si è ridotta alla lotta all'interno della persona stessa, con lo scopo di distruggere l'identità. Perché una persona spaccata interiormente è più manipolabile». La crociata anti-omofoba, dunque, come grande operazione di mercato. «Sul desiderio di riscatto dell'omosessuale hanno costruito un impero - conclude Ponte. E all'insoddisfazione di fondo che muove ciascuno di noi, hanno dato l'illusione che la felicità sarà possibile solo quando tutti staranno zitti». Dietro questo "bisogno" si costruisce una narrazione che diventa legge? «Sì, perché basta una persona che sussurri la verità e quella ti farà crollare».

«Noi cattolici Lgbt, figli di un Dio minore. Papa Bergoglio ci ascolti e dica sì al ddl Zan». Simone Alliva su L'Espresso il 24 giugno 2021. Condannati dalla Chiesa i fedeli omosessuali chiedono apertura: l’orientamento da tutelare è quello del bene. «Qualunque proposta che serve per proteggere chi è più debole deve essere appoggiata da chi fa del Vangelo la propria vita». Dai Pacs alle unioni civili, passando per una legge contro l’omotransfobia. I toni della Chiesa cattolica contro le leggi di riconoscimento per le persone Lgbt sono storicamente aspri e senza appello. “Disordine”, “sciagura”, “pericolo per la pace”: erano queste le parole che fino a pochi anni fa le gerarchie cattoliche rilasciavano a indirizzo degli omosessuali. Oggi il registro cambia. “Chi sono io per giudicare un gay” è la frase di apertura alla comunità arcobaleno più nota di Papa Bergoglio. Ma la posizione del papato resta sempre la stessa. Il muro che il Vaticano ha alzato nei confronti della comunità arcobaleno sembra invalicabile. In ultimo la decisione di impugnare il Concordato con lo Stato per chiedere all’Italia di modificare il disegno di legge contro il ddl Zan. Un «verbo» che si mostra potente; eppure, fragilissimo di fronte alla fede di moltissimi cattolici Lgbt. «Per me la fede è come l’aria che respiro. Non riuscirei a immaginare una vita senza» dice Paolo Spina 35, medico ospedaliero. «La Chiesa ha generato in me la fede. Vivo ogni giorno seguendo il Vangelo dal lavoro al mio rapporto con gli amici fino a quello con il mio fidanzato Domenico con cui vivo da un anno e mezzo». Paolo fa parte del “Progetto Giovani Cristiani LGBT”, formato da ragazzi e ragazze, fra i 18 ed i 35 anni. «Per tanto tempo sono stato arrabbiato. Non nei riguardi di Dio ma di una gerarchia che si discosta dalla vita della gente. Da questa arrabbiatura è nata una consapevolezza: non so se voglio la benedizione del Papa della mia unione con Domenico ma so che è finito il momento di chiedere permesso. Mi va di vivere da cristiano, testimoniare anche con i miei errori, come la mia vita possa essere diversamente buona da un momento in cui viene proposto». Sul ddl Zan Paolo non ha dubbi: «Qualunque proposta che serve per tutelare chi è più debole deve essere appoggiata da chi fa del Vangelo la propria vita». E la deriva liberticida denunciata dalla Chiesa? «La preoccupazione di ogni cattolico dovrebbe essere quella di diffondere il Messaggio del Vangelo che è di rispetto, bontà, amore, comprensione condivisione ed empatia. La ricerca di ciò che ci unisce rispetto a ciò che ci divide dovrebbe essere prioritario. Mi piacerebbe una Chiesa che camminasse di più che riconoscesse che non c’è nulla di irriformabile se non l’orientamento del bene».

LA REPUBBLICA E LE INGERENZE

Chi condanna non vede, o non vuol vedere, e agisce come se fede cattolica e omosessualità fossero inconciliabili. Ma il popolo dei credenti è ben altra cosa. Lo racconta bene Alberto Lisci, genitore di Costanza, Pietro e Francesco: «Sono cattolico praticante da sempre, mi sono avvicinato al mondo Lgbt da quando mia figlia ci ha detto di essere lesbica e di avere una relazione con una donna. Come genitore non posso che cercare con i mezzi che possiedo di tutelare mia figlia e difenderla da attacchi verbali o fisici. Quello che mi ferisce non è la critica al ddl Zan ma che la mia Chiesa, o almeno una parte di essa, pensi a tutelare non il bene della sua gente, di tutta la sua gente, ma il proprio».

Le parole di Alberto riflettono quelle di moltissimi genitori di omosessuali e mettono in luce due modi di vivere la Chiesa: «Ho sempre pensato che esistessero due Chiese, una misericordiosa, accogliente, inclusiva e non giudicante, l’altra giudicante e condannante, in virtù di un potere che le permetteva di agire senza mai ascoltare il suo popolo e a cui tutto le era permesso. Mi spiace, ma da quella parte non ci sto, ascolto chi mi ama, e vuole il mio bene, mi accoglie e cammina al mio fianco. Di preti, religiosi e religiose, operatori pastorali, uomini e donne di buona volontà ne ho incontrati tanti ed è a loro che do ascolto, è a loro che affido la mia parte più intima. Spero vivamente che questa primavera di cambiamenti porti a un mondo migliore e spero vivamente che tutti noi possiamo farne parte».

Alessandra Gastaldi, project manager all’interno del Grants Office di un Istituto di ricerca. Nel mondo dell’associazionismo è legale rappresentante di Cammini di speranza ODV- associazione nazionale di cristiani Lgbt: «La fede è parte fondamentale della mia vita, quando ho preso coscienza del mio orientamento ho provato a ignorarla per un po’, ma poi mi sono accorta che non era possibile, quindi ho cercato i gruppi di credenti Lgbt che mi hanno aiutato a capire che il Dio mi ama senza se e senza ma. Una volta che capisci questo anche le difficoltà con la dottrina sono meno schiaccianti». E aggiunge: «Da cattolica non capisco come una legge che tutela le persone ad oggi discriminate nella nostra società senza intaccare il diritto di opinione possa essere un problema».

Confusione e rabbia sono sentimenti comuni di moltissimi fedeli Lgbt: «Da cattolico gay provo tanta rabbia», racconta Luigi, 27 anni, dottorato in Matematica a Milano. «Cerco di portare questi temi nelle mie comunità: la parrocchia e gli spazi cattolici che abito. Ma c’è sempre un muro di silenzio. Non si conoscono i temi, c’è anche paura a parlarne. Le chiusure non sono inaspettate, ma si parla di noi senza di noi. Sono mesi che sul ddl Zan la Cei chiede un tavolo ma noi non siamo invitati a partecipare. Dalla mia chiesa vengo trattato come uno scandalo da nascondere». Sull’opposizione della Chiesa contro la Giornata contro l’Omotransfobia, Luigi ride: «Sono anni che i vescovi partecipano alle veglie di preghiera “contro” durante la giornata. Nel 2019 il 17 maggio il vescovo di Palermo aveva invitato una lettera a tutte le diocesi per andare alla veglia, così il cardinale di bologna Zuppi ha presieduto la veglia. Non si capisce questa perplessità».

La capacità di ascolto delle gerarchie vaticane è quello che manca anche per Andrea Rubera portavoce di 'Cammini di Speranza', associazione nazionale di persone cristiane Lgbt: «La Chiesa avrebbe dovuto avviare un approfondimento interno. Ciò che spaventa è l’accezione identità di genere», spiega: «Del resto tutto l’impianto di teologia morale della Chiesa è basato su due monoliti inscalfibili: uomo e donna concepiti come complementari, a cui vengono attributi ruoli sociali e familiari. Un impianto difficile da smantellare. Invece di capire le sfumature dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere si preferisce combattere. Auspico che la Chiesa affronti con consapevolezza un percorso di approfondimento e conoscenza, riconoscendo le persone che vivono sulla loro pelle un argomento che la Chiesa tratta solo in modo ideologico. Serve l’incontro con le persone omosessuali e transessuali, approfondimento e chiarezza. Solo così si potrà rasserenare anche su un eventuale legislazione a supporto delle persone omosessuali e transessuali».

La comunità Lgbt cristiana resiste dunque, vittima di condanna secolare, ma convinta più dell'amore di un Dio che degli uomini che vogliono rappresentarlo, ed è una comunità che risponde di sé dinanzi alla propria coscienza. Come dice Paolo: «Due fidanzati eterosessuali lo sanno che la Chiesa vieta il sesso prima del matrimonio, però valutano dentro la loro conoscenza. Io sono cattolico, voglio credere a questa Chiesa e prima o poi guardando come vivo io si accorgeranno che c’è qualcosa oltre il loro naso. Mi appello alla mia coscienza. La coscienza è l’ultima voce a cui devo rispondere, si posiziona anche sopra quella del Papa, come dice San Tommaso D’Aquino».

"Io gay cattolico odiato dagli omosessuali. E vi dico perché...." Francesco Curridori il 15 Giugno 2021 su Il Giornale. Giorgio Ponte, scrittore e omosessuale cattolico racconta a ilGiornale.it la propria esperienza di vita e il motivo per cui si schiera contro il ddl Zan. "La mia speranza è che, quando qualcuno finisce un mio libro, possa aver ricevuto qualcosa che lo spinga a riprendere in mano la sua vita". Giorgio Ponte, giovane scrittore, insegnante e omosessuale cattolico racconta a ilGiornale.it la sua esperienza di vita e spiega le sue prese di posizione politiche.

Quando e come hai scoperto di essere omosessuale?

"La mia tendenza omosessuale si è sviluppata con l'adolescenza. Inizialmente è stata preceduta da una confusione sul mio sesso d'appartenenza. Già verso i sette anni fantasticavo sulla possibilità di trasformarmi in una principessa e i miei giochi avevano al centro figure femminili. Poi, questa cosa è venuta meno e, nel momento in cui sarei dovuto essere attratto da chi sentivo diverso da me, ho sviluppato un'attrazione verso chi mi era simile perché, essendo cresciuto sempre in un contesto femminile, di fatto, non conoscevo il mio sesso d'appartenenza. Sentivo, quindi, diverso da me chi mi era simile perché non avevo relazione con quel tipo di mondo. All'inizio questa attrazione è nata come un'attenzione verso gli uomini più grandi e, poi, tutto si è acuito dopo l'esperienza di abusi che ho subito".

Di che tipo di abusi si trattava?

"Tra gli 11 e i 14 anni mi è capitato che più di una volta venissi disturbato da persone più grandi mentre prendevo i mezzi per andare a scuola. La mia impotenza davanti a questi abusi mi ha confuso. Queste persone mi confusero ancora di più, incuneandosi in un modo distorto nel mio bisogno di attenzione da parte del mondo maschile. Non riuscire a difendermi mi faceva sentire corresponsabile, colpevole e questa è una cosa molto comune a tantissime vittime di abusi".

Quando hai fatto coming-out?

"Non ho mai fatto coming-out: ho fatto una condivisione di vita, che è ben diverso. il coming-out è una dichiarazione in cui si antepone la propria omosessualità alla propria identità, facendo coincidere le due cose. La persona si pone davanti agli altri con questa etichetta pretendendo di essere riconosciuto in quanto omosessuale. Io, invece, ho condiviso con la mia famiglia verso i 26-27 anni la mia storia personale e le ferite che mi portavo dietro, mentre verso i 25 ho smesso di vivere nascosto la mia omosessualità. Non ho mai fatto dichiarazioni. Ho semplicemente lasciato che questa cosa fosse una tra le mille altre della mia vita. Non nascondo la mia omosessualità né la esalto. Il coming-out è una cosa diversa".

La tua famiglia come ha preso la notizia?

"Per la mia famiglia non è stata una sorpresa perché c'erano già stati tanti segnali. Il punto non è stato l'omosessualità, ma condividere le nostre ferite comuni da cui l'omosessualità è nata. È stato importante poter guardare in faccia i miei genitori e i miei fratelli e raccontarci tutta la sofferenza interiore che ci portavamo dentro da tanto. Era importante poterci perdonare a vicenda del male che ci eravamo fatti involontariamente".

Quando hai scoperto la fede?

"La fede ha sempre fatto parte della mia vita. Vengo da una famiglia dove Dio non è un rito, ma una persona reale, uno “di casa” e questo è stato certamente un dono. Tuttavia la mia esperienza di fede a un certo punto doveva portarmi a chiedermi le mie ragioni per cui credevo, diverse da quelle dei miei genitori. Dovevo capire chi fosse davvero quella Persona che abitava la mia casa e di cui mi dicevano cose che non mi sembravano vere. Di fronte agli abusi subiti mi chiedevo: perché Dio, che dovrebbe amarmi, non mi ha difeso? Le risposte sono arrivate grazie a un cammino di fede fatto con una congregazione di suore che gestiva mia scuola, giù a Palermo: Dio era lì con me, in quel dolore, e aspettava solo che me ne accorgessi, per trarre con Lui da esso nuova Vita".

Come riesci a conciliare la tua fede e il tuo orientamento sessuale?

"A una persona omosessuale non è richiesto nulla di diverso da quel che è richiesto ad ogni altra persona sulla terra e cioè di coltivare la castità dell’amore che non è semplicemente continenza, ma imparare ad amare senza possedere e questa cosa è richiesta a tutti, anche agli sposi. Esiste infatti anche una castità matrimoniale. A volte si possono avere rapporti sessuali con la propria moglie formalmente perfetti ma sostanzialmente non liberi: anche tua moglie puoi usarla solo per il tuo piacere personale. Così come potresti non alcun rapporto sessuale eppure non essere comunque casto. La castità è l'amore gratuito che, a seconda del proprio stato di vita, significa anche, ma non solo non avere rapporti sessuali. Io da questo punto di vista non sono diverso da qualsiasi altro single o non spostato. Se una persona arriva a 50 anni senza essere sposato gli viene chiesto la stessa condizione di vita che viene richiesta a me: una castità che è anche continenza. Questo non vuol dire che io riesca sempre a viverla. I periodi di maggiore libertà di solito sono quelli in cui il mio cuore è colmo d'amore, ma ho anche periodi in cui il peso delle situazioni che vivo fa riemergere la mia fragilità. Vivo la vita che vivono tutti e combatto come tutti per essere sempre più libero. Per fortuna so che questa non è una battaglia che combatto da solo, ma con Dio. So che c'è una bellezza più grande che ho anche sperimentato e perciò, per quante cadute possa avere, quella è la direzione verso la quale cerco di camminare".

Hai mai subito delle discriminazioni omofobiche?

"No e non all'interno della chiesa. Ho subito del bullismo legato al fatto che ero un bambino facilmente emarginabile perché grasso e non bravo nello sport. L’omosessualità è venuta dopo. L’essere emarginato mi ha portato a desiderare un riconoscimento da parte del mondo dei maschi che si è erotizzato diventando un'attrazione omosessuale. Sono stato discriminato più dal mondo gay in quanto cattolico che dal mondo cattolico in quanto omosessuale".

Che tipo di discriminazioni hai ricevuto dal mondo Lgbt per le tue posizioni?

"Il mondo Lgbt giudica omofobo il fatto che io parli di ragioni psicologiche dell'omosessualità e di storie di persone che hanno riscoperto una dimensione eterosessuale, così come il fatto che io cerchi la castità. Per quel mondo, io sono un omofobo interiorizzato, cioè qualcuno che odia se stesso, pur avendo dimostrato il contrario in molti modi e occasioni. Ho ricevuto ridicolizzazioni, minacce e diffamazioni da gente che mi attribuisce cose che io non ho mai detto o manipola le mie dichiarazioni".

Cosa ti ha spinto a esporti pubblicamente e a partecipare al Family Day?

"Sapevo che c'era un universo di gente con una visione di vita diversa da quella del mondo Lgbt la cui voce non era rappresentata da nessuno. Non è solo un fatto di fede, ma di come si guarda il mondo e l'essere umano. Oggi ci sono tante persone che non si sentono libere di parlare perché hanno paura di esprimere un pensiero in contrasto con quello del Main Stream. A un certo punto ho capito che c'era bisogno che qualcuno si esponesse per dare coraggio a tanti altri che sono convinti di essere i soli al mondo a vivere diversamente, soltanto perché chi vive secondo l'ideologia Lgbt ha più voce per farsi sentire".

Perché sei contrario ai matrimoni gay?

"Celebrare il matrimonio gay significa alimentare la convinzione che ci sia una stabilità a lungo termine in un rapporto omosessuale cosa che, nella mia esperienza diretta e osservata, non è possibile per ragioni strutturali di non complementarietà. Poi è chiaro che anche tra uomo e donna oggi la stabilità delle relazioni è terribilmente precaria, per la stessa immaturità affettiva che sta alla base anche dell’attrazione omosessuale, ma in quel caso si tratta di un'opzione. Tra uomini, invece, è la regola: una coppia o si frantuma una volta passata l’idealizzazione, a lungo andare non è in grado di restare fedele. Al di là di questo, il matrimonio gay si basa su un falso antropologico: se cose uguali davanti alla legge devono avere lo stesso trattamento, dare gli stessi riconoscimenti a una coppia omosessuale come a una eterosessuale significa dire che le due coppie sono sostanzialmente uguali, ma perché questo sia vero, bisogna anche sostenere che uomo e donna sono sostanzialmente intercambiabili. E questo è falso. Uomo e donna sono sostanzialmente diversi, né migliori né peggiori, ma diversi, pertanto due uomini, non possono essere uguali a un uomo e una donna (anche qui, diversi non vuol dire peggiori), e quindi non possono avere lo stesso trattamento davanti alla legge. E se fingiamo di credere che le unioni civili italiane siano diverse dal matrimonio perché non richiedono fedeltà e non permettono le adozioni, siamo degli illusi: come in tutte le nazioni dove simili leggi “a metà” sono passate, sappiamo che questo è solo il primo passo per poi ammettere in futuro anche le adozioni gay che non tengono conto del bene del bambino, il quale per crescere ha bisogno, nelle migliori delle condizioni possibili, almeno di un padre e di una madre".

Cosa pensi del ddl Zan?

"Penso che sia una legge non necessaria, esattamente come non lo era quella sulle unioni civili. In quel caso perché a livello di diritto privato tutto ciò che doveva tutelare la legge era già tutelato, mentre per quanto riguarda il DDL, già adesso chiunque dovesse picchiare un omosessuale è punibile per legge con in più avrebbe l'aggravante per futili motivi. Il DDL Zan non solo non aggiunge niente a livello di tutele, ma aggiunge moltissimo a livello di prevaricazione perché categorizza un certo tipo di reato rendendolo più grave rispetto alle discriminazioni che altre persone possono subire per altre ragioni. Inoltre non definendo in maniera oggettiva quali siano le condotte omofobe rende, di fatto, denunciabile qualsiasi atto non conforme a un certo tipo di ideologia in quanto potrebbe ledere “la sensibilità” di una persona omosessuale, anche la semplice espressione di idee contrarie. La sensibilità, infatti, non è un dato giuridico, poiché per definizione essa cambia da persona a persona, e l’applicazione di una legge non può quindi mutare in funzione di essa. La legge deve basarsi su qualcosa di oggettivo e misurabile e né un'opinione né un desiderio hanno queste caratteristiche. Inoltre, proprio come la legge sulle unioni civili, il ddl Zan fa un torto antropologico perché dice che non esiste più la distinzione uomo-donna, ma parcellizza l’identità umana sulla base di categorie aleatorie legate al desiderio. Questo è molto pericoloso perché potremmo arrivare al paradosso per cui chiunque, anche se non ha fatto l'operazione totale, potrebbe pretendere che la gente lo riconoscesse come donna e in quanto donna richiedesse di accedere, per esempio, alle quote rosa in una lista di partito: pena denuncia per discriminazione. Al di là di quel che uno vive nella sua vita privata, infatti, fare una legge su criteri del tutto interpretabili rischia di generare un caos incontrollato anche all'interno dello stesso attivismo che sta sostenendo la legge: da mesi Lesbiche e femministe sono sul piede di guerra contro i Trans per questa ragione. Non si capirà più chi è la vittima e chi è il carnefice e tutti avranno un pretesto per denunciarsi a vicenda e, in qualche modo, ci sarà sempre qualcuno a cui verrà fatto un torto".

Politicamente come ti identifichi?

"In questi anni non sono mai stato sotto il cappello di nessun movimento, partito o associazione. Anche quando ho militato tra le Sentinelle in Piedi non l'ho fatto come segno d'appartenenza, perché le sentinelle sono una forma di manifestazione, non un’organizzazione cui aderire. Mi riserbo, perciò, il diritto di restare in silenzio e libero su questo. Dal momento che non nutro una fiducia incondizionata in nessuno che non sia Cristo, per il resto voto quei partiti che difendono i valori in cui credo, a prescindere dai motivi per cui lo fanno e a prescindere dalle condotte personali dei loro leader. In fondo, un uomo politico è chiamato a guidare la società e il bene collettivo e dei singoli individui e non è detto che una persona brava a fare questo nella vita pubblica sia altrettanto bravo a farlo nella sua vita privata. Sappiamo bene che i grandi uomini politici che hanno salvato l'Occidente in tempi di grande crisi, a livello personale, avevano tonnellate di vizi. La coerenza non è di questo mondo, purtroppo, e chi si ritiene al di sopra di questa legge non scritta, pecca di superbia. Se invece parliamo di correnti politiche, senza soffermarci su un partito o su un altro, personalmente credo che se una persona è davvero cristiana, non si può identificare oggi con quell’ala della sinistra che sostiene tutte le leggi contro la vita e l’essere umano nelle sue componenti strutturali, solo in virtù dell’appeal che ha quella millantata attenzione verso gli immigrati, che in realtà, il più delle volte è un'attenzione fatta di spot e di buonismo e non di concretezza. Aborto, eutanasia, divorzio, unioni civili, suicidio assistito, leggi omosessualiste… Tutte le battaglie della sinistra moderna sono per la distruzione della società. Non posso scandalizzarmi per gli uomini che muoiono in mare, se lascio che migliaia di bambini tutti i giorni vengano uccisi nelle pance delle loro madri. Non posso preoccuparmi solo di come accogliere lo straniero, se lo accolgo in un mondo disintegrato alle sue fondamenta. Inoltre non posso amare una corrente ideologica che nasce dalla divisione del mondo in poveri buoni e ricchi cattivi e sull’odio sociale tra essi. L’odio non è mai la strada. Ci sono emergenze sociali sul cui approccio si può discutere e poi ci sono i fondamenti della vita: i valori non negoziabili".

Quando e come è nata la tua passione per la scrittura?

"È nata con me. Fin da piccolo ho sempre avuto il desiderio di raccontare storie, perché ne ho sempre riconosciuto il grande potere salvifico e di insegnamento: un storia ti permette di trasmettere un concetto rendendolo vivo, molto più che parlare del concetto stesso in maniera teorica. Io desideravo raccontare la speranza e la scrittura è il modo con cui cerco di farlo".

La tua più grande paura?

"Morire senza aver fatto tutto quello per cui Dio mi aveva chiamato a questo mondo: senza aver amato abbastanza; senza aver speso tutti i talenti che avevo; senza aver raccontato tutte le storie che avevo da raccontare o aver speso ogni goccia di questa vita per il bene che mi era chiesto"

Il tuo più grande errore?

"Non saprei decidere. Di errori ne ho fatti molti, ma a parte quelli dettati dal vizio, gli altri erano sempre mossi da una ricerca autentica della volontà di Dio, e nel momento in cui li ho commessi mi sono fidato di ciò che in quel momento mi sembrava la scelta migliore. Così ho fatto esperienza di come, per quanti errori si possano fare, se si sta realmente cercando la propria strada, nessun errore è veramente tale, ma solo un passo in più che ti avvicina alla strada che Dio ha pensato per te".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia...

Ddl Zan, Spirlì: «Si può usare la parola frocio? Sì se non dispregiativo e io la userò». Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 28 maggio 2021. Il presidente facente funzioni della Regione Calabria, Nino Spirlì, non è il tipo che le manda a dire e riguardo l’utilizzo di determinati termini non ha mai nascosto il suo pensiero. Lo scorso ottobre aveva espresso a chiare lettere l’idea che «ci stanno cancellando le parole di bocca, come se dire zingaro sia già un giudizio negativo, negro è la stessa cosa, in calabrese dico niurio per dire negro, non c’è altro modo». Ora ritorna sul tema parlando a La Zanzara, in onda su Radio 24, del discusso disegno di legge Zan che tanta polemica e discussione sta generando in Italia: «Se mi chiameranno in audizione – ha dichiarato Spirlì – sul ddl Zan ci andrò sicuramente. Non sono d’accordo e invece sono per la proposta del centrodestra che è molto più umana, più rispettosa e non crea categorie». Il massimo esponente istituzionale calabrese mette all’indice la proposta di legge Zan che «censura, tappa la bocca e mette paura alla gente di usare le parole. Questa – asserisce con decisione – è la santa verità». Per Spirlì, «esistono gli stati d’animo che disprezzano, non le parole, fra poco dovremo stare attenti a come respiriamo per non finire in tribunale. Si può usare la parola frocio? Sì, se non è usata in modo dispregiativo la userò e continuerò a usarla. Se noi la utilizziamo per un gioco o perché la leggiamo in un libro corriamo il rischio di essere accusati». In conclusione, per il presidente facente funzioni della Regione Calabria la legge Zan «è un capestro, una forca caudina. Cerca di tappare la bocca e impedire la libertà per cui abbiamo combattuto duemila anni e adesso dobbiamo stare attenti a quello che diciamo». In sostanza, Spirlì si chiede e chiede agli ascoltatori: «Vi rendete conto che già non possiamo utilizzare parole come zingaro, negro, siamo alla follia. Le parole non sono armi, se non quando caricate a pallettoni da chi le pronuncia».

Da la Zanzara – radio24.it il 28 maggio 2021. A La Zanzara su Radio 24 il presidente della Regione Calabria Nino Spirlì, leghista, omosessuale, attacca a tutto spiano la legge Zan: “Se mi chiameranno in audizione sulla legge Zan ci andrò sicuramente. Non sono d’accordo e invece sono per la proposta del centrodestra che è molto più umana, più rispettosa e non crea categorie”. “La legge Zan – dice Spirlì - censura, tappa la bocca e mette paura alla gente di usare le parole. Questa è la santa verità. Esistono gli stati d’animo che disprezzano, non le parole, fra poco dovremo stare attenti a come respiriamo pe non finire in tribunale”. Si può usare la parola frocio?: “Sì, se non è usata in modo dispregiativo la userò e continuerò a usarla. Se noi la utilizziamo per un gioco o perché la leggiamo in un libro corriamo il rischio di essere accusati. La legge Zan è un capestro, una forca caudina. Cerca di tappare la bocca e impedire la libertà per cui abbiamo combattuto duemila anni e adesso dobbiamo stare attenti a quello che diciamo. Vi rendete conto che già non possiamo utilizzare parole come zingaro, negro, siamo alla follia. Le parole non sono armi, se non quando caricate a pallettoni da chi le pronuncia”. “Omofobia in Italia? Ma no, riguarda altri paesi. L’Italia non è un Paese omofobo, i paesi omofobi sono quelli dove ti tagliano la testa se sei omosessuale, come l’Iran dove vengono impiccati. Gli omosessuali italiani non lo dicono questo, che nei paesi musulmani vengono ammazzati i gay. E invece la sinistra e gli omosessuali italiani scelgono di stare dalla parte di Hamas, dove gli islamici ammazzano i gay”.  Spirlì è un fiume in piena: “Le associazioni gay? Non servono a niente, solo a fare soldi. E questa legge serve a rafforzare l’associazionismo multicolore”. “Gli omosessuali -dice ancora - possono avere la giornata dell’orgoglio dove possono offendere chiunque, sopra i carri c’è gente travestita da prete o da suora col culo di fuori. Loro possono offendere la religione…Devono starsene a casa e vivere l’omosessualità come le persone serene, a casa, in silenzio e a farsi le proprie cose in tranquillità. L’omosessuale non è un essere speciale, è un essere normale come tutti gli altri, appartiene all’umanità. Il Gay Pride mi ha sempre fatto schifo, una carnevalata inutile che non è mai servita a niente e a nessuno. Se dovessi avere un figlio omosessuale e lo vedessi su un carro del Gay Pride lo prenderei a calci nel culo con gli anfibi e lo accompagnerei a casa e gli spiegherei cosa significa essere omosessuali con dignità, senza bisogna di diventare un deficiente su un carro a fare il deficiente”. “Chi difende la legge Zan prosegue - vuole fare passare gli altri per pazzi, invece dietro le parole nasconde tutta una serie di censure e gravissimi pericoli per la libertà, se passasse tapperebbe la bocca a tutti. Voglio vivere senza categorie e voglio poter dire che la famiglia è fatta da una madre, da un padre e dai figli. Appena lo dici, e non aggiungi che ci sono anche le famiglie omosessuali corri un pericolo. Due gay fanno una coppia di persone che si vogliono bene, ma non sono famiglia. Se passasse la legge Zan per queste cose che ho detto potrei essere querelato”         

In libreria scaffali pieni di libri Lgbtqia per i bambini. Ecco come cercano di indottrinarli. Redazione sabato 7 Agosto su Il Giornale. Alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte, a Milano, c’è un’intera parete denominata Wunderkammer, come “stanza dei desideri”. Lo racconta il Giornale che osserva come «sugli scaffali di questa nicchia privilegiata troviamo oggi decine di titoli dedicati a un tema di moda, la presunta normalità di essere LGBTQIA, questa sigla che ormai si estende a tutte le sfumature arcobaleno della sessualità, basta che non sia etero. Un insieme che contiene un vasto sottoinsieme, proposto ai visitatori degli scaffali in periodo di rifornimento pre-vacanziero: quello per ragazzi, e soprattutto per bambini». Si comincia, scrive il Giornale, da un piccolo/grande classico, quel Piccolo uovo di Francesca Pardi, illustrato da Altan (ed. Lo Stampatello, 2011), «dove un protagonista asessuato incontra tutte le combinazioni di famiglie bi- e omogenitoriali, decidendo che l’una vale l’altra. Di fianco, una ghiotta occasione per mettere il figlio in età prescolare alla pari con la vulgata corrente: come favola della buona notte, si può leggere al proprio figlio quattrenne La bambola di Luca (ed. Nube Ocho, 2021), storia di questo bambino che va pazzo per una bambola, finché arriva il solito bullo e gliela deturpa. Ma il bullo fra l’altro è un bambino di colore, e nessuno vuole che un bambino di colore sia anche ostile alle teorie gender fluid. Perciò egli si pente e si riscatta e diventa buonissimo, cioè gioca con le bambole anche lui». Poi, scrive ancora il Giornale,  «…I due papà di Fiammetta, di Émilie Chazerand e Gaëlle Souppart (ed. La Margherita, 2019), dove i soliti bulli prendono in giro la bambina e lei invece li convince di quanto è fortunata, mentre la sua amica che ha invece due genitori biologici è disperata perché divorziano». E poi ancora: «O, pensando ai ragazzi più grandicelli, Le semplici cose di Massimiliano De Giovanni e Andrea Accardi (Feltrinelli Comics, 2019), una graphic novel su quanto sia appropriato, per due maschi quarantenni, servirsi di un utero per conto terzi». E poi tanto altro ancora.

Scrittrice trans “osa” contestare il ddl Zan. Contro di lei una valanga di insulti e minacce. Fortunata Cerri sabato 7 Agosto su Il Giornale. Scrittrice trans criticata ferocemente perché contesta il ddl Zan. Il giornalista Francesco Borgonovo de La Verità ha intervistato Neviana Calzolari, una trans «Male to Female». Sociologa e scrittrice recentemente ha espresso le sue idee su MicroMega, rilasciando dichiarazioni che La Verità ha ripreso. Subito dopo, Neviana è stata oggetto di attacchi feroci. «Controllando le notifiche su Facebook, mi sono imbattuta in un post di Antonia Monopoli, che fa parte di un’associazione trans milanese», racconta. «Nel suo post mostrava solo alcune righe dell’articolo della Verità in cui appariva il mio nome e commentava: “Ecco un’attivista trans che si è bevuta il cervello”. In quel post non veniva riportato nulla dell’articolo, non venivano citate le mie parole». E poi ancora: «Veniva dato per scontato che, essendo stata citata in un articolo della Verità, mi fossi fatta strumentalizzare dalla destra, che fossi una fascista». Poi sono arrivati altri commenti…«Me ne hanno dette molte: fascista, kapò… Quel primo post è stato una sorta di chiamata alle armi affinché iniziasse una pressione intimidatoria nei miei confronti…». Poi spiega: «Il problema del movimento Lgbtq e delle persone che dicono di rappresentarlo solo perché sono a capo di associazioni è che alla fine si pongono sempre in modo estremamente aggressivo e verbalmente violento nei confronti di chi esprime delle posizioni divergenti dal manistream del movimento. Cercano di intimidirti, e se reagisci ribaltano la frittata». «Ti accusano di avere un atteggiamento aggressivo, mentre gli aggressivi sono loro». E racconta ancora al giornalista de La Verità.  «Ma la cosa più ridicola è questa: nel vostro articolo, avete citato delle frasi che ho detto a MicroMega. Ebbene, poiché MicroMega è un santuario della sinistra, l’articolo uscito lì non ha suscitato reazioni, nessuno mi ha criticato. Ma non appena le stesse parole sono state riportate sulla Verità è successo il finimondo». «Ciò dimostra la profonda malafede di certe persone, che non si danno nemmeno la pena di leggere e documentarsi. Però è accaduto anche qualcosa di inaspettato. Io non faccio più parte di associazioni, quando prendo posizione pubblicamente lo faccio a titolo personale. Ma sui social dopo gli attacchi ho ricevuto un grande sostegno. Chi mi segue ha iniziato a segnalare i post aggressivi nei miei confronti, e alla fine Facebook li ha rimossi. I miei accusatori non avevano previsto che accadesse una cosa simile». La sociologa spiega inoltre che a far scatenare gli attacchi è stato «ciò che ho detto sui bloccanti della pubertà…». «…Secondo me il vero problema è il concetto di identità di genere. Sesso e genere sono cose diverse. La transessualità ha a che fare con il sesso, mentre i fautori dell’identità di genere sostanzialmente dicono che le persone transessuali rientrino nell’ombrello transgender. Io però non sono dentro questo ombrello. La transessualità ha a che fare con una spinta forte, insopprimibile a lungo andare, a cambiare le caratteristiche del proprio corpo a favore del sesso di elezione». Il giornalista de La Verità osserva che chi sostiene il ddl Zan dice che nel progetto di legge non si parla di bloccanti della pubertà o di cambio di sesso dei minori. «È un’ipocrisia. Questo è il segreto di Pulcinella. È chiaro che il concetto di identità di genere è stato introdotto come caposaldo perché si vuole puntare proprio a questo: a rendere indistinguibili, come se si trattasse di cose intercambiabili, transizione di sesso e genere». Lei è molto critica verso il ddl Zan. Perché? «Per tanti motivi. Mi dica: perché mai il genere, che ha che fare con il vissuto e la percezione, dovrebbe avere rilevanza pubblica e legale? Cercare di ancorare ipotesi di reato penale a vissuti soggettivi ci porterebbe al caos più completo. Altro che certezza del diritto: ogni giudice andrebbe a ruota libera. E poi, così come è scritto, il ddl Zan è un’arma di distrazione di massa dai veri problemi dei transessuali». E quali sono? «Il vero problema è che c’è un sistema di aiuti e assistenza socio sanitaria che fa pena, che è inadeguato rispetto alla creazione di un benessere personale e una vera integrazione sociale. Ma le associazioni trans e il movimento Lgbtq hanno interesse a rimuovere questi problemi – che sono prioritari per la salute delle persone – e preferiscono concentrarsi su aspetti repressivi di carattere penale. Funziona così: poiché non sono in grado di garantire alle persone trans assistenza e benessere, queste ultime sono spesso frustrate e insoddisfatte. E allora le associazioni dicono: la responsabilità non è nostra, o dello Stato, ma del mondo infame che non riconosce le soggettività trans. In realtà credo che gli attivisti che mi attaccano abbiano paura di affrontare i temi che metto sul piatto. Ad esempio quello che non va nei consultori per le persone trans, su cui le associazioni mettono la bandierina politica».

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2021. I filmati non lasciano spazio all'immaginazione: due donne che si baciano scambiandosi una caramella, la stessa caramella che viene passata di bocca in bocca tra un uomo steso in un letto che abbraccia due donne, che si intuiscono nude. E ancora: due adolescenti che sempre con quella caramella si baciano chiudendosi a chiave nella cameretta, l'aria complice. No, Vittorio Sgarbi non ha potuto sopportare tutto questo nella pubblicità delle caramelle Dietor-Dietorelle. Ecco che l'onorevole ha fatto prendere carta e penna al suo avvocato, Giampaolo Cicconi, e ha fatto scrivere all'autorità garante dell'Infanzia, all'autorità per le Garanzie nelle comunicazioni e all'autorità garante della Concorrenza e del mercato. Ci sono almeno cinque o sei violazioni che Sgarbi avrebbe individuato in quella pubblicità che va in onda in orari in cui anche i bambini guardano la televisione. Due spot di trenta secondi l'uno che - a dire dell'onorevole - cominciano violando la Convenzione Onu sui diritti del fanciullo datata 1989 e attraversano la direttiva numero 450 del 1984 che disciplina la pubblicità ingannevole e comparativa. Di tutto si può dire dell'onorevole Sgarbi, ma non di certo che sia un uomo bacchettone o moralista. «Sono un libertino naturale», dice lui. E puntualizza: «Però non è possibile che in epoca di ddl Zan si pensi di difendere le categorie fragili come i trans o le lesbiche e non si pensi alla fragilità dei bambini». Quelle immagini che nei trenta secondi sfilano sulle note della molto famosa canzone Bésame mucho lo hanno colpito a tal punto da far riempire al suo avvocato due pagine fitte scritte in punta di diritto, che riguardano anche la televisione di Stato. In particolare la legge 223 del 1990 (la legge Mammì) che disciplina la tutela del diritto morale e d'autore e dell'interesse pubblico relativo ai messaggi pubblicitari. Effettivamente quella pubblicità di Dietor-Dietorelle va in onda a tutte le ore del giorno e della sera e quelle immagini, secondo l'onorevole Vittorio Sgarbi - che cita la legge - «offendono la dignità della persona» oltre ad «offendere convinzioni religiose ed ideali», nonché «indurre a comportamenti pregiudizievoli», ma, soprattutto «arrecano pregiudizio morale o fisico a minorenni». «Non capisco perché ci sia la censura nei film e invece si lasci libertà agli spot in tv che vengono visti anche dai bambini di sei o otto anni». L'autorità garante dell'Infanzia ha già raccolto la denuncia, mentre Sgarbi ci tiene a precisare di non essere contrario al ddl Zan, ma anche lì: «Quando si parla di fare educazione nelle scuole bisogna farla a ragazzi superiori ai 14anni, oltre ad emendare la parte dove si parla di libertà di opinione».

Gli italiani vogliono il ddl Zan. Anche a destra. Luca Bottura su La Repubblica il 14 giugno 2021. Questo dicono i sondaggi. E la conseguenza è che i consensi di quel che resta del progressismo italiano potrebbero persino crescere e pescare da lì. Il disegno di legge Zan viene dipinto da fior di commentatori come un tema divisivo. Si assume che il Paese non sia pronto, che ci sono altre priorità. Il fatto che il segretario del Pd Letta ne faccia bandiera viene salutato dai pasdaran centristi con un concerto di pernacchie alternate a violente accuse di autolesionismo. Gente che viaggia sotto il 2 per cento che spiega come si vince: solo in Italia. Poi vai a vedere i sondaggi. ad esempio quello svolto dall’istituto Piepoli una settimana fa. E scopri che il 75 per cento degli italiani, 3/4 del Paese, una maggioranza che si potrebbe definire bulgara se solo in Bulgaria esistessero ancora maggioranze bulgare, è d’accordo. Ma non è tutto. A fronte di un 92% di elettori del centrosinistra che supportano il provvedimento, c’è un 83 per cento di Cinque Stelle che li tallona. E (udite, udite) nel centrodestra i consensi sono al 51%. Di uno sputo, ma pur sempre maggioranza. Volendo fare l’Ilvo Zirconi della situazione, cioè un Ilvo Diamanti decisamente meno capace, mi pregio di ricavare alcuni dati. Il primo: sui diritti, il centrosinistra è compatto. Questo significa che ripartire da lì è tutt’altro che folle. Il secondo: il larghissimo consenso sulla Legge Zan da parte dei grillini conferma la percezione empirica, e cioè che il dimezzamento dei voti a Cinque Stelle ne ha purgato la base dalla presenza del voto di protesta a trazione iper-destrorsa. Che infatti ingrossa il consenso di Fratelli d’Italia, la quale ha parimenti succhiato sangue e voti alla Lega. Ne consegue che l’unica strategia possibile, quella lettiana, di cercare una convergenza con un popolo ormai simile al proprio, cammina praticamente da sola. Ma è il terzo dato ad essere clamoroso, quel mezzo italiano virgola uno, come direbbe l’ex assessore Gallera, che pur votando la Destra italiana, illiberale, rancorosa, aggressiva, impresentabile, sostiene Zan e il suo progetto. Sarà perché alla fine è vero: hanno amici gay. Sarà perché gli italiani, anche quegli italiani, spesso sono meglio dei loro leader. Sarà perché nel centrodestra è ancora conteggiata Forza Italia, che rispetto a Italia Viva e talvolta ad Azione è una specie di comitato centrale del Pcus, fatto sta che mezzo “Paese reale”, alias “paese di Rete4” vorrebbe tutelare gli e le omosessuali, i trans, i queer e tutto il cucuzzaro perché ha ben presente, nonostante la martellante campagna dei media da cui è giornalmente sedotto, come questo sia fondamentalmente buono e giusto. La conseguenza è che almeno su quel 51 per cento una sinistra capace di tenere la barra ferma può, punto per punto, comma per comma, iniezione di contemporaneità dopo iniezione di contemporaneità, esercitare una possibile attrattiva. Che, cioè, i consensi di quel che resta del progressismo italiano potrebbero persino crescere e pescare a Destra, ché il centro non esiste più, senza dover borbottare “ma non è il momento” o cambiar nome in Confindustria. Il 51 per cento. Mi sembra una buona notizia. Al 100 per cento.

Diego Dalla Palma, l'orrore subito dal guru della moda: "Pestato dal mio fidanzato fino a farmi perdere i sensi". Libero Quotidiano il 15 giugno 2021. Diego Dalla Palma ha confessato di essere stato picchiato dal suo compagno fino a perdere i sensi.  L’uomo è stato immediatamente denunciato, ma si trova ancora in libertà. Il guru della moda si è messo a nudo svelando anche dettagli molto personali e delicati della sua vita. "Sono stato molto amato da alcune persone che non potevo amare. In generale, ho avuto tre storie d’amore molto importanti: una con una donna, Anna, le altre due con due uomini che non vogliono che faccia il loro nome. Non ci sentiamo più e questo per me è un vuoto enorme: perché non avere contatti? Allora quello di un tempo non era amore», confessa. Il visagista ha ammesso di essere stato vittima di manipolazioni psicologiche. "C’è un uomo che mi ha picchiato quattro anni fa. Fu uno shock enorme, mi ha picchiato fino al punto di farmi perdere conoscenza. Quell’uomo è stato denunciato ma grazie alla legge se ne sta tranquillamente in giro per l’Italia. Non ho paura di rivederlo. Una sola cosa mi fa paura: lo stordimento, il non capire chi sono, il dipendere da altri. Se avessi delle avvisaglie in questo senso, farei una scelta precisa: andarmene", confessa. Sul Ddl Zan si dice favorevole: "Sono assolutamente favorevole al DDL Zan. Ma gli omofobi, che sono dei perdenti alla ricerca disperata di dare un senso ai loro fallimenti esistenziali, continueranno ad esistere fino a quando non ci sarà una profonda rivoluzione culturale. Cosa penso di Platinette che è contraria a questa legge? L’ho trovato sorprendente, sono sincero", conclude.

Da "ilfattoquotidiano.it" il 15 giugno 2021. Il Parlamento ungherese ha approvato il disegno di legge volto a vietare la “promozione dell’omosessualità ai minori”, presentato da Fidesz – il partito del Primo ministro Viktor Orban – la scorsa settimana e criticato da Amnesty International e Human Rights Watch come un attentato ai diritti Lgbtq. Il provvedimento è passato con 157 voti a favore e un solo contrario. “Al fine di garantire la protezione dei diritti dei bambini – si legge nel testo – la pornografia e i contenuti che raffigurano la sessualità fine a se stessa o che promuovono la deviazione dall’identità di genere, il cambiamento di genere e l’omosessualità non devono essere messi a disposizione delle persone di età inferiore ai diciotto anni”. Fidesz ha promosso l’iniziativa come parte di un programma per proteggere i minori dalla pedofilia. Le lezioni di educazione sessuale, inoltre – si legge ancora – “non dovrebbero essere finalizzate a promuovere la segregazione di genere, il cambiamento di genere o l’omosessualità”. In base a questo testo, una pubblicità come quella lanciata dalla Coca-Cola nel 2019 per promuovere l’accettazione dei gay in Ungheria non sarebbe ammessa, così come film e libri che mettono in scena dinamiche di amore omosessuale. E infatti il canale televisivo commerciale RTL Klub Hungary ha già fatto sapere che pellicole come “Il diario di Bridget Jones”, “Harry Potter” e “Billy Elliot” saranno trasmesse d’ora in poi soltanto in seconda serata e accompagnate da un divieto di fruizione ai minorenni. Lunedì sera oltre 5mila persone si erano radunate di fronte al palazzo dell’assemblea legislativa, in riva al Danubio, per protestare contro un testo che – sostengono – limita gravemente la libertà di espressione e i diritti dei bambini. Anche Dunja Mijatovic, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, aveva invitato a “vigilare contro tentativi di introdurre misure che limitano i diritti umani o stigmatizzano alcuni membri della società”. Le organizzazioni per i diritti umani, ha ricordato, sostengono il diritto dei bambini a un’educazione sessuale completa, che verrebbe resa impossibile dalla censura sui temi Lgbt. “La legge contrasta con gli standard internazionali ed europei”, ha detto. “È una legge incompatibile con i valori fondamentali delle società democratiche europee e con i valori dei cittadini ungheresi, soltanto l’ultimo dei molti vergognosi attacchi ai diritti Lgbtiq dal governo di Viktor Orbán”, scrive in una nota Anna Donath, eurodeputata ungherese del gruppo liberale Renew europe (successore dell’Alde). Il gruppo a Bruxelles condanna la “putinizzazione dell’Ungheria da parte di Viktor Orban” e descrive la legge come “una replica della legge russa in vigore dal 2013 che vieta la propaganda Lgbtiq e che, proprio come in Russia, diventerà uno strumento di molestia e discriminazione”.

Quel nichilismo sessuale che si nasconde dietro la legge Zan. Karen Rubin il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. L'attrice Ellen Page una nomination all'Oscar per la sua interpretazione nel film «Juno», nel ruolo di una adolescente incinta, ha pubblicato sui social una foto dopo la mastectomia, ashtag #transisbeatyful. Dopo l'asportazione del seno chiede di essere chiamata Elliot. Nella sua biografia su Wikipedia è descritto come Elliot ma le foto che accompagnano il racconto sono ancora quelle di una femminilissima Ellen. A differenza della cantante Demi Lovato, che si è dichiarata non binaria, cioè né femmina né maschio, Ellen-Elliot ha scelto di essere un uomo dopo più di trent'anni trascorsi da donna. Dopo la copertina dell'Espresso in cui campeggiava un uomo, ex donna, incinto ma con la barba, i giornali hanno definito toccante il discorso di Valeria Solarino al WeWorld Festival: «Sono maschio e sono femmina, sono uomo e sono donna. Sono due in uno anzi, uno in due. Sono tutto, sono Dio». Come recitava Ivan dei Fratelli Karamazov se Dio non c'è tutto è consentito. Ma c'è la psichiatria: due in uno si chiama sdoppiamento della personalità e credere di essere Dio configura un palese delirio di onnipotenza. Tra la concezione ultraconservatrice di Pillon, per cui alle donne compete l'ostetricia e non l'ingegneria mineraria, e quella di Zan, per cui è possibile definirsi donna anche senza esserlo c'è la realtà, non quella soggettivamente percepita ma oggettiva. Ci sono state e ci sono donne che nel campo della scienza dimostrano talenti che si ritenevano prerogative maschili confutando l'ipotesi di Pillon. Lo stesso non si può dire del genere sessuale. Il dato anatomico non è una credenza né una costruzione culturale, non è una percezione soggettiva ma pura biologia. Gli appartenenti alla specie Sapiens nascono donna o uomo, nulla può cambiare questo semplice e incontrovertibile dato di realtà. Ellen Page può eliminare il seno, può ingerire testosterone, può indossare il frac, ma la percezione di essere Elliot è un autoinganno perché era e rimane una donna, a prescindere dalla mutilazione, dall'abito, dal ruolo sociale e dall'orientamento sessuale. Dopo un secolo di lotte per scardinare il dualismo cartesiano che voleva una scissione tra corpo e mente siamo tornati alla svalutazione del corpo, come se fosse irrilevante al punto da poterlo negare o addirittura cancellare. Liberarsi dei propri organi sessuali e riproduttivi è diventata una proclamazione di libertà. Un nichilismo in cui non c'è più la differenza sessuale, Dio ma neanche la madre, sostituiti da un uomo barbuto che trasforma la generatività in un delirio distruttivo di onnipotenza.

Chi sono le «Terf», le femministe «critiche del genere» che si oppongono al ddl Zan. Elena Tebano il 6/5/2021 su Il Corriere della Sera. Uno dei luoghi comuni nella discussione del Ddl Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia e gli altri reati d’odio, è che vi si oppongano anche «le femministe» e «le associazioni lesbiche». Come molti luoghi comuni non è vero: vi si oppone una minoranza di femministe, con una netta connotazione generazionale (sono soprattutto, anche se non solo, donne over 50), e un’unica associazione lesbica, Arcilesbica, rimasta ormai isolata nell’associazionismo lgbt+. La maggior parte delle associazioni lesbiche italiane infatti ha preso posizione a favore del Ddl Zan, così come lo ha fatto la parte più corposa dei gruppi e delle militanti femministe, soprattutto quelle più giovani. Le femministe critiche del genere, meglio conosciute come Terf («Trans Exclusionary Radical Feminists», «femministe radicali trans escludenti») — un acronimo nato nei circoli femministi degli anni 70 che loro rifiutano definendosi solo «femministe radicali» — hanno infatti una visibilità sovradimensionata rispetto alla loro diffusione reale nel movimento delle donne e in quello lgbt+, soprattutto nei media tradizionali, grazie a due motivi principali. Uno è il fatto che le sue esponenti di punta vengono per lo più dal mondo dei media, di cui conoscono bene i meccanismi, come la regista e scrittrice Cristina Comencini e la giornalista Marina Terragni (autrice di «Gli uomini ci rubano tutto»). L’altra è l’alleanza con il mondo del cattolicesimo di destra: Arcilesbica, per esempio, era quasi scomparsa negli ultimi anni sia in termini numerici — l’associazione non rende pubblici i dati sulle sue tesserate — che di visibilità pubblica. Ma grazie alle sue posizioni critiche nei confronti delle persone transgender e contro la gestazione per altri, rilanciate spesso da siti e testate che si riconoscono nel conservatorismo cattolico, ha acquisito una rilevanza mediatica che non aveva mai avuto. Il conflitto tra questa minoranza e il resto del movimento femminista e lgbt+ però non è irrilevante, perché mette in luce alcuni dei nodi principali che riguardano la condizione delle donne in Italia e in generale nel mondo più ricco. Per capirlo appieno è utile vedere come si è sviluppato questo «femminismo radicale». L’attivismo delle «femministe critiche del genere», o Terf, italiane è legato infatti a doppio filo con quello britannico, che infatti esso cita costantemente come proprio riferimento politico e culturale, e che vede nella scrittrice JK Rowling la propria esponente più nota. Mentre negli Stati Uniti l’opposizione alle istanze lgbt+ e in particolare transgender è guidata soprattutto dalla destra religiosa, in Gran Bretagna è portata avanti da attiviste che vengono dal mondo progressista e della sinistra. Come è possibile? In un’inchiesta su Lux la giornalista Katie J.M. Baker spiega che la fazione femminista «critica del genere» si è sviluppata quando nel Paese veniva discusso il Gender Recognition Act («Legge per il riconoscimento di genere», o Gra) del 2004, una legge che sul modello di altri Paesi, come Argentina, Irlanda e Portogallo, avrebbe permesso alle persone trans di cambiare il loro genere legale sui documenti senza l’obbligo della sterilizzazione forzata e senza una diagnosi medica. La cosa interessante è che in Gran Bretagna la legge per il riconoscimento di genere — come già il matrimonio egualitario, le nozze gay — era stata proposta dal governo conservatore dei Tory, allora guidato da Theresa May. E quindi anche per questo trovava “naturalmente” opposizione a sinistra. A diffondere le idee delle femministe trans-escludenti in Gran Bretagna, però, è stato soprattutto un sito, Mumsnet, la «rete delle mamme», un social network creato 21 anni fa che verteva soprattutto — scrive Baker — su «consigli su come disincrostare la lavastoviglie e associato a mamme compiaciute e snob che confrontavano passeggini di fascia alta e si lamentavano del cane del vicino che mangiava le loro begonie». Mumsnet si definisce «la comunità online più popolare del Regno Unito “per i genitori”», ma le ricerche mostrano che quasi tutti i 7 milioni di Mumsnetters (le utenti di Mumsnet) sono donne. «Più specificamente — spiega ancora Baker —, si ritiene che siano per lo più donne bianche, borghesi ed eterosessuali» di reddito medio alto. La sua base di utenti «è considerata ricca e influente, ed è molto attraente sia per i commercianti che per i politici» (vi ha tenuto incontri anche Hillary Clinton).

Ddl Zan e il dibattito su genere e sesso. È proprio l’esperienza della maternità condivisa online, secondo Baker, che ha portato le utenti di Mumsnet a radicalizzarsi contro le donne transgender, che non considerano tali e definiscono spesso «uomini mascherati». «Leggendo una discussione dopo l’altra, ho notato che molte delle donne che postavano hanno scritto di essersi sentite di nuovo prive di diritti e isolate dopo aver partorito; buttate fuori da una società in cui avevano precedentemente goduto di potere in virtù della loro relativa ricchezza e istruzione. Organizzandosi intorno a questo tema “tabù” stavano sperimentando la solidarietà e il senso di avere uno scopo che era mancato nelle loro vite post parto — racconta Baker — . “Non sto dicendo alle persone trans che sono sbagliate perché sono trans, sono arrabbiata perché le donne vengono chiamate transfobiche se dicono che le loro funzioni biologiche sono solo loro”, ha scritto una donna in un thread di giugno 2020 intitolato “Pro Women, Not Anti Trans - Why Biology Is Important” (“Pro donne, no anti trans. Perché la biologia è importante”). Ha continuato: “Non si tratta di genere, si tratta di sesso e anatomia e di come influenzano le donne ogni giorno, e di quanto sia dannatamente ingiusto per gli altri negare i nostri corpi, come funzionano o le nostre opinioni perché non sono considerate inclusive per coloro che non potranno mai essere biologicamente gli stessi”». «Essere incinta, partorire e allattare sono l’unico momento della mia vita in cui ho sentito una giusta consapevolezza di essere femmina» scrive un’altra utente. «Non intendo in senso di identità di genere, ma in senso di “ho un corpo femminile e sto facendo qualcosa che solo una persona con un corpo femminile può fare”». L’insistenza sull’importanza del legame biologico nella maternità è anche il tema ricorrente delle attiviste Terf italiane. In Italia però, a differenza che nel Regno Unito, lo hanno sostenuto soprattutto a proposito della gestazione per altri (gpa). Non è un caso che le «femministe radicali» italiane se la siano presa soprattutto con i gay che ricorrono alla maternità surrogata, che pure sono una minoranza rispetto alle coppie etero. Non dipende solo dal fatto che i gay sono più visibili (non possono fingersi genitori biologici dei bambini che nascono da madri surrogate). Ma anche perché — come ha detto con la chiarezza intellettuale che la contraddistingue la filosofa Luisa Muraro —: la gpa dei gay «fa sparire le mamme». Priva l’atto biologico del partorire di quel valore simbolico — il Materno — intorno al quale questa corrente femminista costruisce l’identità delle donne. Secondo Baker insomma le community online hanno radicalizzato le donne fornendo loro un «capro espiatorio» (le persone transgender) a un malessere che è motivato da questioni molto reali. «Alcune di queste nuove Mumsnetters “gender critical” erano donne relativamente privilegiate che non si erano mai sentite emarginate fino a quando non hanno partorito e si sono sentite isolate nelle loro famiglie nucleari e (giustamente!) indignate per la mancanza di sostegno alle madri nel Regno Unito» scrive. «Il forum sui diritti delle donne di Mumsnet non ha solo offerto alle donne uno spazio sicuro per organizzarsi. Fornendo una piattaforma che tollerava l’ideologia Terf, ha anche consegnato alle utenti un comodo capro espiatorio per tutti i loro problemi: non l’austerity, non la misoginia, ma la relativamente piccola ed estremamente marginalizzata e oppressa popolazione trans». In una società in cui le donne hanno fatto passi avanti nella rivendicazione di diritti e opportunità, la gravidanza e la maternità rimangono ancora uno scoglio che le rigetta nella solitudine (e nella sensazione di una condizione unica) perché non ci sono servizi adeguati per chi ha figli piccoli. Manca una cultura della condivisione e della responsabilità comune — anche sociale (gli asili, una società che non sottometta la vita al lavoro) —nei confronti della genitorialità. Ed è proprio qui l’equivoco di fondo delle «femministe critiche del genere». Non è tornando all’idea di sesso che riusciranno a uscire dall’isolamento a cui la società consegna le donne facendone le uniche depositarie della cura dei figli. La soluzione non sta nell’attribuire alla riproduzione biologica la fonte di legittimità del valore delle donne, ma nel condividere la cura dei bambini (e degli anziani) a prescindere dal genere di appartenenza. Il concetto di genere, storicamente, è stato il più grande strumento di emancipazione delle donne. Sintetizzato nella famosa frase di Simone de Beauvoir («Donne non si nasce, si diventa») è servito a emancipare le donne dal loro destino biologico. Ha permesso di capire che nascere con i cromosomi XX o i genitali femminili non significa avere un libretto di istruzioni per la vita che verrà: le donne sono libere di riempire quella vita come vogliono. Le nuove generazioni hanno portato questa emancipazione un passo più in là: sanno che quei cromosomi o quell’anatomia non obbligano a un orientamento sessuale. E neppure necessariamente a definirsi donne (o uomini). E infatti ci sono sempre più persone transgender che rifiutano di essere definite in base a una dicotomia di genere. Questo spiega la frattura delle «femministe radicali» con le nuove generazioni. Questo spiega perché un rapper maestro dei social come Fedez ha potuto dare voce alle istanze di quei ragazzi e quelle ragazze: «rappresenta — come nota lo scrittore Jonathan Bazzi su Domani — anche una nuova generazione di genitori, più liberi, in grado di anteporre il bene dei figli al copione che la società ha predisposto per loro». Perché parlare di genere non significa negare la libertà delle donne, ma potenziarla.

(Questo articolo è tratto dalla newsletter «Il Punto» del Corriere della Sera.)

L’ingiustizia che creerà il ddl Zan applicato alle competizioni sportive. Carlo Panella il 6/5/2021 su L'inkiesta. Il senatore Zan, la Senatrice Cirinnà e tutti gli oltranzisti del dogma della “identità di genere”, devono rispondere a questa domanda: si rendono conto che con la loro legge mandano in galera Caitlyn Jenner, noto transessuale americano, medaglia d’oro olimpica nel 1976 nel decathlon maschile prima del cambio di sesso e candidata Gop alla carica di governatore della California, e Marina Navratilova eccelsa tennista lesbica, che sostengono che nello sport l’identità di genere è né più né meno che una truffa che mortifica e penalizza le donne? Secondo l’articolo 4 della legge Zan la risposta è inequivocabile: le manderebbero in galera, così come tutti gli italiani che la pensano come loro, perché l’una e l’altra hanno sostenuto tesi apertamente discriminatorie nei confronti delle donne e ragazze trans nello sport. Caitlyn Jenner ha detto: «La partecipazione delle ragazze trans negli sport femminili non è giusta. È una questione di giustizia, per questo mi oppongo alla partecipazione nello sport femminile delle ragazze trans, ma biologicamente maschi. E dobbiamo proteggere gli sport femminili nelle nostre scuole». Da parte sua Martina Navratilova ha scritto sul Sunday Times: «È ingiusto che le donne debbano competere contro persone che, biologicamente, sono ancora uomini. Sono felice di rivolgermi a una donna transgender in qualsiasi forma preferisca, ma non sarei felice di competere contro di lei». Come si vede, se si guarda allo sport, il bianco e il nero sulla questione del genere diventa meno impalpabile e scivoloso di quanto accade se si discute o discetta riferendosi alla sfera sessuale. Nell’esercizio dello sport esistono solo uomini e donne, maschi e femmine, nessuna sfumatura, per una ragione reale, incontrovertibile, fisiologica: la massa muscolare, la struttura ossea e il sistema ormonale di chi è nato maschio, uomo, esprimono incomparabilmente più potenza e forza di quelle che può esprimere chi è nata femmina, donna. Il cambio di sesso, non modifica questa realtà dettata dalla natura. Nello sport si è uomo o donna. Niente terzo sesso e varietà soggettive. Dunque, nello sport, «l’identificazione percepita di sé, anche se non corrispondente al sesso», base strutturale della teoria del genere, non può, non deve essere applicata. È necessario, la natura questo impone, discriminare per sesso di nascita. Se non lo si fa, si commette una palese, intollerabile, ingiustizia che per di più manda a catafascio tutta la struttura di base di tutte le attività sportive. E questo non riguarda lo sport di élite, professionale, ma una platea di centinaia di milioni di studenti e giovani che praticano attività sportive e dunque partecipano a tornei e campionati. Dunque, una delle basi concettuali del disegno di legge Zan, che ribadisce infinite volte nei suoi articoli il termine “genere” è fasulla, sbagliata e impraticabile. Ma ancor più grave e ingiusto è che chi sostiene, a ragione, che nello sport è indispensabile discriminare (secondo la Treccani: distinguere, separare, fare una differenza) tra donne e uomini, chi è nata femmina e chi è nato maschio, possa un domani essere condannato a pene detentive pesanti sulla base dell’articolo 4 della legge Zan. Ma questo avverrà grazie alla insostenibile leggerezza dell’essere del pensiero di una sinistra progressista che ha scelto di inseguire pasticciate chimere.

Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 19 aprile 2021. Fortuna che c'è chi dice no, resiste e non si adegua al conformismo cretino che porta vip e non ad aprire le mani e imbrattarsele con una scritta, «Ddl Zan», riferita a un testo di legge che molti di loro non hanno neppure letto. Quelle mani aperte sono un mani in alto, un segno di resa al Monopensiero che fa compiere gesti a mo' di automi, solo per obbedire a chi detta l'agenda culturale, con spirito gregario. E invece c'è chi non ci sta, anche se proviene dal mondo arcobaleno e in teoria dovrebbe sposarne a pieno le battaglie. Una, ad esempio, come Anna Paola Concia, attivista Lgbt, lesbica ed ex parlamentare del Pd, che in un'intervista ad Avvenire ha snocciolato le sue perplessità sul ddl Zan, il provvedimento che vorrebbe punire con la reclusione chiunque compia o esorti a compiere non meglio definiti «atti di discriminazione» nei confronti di gay, trans e altre "minoranze" sessuali. La Concia chiede di togliere il «sesso» dall'elenco delle possibili ragioni di discriminazione, perché così - sostiene lei - si coinvolgerebbero anche le donne che sono la metà dell'umanità, non esattamente una minoranza. Poi esorta a rivedere le cavillose distinzioni, contenute nell'articolo 1 del ddl, tra «sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere», categorie, aggiungiamo noi, non scientifiche ma figlie dell'ideologia gender. E ancora, la Concia si pone una domanda di natura politica: se questa legge è tanto «divisiva», pur volendo essere inclusiva e anti-discriminatoria, è proprio il caso di approvarla così com'è? L'ultima obiezione dell'ex deputato è forse la più pertinente: per tutelare gay, trans e altri orientamenti sessuali - lascia intendere - non c'è bisogno di alcuna legge ad hoc. Nel caso essi subiscano violenze, esistono già le leggi ordinarie a difenderli; semmai si potrebbero applicare «delle aggravanti» per quello come per gli altri crimini di odio. Le sue affermazioni diventano ancora più interessanti, in quanto dette da una parlamentare che nel 2008 proponeva una legge contro la discriminazione determinata dall'orientamento sessuale o dall'identità di genere. Si vede che, col tempo, la Concia deve aver capito che certe leggi, creando categorie protette, lungi dal tutelarle, finiscono per ghettizzarle. Un processo quasi inverso, quello della Concia, rispetto a quello vissuto da Alessandra Mussolini che ora, lasciata la politica e datasi al ballo, ha dimenticato anche le sue vecchie convinzioni. La nipote del Duce che nel 2006 gridava a Luxuria «Meglio fascista che frocio!» aderisce adesso alla campagna delle mani aperte e promuove il ddl Zan come panacea contro le «discriminazioni». Se prima era nel torto, ora non si può dire che abbia ragione. Di sicuro, a farle difetto è la coerenza. Naturalmente il coro dei benpensanti plaude alla Mussolini e insulta la Concia. Per aver osato manifestare il suo pensiero, la ex parlamentare Pd è stata riempita di improperi sui social, da «non sei mai stata un'aquila» a «esprimi solo cazzate», da «perché non stai zitta?» a «dovresti vergognarti» fino a «che schifo fai» (a proposito, dove sono le femministe e i paladini Lgbt che condannano il linguaggio di odio?). Questa vicenda dimostra chiaramente una cosa. Non solo il ddl Zan, se approvato, andrà a limitare la libertà di espressione (la reclusione per chi commette o istiga a commettere atti di discriminazione rischia di riguardare anche chi si oppone civilmente a nozze gay o utero in affitto). Ma già adesso la dottrina unica delle Mani Aperte e dei Cervelli Chiusi imbavaglia chi dice la propria e osa pensarla diversamente. E meno male che il ddl Zan tutela la diversità.

"Vi spiego perché il ddl Zan non ha senso". Francesco Curridori il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Il magistrato ed ex parlamentare Alfredo Mantovano, in questa lunga intervista, ci aiuta a capire nel dettaglio tutte le contraddizioni del ddl Zan. Abbiamo interpellato il magistrato ed ex parlamentare Alfredo Mantovano, autore del libro Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, per capire nel dettaglio tutte le contraddizioni del ddl Zan.

Quali sono le lacune giuridiche del ddl Zan?

"Se si prendono in considerazione le relazioni che accompagnano le varie proposte di legge che, poi, sono confluite nel testo del relatore, l'onorevole Zan, ci sono due costanti. La prima è quella di denunciare una grave emergenza di reati, anche gravi, commessi a causa dell'orientamento sessuale. La seconda è la constatazione che, a fronte di questa emergenza, il quadro normativo è incompleto e c'è la necessità di intervenire con nuove disposizioni. Questi due presupposti, al confronto con la realtà, non reggono".

Perché?

"Basta guardare i dati oggettivi forniti dal ministero dell'Interno che nel 2010 ha istituito un osservatorio che si occupa del monitoraggio sulle offese basate sulle discriminazioni di vario tipo, tra cui quelle relative all'orientamento sessuale. Facendo la media dei dati disponibili, in un decennio, risultano segnalazioni per offese relative all'orientamento sessuale pari al 26,5% l'anno su tutto il territorio nazionale. Non mi pare un'emergenza, dal momento che 26 segnalazioni in un anno ci sono in una scuola per fatti di bullismo. Qui, invece, si sta parlando di atti avvenuti non in un singolo istituto scolastico, ma su tutto il territorio nazionale".

Ma, per punire determinati reati, nel nostro ordinamento non esistono già delle aggravanti?

"Sì. Per quanto riguarda il secondo presupposto su cui si basa il ddl Zan, ossia che il quadro normativo attuale sia incompleto, invito a scorrere le norme del codice penale e si può vedere che non c'è esclusione applicativa per nessuno e per le offese portate nei confronti di qualcuno quanto a percosse, violenze, stalking, violenze di vario tipo. Anzi, il codice penale, in aggiunta a questa rassegna di reati, aggiunge due aggravanti: la minorata difesa e i motivi abbietti e futili che possono trovare applicazione in vicende come quelle di cui si parla. Se uno provoca lesioni a una persona a causa dell'orientamento sessuale è probabilmente per un motivo futile o riprovevole. E se queste lesioni sono il frutto di un'attività coordinata si approfitta della posizione di forza e, quindi, della minorata tutela della vittima. Anche dal punto di vista di situazioni particolari l'ordinamento è complesso".

Ma le disposizioni del ddl Zan possono ledere la libertà d'espressione?

"Queste norme, poi, sono considerate gravemente discriminatorie perché sono così generiche che si corre il rischio che la loro applicazione leda la libertà di esprimersi di una persona, la libertà di educazione nelle scuole ecc... Se si prende in considerazione la relazione della proposta di legge che vede come primo firmatario l'onorevole Scalfarotto si fa l'esempio di una mamma alla quale la figlia riferisca che sta per iniziare la convivenza con una persona dello stesso sesso. Secondo Scalfarotto, se tale madre proverà a dissuadere la figlia non sarà mai condannata perché davanti al giudice avrà la possibilità di esprimere le proprie ragioni. Ora, che una semplice conversazione avvenuta nelle mura domestiche si trasferisca in un'aula di tribunale, al di là dell'esito del processo, costituisce un trauma per chi subisce il processo, soprattutto se si tratta di una persona che non ha mai avuto a che fare con la giustizia come la maggior parte delle mamme di famiglia. Ma non solo. Il testo costituisce anche un pesante condizionamento per tanti genitori che saranno dissuasi dall'affrontare tali temi con i propri figli. Ma lo stesso discorso vale per i catechisti che insegnano il creazionismo, il rispetto tra uomini e donne nel matrimonio ecc...".

Qual è il limite più grande del ddl Zan?

"Il limite più grande di tale legge è che consegna al giudice una tale genericità di espressioni che al loro interno ci può stare davvero tutto. Nei lavori alla Camera, la commissione Affari Costituzionali ha dato il suo parere di conformità alle nuove norme e ha posto delle condizioni, tra cui la richiesta di precisazione delle disposizioni contenute nel ddl, essendo a rischio il criterio della tassatività proprio della norma penale. Alla Camera è stata, dunque, introdotta la norma salva-idee volta nelle intenzioni a disinnescare i gravi effetti contenuti nella norma. Ciò però significa che quelle disposizioni sono pericolose altrimenti non ci sarebbe bisogno di quella norma. Inoltre, poi, tale norma aumenta la genericità perché si dice che viene riconosciuto il diritto a esprimere le proprie opinioni che, prima che dal ddl Zan viene riconosciuto dalla Costituzione e lascia al giudice decidere qual è il limite di esprimibilità delle stesse".

Il ddl Zan introduce il concetto di identità di genere. In merito, cosa ci può dire?

"Per dare seguito al parere della commissione Affari costituzionali, è stato inserito l'articolo 1 che dà la definizione di identità di genere, un concetto che non era mai stato usato prima. In tale articolo si dice che l'identità di genere è la percezione che qualcuno ha di se stesso nel momento in cui una persona sta facendo un percorso di transizione da un sesso all'altro anche se tale percorso di transizione non si è definito. Ma, dall'esterno, un comune cittadino o anche un giudice come fa a coglierlo e come fa il giudice, sulla base di elementi così vaghi, a irrogare anni di reclusione? Il problema, però, non è tanto quel che si stabilisce con la sentenza, ma che quando la reclusione supera certi tetti di pena, durante le indagini, possono essere chieste ordinanze limitative della libertà. In sintesi si può finire in carcere in via cautelare o si può essere intercettati. Ogni magistrato, quindi, può interpretare una norma così generica in base al proprio condizionamento ideologico e arrivare ad applicazioni veramente contrastanti col diritto e col buonsenso".

Ma se un giorno un minorenne esprime la sua volontà di cambiare sesso, i suoi genitori possono essere perseguiti se glielo impediscono?

"Non c'è nessun ostacolo per cui non ci sia la persecuzione. Ma si troverebbe in difficoltà anche il titolare di una palestra davanti al quale si presentasse un uomo che dichiara di aver iniziato un percorso per diventare donna e chiedesse di allenarsi con la squadra femminile oppure di usare i bagni delle donne. In nazioni dove norme come il ddl Zan sono diventate leggi, sono emersi casi del genere. In Spagna nel 2014 un vescovo, Sebastian Aguilar, nominato cardinale da papa Francesco, disse in un'intervista che le persone omosessuali vanno rispettate, ma le loro scelte di vita non possono equipararsi alla famiglia tra uomo e donna perché una delle caratteristiche di quella famiglia è l'apertura alla vita e, quindi, non è possibile per una coppia omosessuale avere dei figli. In virtù di tale dichiarazione è stato iscritto nel registro degli indagati per omofobia, poi il procedimento si è fermato perché il cardinale nel frattempo è morto però, intanto, si era avviata l'azione penale nei suoi confronti. In Francia, qualche anno fa, un padre di famiglia che indossava una felpa che raffigurava un padre e una madre che prendevano per mano dei figli ha trascorso una notte in cella perché quel disegno è stato considerato omofobo".

Ma poi è stato assolto?

"Al di là di come finiscono i singoli procedimenti penali, la condizione di indagato e arrestato lascia un segno e, quindi, determina un condizionamento per il futuro".

Un partito come il Popolo della Famiglia potrebbe esistere?

"Con un pubblico ministero molto ligio nel far applicare il ddl, il Popolo della Famiglia verrebbe considerata un'associazione omofoba e, quindi, verrebbe sciolta per legge come se fosse un partito neonazista e i suoi promotori rischiano una condanna fino a sei di reclusione". 

Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2021. Non soltanto la maggioranza, il ddl Zan divide l'universo femminista. E divide anche le famiglie: Cristina Comencini guida lo schieramento delle donne che il testo sull'omotransfobia vorrebbero emendarlo, mentre la sorella Francesca sta con le femministe che vorrebbero approvarlo così come è. Premesso che sono tutte ovviamente favorevoli a una simile legge, il disegno di legge Zan ha tuttavia frantumato anche lo schieramento di «Se non ora quando» e adesso nella parte che si chiama «Libere» è la voce di tante storiche femministe che si leva a chiedere cambiamenti alla legge. «Aver esteso il ddl Zan anche ai reati di misoginia e disabilità fa regredire le donne nel passato, le considera una categoria, una minoranza, mentre siamo più della metà del Paese», commenta Francesca Izzo, storica del pensiero moderno e contemporaneo e da sempre femminista. E aggiunge: «Anche sull'identità di genere bisognerebbe fare dei cambiamenti». È Marina Terragni a spiegarci quali cambiamenti per l'identità di genere. Storica femminista che ha fatto le battaglie accanto al Mit, Movimento italiano transessuali, Terragni dice: «L'identità di genere è un oggetto non definito e non puoi mettere in una legge penale un oggetto non definito. Nel testo si parla di identità autopercepita che è l'ambiguità che apre la porta alla Self-Id , l'autopercezione del genere. Per capire: in California, dove la Self-Id è diventata legge ci sono stati 270 detenuti che si sono dichiarati donne e hanno chiesto di andare nel carcere femminile, con il terrore delle detenute. In Gran Bretagna è successo lo stesso con uno stupratore che si è dichiarato donna. Non basta l'autocertficazione per cambiare sesso, ci vuole un percorso». Per Terragni è da modificare anche l'ingresso nelle scuole per parlare della gravidanza per altri (l'utero in affitto): «Non si capisce, per l'ora di religione ci vuole il consenso dei genitori e per questo no, perché lo decide una legge». Sulla gravidanza per altri, Gpa, si esprime anche la presidente di Arcilesbica Cristina Gramolini: «Bisognerebbe emendare il ddl Zan seguendo una legge approvata dall'Emilia-Romagna: la Regione non finanzia le associazioni che propagandano la Gpa. Con il ddl Zan criticare l'utero in affitto viene considerato omofobia». A chiedere emendamenti al disegno di legge zan anche tante altre voci storiche del femminismo. Dice Terragni: «Cè l'Unione donne italiane, Udi, la Libreria delle donne e anche una associazione di uomini come Equality Italia, guidata da Aurelio Mancuso».

Fausto Carioti per "Libero Quotidiano" il 4 maggio 2021. «Sono cominciate come legittime campagne per i diritti umani. È per questo che sono arrivate a tanto. A un certo punto, però, si sono sfondate le barriere di sicurezza. Non contenti di essere uguali, hanno preso a collocarsi su posizioni insostenibili in quanto "migliori". Qualcuno ribatterà che l'intento era semplicemente quello di passare per un po' da "migliori" in modo da pareggiare il campo di gioco della storia. Finora nessuno ha suggerito quando si sia ottenuta tale ipercorrezione, o su chi si possa contare (...) (...) per darne l'annuncio. Quel che tutti sanno è come verranno chiamati coloro che pestino queste trappole esplosive piazzate di recente. "Intolleranti", "omofobi", "sessisti", "misogini", "razzisti" e "transfobici", tanto per cominciare». Pare un filmato girato nel giardino italiano, dove risuonano gli anatemi di Michela Murgia e altri nanetti del pensiero. Invece le parole qui sopra le ha scritte nei mesi scorsi un commentatore politico inglese che si chiama Douglas Murray, conservatore, incidentalmente omosessuale. Il fatto che il movimento Lgbt abbia «cominciato a comportarsi - da vincitore - come un tempo facevano i suoi avversari» (sempre Murray), dettando ciò che è giusto e ciò che non lo è, finendo poi scavalcato dai suoi aspiranti salvatori nella corsa verso le nuove intolleranze, non è, insomma, un'esclusiva italiana. Fa parte dell'attentato alla libertà di espressione in atto in ogni angolo d'Occidente. Un'isteria collettiva che qui da noi si è raggrumata attorno al disegno di legge Zan, già approvato alla Camera e presto all'attenzione del Senato. Quello per cui Fedez (ognuno ha il Bob Dylan che si merita) ha predicato l'altro giorno, dal palco del concertone. Basterebbe un numero, per smontare l'urgenza del provvedimento: 35,1. Sono le segnalazioni relative a crimini o discorsi d'odio contro l'orientamento sessuale o l'identità di genere che ogni anno, in media, arrivano all'Oscad, l'Osservatorio del Viminale cui affluiscono i dati di polizia, carabinieri, vittime, associazioni, testimoni. Appena 316 casi dal 2011 al 2019. Semplici segnalazioni, non reati veri e propri, che alla fine saranno ancor meno. Le sole profanazioni di tombe per odio razziale e religioso risulterebbero essere quattro volte di più, 146 l'anno, ma nessuno ne fa una battaglia politica. L'ultimo dei problemi reali che hanno gli italiani, a maggior ragione in tempo di Covid, è dunque quello in cima all'agenda della sinistra e dei grillini. Pure ieri costoro, galvanizzati da Fedez, hanno proseguito la crociata che dovrebbe liberare l'Italia dal male. Per alimentare l'ossessione devono far credere non solo che ci sia un'emergenza enorme, smentita dai numeri, ma anche che i crimini ai danni di omosessuali, lesbiche e trans oggi rimangano impuniti. Come ha detto il cantante, la legge Zan serve a difendere «persone che vengono quotidianamente discriminate fino alla violenza». Che è una menzogna, ovviamente: quelle persone sono già tutelate, dalle stesse leggi che valgono per ogni italiano. L'idea di inasprire le pene per ridurre i reati ai loro danni non solo crea disuguaglianze tra cittadini, ma è infondata quanto la pretesa di limitare gli omicidi punendo gli assassini con la pena di morte: cosa che non accade, come dimostrano le statistiche. Dove la legge di Alessandro Zan e Laura Boldrini promette di essere efficace, invece, è nel limitare la libertà di parola. Finirà dinanzi al giudice chi si ostina a credere che il sesso sia un dato biologico. Il caso che in Inghilterra ha visto Joanne Rowling bruciata dalla nuova inquisizione è nato così: la scrittrice si era permessa di difendere una fiscalista cacciata dall'istituto in cui lavorava per aver sostenuto che l'identità sessuale di un individuo non può essere cambiata da un provvedimento amministrativo. Rischierà l'insegnante che dovrà spiegare agli alunni le differenze tra uomo e donna, i docenti cattolici dovranno prendere a pugni la loro coscienza e trasmettere dogmi in cui non credono o pagare in prima persona il prezzo della coerenza. Il tutto affogato in un mare di storture e superficialità che gli stessi omosessuali conoscono bene e spesso disprezzano. Come l'idea che esista una «comunità» Lgbt alla quale appartengono felicemente, in piena identità di vedute, gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. Gruppi (e già è un errore chiamarli così) che sui confini dei diritti dei trans, ad esempio, hanno mostrato di avere idee contrastanti: razzisti e transfobici pure loro? O la vigliaccheria con cui si sorvola sul fatto che i pericoli non vengono dalle istituzioni occidentali, assediate dagli zeloti dei «nuovi diritti», ma da musulmani come Omar Mateen, l'affiliato all'Isis che nel 2016 uccise 49 persone in un club gay di Orlando, in Florida. O nei 73 Paesi dove è illegale essere gay, in otto dei quali è prevista la pena di morte per gli omosessuali, incluso l'Iran che tanto piace ad Alessandro Di Battista: pure lui paladino della legge Zan, manco a dirlo.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 31 agosto 2021. Quella di Vincenzo De Luca alla festa dell'Unità di Bologna è stata una voce fuori dal coro. Come spesso accade quando prendere la parola, il presidente della Regione Campania non ha avuto filtri e rivolgendosi alla platea ha espresso, tra le altre cose, tutto il suo dissenso per l'attuale formulazione del ddl Zan. Vincenzo De Luca ha parlato a ruota libera, affrontando di petto alcuni argomenti caldi per il Partito democratico, definito una "casa sgangherata" dal presidente, ma offrendo un punto di vista completamente diverso rispetto a quello dei suoi compagni di partito. Senza girarci troppo intorno, il presidente della Regione Campania ha bocciato il ddl contro l'omotransfobia: "Io così com’è il decreto Zan non lo avrei votato, perché se non si cambia almeno la parte che riguarda le scuole io non lo avrei votato. Ma voi pensate davvero che sarebbe ragionevole che alle elementari si faccia la giornata contro l’omotransfobia? Ma andate al diavolo". Non usa mezzi termini e di fatto boccia la linea del Partito democratico, promotore del ddl Zan, che insieme al Movimento 5 stelle spinge per la sua approvazione. De Luca ha spiegato anche perché ha un'opinione così avversa sulla questione: "Un conto è se tu mi dici che alle ultime classi delle superiori facciamo una giornata di riflessione. Questo va bene. Ma dobbiamo sapere che, quando affrontiamo temi delicati come questo, occorre grande misura, grande senso di responsabilità". Dal palco, quindi, ha proseguito a bacchettare il suo partito per la linea intrapresa: "Abbiamo fatto una crociata sulla legge Zan e poi abbiamo detto che dobbiamo dare il voto ai 16enni. Per quello che ho colto io, queste sono le proposte nel programma del Partito democratico. Ma voi pensate che sulla base di queste proposte conquistiamo la maggioranza degli elettori?". Vincenzo De Luca, completamente senza freni, ha aggiunto: "Dobbiamo difendere i diritti, ma non è immaginabile che su questioni che hanno contenuti morali che vanno aldilà della politica noi ideologizziamo i problemi". Inevitabilmente, il discorso di Vincenzo De Luca non è stato accolto con gli applausi dal Nazareno, che è stato colpito dall'interno e da uno dei suoi esponenti più influenti. "Mentre il Pd assume con coraggio il profilo di un partito per cui diritti sociali e diritti civili marciano uniti, qualcuno pensa con furbizia di coprire uno spazio politico arretrato e anacronistico, alle spalle di cittadine e cittadini le cui libertà oggi sono ancorate a un livello inferiore che nel resto d’Europa. De Luca pensi a governare la sua Regione, in cui le aggressioni contro le persone Lgbti riempiono le pagine di cronaca", ha scritto su Facbook Roberta Li Calzi.

Il governatore della Campania alla Festa dell'Unità. De Luca contro il Ddl Zan: “A scuola la giornata contro l’omostransfobia? Ma andate al diavolo!”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 31 Agosto 2021. De Luca spara a zero contro il Ddl Zan. Per presunte posture ideologiche, per il contestatissimo e dibattutissimo articolo 7, per ragioni elettorali anche. Le dichiarazioni alla festa dell’Unità di Bologna domenica sera. Il punto sul quale si stanno concentrando per la maggior parte i titoli dei giornali: la contrarietà del governatore alla “istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, proprio quell’articolo 7 che non gli avrebbe fatto votare il disegno di legge. “Io così com’è il decreto Zan non lo avrei votato perché se non si cambia almeno la parte che riguarda le scuole io non lo avrei votato. Ma voi pensate davvero che sarebbe ragionevole che alle elementari si faccia la giornata contro l’omotransfobia? Ma andate al diavolo!”, ha detto De Luca. L’articolo del ddl riconosce nel giorno 17 maggio la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia “al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione” attraverso cerimonie, incontri e iniziative. E proprio su questo punto De Luca non è d’accordo. “Un conto è se tu mi dici che alle ultime classi delle superiori facciamo una giornata di riflessione. Questo va bene. Ma dobbiamo sapere che, quando affrontiamo temi delicati come questo, occorre grande misura, grande senso di responsabilità – ha argomentato il governatore – Abbiamo fatto una crociata sulla legge Zan e poi abbiamo detto che dobbiamo dare il voto ai 16enni. Per quello che ho colto io, queste sono le proposte nel programma del Partito democratico. Ma voi pensate che sulla base di queste proposte conquistiamo la maggioranza degli elettori?”. E ancora, sul ddl Zan, intervistato dalla giornalista Lucia Annunziata: “Certo che dobbiamo difendere i diritti, ma non è immaginabile che su questioni che hanno contenuti morali che vanno aldilà della politica noi ideologizziamo i problemi. Credo che abbiamo sbagliato a rispondere al cardinale Parolin come abbiamo risposto. Il cardinale Parolin è una personalità rilevante del mondo cattolico. Nel mondo cattolico c’è uno scontro in atto tra forze conservatrici e mondo progressista. Noi abbiamo risposto a Parolin in termini volgari e politicamente insopportabili. I Patti Lateranensi? E che diavolo c’entrano i Patti Lateranensi. Ma fa’ che il segretario di Stato non può esprimere la propria opinione? Ma stiamo scherzando?”. L’intervento di De Luca sta facendo discutere in queste ore – e non c’è da stupirsi, visto che il ddl Zan è stato tra gli argomenti più dibattuti negli ultimi mesi. Il disegno è passato alla Camera e ora è fermo al Senato. Oltre 700 gli emendamenti presentati a luglio. La discussione è slittata a settembre. A criticare le parole di De Luca la consigliera comunale del Pd a Bologna e portavoce, Roberta Li Calzi, attraverso Facebook: “Mentre il Pd assume con coraggio il profilo di un partito per cui diritti sociali e diritti civili marciano uniti, qualcuno pensa con furbizia di coprire uno spazio politico arretrato e anacronistico, alle spalle di cittadine e cittadini le cui libertà oggi sono ancorate a un livello inferiore che nel resto d’Europa. De Luca pensi a governare la sua Regione, in cui le aggressioni contro le persone Lgbti riempiono le pagine di cronaca”. Particolare da non dimenticare: Piero De Luca, figlio di De Luca, è vice capogruppo dei dem alla Camera dei deputati. Il governatore ha comunque infierito sul ddl – “La legge non è stata approvata e non sarà approvata” – e sul Partito Democratico – “La capacità di attrazione del Pd oggi è pari a zero. Noi dobbiamo parlare di sicurezza, sennò facciamo un regalo a quel Neanderthal di Salvini”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Otto e Mezzo, scontro Sallusti-Padellaro sul ddl Zan: "Il tuo giornale mi ha definito putt*** da strada". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. Alessandro Sallusti e Antonio Padellaro sono stati ospiti di Otto e Mezzo, in onda su La7 e condotto da Lilli Gruber. Il dibattito del talk verte sul Ddl Zan. E le scintille tra i due non sono mancate: "Parla di pericolo concreto di comportamenti aggressivi, si salvaguarda la libertà d'opinione", "Non è così, ci sono già le leggi. Il tuo giornale mi ha definito put***a da strada". Il botta e risposta tra i due che ha animato il dibattito. "Se io aggredisco una persona di colore o omosessuale perché istigato da una idea violenta. La legge dice questo  non viola nulla", spiega Padellaro. Pronta la replica di Sallusti: "C'è il rischio che io scriva contro l'utero in affitto e un giudice può dire che il mio pensiero è razzista". Con la replica di Padellaro che smentisce le affermazioni del direttore del Giornale. "La legge viene interpretata dalla destra in un certo modo perché pensa di seguire l'elettorato di destra che è contraria a certi temi. In Italia abbiamo ancora la destra del cortile di casa nostra", spiega Padellato. Alché gli ricorda Sallusti che esiste già una legge che tutela certe minoranza e che una altra legge sarebbe inutile. Padellaro invece spiega che la destra si dice contraria al Ddl Zan solo per fare un dispetto alla sinistra.

DiMartedì, Pietro Senaldi contro Concita De Gregorio: "Il reato d'opinione non vale per Fedez ma per i leghisti sì". Libero Quotidiano il 05 maggio 2021. "Tutto sta nell'essere contro o a favore al reato d'opinione". Secondo Pietro Senaldi, in collegamento con Giovanni Floris a DiMartedì su La7, il punto è questo. Nella settimana successiva alle clamorose polemiche intorno a due show nel giro di poche ore, Pio e Amedeo "politicamente scorretti" su gay e persone di colore a Felicissima sera su Canale 5 e Fedez, che ha accusato la Rai di aver tentato di censurarlo al Concertone del Primo maggio per il suo monologo su Ddl Zan e leghisti, il direttore di Libero sottolinea come sia "curioso che tra chi è a favore del reato d'opinione ci siano persone che danno del fascista agli altri". Vale a dire, la sinistra, ben rappresentata in studio a La7 da Concita De Gregorio, ex direttore dell'Unità e penna di punta di Repubblica. Che mentre parla Senaldi, scuote spesso il capo in segno di disappunto. D'altronde, suggerisce Senaldi, sono proprio quegli stessi per cui, quasi magicamente, le critiche e gli attacchi vengono "sospesi" qualora incappino in qualche buccia di banana. Un esempio? Fedez sbeffeggia Tiziano Ferro per il suo coming out ("Cristicchi, vuoi che te lo ficchi?", recitava un suo pezzo) e nessuno dice nulla. Pio e Amedeo su Canale 5 suggeriscono a un omosessuale di farsi una risata se qualcuno per strada lo chiama "ricch***e" e vengono tacciati di omofobia a tempo di record. "Se Fedez dice che a Tiziano Ferro piacciono i wurstel, allora nessuno dice niente perché è un artista - sottolinea non a caso Senaldi -. Se quattro consiglieri leghisti assolutamente periferici e alcuni anche espulsi dalla Lega dicono certe cose, allora diventano oggetti di un comizio e oggetti di condanna". "Le stesse cose, persone diverse. Questo è il pericolo del reato d'opinione, che si giudichi non  la cosa in sé ma chi l'ha detta". 

Ddl Zan, Renato Farina dalla parte di Giorgia Meloni: "Perché ha ragione", ecco l'imbroglio sinistro. Renato Farina Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. «La nuova legge alimenta la censura» La verità elementare sulla censura e la guerra alla libertà di pensiero e di parola l'ha detta Giorgia Meloni. «Parla di censura chi vorrebbe introdurre con il ddl Zan la censura per legge e punire con il carcere chi non si allinea al pensiero dominante». A queste parole tutti si alzano indignati a dire: non è vero, ma è una furbizia dialettica, un modo per stare nei binari della Costituzione. Questo disegno di legge già approvato alla Camera e oggi sul tavolo dei senatori non è così sfacciato. Non dice: vi censuro, e vi mando in galera per le vostre opinioni. Ma è già adesso un permesso all'aggressione verbale e alla reclusione morale nel lazzaretto dei malati nella testa, di chi non scatta negli applausi verso chi non è pronto a scattare in un applauso entusiasta alle tesi sul sesso fluido e l'educazione gender (stimolare la decisione a quale genere appartenere sin dall'asilo, a prescindere dal sesso biologico) e l'utero in affitto che sono l'ipertesto non dichiarato del disegno di legge (ddl) Zan, di cui il Concertone dei sindacati è stato il manifesto appeso grazie alla Rai nelle case degli cittadini, e senza contraddittorio.

SOLO UNO SPOT. Ha detto Meloni al Messaggero: «Il Concertone è stato usato come pretesto per battaglie ideologiche, come il ddl Zan, che non c'entrano nulla con il lavoro e i diritti dei lavoratori. Il tutto sulla tv pubblica e a spese degli italiani. In questo contesto c'è chi usa quel palco per farsi pubblicità e confezionarsi un megaspot, utile per affermarsi ulteriormente nei circuiti che contano». Questa ideologia è stata perfettamente visibile nelle proclamazioni, cosiddetta trasgressiva perché in topless e con il fiocchetto sui cap**li con i colori arcobaleno della "libertà di amare", come se ci fosse una legge che lo vieta e impedisce espressione dei sentimenti. Nelle dichiarate intenzioni il ddl Zan vorrebbe punire le discriminazioni e aggravare le pene per reati di violenza contro disabili, omosessuali e transessuali (peraltro le aggravanti ci sono già, e giustamente, non solo nel codice ma nella prassi dei tribunali). E allora perché questa urgenza? Lo scopo di questa norma che ha per primo firmatario il deputato del Partito democratico Alessandro Zan (socio di una ditta che organizza il Padova Pride, fonte L'Espresso) è l'imposizione del catechismo della morale politically correct. Essa, come dimostrano le censure inflitte ad esempio dall'Ordine dei giornalisti, ancora non c'è, ma è già fatta valere come una spada morale per sbudellare i diversamente pensanti. La punizione in realtà non è ancora penale ma tutto lascia intendere che un avviso di garanzia a chi parla contro il matrimonio omo sessuale, le adozioni per coppie gay o lesbiche con annesso il diritto ad aver figli con l'utero in affitto, non mancheranno. Come si spiega questa urgenza? La sinistra e i 5 Stelle temono di non riuscire a condurre a termine il programma di vaccinazione forzata delle loro idee sulla vita e sulla famiglia. Persino le inoculazioni anti-Covid sono su base volontaria, invece qui si vuole iniettare l'ideologia nel popolo con la minaccia di sanzioni e piantando uno spillone voodoo per isolare socialmente chi abbia idee suscettibili di essere definite omofobe.

ESEMPIO PRATICO. Un esempio pratico? Tempo fa lo aveva spiegato la stessa Meloni: «Vengo definita omofoba decine di volte al giorno solo perché considero l'utero in affitto una pratica barbara. Questo non vuol dire che odi qualcuno, ma che voglio soltanto difendere il sacrosanto diritto di un bambino ad avere un padre e una madre. Per amore, e non per odio, conduco queste battaglie. Siamo davanti ad una proposta di legge profondamente sbagliata, che rischia di creare davvero delle discriminazioni e dei cortocircuiti incredibili». Basti leggere l'articolo 4 intitolato «Pluralismo delle idee e libertà delle scelte» per capire a cosa si riferisce la leader di FdI: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti». Se si sente il bisogno di precisare l'ovvio significa che l'impianto trascina in una situazione di regime da pensiero unico. E la frasetta finale è minacciosa. Parole che spingano «al concreto pericolo di atti discriminatori», che vuol dire? È discriminante vietare l'utero in affitto? È pericoloso, dunque sarebbe reato, mobilitarsi per contestare questa pratica? Chi lo decide? Fedez?

Gender: da Soros in su, ecco brand e imprenditori che sponsorizzano la causa. E fanno business. Bianca Conte mercoledì 26 Maggio su Il Secolo d'Italia. Causa trans e business: da Soros in su, sono molti e tutti degni di nota, i brand e gli imprenditori che sponsorizzano la crociata gender e il suo giro d’affari socio-umanitari, oltre che particolarmente rispondenti a logiche politiche e di marketing. Del resto, è vero: le idee camminano sulle gambe degli uomini, come ebbe a dire il grande Giovanni Falcone all’epoca delle sue inchieste. Ma senza i soldi di alcuni Paperoni mondiali non arriverebbero molto lontano, si potrebbe aggiungere oggi. E allora, sempre seguendo gli insegnamenti e le strategie del magistrato siciliano, urge anche rispolverare il metodo «follow the money». Ed è proprio partendo da questo presupposto che Francesco Borgonovo, vice direttore de La Verità, muove i suoi circostanziati passi alla ricerca di flussi e transazioni di denaro che hanno «ridato motivazioni a tante Ong arcobaleno ormai a corto di obiettivi». E da Soros a Stryker. Da aziende e istituzioni. Tra passaggi societari ascrivibili al mondo dell’attivismo Lgbt, l’inchiesta giornalistica indica tutti i «ricchi maschi bianchi» affezionati alla causa. E altrettanti finanziamenti utili alla causa gender…

Trans, il business e i numeri del censimento. Tutto parte, nella ricostruzione de La Verità, all’inizio del 2020: quando l’Università di Firenze. L’azienda ospedaliera Careggi. La fondazione The bridge. L’Osservatorio nazionale sull’identità di genere e l’Istituto superiore di sanità, hanno dato il via a un’indagine chiamata Spot. Ossia: «Stima della popolazione transgender adulta in Italia». Lo scopo dello studio mirava a ricostruire, in una sorta di censimento, quanti fossero effettivamente – a transizione avvenuta o in procinto di raggiungimento – i transgender sul territorio italiano. Ebbene, come riferisce il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, «nel presentare l’indagine, Marina Pierdominici dell’Istituto superiore di sanità, parlando con Repubblica, azzardò una stima: «I dati della letteratura scientifica internazionale suggeriscono che la percentuale di popolazione transgender dovrebbe essere compresa tra lo 0,5 e l’1,2% del totale. Se confermata anche nel nostro Paese, consterebbe in circa 400.000 italiani». Una cifra che rimanda a percentuali piuttosto basse. E allora, la domanda sorge spontanea: al di là del fatto incontrovertibile secondo cui anche le minoranze hanno diritto e necessitano di rappresentanza, come mai la crociata gender ha, specie da un punto di vista mediatico, tanta rilevanza e spazi ad hoc nel mondo dell’intrattenimento televisivo? E, soprattutto, come e perché si è approdati al punto di asserire come improcrastinabile la necessità di una legge che, come prima cosa, prevede l’autodeterminazione dell’identità di genere, idea chiaramente caldeggiata dai movimenti trans, ma altrettanto palesemente invisa in chiave bipartisan, da molti sia a destra che a sinistra?

Causa trans e business mondiale, il ruolo della britannica Stonewall. Ma tant’è: ci si domanda, però, come sia possibile che argomenti come quello del «gender Id» siano diventati prioritari nel dibattito politico, nonostante la evidente residualità numerica asserita negli studi statistici? Domande che si affastellano a domande e che alimentano una discussione che va ben oltre i limiti etici e giuridici. Sui cui aspetti economici l’inchiesta de La Verità rileva quanto segue: «La prima organizzazione a compiere un massiccio investimento sulla promozione delle istanze trans è stata la britannica Stonewall, una delle più grandi in Europa».

L’ombra di uno «scarso impegno sui diritti transgender». E ancora: «Proprio in questi giorni la Commissione per l’uguaglianza e i diritti umani (Ehrc) britannica – finanziata con denaro pubblico – ha cancellato la sua adesione al programma «Diversity champions» di Stonewall. Il motivo ufficiale è il cattivo rapporto qualità-prezzo del servizio. In realtà dietro la rottura ci sono tensioni legate soprattutto alle questioni trans, dato che Stonewall ha pubblicamente criticato l’Ehrc per il suo presunto scarso impegno sui diritti transgender». Dunque, a parte il fatto che La Verità sottolinea che l’associazione britannica in questione, che nasce nel 1989 con l’obiettivo di occuparsi per lo più di gay e lesbiche, ha iniziato a occuparsi di problematiche trans dopo il 2013, cioè l’anno in cui nel Regno Unito sono state approvate le unioni omosessuali.

Il contributo delle Associazioni sostenute anche da denaro pubblico. Va detto, più in generale, che la causa transgender nel tempo è riuscita ad avocare a sé spazi e protagonisti per associazioni Lgbt molto influenti. Che rischiavano di venire depauperati, almeno in parte, e il loro operato svuotato di senso. «Queste associazioni – scrive infatti Borgonovo – sostenute pure da soldi pubblici (come nel caso della britannica Mermaids che si occupa di ragazzini con varianza di genere), hanno conquistato negli anni un forte peso mediatico e politico, e lo sfruttano con furbizia e un pizzico di cinismo». Il punto, allora, resta quello dell’importanza. Quasi della centralità che il tema ha acquisito. Prendendo piede dal punto di vista sociale, anima istituzionale e corpo economico. Per cui, per esempio, sottolinea l’inchiesta giornalistica in oggetto, «attualmente del programma Diversity champions fanno parte circa 850 aziende e istituzioni: Stonewall (dietro pagamento di una quota) offre loro consigli su come «gestire le diversità», poi emette una sorta di bollino arcobaleno. Iniziative come queste hanno contribuito a creare un patrimonio di circa 8 milioni di sterline».

Il ruolo della Open society foundations di George Soros. Ma non è ancora tutto. Perché l’improvvisa accelerazione che la crociata trans ha registrato negli ultimi tempi non può essere giustificata soltanto con l’ausilio del lavoro promosso da associazioni Lgbt particolarmente attive e capaci. Dietro, infatti, secondo il lavoro svolto da Borgonovo, ci sarebbero anche «organizzazioni dotate di notevole potere economico, ad esempio la solita Open society foundations di George Soros». E su questo, Borgonovo, cita cifre e dati ben precisi. Quelli, per esempio, riferiti già da Kelly Riddell Sadler – giornalista, già consulente per la comunicazione di Donald Trump alla Casa Bianca – il quale diede sostanza numerica a dubbi e ipotesi, «calcolando che tra il 2013 e il 2016 Soros avesse finanziato associazioni come la Gay straight alliance (100.000 dollari nel solo 2013) o la Gate (Global action for trans equality, 244.000 dollari nello stesso periodo)». Tutto verificabile, rilancia La Verità: «Del resto basta farsi un giro sul sito di Open society per trovare più di un articolo in cui si sostiene che è tempo di «dare all’attivismo trans il supporto di cui ha bisogno».

Trans e business, tutti gli imprenditori al soldo della causa. Un business, quello legato al mondo Lgbt che si è incrementato nel tempo e dilatato nello spazio. E che, a un certo punto, registra un’impennata che fa parlare proprio di svolta, dovuta soprattutto al contributo dell’attività svolta da Arcus. Una Ong, illustra Borgonovo nel suo ampio servizio, «fondata e curata da Jon Stryker, ricco magnate dell’industria sanitaria. Come ha documentato la giornalista e attivista Jennifer Bilek (i cui articoli sono stati ben sintetizzati da Feministpost.it), “tra il 2016 e l’aprile 2021 Arcus ha investito quasi 74 milioni di dollari in promozione della giustizia sociale. La maggior parte dei suoi beneficiari avevano a che vedere con l’ideologia dell’identità di genere”».

La crociata trans, un business a livello globale. Non solo. A detta del servizio, «Arcus è stata una delle principali promotrici della causa trans a livello globale. Finanzia associazioni Lgbt storiche e potenti come Ilga. Arcus ha sovvenzionato anche la britannica Stonewall. Arcus, nel 2013, «ha scelto come direttore del programma internazionale per i diritti umani Adrian Coman, proveniente dalla Open society foundations. Nel 2015, invece, la Arcus ha raccolto 20 milioni di dollari per la New global trans iniziative in collaborazione con una fondazione chiamata Novo, che si occupa anche di sostenere Black lives matter e altri movimenti analoghi».

Tutti i Paperoni che foraggiano la causa trans e il suo business. Ebbene la Arcus haq il suo padre nobile nella figura di Peter Buffett, figlio di Warren Buffett. Ma nbon sarebbe il solo Paperone a foraggiare la causa trans. «Secondo Jennifer Bilek – riferisce infatti La Verità – , dietro l’esplosione delle istanze trans ci sarebbero principalmente “uomini. Bianchi. Estremamente ricchi e con un’enorme influenza culturale”. Tra cui il già citato Soros, Jennifer Pritzker (imprenditore trans con un patrimonio da due miliardi di dollari circa). L’attivista, imprenditrice e transumanista orgogliosa Martine Rothblatt. L’imprenditore Tim Gill (il primo gay dichiarato nella lista dei 400 ricchissimi di Forbes). In effetti, tutti costoro risultano finanziare e spalleggiare a vario titolo i movimenti transgender.

Ecco i brand e le firme illustri che appongono il marchio di fabbrica alla crociata trans. E insieme a loro, compaiono le sigle di grandi holding. Perché La causa trans gode del sostegno, se non altro propagandistico e mediatico, di alcune tra le più grandi aziende del mondo. Come dimostrato quando, nel «settembre 2020, Stonewall ha organizzato un grande evento a sostegno della causa trans intitolato «Trans rights are human rights». Lo hanno sostenuto 136 grandi aziende tra cui Amazon, Aviva, Citi, Google, Deliveroo, Deloitte, Microsoft, JP Morgan, Disney, Visa, P&G, Zurich». Brand e marchi illustri che hanno apposto il loro marchio di fabbrica sulla causa gender. Insieme ad altre grandi firme, scrive Borgonovo, «schierate politicamente per bloccare “le leggi che influenzerebbero l’accesso alle cure mediche per le persone transgender. I diritti dei genitori. I servizi sociali e familiari. Gli sport studenteschi o l’accesso a strutture pubbliche come i bagni”. Tra queste ci sono Apple, Airbnb, Dell, Facebook, Hilton, Ibm, Ikea, Nike, Pepsi, Pfizer, Uber, Unilever, Wells Fargo. Nulla di illegale». Semplicemente tutti sono concordi nell’alimentare un business su cui si urla tanto alla congiura. Ma che, a ben vedere, ha più crociati al suo soldo che frondisti contro. Tutti solerti nel foraggiare e godere di un business che di sicuro non langue…

Francesco Borgonovo per "la Verità" il 26 maggio 2021. All' inizio del 2020, l' Università di Firenze, l' azienda ospedaliera Careggi, la fondazione The bridge, l' Osservatorio nazionale sull' identità di genere e l' Istituto superiore di sanità hanno dato il via a un' indagine chiamata Spot, cioè «Stima della popolazione transgender adulta in Italia». A che cosa serve la ricerca? Ovvio: a fare un censimento dei trans sul territorio italiano, perché ad oggi non sappiamo esattamente quante siano le persone che hanno modificato il proprio genere o sono in procinto di farlo. Nel presentare l' indagine, Marina Pierdominici dell' Istituto superiore di sanità, parlando con Repubblica, azzardò una stima: «I dati della letteratura scientifica internazionale suggeriscono che la percentuale di popolazione transgender dovrebbe essere compresa tra lo 0,5 e l' 1,2% del totale. Se confermata anche nel nostro Paese, conterebbe circa 400.000 italiani». I numeri sono in aumento, soprattutto per quel che riguarda i minorenni, ma parliamo ancora di percentuali piuttosto basse. Viene da chiedersi, allora, come mai la causa trans goda di così tanta pubblicità a livello mediatico e ottenga tanto spazio nel mondo dell' intrattenimento, soprattutto quello di marca statunitense. Chiaro: una fetta di popolazione, per quanto esigua sia, ha comunque diritto a essere rappresentata. Però qui si parla addirittura di approvare una legge che, come prima cosa, prevede l'autodeterminazione dell' identità di genere, idea carissima ai movimenti trans ma avversata da molti sia a destra sia a sinistra. Ci si domanda allora come sia stato possibile che temi come quello del «gender Id» siano diventati centrali nel dibattito pubblico nonostante l' evidente marginalità sul piano statistico (la quale permetterebbe, per giunta, di seguire adeguatamente e con rispetto ogni singola situazione, senza bisogno di nuove norme che impongano discutibili decostruzioni della natura umana).

Il ruolo di Stonewall. La prima organizzazione a compiere un massiccio investimento sulla promozione delle istanze trans è stata la britannica Stonewall, una delle più grandi in Europa. Proprio in questi giorni la Commissione per l' uguaglianza e i diritti umani (Ehrc) britannica - finanziata con denaro pubblico - ha cancellato la sua adesione al programma «Diversity champions» di Stonewall. Il motivo ufficiale è il cattivo rapporto qualità-prezzo del servizio, in realtà dietro la rottura ci sono tensioni legate soprattutto alle questioni trans, dato che Stonewall ha pubblicamente criticato l' Ehrc per il suo presunto scarso impegno sui diritti transgender. Attualmente del programma «Diversity champions» fanno parte circa 850 aziende e istituzioni: Stonewall (dietro pagamento di una quota) offre loro consigli su come «gestire le diversità», poi emette una sorta di bollino arcobaleno. Iniziative come queste hanno contribuito a creare un patrimonio di circa 8 milioni di sterline. L' associazione britannica, che dalla nascita nel 1989 si è occupata per lo più di gay e lesbiche, ha iniziato a spingere sui temi trans dopo il 2013, cioè l' anno in cui nel Regno Unito sono state approvate le unioni omosessuali. Come ha scritto Jo Bartosch su Spiked, «quando Ruth Hunt è stata nominata Ceo di Stonewall nel 2014, si è trovata a capo di un ente di beneficenza ricco di personale e denaro ma improvvisamente privo di una causa. Hunt ha trovato la nuova causa - e i donatori - grazie alla "lotta" per i diritti dei trans». Ecco una prima risposta al quesito iniziale: la causa trans crea nuovi spazi per associazioni Lgbt molto influenti che rischiavano di esaurire, almeno in parte, la propria funzione. Queste associazioni, sostenute pure da soldi pubblici (come nel caso della britannica Mermaids che si occupa di ragazzini con varianza di genere), hanno conquistato negli anni un forte peso mediatico e politico, e lo sfruttano con furbizia e un pizzico di cinismo. Ma dietro l' exploit trans non ci sono soltanto associazioni Lgbt particolarmente scaltre. Ci sono anche organizzazioni dotate di notevole potere economico, ad esempio la solita Open society foundations di George Soros. Kelly Riddell Sadler - giornalista, già consulente per la comunicazione di Donald Trump alla Casa Bianca - calcolò che tra il 2013 e il 2016 Soros avesse finanziato associazioni come la Gay straight alliance (100.000 dollari nel solo 2013) o la Gate (Global action for trans equality, 244.000 dollari nello stesso periodo). Tutto alla luce del sole, ovviamente. Del resto basta farsi un giro sul sito di Open society per trovare più di un articolo in cui si sostiene che è tempo di «dare all' attivismo trans il supporto di cui ha bisogno». Come farlo? Ad esempio sostenendo iniziative come l' International trans fund, che riunisce attivisti da tutto il mondo.

La svolta improvvisa. Le sigle arcobaleno hanno cominciato a ottenere maggiori donazioni già all' inizio degli anni Duemila. Ma se fino al 2013/2014 - lo scrive sempre Open society - le associazioni trans potevano contare su budget che in media si aggiravano intorno ai 10.000 dollari l' anno, da quel momento le cose hanno iniziato a cambiare. E se la situazione è mutata lo si deve molto all' attività di Arcus, una Ong fondata e curata da Jon Stryker, ricco magnate dell' industria sanitaria. Come ha documentato la giornalista e attivista Jennifer Bilek (i cui articoli sono stati ben sintetizzati da Feministpost.it), «tra il 2016 e l' aprile 2021 Arcus ha investito quasi 74 milioni di dollari in promozione della giustizia sociale. La maggior parte dei suoi beneficiari avevano a che vedere con l' ideologia dell' identità di genere». Arcus è stata una delle principali promotrici della causa trans a livello globale. Finanzia associazioni Lgbt storiche e potenti come Ilga (una sorta di sigla ombrello che riunisce tantissimi gruppi arcobaleno di tutto il mondo), la quale guarda caso ha da poco espulso dalla sezione europea le femministe di Arcilesbica, considerate «trans escludenti». Arcus ha sovvenzionato anche la britannica Stonewall: ben 142.000 dollari versati «appena prima che ampliasse il suo mandato per coprire le questioni transgender». Nel 2013, Arcus ha scelto come direttore del programma internazionale per i diritti umani Adrian Coman, proveniente dalla Open society foundations. Nel 2015, invece, la Arcus ha raccolto 20 milioni di dollari per la New global trans initiative in collaborazione con una fondazione chiamata Novo, che si occupa anche di sostenere Black lives matter e altri movimenti analoghi. Sapete chi l' ha fondata? Peter Buffett, figlio di Warren Buffett. Secondo Jennifer Bilek, dietro l' esplosione delle istanze trans ci sarebbero principalmente «uomini, bianchi, estremamente ricchi e con un' enorme influenza culturale», tra cui il già citato Soros, Jennifer Pritzker (imprenditore trans con un patrimonio da due miliardi di dollari circa); l' attivista, imprenditrice e transumanista orgogliosa Martine Rothblatt, l' imprenditore Tim Gill (il primo gay dichiarato nella lista dei 400 ricchissimi di Forbes). In effetti, tutti costoro risultano finanziare e spalleggiare a vario titolo i movimenti transgender.

Le grandi corporation. Non sono i soli. La causa trans gode del sostegno, se non altro mediatico, di alcune tra le più grandi aziende del mondo. Nel settembre 2020, Stonewall ha organizzato un grande evento a sostegno della causa trans intitolato «Trans rights are human rights». Lo hanno sostenuto 136 grandi aziende tra cui Amazon, Aviva, Citi, Google, Deliveroo, Deloitte, Microsoft, JP Morgan, Disney, Visa, P&G, Zurich All' inizio di maggio, un altro centinaio di corporation hanno firmato un documento di protesta contro gli Stati americani che avevano approvato leggi «anti Lgbtq», con particolare attenzione alle norme riguardanti «i giovani transgender». In sostanza queste aziende (così spiegano in una dichiarazione congiunta) si sono schierate politicamente per bloccare «le leggi che influenzerebbero l' accesso alle cure mediche per le persone transgender, i diritti dei genitori, i servizi sociali e familiari, gli sport studenteschi o l' accesso a strutture pubbliche come i bagni». Tra queste ci sono Apple, Airbnb, Dell, Facebook, Hilton, Ibm, Ikea, Nike, Pepsi, Pfizer, Uber, Unilever, Wells FargoNulla di illegale. E nessun complotto, per carità. Però quando si parla di persecuzioni, discriminazioni e ingiustizie, beh, forse conviene un po' abbassare i toni.

Il dibattito sul ddl zan. L’identità di genere merita riflessione, c’è il rischio caos. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 26 Maggio 2021. La radicalizzazione dello scontro politico sul ddl Zan è particolarmente grave perché sta trasformando una questione delicatissima in un conflitto manicheo all’insegna della semplificazione. Rischiano così di rimanere schiacciate le due dimensioni reali che dovrebbero interessare. La prima è quella della comprensione dei fenomeni che si intende disciplinare. La seconda è quella degli specifici problemi tecnico-giuridici per farlo. Il primo aspetto è oggetto di un dibattito che interessa non solo la cultura e gli orientamenti sociali, ma anche settori disciplinari specifici come la sociologia, la psicologia e persino la filosofia. È noto che tale dibattito, legato agli studi di genere, non è recente, ma è altrettanto noto che nel tempo si è andato arricchendo di nuovi contenuti e “frontiere”. Non è un caso ad esempio che la American Psychological Association (Apa) solo nel dicembre 2015 abbia diramato delle linee guida per i propri associati su come affrontare il fenomeno delle persone Transgender e Non conforming, coloro cioè che abbiano un’ “identità di genere non completamente allineata con quella del sesso loro riconosciuto alla nascita”. Nel 2017, una speciale inchiesta del National Geographic è stata dedicata alla Gender Revolution in tutto il mondo. In quel contesto, Susan Goldberg ricordava come l’app Tinder avesse identificato circa 40 identità di genere a fronte delle 50 di Facebook. Non stupisce che di fronte a un tale fenomeno si possa sviluppare ogni sorta di atteggiamento, dal più scettico al più entusiasta. E forse non è nemmeno compito della politica prendere una posizione epistemologica su processi culturali così complessi, radicali e, soprattutto, in divenire. Nella prospettiva dell’identità di genere, infatti, anche i confini con le altre manifestazioni culturali o sociali dell’identità rischiano di attenuarsi. Sono le stesse linee guida dell’Apa a ricordare che l’espressione di genere può “avere una notevole intersezione con altri aspetti dell’identità”. Di fronte alla vastità di tali problematiche, che finiscono per investire il cuore della soggettività, la questione di come il diritto si debba porre, e con quali tecniche e modalità, non può essere frettolosamente liquidata. E per questo la strumentalizzazione politica del dibattito è gravissima. La complessità delle manifestazioni umane ha indotto i costituenti italiani (al pari di altri) a prevedere una tutela generale della dignità umana e sociale, senza discriminazione alcuna (art. 3). Ciò non esclude che possano esservi ulteriori interventi di speciale protezione o di specifica promozione (si pensi all’accesso ai pubblici uffici dei cittadini “dell’uno e dell’altro sesso”, art. 51, o alla tutela del lavoro, art. 37 Cost.). La discrezionalità legislativa in materia non esime, però, da una valutazione delle tecniche e delle modalità degli interventi. Il dibattito sul ddl Zan, per quanto inquinato dalla polarizzazione partitico-ideologica, non è dunque inutile, ed è anzi giustificato dalla salienza delle questioni che intende affrontare. Questioni che forse, riguardando una concezione della società e dei suoi componenti che si è molto trasformata dal 1948, richiederebbero un dibattito costituzionale. Vi sono tre specifici profili critici del ddl quanto alle tecniche di politica del diritto. Innanzitutto, aspirando a una sistemazione giuridica di categorie, esso ricorre a definizioni, in parte nuove, senza considerare che alcuni termini erano già presenti nell’ordinamento, ma con significati diversi. Ciò pone un problema di coordinamento di notevole complessità. Si pensi al concetto di genere o di identità di genere che, per lo più, sono stati sinora utilizzati dal legislatore e dalla giurisprudenza (anche costituzionale) come sinonimo di identità o di orientamento sessuale, mentre le nozioni proposte dal ddl Zan alludono a concetti sensibilmente differenti. Ciò genera un secondo problema. Nel definire tali nuove categorie il legislatore ricorre ai cosiddetti concetti giuridici indeterminati (cioè extra-giuridici), il cui significato deve, cioè, ricavarsi al di fuori dell’ordinamento, ricorrendo ad altre scienze, alla coscienza sociale o alla “percezione di sé”. Definendo il “genere” come “qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso” si assume che qualcuno sia in grado, fuori del diritto, di compiere un’attendibile ricognizione delle (mutevoli) aspettative sociali. Certo, i concetti giuridici indeterminati esistono (si pensi al senso del pudore), ma bisogna aver chiaro che, nel ricorrere ad essi, il legislatore compie una precisa scelta di trasferimento del potere. Rinuncia in larga misura a definire, e rinvia alle definizioni di altri operatori, a cominciare dai giudici, con le oscillazioni che ne possono derivare. Ciò vale a maggior ragione per concetti nuovi, della cui esatta portata si discute ancora anche negli ambiti scientifici in cui sono stati elaborati. Circostanza ulteriormente preoccupante atteso che la scelta di affrontare e codificare tali nozioni si trova in un progetto che ha ad oggetto la materia penale, nella quale vige il principio costituzionale di tipicità dei reati (art. 25 cost.) e in cui le conseguenze sanzionatorie sono le più afflittive. A ciò si aggiunga che, per limitare la portata delle norme penali introdotte, il ddl ricorre a nozioni anch’esse piuttosto indeterminate, per cui, ad esempio, sarebbero fatte salve le opinioni e le condotte legittime “riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”. Mettendo di fronte due concetti indeterminati o scarsamente determinati, difficilmente il risultato sarà una chiarezza dei reciproci confini. Oltre alle opzioni culturali di merito politico, ci sono dunque importanti problemi di tecnica legislativa. Per questo discutere non è inutile, tanto più se lo si facesse in modo laico e non nel contesto assordante del rullare di tamburi e del sibilare di pifferi. Giovanni Guzzetta

Riparte la discussione sul Ddl Zan: tra giravolte e incertezze dei leader, ecco cosa succede. Simone Alliva su L'Espresso il 26 ottobre 2021. Il disegno di legge contro l’omotransfobia atteso da un passaggio chiave mercoledì al Senato. Intanto si cerca una mediazione dopo mesi di dichiarazioni contraddittorie. Enrico Letta apre a una possibilità di trattativa sul ddl Zan e tra i renziani è tutto un balletto di sorrisi e pacche sulle spalle: «Avevamo ragione noi», festeggiano. «Lo avevamo sempre detto» twitta l'ex forzista Donatella Conzatti, oggi senatrice di Italia Viva. «Le leggi si fanno con i numeri, il resto è inutile perdita di tempo e demagogia» le fa eco il deputato Ettore Rosato. Parole che trovano sintonia anche dentro la Lega: «Letta prende atto che il ddl Zan è impresentabile» commenta Simone Pillon. Non esattamente. «Modifiche» ha specificato il segretario del PD ospite domenica a Che Tempo Che Fa, «purché non siano cose sostanziali». Bisogna far fede alle parole, sono la cosa più importante quando si discute di un disegno di legge contro i reati d’odio che dal novembre 2019 infiamma il dibattito. E sono quelle che rischiano di cambiare e modificare totalmente l’impianto della legge contro l’omotransfobia. Va da sé che ad oggi sul ddl Zan se non c'è accordo è perché nessuno si fida di nessuno. Ogni partito insegue il filo della propria trama cambiando posizione, alzando muri oppure chiedendo modifiche, ritocchi, cancellando o omettendo trattative già concluse e approvate. La Lega, trainata da Matteo Salvini, negli ultimi mesi ha costruito una fortezza contro il ddl Zan escludendo ogni possibilità di trattativa auspicata da Letta: «Io gli aumenti di pena per chi discrimina, offende o aggredisce due ragazzi o due ragazze che si amano le approverei oggi stesso», diceva l’8 luglio nel corso dell'assemblea di Noi per l'Italia, al Teatro Quirino di Roma. Alla velocità di un tweet la sua posizione diventa meno netta: il 22 luglio chiede «col cuore in mano che il Pd accetti il dialogo». Il 27 luglio sbatte la porta: «Il ddl Zan lo lascio agli altri, noi ci occupiamo di lavoro e famiglie». Da Lanciano, in provincia di Chieti, il 12 settembre in piena campagna elettorale mette infine un punto: «Mi attaccano tutti, ma io porto avanti le mie battaglie contro tasse, sbarchi, Ius Soli e ddl Zan». Contro. Mai a favore. Per capirlo sarebbe comunque bastato leggere i 672 emendamenti presentati proprio dalla Lega. Quasi tutti soppressivi al disegno di legge. Oppure la richiesta di non passaggio agli articoli (proposta presentata dal leghista Roberto Calderoli in coppia con il collega di Fratelli d’Italia, Ignazio La Russa). Si deciderà mercoledì con voto segreto, l’arresto definitivo del disegno di legge contro l’omotransfobia è a un passo, nessuna discussione o mediazione. Dentro la maggioranza pro-Zan, si fa per dire, spicca per richieste di modifica Italia Viva. Di emendamenti al testo ne ha presentati solo quattro, chirurgici. Uno è da vertigine: interviene sul primo articolo della legge, quello proposto da Italia Viva stessa alla Camera e approvato con orgoglio dai renziani. L’articolo più dibattuto negli ultimi mesi, quello della formulazione delle definizioni: orientamento sessuale, sesso, genere, identità di genere. L’articolo 1 nasce da un emendamento (ancora visibile agli atti) a prima firma Lucia Annibali, deputata di Italia Viva. Il suo inserimento nell’impianto della legge arriva da una richiesta della Commissione Affari Costituzionali della Camera: fare riferimento a definizioni giuridicamente precise e il più possibile consolidate nella giurisprudenza. Italia Viva, dunque, presenta e ottiene l’inserimento dell’articolo così come lo conosciamo. Oggi la richiesta del partito di Renzi al Senato è di soppressione dello stesso e di un ritorno alla formula: “omofobia e transfobia”. Un passo indietro che riporta alla mente tutti i tentativi di legge degli ultimi 25 anni, quelli naufragati per assenza di precisione tecnica. Come già raccontato su L’Espresso: i termini “omofobia” e “transfobia” sono usati nel linguaggio politico che è diverso da quello giuridico. Vanno bene per la denominazione della giornata contro l’omofobia e transfobia, per esempio, ma non per la denominazione di un movente di reato, che richiede parametri più precisi. “Omofobia” e “Transfobia” inoltre sono termini che non assicurerebbero protezione a tutte le soggettività che il ddl Zan si propone di tutelare. Quei reati d’odio sulle persone bisessuali, non binarie o gender non conforming, non riconducibili alla condizione transessuale e, dunque, alla transfobia. Se il problema è, come dichiarato spesso dal capogruppo di IV Davide Faraone, il concetto di “identità di genere”, queste tre parole restano anche dopo la soppressione del primo articolo. Il concetto di identità di genere resta negli articoli 2 e 3 (che modificano il codice penale e il codice di procedura penale) essendo una definizione già presente nella legislazione italiana, ma anche nel diritto europeo e nella giurisprudenza delle più alte Corti. Le modifiche all’articolo sulla libertà d’espressione o pluralismo delle idee (art. 4) illuminano un’altra giravolta. Questa volta di quel centrodestra favorevole del ddl. Il “rispetto della libertà d’espressione” è frutto di un lavorio portato avanti da Enrico Costa, all’epoca deputato di Forza Italia oggi in Azione. Presenti alla trattativa con il Pd c’erano Giusi Bartolozzi (ex azzurra oggi al Misto) ma anche Francesco Paolo Sisto, oggi Sottosegretario alla Giustizia nel Governo Draghi in quota berlusconiana. Forza Italia decise che bisognava specificare che la legge contro l’omotransfobia, l’abilismo e la misoginia non colpisse la libertà di espressione. Precisazione non necessaria dal punto di vista giuridico ma politicamente obbligata di fronte a un quadro politico incerto. Trattative, cambiamenti e infine ritocchi. Con un sospiro di sollievo il 4 novembre 2020 le larghe intese Pd-FI riescono. Oggi gli emendamenti firmati da Ronzulli-Binetti chiedono la modifica. Fa discutere infine la richiesta di soppressione della giornata mondiale contro l’omotransfobia nelle scuole. “Richiesta inammissibile”, fanno sapere fonti dal Pd. Gli emendamenti sono i più disparati: i senatori Ostellari (Lega) e Ronzulli (Forza Italia) vorrebbero trasformare il 17 maggio nella “giornata contro le discriminazioni”. Eppure, dal 2004 è in tutto il mondo nota come “Giornata contro l’omotransfobia” e non è un caso. Il 17 maggio 1990 l'Organizzazione mondiale della Sanità ha depennato l'omosessualità dall'elenco delle malattie mentali. In Italia, ogni anno, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio e i Presidenti di Camera e Senato rilasciano dichiarazioni sul tema. La legge Zan prevede che, in occasione della Giornata mondiale contro l’omotransfobia, le scuole organizzino attività di sensibilizzazione per «contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall'orientamento sessuale e dall'identità di genere». Prevenire atti di bullismo e discriminazioni. Nessuna scuola sarà obbligata a celebrarla, si legge nel ddl Zan: «Nel rispetto del piano triennale dell’offerta formativa di cui al comma 16 dell’articolo 1 della legge 13 luglio 2015, n. 107, e del patto educativo di corresponsabilità». Ma per Italia Viva non basta, i senatori renziani Faraone e Cucca chiedono venga specificata anche “la piena autonomia scolastica”. Un’operazione di facciata che insegue una convinzione espressa dal leader Renzi in un’intervista rilasciata a luglio per Fanpage, cioè che il ddl Zan potrebbe aprire alla «teoria del gender e la presenza di alcuni di questi temi nella scuola», sintonia massima con il leghista Pillon, noto per la sua caccia alla stregoneria nelle scuole. Passi indietro e dimenticanze. Eppure nel 2016 era stata la sua “Buona Scuola” accusata di imporre la teoria del gender. Quell’anno la ministra dell'Istruzione, Stefania Giannini dovette smentirne l’esistenza con una circolare alle scuole. Oggi Renzi accusa il ddl Zan di imporre la stessa teoria nelle scuole. Ma i margini per effettuare queste modifiche ci sono? Il padre del testo, il deputato Zan, non solo dovrà trattare con i suoi ex colleghi renziani per rassicurarsi quei 17 voti che mancano per approvare il testo. Ma in caso di modifiche dovrà cercare delle garanzie pubbliche per il terzo passaggio alla Camera. Il vicolo è stretto: chiudere in pochissimi giorni al Senato, costringere la Lega a ridurre i 672 emendamenti depositati, approvare la legge modificata e poi trovare una finestra alla Camera per calendarizzazione e votazione. Tutto questo mentre un’altra legge, decisamente più ingombrante, cioè quella di bilancio, viene discussa al Senato. Più che pontiere, a Zan toccherà interpretare il ruolo del funambolo che cammina sulla fune, in bilico sul baratro. Sugli spalti per nulla contenti i diretti interessati a questa legge: la comunità lgbt. Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay ha bollato come «un fulmine a ciel sereno» l’uscita del segretario del PD Letta: «L'approvazione rapida del testo a prima firma Zan si avrebbe solo senza modifiche». Alessia Crocini presidente di Famiglie Arcobaleno è più corrosiva: «Questa legge è già frutto di un compromesso. Nella comunità la stanchezza di sentirsi sempre oggetti e mai soggetti ha ormai raggiunto il limite. Quando le leggi vengono ridotte o mediate a cambiare non è la vita di Renzi, Letta, Salvini o Berlusconi è la nostra. Stiamo difendendo una legge che avrebbe dovuto essere approvata 25 anni fa, siamo a un passo dal dare una chance al futuro di questo paese, ma come sempre non ci riusciamo».

Ddl Zan, dal Vaticano nuovo appello alla politica: legge "ingiusta" come l'aborto. Felice Manti il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Come si deve comportare un cattolico di fronte alla legge Zan? E qual è il dovere di un politico che si ispira ai valori della Chiesa? Due semplici domande per una risposta che non lascia dubbi. Come si deve comportare un cattolico di fronte alla legge Zan? E qual è il dovere di un politico che si ispira ai valori della Chiesa? Due semplici domande per una risposta che non lascia dubbi. «Vale ciò che Papa Francesco disse sul gender nell'Esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia («Il gender è un'ideologia che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna, prospetta una società senza differenze di sesso, e svuota la base antropologica della famiglia») e ciò che Giovanni Paolo II scrisse nell'enciclica Evangelium Vitae agli articoli 73 e 74», dice una nota della Congregazione della Dottrina della Fede che Il Giornale ha potuto consultare in esclusiva. Si tratta infatti della risposta che la Congregazione ha inviato a Pro Vita & Famiglia Onlus, storicamente contraria alla norma perché «impone una visione della sessualità soggettivista, fluida, non binaria, contraria all'etica naturale e all'antropologia biblica e cristiana». Il ddl Zan, fa intendere la lettera datata 1 ottobre, è da considerarsi «intrinsecamente ingiusto al pari di aborto e eutanasia», che per la Chiesa restano «crimini che nessuna legge può pretendere di legittimare». Chissà che cosa ne pensano i famigerati «cattolici adulti» del Pd e del centrodestra, che in più di una circostanza hanno manifestato aperture alla norma. Con quale faccia diranno che non c'è alcun contrasto tra le loro convinzioni religiose e una legge che rischia di restringere pericolosamente il campo della libertà di espressione? Già oggi chi ha osato dissentire rispetto al ddl Zan è oggetto di pesante aggressione e di odio. Sarà ancora lecito dire che un bambino ha diritto a una mamma e un papà o che l'utero in affitto è una pratica spregevole senza rischiare di finire davanti a un giudice? La lettera di Pro vita risale ai primi di luglio, quando la legge che in teoria punta a punire - giustamente - la violenza di matrice omofobica e transfobica e tutelare la comunità Lgbt e i «generi» esistenti dall'odio aveva disvelato il suo vero volto: separare il sesso dal genere (articolo 1) e sdoganare «l'identità di genere percepita» a uno spettro di «orientamento sessuale» a sua volta mutevole, per arrivare a una identità di genere fluida. Una percezione del sé che fa a pugni con la dottrina cattolica del «maschio e femmina li creò» ma anche con il buonsenso. È infatti in questa confusione che è facile cadere vittima di affermazioni che suonino come «omofobe» senza volerlo essere. Già la Cei si era espressa criticamente per ben due volte. Poi era arrivata la forte presa di posizione della Segreteria di Stato della Santa Sede, in una «nota verbale» indirizzata all'Ambasciata d'Italia, rilevando che la normativa avrebbe inciso negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario. Ora l'autorità dottrinale della Congregazione per la Dottrina della Fede conferma l'incompatibilità assoluta tra la Fede cattolica e il ddl Zan. Una grave criticità per i cattolici sta nell'idea di portare la fluidità di genere nelle scuole. «Iniziative come la Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia si moltiplicheranno - avverte Pro Vita & Famiglia Onlus - perché le organizzazioni Lgbtq+, forti della copertura legale del ddl Zan», sanno già che «la resistenza da parte di genitori o professori sarà bollata come transfobica e potenzialmente discriminatoria». Ma è giusto parlare di sessualità in una scuola materna? «Ci sembra che, rispetto a questa impostazione ideologica, la dottrina cattolica si ispiri a principi del tutto opposti, e dunque - conclude Pro Vita & Famiglia Onlus - le norme avrebbero l'effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica». E qui si torna al monito contenuto nell'Enciclica di San Giovanni Paolo II: «I cristiani, come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche in contrasto con la Legge di Dio». Il senso e il fine della libertà per i cattolici, infatti, «risiede nell'orientamento al vero e al bene». Punto. Per la Dottrina della Fede il ddl Zan è una di queste «legislazioni globalmente ingiuste», il cui assenso non può mai essere giustificato «né invocando il rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la richiede». Ora i sedicenti «cattolici adulti» dei due schieramenti non facciano i bambini, fingendo di non capire. Il tempo degli infantilismi e dei facili alibi è finito. Felice Manti 

"Su questi temi la Chiesa non è sola". Matteo Sacchi il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. La storica: "La realtà è che esistono due sessi. E nessuno può negarlo". Lucetta Scaraffia ha insegnato Storia contemporanea all'università La Sapienza di Roma ed è membro del Comitato nazionale di bioetica dal 2007. Nel corso di una lunga carriera, che vanta collaborazioni anche con molte testate giornalistiche, tra cui Le Monde, si è occupata di storia della chiesa e di storia della religiosità. Date monografie come La fine della madre, Storia della liberazione sessuale o Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia è naturale chiedere la sua opinione sul dibattito chiaramente riaperto dal Ddl Zan sui rapporti tra Stato e Chiesa cattolica.

Partiamo dal Ddl Zan. Ci sono stati degli interventi della Chiesa cattolica che possiamo definire delle ingerenze?

«Onestamente a me sembra di no. La Chiesa Cattolica ha solo ribadito la sua dottrina, che per altro era nota, non mi sembra abbia minacciato alcunché. Né di levare l'investitura di cattolico a deputati o senatori, né di togliere i sacramenti o chessò io a chi vota il Ddl Zan. Nessuno ha parlato di scomuniche, ha semplicemente espresso il suo parere. Cosa che ha diritto di fare come hanno diritto di fare tutti. Come del resto hanno fatto molte persone o istituzioni che non sono d'accordo con il Ddl Zan pur non essendo cattolici».

Quali sono i documenti prodotti dalla Chiesa che hanno un valore specifico in questo dibattito?

«Tutti i testi che fanno riferimento all'esistenza di due sessi e per la Chiesa questa è una realtà che non può essere negata. Ma in questo la Chiesa non è sola, ci sono persone, e non solo di destra che sostengono le stesse posizioni. Vorrei ricordare che, in Francia, Sylviane Agacinski, la moglie di Jospin con una solida storia a sinistra, ha scritto un libro in cui dice chiaramente che l'umanità è divisa in uomini e donne. Poi capire come trattare le persone a cavallo tra i due sessi è questione legislativa per lo Stato, morale per la Chiesa. Ma senza mettere in discussione il fatto».

Quali sono i casi in cui, durante la storia italiana l'intervento della Chiesa su temi etici si è fatto sentire di più?

«Sicuramente per il divorzio e per l'aborto, che sono state due battaglie perdute per la Chiesa. Tra l'altro sono state perdute anche perché le donne volevano sia il divorzio che l'aborto. Ma sia il referendum per il divorzio che quello per l'aborto presentavano una struttura molto diversa rispetto al Ddl Zan. Il problema era punire o impedire la libertà. Un conto è dire che l'aborto è un peccato, io sono cattolica e lo penso, però mandare in prigione le donne che hanno abortito è una cosa crudele e inutile... Questo di nuovo non vuol dire che la Chiesa non può dire che l'aborto è un peccato».

Retrospettivamente la chiesa ha mai fatto pressioni dirette o si trattava di moral suasion?

«Di pressioni dirette nessun politico ha mai raccontato. Di certo il rischio di perdere elettori c'era, era quello a far paura. I cattolici sono stati, ed in piccola parte lo sono ancora, un bacino elettorale ambito. Persino il Pci stava attento a non scontentarli. Oggi sono meno forti. Ma questa resta un'influenza legittima».

Quindi per trovare un'ingerenza vera davvero dobbiamo tornare al Non Expedit?

«Sì però è durato poco e molti cattolici in quel caso hanno disobbedito. Era una battaglia inutile contro il nuovo Stato italiano, solo una questione di potere. Ma non ha davvero nessun legame con la politica di oggi. Il Papa fa molte ma molte più pressioni, sui migranti, per motivi giusti e comprensibili, che sul Ddl Zan. In quel caso si è rivolto direttamente allo Stato. Ma non si scandalizza nessuno. E non si spaventa nessuno».

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arc

Ddl Zan, maggioranza spaccata: si va alla conta in Aula col rischio "tagliola". Federico Garau il 26 Ottobre 2021 su Il Giornale. Domani il ddl sarà discusso in Aula al Senato, ma la tensione è alle stelle. La sinistra teme la tagliola del centrodestra ed il voto segreto. Dopo giorni di scontro, domani potrebbe davvero essere il giorno decisivo per il ddl Zan, ormai divenuto una vera e propria ossessione per i partiti della sinistra. La discussione in Aula al Senato è fissata alle 9:30, ed il clima è già tesissimo.

Il Pd di nuovo alla carica

A fare la sua mossa solo alcuni giorni fa il segretario del Partito democratico Enrico Letta che, messe da parte la crisi economica che sta attraversando l'Italia ed il malcontento crescente della popolazione, è tornato alla carica con il disegno di legge, deciso ad arrivare alla sua approvazione. Per portare a casa il ddl, Letta è disposto anche ad apportare delle modifiche, cosa che ha fatto insorgere il mondo Lgbt.

Retromarcia di Letta sul ddl Zan. Ed è bufera Lgbt

Nessun accordo

L'accordo fra i partiti, tuttavia, non è arrivato. Le trattative si sono chiuse con un nulla di fatto, e tutto è rimandato a domani, quando si terrà una nuova discussione in Aula al Senato, come disposto in calendario. Attese le richieste di sospensiva di discussione degli emendamenti al testo inoltrate sia da Lega che da Fratelli d'Italia.

Il ddl Zan dovrà affrontare il voto, che molto probabilmente sarà segreto. Il timore di chi sostiene il provvedimento è che questo possa affossare una volta per tutte il disegno di legge. Accordi, del resto, non se ne sono trovati: Lega e Forza Italia hanno chiesto di rinviare di una settimana, mentre Pd, Leu e M5s, spaccati fra loro, si sono detti contrari.

Al termine della riunione dei capigruppo, stando ad alcune indiscrezioni rilasciate dalle agenzie di stampa, volavano scintille, con Simona Malpezzi, presidente dei senatori del Pd, furiosa con la Lega, rea di non aver voluto trovare una mediazione, ritirando la cosiddetta 'tagliola' in cambio di uno slittamento del voto in Aula. Slittamento, fra l'altro, chiesto anche da Italia Viva.

A controbattere è stato il presidente dei senatori del Carroccio Massimiliano Romeo, che ha accusato i rappresentanti del Partito democratico di aver fin troppo forzato la mano, spingendo per portare il testo in Aula. Il leghista ha inoltre espresso la propria intenzione di chiedere il riscorso al voto segreto, cosa che ha letteralmente terrorizzato i dem, prontissimi a dare battaglia. "La 'tagliola' resta, certo che resta, e poi ci sarà la richiesta del voto segreto", ha promesso Romeo. "La Lega aveva dato disponibilità a cercare una mediazione sul testo del provvedimento, ma ci hanno detto di no". Ed in casa Pd hanno cominciato ad innervosirsi.

Lo scontro domani in Aula

Tutto è rimandato a domani quando si tornerà nuovamente a discutere dell'argomento. Per il ddl Zan sarà una giornata decisiva. I favorevoli al disegno di legge temono moltissimo la 'tagliola', della quale farà parte anche Forza Italia. Il voto segreto, inoltre, potrebbe davvero mettere la parola fine ad uno dei sogni dem.

La tensione, come dimostrato anche da alcune dichiarazioni dei politici, è altissima. "Il segretario del Pd Letta ha garantito a tutti che domani ci sono i voti. Speriamo bene", dicono alcune fonti di Italia Viva, come riportato da LaPresse.

"È da irresponsabili aver deciso di andare subito in aula senza trovare prima un accord , occorreva fare un rinvio di una settimana per entrare nel merito del provvedimento cercando un'intesa, come aveva chiesto Iv, cercando quelle modifiche auspicate anche da Letta", ha protestato il presidente dei senatori di Italia viva Davide Faraone. "Senza questa intesa si rischia il naufragio in Aula".

"Provare a rinviare il voto di domani sul ddl Zan sarebbe stato il modo doveroso di mettere al riparo una legge indispensabile" ha commentato su Twitter anche un preoccupato Ivan Scalfarotto. "Chi ha cercato il muro contro muro anche a costo di far naufragare la legge si assumerà una terribile responsabilità".

Intanto il Movimento Arcobaleno si appella ai politici, chiedendo di votare a scrutinio palese e di non sottrarsi alle proprie responsabilità.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi 

Retromarcia di Letta sul ddl Zan. Ed è bufera Lgbt. Luca Sablone il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il segretario del Partito democratico apre a modifiche, ma Arcigay è sul piede di guerra: "Letta deve chiarire, così i tempi slittano ancora". Ecco cosa può succedere al Senato. Sul tema del ddl Zan arriva un cambio di passo rispetto ai toni duri usati fino a pochi mesi fa. Se in estate il dialogo per alcuni miglioramenti sembrava impossibile, ieri si è registrata un'apertura non scontata da parte di Enrico Letta: il segretario del Partito democratico ha fatto sapere che a breve chiederà ad Alessandro Zan, il padre della legge contro l'omotransfobia, di fare un'esplorazione con le altre forze politiche "per cercare di capire le condizioni che possano portare a un'approvazione rapida del testo". Dunque il numero uno del Pd non ha chiuso a possibili modifiche. Anzi, si è detto pronto a valutare eventuali correzioni mantendendo però i pilastri fondamentali del ddl.

L'ira di Arcigay

Tuttavia le dichiarazioni di Letta trovano un muro proprio dal mondo Lgbt. Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay, fa notare che - anche con una sola modifica - il testo dovrebbe tornare alla Camera con tutte le incertezze dal caso. Da qui il timore di far slittare ulteriormente i tempi per l'approvazione del ddl Zan. La linea di Arcigay è chiara: il disegno di legge contro l'omotransfobia va approvato così com'è, senza altre mediazioni e rinvii.

Piazzoni è convinto che nessuno, e quindi neanche il segretario del Partito democratico, sarebbe in grado di garantire la conclusione dell'iter entro la fine della legislatura. Ma c'è anche un'altra questione su cui si vuole far luce. "Viene poi da chiedere: quali sono le forze politiche con cui il deputato Zan viene mandato a trattare? Letta ha per caso intenzione di far scrivere a Salvini la legge contro i crimini d'odio?", si chiede il segretario nazionale di Arcigay. Da qui la richiesta a Letta di "chiarire" il prima possibile la sua posizione.

Esultano centrodestra e renziani

Dall'altra parte invece l'apertura di Letta trova gli applausi del centrodestra. A parlare per conto di Forza Italia è il senatore Maurizio Gasparri, che vuole eliminare ogni muro contro muro dal campo: i motivi delle opposizioni al ddl Zan non vanno trovati nell'impianto teorico del testo per combattere le discriminazioni, ma riguardano alcune norme "che prevedono l'indottrinamento scolastico, la persecuzione delle opinioni e una rivoluzione antropologica con l'autodichiarazione di appartenenza di genere che causerebbe un caos totale".

Esulta anche la Lega di Matteo Salvini. Il senatore Simone Pillon sottolinea che "ora anche Letta prende atto che il ddl Zan è impresentabile" dopo aver ricevuto critiche pure dal mondo Lgbt, dal mondo femminista e dal Vaticano: "Meglio tardi che mai". La linea dell'apertura al dialogo è la stessa proposta da Italia Viva. Ecco perché Matteo Renzi gioisce e apprezza la svolta di Letta: "Se vogliamo che la legge passi, vanno cambiati i passaggi più delicati". I parlamentari del Movimento 5 Stelle mettono invece in guardia: "Nessuna mediazione al ribasso".

La partita in Senato

Come andrà a finire la partita del ddl Zan? Le risposte sono ovviamente ancora ignote. Sta di fatto che quelle in corso sono ore decisive: nel palazzo, in particolare al Senato, sono partite le trattative febbrili. Il disegno di legge contro l'omotransfobia dovrà affrontare il primo vero scoglio mercoledì a palazzo Madama: l'Aula dovrà esprimersi sulle due richieste di Lega e Fratelli d'Italia di non affrontare l'esame degli articoli.

Un voto segreto, un passaggio fondamentale per il provvedimento. Si tratta di un voto "in o out" che potrebbe provocare molteplici effetti. Potrebbe sbarrare le porte dell'Aula e dunque portare il ddl Zan su un binario morto oppure potrebbe metterlo sul treno che porta all'approvazione. Il tutto è legato all'appello di mercoledì.

Intanto Alessandro Zan ha riconosciuto che "la partita è complicata", ma si è detto fiducioso "che alla fine si troverà un punto di incontro". La mossa di Lega e Fratelli d'Italia viene vista come un tentativo di "affossare la legge" e dunque è stata giurata battaglia in Aula "perché non accada". Domani Zan inizierà ad ascoltare i capigruppo dei vari partiti, ma ha già messo le mani avanti: "Cercherò di capire quali sono le richieste dei singoli gruppi e se si può arrivare ad una mediazione, che non sia però al ribasso".

Zan contro Salvini e Meloni per non attaccare Letta. Luca Sablone il 26 Ottobre 2021 su Il Giornale. Alessandro Zan se la prende con Salvini e Meloni, ma scorda che l'apertura alle modifiche del ddl è arrivata proprio da Letta. Il cortocircuito della sinistra. La sinistra italiana riesce a incartarsi anche sul ddl Zan, ritenuto il principale cavallo di battaglia per combattere l'omotransfobia. Per il fronte rosso però c'è un problema: a sollevare critiche e perplessità non è stato soltanto il centrodestra, ma addirittura il mondo Lgbt, la galassia femminista e il Vaticano. Una serie di mugugni che hanno spinto Enrico Letta ad aprire a possibili modifiche rispetto al testo originale. Proprio su questo fronte emergono tutte le contraddizioni che palesano uno stato confusionario con cui il ddl rischia di finire su un binario morto.

Zan all'attacco, ma Letta...

Non possono ovviamente mancare attacchi frontali verso il centrodestra, che da sempre non ha nascosto punti interrogativi sul disegno di legge. Oggi Alessandro Zan inizierà ad ascoltare i capigruppo dei vari partiti per provare a trovare un punto di comune accordo, ma ha già avvertito gli avversari: "Nessuna mediazione al ribasso. Non va stravolta la legge". E se da una parte c'è l'apertura a rivalutare l'educazione nelle scuole, dall'altra c'è un netto "no" alla possibilità di rinunciare all'identità di genere. Una posizione che difficilmente otterrà il parere favorevole del centrodestra.

Il primo ostacolo dovrà essere superato al Senato mercoledì, quando l'Aula sarà chiamata a esprimersi sulle due richieste di Lega e Fratelli d'Italia di non affrontare l'esame degli articoli. Una mossa che secondo Zan nasconde il tentativo di "ammazzare la legge". Ecco perché il deputato del Pd se l'è presa con Matteo Salvini e Giorgia Meloni, accusati di non voler "discutere della legge ma di affossarla".

Il cortocircuito della sinistra

Evidentemente Zan ha già scordato che ad aprire al dialogo a eventuali miglioramenti è stato proprio il segretario del suo partito, Enrico Letta. Il numero uno del Partito democratico nelle scorse ore aveva anticipato l'intenzione di fare una sorta di esplorazione con le altre forze politiche "per cercare di capire le condizioni che possano portare a un'approvazione rapida del testo". Mettendo così in discussione l'attuale testo.

Le parole di Letta hanno trovato il muro del mondo Lgbt. A esplicitare irritazione e a chiedere chiarezza in tempi brevissimi è stato Gabriele Piazzoni: il segretario generale di Arcigay ha fatto notare che anche una sola modifica potrebbe far tornare il testo alla Camera con tutte le incertezze dal caso. Di conseguenza i termini potrebbero slittare ulteriormente. Ecco perché c'è chi guarda con sospetto alla mossa di Letta.

Mentre Zan preferisce prendersela con Salvini e Meloni (che lecitamente fanno il lavoro di opposizione rispetto a un ddl che non condividono), Arcigay punta il dito contro il segretario del Partito democratico. "Viene poi da chiedere: quali sono le forze politiche con cui il deputato Zan viene mandato a trattare? Letta ha per caso intenzione di far scrivere a Salvini la legge contro i crimini d'odio?", si è chiesto Piazzoni. Una rappresentazione plastica del cortocircuito della sinistra italiana.

Cosa succede in Senato

In queste ore caldissime, con tanto di trattative febbrili, si sta provando a raggiungere un compromesso per poter contare su una maggioranza ampia. Ma la partita è difficile: non sarà una passeggiata coniugare i pilastri radicali del ddl con le richieste di modifiche del centrodestra. Mercoledì il Senato voterà sulla proposta di non procedere all'esame degli articoli: un possibile voto segreto dagli esiti imprevedibili. Le strade sono due: portare il ddl Zan verso la morte o metterlo sul treno che porta all'approvazione.

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri.

(ANSA il 27 ottobre 2021) - La cosiddetta "tagliola" - che è stata applicata al disegno di legge Zan al Senato e richiesta da Lega e Fratelli d'Italia - è una procedura parlamentare che può condizionare di fatto la sorte di un provvedimento. E' prevista dall'articolo 96 del regolamento del Senato: "Prima che abbia inizio l'esame degli articoli di un disegno di legge, un senatore per ciascun gruppo può avanzare la proposta che non si passi a tale esame", recita l'articolo. In sostanza, prevede che, conclusa la discussione di un provvedimento, non si proceda all'esame degli articoli e al voto degli emendamenti, come da prassi. Se la "tagliola" viene approvata, il disegno di legge si arena perché a quel punto, fermandosi l'iter parlamentare, quella votazione corrisponde a una bocciatura del provvedimento. Di conseguenza si deve ricominciare da zero ma bisogna aspettare almeno 6 mesi, per una proposta di legge che, una volta depositata, deve essere calendarizzata da uno dei due rami del Parlamento per la discussione. Nel caso del ddl Zan, Lega e FdI hanno anche chiesto che la votazione del non passaggio agli articoli venisse fatta a scrutinio segreto. Quest'ultima è una possibilità prevista dall'articolo 113 del regolamento di Palazzo Madama e che deve essere presentata da 20 senatori. La presidenza può accettare la richiesta, come è avvenuto oggi in Aula da parte della presidente Casellati.

Si utilizza per contingentare i tempi di intervento. Che cos’è la tagliola che ha fatto saltare il ddl Zan e come funziona. Redazione su Il Riformista il 27 Ottobre 2021. La tagliola si è abbattuta sul disegno di legge contro l’omotransfobia che tornerà così in Commissione Giustizia da dove probabilmente non riemergerà più. Ma in che cosa consiste il meccanismo della “tagliola”? Per capire come funziona occorre far riferimento all’articolo 96 del Regolamento del Senato, in base al quale “prima che abbia inizio l’esame degli articoli di un disegno di legge, un senatore per ciascun Gruppo può avanzare la proposta che non si passi a tale esame”. In sostanza si utilizza per contingentare i tempi di intervento. Ogni gruppo ha un certo numero di ore di parole in aula, al termine delle quali si può solo votare. Nel caso del ddl Zan la richiesta è stata presentata da Fratelli d’Italia e Lega. In sostanza la tagliola prevede che, conclusa la discussione di un provvedimento, non si proceda all’esame degli articoli e al voto degli emendamenti, come di consueto. Una volta approvata, il disegno di legge si arena perché a quel punto, fermandosi l’iter parlamentare, quella votazione equivale a una bocciatura del provvedimento. Nel caso del ddl Zan è stata richiesta una “tagliola” a scrutinio segreto. Qui sta alla presidenza la decisione, come è avvenuto oggi con Maria Elisabetta Alberti Casellati. Ora è caccia ai cosiddetti franchi tiratori ma intanto il ddl Zan viene messo nel cassetto.

Ddl Zan, al Senato è effetto “tagliola”: chi erano gli assenti. Alessandro Artuso il 27/10/2021 su Notizie.it. Grande tensione all’interno del Senato per il voto sul Ddl Zan: quali partiti hanno fatto registrare il maggior numero di presenze. Il Ddl Zan trova diversi ostacoli in Senato e scatta il caos. Le percentuali di presenza sono state comunque molto alte: Fratelli d’Italia al gran completo. Al Senato sono stati 154 i voti favorevoli, 131 i contrari e due gli astenuti. Il risultato della cosiddetta “tagliola” ha dato il via alla caccia a chi ha boicottato il Ddl Zan a palazzo Madama. Hanno partecipato alla votazione 287 senatori, erano presenti in Aula in 288 su 320 (escluso il presidente Casellati che non vota ndr). Come dato aggiuntivo il tabellone di palazzo Madama ha decretato che, al voto, erano presenti 288 senatori e che i votanti sono stati 287. Fatti i calcoli su 320 senatori (315 più i senatori a vita ed esclusa la presidente Casellati ndr), gli assenti sono stati 31. Come riportato da palazzo Madama il centrodestra aveva 135 senatori più sette di Idea-Cambiamo che aderisce al Misto. Nel centrosinistra hanno partecipato alla votazione 136 senatori. Secondo il tabellone riportato sul sito di palazzo Madama sono state registrate defezioni nel Gruppo Misto. Era presente in Aula soltanto il 33% dei 49 partecipanti del Misto. Dei 49 del Misto erano presenti in 33 (dieci assenti e 6 in missione) con il 67,35% di partecipanti al voto. Assenti 4 esponenti di Italia Viva, presente il 94,59% dei senatori dei 5 Stelle, 96,88% della Lega, 94,74% del Pd e 94% di Forza Italia. Percentuale dell’87% per le Autonomie.

(ANSA il 27 ottobre 2021) - "Per mesi ho chiesto di trovare un accordo per evitare di far fallire il ddl Zan. Hanno voluto lo scontro e queste sono le conseguenze. Chi polemizza sulle assenze dovrebbe fare i conti con i 40 franchi tiratori. La responsabilità di oggi è chiara: e dire che per Pd e Cinque Stelle stavolta era facile, più facile dei tempi di 'O Conte o morte'. Non importava conoscere la politica, bastava conoscere l'aritmetica". Così il leader di Italia viva, Matteo Renzi ai suoi parlamentari.

Simonetta Dezi per ANSA il 27 ottobre 2021. Il Senato archivia definitivamente il ddl Zan. Affossato, ad un anno dall'approvazione della Camera, dalla 'tagliola' chiesta da Lega e Fratelli d'Italia. 154 voti favorevoli, 131 contrari, e due astenuti hanno messo fine a un percorso ad ostacoli fatto di ostruzionismo, rinvii, incontri, scontri, tentativi di mediazione tra favorevoli e contrari che ha tenuto banco a palazzo Madama dalla primavera all'autunno. La votazione, avvenuta a scrutinio segreto, è accolta da un lungo applauso del centrodestra trionfante che si dice pronto a "ripartire da zero". Il disegno di legge, che reca misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per sesso, genere o disabilità, non potrà più essere riproposto e un nuovo ddl con un tema analogo dovrà aspettare sei mesi per essere trattato in Senato. Queste sono le regole. Le stesse che hanno portato il presidente Elisabetta Casellati a dare il via libera al voto segreto. "La mia decisione, per quanto legittimo contestare, perché si tratta di interpretazione, ha delle solide fondamenta di carattere giuridico", chiarisce Casellati e mette un punto alle accese contestazioni che si levano dall'area Pd e M5s. Sono 288 i senatori presenti in Aula per il voto e 287 i votanti e sono 23 i voti di scarto che decretano la sconfitta di Pd, M5s e Leu. Eppure in casa dem fino a ieri si contava su almeno su 140 voti a favore, "ne mancano all'appello almeno 16", spiegano fonti Pd al Senato. I parlamentari democratici puntano l'indice su Italia viva anche se qualcuno non esclude sabotatori interni di area riformista. Lo stesso Goffredo Bettini della direzione del partito è convinto che siano state le "giravolte di sovranisti e riformisti ad affossarlo". Ma la risposta arriva da Matteo Renzi che parla di ben 40 franchi tiratori e invita a non pensare alle assenze. "La responsabilità di oggi è chiara - dice il leader di Iv - Non importava conoscere la politica, bastava conoscere l'aritmetica". I renziani, che ora accusano Pd, M5s e Leu, alla Camera avevano votato compatti in favore del ddl Zan, poi in Senato si sono presi il ruolo di mediatori tra le due fazioni, puntando a una rivisitazione del testo e proponendo come testo base il ddl Scalfarotto. Sempre tabulati alla mano gli assenti nel centrosinistra sono almeno 10, mentre nel centrodestra solo 5. Gli assenti di Italia viva 4, uno di questi Matteo Renzi. Tutti presenti i senatori di Fratelli d'Italia. "Meglio lo stop di una porcata", chiosa il Leghista Roberto Calderoli gongolando per la vittoria di cui si intesta la paternità per aver puntato sulla 'tagliola'. "Sconfitta l'arroganza di Letta e dei 5Stelle", esulta il leader leghista Matteo Salvini, mentre Enrico Letta scandisce "hanno fermato il futuro e riportato l'Italia indietro con i loro inguacchi".  "Chi oggi gioisce per questo sabotaggio dovrebbe rendere conto al Paese" sono le parole del presidente M5s Giuseppe Conte, mentre per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ritiene "vergognoso" che il ddl Zan sia stato "spazzato via, nel segreto dell'urna". Secondo la leader di FdI Giorgia Meloni " i primi ad aver affossato la legge sono i suoi stessi firmatari, Zan in testa" e definisce "patetiche le accuse di Letta, Conte e della sinistra". La capogruppo di Fi in Senato, Anna Maria Bernini, accusa la Sinistra di voler solo "prevaricare" senza un reale interesse per una trattativa. Nel pomeriggio volano gli stracci anche tra gli alleati: Il "M5s si è fidato dell'esperienza del Pd, questo è il risultato", commenta Alessandra Maiorino (M5s). Tutti contro tutti. Ma Loredana De Petris navigata senatrice di Leu le definisce "Prove generali per il Quirinale", lasciando intendere, ai giornalisti davanti alla buvette, che il problema dei franchi tiratori si ripresenterà molto presto.

Alessandra Arachi, Carlotta De Leo per corriere.it il 27 ottobre 2021. Il ddl Zan cade alla prova dell’Aula. Ha funzionato la «tagliola» con voto segreto richiesta da Lega e FdI. Il Senato l’ha approvata e così il testo della legge - che prevede le misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per sesso, genere o disabilità - tornerà in commissione non prima di sei mesi.

Casellati dice sì alla tagliola

La presidente del Senato, Elisabetta Casellati ha dato il via libera alle due richieste di non passaggio all’esame degli articoli del ddl Zan (la cosiddetta «tagliola») e, ha definito «ammissibile» in base ai regolamenti e ai precedenti il voto segreto chiesto dai senatori Calderoli (Lega) e La Russa (FdI). La scelta di Casellati è stata contestata in Aula da Pd, M5S e Leu. «La mia decisione ha solide fondamenta di carattere giuridico» ribatte la presidente del Senato. 

Calderoli: «Non è una bocciatura»

Lega e Fratelli d’Italia hanno infatti chiesto di andare direttamente al voto finale evitando l’esame degli emendamenti e vogliono il voto segreto. «Piuttosto di fare una porcata, e io me ne intendo, preferisco fermarci qui» ha detto il senatore leghista Roberto Calderoli, illustrando la proposta di passare alla «tagliola». «Mi appello a tutti - ha aggiunto - perché ciascuno possa esprimersi liberamente nel segreto dell’urna. Fermiamoci oggi. Non è una bocciatura di una legge, si può ripartire immediatamente ad esaminare un testo vero, meglio uno stop oggi che un ahimé domani». . A favore della «tagliola», nella maggioranza anche Forza Italia.

Zan: la lega vuole solo affossare la legge

«La Lega ha chiesto il voto della tagliola, questo dimostra che vuole affossare la legge. Il rinvio è un bluff. Quelli della Lega non hanno detto ‘ritiriamo la tagliola per cercare una mediazione’, hanno detto ’rinviamo il voto della tagliola’. Ma votarla oggi o tra una settimana non cambia» ha detto Alessandro Zan deputato del Pd e primo firmatario della legge a L’aria che tira. Zan aveva chiesto a Casellati di non concedere il voto segreto che «avrebbe potuto uccidere la legge», supportato dalle associazioni per i diritti dei gay, primo tra tutti il Movimento arcobaleno. «Faccio un accorato appello a Italia viva perché anche con il voto segreto votino per respingere questa tagliola» aggiunge Zan. Il leader di Iv, Matteo Renzi, non è in Aula. L’esame del provvedimento - già approvato dalla Camera nel novembre scorso - era stato interrotto il 20 luglio per la pausa estiva. Ma senza un accordo nella maggioranza il testo rischia di finire su un binario morto.

Da music.fanpage.it il 27 ottobre 2021. Non poteva mancare la posizione di Fedez contro la Politica che ha affossato il DDL Zan al Senato, dopo mesi e mesi di discussioni e tentativi di trovare un accordo per farlo passare. Oggi il DDL è stato definitivamente affossato, per come lo conosciamo, approvando con voto segreto la tagliola su disegno di legge su proposta di Lega e Fratelli d'Italia e evitando che si arrivasse alla discussione degli articoli. Una scelta che ha fatto infuriare il cantante che nei mesi scorsi si era speso, mettendoci spesso la faccia e anche le forze social, per sensibilizzare sull'argomento. "Bravi tutti, mi piace ricordarvi così, discussione in Senato in cui avete dato spettacolo – scrive nelle storie Fedez -. Un saluto al caro Renzi che ci ha trapanato i coglioni per mesi e oggi pare fosse in Arabia Saudita (Paese in cui l'omosessualità è accettata con un piccolo prezzo da pagare… la pena di morte). Ancora tante grazie". Alla storia si associa anche un tweet, sempre contro il leader di Italia Viva, che nei mesi scorsi si era raffreddato rispetto alò DDL Zan: "Ma il Renzi che si proclamava paladino dei diritti civili è lo stesso che oggi pare sia volato in Arabia Saudita mentre si affossava il DDL Zan? Per celebrare la libertà di parola organizziamo una partitella a scarabeo con Kim Jong-un? Gran tempismo". Oltre alla notizia dell'affossamento del DDL, il rapper ha condiviso un vecchio intervento della Senatrice della Lega Raffaella Fiormaria Marin che metteva in dubbio la sostanza contro cui si scagliava il disegno di legge, ovvero che esistesse una violenza dettata proprio dall'orientamento sessuale delle persone: "Ma l'alibi si regge sul fatto che le persone non etero subiscano maggiormente violenze rispetto alle persone etero. Chi l'ha detto? Dove sta scritto? Siamo sicuri che gran parte di questi atti violenti siano esclusivamente messi in atto per ragioni di orientamento sessuale?". 

Da rollingstone.it il 29 ottobre 2021. Ieri sera, in diretta dal Teatro Repower di Milano, sono iniziati i live di X Factor 2021, la fase finale e più attesa del talent. Prima di dare spazio ai cantanti in gara, i giudici della trasmissione – in particolare Emma Marrone e Mika – hanno sfruttato l’inizio della puntata per parlare dell’affossamento del ddl Zan (ne abbiamo parlato qui) e delle reazioni della destra al voto in Senato. «Mi dispiace di non poter festeggiare questa sera un passo avanti che aspettavamo e che riguarda tutti noi perché riguarda i diritti di tante persone», ha detto Emma. «Le immagini che abbiamo visto ieri in Senato, quando è stato definitivamente bloccato il percorso del ddl Zan, sono state imbarazzanti e rimarrà una brutta pagina della nostra storia. Dicendo questo, credo di poter parlare anche a nome dei miei colleghi al tavolo, in un programma che si è sempre impegnato e battuto contro ogni forma di discriminazione». Per Mika, invece, le immagini del Senato non rappresentano «l’Italia che amo e che mi ha accolto e difeso in questi anni. Ma là fuori c’è ancora l’Italia capace di amare e accogliere e nella quale voglio continuare a credere». I giudici di X Factor non sono gli unici musicisti ad aver commentato duramente l’affossamento del disegno di legge. Prima di loro è intervenuto Fedez – «Avete dato spettacolo», ha detto –, oltre a Gaia (che ha condiviso sulle storie Instagram le immagini della manifestazione di ieri a Milano), Alessandra Amoroso, Michele Bravi e altri. Ne hanno parlato anche alcuni artisti internazionali, come Daryl Hannah («Vergogna», ha scritto su Twitter) e Jennifer Beals, che ha commentato le immagini del Senato in italiano: «Schifoso». 

Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” l'8 novembre 2021. D'un tratto, in diretta tv, la voce di Vincenzo Spadafora s' incrina: «Perché ho deciso di rivelare che sono omosessuale? Io l'ho fatto anche per me stesso. Perché, anche se l'ho imparato troppo tardi, è importante volersi bene e innanzitutto rispettarsi». L'ex ministro dello Sport, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa , si commuove. Poi, sostenuto anche da un applauso in studio, prende fiato e inizia a raccontare di quanto anche il suo impegno politico sia stato bersagliato da un «chiacchiericcio» improntato all'omofobia. Il deputato del M5S nel suo libro Senza riserve (Solferino) ne parla appunto a ruota libera. «Penso che la vita privata delle persone debba rimanere tale - riprende Spadafora - e se noi fossimo un Paese culturalmente più avanzato, soprattutto sul tema dei diritti, forse anche i dibattiti di queste settimane non li avremmo neanche affrontati. Penso però anche che chi ha un ruolo pubblico, politico come il mio, in questo momento storico, abbia quale responsabilità in più». Il coming out prosegue poi così: «Oltre a quella privata, c'è anche un'altra motivazione in questa mia scelta, quella politica: è appunto un modo per testimoniare il mio impegno politico. Per tutti quelli che ogni giorno - rivendica - combattono per i propri diritti e hanno meno possibilità di farlo rispetto a quante ne abbia io grazie al mio lavoro». Spadafora tiene a marcare anche la propria fede cattolica come fattore «non in contraddizione» e chiude con un'altra riflessione privata: «Il tema dell'omosessualità, in politica, purtroppo viene ancora utilizzato per ferire l'avversario, per quel brusio di fondo a volte molto squallido e che ho subito anche io. Io questa sera volevo spegnere questo brusio - sottolinea in tv - sapendo che resto l'uomo che sono, con tutto il percorso, anche complicato, personale, che ognuno di noi fa nella sua vita, per qualunque motivo. E di cui dobbiamo avere molto rispetto». E infine: «Spero di essere considerato da domani per quello che faccio, per come lo faccio, lo stesso uomo di sempre. Forse da domani - dice con il volto decisamente più disteso rispetto all'inizio dell'intervista - sarò solo un po' più felice. Perché sarò anche più libero». Il parlamentare M5S, che in passato aveva guidato anche la segreteria del ministero dei Beni culturali con Francesco Rutelli e aveva presieduto l'Unicef, chiuso il capitolo personale passa a quello prettamente politico e lancia un altolà. Dice che nel M5S il rischio di scissione «c'è e io lavoro affinché ciò non avvenga». E per evitarlo invita Conte a «non interpretare la sua leadership in modo solitario: coinvolga tutti». Sul nodo Quirinale, Spadafora spera inoltre che «Conte voglia convocare i gruppi: penso che siano finiti i tempi in cui queste cose si decidevano altrove, ora si decidono insieme. Dal M5S può uscire la linea politica che chiede a Draghi di restare a fare il presidente del Consiglio», per «il bene del Paese». Ma l'ex premier «non lo ha ancora esplicitato».

Il coming out dell'ex ministro Spadafora: "Sono omosessuale". Francesca Galici il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Da Fabio Fazio, Vincenzo Spadafora ha fatto coming out rivelando la propria omosessualità, argomento di cui parla anche nel suo libro. Ospite in tv di Fabio Fazio, l'ex ministro Vincenzo Spadafora ha fatto coming out: "Penso che la vita privata delle persone debba rimanere tale e se noi fossimo un Paese culturalmente più avanzato, soprattutto sul tema dei diritti, forse anche i dibattiti di queste settimane non li avremmo neanche affrontati. Penso però anche che chi ha un ruolo pubblico, politico come il mio, in questo momento storico, abbia quale responsabilità in più". L'occasione è il libro dal titolo Senza riserve che l'ex ministro ha in uscita il prossimo 11 novembre, dove parla in maniera articolata di questo tema, così caldo in Italia: "Io l'ho fatto, devo dire, anche per me stesso, perchè ho imparato, forse molto tardi, che è molto importante volersi bene e innanzitutto rispettarsi. Poi ci sono due motivazioni", ha detto Spadafora mostrando una certa commozione davanti alle telecamere di Che tempo che fa. "Una motivazione è molto politica, questo è un modo per me anche per testimoniare il mio impegno politico. Per tutti quelli che ogni giorno combattono per i propri diritti e hanno meno possibilità di farlo rispetto a quante ne abbia io grazie al mio lavoro", ha sottolineato. Un coming out arrivato a pochi giorni dalla bocciatura del ddl Zan in Senato, anche e soprattutto a causa dei franchi tiratori che l'hanno affossato. Spadafora ci ha tenuto a marcare anche la propria fede cattolica, che dal suo punto di vista non è un fattore "in contraddizione" con l'orientamento sessuale. Quindi, ha aggiunto: "Questo tema in politica purtroppo viene ancora utilizzato per ferire l'avversario, per quel brusio di fondo a volte molto squallido e che ho subito anche io". Quindi, ha concluso: "Io questa sera volevo spegnere questo brusio - sottolinea - sapendo che resto l'uomo che sono, con tutto il percorso, anche complicato, personale, che ognuno di noi fa nella sua vita, per qualunque motivo. E di cui dobbiamo avere molto rispetto". "Spero di essere considerato da domani per quello che faccio, per come lo faccio, lo stesso uomo di sempre. Forse da domani sarò un po' più felice. Perché sarò anche più libero". Questo sarebbe il secondo coming out in Rai in pochi giorni. Il primo dovrebbe essere stato quello del giornalista e conduttore Alberto Matano, che davanti alle telecamere de La vita in diretta ha fatto un veloce passaggio senza mai scendere troppo nel dettaglio. Una confessione smorzata, in cui ha rivelato di aver ricevuto insulti omofobi nel giorno della bocciatura del ddl Zan. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Da striscialanotizia.mediaset.it il 9 novembre 2021. Pinuccio approfondisce il coming out di uno dei "Re della Rai" (nonché"ex ministro per le Politiche Giovanili e lo Sport)"Vincenzo Spadafora. Domenica sera "in diretta da Fabio Fazio" l'esponente pentastellato ha rivelato di essere gay, e allora - chiede Pinuccio - adesso non potrebbe fare coming out anche su quante persone ha piazzato in Rai?

Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 10 novembre 2021. «Nella vita ho amato più uomini che donne», racconta Vincenzo Spadafora fin dalle prime pagine della sua autobiografia. L'ex ministro dello Sport, già sottosegretario ai Giovani e alle Pari Opportunità, ora deputato semplice di un Movimento 5 stelle in subbuglio, parte dalla sua omosessualità solo accennandola. E ci torna alla fine, quando - come ha fatto a Che tempo che fa - spiega che «la vita privata è un elemento che difficilmente un politico può tenere solo per sé». Parlarne per sentirsi liberi, quindi. Per far smettere il brusio di fondo di chi alle spalle racconta. Per «incoraggiare altri a non sentirsi soli e a non avere paura». Ma le pagine di libri come questo Senza riserve. In politica e nella vita, in uscita domani per Solferino, vanno lette in filigrana per coglierne il senso reale. E sfrondate dalle notazioni personali e dalle aspirazioni di un uomo che ha realizzato il suo sogno di bambino, diventare un politico (l'alternativa era il presentatore tv e qualsiasi riferimento a Matteo Renzi è puramente casuale), queste pagine raccontano del sodalizio con Luigi Di Maio. Delle battaglie combattute come di quelle in corso. Così, Spadafora non risparmia critiche alla gestione del Movimento da parte di Giuseppe Conte. Avvertendo: «Se si chiude, è perduto». Se qualsiasi voce critica continuerà a essere vissuta come un fastidio, una scissione sarà inevitabile. Sa bene che i 5 stelle arrivano da tempi in cui le voci critiche, più che mal tollerate, erano cacciate al primo mugugno. Lo sa e non nasconde di essere stato, al principio, un marziano. Come quando disse a Di Maio: «Se riusciamo a sopravvivere al confronto con l'establishment sarà già un ottimo risultato» e lui lo avvisò: «Vincenzo, ti prego, non usare mai quella parola». O quando dice di aver capito prima degli altri che uscire su un balcone a dire: «Abbiamo abolito la povertà», con tanto di militanti chiamati a portare le bandiere, sarebbe stato un boomerang. Come fu. E così Senza riserve sembra fare da complemento a Un amore chiamato politica. Laddove Di Maio tace, il suo (ex?) consigliere più fidato rivela. Rapidamente, quando si tratta di momenti scomodi («L'ansia di prestazione e la volontà di non rinnegare il passato movimentista portarono Luigi a un gesto sconsiderato: andare a incontrare i Gilet gialli»). Più approfonditamente, quando vuole tirare stoccate agli avversari interni. Almeno due sono rivolte a Roberto Fico: quando il Movimento trattava per la sua elezione alla presidenza della Camera e lui - il primo dei duri e puri - confermò che non bisognava andare per il sottile pur di arrivarci. O quando, mentre gli altri puntavano ancora a un Conte ter, diede a Draghi il numero di telefono di Grillo: «Una mossa non concordata con nessuno aveva messo tutti di fronte al fatto compiuto». Gli aneddoti sono molti: quando Conte era a Gaeta e non voleva andare a Milano per incontrare Di Maio e Salvini, che dovevano fargli quella sorta di "provino" con cui fu scelto per guidare il governo giallo-verde (fu Spadafora a comprargli il biglietto). Quando Giorgetti si alzava per telefonare e andare in bagno e Salvini, che ne soffriva l'autorevolezza, si affrettava a dire: «Le conclusioni si tirano con me». O ancora Giorgetti, che davanti alla rosa del Movimento dice: «Il prefetto no, la donna no, se volete incontriamo questo avvocato». E poi - nella pazza estate del 2019 - smette di rispondere al telefono e ai messaggi: il segnale che quel governo stava per finire. Sulla fine del Conte due, invece, Spadafora esplicita quel che Di Maio aveva accennato: l'operazione dei responsabili ribattezzati "costruttori" fu una follia. Così come fu sbagliato non aprire un tavolo con Renzi su rimpasto e riforma della giustizia. Ma è il giudizio sull'oggi, il più severo. Quello sulla politica dei selfie e dei like che non diventano voti (ma non valeva anche prima?). E su un Movimento che starebbe rimettendo un uomo solo al comando, ripetendo l'errore di sempre.

Striscia la Notizia demolisce Vincenzo Spadafora: "Su cosa deve fare coming-out", bomba sulla Rai. Libero Quotidiano il 09 novembre 2021. Tiene ancora banco il coming-out di Vincenzo Spadafora, l'ex ministro dello Sport grillino che, domenica sera a Che tempo che fa di Fabio Fazio su Rai 3, ha rivelato la sua omosessualità, per quanto fosse di fatto nota da tempo (ma mai confermata in modo ufficiale dal diretto interessato). Il coming-out di Spadafora ha fatto rumore per una serie di differenti ragioni. La prima, ovviamente, il semplice fatto di parlarne, perché non è mai così semplice così come può sembrare. Dunque per le critiche, per le polemiche e i sospetti. Ad aprire le danze era stato Dagospia, che ha un poco maramaldeggiato sul tempismo, sulla coincidenza con il fatto che nei giorni scorsi anche Alberto Matano abbia rivelato la propria omosessaulità. Dunque la stilettata da Maria Giovanna Maglie, che in un tweet si è spesa in tre considerazioni piuttosto velenose: "Vincenzo Spadafora, ex ministro e deputato 5s fa coming out da Fazio. Urgono considerazioni :

1) deve vendere il libro in cui lo ha scritto già, 2) lo sapeva chiunque soprattutto in RAI, 3) infine, e semplicemente, chi se ne frega". Quindi, ancora Dagospia, che in serata ha insistito su una frase di Spadafora: "Il tema dell'omosessualità, in politica, purtroppo viene ancora utilizzato per ferire l'avversario", aveva detto l'ex ministro da Fazio. Frase che secondo Dagospia poteva essere rivolta contro Il Fatto Quotidiano, che a maggio 2018, in un ritrattone di Marco Lillo, silurarono le possibilità di Spadafora di ri-diventare ministro tirando fuori alcune vecchie intercettazioni". Bene, e dopo tutto questo ecco scendere in campo, contro Spadafora, anche Striscia la Notizia. Il tutto nella puntata in onda su Canale 5 nella serata di lunedì 8 novembre. Ad occuparsi del coming-out, ovviamente, l'inviato "specializzato" in Rai e dintorni, ovvero Pinuccio, che si pone una semplice e fragorosa domanda: "Adesso Spadafora non potrebbe fare coming-out anche su quante persone ha piazzato in Rai?", conclude Pinuccio. E la bomba di Striscia è servita.

"Anche io vittima...": la confessione di Matano in tv. Novella Toloni il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nell'ultima diretta del suo programma il conduttore ha raccontato il suo dramma privato: "È successo anche a me, l'ho provato sulla mia pelle". L'eco della bocciatura in Senato del ddl Zan è arrivato anche negli studi televisivi e non solo sotto forma di notizia. Nelle scorse ore molti volti noti della televisione, in particolare conduttori, hanno aperto o chiuso i loro programmi riservando commenti e riflessioni personali sulle votazioni svoltesi a palazzo Madama. Anche a La vita diretta, il programma del pomeriggio di Rai Uno, si è discusso a lungo sullo stop al ddl Zan. Ma al di là dei commenti e del dibattito sono state le dichiarazioni fatte in studio dal presentatore e giornalista Alberto Matano, che avrebbe fatto un vero e proprio coming out parlando di vicende del suo passato in cui lui stesso fu vittima di violenza omofoba. La regia era da poco rientrata in studio dopo la messa in onda di un servizio, in cui si raccontavano alcuni episodi di violenza omofoba avvenuti negli ultimi anni in Italia. Storie di pestaggi, abusi e vessazioni subite da giovani, uomini e donne, e ripercorse in una cronistoria intensa. Al termine della clip le telecamere hanno indugiato sul primo piano di Alberto Matano, che si è lasciato andare a un'accorata riflessione personale letta da tutti come un vero e proprio coming out: "Storie come queste mi fanno particolarmente male, perché quando ero adolescente è successo anche a me, l'ho provato sulla mia pelle, quindi so cosa significa. Allora mi auguro che con il contributo di tutti su un tema così importante ci possa essere un supplemento di riflessione. Lo dobbiamo anche a quelle persone che abbiamo appena visto". La riflessione di Alberto Matano ha provocato uno scossone sul web, dove in molti si sono chiesti se dietro alle sue parole ci fosse una dichiarazione sulla propria omosessualità: "Ma quindi indirettamente ha fatto coming out?", "Scusate, ma Alberto Matano ha appena fatto coming out a La vita in diretta?". Il pubblico si è letteralmente diviso in due, scisso tra chi ha trovato "delicato e garbato" il suo modo di esporsi e chi invece ha intravisto una mancata presa di posizione: "Si è come sempre sprecato, la solita ipocrisia di dichiarare che sei gay senza però ammetterlo pubblicamente e apertamente. D'altronde lavora sempre in Rai Matano!". Un anno fa Alberto Matano, però, aveva dichiarato - durante un'intervista al settimanale Chi - di non essere gay e di non amare "etichette e categorie", scegliendo di essere valutato per il suo lavoro da giornalista e non per la sua vita privata, che da sempre tiene al riparo da gossip e rumor. 

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

Ddl Zan, Antonella Clerici in diretta: “Peccato, abbiamo perso un’occasione”. La conduttrice Rai, molto amareggiata, parla del Ddl Zan: "Come italiani abbiamo vinto davvero tutto, siamo al top. Peccato per i diritti civili perché abbiamo perso un'occasione". Il Fatto Quotidiano il 28 ottobre 2021. Durante la puntata di È sempre mezzogiorno andata in onda oggi 28 ottobre, Antonella Clerici ha esordito facendo riferimento all’ok alla tagliola di ieri 27 ottobre che ha di fatto interrotto l’iter del Ddl Zan. Con il sottofondo delle note di Beggin cantata dai Maneskin, la conduttrice ha detto: “Vogliamo parlare dei Maneskin? Il 6 novembre a Las Vegas apriranno il concerto dei Rolling Stones! Un grande fenomeno del momento e sono italiani, questo mi piace moltissimo”. Poi, ripercorrendo gli ultimi successi del nostro Paese (dallo sport al Nobel per la Fisica), è arrivata dritta al punto: “Abbiamo vinto davvero tutto, siamo al top. Peccato per i diritti civili perché abbiamo perso un’occasione“. Infine ha concluso, con tono amareggiato: “Ma questa è un’altra storia”.

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(ANSA il 28 ottobre 2021) - "E' inutile fare i finti paladini dei diritti civili, quando ieri al Senato alcuni partiti politici hanno affossato il ddl Zan. Un provvedimento a favore proprio dei diritti civili, un provvedimento di dignità, spazzato via tra gli applausi umilianti dell'Aula. Il quotidiano britannico The Guardian definisce il voto di ieri 'vergognoso'. Confermo e sottoscrivo. Questa è l'immagine dell'Italia che la politica consegna al mondo". Lo scrive su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

(ANSA il 28 ottobre 2021) - "Nel mio libro parlo del tema dell'omosessualità. Per me è inaccettabile che tutt'oggi questo tema venga usato con un'accezione negativa, dispregiativa, denigratoria. È agghiacciante che una parte della politica, con il coinvolgimento di alcuni media, provi a screditare le persone dando un significato negativo alla parola omosessualità. Non c'è cosa più meschina". Lo scrive il ministro Luigi Di Maio in un post su Facebook sul ddl Zan. "Continuo a leggere commenti sessisti e omofobi, così si alimenta la cultura dell'odio che colpisce e ferisce le persone. Ora, però, bisogna fermarsi un attimo, realizzare che forse è stato superato ogni limite e bisogna mettere un punto a tutto questo. Un punto fermo. L'Italia nel 2021 non può accettare discriminazioni di questo genere", conclude il titolare della Farnesina.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2021. La legge Zan non mi pare abbia un futuro luminoso. Se non sbaglio sarà cassata o fortemente ridimensionata. La botta finale al provvedimento che balla in Parlamento è stata data dalla Chiesa, che ogni tanto invece di occuparsi di immigrati, si impegna in campi ad essa più congeniali. In effetti i Papi, quando la smettono di predicare su temi strettamente politici e affrontano questioni etico-morali, hanno voce in capitolo e si fanno ascoltare. Le pretese di Zan sono assurde e ha fatto bene la Santa Sede a farlo notare. Personalmente non sono credente e non sempre sono del parere dei Pontefici allorché essi esprimono il loro pensiero su vari argomenti, ma nel caso in questione, la sciocchezza di Zan, sono d'accordo con loro nel contestarla. Senza entrare nei dettagli, non volendo tediare i lettori, non capisco perché non si possano considerare diversi gli omosessuali rispetto agli eterosessuali. Difatti è indiscutibile che i sessi siano due: maschile e femminile. E vanno definiti come meritano. Il particolare che esistano parecchi gay non significa che essi vadano disprezzati o addirittura insultati. Ci mancherebbe. Ciascuno ha i propri gusti e nessuno è autorizzato a discutere su quelli che vanno approvati oppure respinti. Ma mettere in dubbio che la natura ha distinto strutturalmente gli uomini dalle donne significa ignorare la realtà. Noi italiani siamo abituati a scherzare: prendiamo in giro i preti, abbiamo un linguaggio disinibito, ridiamo dei politici, i carabinieri sono una fonte inesauribile di barzellette, se però dici una battuta sui pederasti rischi 'emarginazione. Se passasse la scemenza Zan, chi sfotte i gay sarebbe giudiziariamente perseguibile. Siamo al delirio. Ormai la faccenda del politicamente corretto è diventata seria e minaccia di sfociare nella più tetra delle censure. È intollerabile che si faccia la guerra addirittura al dizionario della lingua italiana, che distingue da sempre ciò che è maschile da ciò che è femminile. Se poi un uomo giace con un altro uomo, chissenefrega. Ma vietarci di far notare la differenza è un'autentica idiozia. Va da sé che insultare un omo per i suoi gusti sessuali è ingiusto e punibile, ma questo vale anche per un etero. Non c'è bisogno di una legge per confermare questo sacrosanto principio, che è già chiaro a tutti. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 28 ottobre 2021. Caro Dago, non ricordo più se fosse il 1974 o il 1975, e io avevo da poco cominciato a guadagnarmi il pane battendo ai tasti della macchina da scrivere per la terza pagina del “Paese Sera”, il quotidiano romano che prima della nascita della “Repubblica” era il giornale prediletto della sinistra. Il mio interlocutore diretto era Giulio Goria, un comunista torinese di quando il termine “comunista” svelava davvero un’identità, una storia personale e professionale. Fatto è che fu certamente Goria a dirmi di coprire giornalisticamente un convegno di omosessuali italiani che si sarebbe svolto in due successive giornate in un teatro romano che di solito ospitava spettacoli di avanguardia. Non lo ricordo con esattezza, ma mi sembra che ad organizzare quelle due giornate fosse stato il “Fuori” di Angelo Pezzana, il raffinato libraio torinese di cui ero amico. Poco meno di cinquant’anni fa, eccome se quelle non erano le prime uscite pubbliche di un mondo che fino a quel momento se ne stava celato al possibile, che stentava a dire di sé. Molto molto molto lontano dall’oggi e dalle sue usanze. Tanto più che ero alle prime armi del mestiere, in quel teatrino romana dove la luce era soffusa e dove in sottofondo suonava una canzone dei Pink Floyd mi muovevo in punta di piedi. Lo capivi a volo di avere a che fare con una comunità umana non riconosciuta come tale e che per la prima volta pronunziava a voce alta le cose che la riguardavano. Stavo ad ascoltare con tutto me stesso, così come loro si esponevano con tutto loro stessi. L’exploit di gran lunga il più risonante e drammatico lo fece Mario Mieli, e a quell’exploit assistetti come trattenendo il fiato. Milanese, penultimo di sette figli, lui aveva in quel momento poco più di trent’anni e gliene restavano da vivere poco meno di dieci. Era salito sul palco e non è che parlasse, agiva a mezzo delle parole, comunicava quello che stava vivendo nel raccontare furiosamente la sua omosessualità. Era un uomo dolente, una persona che stava misurando le sue cicatrici e che in tutto questo ci metteva un orgoglio smisurato. Non esagero, era uno che in ogni parola che diceva restava in bilico costante tra la vita e la morte. Mai avevo visto o sentito nulla del genere, qualcosa di talmente drammatico, di talmente coinvolgente. Nello scrivere quei due pezzi per il “Paese Sera” cercai di trasmetterla tutta quanta quella mia emozione, quel mio stupore innanzi a una “provocazione” umanamente e intellettualmente talmente affinata. Non so ci riuscii. Se ci furono altri giornali che diedero conto di quell’appuntamento che poco meno di mezzo secolo s’era dato il nascente movimento degli omosessuali italiani? Non ne sono sicuro, qualcuno forse sì. Tutto questo per dirvi invece quanto non abbia provato invece la benché minima emozione innanzi alla vicenda tutta politicante del decreto contro la omotransfobia che è andato ieri gambe all’aria in Parlamento. Non ho provato emozione (semmai ripugnanza) per quelle urla cialtronesche provenienti dalla parte del Senato che più spavaldamente lo aveva bocciato, ma non ho neppure provato emozione per il modo e per gli argomenti con cui lo sostenevano accanitamente alcuni di quelli che il decreto Zan lo avevano promosso e che lo hanno mandato a impattare contro uno scacco parlamentare. Bastassero poche righe di un testo legislativo a placare l’odio di cui la nostra società ribolle tutta intera e di cui in tantissimi  - da una parte e dall’altra dell’emisfero politico - hanno preso a nutrirsi come dell’aria che respirano.

Giacomo Susca per "il Giornale" il 29 ottobre 2021. Il meccanismo social che distorce azioni e reazioni ci sta abituando a cortocircuiti che rispondono a logiche bizzarre, anche quando la logica sembra aver abbandonato il dibattito pubblico. Prendete la vicenda del ddl Zan, naufragato in Aula sotto i colpi dei franchi tiratori Pd, Iv e M5s. In tanti tra gli strenui difensori del provvedimento stanno rivolgendo ogni tipo di accusa nei confronti dei senatori che hanno messo una pietra tombale su un testo così divisivo. Fuori dal Palazzo, la questione ha scatenato l'indignazione di molti volti noti dello spettacolo, che definiscono il voto del Senato «indegno di un Paese civile». Se il criterio di giudizio fosse uniforme, dovrebbero scandalizzare le esternazioni di chi, deluso per la battaglia persa, paragona l'Italia ai regimi totalitari in fatto di tutela delle minoranze. Insomma, se è giustamente bollata come un'idiozia vaneggiare di «dittatura sanitaria» nelle piazze dei No green pass, nulla da obiettare invece quando si assimila il nostro Paese a un regime talebano che perseguita la comunità Lgbtq. Se c'è un merito nella discussione sulla legge contro l'omotransfobia è di aver spostato l'attenzione sul peso delle parole. Perciò fa riflettere che la principale paladina social della causa arcobaleno, Chiara Ferragni, abbia postato uno sfogo, questo sì, davvero «colorito». Dall'alto dei suoi milioni di seguaci, l'influencer si è scagliata contro la classe politica: «Siamo governati da pagliacci senza palle». Tralasciando il fatto che governo e Parlamento sono due cose diverse, non bisogna essere esperti di diritto costituzionale per riconoscere che «senza palle» altro non è che un insulto sessista. Proprio come quelli che il ddl Zan avrebbe voluto punire severamente. E non si tratta di sfumature lessicali, visto che l'odio e il pregiudizio viaggiano sul crinale del linguaggio adoperato. Un team di linguisti provenienti da 12 Paesi non ha avuto dubbi nel decretare che l'espressione «senza palle» corrisponde a una «cultura fortemente maschilista». La stessa Michela Murgia, grande sponsor della legge appena affossata, inserisce la locuzione «avere/non avere le palle» nel decalogo delle frasi discriminatorie «che non vogliamo sentire più». Se non basta, ecco la Cassazione con una sentenza del 2012 a stabilire che «l'espressione ha una evidente e obiettiva valenza ingiuriosa, atteso che con essa si vuole insinuare non solo e non tanto la mancanza di virilità del destinatario, ma la sua debolezza di carattere, la mancanza di determinazione, di competenza e di coerenza, virtù che, a torto o a ragione, continuano ad essere individuate come connotative del genere maschile». A proposito di cortocircuiti gender, di caccia alle streghe e presunti golpe liberticidi.

Dagospia il 29 ottobre 2021. PER FORTUNA CHE ERANO QUELLI CONTRO IL LINGUAGGIO D'ODIO! "UCCIDERE UN FASCISTA NON E' UN REATO", "OBIETTORE, TI SDRAIAMO SENZA FARE RUMORE", A ROMA NELLA MANIFESTAZIONE DI PROTESTA CONTRO LO STOP AL DDL ZAN VA IN SCENA LA FURIA ARCOBALENO TRA INSULTI A RENZI, MINACCE DI MORTE A PILLON E UN OSCENO REVIVAL DI SLOGAN ANNI '70 - MIGLIAIA IN CORTEO, LA SENATRICE CIRINNA': "SIAMO PIU' INCAZZATI MA PIU' UNITI" (IL CANE MILIONARIO, COME STA?)

Da fanpage.it il 29 ottobre 2021. Migliaia di persone stanno manifestando in all'inizio di via San Giovanni in Laterano, la ‘gay street' di Roma, per protestare contro lo stop al disegno di legge Zan votato ieri al Senato. All'incrocio della strada che collega piazza San Giovanni in Laterano al Colosseo è stato allestito un piccolo spazio con un microfono al quale si stanno alternando tante voci per manifestare il dissenso con quanto accaduto ieri con il voto che ha di fatto detto la parola fine, per almeno sei mesi, all'approvazione della legge contro la omotrasnfobia. ‘Questa voce nessuno la affossa', c'è scritto su uno dei cartelli dei manifestanti, e ‘restistiamo' su un altro. Il sit in si è poi trasformato in un vero e proprio corteo nelle strade del centro di Roma. "Avete bloccato la legge Non bloccherete la lotta", lo slogan dello striscione alla testa della manifestazione. Non è chiaro se il corteo sia stato autorizzato dalle forze dell'ordine oppure no. Diverse le pattuglie della polizia locale intervenute nella zona del Colosseo per agevolare il traffico automobilistico. Sul posto anche alcune camionette della polizia per gestire eventuali disordini, ma tutto, per il momento, si sta svolgendo senza particolari problemi. Migliaia di persone sono scese in piazza anche a Milano per protestare contro l'affossamento del ddl Zan. "Noi qui possiamo venire a testa alta, forti della battaglia che abbiamo portato avanti con coerenza, dall'inizio alla fine", ha scritto sui sociale vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando, che è presente alla manifestazione in corso a Roma. In piazza anche la senatrice dem Monica Cirinnà: "Il voto non ci ha sconfitto, siamo più forti e più unite che mai. Da oggi parte una nuova iniziativa sui diritti, forte, egualitaria. rappresentativa, radicata nel rapporto tra @pdnetwork, le associazioni, il movimento. Non ci fermiamo. Siamo più incazzati, ma siamo anche più forti e più uniti".

François de Tonquédec per "la Verità" il 29 ottobre 2021. Quella di eri sera, in una Roma che stava iniziando a blindarsi, tra divieti di sosta e rimozioni perfino di biciclette e monopattini, per il G20 di questo fine settimana, doveva essere una protesta dei sostenitori del ddl Zan, contro lo stop all'iter parlamentare della legge. In piazza era previsto che ci fossero: il circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, gli studenti di Uds e Link, Arci Roma. Ma dopo poco più di un'ora si è trasformato in quella che sembrava più una prova generale delle proteste contro il vertice dei capi di Stato che si terrà all'Eur. Una prova generale che risulta priva di autorizzazione, anche se in piazza alcuni esponenti delle forze dell'ordine che si confrontavano sul tema ritenevano che il via libera ci fosse. Contattato dalla Verità, l'ufficio stampa della Questura di Roma ha spiegato due volte, la prima durante la mattinata, la seconda a meno di un'ora dall'inizio della protesta, di non sapere nulla di una manifestazione a via di San Giovanni in Laterano, nella cosiddetta gay street, a due passi dal Colosseo. Anche fonti interne ad Atac, l'azienda del trasporto pubblico locale capitolino, hanno confermato di non aver ricevuto alcuna comunicazione di un evento che poteva avere ricadute sul servizio di tram. Cosa puntualmente successa, quando i partecipanti accalcati hanno invaso i binari, paralizzando quel quadrante di Roma. Presente una delegazione di +Europa, composta dal segretario Benedetto Della Vedova, dal presidente Riccardo Magi e da Rita Di Sano della segreteria.In piazza anche Alessandro Zan, firmatario del provvedimento caduto sotto la «tagliola» del Senato, Monica Cirinnà, in cappotto rosso e con mascherina arcobaleno, ma senza la ormai famosa cane. A differenza di molti manifestanti, con cuccioli a seguito, ben poco felici della calca in cui erano stati trascinati. Impossibile sentire con chiarezza gli interventi, con il pubblico che passava da un «non ho capito niente di quello che ha detto», riferito all'oratore di turno, a scroscianti applausi, evidentemente sulla fiducia. Principale bersaglio, anche se inizialmente non nominato direttamente, il leader di Italia viva, Mattero Renzi, reo di aver proposto di «trattare». Questo almeno fino a quando, al grido di «corteo, corteo!» i manifestanti hanno trasformato la manifestazione in una sfilata verso piazza San Giovanni, scortati da un cordone di forze dell'ordine e sorvegliati dall'alto da un elicottero. In testa al corteo davanti allo striscione, l'ex parlamentare di Rifondazione comunista Vladimir Luxuria, preceduta da un gruppetto di partecipanti che intonava il pacifico coro «Renzi merda». Ma a metà del percorso, il tema della manifestazione è cambiato, abbandonando i diritti negati e facendo emergere il vero bersaglio: il G20. «Oggi siamo qui, in piazza, insieme a tante altre piazze, in giro per l'Italia. Oggi stiamo facendo anche un'altra cosa. Ci stiamo riprendendo questa città, bloccata dai grandi della terra, che discutono nelle loro stanze segrete», ha arringato nel microfono uno dei leader della protesta, che ha proseguito il suo percorso con pugni alzati e slogan antifascisti come «fascio stai attento, ancora fischia il vento» o contro il leader della Lega Matteo Salvini, apostrofato con «capitano stammi lontano». Che il clima non fosse dei migliori era chiaro già dalle ore precedenti, quando su Twitter circolavano commenti come quello (poi rimosso) in risposta a un post del senatore leghista Simone Pillon: «Pillon muori, Pillon crepa, Pillon Bastardo, Pillon infame, sparate a Pillon, Pillon appeso a testa in giù, Pillon a piazzale Loreto». Messaggi di pace, insomma. Quasi contemporaneamente, a Milano era in corso una manifestazione gemella, all'Arco della Pace. Alla protesta, indetta da Sentinelli Milano, Arcigay e Coordinamento Arcobaleno, avrebbero partecipato, secondo gli organizzatori, 10.000 persone. Molte di più di quelle, alcune centinaia, che hanno fatto quello che volevano nella capitale. A quanto sembra all'insaputa delle autorità, come ormai pare abitudine a Roma. Un eccellente viatico per il G20.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 28 ottobre 2021. Sono una brutta persona, lo so, ma lo spettacolo tardo pomeridiano di destra contro sinistra - dopo la tumulazione del ddl Zan contro l'omofobia - mi pare lo spettacolo del trionfo globale, delle bandierine che sono state piantate dove dovevano essere piantate per segnalare a vista d'occhio la distanza dal maledetto avversario. Sono una brutta persona e al primo sì, al secondo pure, ma al terzo, al quarto e al quinto che ha scritto della possibilità rimasta intatta di picchiare, aggredire o insultare gli omosessuali - e parlo di parlamentari, giornalisti e intellettualità varia - non mi posso trattenere. No, picchiare, aggredire e insultare è vietato, pure senza ddl Zan e indipendentemente dalle inclinazioni sessuali del picchiato o dell'aggredito. Se il picchiato o l'aggredito è tale proprio a causa delle sue inclinazioni sessuali, la punizione è già adesso, pure senza ddl Zan, più severa (mai sentito parlare dei futili e abietti motivi?). Si voleva soltanto introdurre punizioni ancora più severe delle punizioni già più severe: potrà piacere, ma è tutto un altro discorso. Però il punto è un altro: sono una brutta persona e proprio non capisco questa ambizione di vietare l'odio per legge (odiare non è un diritto, dicevano gli striscioni). Sarebbe come vietare per legge l'invidia o la viltà, cioè la natura umana. E infatti vorrei dire a chi ieri - anche lì, parlamentari, giornalisti e intellettualità varia - ha definito vigliacchi, miserabili, incivili, ignobili, orribili, retrogradi e vomitevoli gli avversari del ddl Zan, ecco, vorrei dirgli di tenerselo stretto il diritto all'odio.

Dal “Giornale” il 28 ottobre 2021. L'omofobia è un'azione spregevole, specie se tracima nell'odio, verbale e fisico. Ma il ddl Zan saltato ieri per l'azzardo parlamentare di Enrico Letta si proponeva di colmare un vuoto legislativo. Niente di più falso. Già oggi gli insulti al mondo Lgbtq+ vengono puniti e sanzionati. Ieri il Garante delle Comunicazioni comunicava la multa da 125mila euro a Radio 105 per lo show Lo Zoo di 105, accusato di aver usato nel corso della trasmissione «espressioni volgari e denigratorie rivolte in particolar modo contro donne e omosessuali» in almeno due puntate (e nonostante una diffida) andate in onda alla fine del 2020. Insulti di matrice omofoba - dice il Garante - pronunciate «in maniera continuativa e morbosa» assieme a «allusioni sessuali e messaggi di intolleranza».  A nulla è valsa la difesa di Radio 105 («erano solo battute») perché secondo il Garante l'umorismo sarebbe «un'aggravante che contribuisce a creare accettazione e consenso sociale intorno al linguaggio d'odio». Va bene non scherzare sull'omofobia. Ma a ddl Zan vigente per gli ironici conduttori sarebbe scattata una denuncia penale.

Da corriere.it  il 28 ottobre 2021. Ogni giorno, un milione di persone non si perde le due ore con Marco Mazzoli e il suo “Zoo di 105”. Il programma radiofonico — oltre ad essere il più seguito — è anche quello con il risaputo record di parolacce pronunciate: un linguaggio irriverente che è anche il tratto distintivo della trasmissione che ha debuttato nel 1999. Ma tra i fan dello show non c’è l’Agcom: l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha messo infatti sotto la lente d’ingrandimento in particolare due puntate della trasmissione, quella del 26 ottobre e dell’11 dicembre 2020, riscontrando violazioni «di elevata entità» alle regole del Testo unico della radiotelevisione, oltre a 247 parolacce in quattro ore on air.

La sanzione

Per questo, la società a cui fa capo Radio 105 dovrà pagare una sanzione di 125mila euro quale risarcimento per quelle frasi che «risultano idonee a nuocere allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori e a turbare, pregiudicare, danneggiare i delicati complessi processi di apprendimento dell’esperienza e di discernimento tra valori diversi o opposti, nei quali si sostanziano lo svolgimento e la formazione delle loro personalità».

La replica

L’accusa non è rimasta nel vuoto. Dalla radio hanno fatto sapere che lo show è solo «un esempio non isolato di comicità grossolana imperniata sull’uso iperbolico di espressioni grezze, capaci di suscitare il riso». Niente di nuovo, insomma, secondo il network. Ma questa tesi non ha convinto l’Agcom: «L’accettazione di tale tesi, assolutamente soggettiva, giustificherebbe in ogni caso la diffusione di parolacce, turpiloquio, offese alla dignità della persona, messaggi di intolleranza e lessico omofobico». Non è la prima volta che la trasmissione attraversa dei guai: nel 2010 era già stata sospesa e multata, sempre per la troppa volgarità e le parolacce in diretta. Allora la decisione era stata presa dal Garante dell’Editoria e Mazzoli aveva replicato così: «Sono tra lo sconvolto e l’incredulo. Ci hanno sospeso e multato perché diciamo parolacce? Sono dieci anni che le diciamo e il Garante se ne accorge solo adesso? Non è lo Zoo che insegna le volgarità alla gente, ma è semplicemente lo specchio della nostra società. Lo Zoo parla come il popolo, pensa e dice quello che il cittadino vorrebbe gridare in faccia a chi ci governa».

Marco Tarquinio per “Avvenire” il 28 ottobre 2021. Il cosiddetto ddl Zan va in archivio. E non è un bel giorno per la società italiana. Un ambizioso ma brutto disegno di legge nato per contrastare in modo specifico omofobia e transfobia (e che ostinatamente non si è voluto ben calibrare se non per renderlo ancora meno centrato sull'obiettivo dichiarato) è stato fermato. E «il modo ancor m' offende». Non certo per il libero voto dei senatori della Repubblica, bensì per l'insensata prova di forza che ha prodotto quest' esito deludente e per il solito coro zeppo di luoghi comuni che, con qualche felice eccezione, dalle opposte sponde si è subito levato. «Genderofili» (perdenti) contro «omofobi» (vincenti), in una sorta di bipartitismo caricaturale e insopportabile. Ma l'Italia, grazie a Dio e alla civiltà di tantissimi suoi cittadini e cittadine, non è una terra di odiatori e menatori seriali e neanche di ideologi dell'indifferenza (umana, morale e sessuale). È perciò politicamente e civilmente assurdo e autolesionista forzare per incasellarci tutti in questa scatola di ferro spaccata a metà. Così si semina vento e si raccoglie tempesta, aggravando fenomeni reali ed esaltando gli esaltati. Che pure ci sono. Sì, ci sono quelli che insultano e vessano le persone omosessuali e transessuali, così come ci sono quelli che pretendono, nel nome dell'«infinita possibilità», di negare la realtà della differenza sessuale, di maternità e paternità e persino la libertà di affermarle. Ecco perché argini espliciti a tutto ciò - alla violenza verbale e fisica sulle persone e a ogni illiberale rimozione e intimidazione antropologica - vanno posti o mantenuti. E bisogna farlo in modo semplice e chiaro. Come anche la Chiesa italiana ha raccomandato, per voce dei suoi vescovi, con buona pace dei, variamente distribuiti, seminatori di slogan a buon mercato e di pessimo contenuto. Il ddl Zan era e resta sbagliato, e su queste pagine l'abbiamo scritto e documentato a fondo, dando spazio a tante voci, trasversali agli schieramenti eppure silenziate o stravolte dalle pretese caricaturali di cui sopra. Quella proposta “idolatrata” da persuasori e influencer decisi a darla già per approvata in forza di un plebiscitarismo digitale e mediatico da far accapponare la pelle, era fuori centro in più punti sul piano concettuale, dell'architettura giuridica e delle sue conseguenze. Non lo si è voluto ammettere e ora si raccolgono i frutti della presunzione. Ma meglio nessuna legge di una cattiva legge, perché di leggi vigenti e cattive o incattivite (come quelle sulle migrazioni e sulla cittadinanza) ne abbiamo già troppe, e perché quando si tratta di reati e di libertà, cioè 'dei delitti e delle pene', non si può essere approssimativi e avventurosamente 'filosofici'. Lo strepito che si sente non è incoraggiante, ma speriamo che di questo fallimento si sappia far tesoro.

Paolo Bracalini per "il Giornale" il 28 ottobre 2021. Due anni esatti. Il viaggio parlamentare del ddl Zan ha impiegato ben due anni, impegnando commissioni parlamentari, aule, capigruppo, e monopolizzando in diversi frangenti il dibattito pubblico, tutto questo nel mezzo di una pandemia che ha sconvolto l'Italia con emergenze molto più gravi. Era appunto il 24 ottobre 2019 quando il parlamentare Pd che dà nome alla legge, Alessandro Zan, annunciava la buona novella: «Questa mattina è ufficialmente iniziato l'iter di approvazione della legge contro l'omotransfobia», una vera urgenza perché «la situazione nel Paese è estremamente critica, con una vera e propria escalation delle violenze e dei crimini d'odio» contro gay e trans. Ma è ancora da prima che ci aveva provato, già nel maggio 2018 (quindi siamo a più di tre anni), presentando alla Camera un disegno di legge con gli stessi contenuti, sempre a prima firma Zan, «rimasto però totalmente inascoltato e minimamente recepito dalla precedente maggioranza» segnata dall'«oscurantismo della Lega». Con il Conte bis, e quindi l'arrivo al governo del Pd insieme al M5s, la questione dell'omotransfobia è diventata un leitmotiv costante, anche con la maggioranza Draghi. Due anni di dibattiti estenuanti, tira e molla, tattiche parlamentari come le piogge di emendamenti per stopparla, vertici di maggioranza, negoziazioni e compromessi dietro le quinte, il tutto accompagnato da sterminate discussioni nei talk show e furbate mediatiche alla Fedez. Non sarà la principale urgenza del paese, ma è stato certo l'argomento che ha catalizzato più polemiche e assorbito tempo in Parlamento e fuori. Con picchi intermittenti, a seconda della convenienza politica di metterlo al centro dell'agenda oppure no. Ad esempio, dopo aver imperversato per settimane fino a sembrare la nuova bandiera della sinistra e a forzare il calendario parlamentare per portarlo al Senato prima dell'estate, il ddl Zan si è poi inabissato con l'avvicinarsi della campagna elettorale per le amministrative. Un tema troppo scivoloso per la sinistra e per il M5s, meglio nasconderlo sotto il tappeto per un po', rinviando la calendarizzazione a dopo le elezioni. Salvo poi appunto tirarlo fuori a urne chiuse. Una tempistica ben spiegata da Monica Cirinnà, la piddina con i cani facoltosi, grande sponsor della legge: «Ora è il momento di decidere, i risultati delle elezioni amministrative dimostrano che è forte nel Paese la domanda di eguaglianza e giustizia». Ma la manovra è andata male. Torneranno alla carica? È sicuro, con un'altra legge dallo stesso contenuto e magari lo stesso nome, ormai un brand. Nel frattempo si è buttato al vento molto tempo. Nel dossier della Camera sul ddl sono riportate tutte le date in cui è stato discusso in commissione Giustizia, e poi in aula. Un elenco lunghissimo. Sterminato poi è il numero degli emendamenti proposti dai singoli parlamentari e dai partiti, come sterminata è la mole di articoli e programmi tv dedicati al fondamentale testo di Zan. Per poi finire nel nulla. Un risultato che secondo il leader della Lega Matteo Salvini va addebitato al Pd: «Letta non ha voluto ascoltare il Papa, le associazioni, le famiglie, le parrocchie. Ha voluto dare una prova di forza. Risultato: mesi e mesi persi». 

Dagoreport il 28 ottobre 2021. Il naufragio del Ddl Zan, per quanto la contropropaganda del Nazarano provi a scaricarne la colpa ai renziani, ha un unico responsabile: Enrico Letta. La sua arroganza intellettuale lo ha accecato impedendogli di fare l'unica cosa utile in politica: trattare. Invece di perdere anni a Parigi a discettare di alta politica a Sciences Po, Enrichetto avrebbe potuto impiegare il tempo in maniera più redditizia facendo ripetizioni di "vera" politica dallo zio, Gianni Letta. Colpevole in solido con Enrichetto, la sua segreteria politica. Invece di spingere il pennellone pisano a un bagno di realismo e umiltà, cioè trattare con l'odiato Renzi per portare a casa il risultato, ha soffiato sulla sicumera del segretario del Pd. Tutti conoscevano i rischia di un atteggiamento intransigente. Era chiaro che il Ddl Zan sarebbe andato a sbattere contro l'opposizione della maggioranza del Senato: i segnali erano arrivati (anche dal Vaticano). Ignorarli è stato un gesto da fessi o da arroganti. Soprattutto se non si hanno i numeri per decidere in autonomia: o si dialoga o si affonda. D'altronde la hybris survoltata di Letta è stata punita da quella che, sulla carta, è la sua area politica: renziani, franchi tiratori del Pd e qualche alleato cinquestelle (a dimostrazione che Conte non conta, visto che non controlla i gruppi parlamentari. Anzi, ormai c'è una mezza ribellione in atto). Risultato: sono mancati almeno 16 voti. Ma c'è chi ne ha conteggiati 23 o addirittura 40. Un disastro. Sbagliano i quotidiani che già si agitano collegando le spaccature sul Ddl Zan come prova generale per l'elezione del nuovo Capo dello Stato. E' un link improprio, quasi una minchiata. In questo caso il Senato doveva esprimersi su un disegno di legge discutibile e divisivo. A febbraio, per il Colle, si voterà una persona. L'importanza della votazione, e del peso specifico nel "Sistema" ricoperto dal presidente della Repubblica, non ammette capricci e approssimazioni. Sul capoccione di Renzi, poi, non è piovuto solo il livore del Partito democratico per l'affossamento del Ddl Zan. Gli è arrivato un calcione da Carlo Calenda per l'alleanza in Sicilia con Forza Italia: "Come cavolo ti viene in mente di legarti all’Arabia Saudita e allearti con Micciché. Non comprendi il rischio di distruggere anche la Legacy di una stagione di cambiamento?". Evidentemente Calenda sa che si scrive Micciché e si legge Dell'Utri…In tutto questo marasma, assiso sul suo trono di imperturbabilità, Mario Draghi se ne sbatte. Di queste e altre minuzie non sembra affatto curarsi…

Dall'account twitter di Carlo Calenda: sei stato uno dei PDC più riformisti della storia di  questo paese. Dalle Unioni civili a Industria 4.0 abbiamo fatto cose che nessun governo era riuscito a fare prima. Ti ho visto difendere la democrazia e diritti delle minoranze davanti a Putin in Russia. Prendendo più applausi di lui. Hai combattuto per una riforma sacrosanta della Costituzione. Ma come cavolo ti viene in mente di legarti all’Arabia Saudita e allearti con Micciché. Non comprendi il rischio di distruggere anche la Legacy di una stagione di cambiamento? Dovremmo lavorare insieme e costruire un grande polo riformista. Ma come possiamo farlo credibilmente se continui così! Fermati un secondo a riflettere. Te lo chiedo pubblicamente dopo averlo fatto tante volte privatamente. Fermati.

Gabriele Barberis per "il Giornale" il 29 ottobre 2021. Sono le 16,45 quando Maria Elena Boschi prende in mano lo smartphone e scrive su Twitter: «Basta bugie». È il day after della clamorosa votazione al Senato che ha cancellato la legge sull'omofobia. La capogruppo alla Camera di Italia Viva è infastidita dal clima di resa dei conti a sinistra. «Non sono arrabbiata, sono amareggiata perché la legge non è passata» confida a fine serata. Mattinata all'assemblea dei costruttori Ance sul Pnrr, pomeriggio a Montecitorio tra incontri con il governo per la legge-delega sulla disabilità ed altre votazioni. È sdegnata per aver letto cose atroci sui social: «Leoni da tastiera che minacciano di morte Renzi... Ecco questi rappresentano la negazione dello spirito del ddl Zan. Io questo testo l'ho firmato e l'ho votato alla Camera. Al Senato lo abbiamo sostenuto come il Pd, non accetto toni esagerati e ingiustificati».

Onorevole Boschi, il Pd ha aperto la caccia ai renziani dopo l'affossamento in aula del ddl Zan. Non vi siete stancati delle continue richieste di patenti di progressismo? Il segretario Letta ha parlato di rottura a tutto campo con Italia Viva e Forza Italia.

«Noi abbiamo approvato la legge sulle unioni civili, Letta ha fatto molte interviste sulla legge Zan. Questa è la differenza. Penso che Letta dovrebbe preoccuparsi della rottura con un pezzo del gruppo del Pd al Senato che a voto segreto ha votato contro la legge. Più che di Iv e Forza Italia dovrebbe preoccuparsi di Pd e M5s». 

Anche nel Pd è stata messa sotto accusa la gestione di Letta di questa partita. Alla fine come vanno ripartite le responsabilità del flop?

«Letta ha fatto la strategia e Letta ha perso politicamente, insieme al M5s che lo ha seguito nel muro contro muro. Lo riconoscono molti anche nel Pd e nel M5s. Purtroppo però il loro fallimento lo paghiamo tutti, ma soprattutto lo pagano migliaia di persone che avrebbero potuto avere delle tutele in più e ora dovranno aspettare chissà quanto».

L'allontanamento del proporzionale rende attuali coalizioni elettorali omogenee. Il futuro di Italia Viva è scontato con il Pd e i grillini?

«Noi siamo impegnati a sostenere lealmente il governo Draghi perché la priorità è mettere in sicurezza il Paese. Il 2023 è ancora lontano. Certo, mi risulta difficile immaginare un futuro con il M5s. Dal reddito di cittadinanza, al ponte sullo stretto di Messina, al garantismo siamo all'opposto su tutto. Ma non capisco come il Pd possa parlare di europeismo con chi andava a braccetto coi gilet gialli»

Quali scenari apre tra i moderati un Pd sempre più radicale ed estremista che non pronuncia più la parola riformismo?

«Sicuramente c'è un grande spazio politico al centro. Moltissime persone purtroppo non sono andate a votare alle amministrative perché non trovano una proposta convincente. Per un centro europeista, riformista e liberale c'è' una prateria». 

Renzi era in Arabia Saudita anziché votare al Senato tra le ironie di Pd e M5s. Cosa replica a chi lo considera spregiativamente un lobbista con un partito al 2%?

«Con il 2% abbiamo mandato a casa Conte e portato Draghi. E ci attaccano perché tutte le volte siamo decisivi, altro che irrilevanti. Quanto a Renzi: mercoledì era assente, si. Ma la sua assenza non ha pesato sul risultato visto che siamo andati sotto di 23 voti. Solo che dare la colpa a Renzi ormai è lo sport nazionale. E soprattutto l'alibi di chi ha sbagliato i conti». 

La votazione sul ddl Zan ora viene vista a sinistra come la prova generale di un'elezione al Quirinale in cui sarà il fronte moderato ad esprimere il presidente della Repubblica. Chi darà le carte?

«Dopo ciò che è accaduto ieri credo che nessuno sarà così folle da lasciare che il nome di un presidente sia bruciato dai franchi tiratori: all'elezione del presidente della Repubblica servirà una maggioranza molto ampia». 

È vero che voi renziani puntate su Pier Ferdinando Casini al Colle?

«Stimo molto Casini ma non è così. Noi non abbiamo un candidato al Colle fin tanto che al Colle ci sarà il presidente Mattarella per rispetto al suo ruolo e alla sua persona. E comunque fare i nomi ora serve solo a farli bruciare».

Rebus Draghi: capo dello Stato o premier a oltranza?

«Draghi può fare autorevolmente il presidente della Repubblica come sta facendo benissimo il presidente del Consiglio. Direi però che la miglior cosa che possiamo fare per il Paese ora è lasciarlo lavorare senza fibrillazioni. A febbraio, non oggi, parleremo del prossimo presidente della Repubblica».

Prevede colpi di scena o si rivoterà nel 2023?

«La legislatura deve arrivare al 2023 come prevede la Costituzione e come serve al Paese. Certo se la strategia parlamentare la fanno grillini e dem come l'hanno fatta ieri si rischia la paralisi. Ma spero che la lezione di ieri sia servita a capire che in Parlamento serve la politica, non il populismo». 

Italia viva si è spesa per una commissione d'inchiesta sulle mascherine di Arcuri durante il governo Conte. Porterà risultati o è uno strumento di negoziato nel centrosinistra?

«Noi abbiamo chiesto, e continueremo a farlo, in Parlamento con le nostre proposte di legge e ovunque una commissione di inchiesta che faccia chiarezza su cosa è successo in Italia durante la pandemia, non solo sulle mascherine. Se qualcuno è arricchito illegalmente sulle spalle degli italiani deve pagare. Lo dobbiamo alle migliaia di nostri connazionali morti e alle loro famiglie che meritano giustizia».

Dagospia il 29 ottobre 2021. Da “Radio Cusano Campus”. Mario Adinolfi, presidente del Popolo della famiglia, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus. Sull’affossamento del Ddl Zan. “L’imboscata è stata interna al Pd, questo ormai è assodato –ha affermato Adinolfi-. Ci sono stati segnali molto precisi alla leadership di Enrico Letta, è un passaggio evidente, sancito dalle lacrime della Fedeli. Non fai fuori un presidente di gruppo amato come Andrea Marcucci pensando di non pagare poi dazio, a Enrico Letta sono stati presentati i conti. Letta comunque è stato politicamente sconclusionato. Fissare il Pd, mettendo come elemento centrale della propria identità la battaglia lgbt, in un momento economico come questo, è un errore che all’interno di un partito popolare alla fine paghi. Renzi ha fatto una sua battaglia molto chiara, ha detto quali articoli secondo lui andavano rimossi dal ddl Zan, non è quello il punto. Il punto è che se il PD sceglie questa come battaglia principale della sinistra, in un momento in cui vanno in crisi il diritto al lavoro, la condizione delle famiglie, la scuola, è normale che dentro il partito qualcuno pensa che così non sia”.

Sulla proposta alternativa di Salvini al Ddl zan. “La politica si fa con una scala di priorità. Partiamo da altri priorità. Io nego che l’Italia sia un Paese omofobo, non è vero”.

Sul gender nelle scuole. “Io non voglio che nella scuola di mia figlia di 3 anni si vada a fare la giornata della omotransfobia spiegando cose che una bambina di 3 anni non può capire, con un indottrinamento affidato ad una lobby che ha interessi economici e interessi propri che io come famiglia contesto. Lo decido io quando e come affrontare certi argomenti con mia figlia, non lo decide lo Stato. Questa cosa era vergognosa ed è un sollievo che il Parlamento l’abbia abbattuta, quella di mercoledì è stata una giornata di liberazione”.

(ANSA il 30 ottobre 2021) - "Rinunciare al compromesso possibile per sognare la legge impossibile è stata una scelta sbagliata, figlia dell'incapacità politica del Pd e dei 5S". Intervenendo sul fallimento al Senato del ddl Zan, il leader di Iv Matteo Renzi scrive alla Repubblica, accusando i dem di aver "preferito scrivere post indignati sui social anziché scrivere leggi". L'ex premier osserva che è vero che ci sono stati franchi tiratori, e Iv ha contestato la decisione di concedere il voto segreto sul non passaggio agli articoli. "Ma al di là di tutto - aggiunge -, resta il fatto che la legge è fallita per colpa di chi ha fatto male i conti e ha giocato una battaglia di consenso sulla pelle di ragazze e ragazzi". E "additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". "Il triste epilogo del disegno di legge Zan divide per l'ennesima volta il campo dei progressisti in due. Da un lato i riformisti, che vogliono le leggi anche accettando i compromessi - spiega il leader di Iv -. Dall'altro i populisti, che piantano bandierine e inseguono gli influencer, senza preoccuparsi del risultato finale. I primi fanno politica, gli altri fanno propaganda. I fatti sono semplici. Il Ddl Zan era a un passo dal traguardo. Sui media, ma anche in Aula nel dibattito del 13 luglio 2021, avevamo chiesto di evitare lo scontro ideologico trovando un accordo sugli articoli legati alla libertà d'opinione e all'identità generale, come richiesto da molte forze sociali e dalle femministe di sinistra". "Non è un caso che l'unica legge a favore della comunità omosessuale mai approvata in Italia sia stata quella delle unioni civili, figlia del compromesso e della scelta di mettere la fiducia fatta dall'allora governo. Fino ad allora e dopo di allora la sinistra preferiva e anche oggi preferisce riempire le piazze, fare i cortei, cullarsi nella convinzione etica di rappresentare i buoni, il popolo, contro i cattivi, il Parlamento. Additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". Secondo Renzi, in Italia il centrosinistra "dovrà scegliere se inseguire le parole d'ordine populiste, come la vicenda Zan sembra suggerire o tornare al riformismo".

Quell’odio cordiale tra Letta e Renzi. Ora che Iv è accusata di aver affossato il ddl Zan, il segretario può vendicarsi del torto subito 7 anni fa. Francesco Damato su Il Dubbio il 30 ottobre 2021. Che Enrico Letta, tornato da Parigi dove si era ritirato a causa di Matteo Renzi, non avesse dimenticato per niente il torto subito sette anni prima col sostanziale licenziamento da presidente del Consiglio e avesse ben poca voglia di riannodare da segretario del Pd i rapporti con lui, si era capito subito. E se ne era avuta la prova dal calendario degli incontri obbligati del successore di Nicola Zingaretti al Nazareno con gli interlocutori della maggioranza di governo. Renzi era finito all’ultimo posto: proprio l’ultimo, ben dopo Giuseppe Conte fresco di mezza designazione verbale, o intimistica, a presidente del MoVimento 5 Stelle, e ancora orgoglioso della qualifica di “punto di riferimento dei progressisti” conferitagli dal predecessore di Enrico Letta, cioè Nicola Zingaretti, quando il professore e avvocato pugliese sembrava ben saldo a Palazzo Chigi. Pareva addirittura in grado di sottrarsi alle minacce di crisi da parte di Renzi – sempre lui – tessendo la tela di un suo terzo governo in tre anni. Per fortuna, d’altronde, lo stesso Renzi aveva dato ad Enrico Letta ragioni e occasioni di un rapporto a distanza lasciando il Pd, nella tarda estate del 2019, ben prima quindi che Nicola Zingaretti si stufasse della sua esperienza al Nazareno e addirittura ne fuggisse via denunciando il clima avvelenato che vi si respirava. Renzi si era messo in proprio con un partito piccolo ma numericamente decisivo in Senato per tenere in piedi, o appeso, il secondo governo Conte. Un partito piccolo, dicevo, ma quasi dichiaratamente corsaro, trattenuto a stento, o costretto a rallentare le sue incursioni, quando la sopraggiunta pandemia in qualche modo aveva avvolto l’allora presidente del Consiglio in un involucro di emergenza, straordinarietà e quant’altro. Ma figuriamoci se Renzi, con quel temperamento che ha, poteva trattenersi più di tanto. Proprio la pandemia, con l’obiettiva e crescente difficoltà di gestirla, gli avrebbe poi dato motivi e occasioni per disarcionare Conte e fare arrivare a Palazzo Chigi un fuoriclasse come Mario Draghi: tanto fuoriclasse che Enrico Letta lo vorrebbe a quel posto “almeno” fino alla conclusione ordinaria della legislatura, nel 2023. Ciò significa anche dopo, se le circostanze potranno permetterlo, visto che il piano della ripresa varato con i finanziamenti miliardari dell’Unione Europea, e condizionato ad un percorso di riforme, dovrà arrivare alla scadenza del 2026. Costretto dagli umori, a dir poco, dei gruppi parlamentari, di cui è riuscito a cambiare i presidenti ma non certo la composizione, rimasta quella derivata dalle candidature volute nel 2018 dall’allora segretario del partito Renzi, sempre lui, Enrico Letta ha dichiaratamente lavorato sino all’altro ieri, diciamo così, per la costruzione di un centrosinistra “largo”, tradotto da qualcuno in una nuova edizione dell’Ulivo, esteso da Renzi a Bersani, un altro ex segretario del Pd andatosene dal Nazareno. E vi ha lavorato ignorando, o facendo finta di ignorare, la preclusione a Renzi, e anche a Carlo Calenda, dichiarata da Conte. Che non è più quello immaginato da Nicola Zingaretti alla testa di uno schieramento progressista, è formalmente alla guida di un movimento malmesso elettoralmente e in crisi ormai cronica di identità, ma rimane pur sempre la seconda forza della coalizione coltivata dal segretario del Pd. Forse già rassegnato in cuor suo a sorbirsi Renzi, oltre a Calenda, perché consapevole di avere in fondo un potere contrattuale inferiore a quello sbandierato in pubblico, e cui in fondo non credono molto neppure molti grillini, Conte si è visto quasi sorpassare nell’antirenzismo da Enrico Letta dopo l’infortunio del segretario del Pd al Senato nello scontro col centrodestra sul disegno di legge del piddino Alessandro Zan contro l’omotransfobia, già approvato dalla Camera. Con Renzi mai più, ha praticamente gridato e giurato Enrico Letta attribuendogli, dietro la cortina di una corsa in Arabia Saudita solitamente ben retribuita, la regia dello stop imposto al provvedimento a scrutinio segreto. E di chissà quali altri giochi, a cominciare dalla sempre più vicina e ingarbugliata partita del Quirinale. Renzi, dal canto suo, non si è lasciato scappare l’occasione per fare a Letta, stavolta in pubblico, un mezzo processo politico come quello del 2013 parlando al telefono col generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi, che non sapeva di essere intercettato per un’indagine. In quell’occasione Renzi disse di Letta presidente del Consiglio che non era adatto a stare al suo posto, dove infatti lui lo avrebbe di lì a poco sostituito: magari, sarebbe stato più indicato per il Quirinale, aggiunse sapendo bene che vi sedeva allora del tutto tranquillo Giorgio Napolitano, confermato da alcuni mesi soltanto, e che Letta non aveva neppure l’età per aspirarvi a breve, avendo ancora 47 anni, contro i 50 richiesti dalla Costituzione. Alto e forte, tuttavia, si è levato dal Pd il monito di un uomo non sospettabile di collusione con Renzi: l’ex capogruppo al Senato Luigi Zanda. Secondo il quale «non è dall’esito di uno scrutinio segreto certamente grave sul ddl Zan che il Pd deve elaborare la sua politica delle alleanze». Non è così che deve essere definito «il perimetro del centrosinistra», anche perché ci si «dovrebbe rassegnare a restare in minoranza nell’aula del Senato da qui fino alla fine della legislatura». A meno che Enrico Letta non stia maturando sotto sotto un progetto di elezioni anticipate. Ma questo Zanda non lo ha sospettato, o, almeno, non lo ha detto.

Che te lo Dico a fare? Letta, Zan e l’eterno ritorno della sinistra degli stereotipi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'1 Novembre 2021. Sulla legge contro l’omotransfobia, il Pd è tornato a fare quello che ha fatto per un decennio con Dico, Pacs e Cus senza ottenere nulla. E ora vuole trasformare Renzi nella nuova Binetti per aver proposto di trattare (come lo stesso Letta e ieri sera anche Prodi). Sul ddl Zan e su come siamo arrivati a questo punto, ovviamente, tutte le opinioni sono legittime. Personalmente, disapprovo sia la scelta compiuta da Matteo Renzi di andarsene in Arabia Saudita invece che a votare in Senato, sia la scelta compiuta da Enrico Letta di lanciare una fatwa contro Italia viva invece di una seria analisi della sconfitta. Comunque la pensiate, però, c’è qualcosa che dovrebbe preoccuparvi, specialmente se siete elettori del centrosinistra (parlandone da vivo), nella piega che ha preso tutto il delirante dopopartita. A partire da una certa sensazione di déjà vu. Il Partito democratico sembra infatti fermamente intenzionato a fare con la legge contro l’omotransfobia quello che ha fatto per oltre un decennio con Pacs, Dico e Cus. E cioè assolutamente nulla, dal punto di vista legislativo, ma un nulla gravido di scontri tanto esasperati quanto inconcludenti, su cui gruppuscoli, partitini e leaderini hanno costruito fortune, a spese della coalizione, dei governi di centrosinistra e dello stesso Partito democratico, la cui gestazione fu enormemente complicata proprio da questa dinamica autodistruttiva. A leggere i giornali – per non parlare dei social, che vent’anni fa per fortuna non c’erano – sembra infatti di essere tornati al tempo dei girotondi e alle stucchevoli discussioni sull’identità della sinistra, generalmente riassumibili nel concetto: essere davvero di sinistra significa gridare molto forte quanto ti fa schifo la destra, non scendere a compromessi con la destra, non parlarci nemmeno, con la destra (lasciando inevasa la domanda su cosa la sinistra ci stia a fare, a quel punto, dentro un’istituzione chiamata non per caso «Parlamento»). Sembra di essere tornati ai tempi in cui fior di intellettuali sostenevano che essere di sinistra significava definire il governo di Silvio Berlusconi un “regime”, paragonandolo esplicitamente al fascismo. E senza più neanche un Antonio Pennacchi a replicare, come fece in un’indimenticabile assemblea del 2002, che «quello [Berlusconi, ndr] aveva un’idea del Paese e noi non ce l’abbiamo», perché noi «sappiamo fa’ solo battaglie de stereotipi». Evidentemente è proprio così. Sappiamo combattere – noi di sinistra – solo a colpi di stereotipi. E quando ci viene a mancare il problema su cui allestire la parodia di una guerra civile a colpi di contrapposti luoghi comuni, magari perché a qualcun altro viene in mente di risolverlo, il problema, occorre trovarne un altro. Il giorno dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, chi ha più sentito parlare di Paola Binetti? In un battibaleno erano scomparsi tanto i bersaglieri pronti a una nuova breccia di Porta Pia, quanto le armate clerico-fasciste decise a riportarci nel medioevo. Ed ecco che, dopo essere andati a sbattere in Senato sulla legge Zan, per uscire dall’imbarazzo, i dirigenti del Pd sembrano avere deciso di trasformare Renzi nella nuova Binetti, facendo delle inconfessabili manovre renziane il luogo comune espiatorio su cui scaricare tutte le responsabilità, allo scopo di alimentare una mobilitazione che altrimenti non saprebbero come motivare. Si può non condividere la posizione di Italia viva sulla legge Zan (io l’ho criticata qui già a luglio) e trovare al tempo stesso surreale la campagna scatenata dal Partito democratico contro gli esponenti di Italia viva. Campagna particolarmente surreale, in primo luogo, perché fondata sull’accusa – ovviamente indimostrabile – di avere votato in segreto diversamente da come pubblicamente dichiarato. E in secondo luogo perché l’indizio decisivo sarebbe il fatto di avere invitato a trattare con il centrodestra, che è quanto Letta aveva proposto di fare, con una svolta radicale e inattesa, proprio alla vigilia del voto. Nulla però è stato surreale come sentire Romano Prodi spiegare ieri sera in tv che sarebbe stato semplicissimo fare due o tre piccole modifiche («quelle di cui si discuteva») per approvare la legge Zan, e che dunque se si è andati allo scontro è perché «si è voluto l’incidente». Salvo precisare subito che l’apertura di Letta, alla vigilia del voto, non era stata affatto tardiva, perché se si vuole l’accordo si trova anche all’ultimo minuto. Dunque, di chi è la colpa: di chi voleva trattare o di chi non voleva farlo? Di chi voleva snaturare la legge o di chi l’ha strumentalizzata per andare allo scontro? E chi era che voleva trattare: Letta o Renzi? Non ha nessuna importanza. Nelle «battaglie di stereotipi» contano solo gli stereotipi.

La contesa destra-sinistra. Noi “liberali” contro il ddl Zan: era repressivo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Ottobre 2021. È mancata la voce dei liberali. Forse manca addirittura un Partito Liberale, in Italia. Non perché non ci siano state voci critiche nei confronti del disegno di legge Zan sull’omotransfobia tra costituzionalisti, intellettuali, giornalisti, oltre che associazioni di femministe. Ma perché tutti questi soggetti non hanno trovato in Parlamento (dove pure i liberali esistono, sparsi in diversi partiti) una rappresentanza politica sufficientemente robusta da rendere palese il fatto che mai come in questo caso la diversità di idee non si indentifica con destra-sinistra. E neanche con la contrapposizione laici-cattolici. Con la proposta di legge che porta il nome di Alessandro Zan la sinistra ha mostrato la peggiore faccia della repressione e della pretesa educativa al contempo. Una parte della destra, con una proposta di legge alternativa, si è limitata a ipotizzare pene più alte e più manette in cambio dell’eliminazione della parte pedagogica della norma. Ma siamo sempre nell’ambito di un pensiero tanto diffuso quanto storicamente fallimentare. E cioè che l’aumento delle pene produca come conseguenza la diminuzione dei reati. Se così fosse converrebbe per paradosso reintrodurre la pena di morte. Ma prima ancora di arrivare alla specifica norma penale, poniamo la prima domanda, anche alle tante persone che scendono nelle piazze, in gran parte inconsapevoli non solo del testo della proposta di legge (di questa “distrazione” io sono certa al cento per cento) ma anche della sua reale finalità. Il quesito è: sapete quante fattispecie di reato esistono nel codice penale? Trentacinquemila circa. E, garantiamo, coprono e prevedono e sanzionano una serie infinita di comportamenti. Troppi, sicuramente. Quando le piazze, e in particolare i giovani, ma anche i cantanti del politicamente corretto, e addirittura un deputato come Elio Vito, radicale di Forza Italia, protestano perché “due ragazzi che si baciavano sono stati picchiati” e “quindi” ci vuole la legge Zan, ci prendono in giro? Si, ci prendono in giro. Veramente credono che il codice penale esistente non abbia gli strumenti per intervenire sul reato di lesioni, oltre tutto aggravato da motivi ignobili e discriminatori? Lo sanno benissimo, e sanno altrettanto bene che la norma in discussione parla d’altro. Parla dell’odio. Il punto è proprio questo, e qualifica indubitabilmente la proposta di legge Zan come norma liberticida. Perché, con l’intento di offrire una protezione particolare contro le parole di odio basate sull’orientamento sessuale, introduce un nuovo reato e una nuova aggravante. Di cui non c’è bisogno e di cui, a detta anche di costituzionalisti come Michele Ainis, non si sentiva la mancanza. Infatti l’articolo 414 del codice penale prevede l’istigazione a delinquere e il nostro ordinamento all’articolo 61 ha già provveduto a introdurre un consistente aumento della pena con l’aggravante delle motivazioni abiette o futili. Un altro costituzionalista, ex presidente della Consulta, Cesare Mirabelli, in clima di conciliazione, aveva proposto nei mesi scorsi di aggiungere all’articolo 61 l’aggravante di aver agito con intenti discriminatori lesivi della dignità umana. Un compromesso dignitoso respinto con sdegno dai puristi del tutto o niente. Quelli che preferiscono intasare le norme con una serie di specificità: i neri, gli ebrei, le donne, i gay, i trans, i disabili…E perché non gli anziani, i malati psichici, gli orfani, i poveri? Forse questi soggetti non meriterebbero tutela qualora fossero vittime di istigazione all’odio nei loro confronti? Altre osservazioni vengono dalla cultura liberale. Chi decide il mio tasso e la qualità del mio odio? Della sua capacità di influenzare gli altri fino al punto di indurre qualcuno a commettere un reato? Un giudice? E con quali specializzazioni sui sentimenti umani? L’ipotesi mi atterrisce. Siamo ancora alla concezione filosofico-politico-giudiziaria dei Cattivi Maestri? Se la mettiamo sul piano giudiziario potremmo ricordare che la storia processuale di questo Paese dimostra che i Cattivi Maestri della sinistra sono stati tutti assolti nelle aule di tribunale. Se invece restiamo sul piano pedagogico, mi si deve spiegare che cosa c’entra la norma penale. In uno Stato laico. A meno che Enrico Letta non dica esplicitamente di aver sposato, più o meno hegelianamente, la filosofia politica dello Stato etico. O non si sia fatto telebano. Ma a questo punto dovremmo entrare nel punto più delicato della norma, quello appoggiato da una parte del mondo femminista, ma con altrettanto vigore criticato da altre associazioni (elencate ieri sul Messaggero da Luca Ricolfi) come Udi, Se non ora quando, Arcilesbica, oltre a 300 gruppi presenti in cento Paesi, riuniti sotto la sigla Whrct, che rifiutano di vedere le donne trattate come una minoranza (mi associo). Il punto è quello che qualifica l’identità di genere come “identificazione percepita”. E pare proprio, oltre a voler valorizzare una fluidità che nei fatti si è già a volte rivelata pericolosa, il principio irrinunciabile dei sostenitori della proposta di legge. Qui siamo in un vero vicolo cieco, cui sicuramente non può essere la norma penale a dare risposte.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 31 ottobre 2021. Commuove vedere le folle di giovani che riempiono le piazze contro l'affossamento della legge Zan; ci si schifa nel rivedere una parte dei parlamentari applaudire per il triste evento; si plaude ai tanti opinionisti che ovunque hanno attaccato l'orrido risultato; poi però ci si può anche chiedere: ma quante di queste persone progressiste e non hanno avuto voglia di leggere per intero sia gli articoli di legge che le modifiche che il decreto Zan voleva, vuole apportare e prima o poi apporterà? Io ci ho provato e se non sei del ramo è una faticaccia, temo quindi che non tutti quelli che hanno protestato, o esultato, e forse persino qualcuno che ha votato o sì o no, possano addirittura immaginare che, senza la Zan, qualunque ragazzo o ragazza o altro che abbia un suo orientamento sessuale non conforme alla Bibbia, può essere impunemente randellato da chiunque ne abbia il ghiribizzo al grido di "frocio frocio" o chissà, per i fluttuanti non mi viene in mente l'insulto giusto trattandosi di cosa nuova non ancora metabolizzata dalla fantasia popolare. In apparenza la Zan non chiedeva l'impossibile, cioè aggiungere all'art. 604 bis e ter, che puniscono "chi istiga a commettere o commette atti di violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi", anche quelli sul sesso, però precisando "sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere", e anche, e credo non c'entri col sesso, "la disabilità". Domanda sciocca: non bastava "sul sesso", o "sull'orientamento sessuale", sapendo che la parola gender, di cui io con molti altri non ho ancora capito il significato, fa imbestialire le autorità cattoliche, i profamilia e i "ci vogliono mamma e papà"? Io me ne stavo zitta zitta perché avendo la sfortuna di essere di sinistra sin dalla nascita temevo che sussurrando il minimo dubbio sull'efficacia del balsamo Zan e sulla probabilità di ottenerne l'approvazione sarei stata bollata oltre che di Alzheimer, di fascismo, omofobia, transfobia con tutte le variabili. Variabili di cui gli antiquati binari, e pure i gay non militanti, conoscono l'esistenza ma non (non so come dirlo) il funzionamento pratico, cioè cosa, come, con chi? Insomma si vorrebbe essere più informati oltre che dalle immagini dei celeberrimi Maneskin, dalla voce di Madame, le confessioni un po' confuse di adolescenti su Instagram, la meravigliosa serie Pose e quella illuminante che viene dal Messico, La casa dei fiori , 33 puntate di massima, simpatica confusione sessuale; oltre i nostri nipoti, che raccontano contenti delle compagne bisessuali e degli amici che alle feste arrivano con la gonna. E non solo ad Halloween. Poi ho letto su Repubblica un articolo del professor Carlo Galli, di suprema difficile luminosa scalata, che parlando di tattica politica e di scontro ideologico, mi ha incoraggiato ad assolvermi dando nobiltà ai miei rustici dubbi. Sempre Repubblica , che ogni tanto ci azzecca, ha ospitato un articolo del più odiato e forse più intelligente dei nostri attuali politici (pardon!) Matteo Renzi, cui è stata data la responsabilità del fallimento della legge Zan e mai nessuno che si ricordi che all'antipatico senatore quando era premier si deve la sola legge positiva per gli omosessuali, cioè le unioni civili. Altro sostegno l'ho trovato in Tommaso Cerno, da me votato a suo tempo, senatore gay del Pd che non ha votato la legge, «perché scritta male e perché ne andavano discusse modifiche che l'avrebbero fatta approvare». Io ho altri pensieri certamente prepolitici e antichi, per esempio che sia una legge soprattutto punitiva, e va bene, che però configura omo e trans solo come vittime, non in grado di difendersi, e non tiene conto che se io pestassi una non binaria direi che non sapevo che lo fosse e l'ho fatto perché aveva una maglietta con su scritto Dior e non è colpa mia se lo è. Anche l'idea della giornata contro l'omolesbobitransfobia è plumbea, perché non trovarne una positiva? Quanto alla scuola in cui Zan vorrebbe fosse introdotta una cultura del rispetto e della inclusione anche dell'orientamento sessuale (e che tra i ragazzi dovrebbe esserci già), non so, non mi fiderei; non è che tutti gli insegnanti in quanto tali la pensino così, non è che se gli viene in classe una bimba che vuole diventare bimbo e ne parla continuamente, sa come comportarsi. Del resto in questi fatti della vita i giovani oggi sono più avanti dei genitori e dei politici e hanno le loro fonti di informazione e svago (ignorate dagli adulti) forse pericolose, forse liberatorie. Insomma si spera che la prossima Zan sarà più realistica, più positiva, più approvabile.

Gigi Di Fiore per “Il Mattino” il 30 ottobre 2021. I contenuti del disegno di legge Zan bocciato dal Senato sono conosciuti dalla maggioranza degli italiani? C'è qualche dubbio che i dettagli dei dieci articoli del ddl sull'omofobia siano patrimonio diffuso. Lo confermano i sondaggisti e i dati delle opinioni raccolte sin da luglio sul disegno di legge Zan, diventato cavallo di battaglia politica dei dem, di Leu e dei 5 Stelle. Proprio come sono stati minoranza i votanti nelle recenti elezioni amministrative, anche sul ddl Zan è una minoranza ad averne conoscenza, almeno parziale. Spiega Antonio Noto, direttore di Ipr marketing: «Diciamo che generalmente l'opinione pubblica prende posizione su base emotiva sui diversi temi, senza approfondire. Sul testo Zan è passato il racconto che sia un provvedimento che, nella totalità, difende i diritti civili. Da qui l'idea che la sua bocciatura sia stata una lesione dei diritti civili generali». Subito dopo la bocciatura del ddl Zan, l'Ipsos Italia presieduto da Nando Pagnoncelli ha raccolto pareri sul tema della «discriminazione di genere in Italia». Il 54 per cento degli intervistati ha risposto che «esiste oggettivamente una discriminazione», mentre il 30 per cento che sia un tema «sollevato da pochi intellettuali». Un 13 per cento era senza opinione chiara. È emerso che un 41 per cento sul ddl Zan ha idee confuse. Dando un parere finale sulla legge, il 49 per cento la ritiene «giusta», il 31 per cento che è «sbagliata» e il 20 per cento non ha una sua opinione. Da qui le conclusioni della società di Pagnoncelli: «I risultati del sondaggio evidenziano, ancora una volta, una spaccatura nell'opinione pubblica su questo disegno di legge, in sintonia con il concitato dibattito politico sul tema dell'omofobia». Se solo una parte sa di cosa si parla, in questo gruppo minoritario sono in maggioranza i favorevoli al decreto Zan. E confermava già questo orientamento il sondaggio che a maggio ha raccolto la Swg, in cui un 57 per cento si dichiarava a favore della legge, mentre il 23 per cento era contrario. Il 43 per cento sosteneva invece che la legge andava modificata. Commentava, sempre a maggio, Alessandra Ghisleri, direttrice dell'Euromedia research: «Letta ha avuto sul ddl Zan un consenso nel Paese che risulta molto forte, più che su altre sue proposte». Dopo il voto al Senato, afferma ora Alessandra Ghisleri: «Non abbiamo, dopo la bocciatura parlamentare, ancora dati su come si sono modificati i consensi al provvedimento. Li stiamo raccogliendo per valutarli». Resta l'idea che, nel merito, sul disegno di legge Zan siano davvero in pochi a saperne a fondo, specie su quali siano gli aspetti controversi che hanno diviso i partiti. E afferma Nicola Piepoli, presidente dell'Istituto Piepoli: «La mia idea è che nella maggioranza del Paese non ci sia alcuna percezione reale sul testo e sul merito delle norme. Ora sono convinto che, dopo l'esito della votazione al Senato, non si parlerà di omofobia per molto tempo. Arriveranno altri temi caldi, come il Recovery che monopolizzeranno il dibattito politico e l'interesse del Paese reale». Un tema «divisivo», ma anche a conoscenza solo di una parte del Paese. E dice ancora Antonio Noto: «Raccontato come provvedimento di difesa dei diritti civili, ha raccolto consensi senza l'approfondimento dei dettagli delle norme. C'è stata una semplificazione culturale, che ha prodotto anche manifestazioni spontanee in piazza. Su questo tema, si conferma come l'opinione pubblica abbia reazioni emotive, sulla base di eccessive semplificazioni sui diversi temi».

Ettore Martinelli per “La Verità” il 30 ottobre 2021. Ecco, mancava proprio il ddl Zan a riempirci le giornate. Sono convinto che non sia diventato legge solo per il gusto di procurare una nuova rottura di scatole ai cittadini. Insomma, una meschina e ghiotta arma di distrazione di massa a uso e disgusto del popolino. Ma l'avranno letto il testo del proverbiale Zan? Dal vociare, parrebbe proprio di no. Fosse stato altrimenti non assisteremmo alle reazioni scomposte seguite alla votazione. Ne conoscessero il contenuto, non verrebbe considerato il baluardo dei diritti civili. Banalmente perché non c'entra nulla con l'estensione di diritti, al massimo si tratta d'una tutela ulteriore per le persone offese o umiliate nella loro identità. Una sorta di aggravante processuale è stata trasformata, dalla politica e dall'infinito mondo dei buontemponi, in strumento di battaglia civile e sociale. Il tutto in nome dei diritti civili, visto che parlarne va di moda e «rende» in contatti e talvolta persino in contanti. Gli importassero davvero codesti sacrosanti diritti negati, alzerebbero lo sguardo. Difatti altrove si consuma quotidianamente la lesione di diritti imprescindibili, che toccano persone in carne e ossa. Anziché guardare la realtà in maniera giudiziosa e adoperarsi per cambiarla si limitano a riempirsi la bocca con i «diritti civili». Eppure li ignorano. È più comodo trascurare questi temi dove invece occorre intervenire immediatamente. A partire dalle migliaia di lavoratori sfruttati e sottopagati, ad esempio. Ma Fedez e compari preferiscono la spensieratezza dei colori arcobaleno al sudore e alle lacrime dei maltrattati. Quando muoiono persone sul posto di lavoro o quando scendono in piazza denunciando le nuove forme di schiavitù, non se ne accorgono, la merce non è «instagrammabile». La politica, dopo l'esito dello scrutinio segreto al Senato, non si è smentita, anzi, ha dato il peggio di sé: «Chi per mesi ha seguito le sirene sovraniste che volevano affossare il ddl Zan è il responsabile. È stato tradito un patto politico che voleva far fare al Paese un passo di civiltà. Le responsabilità sono chiare», urla il deputato dem Alessandro Zan. Il centrosinistra si è perso per strada un gruzzolo di voti e la colpa di chi è? Del guastafeste Matteo Renzi. «Hanno voluto fermare il futuro», twitta Enrico Letta, «hanno voluto riportare l'Italia indietro. Ma il Paese è da un'altra parte. E presto si vedrà». Ci vuol coraggio. Giuseppe Conte, fedele alla linea del bla bla bla, registra: «Chi oggi gioisce per questo sabotaggio dovrebbe rendere conto al Paese che su questi temi ha già dimostrato di essere più avanti delle aule parlamentari». Ma di cosa sta parlando? Non poteva mancare Andrea Orlando, che sommessamente commenta: «Pensano di aver fatto un dispetto al Pd, hanno fatto uno sfregio all'Italia». Ma pensano chi? I democratici e i pentastellati sono in maggioranza dal Conte bis.

Maria Teresa Meli per il "Corriere della Sera" il 28 ottobre 2021. Non si vede nessuno del Pd. Quando la votazione è finita, il centrodestra ha riempito di applausi l'emiciclo di Palazzo Madama e i senatori hanno cominciato ad abbandonare l'aula, davanti alla buvette compare soltanto Roberta Pinotti che con lo sguardo torvo allunga il passo lungo il corridoio lasciando vuoti tutti i taccuini dei cronisti. Non si vede nessuno del Pd. Sono corsi tutti al Nazareno. Dopo il voto del Senato nella sede nazionale dem si è riunito una sorta di gabinetto di guerra ed è Enrico Letta, che ha fatto filtrare la linea decisa dal partito. Se ne prende la responsabilità: la linea su quel provvedimento è la sua. Il segretario, non si tira indietro e davanti ai suoi ci mette la faccia. Precisazione inevitabile, del resto, quella di Letta, per arginare il bailamme che dietro le quinte del Senato è scoppiato nel partito. Davanti, dopo la Pinotti, si erano viste del resto le lacrime di Valeria Fedeli. Andrea Marcucci si era sfogato su Twitter: «È stata una gestione fallimentare. Il partito dovrà interrogarsi a fondo su quanto è avvenuto». E a lui aveva fatto eco Dario Stefano, presidente della Commissione Politiche dell'Unione europea: «Sì, ci vuole una riflessione profonda». Chi non riflette è invece Ignazio La Russa. Il presidente dei senatori di Fratelli d'Italia non fa altro se non camminare avanti e indietro davanti alla buvette gongolando e godendo di tutti quei microfoni che lo inseguono, mentre il leghista Andrea Ostellari allunga le labbra stiracchiando addirittura un sorriso. A ridere di gusto ci penserà il pomeriggio il suo compagno di partito Simone Pillon, ineffabile con il suo cravattino nero. Incontra Gaetano Quagliariello e lo stringe in un abbraccio: «Ci hai regalato un sogno». L'esponente di «Cambiamo» è riuscito a portare i suoi sette voti al mulino del centrodestra. «Non è stato facile, ci sono diversi libertini tra i miei», dice mentre abbracciato a Pillon intona, parafrasando Massimo Ranieri: «Perdere la Zan, quando si fa seraaa...». E Tommaso Cerno, che non ha votato, osserva: «Era ovvio che finisse così, il Pd non ha voluto dare retta a me, unico gay dichiarato in Senato, ed è andato avanti sulla linea "o tutto o niente" con questo bel risultato». Ma Letta è convinto che «non vi fosse alternativa possibile, perché il centrodestra ai più alti livelli ci aveva già fatto sapere di non voler mediare». E ai suoi spiega: «Italia viva ci aveva promesso di essere compatta, così non è stato». Una versione che però non convince tutti, soprattutto i diretti interessati. Secondo Matteo Renzi i franchi tiratori «in realtà erano 40». Il leader di Iv ribalta l'accusa su Pd e M5S: «Non solo non conoscono la politica, ma nemmeno l'aritmetica». Già, anche il numero dei franchi tiratori in questa giornata caotica cambia a seconda di chi parla. Per i dem sono 16, per i giornalisti che nel pomeriggio impazziscono sui tabulati delle votazioni sono 23 e per Renzi addirittura 40. Al Nazareno comunque la parola d'ordine è: niente rimorsi. «Se avessimo accettato il rinvio la legge non sarebbe andata avanti e dopo un mese avrebbero accusato noi per questo ritardo». Letta non si pente nemmeno della linea dura di prima della pausa estiva. Gli alleati dei Cinque Stelle sono sospettati (non dai dem, o, almeno, non ufficialmente) di aver avuto più di un franco tiratore. Giuseppe Conte approda al Senato e dice ai suoi parlamentari: «Dobbiamo attaccare quelli di Iv». Qualche esponente del Pd, però, scuote la testa e ricorda: «L'ex premier non ha mai detto una parola per difendere il ddl Zan in tutto questo periodo...». Questo voto di ieri, però, racconta anche un'altra storia ed è un campanello d'allarme per Letta e Conte. È Pier Luigi Bersani a indicare il punto dolente: «Temo che sia stata una prova generale di quando si arriverà al quarto scrutinio per il Quirinale...».

Il dibattito sul ddl zan. Cosa prevedeva il ddl Zan: il gender, un’ideologia che cancella le differenze. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. Il ddl Zan è finito su di un binario morto. Mi capita quindi di essere ancora una volta “politicamente scorretto” su di un quotidiano come Il Riformista che non censura le opinioni. Io sono un sostenitore del bicameralismo paritario (come previsto dalla Costituzione); per questo ho votato No nel referendum sulla legge Renzi-Boschi come ho fatto anche nella consultazione riguardante l’amputazione di pezzi delle due Assemblea, tanto che nella prossima legislatura non si riuscirà non solo a formare le Commissioni (i relativi regolamenti sono ancora in alto mare) ma neppure a trovare il quarto per la partita a scopone. Tutto ciò premesso, devo dire grazie al Senato che anche in questa occasione ha dimostrato maggiore saggezza della Camera. A mio avviso, il ddl Zan era (l’uso dell’imperfetto è un auspicio) un’impostura, un maledetto imbroglio. Col pretesto di assicurare una maggiore tutela agli omotransessuali tentava di insinuare (articoli 1, 4 e 7) nell’ordinamento giuridico una visione ideologica, priva di qualunque riscontro scientifico. Il sesso – che è l’unico dato reale ed evidente – veniva relegato ad un tratto di penna all’anagrafe, ad un adempimento burocratico che avrebbe imprigionato, surrettiziamente, il corpo alla natura degli organi genitali. Tutto ciò passando sopra all’esistenza di differenze (visibili e intuitive) che da miliardi di anni distinguono in tutti gli esseri viventi il maschio dalla femmina (se esiste qualche specie ermafrodita mi scuso per la mia ignoranza). E sono quelle differenze che consentono di procreare. Da questo vincolo non si sfugge, nonostante tutti i surrogati e le diavolerie che una scienza, un po’ disumana e mercificata, ha inventato per sottrarre il concepimento alle leggi della Natura. Che cosa c’entrano i diritti civili (spesso evocati a sproposito) con l’identità di genere? Esercitare un diritto significa poter dare espressione libera alle proprie attitudini sessuali in un quadro di tutele contro la violenza, la discriminazione, la repressione; significa poter dare a queste unioni un riconoscimento giuridico con i relativi diritti e doveri. Vi sono opinioni che sostengono l’inutilità di sezionare per categoria i diritti di libertà, già ampiamente protetti in termini generali dalla Costituzione. Ad individuare delle categorie specifiche, con fattispecie di reati e di sanzioni rischia di limitare, non estendere il perimetro delle tutele per quelle categorie che non vengono ricomprese nell’elenco. In quell’Europa in cui si aggirava, nel XIX secolo, il fantasma del comunismo, oggi siamo chiamati a fare i conti con una nuova visione della biologia e dell’evoluzione, assolutamente priva di basi scientifiche. Su che cosa si basa, infatti, il concetto di gender? I suoi sostenitori rifiutano i concetti di dottrina e di teoria, ma come si deve definire un pensiero per cui l’identità sessuale di un individuo non viene stabilita dalla natura e dall’incontrovertibile dato biologico ma unicamente dalla soggettiva percezione di ciascuno che sarà libero di assegnarsi il genere percepito, “orientando” la propria sessualità secondo i propri istinti e le proprie mutevoli pulsioni. È il genere – come emerge nei testi in cui si diffondono queste teorie – che stabilisce, in ultima analisi, l’identità sessuale di un individuo. Non si è uomini e donne perché nati con certe identità fisiche, ma lo si è solo se ci si riconosce come tali. Non ci sono maschi e femmine ma ci sono semplicemente esseri umani liberi di assegnarsi autonomamente il genere che percepiscono al di là del loro sesso naturale. Le tradizionali identità di maschi e femmine diventano così dei vecchi clichés, delle categorie mentali superate, inadatte a rappresentare la complessità sociale moderna e per questo vanno rimosse. La parola chiave degli ideologi del gender è “decostruire”, ossia, cancellare la natura, tentando di smantellare, pezzo per pezzo, un pensiero considerato obsoleto e oramai fuori tempo. Ma se l’orientamento sessuale viene difeso dalla legge, per quale motivo la teoria dell’identità di genere (ovvero «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione») deve trovare posto, in modo arbitrario e truffaldino, nell’ordinamento giuridico alla stregua di un valore comune? Determinando così una vistosa contraddizione: quanto viene percepito diventerebbe reale a norma di legge, mentre ciò che è platealmente reale (il sesso) si trasformerebbe in un’opinione, magari un po’ retrò e a rischio di essere ritenuta una prevaricazione. Peraltro, a pensarci bene, il fatto che la combriccola del ddl Zan abbia rifiutato – come è stato sottolineato nel dibattito – ogni mediazione e abbia deciso di resistere fino in fondo nella difesa degli articoli ‘’ideologici’’ significa che era questo per loro l’obiettivo più importante, alla faccia della lotta alla violenza e alle discriminazioni. La caduta del ddl Zan deve divenire oggetto di un dibattito più ampio. Non può passare come un colpo di mano dei reazionari bigotti, incapaci di interpretare i fenomeni evolutivi della società. Non basta evocare, alla stregua di un pensiero unico che non ammette né dubbi né repliche, i “nuovi” diritti civili, ignorando il loro lato oscuro, favorito oggi dallo sviluppo di innovazioni tecniche che aprono inedite prospettive (si pensi a tutte le possibili manipolazioni del feto consentite dalla tecnologia prenatale che ha già provocato un effetto eugenetico: la scomparsa dei soggetti down). Proprio la visione di queste nuove possibilità amplia lo spazio delle aspirazioni del singolo e dei gruppi, facendo perdere di vista il limite etico insito nel concetto stesso di libertà. È divenuto legittimo il dubbio che siano appunto le leggi a trasformare in diritti comportamenti, propensioni, attitudini riconducibili al massimo ad una idea di libertà. Per dirla con Dante lo Stato è sempre più disponibile a seguire il seguente principio: “libito fé licito in sua legge”, In una società organizzata è vigente solo il diritto positivo come determinato dalla stessa gerarchia delle fonti giuridiche? È questa una conclusione corretta, ma pericolosa, perché è diritto positivo anche quello vigente in uno Stato autoritario attraverso leggi promosse ed approvate mediante le procedura disposte dall’ordinamento e dagli organi (ordinari o straordinari) a cui è riconosciuto quella funzione nell’ambito degli assetti di potere esistenti, in una determinata fase storica. Un diritto positivo, un sistema di legalità, intesa come conformità alle leggi, esistono anche in uno Stato autoritario, in un regime dittatoriale e in base a quel sistema viene esercitata la funzione giurisdizionale. Senza scomodare il giusnaturalismo, nella storia del pensiero dell’umanità vi è sempre stato un sistema di valori, che si arricchisce nel tempo, a cui si ispira il diritto positivo, fino al punto di ritenere inique le leggi formalmente legittime che quei valori conculcano. Poiché il diritto naturale viene prima delle leggi i suoi principi non possono essere violati dal diritto positivo. Ciò accade non solo quando i diritti sono conculcati da un potere autoritario che li nega, li disconosce, li limita. Ma anche quando si abusa di essi, come in molti aspetti – quelli più controversi – del ddl Zan. Un ultima considerazione riguarda uno dei punti più controversi: come affrontare queste delicate problematiche con i minori. Un conto è educarli a rispettare la diversità da sé; è un altro paio di maniche spiegare loro che la diversità non esiste. Io non credo – come ho letto con grande dissenso – che si nasca omosessuali o eterosessuali; ma che lo si diventi. E che tanti di noi possono intraprendere e riconoscersi in ciascuna di queste attitudini in conseguenza di molti fattori che intervengono nella formazione della personalità. Per questi motivi ogni comunità familiare ha il diritto – sancito dalla Costituzione – di educare i figli secondo la propria coscienza e le proprie convinzioni; senza sentirsi colpevole di nulla se li si aiuta ad avere un orientamento eterosessuale. Certo, come in tutti i rapporti umani occorrono equilibrio, tolleranza e amore. Giuliano Cazzola

Dagospia il 29 ottobre 2021. Dal profilo Instagram di Alberto Dandolo. Mi fa molta tenerezza questa enorme onda di indignazione del popolo social e dei media in merito all'affossamento del Ddl Zan. Questo innaturale urlo di vergogna e di collettivo dolore, questa patetica difesa di un Ddl che la maggior parte di voi non ha probabilmente nemmeno letto mi inquieta. L'unica vergogna è stata semmai nella non volontà di arrivare a una democratica mediazione da parte di chi ci rappresenta. Nessuno la voleva in realtà sta legge! Altrimenti si sarebbe trovato un accordo. Ciò premesso, il Ddl se fosse passato così come era scritto sarebbe stato per alcuni versi assai pericoloso. Mi riferisco in particolare ad una clausola dell'articolo 4 che ribadiva la punibilità delle opinioni che integrerebbero il "concreto pericolo" che si compiano discriminazioni o violenze. Ma decidere cos' è che incita alla violenza e cosa no, sarebbe rimasta una prerogativa del magistrato. E questo è molto pericoloso perché le opinioni non possono correre il rischio di essere sottoposte ad una sorta di scrutinio giudiziario. Conferire sanzione normativa all'identità di genere avrebbe rappresentato un vero controsenso.  Soprattutto se poi fossero stati puniti quelli che non condividono quest' ideologia. È invece, al contrario, proprio la libertà di pensiero ed espressione a costituire la base di tutti i diritti. Basta lasciare ogni persona libera di scegliere il comportamento sessuale che preferisce, senza che questo debba avere a che vedere con la sua identità sessuale. Un controsenso anche la istituzione di una giornata sulla omotransfiobia che doveva essere celebrata nelle scuole. Ma ai bambini non si dovrebbe semmai insegnare il rispetto dell'altro in generale, di ogni persona, di ogni essere umano anziché insegnare il rispetto per categorie (i disabili, gli omosessuali...)??? Alcune categorie sono protette e vanno rispettate. E gli altri? Per fortuna il Paese reale è assai più avanti delle leggi e dei ddl. Io se fossi in alcuni di voi mi indignerei per ben altro in questo momento storico. 

Da “la Repubblica” il 29 ottobre 2021. Caro Merlo, molti hanno detto che il ddl Zan è imperfetto o scritto male (condivido in parte), ma che andava votato comunque. Davvero è meglio una cattiva legge che nessuna legge? Non si poteva fare di più? Matteo M. Mauro 

Risposta di Francesco Merlo: Si doveva fare di più. La verità spiacevole è che anche il deputato Zan è stato inadeguato. Intanto avrebbe dovuto evitare le troppe imperfezioni, anche linguistiche, che hanno indebolito la legge, perché se è vero, come ha detto Emma Bonino, che non si vedono leggi perfette da tempi immemorabili, è anche vero che proprio questa doveva essere formalmente inattaccabile. Poi, non solo in un libro, Zan si è messo a fare allusioni sui parlamentari di destra che nascondono le tendenze gay, così impoverendo di forza e serietà una materia di libertà e non di peccati, di diritti e non di gossip. Con il fallimento, infine, della mediazione che Enrico Letta gli aveva, con superficialità, affidato, Zan è diventato il nome di una sconfitta, come Waterloo e come Caporetto.

Luca Ricolfi per “il Messaggero” il 29 ottobre 2021. Non ho idea di che cosa abbia spinto Enrico Letta e il suo partito a rifiutare, fin da prima dell'estate, ogni compromesso sul ddl Zan. Errore di calcolo? Voglia di inasprire lo scontro con il centro-destra? Manovre sull'elezione del presidente della Repubblica? Chissà. Ora che la frittata è fatta, e che l'approvazione di una legge conto l'omotransfobia è rimandata alle calende greche, forse varrebbe la pena che il Pd esaurita la raffica di contumelie contro la destra retrograda, razzista e omofobica si fermasse un attimo a riflettere. Tema della riflessione: come mai i dubbi sul ddl Zan, anziché essere esclusivi della destra, sono così diffusi anche dentro il campo progressista? Già, perché al segretario del Pd forse è sfuggito, ma la realtà è che le perplessità sul ddl Zan sono piuttosto diffuse in diversi settori della sinistra. E in molti casi non sono di tipo tattico, come quelle espresse da Renzi e dai suoi, per cui sarebbe meglio una legge imperfetta che nessuna legge. No, ci sono movimenti, associazioni, politici, studiosi di area progressista che sono convinti che si possa fare una legge a tutela delle minoranze migliore e non peggiore del ddl Zan. Chi sono? Diverse associazioni femministe, tanto per cominciare. Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 Paesi, riuniti sotto la sigla Whrc (Women's Human Rights Campaign). La rappresentante italiana nella Whrc è Marina Terragni, da decenni impegnata nelle battaglie per i diritti delle donne, degli omosessuali e dei transessuali. A queste associazioni non piace che le donne, che sono la metà dell'umanità, siano trattate come una minoranza; ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato ad esempio in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori. Poi ci sono gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l'impianto della legge, e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l'articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 («I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d'istruzione da impartire ai loro figli»). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c'è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia del primo Governo Prodi. Ma forse il caso più interessante, e clamoroso, di disallineamento con l'integralismo Lgbt di Letta e del Pd è quello dell'estrema sinistra, in Europa ma anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie Lgbt, e più in generale le battaglie per i diritti civili, sono guardate con ostilità come campagne di distrazione di massa, che la sinistra riformista irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato utilizzerebbe per spostare l'attenzione dal vero problema, ossia l'arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista, come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché «la legge aggiunge reati, non diritti») o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti Lgbt e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere se stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore sono talora venute anche da un riformista doc come Federico Rampini). E poi ci sono i (pochi) politici progressisti fuori dal coro, che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d'accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge. Ma forse il caso più interessante di posizionamento politico è quello di Stefano Fassina, ex parlamentare Pd, poi transitato in Sinistra italiana e approdato a Leu. In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell'affossamento del ddl Zan, Fassina non solo osserva che l'articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per «il suo portato di arbitrio giurisdizionale», ma afferma che «sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull'articolo 1 (quello che definisce l'identità di genere come scelta soggettiva). Quell'articolo, infatti, introduce «norme che si configurano come visione antropologica - legittima ma di parte». Una visione che «non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale». Che dire? Forse una cosa soltanto: una parte del mondo progressista, Letta o non Letta, continua a ragionare con la propria testa. Ed è un bene, perché certe battaglie, come quelle sul pluralismo e sulla libertà di espressione e di educazione, hanno più probabilità di essere vinte se non diventano proprietà esclusiva di una sola parte politica.

Laura Cesaretti per “il Giornale” il 29 ottobre 2021. «Il ddl Zan? Altro che legge di civiltà che ci allontana da Polonia e Ungheria: un testo tardo-medievale, già vecchio, malfatto: per questo non ho partecipato al voto». Tommaso Cerno, «unico gay dichiarato del Senato», eletto nelle liste Pd, non nasconde il suo dissenso dalla battaglia epocale intrapresa dai dem, e fallita miseramente mercoledì. Racconta di aver provato per mesi, anche con interventi pubblici, a convincere il suo partito a correggere le principali storture, anche per evitare contraccolpi. «Ho ripetuto in tutte le salse che quel testo aveva molti difetti, che rischiava di istituire un grottesco e sbagliato reato di opinione, che poteva essere migliorato. Invece lo hanno proclamato intoccabile, come se Zan fosse Mosè e il suo ddl fossero le tavole della legge dettate dal dio dei gay». La linea massimalista ha prevalso, anche se era chiaro che questo avrebbe creato problemi di numeri. Tommaso Cerno dice di essere stato tagliato fuori: «Mi hanno escluso da qualsiasi tavolo sulla questione, nonostante io sia l'unico gay dichiarato di Palazzo Madama, perché contestavo il merito della legge e la linea dem del tutto o niente. Sono arrivati persino a telefonare alle trasmissioni tv che mi invitavano, per dissuaderle. Mercoledì ho chiesto di intervenire in aula e mi è stato detto che era un dibattito solo procedurale e non serviva. Si sono comportati da omofobi, loro che si dipingono come omofili». Prima dell'ultimo passaggio parlamentare, racconta, «mi ha telefonato Zan dicendo ti prego, aiutami. Ma ormai c'era poco da aiutare: il risultato era scritto, e del tutto prevedibile. Arrivati al voto, ho comunicato che non avrei partecipato, per evitare di passare per boicottatore a voto segreto». I franchi tiratori, sostiene, sono stati molti più di quelli contati dal Nazareno: «Il Pd dice 16, Matteo Renzi dice 40, secondo me qualcosa di meno. Per stare certi direi 31, visto che so chi sono i 15 del centrodestra che hanno votato con il Pd a sostegno del ddl, e 16 più 15 fa trentuno. Ora Enrico Letta dà tutta la colpa a Renzi, ma anche se tutti quelli di Italia viva avessero votato col centrodestra, non hanno certo quei numeri. Molti franchi tiratori venivano dal Pd: alcuni perché condividevano le mie critiche al testo, altri perché molto cattolici e quindi contrari in toto». Che il voto di ieri fosse un salto nel buio si sapeva, ma il Pd gli è corso incontro: «L'unica cosa che gli importava non era avere una buona legge, ma avere una bandierina con il marchio Pd. Si sono appesi al feticcio di una legge al ribasso, nata vecchia e scritta male, hanno raccontato che avevano i voti, e il risultato si è visto. La destra ha fatto quel che aveva annunciato, con qualche senatore che ha votato dall'altra parte. La sinistra ha fatto la sinistra, e si è spaccata. Ora scoprono che sull'elezione del capo dello Stato ci sarà il mercato delle vacche: forse devono provare ad eleggere un gay». E se gli si chiede perché il Pd ha dato retta a Zan e non a lui replica: «Mah, cosa le devo dire, siamo tutti finocchi ma qualcuno è più finocchio degli altri».

ESTRATTO DELL’ARTICOLO DI JACOPO IACOBONI PER LA STAMPA il 29 ottobre 2021. Non è vero che tutto il mondo LGBT abbia battezzato il colpevole. Certo, la destra ha mostrato di nuovo il suo volto, con gli sconci applausi in Senato. Certo, molti nella comunità LGBT sono sicuri che Italia Viva abbia sommato i suoi voti a quella destra. Ma altri fanno ragionamenti diversi: ci sono stati grossi problemi anche tra i cattolici del Pd, e del M5S. Cerno: “Molti franchi tiratori venivano dai dem”. Franco Grillini rilancia: “Presenteremo una proposta per estendere la legge Mancino, così si toglieranno tutti gli alibi”

Il pifferaio magico. Augusto Minzolini il 28 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'espressione l'aveva coniata non più di una settimana fa proprio Enrico Letta, rivolta ai leader sovranisti che hanno secondo lui l'abitudine di menare il can per l'aia. L'espressione l'aveva coniata non più di una settimana fa proprio Enrico Letta, rivolta ai leader sovranisti che hanno secondo lui l'abitudine di menare il can per l'aia, ma dopo l'affossamentro del ddl Zan, non me ne voglia, quel nome si attaglia perfettamente proprio al segretario del Pd: pifferaio magico. Eh sì, perché Letta - dopo aver fatto la voce grossa per mesi, rispondendo picche ad ogni trattativa sul testo di un provvedimento che ha diviso il Paese; e ancora, dopo aver riaperto la porta ad una mediazione e dopo averla richiusa tentando una prova di forza -, si è ritrovato in mano un pugno di mosche e una grande responsabilità: ha impedito al Paese di fare un passo avanti sulla strada dei diritti civili nel tentativo velleitario di farne due e, alla fine della storia, è stato costretto a tornare due passi indietro. Una sconfitta politica di non poco conto, che dimostra come Letta sia affetto della stessa sindrome di cui in questa legislatura hanno sofferto in momenti diversi altri due «pifferai magici»: il Matteo Salvini del Papeete e il Giuseppe Conte dell'ultima crisi di governo. Una malattia che ha un sintomo inconfondibile, l'arroganza di immaginare di potere tutto. Se Salvini si è contagiato per un'ubriacatura da sondaggio mentre Conte ha risentito dell'ebrezza degli indici di popolarità, il segretario del Pd ha perso la testa per il risultato dell'ultima tornata di elezioni amministrative. La malaparata sul ddl Zan gli ha ricordato che la situazione è molto più complessa e che questo Parlamento è una brutta bestia per tutti. Non c'è nessun uomo forte, ma tante debolezze. Il voto di ieri è stato non solo un pizzino di Matteo Renzi al leader dei democratrici, ma anche la fotografia delle tante anime che compongono il Pd e delle mille fazioni in cui si dividono i 5 stelle. Un segnale che non si esaurisce sul ddl Zan ma, soprattutto, è un monito per una battaglia ben più strategica, quella che riguarda l'elezione del nuovo inquilino del Colle. Inoltre la vicenda di ieri evidenzia un baco nella strategia di Letta: se l'asse con il Pd rimedia simili figuracce in un Parlamento in cui i grillini hanno il doppio dei seggi che gli assegnano ora i sondaggi, è evidente che l'idea guida della politica di Letta, cioè l'asse preferenziale con Conte, non va da nessuna parte. Soprattutto, il nuovo Ulivo che è nella mente del segretario del Pd si infrange sull'incompatibilità tra l'area centrista e quella grillina. Ora Letta può anche infischiarsene, può continuare a suonare con il piffero la stessa musica, ma rischia di portare il nuovo Ulivo alla disfatta sia nella battaglia per il Quirinale, sia nelle elezioni politiche del 2023. Provocando la morte prematura della sua creatura. Augusto Minzolini

Popolo buono, Parlamento cattivo. Il girotondismo di Letta e il ritorno dell’antipolitica. Mario Lavia su L'Inkiesta.it il 29 Ottobre 2021. La logica binaria è dominante nei ragionamenti del segretario: il Partito democratico è il bene, tutti gli altri il male. Questo atteggiamento populista sul ddl Zan rischia di assecondare l’umore generale di un Paese sempre più lontano dalle istituzioni. La scoppola sulla legge Zan almeno un pregio ce l’ha: mostra plasticamente che questo è un Parlamento vecchio («Così si leggerà tra dieci anni nei libri di storia») a fronte di una società che è molto più avanti. Non è che sia contento, Enrico Letta, ma insomma adesso è più chiaro dove stia il Partito democratico – con i diritti – e dove la destra – con la Polonia e l’Ungheria – una destra a cui si sono accodati altri, Italia viva e Forza Italia. Nella versione agrodolce di Letta tutto è più limpido, adesso risulta evidente che si è trattato di «una trappola ordita da tempo». L’obiezione verrebbe automatica – ci siete cascati – ma ormai la vulgata è passata, noi buoni gli altri cattivi, il resto sono chiacchiere da Transatlantico, roba da addetti ai lavori: il popolo è con noi. Qual è dunque la morale della favola, secondo il leader del Pd? Qual è la lezione di fondo, diciamo, al di là della politica stretta, cioè la (definitiva?) rottura con Italia viva? Ascoltandolo ieri a Radio Immagina (la web radio del Pd), dove per il segretario erano giunte tantissime richieste di rompere con Matteo Renzi, è sembrato di cogliere due discorsi in uno. Il primo, ovvio, è quello intriso di amarezza per come sono andate le cose, per il tradimento di «quelli che hanno seguito Matteo Salvini e Giorgia Meloni» per fare «giochini politici sulla pelle delle persone», cioè Renzi con cui non c’è più fiducia e Forza Italia che ha preferito Viktor Orbán a Ursula Von der Leyen, amarezza perché «i numeri ci sarebbero dovuti essere» ma poi qualcuno ha disertato dietro lo scudo del voto segreto. Però poi, come dicevamo all’inizio, c’è un’altra faccia della medaglia, come se il voto sulla Zan avesse portato un raggio di sole a squarciare la nebbia politica e regalato agli elettori distratti un vistoso elemento chiarificatore, chi sta di qua e chi sta di là, secondo la logica binaria dominante nei ragionamenti del segretario: ed è un discorso che però finisce per ammantare il Parlamento in carica di un’aura di arretratezza culturale a forti tinte di immoralità, persino, per cui la logica conseguenza democratica dovrebbe essere quella della richiesta di elezioni immediate che Letta ovviamente non può avanzare e mai avanzerà finché c’è Mario Draghi a Palazzo Chigi. Di qui il contrasto tra un oggi morto e un domani che stenta a nascere nel quale il Pd non sembra mai azzeccare i tempi della lotta. Ma il racconto lettiano non solo non contraddice ma rischia di assecondare l’umore generale di un Paese sempre più lontano dalle istituzioni e dalla politica rischiando così di tagliare l’erba su cui egli stesso cammina e di portare legna da ardere su quel falò dell’antipolitica che può bruciare anche il Partito democratico che non si salverebbe neppure se cavalcasse l’onda antiparlamentare. E d’altra parte non è una posizione facile quella di sparare contro questo Parlamento “ungherese” dove si fanno «i giochini» mentre proprio in quello stesso Parlamento si è voluta issare la bandiera della legge Zan malgrado tutte le risapute difficoltà, anche a rischio, come si è verificato, di uno smacco parlamentare e dove peraltro si ha intenzione di tornare con una nuova Zan sotto forma di legge di iniziativa popolare (ma perché non dovrebbe essere bocciata anche quella?) e poi sullo Ius soli; e sparare su tutti mentre si sta al governo insieme con Italia viva, Forza Italia e persino con la Lega, con i traditori e gli oscurantisti. Enrico Letta pensa di sfuggire alle contraddizioni dell’oggi «guardando avanti» – è una locuzione che ripete spesso – contando cioè sull’assioma che la società sia più avanti del Parlamento riproponendo implicitamente che esso non sia lo specchio del Paese e dunque predisponendosi chiaramente allo scioglimento di un nodo che verrà tagliato alle elezioni del 2023: il che è un modo psicologico per preparare la piattaforma culturale e d’immagine della campagna elettorale del Pd, quella del nuovo contro il vecchio, cadendo nel rischio che si annida in questo schema di contrapporre il popolo buono alla politica cattiva, nella qual cosa sta il germe del girotondismo dei primi anni del secolo sbracato poi nel populismo grillino degli anni Dieci perlomeno nei suoi aspetti più a-democratici. Ed esattamente come nel populismo scattano in queste ore nel segretario del Pd gli allarmi contro i complotti, le trame, i giochini, i tradimenti – i buoni contro i cattivi – e dà per scontato, nel caso specifico, che i renziani abbiano tutti e 12 votato per la tagliola e pazienza se degli altri voti mancanti il segretario non parla, né si pone il problema che il suo Nuovo Ulivo è già secco, tanto in ogni caso era una trappola ma almeno ora tutti sanno che «il Pd sta dall’altra parte»: ecco, questo tratto immacolato portiamolo a petto nudo nelle piazze, anzi, nelle Agorà ove il popolo buono propone con un clic e sceglie con un like. 

MARCO CONTI per il Messaggero il 29 ottobre 2021.

Senatore Marcucci Perché sul ddl Zan non si è seguito il metodo usato per portare a casa nella scorsa legislatura le unioni civili?

«Il confronto mi sembra molto difficile, intanto perché le Unioni Civili sono nel nostro ordinamento grazie al fatto che il governo di Matteo Renzi, allora in carica, mise la fiducia. Questa volta sul ddl Zan, per la sua natura istituzionale, secondo me molto opportunamente, l'esecutivo è rimasto alla finestra». 

Domenica scorsa Letta aveva aperto alla mediazione, ma poi al tavolo Leu e M5S non si sono presentati. E stato un errore lasciare a Zan la mediazione?

«Se il Pd rinuncia al confronto ed al riformismo come metodo di lavoro, sceglie la politica delle bandierine e della rigidità, rischiamo l'isolamento e l'impossibilità di incidere in Parlamento.

Questo è ciò che è successo al Senato sul ddl Zan. È stato un errore e dobbiamo chiedere scusa, tutta la classe politica dovrebbe farlo piuttosto che accusarsi a vicenda, perché l'Italia aspettava e voleva una legge contro l'odio è per la difesa dei diritti, in particolare dei più deboli. Quando la politica non è capace di mediare, di concretizzare, e migliorare la vita dei cittadini, fallisce sempre».

Lo scontro continua, teme conseguenze sul governo?

«Penso e spero di no. Il governo di Mario Draghi sta programmando con molta serietà l'uscita del Paese dalla colossale crisi causata dal Covid. Disturbare il guidatore in questo caso sarebbe ancora più grave del solito. Apprezzo la responsabilità e la flemma del Presidente del Consiglio: sono ottimista, non ci saranno conseguenze». 

Il voto di ieri l'altro per qualcuno serviva per ridefinire i confini del campo largo?

«Le dico la verità, sullo Zan gli errori partono da lontano. Il segretario Letta partecipò a un'assemblea di gruppo dei senatori dem a maggio scorso ed annunciò in quella sede che il disegno di legge sarebbe stato immodificabile. In quell'occasione iniziai a pensare che si stesse tentando di issare più un vessillo propagandistico che lavorare a una legge vera sui diritti. Non è questione di campo largo, credo che si sia proprio sbagliato il campo di gioco. I riformisti in Parlamento dovrebbero lavorare soprattutto su leggi che hanno la concreta possibilità di essere poi approvate. È il passaggio fra annunciare le cose e farle davvero che ci deve differenziare». 

Letta dice che con Iv si è rotto il rapporto di fiducia, quindi niente apertura al centro come sembrava dopo la direzione di lunedì?

«Non cambio idea, le responsabilità sul fallimento dello Zan vanno equamente divise tra tutti, anche noi del Pd abbiamo sbagliato. Avvicinarsi e parlare ai riformisti significa anche evitare che lo faccia prima la destra, sia in vista del Quirinale che delle elezioni politiche».

Il risultato del voto di martedì emargina il Pd dalla partita del Quirinale?

«Bersani, che ha lanciato questo allarme ieri, ha vissuto sulla sua pelle le incertezze che si registrano quando si sceglie un nuovo Capo dello Stato. In più, oggi, a differenza di altre volte, arriviamo a quel voto con una maggiore frammentazione parlamentare, con il M5S che sta attraversando una fase interna assai delicata, con altre divisioni in altri gruppi parlamentari. In ogni caso ogni partita ha la sua storia. E molto dipende anche da come queste si gestiscono oltre che al contesto. Di certo non si possono commettere gli stessi errori».

Mentre il centrodestra si ricompatta sul nome di Berlusconi come successore di Mattarella, il Pd fatica a trovare un nome con i 5S dove si riscopre la corsa solitaria. Si tornerà ad una legge elettorale proporzionale?

«Ogni cosa a suo tempo. Ho già detto del mio ottimismo, alla fine sono convinto che il buon senso prevarrà e che avremo un Capo dello Stato all'altezza della situazione. Quanto alla legge elettorale, dopo febbraio bisognerà correre. Pensare di votare con il Rosatellum, in presenza della riduzione di parlamentari, significherebbe lasciare molti territori senza rappresentanza, un vero e proprio vulnus democratico. Io spero ci siano le condizioni per un sistema proporzionale con soglia alta di sbarramento».

Antonello Piroso per la Verità il 29 ottobre 2021. Cari amici, vicini e lontani, della sinistra (chiunque voi siate: nel senso che non mi è chiaro quante e quali sinistre ci siano oggi in Italia, ma transeat), capisco vi sentiate «sinistrati», dopo l’intervenuta «tagliola» sul ddl Zan, ma vorrei provare a sottoporvi alcuni spunti di riflessione: 

1.Vi siete impossessati dello slogan «legge e ordine», tipicamente di destra. Norme, sempre più norme, che dovrebbero garantire una più efficace repressione dei comportamenti criminali o criminogeni. Per capirci, con un esempio necessariamente grossier, prendiamo l’omicidio, articolo 575 del codice penale: «Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito...». Lo disciplinano anche altri articoli che aumentano la pena, se sussistono la premeditazione o le cosiddette aggravanti (assassinio per motivi «futili e abietti», la compresenza di «sevizie» o «crudeltà» ecc).

2 Ad un tratto, però, si è ritenuto che tutto questo non bastasse più, e si è iniziato ad inasprire ulteriormente le sanzioni in caso di determinate vittime. Come? O con l’introduzione di articoli bis, ter e quater, o con leggi ad hoc. Muore, o è vittima di brutalità o discriminazioni, un nero, un ebreo, un sionista, un arabo, un musulmano, e, perché no, un «terrone»? Ecco la norma nuova di zecca sul delitto compiuto per motivi di odio etnico-razziali, nazionali, religiosi. 

3 Stesso format con l’omicidio stradale (da colposo in volontario, con molti dubbi su estensione e campo di applicazione), nonché con la legge sul cosiddetto femminicidio, un pigro mantra come se fosse in atto uno sterminio del genere femminile da parte di maschi desiderosi di annientarlo, e non casi - sempre troppi, terribili e dolorosi - di donne uccise da uomini che non meritano neppure di essere definiti tali.

4 Quindi ci si è preoccupati dei comportamenti esecrandi, vili e sadici verso omosessuali e lesbiche, cui poi si sono aggiunti i trans, e poi i queer, gli asessuali, con la proliferazione dell’acronimo da Lgbt a Lgbtqia+ etc, da sanzionare anch’essi con prescrizioni app o s i te. 

5 La domanda sorge spontanea: quante e quali altre tipizzazioni delle vittime di violenza e omicidio vanno previste? Quali categorie andranno vieppiù protette? Se i minori sono tutelati, come la mettiamo per esempio con gli anziani? Immaginando il geriatricidio? E perché fermarsi agli umani? Che fare con soppressione e maltrattamenti dei nostri amici animali?

6 Manette agli evasori, spazzacorrotti, codice degli appalti, codicilli, editti, pandette e grida manzoniane. Massì, facciamo vedere che abbondiamo. Un aumento dei precetti penali, però, non comporta una diminuzione dei reati. Fosse così, avrebbero ragione i sostenitori della pena di morte. Che non è mai stato un deterrente, mentre semmai lo è la sua abolizione. Potete verificare voi stessi sul sito nessunotocchicaino.it: «Un rapporto ha esaminato i tassi di omicidio in 11 Paesi che hanno abolito la pena capitale, constatando che dieci di essi hanno registrato un calo di tale reato nel decennio successivo all’abrogazione». 

7 Vogliamo stigmatizzare lo spettacolo «indecoroso e degradante», «gli applausi e quell ’orrido tifo da stadio» intervenuti alla proclamazione del risultato sul ddl Zan? Facciamolo pure, ma evitando di fare i sepolcri imbiancati: sottintendere, o sostenere, che questo dimostrerebbe la consustanziale omofobia della destra (vi do una notizia: esistono gay pure lì) significa cercare di lanciare la palla in tribuna per occultare la sconfitta politica incassata, a colpi di franchi tiratori (a sinistra). Chi a destra si è lasciato andare a sgradevolezze, lo avrebbe fatto su qualsiasi altra mozione sostenuta dalla sinistra e bocciata dopo mesi e mesi di martellante campagna propagandistica a favore. L’incivile scompostezza dei politici, nelle aule parlamentari o fuori, è trasversale, e non è una novità, fin dal 1949 per l’adesione dell’Italia alla Nato: si vide un cassetto volare da una parte all’al - tra dell’aula. Senza dimenticare le scuse tardive, vedi Luigi Di Maio, il balcone, l’esultanza, l’abolizione della povertà: «Sbagliai il gesto e le parole».

 8 Ultimo, ma non in ordine d’importanza. Il segretario del Pd Enrico Letta, nel commentare la debacle, è ricorso ai toni apocalittici: «Hanno voluto fermare il futuro». Nientemeno. C’è da chiedersi: qual è invece il futuro di lavoro, previdenza, sanità, insomma, qual è il posto riservato a sinistra per i diritti sociali? Non è una provocazione, e non intendo certo declassare quelli civili, contrapponendoli ai primi. Ma è questione urticante. Lo certifica questo testo del dicembre 2017: «La motivazione fondamentale, e ufficiale, della rottura tra il movimento di Giuliano Pisapia e il Pd è stata la mancata tempestiva calendarizzazione in Parlamento dello ius soli, un argomento importante, una battaglia di civiltà, ma, rispetto alle questioni aperte, alquanto circoscritto». Circoscritto. Continuiamo: «Anche in questo caso si conferma una singolare inversione di priorità nelle politiche della sinistra: i diritti civili ormai prevalgono su quelli sociali, che hanno sempre meno spazio nei programmi». Però. Andiamo avanti: «Questo mutamento è evidente da quando a sinistra si è affermata la linea più liberale che socialista della “terza via”: i diritti (individuali) civili sono diventati centrali nella strategia di sinistra e di fatto la loro rivendicazione è diventata un alibi, una sorta di copertura, rispetto al fatto che le problematiche sociali venissero, se non abbandonate, lasciate sulla sfondo». I diritti civili come alibi. Conclusione: «Così facendo si ponevano le premesse per una rinnovata contrapposizione con la destra conservatrice su basi diverse rispetto al passato e per l’acquisizione del consenso dei ceti medi cosiddetti “riflessivi”. Ma al tempo stesso si minava alle radici il rapporto tradizionale tra sinistra e ceti popolari».

9 Su che giornale o sito di destra è comparsa tale critica analisi? Nessuno. :Le ritrovate sul web all’indirizzo nens.it, Nuova economia nuova società, il centro studi fondato da Vincenzo Visco e da Pier Luigi Bersani. Non riesco a immaginare qualcuno più a sinistra di lui (senza offesa). ANTONELLO PIROSO 

Ddl Zan, ecco chi sono i traditori giallorossi. Francesco Boezi il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. In Senato si fanno i nomi dei parlamentari del Pd che avrebbero "tradito" Enrico Letta sul ddl Zan. La fronda cattolica ha deciso di ascoltare il Vaticano. Qualche defezione del Partito Democratico c'è stata eccome: questa è la spiegazione maggioritaria tra quelle che circolano sulla votazione relativa al Ddl Zan. Tra i corridoi del Senato, si fanno i nomi delle senatrici Valeria Fedeli, Valeria Valente e dei senatori Stefano Collina e Dario Stefano. Ma di senatori del Pd che hanno votato in maniera contraria a quanto indicato da Enrico Letta e compagni ce ne sarebbero almeno altri tre. Quei 24 voti di scarto, altrimenti, si spiegano con difficoltà. E il resto delle defezioni potrebbe essere attribuito ai grillini. I pentastellati, del resto, non sono mai stati un coro unanime in materia bioetica e affini. Il segretario del Partito Democratico non ha voluto dialogare con le forze del centrodestra sul merito del disegno di legge. Questo è avvenuto nonostante Lega e Forza Italia avessero manifestato una ferma volontà di discutere, pur di approvare una legge in grado di contrastare l'omofobia. Anche Italia Viva di Matteo Renzi, a dire il vero, si era detta disponibile ad una revisione parziale del testo di Zan, con la proposta di Scalfarotto. Il testo dal quale, l'onorevole Lella Paita, ad esempio, chiede ora di ripartire. Il punto di caduta, tuttavia, è rimasto il profilo ideologico della proposta. Ma pure su quell'aspetto Letta non ha voluto sentire ragione. E oggi il Ddl Zan è affondato. Pallottoliere alla mano, è possibile dire che anche nel partito che ha sede nel nazareno non esisteva una vera e propria unanimità sul provvedimento. "È vero - vocifera una fonte de ilGiornale.it, tra gli addetti ai lavori - quella di oggi è una vittoria dei cattolici del Pd". Il Vaticano, del resto, era stato chiaro sul punto. E tanti appelli sono arrivati ai parlamentari cattolici durante i mesi in cui è andata avanti la discussione politica. Tra questi moniti, proprio quello proveniente dalla Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicata da Il Giornale in un articolo a firma di Felice Manti. L'ex Sant'Uffizio aveva spiegato quale dovesse essere il corretto atteggiamento che un parlamentare di fede cattolica avrebbe dovuto tenere nei confronti del ddl Zan. Stando ai numeri che sono emersi oggi a Palazzo Madama, verrebbe da dire che più di qualche senatore piddino, magari cattolico, ha deciso di dare ascolto a quell'appello o comunque di procedere in senso opposto all'ostruzionismo portato avanti da Enrico Letta e dal MoVimento 5 Stelle, che ha chiuso a sua volta qualunque linea per il dialogo. Decisiva, per l'esito della votazione, è stata la compattezza del centrodestra. Pochissime defezioni tra gli scranni di Forza Italia, Lega e Fdi, che si sono espressi, loro sì, all'unanimità. Forse uno dei due voti di astensione proviene da quelle fila, ma niente più. Al massimo si è verificato un solo voto contrario alla "tagliola". Poi, oltre a questo dettaglio, c'è il caso del senatore Elio Vito che, avendo annunciato da tempo di votare con il Pd, aveva pure dichiarato che avrebbe lasciato l'incarico in Forza Italia in caso di passaggio della "tagliola" con il supporto del centrodestra. Per quel che riguarda il centrosinistra, qualche mal di pancia era emerso in tempi non sospetti. L'ex ministro Valeria Fedeli, ad esempio, aveva già dichiarato di essere quantomeno dubbiosa sulla natura del testo, pur sottolineando che, per ragioni legate alla necessità di non dividere il Pd, avrebbe votato comunque. Ma le cose potrebbero essere andate in maniera diversa. Al netto dei "sospetti" ventilati su Repubblica, per quel che riguarda Italia Viva, invece, tra i corridoi del Senato non si parla di defezioni: dal partito fondato dall'ex premier fanno sapere di aver votato in maniera compatta con il Pd. Qualche franco tiratore, come premesso, potrebbe risiedere tra le fila del MoVimento 5 Stelle. Sono sedici, del resto, i voti che mancano ai giallorossi rispetto ai conti che erano circolati.

Ddl Zan, il vero omofobo è il Pd. IL DISEGNO DI LEGGE LIBERTICIDA È STATO AFFOSSATO PER BUONA PACE DEI CENSORI ARCOBALENO. Giovanni Sallusti il 27 Ottobre 2021 su NicolaPorro.it. Sì, l’omofobia ha stroncato ancor prima di nascere il Ddl Zan, e non ci si meravigli per la tesi. Che differisce da quella mainstream per un solo, lievissimo dettaglio: il punto di osservazione. Chi ha ucciso politicamente l’idea, e perché. Come ha capito quasi chiunque, ma non dice pressoché nessuno, l’idea l’ha uccisa il Pd, con le incursioni delle squadracce arcobaleno Zan-Cirinnà e la benedizione dell’ex democristiano Enrico Letta, ridotto a luogocomunista politically correct. E l’hanno fatto costoro, i buoni, i civili, i #restiamoumani, per un approccio omofobo nel senso lato e peggiore, subdolamente discriminatorio e sostanzialmente offensivo. Una commedia dell’ipocrisia svolta in passaggi successivi e strettamente collegati tra loro, che val la pena di riepilogare, prima di essere sommersi dalla retorica lacrimevole sul diritto stracciato, che peraltro era da sempre la tappa finale.

Primo: proclamarsi esclusivi depositari della causa gay, Lgbt, dei diritti civili, della “tolleranza” popperiana (quindi liberale, non ex o post-cattocomunista!), frullando la lunga e molteplice storia del movimento omosessuale italiano in un santino social, come se il pioniere libertario Angelo Pezzana fosse pari alla censora liberticida Vladimir Luxuria, come se difesa dell’individuo e attacco del dissenso coincidessero, e non fossero i perfetti opposti. Il tutto peraltro soprassedendo allegramente sull’oggettiva storia omofoba di famiglia, come se il Pd non fosse il partito erede di quel Pci che cacciò Pier Paolo Pasolini per “indegnità morale” e come se il Che Guevara ostentato tutt’oggi in numerose piazze sinistre non avesse allestito graziosi campi di concentramento per gay (loro, si sa, non devono chiedere scusa mai, mentre qualunque dirigente della destra italiana del 2021 deve ripudiare la marcia su Roma del 1922 fino al settimo grado di parentela).

Secondo: su questa presunzione farlocca di superiorità etica, si costruisce un disegno di legge irragionevolmente talebano, che compromette palesemente una quisquilia costituzionale come la libertà di pensiero (articolo 4 del Ddl Zan) e fa delle intricatissime tematiche dell’identità di genere (su cui si è lontanissimi dall’avere una quadra in ambito scientifico, pedagogico, psicanalitico) del disinvolto materiale di chiacchiericcio (non vogliamo dire propaganda, non siamo talebani all’incontrario) nelle scuole (articolo 7). Su queste premesse oltranziste, e de facto oscurantiste, si rifiuta qualunque minimo elemento di confronto civile e culturale, di dialettica parlamentare, di trattativa, ovvero si deraglia scientemente dall’ambito della politica, per entrare in quello della teologia. Laica e arcobaleno, ma pur sempre teologia: il Ddl Zan è il Bene legislativo incarnato, o ci si inginocchia o si cade nell’apostasia. Vien da sé che rifiutando di calare le altisonanti e non impegnative dichiarazioni di principio nel terreno fattuale, sofferto e vincolante della politica, si fa un torto anzitutto alla battaglia con cui formalmente ci si trastulla. I diritti o stanno nella realtà effettuale e imperfetta della politica, o sono sermoni di convenienza.

Terzo: si finisce per far naufragare il disegno di legge esclusivo e imprescindibile, non si fa neanche finta di elaborare il presunto lutto, e si passa subito all’incasso ideologico, l’urlaccio propagandistico contro la destra barbara e retriva. È la linea che dà subito il compagno segretario Letta su Twitter: “Hanno voluto fermare il futuro. Hanno voluto riportare l’Italia indietro. Sì, oggi hanno vinto loro e i loro inguacchi, al Senato. Ma il Paese è da un’altra parte. E presto si vedrà”. Del resto, è quello che volevano da subito, e i manganellatori fucsia meno accorti come Monica Cirinnà lo avevano già dichiarato quest’estate: “Sì, voglio morire in battaglia insieme ai gay, ai trans, ai bambini libellula”. È la retorica della “bella morte” nella ridotta ultra-Lgbt (che non ha convinto molte esponenti storiche del femminismo italiano e anche molti omosessuali non intruppati), non a caso materiale attinto dall’immaginario della Repubblica di Salò, per dire il tasso di liberalismo e di disposizione al dialogo.

Sintesi inevitabile: per mesi abbiamo assistito a una strumentalizzazione conclamata, selvaggia, oggettivamente cinica e falsamente paternalista della causa omosessuale, culminata nello psicodramma di oggi al Senato e nel prossimo tormentone sui sovranisti che “hanno fermato il futuro”, logico sviluppo del tormentone antifascista tornato buono sotto elezioni. Come si vede, per questa gente i gay, le lesbiche, i transessuali e gli altri appartenenti alla galassia Lgbt rappresentano, nel migliore dei casi, quelli che Lenin chiamava “utili idioti” a disposizione del Partito. È fin peggio, che la mera omofobia. Giovanni Sallusti, 27 ottobre 2021

Casa Sinistra. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 28 ottobre 2021. L’incomunicabilità tra conviventi non è prerogativa dei coniugi: esiste anche nella casa scombiccherata che va dai nostalgici di Blair a quelli dell’Urss e che per abitudine e approssimazione ci accomodiamo a chiamare ancora Sinistra. A ogni svolta più o meno decisiva, questo connubio di individualisti che si credono altruisti va a picco tra reciproche accuse di arroganza e una caccia ai traditori guidata quasi sempre da un traditore. Dopo la carica dei 101 grandi elettori che impallinarono Prodi, ormai più famosi dei cani di Crudelia, adesso tocca ai 16 (la Storia si ripete in forme più stitiche) che hanno affondato il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia a causa della fobia che molti di loro provano per gli alleati, facendo mancare i voti a un provvedimento d’aula che in gergo è chiamato “tagliola”, forse nella presunzione che a cascarci dentro potessero essere delle volpi e non, come invece è stato, i soliti polli. Per evitare l’ennesima figura barbina sarebbe bastato che i variopinti inquilini della casa facessero qualcosa non di sinistra, ma di inedito: parlarsi. Discutere, litigare, mediare e poi uscirsene fuori con un accordo di compromesso che, non accontentando nessuno, potesse venire condiviso da tutti. Uno sforzo evidentemente superiore alle forze di questa congrega di “Lei non sa chi sono Io” e di “Lei non sa che sono Dio”, specializzati nel presentarsi agli appuntamenti con la sconfitta in ordine sparso: Renzi in Arabia e gli altri, come sempre, su Marte.

Zan, il grande bluff del Pd. Addio al ddl sull'omofobia. Laura Cesaretti l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. Altro che priorità. I democratici si oppongono alla calendarizzazione del testo: non hanno i voti. Ricordate il ddl Zan? Ecco, scordatevelo: ieri, con l'avallo del Pd, è stato rinviato sine die. Ed è assai improbabile che riemerga dalle secche del Senato, se non profondamente cambiato. Fino a un mese fa la legge contro l'omotransfobia sembrava la priorità numero uno nell'agenda politica del Pd: «Su questo andremo avanti, punto - giurava a luglio Enrico Letta - chi ci vuole attrarre in un pantano di negoziazioni vuole solo far saltare una legge necessaria e urgente». Lo slogan «Ddl Zan subito» veniva ripetuto senza tregua sui social dalla propaganda dei partiti della sinistra, le accuse di ostruzionismo omofobico contro la destra che ne ostacolava l'approvazione si sprecavano. Poi, con l'avallo del Pd, il ddl è stata rinviata a dopo le vacanze, prima che l'aula di Palazzo Madama iniziasse a votarlo. Alla ripresa dei lavori, secondo quanto avevano promesso i dem, la legge sarebbe dovuta tornare immantinente all'attenzione del Senato: «Chiederemo subito la calendarizzazione», avevano giurato i dirigenti parlamentari del Pd. Ieri era finalmente l'occasione, con la prima conferenza dei capigruppo post-vacanze, convocata per decidere il calendario con la legge anti-omotransfobia in testa alla lista dei provvedimenti rimasti in sospeso. Ma il Pd non solo non ne ha chiesto l'inserimento all'ordine del giorno, ma si è anche detto contrario alla richiesta in tal senso fatta dal capogruppo di Iv Davide Faraone. Risultato: di ddl Zan non si parlerà più fino a ottobre inoltrato, dopo il secondo turno delle amministrative. «Anche Letta non vuole: troppi provvedimenti delicati in ballo, e il clima pre-elettorale non aiuterebbe», è stato il succo delle spiegazioni che la capogruppo Simona Bonafè ha dato a chi tra i suoi chiedeva ragione della ritirata. In realtà, le ragioni sono le stesse per cui il Pd volle il rinvio del ddl a dopo le vacanze: i voti per approvarlo non ci sono. Nei Cinque Stelle e nel Pd stesso serpeggiano dubbi e resistenze, e tutti sanno da tempo che a voto segreto il testo originario verrebbe crivellato di colpi. E che l'unico modo per varare una legge contro le discriminazioni è quello di trattare con l'opposizione, modificando alcuni articoli tra i più contestati, per ottenerne il voto. Salvini si era detto disponibile, ma il Pd ha sdegnosamente rigettato la mediazione: «Vogliono cambiare il testo solo per rimandarlo alla Camera e scordarselo. Meglio votare subito», era il refrain dei dem. Ora è il Pd che preferisce scordarselo, per evitare di andare al voto amministrativo dopo una sconfitta in aula, o dopo essersi rimangiato il «no» alle modifiche e avere aperto la trattativa con la Lega, come li invitava da tempo a fare Matteo Renzi. Si prende tempo fino alle elezioni, e dopo si deciderà: o il ddl Zan verrà definitivamente sepolto, col silenzioso assenso del Pd, oppure si cercherà un accordo con la Lega per farlo passare. Ma è una mossa che il Nazareno può permettersi solo a urne chiuse, per non perdere la faccia con i suoi elettori. Dal centrodestra si prende di mira la ritirata dem: «Vogliono parlarne dopo le elezioni», dice Ignazio La Russa, «ci hanno fatto impazzire, ci hanno fatto portare il provvedimento in aula prima che fossero conclusi i lavori della commissione per l'urgenza che avevano. Adesso se ne parla dopo le elezioni. Strane le urgenze a doppia velocità». E proprio di omofobia, paradossalmente, Matteo Salvini accusa il dem Zan, reduce da Mykonos con la rivelazione di aver visto un deputato leghista baciare un uomo: «Se un mio parlamentare bacia un uomo o una donna sono affari suoi. Denunciarlo denota l'omofobia, l'arroganza e il razzismo che spesso stanno a sinistra». Laura Cesaretti

SALVATORE DAMA per Libero Quotidiano l'11 settembre 2021. Anno 1994. Esattamente martedì 22 marzo. Mancano pochi giorni alle elezioni politiche, che si sarebbero celebrate domenica 27. Una data a suo modo scolpita nella storia recente. Perché Silvio Berlusconi, dando vita a una coalizione tra diversi partiti- Forza Italia, Lega Nord, Alleanza Nazionale, Ccd -, riesce a vincere contro ogni pronostico. Sconfiggendo quella che, non senza ironia postuma, fu ribattezzata la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto. Uno dei fatti nuovi della politica è Alleanza Nazionale. Gli ex missini attirano l'interesse di vari reduci della vecchia partitocrazia. Ma, al Nord, fanno proseliti anche tra i leghisti. Che pure sono un movimento di avanguardia. Succede così che alcuni di loro mollano Umberto Bossi e passano con Gianfranco Fini. Questa transumanza non piace a un giovane studente padovano. All'epoca non c'era internet. Non c'erano i social. Pure il popolo dei fax era ancora in fase embrionale. Per divulgare la propria opinione c'era la posta. Si andava all'ufficio di corrispondenza con una lettera scritta a macchina e la si spediva a un quotidiano.

APPELLO ACCORATO Il ragazzo in questione si dichiara un elettore della Lega Nord e, infatti, non scrive all'Unità, ma a L'Indipendente, già diretto da Vittorio Feltri, quotidiano molto attento alle dinamiche interne del centrodestra. La lettera viene pubblicata. È il 22 marzo 1994, come si diceva. Colonna di sinistra della pagina «Tribuna aperta», dedicata al contributo dei lettori. Titolo: «Attenzione ai transfughi». Firma: Alessandro Zan. Da Mestrino, Padova. Un rapido controllo anagrafico non lascia dubbi. Al Comune di Mestrino è risultato residente un unico Zan Alessandro, classe 1973, nato a Padova e trasferitosi a Mestrino, appunto, nel 1979, al seguito della famiglia, quando aveva sei anni. All'inizio della lettera pubblicata da L'Indipendente il ragazzo parte con le presentazioni: «Sono uno studente universitario». E anche questo torna. Alessandro Zan nel 1994 ha quasi 21 anni e frequenta il corso di Ingegneria delle Telecomunicazioni all'Università di Padova. Quindi, scorrendo il testo, arriva la dichiarazione di fede politica: «Alle ultime elezioni politiche», rivela il giovane Alessandro Zan, «ho dato il mio voto alla Lega Nord proprio perché pensavo, e lo penso ancora, che questo movimento politico attraverso la spinta federalista potesse prima smuovere il vecchio sistema partitocratico e poi avviare l'Italia verso una struttura federalista». Anche questo dato temporale coincide. Le precedenti politiche si erano svolte nel 1992, quando l'attuale promotore della legge contro l'omotransfobia, raggiunta la maggiore età da un anno, aveva potuto barrare convintamente il simbolo del Carroccio.

«CON UMBERTO E MARONI» Ci crede proprio, Zan. Il suo è un leghismo puro, genuino. Per questo se la piglia con i «traditori» che hanno scelto An: «Concordo con Bossi e con Maroni, i transfughi che si muovono verso An fanno solo un favore alla Lega». Poi, cosa è successo? L'orientamento politico di Alessandro è virato da tutt' altra parte. A sinistra. E ci sta, è lecito. È stato assessore all'ambiente a Padova, quindi è sbarcato in Parlamento, eletto alla Camera prima con la lista di Sel (2013) poi riconfermato con il Partito democratico (2018). Ma, soprattutto, Zan è diventato un paladino dei diritti Lgbt, cosa che lo ha reso famoso alle cronache. È il firmatario dell'omonimo disegno di legge contro l'omotransfobia. Ma questa è una storia nota a tutti. Dell'infatuazione giovanile per la Lega, invece, non se ne sapeva nulla. Interpellato da Libero, il deputato del Pd conferma di essere l'autore di quella lettera. E precisa: «Sono cresciuto in una famiglia leghista come peraltro racconto anche nel mio libro, quello è un voto di un ventenne contro la partitocrazia della prima Repubblica che usciva da Tangentopoli e che conosceva esclusivamente quella realtà socio culturale, ma che nella lettera già rivendica con orgoglio di essere convintamente antifascista». Infatti, aggiunge Zan, «in quella lettera di quasi trent' anni fa denuncio la virata a destra della Lega che oggi è diventata omofoba e razzista. Poi a ventun'anni all'università aderisco ai movimenti pacifisti e di sinistra: la mia prima tessera di partito è stata quella dei Ds».

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 7 settembre 2021. Ma chi lo ha detto che un gay debba necessariamente essere a favore del ddl Zan? Lo prevede mica il nuovo codice etico imposto dal Pensiero Unico, per cui si è veri omosessuali solo se si votano le leggi caldeggiate dal Pd? Se fosse così, alla sigla LGBTQIA+ bisognerebbe aggiungere la lettera Z, una delle poche che manca, a indicare la fedeltà al guru Zan come requisito di certificata omosessualità. Viene da pensarlo leggendo le anticipazioni del libro "Senza paura. La nostra battaglia contro l'odio" (Piemme) di Alessandro Zan, il deputato Pd primo firmatario della cosiddetta legge contro l'omofobia. Denunciando la presunta doppia morale di molti politici di destra, il parlamentare dem, gay dichiarato, se la prende con «un deputato della Lega, incontrato in vacanza a Mykonos, del quale mi ricordo cartelli particolarmente aggressivi contro la legge Zan. Stava baciando un uomo». Sommo scandalo! Ma il problema qual è? Che un leghista vada a Mykonos? Che un leghista baci un uomo? Oche un gay sia contrario al ddl Zan? Esattamente quest' ultimo. Come può, è la logica del deputato Pd, un omosessuale tradire la Nostra Causa, sostenuta dalle associazioni arcobaleno, promossa dalla sinistra tutta, grillini compresi, e avallata dai grandi media buonisti, alfieri del politicamente corretto? Delle due l'una: o non è un vero gay o è un gay ipocrita. E cioè è talmente plagiato dal salvinismo da sacrificare pubblicamente la sua identità sessuale agli interessi superiori del partito. Questa tesi di Alessandro (Intolleran)Zan, presa alla lettera e estesa a tutti i gay, ha risvolti inquietanti: prevede cioè che, a prescindere, un omosessuale - di destra, di sinistra, di centro, apolitico - non possa dissentire dal Vangelo da lui predicato e codificato in quel testo sacro. E non possa, ad esempio, avanzare obiezioni sui rischi per la libertà di espressione e la libertà educativa nelle scuole né sull'utilizzo avventuroso a livello giuridico di concetti come «identità di genere» o sulle ricadute in termini di violazioni del principio di eguaglianza, per cui alcuni cittadini finirebbero per essere tutelati più di altri. No, se è gay, semplicemente deve adeguarsi, stare zitto o ancor meglio tifare a favore del ddl. Ammazza oh, alla faccia della libertà di pensare, oltreché di amare, degli omosessuali. È un fatto tuttavia, con buona pace dello Zan Alessandro, imperatore di tutti i rossi e gli arcobaleno, che gay dissenzienti, onesti intellettualmente e non intruppati nel gregge monopensante ce ne sono. Anche in Parlamento. Come quel Tommaso Cerno che, ai microfoni di Libero, aveva definito il ddl una legge «scritta male» che fa «troppo poco per conseguire gli obiettivi che si propone», aggiungendo: «Zan non è Mosè e non ha ricevuto le tavole della legge dal dio dei gay». Zan tuttavia crede di essere investito di un'autorità divina. E, in nome di quella, pretende di dividere l'umanità tra Giusti e Reprobi, e gli omosessuali tra chi è con noi echi è contro di noi. Questi ultimi meritano tutto lo sprezzo e lo sdegno possibili e magari la revoca dell'appartenenza alla comunità Lgbt. E menomaleche Zan si vanta di essere un paladino contro la discriminazione... Avesse usato un politico di destra le sue parole nei confronti di un deputato di sinistra, difensore della famiglia e scoperto a baciare un uomo, si sarebbe parlato di omofobia. Invece a Zan tutto è concesso. Insomma, altro che «senza paura». Nel caso venisse approvato il ddl, i primi ad avere paura dovrebbero essere gli omosessuali eterodossi, rei di pensare con la propria testa e costretti alla condanna per questo.

Dal “Venerdì di Repubblica” l'8 settembre 2021. Anni fa le scrissi parlando di amore, del mio compagno. Oggi potrei ripeterle le stesse parole, solo aggiornando i numeri. Siamo insieme da 35 anni, da cinque uniti civilmente, anche se io dico Sposati, con la maiuscola, e siamo Marito e Marito e non unito e unito (scusi l'ironia). L'amore permane, alimentato dalle nostre passioni comuni, da una mai cessata, dalla condivisione di tutto quanto accade, dal non lasciar passare nulla sulle spalle senza averlo almeno discusso insieme, quando non condiviso. La passione, quella corporale, come sempre giustamente dice, dopo un po' se ne va, talvolta torna, ma sono fuochi artificiali che durano quel tempo lì, ma servono anche quelli. Ma l'amor, quello spirituale, rimane e cresce se lo sai alimentare. Noi siamo ancora capaci di ridere insieme, ma anche di piangere, e persino di stare seri. Non siamo uguali, ci mancherebbe, anzi per certi aspetti siamo diversi, ma negli anni abbiamo percorso un cammino talvolta parallelo, talvolta convergente, ma sempre mano nella mano, e questa è stata la nostra forza. Siamo stati, e siamo tuttora, apprezzati da chi ci ha conosciuto, da chi ha percorso un po' di cammino insieme, e fortunatamente non siamo soli in questo ma molte nostre conoscenze hanno fatto percorsi simili. Quest' anno siamo andati al Gay Pride di Milano, fieri della nostra storia ma curiosi di quanto c'era di nuovo. In particolare ci ha colpito la grande quantità di giovani che in vario modo hanno partecipato alle giornate organizzate ma soprattutto alla finale all'Arco della Pace. Coloratissimi, fluidissimi, gioiosi, femmine e maschi e tutte le sfumature che possono passare tra questi due punti. Per noi è stata una gioia vedere come i ragazzi affrontano questa questione. Sono sicuro che c'erano molti che partecipavano per solidarietà ovvero perché credono nella libertà e non sono certo gay lesbiche o altro. Ma la loro presenza ci ha colmato di emozioni. Adesso c'è da vedere come andrà la legge Zan. Claudio Oscar Moschini - sacco25@tim

Risposta di Natalia Aspesi: Come ha visto, la legge Zan è stata rimandata. Del resto se ricorda, quella delle unioni civili è stata in sospeso per 40 anni, e solo il vituperato Renzi è riuscito a farla approvare, e quindi ad acconsentire a tanti, anche a lei, di diventare Marito di un Marito, come a tante Mogli di avere una Moglie. Noi tradizionalisti del sesso, o banaloni o privi di coraggio o trogloditi o quel che vuole lei, però democratici, già dall'inizio abbiamo partecipato festosissimi ai primi Gay Pride italiani e ricordo che chi li aveva, portava anche i bambini. Intanto complimenti: la descrizione che lei fa di una unione che dura da decenni, è quella di cosa si intende per matrimonio, che non sempre però riesce ad essere così. Io l'ho già detto tante volte, sempre insultata: l'unione più solida e serena è quasi sempre proprio quella tra persone dello stesso sesso, mi piacerebbe che un esperto mi spiegasse, se è vero, perché. Mi consenta un attimo di ironia: secondo lei, visto che l'informazione e la cultura non parlano che di trans, fluidi, gay, avrà diritto di essere rappresentata ancora la coppia etero, nei film, nei libri, nella vita?

"Versione luxury...", "Influencer..". La bufera su Fedez. Francesco Curridori il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. Fedez e sua moglie Chiara Ferragni dettano l'agenda della politica, soprattutto sul Ddl Zan. A tal proposito ecco le opinioni dei deputati Augusta Montaruli (FdI) e di Fausto Raciti (Pd) per la rubrica Il bianco e il nero. L'attivismo di Fedez e di sua moglie Chiara Ferragni a favore del Ddl Zan continua a dividere la politica. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo interpellato la deputata di FdI, Augusta Montaruli e il piddino Fausto Raciti. Cosa pensa dell'impegno mediatico di Fedez a favore del ddl Zan?

Montaruli: “Che appunto è mediatico e l’impegno non può essere consegnato ai like. Dopodiché il lusso non fa lo stile e la notorietà non fa la verità. Il tentativo di utilizzare la popolarità del personaggio Fedez così come di altri per fare pressione sull’approvazione del ddl zan avviene perché se gli stessi si calassero nella piazza reale subirebbero un irresistibile contraddittorio”.

Raciti: “Non ci vedo nulla di male né nulla di strano, da sempre le personalità della musica, della cultura, dello sport, del cinema, dicono la loro. Che Fedez faccia una diretta Instagram su un argomento popolare è del tutto in linea col suo modo di comunicare. È un influencer, no?”.

Secondo lei, Fedez punta a entrare in politica? Potrebbe avere successo?

Montaruli: “Non so a cosa punti Fedez sicuramente interpreta il suo personaggio da influencer. Non credo quanto un like possa trasformarsi in un vero consenso. Spero ancora che la politica sia un’altra cosa”.

Raciti: “Mi sembra uno abbastanza contento della vita che fa e dei soldi che guadagna col suo lavoro. Lavoro che sa fare molto bene dato che mi sta facendo un'intervista su di lui. Purtroppo molti politici sembrano degli influencer o gli piacerebbe sembrarlo, da un lato. Dall'altro il partito di maggioranza relativa è stato fondato e guidato da un comico”.

I politici fanno veramente tutti schifo, come dice la Ferragni oppure una frase del genere stavolta indigna meno perché è rivolta a Renzi che vuol modificare il ddl Zan?

Montaruli: “I politici non fanno tutti schifo e dirlo è grave sempre ancora di più se a prescindere dalle posizioni lo dice una persona che ha l’ambizione di comunicatore a tanti italiani soprattutto giovani. Minare la fiducia nei confronti dei politici e del dibattito politico è fare un danno alle nuove generazioni. Stiamo assistendo ad un grillismo versione luxury”.

Raciti: “Lo chiede a uno che si è iscritto a un partito a 15 anni e oggi fa il parlamentare, non sarò mai d'accordo con una cosa così qualunquista. Detto questo il nostro parlamento è pieno di gente che ci è entrata dicendo esattamente la stessa cosa. La Ferragni non è stata molto originale”.

Stefano Feltri, direttore del Domani, ha proposto di regolamentare Per legge l'influenza degli influencer. Lei sarebbe d'accordo?

Montaruli: “La differenza tra noi e Fedez è che noi rispettiamo la libertà di pensiero per questo non credo che ci possano essere provvedimenti che la limitano. Per ottenere par condicio versione social sarebbe già tanto arrivare ad impedire censure che attualmente avvengono da parte dei gestori ma sempre e solo a senso unico contro un’unica parte politica o persone che interpretano idee non compiacenti ai colossi della comunicazione”.

Raciti: “Non ho capito cosa dovremmo regolamentare. Mi sembra come quando si diceva che Berlusconi vinceva le elezioni per le televisioni di cui era proprietario. Poi ti accorgi, e le difficoltà di Forza Italia oggi lo dimostrano, che la situazione era un po' più complessa. Invece di fare leggi sugli influencer bisogna farle sui partiti, che oggi sono formazioni di latta. E finanziarli anche, perché è lì che si dovrebbe formare una classe dirigente”.

Fedez ha detto che avrebbe messo a disposizione una piattaforma online per discutere di politica. Non è un film già visto e mal riuscito?

Montaruli: “Assolutamente sì , non sarebbe una novità. La democrazia non può essere mai appannaggio di un click ed anche chi si è illuso in passato di ciò ha avuto e sta avendo in questo periodo la conferma del fatto che tali piattaforme hanno ridotto lo spazio di confronto”.

Raciti: “Non saprei che dirle. Mi sembra che quel tipo di cose le abbiano già fatte con successo altri, oggi in crisi. Non so se c'è ancora lo spazio per quel tipo di cose. Ma quindi non mi voleva parlare del ddl Zan? “ 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

Fedez, un nichilista esperto in giravolte. Karen Rubin il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Nella sua canzone "Tutto il contrario" Fedez si prendeva gioco di Tiziano Ferro, che coraggiosamente aveva dichiarato la sua omosessualità. «M i interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing. Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti. Si era presentato in modo strano con Cristicchi. Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?» Nella sua canzone «Tutto il contrario» Fedez si prendeva gioco di Tiziano Ferro, che coraggiosamente aveva dichiarato la sua omosessualità. Il video ufficiale, su Youtube, conta 12.623.407 visualizzazioni. Una realtà che non si attaglia all'attuale Fedez, paladino del mondo Lgbt, sostenitore del ddl Zan al punto da contrapporsi alla nota verbale con cui la chiesa cattolica auspica delle modifiche alla legge nel timore che vada in collisione con il Concordato. Ma perché si ritengono legittime le esternazioni di Fedez e non quelle di monsignor Galantino? Di Fedez sappiamo che ha frequentato un liceo artistico ma non si è diplomato, che ha scritto canzoni come «Tutto il contrario», «Generazione boh», «Faccio brutto», «Paranoia Airlines». Nunzio Galantino è laureato in teologia e filosofia con una tesi di laurea dal titolo «L'antropologia di Bonhoeffer come premessa al suo impegno politico». Bonhoeffer fu un teologo protagonista della resistenza al nazismo. Il monsignore ha insegnato nella scuola media statale e nelle università. Del rapper conosciamo moglie e figli esibiti sui social senza tutele per la loro tenera età, in pasto alla morbosità degli utenti. In rete una foto del piccolo Leone con il papà ha suscitato questo commento: «Sei un bel down come tuo padre». Ed ecco che a pagare le spese di questa sovraesposizione sono il bambino, inconsapevole, e le persone affette da sindrome di Down, grazie ad un circo organizzato per l'arricchimento personale mentre sponsorizza una legge che deve difendere la disabilità. Sappiamo che grazie a questa notorietà è diventato testimonial di Amazon, un'azienda criticata per le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti, ma è lui ad essere chiamato sul palco della festa dei lavoratori il Primo maggio. Il vescovo è noto per aver sostenuto la conoscenza di Antonio Rosmini, beato che sottolineò l'inalienabilità dei diritti umani della persona e sostenne la necessità della separazione del potere temporale da quello spirituale. Rosmini fu condannato dalla chiesa e poi riabilitato. Anche Fedez ha subito dure critiche quando per il suo compleanno, festeggiato in un supermercato, lui e i suoi amici hanno giocato a calcio con ortaggi e panettoni in barba alla povertà di cui soffrono milioni di italiani. La festa, trasmessa minuto per minuto sul profilo Instagram del rapper, è testimone di una scena che costrinse Fedez a fare una promessa di beneficenza riparatoria ai suoi follower inferociti. Ed è così che il nichilismo di Fedez si trasforma in filantropia, per riguadagnare un consenso andato perso. Karen Rubin

Dal palco l'attacco ad Ostellari per il ddl Zan. Primo Maggio, show di Fedez contro la Lega sul ddl Zan: “Rai voleva censurarmi”. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Maggio 2021. “E’ la prima volta che mi succede di dover inviare il testo di un mio intervento perché venga sottoposto ad approvazione politica, approvazione che purtroppo non c’è stata in prima battuta o meglio, dai vertici di Rai3 mi hanno chiesto di omettere dei partiti e dei nomi ed edulcorarne il contenuto. Ho dovuto lottare un pochino, ma alla fine mi hanno dato il permesso di esprimermi liberamente. Come ci insegna il 1 maggio, nel nostro piccolo dobbiamo lottare per le cose importanti. Ovviamente da persona libera mi assumo tutte le responsabilità e le conseguenze di ciò che dico e faccio. Buon primo maggio”. È l’intervento, tramite una story su Instagram, di Fedez, il rapper che stasera si esibirà Concertone del 1 maggio organizzato dai sindacati. Un intervento che arriva dopo un video pubblicato dal segretario della Lega Matteo Salvini, che ricordando il costo per gli italiani di circa 500mila dell’evento, attraverso la Rai, aveva denunciato che “i comizi ‘de sinistra’ sarebbero fuori luogo”. Non era quindi mancata la replica del rapper, che aveva ricordato all’ex ministro dell’Interno che al Corto organizzato da Cgil, Cisl e Uil “vado gratis e e pago i miei musicisti che non lavorano da un anno e sul palco vorrei esprimermi da uomo libero senza che gli artisti debbano inviare i loro discorsi per approvazione preventiva da voi politici. Il suo partito ci è costato 49 milioni di euro”. Ma contro Fedez sono intervenuto a spron battuto anche senatori e deputati della Lega in Vigilanza Rai Massimiliano Capitanio (capogruppo), Giorgio Bergesio, Laura Cavandoli, Dimitri Coin, Umberto Fusco, Elena Maccanti e Simona Pergreffi. Gli esponenti del Carroccio in una nota hanno avvertito la tv di Stato in questo modo: “Se Fedez userà a fini personali il concerto del 1 maggio per fare politica, calpestando il senso della festa dei lavoratori, la Rai dovrà impugnare il contratto e lasciare che i sindacati si sobbarchino l’intero costo dell’evento”. Secondo gli esponenti leghisti “se davvero il signor Federico Leonardo Lucia deciderà di promuovere la propria figura attaccando Lega e Vaticano, sarà un insulto al 1 maggio. Non si usano i diritti dei lavoratori per promuovere la propria immagine e fare ulteriori profitti. La Rai non può comprare interventi d’odio a scatola chiusa e non si invochi la censura, perché al rapper non mancano certo spazi per manifestare il suo pensiero, tra l’altro noto anche ai sassi. Viale Mazzini ha ancora qualche ora per rimediare, dopodiché la Lega si muoverà in tutte le sedi competenti. E i sindacati si ricordino che il lavoro appartiene a tutti, non lo si svilisca per regalare qualche like a un cantante milionario”.

IL MONOLOGO DI FEDEZ – Fedez sul palco del Concertone inizia il suo monologo rivolgendosi al premier Draghi: “Buon primo maggio a tutti i lavoratori, anche a chi il lavoro ce l’ha ma non ha potuto esercitarlo per oltre un anno – ha detto il rapper -. Per i lavoratori dello spettacolo questa non è più una festa. Caro Mario (rivolto al premier Draghi, ndr), capisco che il calcio è il vero fondamento di questo Paese, però non dimentichiamoci che il numero dei lavoratori del calcio e quello dello spettacolo si equivalgono. Quindi, non dico qualche soldo, ma almeno qualche parola, un progetto di riforma in difesa di un settore che è stato decimato da questa emergenza e che è regolato da normative stabilite negli anni 40 e mai modificate fino ad oggi. Quindi, caro Mario, come si è esposto nel merito della Superlega con grande tempestività, sarebbe altrettanto gradito il suo intervento nel mondo dello spettacolo”. Quindi l’attacco frontale alla Lega: “A proposito di Superlega, due parole per l’uomo del momento, il ‘sonnecchiante’ Ostellari”, presidente della commissione Giustizia del Senato e relatore del ddl Zan sull’omotransfobia. “Ha deciso che un disegno di legge di iniziativa parlamentare, quindi massima espressione del popolo, che è stato già approvato alla Camera come il ddl Zan, può essere tranquillamente bloccato dalla voglia di protagonismo di un singolo, cioè sè stesso. D’altronde, Ostellari fa parte di uno schieramento politico che negli anni si è distinto per la sua grande lotta alle diseguaglianze”, aggiunge ironicamente Fedez, elencando alcune delle frasi che esponenti del Carroccio hanno pubblicamente espresso in questi anni sul tema dell’omotransfobia, in alcuni casi anche chiedendo scusa. L’artista ricorda frasi come “se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno”, “gay vittime di aberrazioni della natura”, “i gay sono una sciagura per la riproduzione” o “il matrimonio gay porta l’estinzione della razza”. Fedez, poi, prende di mira anche i ProVita: “A proposito di diritto alla vita, quella del presidente dell’Associazione ProVita, l’ultra cattolico e antiabortista, Jacopo Coghe, amicone del leghista Pillon, in questi mesi è stata la prima voce a sollevarsi contro ddl Zan. L’anti-bortista, però, non si è accorto che il Vaticano ha investito più di 20 milioni di euro in un’azienda farmaceutica che produce la pillola del giorno dopo – dice dal palco Fedez -. Quindi, cari anti-abortisti, caro Pillon, avete perso troppo tempo a cercare il nemico fuori e non vi siete accorti che il nemico ce l’avevate in casa. Che brutta storia”, conclude.

LA NOTA RAI (SMENTITA DA FOA) – Viale Mazzini in una nota, rispondendo così a Fedez e alla sua denuncia di essere stato sottoposto ad approvazione, ha descritto come “fortemente scorretto e privo di fondamento” l’accusa da parte del rapper di aver chiesto preventivamente i testi del suo intervento. “Si tratta di una cosa che non è mai avvenuta”, si legge in una nota. ” Né la Rai né la direzione di Rai3 hanno mai operato forme di censura preventiva nei confronti di alcun artista del concerto – continua il comunicato -: la Rai mette in onda un prodotto editoriale realizzato da una società di produzione in collaborazione con Cgil, Cisl e Uil, la quale si è occupata della realizzazione e dell’organizzazione del concerto, nonché dei rapporti con gli artisti. Il che include la raccolta dei testi, come da prassi”. Una precisazione però incredibilmente "smentita" da fonti della presidenza Rai, che hanno spiegato come “la nota inizialmente diffusa dalla Rai su Fedez e il Concerto del Primo maggio non era stata sottoposta preventivamente all’approvazione del presidente Foa come di consueto”.

FEDEZ PUBBLICA IL VIDEO DELLA CENSURA – Come aveva preannunciato su Instagram, Fedez ha quindi pubblica su Twitter il video della telefonata incriminata, in seguito alla quale ha accusato la Rai di avere provato a censurare il suo monologo sul palco del Concertone del Primo maggio. “La Rai smentisce la censura – scrive Fedez -. Ecco la telefonata intercorsa ieri sera dove la vice direttrice di Rai 3 Ilaria Capitani insieme ai suoi collaboratori mi esortano ad ‘adeguarmi ad un sistema’ dicendo che sul palco non posso fare nomi e cognomi”. Poi pubblica il video nel quale lo si vede e sente mentre parla in viva voce e spiega cosa ha intenzione di dire sul palco, mentre dall’altro lato del telefono gli rispondono di non fare nomi e cognomi di politici perché “questo non è il contesto corretto”. “La direzione di Rai3 conferma di non aver mai chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al concerto del Primo Maggio – richiesta invece avanzata dalla società che organizza il concerto – e di non aver mai operato forme di censura preventiva nei confronti di alcun artista”. Lo comunica Rai3 con una nota. “In riferimento al video pubblicato sul suo profilo Twitter da Fedez – si legge nel comunicato – notiamo che l’intervento relativo alla vicedirettrice di Rai3 Ilaria Capitani (l’unica persona dell’azienda Rai tra quelle che intervengono nella conversazione pubblicata da Fedez) non corrisponde integralmente a quanto riportato, essendo stati operati dei tagli. Le parole realmente dette sono: ‘Mi scusi Fedez, sono Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai3, la Rai non ha proprio alcuna censura da fare. Nel senso che… La Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza, ci mancherebbe altro, né di quello che lei dirà”. E ancora: “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo […] Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto, ma questa è una cosa sua”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Carlo Moretti per repubblica.it il 2 maggio 2021. Fedez irrompe nel concertone a mezza sera con una lunga tirata politica e attacca la Lega. Nel suo discorso che, annunciato, nel pomeriggio aveva suscitato la reazione preventiva del leader leghista Matteo Salvini su Twitter, il rapper e influencer milanese ha attaccato le posizioni della Lega sul Ddl Zan e ne ha criticato alcuni esponenti elencando le loro frasi e definendole omofobe. "Oggi mi hanno chiesto come fosse la mia prima volta al Primo Maggio. Effettivamente è la prima volta anche di dover inviare un mio discorso perché doveva essere messo al vaglio della politica. Approvazione che in prima battuta dai vertici di Rai3 non c'è stata, perché mi hanno chiesto di omettere i riferimenti ai partiti, ai nomi dei politici. Ho dovuto lottare un pochino e alla fine mi hanno dato il permesso di dire ciò che dico, assumendomene le responsabilità. E comunque il contenuto è stato definito dalla vicedirettrice di Rai3 "inopportuno". Dopo un riferimento a Draghi chiamato solo Mario per il diverso trattamento riservato al mondo del calcio e al mondo dello spettacolo, vista la difesa del campionato per il tentativo della Superlega e il silenzio invece per lo stop di concerti e spettacoli live, Fedez ha attaccato: "Ostellari (Andrea Ostellari, il leghista a capo della Commissione Giustizia in Senato) ha deciso che un disegno di legge già approvato alla Camera può tranquillamente essere bloccato dall'iniziativa di un singolo, cioè se stesso. Ma d'altronde Ostellari fa parte di uno schieramento politico che negli anni si è distinto per la sua lotta all'uguaglianza. Vorrei decantarvi un po' di loro aforismi, se posso", ha aggiunto per poi citare frasi come "'Se avessi un figli gay lo brucerei nel forno', Giovanni De Paoli, consigliere regionale della Lega Liguria. 'I gay? Che inizino a comportarsi come tutte le persone normali', Alessandro Rinaldi, consigliere per la Lega, Reggio Emilia". Poi Fedez ha obiettato a Ostellari la necessità del Senato di concentrarsi su questioni più serie rispetto al Ddl Zan: "Si sono occupati di etichettatura del vino, la riorganizzazione del Coni, l'indennità per il bilinguismo dei poliziotti di Bolzano, il reintegro del vitalizio di Formigoni, evidentemente più importante dei diritti di tutti e di persone che vengono continuamente discriminate fino alla violenza". E a proposito della presa di posizione del vice-presidente di ProVita, "l'utracattolico e antiabortista Jacopo Coghe, amicone del leghista Pillon, è stato il primo a esprimersi contro il Ddl Zan ma non si è accorto che il Vaticano ha investito milioni di euro in un'azienda che produce la pillola del giorno dopo. Cercavate il nemico altrove ma non vi siete accorti che il nemico ce l'avevate in casa. Che brutta storia". Salvini in serata ha risposto con un post su Facebook in cui, tra le altre cose, ha scritto: "Chi aggredisce un omosessuale o un eterosessuale, un bianco o un nero, un cristiano o un buddhista, un giovane o un anziano, rischia fino a 16 anni di carcere. È già così. Reinvito Fedez a bere un caffè, tranquilli, per parlare di libertà e di diritti". E' poi intervenuto anche il deputato Pd Alessandro Zan che ha voluto ringraziare Fedez con un post su Facebook in cui si legge: "Il coraggio di Fedez al Concertone dà voce a tutte quelle persone che ancora subiscono violenze e discriminazioni per ciò che sono. Il Senato abbia lo stesso coraggio ad approvare subito una legge per cui l'Italia non può più attendere. Grazie Fedez". In serata anche la reazione della Rai, che si difende dall'accusa di censura: "Rai 3 e la Rai sono da sempre aperte al dibattito e al confronto di opinioni, nel rispetto di ogni posizione politica e culturale. È fortemente scorretto e privo di fondamento sostenere che la Rai abbia chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al tradizionale concertone del Primo Maggio, per il semplice motivo che è falso, si tratta di una cosa che non è mai avvenuta. Né la Rai né la direzione di Rai 3 hanno mai operato forme di censura preventiva nei confronti di alcun artista del concerto" dicono da viale Mazzini. E continuano: "La Rai mette in onda un prodotto editoriale realizzato da una società di produzione in collaborazione con Cgil, Cisl e Uil, la quale si è occupata della realizzazione e dell'organizzazione del concerto, nonché dei rapporti con gli artisti. Il che include la raccolta dei testi, come da prassi". Ma la reazione di Fedez non si è fatta attendere e su Twitter ha chiarito pubblicando la telefonata intercorsa con la vicedirettrice di Rai 3, Ilaria Capitani: "La Rai smentisce la censura. Ecco la telefonata intercorsa ieri sera dove la vice direttrice di Rai 3 Ilaria Capitani insieme ai suoi collaboratori mi esortano ad “adeguarmi ad un SISTEMA” dicendo che sul palco non posso fare nomi e cognomi".

Dagospia il 2 maggio 2021. Comunicato: La direzione di Rai3 conferma di non aver mai chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al concerto del Primo Maggio – richiesta invece avanzata dalla società che organizza il concerto – e di non aver mai operato forme di censura preventiva nei confronti di alcun artista. In riferimento al video pubblicato sul suo profilo Twitter da Fedez, notiamo che l’intervento relativo alla vicedirettrice di Rai3 Ilaria Capitani (l’unica persona dell’azienda Rai tra quelle che intervengono nella conversazione pubblicata da Fedez) non corrisponde integralmente a quanto riportato, essendo stati operati dei tagli. Le parole realmente dette sono: “Mi scusi Fedez, sono Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai3, la Rai non ha proprio alcuna censura da fare. Nel senso che… La Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza, ci mancherebbe altro, né di quello che lei dirà.” […] “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo […] Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto, ma questa è una cosa sua.”

Il paladino Lgbt con gli scheletri nell'armadio: le canzoni di Fedez contro i gay. Federico Garau il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Dopo il concertone del primo maggio, sono in tanti ad andare a scavare nel passato di Fedez. Ecco cosa abbiamo trovato. Delle frasi omofobe pronunciate dal nuovo paladino della comunità Lgbt Fedez? Sembrerebbe impossibile, visto l'ardore con il quale il rapper milanese ha voluto difendere la libertà di esprimere il proprio pensiero durante il concertone del primo maggio: uno sfogo telefonico coi vertici di "Mamma Rai", rei di aver limitato i contenuti del discorso a favore del ddl Zan che il cantante ha voluto portare integralmente sul palco. Fedez si è mostrato talmente convinto del fatto suo da aver violato le norme sulla privacy diffondendo, senza il consenso dei diretti interessati, la telefonata con la vicedirettrice di RaiTre Ilaria Capitani, con lo scopo di mostrare ai suoi follower la bontà dei suoi intenti e la "brutalità" della censura subita. Telefonata che, secondo l'emittente televisiva, è stata invece tagliata e incollata ad arte per ottenere l'effetto desiderato dal diretto interessato. Ma non è tanto la materia giuridica ad interessare, dato che se ne occuperà eventualmente chi di dovere ed ha gli strumenti adatti a dirimere la questione, quanto i trascorsi del rapper. In queste ore di caos totale, in molti si sono andati a cercare le canzoni più "spinte" del rapper. Il contenuto che ha destato più scalpore, ed è tornato prepotentemente alla ribalta in queste ultime ore, è una parte del testo della canzone" Tutto il contrario" (2011). Prendendo spunto dall'outing fatto da Tiziano Ferro, il rapper milanese aveva utilizzato delle parole abbastanza dirette e che non lasciavano spazio ad interpretazioni alternative: "Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing. Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti. Si era presentato in modo strano con Cristicchi: 'Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?'". Punto sul vivo dai troppi rimandi al testo, il rapper milanese, in evidente imbarazzo, ha voluto giustificarsi parlando di una canzone scritta quando aveva solo 19 anni e dunque anche della eventualità di poter cambiare idea rispetto al passato:"In questo momento alcuni leghisti stanno controbattendo riportando un vecchio testo di quando avevo 19 anni", ha dichiarato il cantante, come se si trattasse di un'attenuante da valutare. "Tutti cambiano idea nella vita. Il vostro leader è passato da “senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani” a voler governare il Paese", ha proseguito Fedez. "Comunque la mia canzone si intitola Tutto il contrario: io scrivo tutto il contrario di quello che penso. Non è difficile". Sempre nel 2011 ("Contenuti") comunque, lo stesso attuale paladino della comunità Lgbt, con l'intento di attaccare il Parlamento, si lasciava sfuggire un'altra espressione discretamente "ambigua": "Tu li hai chiamati e li chiami "membri del parlamento". Invece io li chiamo "parlamento di membri". Fuori, per minorenni e donne con il membro. Anzi donne con il ca**o così sei più contento". Nel 2011, Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, cantava anche "Ti porto con me". Nel testo, la frase, per nulla politically correct, "Non fare l’emo fr***o con lo smalto sulle dita". Proprio lui che adesso una linea di smalti l'ha addirittura lanciata. Facendo qualche passo indietro nel tempo (2006) la stessa intitolata "Canzone da gay" lascia ben poco all'interpretazione: "Io lo so che ti piaccion le canzoni da gay, devo farle perché a te piacciono. Io lo so che ti piaccion le canzoni da gay, più ti guardi allo specchio più ti credi una lei. Poi ti chiedi perchè faccio le canzoni da gay, perchè senza di te io come camperei?". Superando gli anni della pubertà del rapper e quelli della non ancora completa maturità (quella dei 19 anni, dopo i quali si può cambiare idea, come da lui stesso affermato), si può comunque fare un salto al 2020. Siamo ad un anno fa, quindi, coi 19 anni alle spalle da tempo e, probabilmente, anche con una importante modifica alle proprie idee già attuata. Eppure la canzone "Le feste di Pablo", rifacimento di un brano della giovane rapper Cara, contiene una parte di testo che ha irritato e non poco proprio la comunità Lgbt: "Pablo sei un pacco, tipo tipa con la sorpresa". Una frase che non c'era nella versione originale del pezzo, aggiunta dal cantante per dare un tocco personale al suo singolo. "Il punto, però, è che nel testo c’è una frase che gronda transfobia come un ghiacciolo lasciato al sole. Un "pacco", una fregatura, come una “tipa con la sorpresa” ovvero uno dei tantissimi modi denigratori con cui si definiscono le donne trans che non si sono sottoposte all’intervento chirurgico", commentavano lo scorso anno sul sito "gaypost.it". Insomma, il paladino ha qualche scheletro nell'armadio.

Chi è Ilaria Capitani e cosa ha detto a Fedez al telefono: “Nel video ci sono tagli, ecco com’è andata”. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Maggio 2021. La polemica incalza sul caso Fedez al concerto del Primo Maggio. Non solo per il suo monologo contro la Lega ma anche per l’accusa contro la Rai di aver tentato di “censurare” il testo del suo monologo o almeno di edulcorarlo. Il rapper ha attaccato i vertici di Rai3 anche durante il suo monologo sul palco e subito è scoppiata la bufera a colpi di richiesta di scuse da parte della Tv pubblica nazionale e dimissioni dei suoi vertici. Dopo una prima smentita da parte di Rai 3 Fedez ha pubblicato sui suoi social la registrazione della telefonata avuta con alcuni vertici Rai tra cui Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai 3.

La telefonata di Fedez con i vertici Rai. “Le asserzioni che riporto nel mio testo sono consiglieri leghisti che dicono ‘se avessi un figlio gay, lo brucerei nel forno’”, tuona Fedez. ‘Le sto chiedendo di adeguarsi a un sistema – si sente dell’altro capo del telefono – Tutte le citazioni che lei fa con nomi e cognomi non possono essere citate. Questo non è il contesto corretto’. Fedez replica: “Chi lo stabilisce? Io dico quello che voglio sul palco. Nel mio testo non c’è turpiloquio, sono imbarazzo per voi”. “Io ritengo inopportuno il contesto”, gli dice a quel punto la vicedirettrice Capitani. “Ma io faccio quello che voglio visto che non c’è contesto di censura”, sbotta lui che poi conclude: “Nel vostro futuro i diritti civili sono contemplati sì o no?”.

La replica della Rai: “Mai chiesto i testi”. “La direzione di Rai3 conferma di non aver mai chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al concerto del Primo Maggio – richiesta invece avanzata dalla società che organizza il concerto – e di non aver mai operato forme di censura preventiva nei confronti di alcun artista”. Lo comunica Rai3 con una nota. “In riferimento al video pubblicato sul suo profilo Twitter da Fedez – si legge nel comunicato – notiamo che l’intervento relativo alla vicedirettrice di Rai3 Ilaria Capitani (l’unica persona dell’azienda Rai tra quelle che intervengono nella conversazione pubblicata da Fedez) non corrisponde integralmente a quanto riportato, essendo stati operati dei tagli. Le parole realmente dette sono: ‘Mi scusi Fedez, sono Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai3, la Rai non ha proprio alcuna censura da fare. Nel senso che… La Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza, ci mancherebbe altro, né di quello che lei dirà”. E ancora: “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo […] Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto, ma questa è una cosa sua”.

La risposta di Fedez alla rai. Tramite le sue Instagram Stories, Fedez ha già fatto sapere che metterà “a disposizione la registrazione integrale della telefonata agli organi competenti della Rai laddove ci fosse la voglia di fare chiarezza su quanto accaduto. Anche se per ora vedo solo una gran corsa a discolparsi a prescindere da ciò che è successo”.

Chi è Ilaria Capitani, la vicedirettrice di Rai3. Ilaria Capitani è la vicedirettrice di rai Tre. È intervenuta nella telefonata con Fedez, quella in cui la Rai avrebbe chiesto a Fedez di edulcorare i toni del suo discorso. Prima di diventare vicedirettrice era caporedattrice del Tg2, per anni ha seguito Palazzo Chigi. È entrata in Rai nel 199 lavorando con Aldo Biscardi a Il processo del lunedì. Poi, in occasione delle Olimpiadi di Atlanta, il passaggio alla testata giornalistica sportiva della Rai. Per alcuni anni ha lavorato alla Tgr del Lazio, per poi arrivare a condurre Cominciamo bene. Successivamente torna in Rai per condurre il Tg Parlamento e rubriche di approfondimento politico.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Il commento del segretario della commissione di Vigilanza Rai. Caso Fedez, Anzaldi: “È l’apice del fallimento Rai targato M5S, è da anni che denuncio”. Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Maggio 2021. “Il caso Fedez rappresenta l’apice del fallimento targato Movimento 5 stelle nella gestione della Rai”. Così Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai è intervenuto con un post su Facebook sulla questione della presunta “censura” da parte della rai sul monologo di Fedez durante il concerto del Primo Maggio. “Da 3 anni il partito di Beppe Grillo, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Roberto Fico, Alessandro Di Battista gestisce la Rai, dopo aver guidato nei 5 anni precedenti anche la commissione parlamentare di Vigilanza Rai, e il risultato è questo – continua il post –  Da 3 anni denuncio violazioni, abusi, errori, malagestione di questa Rai e adesso, a pochi giorni dalla fine del mandato, c’è ancora chi si stupisce? Dalla Rai gialloverde alla Rai giallorossa, la principale continuità è stata quella di negare l’accesso agli atti in Parlamento sulle schede della votazione illegittima su Foa, che abbiamo chiesto insieme agli allora capigruppo Pd Delrio e Marcucci con atti ufficiali a Fico, Casellati, Barachini senza ricevere risposta”.

“Ecco perché è urgente chiudere definitivamente la stagione del Cda a guida M5s-Lega-Fdi e aprire finalmente una nuova fase ora pienamente nella responsabilità del presidente del Consiglio Draghi – scrive ancora Anzaldi –  Spetta a Draghi e al ministro Franco convocare al più presto l’Assemblea dei Soci Rai e chiudere ufficialmente il mandato di questi vertici, altrimenti saranno complici di situazioni come quella vista per il Primo Maggio”. “Dal caso del Concertone apprendiamo alcuni elementi davvero sconcertanti – denuncia Anzaldi –  Innanzitutto la Rai, guidata dall’amministratore delegato Salini scelto da M5s, conferma che la realizzazione dell’evento del Primo Maggio, trasmesso su Rai3 guidata dal direttore Franco di Mare scelto da M5s, è stata totalmente esternalizzata. A produrre lo spettacolo, a suon di centinaia di migliaia di euro pubblici, è stata l’ennesima società esterna. Perché la Rai M5s continua ad affidare all’esterno pezzi così importanti di palinsesto? Perché non è stata mai applicata la Risoluzione della Vigilanza contro i conflitti di interessi di agenti, autori e conduttori?” “Dalla telefonata con i vertici di Rai3 pubblicata da Fedez, come si evince anche dal comunicato stampa Rai, il cantante si confronterebbe sui contenuti del suo intervento non solo con la vicedirettrice della rete ma anche con un delegato della società esterna che avrebbe chiesto di verificare il contenuto del suo intervento: come è possibile che le società esterne decidano la linea editoriale del servizio pubblico? Per questo paghiamo il canone?”, continua il post. “La Rai è stata trascinata da questa dirigenza, la peggiore che l’azienda abbia mai avuto, in un polverone imbarazzante di tipo censorio per totale incapacità, se non peggio. E’ chiaro che in onda nessuno avrebbe potuto impedire ad un artista sul palco di esprimere liberamente il suo pensiero, è sconcertante l’intera gestione di questa vicenda – conclude il post Michele Anzaldi – Viene anche da chiedersi: perché Fedez si è prestato ad anticipare i contenuti del suo intervento alla produzione? Nella storia del Concertone gli artisti che hanno voluto manifestare liberamente il proprio pensiero, anche creando grandi polemiche, non hanno certamente mai chiesto il permesso”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Michela Tamburrino per “La Stampa” il 4 maggio 2021. Angelo Guglielmi lo ripete sempre. Lui la televisione ha smesso di guardarla, quasi in contemporanea con quando ha smesso di farla. Correvano gli Anni Ottanta a cavallo dei Novanta e lui era il guru di Raitre. Un mondo bell'e finito dal quale guardare l'oggi con occhi disincantati. Non guarda la tv ma i giornali li legge eccome, Guglielmi, la politica la sente nella pelle anche se l'ha praticata pochissimo.

Il suo è un approccio intellettual-passionale e la Rai è come se gli scorresse dentro. Guglielmi, ha visto la tempesta perfetta che si è scatenata in queste ore? Fedez, la censura, i politici della Lega, le accuse di omofobia dal palco del Primo maggio. La Rai, le telefonate e le smentite. Lei che ne dice?

«Lo chiedo da 40 anni, la Rai deve superare la lottizzazione che autorizza comportamenti indegni. La lottizzazione è uguale alla censura per chi vuole manovrare l'azienda».

Censure incrociate tra partiti?

«Ma certo. Mettiamo, io sono comunista, faccio qualcosa da comunista e un democristiano o un socialista mi censura. Abolendo questo sistema, anche i controlli saltano. Quello che è accaduto in queste ore è frutto di una scelta fatta dai Cinque stelle e dalla Lega che, all'indomani delle elezioni, forti del 33% e del 17%, decisero per questa dirigenza. Sono loro che per star tranquilli hanno tentato di controllare il testo di Fedez».

Lei perciò pensa che il rapper sia nel giusto?

«Credo in lui e in quello che ha detto nel suo libero canto. E credo pure che in Rai si siano spaventati negando di aver fatto quello che invece hanno fatto. Io credo a chi dice piuttosto che a chi nega».

Che cosa bisognerebbe fare?

«Bisognerebbe fare come dice il presidente della Camera Roberto Fico, abolire le nomine politiche. Lui fa un intervento a proposito di governance assolutamente condivisibile e lo fa contro il partito del quale fa parte, il M5S, e lo riconosce. Non più Salini, non più Foa ma un grande manager e un presidente che non si riferisce ai partiti. Adesso è tempo di tornare alla nomine di spessore. In fondo basta aspettare le scadenze a giugno».

Preoccupato? Scettico?

«Per quanto riguarda l'Ad sto tranquillo, perché del premier Draghi mi fido molto. Certamente segnalerà chi dice lui. Per quanto riguarda il Presidente sono più scettico. Eppure le condizioni ci sarebbero, nonostante l'azionista di riferimento sia il Mef. Con una maggioranza alle Camere tanto allargata, la politica potrebbe avere il coraggio di fare un passo indietro per guardare a un profilo di competenza che non faccia riferimento ad alcun partito. Sarebbe un bel segno di libertà».

Sarebbe una bella vittoria?

«Tornando indietro nel tempo, io fui il frutto di una nomina di fine impero. De Mita per la Dc, Craxi per il Psi e Veltroni, responsabile culturale del Pci, decisero di dare al Pci morente una rete, la terza. E arrivai io che non avevo mai fatto politica, pur avendo sempre votato Pci. Per 8 anni feci quello che ritenevo giusto, superai la fine dell'Urss, dei partiti italiani, della guerra fredda, di mani pulite. Ma non superai l'arrivo di Letizia Moratti, messa lì da Berlusconi, che prima mi chiuse in una stanzetta senza far nulla e poi mi propose di fare il professore ai nuovi direttori. Io la televisione la faccio, non la insegno. E me ne andai».

Da chi sarebbe composta la troika oggi?

«Non lo so. Io mi fido solo di Draghi. Mi piacerebbe che si avverasse quello che avevamo sperato, il superamento della lottizzazione. Dopo 40 anni, è tempo».

Carlo Freccero per “il Fatto Quotidiano” il 16 maggio 2021. Se dovessimo prendere alla lettera le affermazioni di Luttazzi, dovremmo concludere che, chiunque non abbia la possibilità di allestire un suo programma in Rai, pagato secondo le sue aspettative, sia un censurato. È come se Luttazzi fosse impermeabile allo scorrere del tempo. Il suo universo si è cristallizzato in un anno, il 2001, in cui è stato oggetto di processi che anch' io ho subito. Avrei voluto dargli una possibilità. Si è riproposto scrive lui, con le stesse tariffe di 12 anni prima e chiedendo assoluta libertà di espressione. Nel frattempo il mondo era cambiato e oggi lo è molto di più. In quanto alla valutazione dei compensi direi che sono stati svalutati. Il meccanismo dell'austerity ha prodotto, invece della svalutazione della moneta, una svalutazione feroce dei salari. Oggi l'Italia è un Paese di poveri. Oggi potersi esprimere liberamente è già di per sé un privilegio. E chi ha qualcosa da dire lavora su internet gratis o, al massimo, col contributo economico dei suoi ascoltatori. Io stesso ho accettato di dirigere la Rai senza compenso. Non solo, ho dovuto pure pagare le tasse sulle trasferte per servizio. Anche Fedez, comunque si vogliano valutare le sue affermazioni, quando ha denunciato la censura, ha potuto comunque dichiarare di non avere ricevuto compenso per il suo intervento. Luttazzi chiedeva un compenso di base di 100 mila euro a puntata come conduttore/autore a cui doveva essere aggiunto il compenso per altre voci, per un totale che, anche se non venne mai negoziato direttamente, era in ogni caso troppo al di fuori della possibilità della rete. Per questo non vi furono ulteriori trattative, che tra l'altro non competevano a me, ma al settore amministrativo. E veniamo al secondo argomento che Luttazzi sembra non comprendere: la compatibilità della singola trasmissione con la linea editoriale della rete è il raggiungimento dell'audience preventivata. Una volta la Rai aveva funzioni di servizio pubblico, sostenute dal canone. Oggi deve fare quadrare i suoi bilanci e questo implica due conseguenze: il ridimensionamento dei compensi e la ricerca dell'audience per ottenere pubblicità. Oggi il problema principale della Rai è il problema di qualsiasi azienda che deve essere produttiva. Può pagare compensi elevati solo in presenza di un ritorno economico. In ogni caso deve rispettare una linea editoriale e un'audience concordata con i pubblicitari. All'interno di un'azienda industriale, come oggi di fatto è la Rai, non c'è censura, ma ricerca del profitto. Nessuna azienda acquisterebbe un prodotto da vendere al pubblico senza prima prenderne visione. Dal mio punto di vista non potevo prendere Luttazzi a scatola chiusa senza sapere quanto il prodotto che mi proponeva fosse compatibile con la Rai2 del 2019. Dopo 20 anni non conoscevo la sua nuova produzione, ma sapevo che la vecchia non era compatibile con la Rai di oggi. La Rai2 del 2001 era tutta basata sulla satira, la Rai2 del 2019 non aveva spazio per performance solitarie, ma solo per un lavoro di gruppo. Quella che Luttazzi legge come censura è semplicemente ricerca dell'audience. Luttazzi sembra non capire che le sue performance del 2001 sarebbero "politicamente scorrette" e quindi prive di audience. E questa stessa censura, qualora l'avesse applicata a Luttazzi prima di tutto l'avrei applicata a me stesso. Io avevo accettato l'incarico di Direttore di Rai2 gratuitamente per potere fare finalmente un'informazione libera. Per informazione libera intendo l'altra faccia della medaglia, le informazioni che non arrivano sul mainstream, ma rimangono su Internet. Purtroppo proprio l'informazione è stata penalizzata dall'audience e quindi non ho potuto svilupparla come avrei voluto. Il pubblico non era interessato a notizie che non appartenessero già all'agenda dei media e al gossip conseguente. Io stesso quindi ho dovuto sacrificare le mie ambizioni all'audience complessiva della rete, perché non tutti gli argomenti sono compatibili con le richieste del pubblico in quel momento. Non so se tutti conoscano il meccanismo della finestra di Overton. Secondo Overton, sociologo e attivista statunitense, morto nel 2003, in ogni epoca, in ogni momento, esiste una "finestra" che inquadra ciò che può essere detto su un determinato argomento. Se si vuol promuovere un argomento impopolare, bisogna passare attraverso una serie di tappe successive. L'argomento viene prima presentato come intollerabile, poi viene discusso aprendo alcune possibilità, infine lo si sdogana e diventa popolare. Le tappe sono le seguenti: inconcepibile, estrema, accettabile, ragionevole, diffusa, legalizzata. È facile capire come l'audience corrisponda perfettamente alla finestra in atto. Naturalmente la finestra potrebbe essere spostata e con essa l'audience, ma ciò richiederebbe tempi lunghi. In ogni caso non sarebbe possibile saltare tappe. Il rapporto mainstream/audience è automatico. La notizia accettabile non è la notizia vera, ma la notizia verosimile e compatibile con lo spirito del tempo. Non so se anche l'audience sia una forma di censura. In effetti lo è, ma è motivata non dall'ideologia, ma dal bilancio. A suo tempo io avevo fortemente dissentito dalla trasformazione del servizio pubblico in azienda industriale. Ma come professionista ho dovuto adeguarmi a scelte che non sono mie e che neppure condivido. Luttazzi sembra non capire tutto ciò. Critica Pio e Amedeo che hanno audience molto importanti. Rivendica un diritto che allora spetterebbe a tutti i cittadini italiani: andare in televisione, dire quello che si vuole, portare a casa un lauto compenso.

Serena Danna per open.online il 3 magio 2021. Il discorso di Fedez, la comicità di Pio e Amedeo, la hit di Checco Zalone: il critico e autore televisivo, veterano del servizio pubblico, commenta «il festival della comunicazione» andato in onda nel weekend. Nessuno conosce la televisione italiana come Carlo Freccero. Il critico e autore televisivo, classe 1947, non è solo l’uomo che ha contribuito a creare la tv privata quando Fininvest era un’idea, ma è soprattutto un veterano del servizio pubblico. In quasi 30 anni di carriera ha rivestito diversi ruoli: direttore di rete, consigliere d’amministrazione, fondatore di Rai 4. Della tv conosce tutti i meccanismi, censura compresa: era sua la Rai 2 sottoposta al famigerato “editto bulgaro” di Silvio Berlusconi che portò alla cacciata di Luttazzi, Biagi e Santoro. Difficile non pensare a lui alla fine di questo weekend in cui il mondo della spettacolo – dalla nuova hit di Checco Zalone La vacinada alle polemiche per la trasmissione di Pio e Amedeo su Canale 5 fino all’attacco di Fedez sul palco del Concertone del Primo maggio – è stato protagonista assoluto. Un weekend che Freccero definisce «un piccolo festival della comunicazione».

Freccero, di recente non si è mai parlato tanto di tv e comunicazione come in questo weekend. Che è successo?

«Questo weekend ha dimostrato quanto tutto sia interconnesso. E così anche la spiegazione esige molti piani – informazione, politica, intrattenimento – dove il tema della comunicazione diventa centrale».

Partiamo da Pio e Amedeo. Il monologo della puntata finale di Felicissima sera ha attirato molte polemiche.

«Conosco Pio e Amedeo da anni e li ritengo molto bravi. Loro attaccano il politicamente corretto e si sono ribellati a un dato di fatto: sulle reti Mediaset ci sono gay a ogni ora. E loro che sono “trumpiani”, in quanto eterosessuali bianchi, si ribellano a questa narrativa unica. Non solo hanno ragione, ma soprattutto dimostrano che Mediaset è libera. Pio e Amedeo sono solo il contraltare di un onnipresente Tommaso Zorzi (il vincitore del Grande Fratello, ndr) e dimostrano che a Mediaset puoi dire quello che vuoi. Mi hanno ricordato il 1979, quando ho iniziato a Canale 5: si poteva dire qualsiasi cosa, come nel programma Drive In».

Appunto, sembrava una comicità stile Drive in, inadeguata a rappresentare una nuova sensibilità… 

«Ma non è vero! Hanno preso in giro il pubblico di Mediaset, hanno portato sul palco i cantanti neomelodici che piacciono da morire al Sud e nelle tv generaliste non hanno spazio, hanno preso in giro tutte le categorie televisive. Loro sono intelligenti, astuti, e hanno continuamente dato prova di libertà immensa». 

E poi hanno preso in giro categorie fragili in una maniera percepita come “vecchia”.

«Vecchissima, non vecchia. Ma come è vecchio il travestimento di un uomo che si veste da donna. Sono modalità vecchie ma – vissute in un contesto diverso – diventano diverse e nuove. Prenda Achille Lauro».

E allora come si spiega l’indignazione di molti cittadini e cittadine?

«I motivi sono due: a criticarli non è il pubblico che consuma la televisione ma sono quei pochi che leggono i giornali e i tantissimi dell’universo social. E poi su questi temi scattano le tifoserie e si perde sempre di vista il senso di tutto». 

Solo poche ore prima della trasmissione di Pio e Amedeo, Checco Zalone ha pubblicato la sua ultima produzione: La vacinada, la storia di un uomo che si innamora di una donna anziana solo perché vaccinata. Come mai nessuno si è indignato per frasi come «Y non mi importa se trovo al mattino il suo sorriso sul mio comodino»?

«Zalone ha fatto un capolavoro di propaganda. Vaccinarsi ti rendo bravo, bello e sessualmente appetibile anche da vecchio. È la punta più alta della propaganda sui vaccini, il migliore assist possibile per Figliuolo». 

E poi arriva Fedez.

«E dimostra che la Rai è censurata». 

La Rai ha detto che è normale leggere prima i copioni… 

«Ma no, il massimo che capita è che ti chiama il Comitato di Vigilanza e ti chiede di dare la parola a chi è stato attaccato. I cantanti non si possono mai controllare. Se lo pensi, vuol dire che non hai mai fatto tv. Il cantante va per conto suo per definizione. È portatore di un pensiero, che – al pari della canzone – commuove sull’istante ma non incide. L’arte è come la satira, non puoi pensare di mettere i paletti».

Da due giorni invece di parlare di Ddl Zan e delle frasi dei leghisti, il discorso dominante pare essere la Rai.

«Certo, perché Fedez arriva e in pochi minuti ti mostra la Rai vecchia e da buttare: l’opposto di Instagram, di Tik Tok, e di tutto quel mondo lì. Fossi stata la vicedirettrice della Rai 3 gli avrei detto: “Ma le vedi le nostre reti? La vita in diretta, gli opinionisti gay, il Festival di Sanremo? Siamo costantemente sul tema della fluidità, non puoi non rendertene conto, non può dire che noi non vogliamo affrontare il tema”. La Rai non è così vecchia come è apparsa il Primo maggio. Lo stesso non posso dire per la politica: nel festival della comunicazione andato in onda questo weekend la politica ufficiale – anzi i valletti della politica – hanno dimostrato tutta la loro inazione».

I valletti della politica?

«La politica vera è un’altra cosa: è quella che si decide a Davos oppure nelle stanze di palazzo dove si decide il Recovery Fund».

Fedez ha attaccato anche Draghi perché non si è espresso sul Ddl Zan.

«Certo che non si è espresso, perché la politica è altro. Draghi ha fatto solo un errore: è intervenuto sul calcio, ha voluto fare il politico alla Boris Johnson e ha sbagliato. E sa perché?»

Mi dica.

«Perché è un tifoso: essere romanista è il suo tallone d’Achille». 

A sinistra è in corso il solito “si riparta da Fedez”.

«Che sinistra è quella che vuole ripartire da uno che si compra le scarpe da ginnastica con il sangue umano?»

Lei è stato molto vicino al M5S. Giuseppe Conte, considerato il papabile leader del Movimento, è stato tra i primi a esprimere solidarietà al cantante.

«Alle persone non frega nulla di quello che Conte dice su questa storia. E poi, guardi, il Movimento non c’è più. Bisognerebbe capire cosa hanno conservato del progetto originario. Per me vale solo quello che ha detto una volta Beppe Grillo: “Se non ci fossimo stati noi, chissà quante persone sarebbero state in piazza”. La fine dei Cinque stelle è scritta: essere democristiani e impacchettati bene. Ci siamo».

Dagospia il 2 maggio 2021. Rai: dichiarazione dell’Ad Fabrizio Salini. In merito all’intervento di Fedez al Concerto del Primo Maggio, Rai3 ha spiegato di non aver mai censurato Fedez né altri artisti né di aver chiesto testi per una censura di qualsiasi tipo. Questo deve essere chiaro, senza equivoci e non accettiamo strumentalizzazioni che possano ledere la dignità aziendale e dei suoi dipendenti. In questi tre anni ho sempre cercato in tutti i modi di garantire che in Rai fosse assicurata pluralità di voci e di opinioni perché ritengo sia il principale obiettivo della mission di Servizio pubblico. Lo testimonia la nostra programmazione tutti i giorni su tutti i canali televisivi, in radio e su RaiPlay. Di certo in Rai non esiste e non deve esistere nessun “sistema” e se qualcuno, parlando in modo non appropriato per conto e a nome della Rai, ha usato questa parola mi scuso. Su questo assicuro che sarà fatta luce con gli organizzatori del Concerto, che la Rai acquista e manda in onda fin dalla sua prima edizione, per capire come sia stato possibile soltanto ipotizzare un’aberrazione del genere e se esistano delle responsabilità aziendali. Ringrazio profondamente tutti gli artisti che ieri si sono esibiti con performance straordinarie studiate appositamente per la Festa del lavoro, che danno lustro al Servizio Pubblico e ci hanno mostrato in modo evidente quanto l’arte sia fondamentale per la rinascita del Paese.

Da open.online il 2 maggio 2021. La Rai lo accusa di aver manipolato ad arte la telefonata in cui dice che l’azienda lo ha sottoposto alla censura preventiva prima del concerto del Primo Maggio su Rai3, e Fedez non perde l’occasione per replicare. Con un post pubblicato poco fa su Instagram, il cantante dice che sarà sua premura mettere «a disposizione il video integrale agli organi competenti della Rai laddove si decida di fare chiarezza su quanto accaduto». E affonda il colpo: «Anche se per ora vedo solo una gran corsa a discolparsi a prescindere da ciò che è successo». Fedez fa poi riferimento alcuni post apparsi in rete nelle ultime ore. «In questo momento alcuni leghisti stanno controbattendo riportando un vecchio testo di quando avevo 19 anni». Il brano cui fanno riferimento è Tutto il contrario, i cui versi a un certo punto recitano: Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing/Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti/Si era presentato in modo strano con Cristicchi/”Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?”.

Da vigilanzatv.it il 2 maggio 2021. Giulia Berdini, fidanzata del Direttore di Rai3 Franco Di Mare, attacca su Instagram il rapper Fedez per aver "sbugiardato" la Vice Ilaria Capitani sulla telefonata nella quale invitava il cantante a edulcorare il suo monologo, mettendo nei guai non solo i vertici della terza Rete ma anche tutta l'azienda pubblica. La Berdini non le manda a dire e apostrofa Fedez con carinerie tipo: "Nullità del mainstream", sostenuto da qualche "paraculo occulto", "innocuo come un omogeneizzato plasmon" che manda messaggi alla "Cetto Laqualunque durante un comizio in un centro sociale. E ancora, "bisognoso di pubblicità e visibilità". Invitandolo a far ascoltare la famigerata telefonata in versione integrale, senza tagliarla a suo comodo e suo piacere, la Berdini conclude con un "vergognoso" e con l'hashtag "fedeznoncapiscinulla. 

Annalisa Grandi per corriere.it il 4 maggio 2021. Parla di «dichiarazioni gravi e infamanti» il direttore di Rai 3 Franco Di Mare, convocato in Commissione Vigilanza Rai per la vicenda dell’intervento di Fedez al Concertone del Primo Maggio. Di Mare, in un post pubblicato sulla sua pagina ufficiale, scrive: «Le dichiarazioni dell’artista sono gravi e infamanti parimenti a quanto sono infondate». E poi aggiunge di essere stato appunto convocato in Commissione Vigilanza dove farà chiarezza su quanto accaduto. Di Mare fa riferimento alla telefonata intercorsa fra Fedez e i vertici di Rai 3, esprime «vicinanza e stima professionale» alla vicedirettrice Ilaria Capitani che interviene nella telefonata e su quanto raccontato da Fedez dice: «Ci si rende subito conto che nella sua versione ci sono gravi omissioni e che questi tagli alterano oggettivamente il senso di quanto detto dalla vicedirettrice che nel colloquio esclude fermamente, ben due volte, ogni intenzione censoria e che alla domanda esplicita dell’artista se può esprimere considerazioni che lei reputa inopportune ma lui opportune lei risponde con un netto “assolutamente”. Ma di questo nella versione di Fedez non c’è traccia alcuna». Insomma, per Di Mare lo stralcio di telefonata pubblicato dal rapper sarebbe tagliato in modo da non fornire una versione veritiera dello scambio avvenuto al telefono. E ancor più chiaramente il direttore di Rai 3 dice: «A me francamente spiace sempre quando si manipolano conversazioni per far valere le proprie ragioni: che lo abbia fatto un artista del calibro di Fedez che è anche un riferimento positivo per tanti giovani mi spiace ancor di più». In difesa di Franco Di Mare era intervenuta domenica anche la sua fidanzata, Giulia Berdini, che su Instagram in una storia (che poi scrive essere stata censurata) aveva chiesto a Fedez di far ascoltare la telefonata integrale «senza tagliarla a tuo comodo e piacere» e attaccato il rapper definendolo «disgustoso» e «nullità del mainstream», pur ammettendo però di essere d’accordo con lui nel merito delle affermazioni fatte sul palco.

Da tvblog.it il 19 maggio 2021. Il “caso” è ormai noto, il rifermento è a Fedez e al Concerto del Primo Maggio andato in onda su Rai3, con relativo codazzo di polemiche. A margine di quell’evento musical-televisivo il popolare cantautore denunciò la presunta censura messa in campo dalla Rai, pubblicando la telefonata intercorsa fra di lui e gli organizzatori del Concertone qualche ora prima dell’evento ed in cui intervenne fra gli altri anche la vice direttrice della terza rete Ilaria Capitani, registrazione poi che è stata successivamente pubblicata nella sua interezza. In sede di commissione di vigilanza poi il direttore della terza rete Franco Di Mare spiegò le ragioni della televisione pubblica a proposito della presunta censura che Fedez denunciò, parlando di una manipolazione dei fatti da parte dell’artista e respingendo quindi le sue accuse di censura. Nelle scorse ore lo stesso Fedez ha chiesto di essere sentito dalla Commissione e su questo il suo Presidente Alberto Barachini  ha inviato una lettera al cantante chiedendogli di fornire all’organismo parlamentare:  “ove lo ritenesse opportuno una memoria in cui siano evidenziati ulteriori fatti o circostanze che abbiano un elemento di novità rispetto a quanto già reso pubblico fino ad oggi, in modo da mettere in condizione la Commissione di esprimersi compiutamente in relazione alla sua richiesta.” Nel frattempo, secondo quanto apprendiamo in queste ore, la Rai avrebbe dato mandato al suo ufficio legale di avviare querela contro Fedez per diffamazione aggravata e per grave danno d’immagine a seguito delle vicende di cui sopra. La querela, secondo le indiscrezioni che abbiamo raccolto, dovrebbe essere depositata nei prossimi giorni. Per altro, proprio durante l’audizione in Commissione di Vigilanza è stato consigliato più volte al direttore della terza rete di procedere a querela a seguito delle sue affermazioni sulla “manipolazione” operata dallo stesso Fedez alla registrazione telefonica, la prima pubblicata dal cantautore lombardo. Ma su quello, come detto dallo stesso dirigente in quella sede, doveva essere la Rai a decidere di procedere e stando a quanto apprendiamo la decisione da parte dell’azienda radiotelevisiva pubblica sarebbe arrivata proprio in queste ultime ore. Il caso Fedez-Rai dunque si arricchisce di nuovi tasselli e sembra davvero molto lontano dall’essere considerato chiuso.

Concertone primo maggio. La Rai querela Fedez, il leghista Capitanio: “Show organizzato per un pugno di like”. Redazione su Il Riformista il 24 Maggio 2021. Dopo le accuse di censura, la Rai ha deciso di querelare Fedez. “Apprendiamo oggi che ‘la Rai ha conferito mandato ai propri legali di procedere in sede penale nei confronti di Federico Leonardo Lucia, in arte ‘Fedez’, in relazione all’illecita diffusione dei contenuti dell’audio e alla diffamazione aggravata in danno della società e di una sua dipendente avvenuti in occasione del concerto del primo maggio’“. E’ quanto annuncia Massimiliano Capitanio, deputato della Lega e capogruppo in Vigilanza Rai, in merito alla risposta alla interrogazione in Vigilanza sulle polemiche legate al concerto del Primo Maggio. Per il deputato di Matteo Salvini “si tratta di un atto dovuto e doveroso perché su temi fondanti della nostra democrazia, come la libertà di espressione e il rispetto della persona, non è possibile scherzare né tantomeno organizzare show per un pugno di like. Noi speriamo solamente che emerga la verità: non abbiamo sete di vendetta e ci siamo già dichiarati disponibili ad accogliere la richiesta di Fedez di venire in audizione in Vigilanza. Quella sera sono state fatte e dette cose troppo gravi, sarebbe offensivo del nostro ruolo fare finta di niente”. Fedez aveva lanciato accuse di censura, pubblicando anche l’audio della telefonata con Ilaria Capitani (vicedirettrice di Rai Tre, ndr), in merito al testo dell’intervento che aveva preparato in occasione del concertone in occasione della festa dei lavoratori. Testo in cui attaccava proprio la Lega e, nello specifico, il presidente della commissione Giustizia del Senato e relatore del ddl Zan sull’omotransfobia Andrea Ostellari. “Ha deciso che un disegno di legge di iniziativa parlamentare, quindi massima espressione del popolo, che è stato già approvato alla Camera come il ddl Zan, può essere tranquillamente bloccato dalla voglia di protagonismo di un singolo, cioè se stesso. D’altronde, Ostellari fa parte di uno schieramento politico che negli anni si è distinto per la sua grande lotta alle diseguaglianze“, aggiunse ironicamente Fedez, elencando alcune delle frasi che esponenti del Carroccio hanno pubblicamente espresso in questi anni sul tema dell’omotransfobia, in alcuni casi anche chiedendo scusa. L’artista ricorda frasi come “se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno”, “gay vittime di aberrazioni della natura”, “i gay sono una sciagura per la riproduzione” o “il matrimonio gay porta l’estinzione della razza”. Lo scorso 5 maggio, nel corso dell’audizione davanti alla commissione di vigilanza Rai, il direttore di Rai 3 Franco Di Mare accusò Fedez di aver “tagliato tutto il passaggio della telefonata in cui Ilaria Capitani (vicedirettrice di Rai Tre, ndr) afferma che ‘la Rai non ha assolutamente una censura‘”. Di Mare ribadì che “la Rai non ha chiesto il testo” dell’intervento di Fedez al Primo Maggio, quindi “la prima affermazione di Fedez è falsa”. Sarebbe stata “l’organizzazione dell’evento a chiedere il testo, come previsto dal contratto, è un atto doveroso”. Organizzazione affidata a una società esterna. “Le scelte editoriali di chi produce l’evento non competono alla nostra azienda”.

Da "rollingstone.it" il 25 maggio 2021. La Rai ha conferito mandato ai propri legali di procedere in sede penale nei confronti di Fedez per avere diffuso illecitamente l’audio della celebre telefonata intercorsa alla vigilia del concerto del Primo Maggio fra il cantante, i rappresentanti dell’organizzatore iCompany, la vicedirettrice di Rai 3 e Lillo. Fedez ha risposto nelle storie di Instagram chiamando «vigliaccheria di Stato» il comportamento della Rai e aggiungendo un nuovo elemento: non ci sarebbe stata censura al Primo Maggio perché l’organizzatore del concerto (e di conseguenza la Rai) sapeva che il cantante aveva registrato la telefonata. «La Rai» ha detto Massimiliano Capitanio, capogruppo in vigilanza Rai e deputato della Lega citato dall’Ansa «ha conferito mandato ai propri legali di procedere in sede penale nei confronti di Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, in relazione all’illecita diffusione dei contenuti dell’audio e alla diffamazione aggravata in danno della società e di una sua dipendente avvenuti in occasione del concerto del Primo Maggio». «Si tratta di un atto dovuto e doveroso perché su temi fondanti della nostra democrazia, come la libertà di espressione e il rispetto della persona, non è possibile scherzare né tantomeno organizzare show per un pugno di like», continua Capitanio. «Noi speriamo solamente che emerga la verità: non abbiamo sete di vendetta e ci siamo già dichiarati disponibili ad accogliere la richiesta di Fedez di venire in audizione in Vigilanza. Quella sera sono state fatte e dette cose troppo gravi, sarebbe offensivo del nostro ruolo fare finta di niente». Fedez ha risposto nelle storie di Instagram: «Mi assumo la responsabilità di ciò che ho detto e ho fatto e quindi affronto le conseguenze. Sapete la differenza fra me e voi, amici della Rai? Io la telefonata l’ho pubblicata mettendoci la faccia e pagando le conseguenze, mentre voi, dirigenti della tv di Stato che mi avete registrato a vostra volta, l’avete data ai giornalisti che devono coprire le loro fonti. Questo non è un illecito giuridico, ma vi siete parati il culo e questa è vigliaccheria di Stato». Vi sono infatti due audio della telefonata in cui si è discusso dell’opportunità di riportare sul palco del Primo Maggio le frasi omofobe di alcuni politici leghisti. Il primo è stato registrato in video e diffuso su Twitter da Fedez, ma si tratta di una versione editata dal cantante. Dopo lo scoppio del caso, è uscita una versione pressoché integrale della telefonata registrata evidentemente da qualcuno dei suoi interlocutori: si sentono parlare l’organizzatore e il direttore artistico del concertone, la vicedirettrice di Rai 3, il comico Lillo. Continua Fedez: «Nonostante abbiate fatto il grandissimo sforzo di scatenare tutta la stampa a vostro favore per cercare di dire che la telefonata integrale assume un senso completamente diverso rispetto a quella che ho publicato io su Twitter, perché su Twitter ci stanno solo due minuti di video, andate a leggervi i commenti su YouTube di cosa pensa la gente. La telefonata integrale è pure peggio di quella tagliata. E non ho pubblicato tutto quello che ho ancora in mano. Speriamo che almeno in commissione vigilanza Rai mi faranno parlare e dire la mia visto che c’è bisogno del contraddittorio. Indovinate un po’, per farvi capire come funziona la stampa italiana: la prima testata che ha pubblicato la telefonata integrale sostenendo che stravolgeva tutto il significato, indovinate chi ha intervistato subito dopo per pararle il culo? La vicedirettrice di Rai 3». Secondo Fedez ci sono altre cose da chiarire: «Come ha fatto la Lega a diramare un comunicato stampa sei ore prima che salissi sul palco dicendo: se Fedez sale sul palco a leggere il suo testo la Rai non deve pagare il concertone? E a tutti quelli che dicono “eh però sei salito sul palco a dire quelle cose”, sì, ma potrebbe essere che dopo quella telefonata io abbia chiamato l’organizzatore dell’evento e gli abbia detto che avevo registrato tutto perché mi piace giocare a carte scoperte. E guarda un po’, poco dopo mi è stato dato il permesso di salire sul palco». Fedez si dice «orgogliosissimo di quello che ho fatto, lo rifarei altre mille volte. E cari amici della stampa amica della Rai: non si tratta di farlo per vendere qualche smaltino in più come fate intendere voi perché io la mia famiglia la mantengo anche senza gli smaltini. Si tratta di metterci la faccia e pagare le conseguenze perché io che sono un privilegiato mi posso difendere da voi, ma ci sono persone a cui voi molto probabilmente avete riservato lo stesso trattamento che non hanno il privilegio di potersi difendere e che magari davanti a voi hanno abbassato la testa, hanno piegato la schiena e hanno obbedito alle schifezze che gli avete proposto». Fedez nota che «a comunicare la querela della Rai è stato un leghista che ha detto che io avrei detto delle cose gravissime sul quel palco. Amico Fritz della Lega, le cose che ho detto sono parole di gente del tuo partito che è ancora lì dentro a far carriera e che intervistata dopo il Primo Maggio ha ribadito che i gay e i matrimoni omosessuali porterebbero all’estinzione della razza umana. Ma dove cazzo vivete?». Infine, riguardo alle «robe abominevoli» dette dal direttore di Rai 3 Franco Di Mare circa le motivazioni del cantante, Fedez ha aggiunto: «Lo dico come lo direbbe un leghista in commissione di vigilanza Rai: atto doveroso, denuncerò per diffamazione il direttore di Rai 3. Iniziamo le danze amici, ci divertiremo un sacco per i prossimi tre, quattro anni».

Concertone, la Vigilanza Rai dice no all'audizione di Fedez: "Impropria e inopportuna. Invii una memoria sul caso Primo Maggio".  La Repubblica il 25 maggio 2021. Respinta la richiesta del rapper di essere udito per esporre la sua versione sui fatti. Ieri la querela per diffamazione contro il rapper. No all'audizione di Fedez in Vigilanza, sì ad una memoria del rapper sul caso “Rai-Primo Maggio”. La commissione parlamentare di Vigilanza Rai non ha votato sulla richiesta di audizione formulata da Fedez, ma ha deciso, accogliendo all'unanimità la valutazione del presidente della Commissione vigilanza Rai, Alberto Barachini, di non audire il rapper poiché si tratta di un'audizione impropria e inopportuna. Impropria per il ruolo della Commissione ed anche alla luce del fatto che non vi sono precedenti. Inopportuna per le azioni legali in corso, intraprese da Rai e annunciate da Fedez sui social. La Commissione, poi, accogliendo le istanze di chi chiedeva comunque di poter avere la versione di Fedez, ha deciso di inviare al rapper una nuova richiesta di una sua memoria sui fatti del Concertone. Intanto, il il caso Fedez è destinato a finire in tribunale, dopo le polemiche nate con il Concertone del Primo maggio. La Rai ha deciso la querela per diffamazione contro il rapper per "l'illecita diffusione" dell'audio della telefonata con i vertici di Rai3 e per diffamazione aggravata "della società e di una sua dipendente". "Sono orgogliosissimo a maggior ragione di quello che ho fatto, lo rifarei altre mille volte. Affronto le conseguenze", la replica di Fedez. Il direttore di Rai3 Franco Di Mare nel suo intervento in commissione Vigilanza Rai, lo scorso 5 maggio, aveva respinto le accuse rivolte da Fedez al Servizio Pubblico che, a suo dire, non lo avrebbe lasciato libero di esprimersi sul palco del Concertone. "Nessuna censura, solo manipolazione dei fatti che ha ottenuto l'effetto desiderato: quello di gettare discredito sul servizio pubblico - aveva detto Di Mare - Valutiamo una querela per diffamazione con richiesta civile di danni considerato che esiste un danno di immagine". Anche in quel caso la replica di Fedez non si era fatta attendere. E cellulare alla mano, in una storia su Instagram, aveva ribadito: "Io mi assumo la responsabilità di ciò che ho detto e ho fatto, sapevo benissimo a cosa sarei andato incontro. Rifarei 100mila volte quello che ho fatto. Se la Rai mi fa causa, ho i mezzi per potermi difendere".

Laura Rio per "il Giornale" il 26 maggio 2021. La Rai querela Fedez. Fedez ribatte col fuoco: «Vigliaccheria di Stato» e annuncia una contro-querela. Come finirà in tribunale poco importa. Certo è che la battaglia, rispetto al grande pubblico del web, l' ha già stravinta il rapper. I suoi milioni di follower hanno già stabilito che nella disputa sul tentativo di censura al Concertone del Primo Maggio ha ragione lui. Ma, la Tv di Stato, dopo la figuraccia nazionale e internazionale, non poteva esimersi dal «procedere in sede penale». Ricordiamo che il cantante aveva accusato i vertici di Raitre e i produttori dell' evento di aver tentato (senza esserci riusciti) di impedirgli di leggere sul palco un testo a favore della proposta di legge Zan contro l' omofobia in cui riportava frasi pronunciate da esponenti leghisti come questa: «Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno». Ne è venuto fuori un caso di Stato, un litigio a colpi di pubblicazione di registrazioni della telefonata intercorsa tra le parti e un' audizione in Commissione Vigilanza. Infine l' annuncio della querela, ufficializzata da Massimiliano Capitanio (e chissà perché non dai vertici Rai in contemporanea), capogruppo della Lega in Commissione e firmatario di un' interrogazione sulla vicenda, che lo ha definito «atto dovuto e doveroso». Viale Mazzini ha deciso di «procedere in sede penale» «in relazione all' illecita diffusione dei contenuti dell' audio» della telefonata (Fedez ne aveva fatto una sintesi di 2 minuti diventati virali) e «alla diffamazione aggravata in danno della società e di una sua dipendente», nello specifico la vice direttrice di Raitre Ilaria Capitani, responsabile della serata del Primo Maggio. Appena saputo della querela, Fedez si è scatenato sul suo profilo Instagram, ribattendo che procederà a querelare per diffamazione il direttore di Raitre Franco Di Mare che in Commissione aveva parlato di un «complotto» organizzato per screditare la Rai. Ma, soprattutto, il cantante-imprenditore e novello paladino dei diritti civili ha fatto capire di avere altre bombe pronte. «E non ho pubblicato tutto quello che ho ancora in mano - ha raccontato -. Ci sono tante cose che devono emergere. Ad esempio, come ha fatto la Lega a diramare un comunicato sei ore prima che io salissi sul palco dicendo: se Fedez legge il suo testo la Rai non deve pagare il concertone?». Durissimo con i vertici della tv. «Io la telefonata l' ho pubblicata mettendoci la faccia e pagando le conseguenze - ha continuato -. Voi che mi avete registrato a vostra volta, dirigenti della tv di Stato, l' avete data ai giornalisti che devono coprire le loro fonti. Vi siete parati il culo e questa è vigliaccheria di Stato ma tanto la gente pensa che la versione integrale sia peggio di quella tagliata». Insomma, siamo solo alle prime puntate, anzi storie Instagram della battaglia.

"Fedez manda 3 pagliacci alla Rai, offesa alle istituzioni". Francesca Galici il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. La Rai ha querelato Fedez, che non verrà ascoltato in commissione Vigilanza. Alla mail con richiesta di memoria, il cantante risponde con tre emoticon. A quasi un mese di distanza dal concertone del Primo maggio è tornata in auge la querelle tra Fedez e la Rai. Il motivo è la decisione della Radiotelevisione italiana di querelare il cantante per "l'illecita diffusione" tramite social della telefonata intercorsa tra Federico Lucia e alcuni membri Rai e dell'organizzazione dell'evento. Tra i motivi dell'azione legale anche l'accusa di diffamazione aggravata "della società e di una sua dipendente". Alla notizia, Fedez ha risposto con una serie di storie Instagram in cui si dice orgoglioso di quanto fatto al punto che se potesse tornare indietro lo rifarebbe. In queste ore, inoltre, la Rai ha deciso di non procedere con l'audizione di Federico Lucia in commissione di Vigilanza Rai, dove il cantante aveva chiesto di essere sentito per fornire la sua versione dei fatti. Anche in questo caso non è mancata la replica di Fedez, ovviamente tramite social.

La decisione della Rai. La commissione parlamentare di Vigilanza Rai non ha votato sulla richiesta di audizione formulata da Fedez. È stata una decisione basata sulla valutazione del presidente Alberto Barachini, che ha trovato l'unanimità di tutti i presenti. La motivazione per la non audizione del cantante è stata che si sarebbe trattato di una pratica impropria e inopportuna, dal momento che esiste una causa legale in corso. Tuttavia, accogliendo le istanze di chi voleva ascoltare le ragioni di Fedez, è stato chiesto al rapper di inviare una nuova richiesta di memoria sui fatti del concertone. La risposta di Fedez non si è fatta attendere: "Paura eh! Questi erano quelli del 'serve un contraddittorio'". Il rapper, quindi, ha attaccato la Lega: "Il leghista che ieri ha annunciato la querela della Rai nei miei confronti diceva questo: 'Ci siamo già dichiarati disponibili ad accogliere la richiesta di Fedez di venire in Vigilanza'". E ha poi aggiunto, per iscritto sotto il video: "E oggi si rifiutano di ascoltare la mia versione dei fatti in commissione di Vigilanza Rai. Ne prendo atto. Non credo ci sia nulla da aggiungere".

La risposta della Commissione. Il "leghista" a cui fa riferimento Fedez nella sua storia è il capogruppo della Lega nella bicamerale che vigila sul Servizio Pubblico, Massimiliano Capitanio. L'esponente del partito di Matteo Salvini all'Adnkronos ha contrattaccato: "Mi spiace che Fedez non capisca l'italiano o preferisca dedicarsi al genere fantasy piuttosto che raccontare la verità. La Lega ha dato la disponibilità a riceverlo in commissione e lo ha ribadito anche ieri sera. Semplicemente in Vigilanza abbiamo preso atto della sua mancata risposta alla lettera della Vigilanza con la quale gli si chiedeva una memoria sui fatti del Primo maggio e dell'annunciata querela nei confronti della Rai che, evidentemente, presuppongono il suo ennesimo cambio di strategia". Capitanio, quindi, ha aggiunto: "La Lega è nella commissione parlamentare di Vigilanza a lavorare. Non può mettersi né a fare video su Instagram né show che lasciamo a lui. La richiesta di una memoria, già resa nota al rapper con una lettera del presidente e reiterata ieri all'unanimità dalla Commissione, non mi pare abbia avuto risposta. Forse non è raccontare la sua versione che gli sta a cuore. Lo chiediamo a lui. Noi siamo pronti a leggere quanto vorrà inviarci, se lo farà".

I "pagliacci" di Fedez. Il rapper non sembra intenzionato a inviare la sua memoria difensiva. Infatti, questa mattina il presidente della commissione Vigilanza Rai ha ricevuto mail con tre emoticon a forma di pagliaccio in risposta alla mail con la richiesta della bicamerale. Alberto Barachini ha informato i commissari durante le audizioni in corso commentando così: "La commissione parlamentare di Vigilanza ha rispettato Fedez, mentre lui non rispetta istituzioni. Sono amareggiato". Il presidente ha commentato nel merito: "Questa mattina ho inviato al dott. Fedez una lettera con la quale ho rinnovato l'invito a trasmettere alla Commissione di Vigilanza una memoria, nella forma che reputa più appropriata, al fine di illustrare le sue ragioni sulla vicenda del Concerto del primo maggio". Barachini, quindi, ha spiegato che "con la medesima lettera ho altresì comunicato al dott. Fedez la decisione, adottata all'unanimità dalla Commissione nella seduta di ieri sera, di non procedere alla sua audizione, in considerazione del quadro normativo e regolamentare che disciplina l'attività e la sfera di competenza dell'organismo da me presieduto, nonchè di motivi di opportunità, per la recente scelta della Rai e dello stesso Fedez di adire le vie legali". In conclusione, il presidente della Vigilanza sottolinea: "Io e la Commissione che presiedo abbiamo, pertanto, rispettato il dott. Fedez e tutelato la sua posizione. La sua risposta - tre emoticon di clown - denota, invece, una mancanza di rispetto dell'istituzione parlamentare e della Commissione che mi onoro di presiedere. Di questo sono amareggiato". Federico Mollicone, deputato di Fratelli d'Italia, informato sulla mail di Fedez, ha commentato così: "Forse i tre pagliacci di Fedez non erano un oltraggio al Parlamento ma la sua firma". Una battuta alla quale, però, ha fatto seguito una più seria richiesta ad Alberto Barachini di "procedere con una censura ufficiale a un simile atteggiamento di mancanza di rispetto nei confronti del Parlamento, in quanto la Vigilanza è una commissione bicamerale e rappresenta il Parlamento, e presenteremo degli atti relativi, perché questo è un oltraggio". Dura anche la replica di Valeria Fedeli, capogruppo Pd in commissione di Vigilanza Rai: "Fedez è libero di esprimere il suo pensiero e la sua opinione ma irridere e offendere un'istituzione è una mancanza di rispetto non tanto e non solo verso noi commissari e commissarie ma verso le cittadine e i cittadini che le istituzioni rappresentano".

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 30 settembre 2021. Dopo aver ingoiato il rospo di Mauro Corona, reintegrato con tutti gli onori a #Cartabianca dalla quale lo aveva cacciato, Il Direttore di Rai3 Franco Di Mare ora deve anche pagare l'onta di veder invitato Fedez a Che tempo che fa, in onda domenica prossima sulla Terza Rete. Avevamo infatti lasciato Fedez e Di Mare ai ferri corti per il discorso senza freni del rapper al Concerto del Primo Maggio e per l'accusa del marito di Chiara Ferragni alla Rai di averlo voluto censurare. Era seguita una querela della Tv di Stato a Fedez, querela che stride per l'appunto con l'ospitata di domenica prossima a Che tempo che fa. Striscia la Notizia, intanto, tramite l'inviato Valerio Staffelli, ha consegnato il terzo Tapiro d'Oro a Di Mare - come si vedrà questa sera, 30 settembre 2021 a partire dalle 20.35 su Canale5 - proprio per il grande ritorno sulla Terza Rete dei due suoi nemici Corona e Fedez. «Lei ha cacciato Corona e poi se l’è ritrovato in prima serata con lo smoking?» ha domandato Staffelli a Di Mare, che ha risposto: «È stata la Rai a farlo. Ha deciso l’azienda e io sono d’accordo con l’azienda». «E Fedez? Aveva promesso fuoco e fiamme, invece domenica sarà ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa», lo incalza Staffelli. «Io non censuro nessuno. Fazio mi ha chiesto di Fedez e io ho risposto “Non c’è problema”» è la replica del Direttore di Rai3 prima di fuggire sulla sua auto - parcheggiata per giunta in divieto di sosta. Se Striscia ipotizza che la querela a Fedez sia stata ritirata per "paura dei Ferragnez" e del loro potere mediatico, noi di VigilanzaTv rammentiamo l'intervista rilasciataci in esclusiva dal Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi nella quale riguardo alla veridicità della notizia del procedimento legale della Rai contro il cantante, avanzava il dubbio che esso "potesse essere un espediente comunicativo per mettere a tacere le polemiche sul Primo Maggio e soprattutto bloccare tout court i lavori della Vigilanza Rai che aveva chiesto l'audizione di Fedez". 

Marco Zonetti per “vigilanzatv.it” l'1 ottobre 2021. Dopo la notizia dell'ospitata di Fedez da Fabio Fazio su Rai3, ricordata da un servizio di Striscia la Notizia con la consegna del Tapiro d'Oro al Direttore Franco Di Mare che aveva annunciato mesi fa la querela al rapper per diffamazione dopo il caso del Concerto del Primo Maggio, ci eravamo chiesti assieme a Dagospia se il procedimento giudiziario fosse stato ritirato o, addirittura, non fosse mai esistito. Ed ecco che Viale Mazzini chiarisce il nostro dubbio rivelando all'Adnkronos di aver deciso di "non procedere nei confronti del rapper Fedez in relazione ai fatti del Concertone del Primo Maggio e all'accusa di censura". Ma c'è di più: "secondo quanto riferiscono fonti qualificate la decisione, presa dai precedenti vertici, non ha avuto seguito per mancanza di alcuni requisiti". Questo sarebbe il motivo per cui Fedez potrà presenziare a Che tempo che fa domenica prossima 3 ottobre 2021. La notizia della querela mancante di alcuni requisiti non meglio identificati, tuttavia, non scaccia il sospetto dell'On. Michele Anzaldi, Segretario della Vigilanza Rai, che a VigilanzaTv esprimeva il dubbio che la querela fosse un espediente per bloccare l'audizione di Fedez in Commissione. Ricordiamo anche la furiosa lite - segnalata da VigilanzaTv e Dagospia - tra Di Mare e l'ex Ad Rai Fabrizio Salini che non voleva procedere con la querela. Una diatriba tutta interna al M5s, del quale è a tutt'oggi in quota Di Mare, era in quota Salini e in omaggio al quale Fedez scrisse addirittura un inno. Non sussistendo più la querela, ora Fedez sarà finalmente audito in Commissione per chiarire cosa accadde nelle ore precedenti al Concerto del Primo Maggio? E quali sono esattamente i "requisiti mancanti" che hanno di fatto invalidato l'azione legale contro Fedez? Sarebbe interessante saperlo. 

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 13 ottobre 2021. Ci è voluta l'audizione in Commissione di Vigilanza dell'Amministratore Delegato Rai Carlo Fuortes (qui il video integrale) per apprendere candidamente dalla bocca di quest'ultimo che la querela al rapper Fedez dopo i fatti del Concerto del Primo Maggio da Viale Mazzini non è mai partita. E questo malgrado altisonanti comunicati stampa che vedevano la Tv di Stato, su trazione del Direttore di Rai3 Franco Di Mare, scagliarsi lancia in resta contro il rapper reo di aver diffamato l'azienda pubblicando per la gioia dei suoi milioni di follower la famigerata telefonata intercorsa con la Vicedirettrice Ilaria Capitani, l'autore Massimo Cinque e il direttore artistico del Concertone Massimo Bonelli, e gridando alla censura del suo discorso sul Ddl Zan condito di attacchi alla Lega. Discorso poi pronunciato integralmente sul palco di Piazza San Giovanni a Roma, scatenando le ire di Di Mare e guadagnandosi una querela... anzi no. Ma vediamo tutte le tappe dell'intricata vicenda.

1 maggio 2021: al Concertone Fedez pronuncia il discorso a favore del DDl Zan puntando il dito contro alcuni esponenti leghisti e ripetendone le dichiarazioni "contrarie all'uguaglianza". Non prima di aver divulgato sui suoi profili social la telefonata con Capitani, Cinque e Bonelli tacciando la Rai di tentativo di "censura". Telefonata di cui VigilanzaTv e Dagospia vengono a sapere anzitempo quel pomeriggio, scatenando preventivamente il clamore mediatico e istituzionale. 

5 maggio 2021: Durante l'audizione di Franco Di Mare in Commissione di Vigilanza Rai, il Direttore di Rai3 attacca il rapper accusandolo di "manipolazione dei fatti" e di aver provocato un "danno gigantesco" alla Rai, accennando al fatto che a Viale Mazzini si sta valutando "querela per diffamazione" con richiesta di indennizzi in sede civile. Durante l'audizione di Di Mare, alcuni commissari chiedono che Fedez sia ascoltato a sua volta in Vigilanza. Nei giorni successivi la vicenda viene trattata, fra gli altri, da Pinuccio per Rai Scoglio 24 a Striscia la Notizia, diventando un autentico caso mediatico. 

7 maggio 2021: VigilanzaTv apprende di una lite infuocata tra il Direttore di Rai3 Di Mare e l'allora Ad Fabrizio Salini che vede il primo intenzionato a querelare il rapper, e il secondo invece proclive a lasciar perdere. Uno scontro tutto in casa pentastellata: Di Mare e Salini sono in quota grillina, e Fedez per il M5s ha scritto addirittura un inno. 

18 maggio 2021: Fedez chiede di essere audito in Commissione di Vigilanza Rai per spiegare la sua versione dei fatti su quanto avvenuto prima del Concertone.

25 maggio 2021: l'Onorevole Massimiliano Capitanio (Lega) annuncia all'Adnkronos di aver appreso che "la Rai ha conferito mandato ai propri legali di procedere in sede penale nei confronti di Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, in relazione all'illecita diffusione dei contenuti dell'audio e alla diffamazione aggravata in danno della società e di una sua dipendente (Ilaria Capitani ndr) in occasione del concerto del Primo Maggio". Appreso della querela, la Commissione di Vigilanza annulla la sua audizione con il rapper per inopportunità e lo annuncia al diretto interessato che risponde sbeffeggiandola con tre emoticon di pagliacci, e commentando: "Paura, eh?". 

8 luglio 2021: si ventila l'ipotesi che a condurre l'Eurovision sia Chiara Ferragni, moglie di Fedez, e il Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi (Iv) solleva il caso di inopportunità (visto il procedimento giudiziario che la Rai dovrebbe aver mosso contro il rapper) confidandoci tuttavia il suo sospetto che la querela non sia mai esistita e che l'annuncio sia servito solo come espediente per impedire che la Vigilanza audisse Fedez.

30 settembre 2021: Striscia la Notizia consegna il Tapiro d'Oro a Franco Di Mare dopo aver appreso che, di lì a qualche giorno, Fedez sarà ospite di Fabio Fazio proprio su Rai3. VigilanzaTv e Dagospia si domandano se la querela sia stata ritirata o se, in realtà, non vi sia mai stata.

1 ottobre 2021: la Rai fa sapere all'Adnkronos di aver deciso di "non procedere nei confronti del rapper Fedez in relazione ai fatti del Concertone del Primo Maggio e dell'accusa di censura". E inoltre: "secondo fonti qualificate la decisione presa dai precedenti vertici non ha avuto seguito per mancanza di alcuni requisiti". Quali siano tali requisiti non viene specificato, e la frase sibillina di Viale Mazzini lascia intendere che la querela a un certo punto sia effettivamente partita ma che non abbia avuto per l'appunto seguito.

12 ottobre 2021: Durante l'audizione in Commissione di Vigilanza Rai, il nuovo Ad Carlo Fuortes confessa candidamente che la querela a Fedez non c'è mai stata, confermando così l'ipotesi del Segretario della Commissione di Vigilanza Rai. 

Per quale motivo, allora, Viale Mazzini ha lasciato credere per mesi che il rapper fosse stato querelato? E quest'ultimo sapeva che l'azione giudiziaria nei suoi confronti non era mai partita quando ha accettato di andare ospite da Fazio? Insomma, più che un giallo, una tragicommedia che mette in ridicolo la Rai - che fin dall'inizio con Fedez non ha fatto una gran bella figura - e anche la Commissione di Vigilanza - ovvero il Parlamento - finita sbeffeggiata suo malgrado. 

La strana farsa Rai-Fedez: dalle censure al tappeto rosso. Luigi Mascheroni il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. Fino a ieri tra la tv di Stato e il rapper volavano sfottò e querele. E stasera Mr. Ferragni è super ospite di Fazio...Gli influencer sono i nuovi interlocutori della politica, la politica si fa sempre più influenzare dallo spettacolo, la televisione è bravissima a fare della politica uno spettacolo, e viceversa, così tutto finisce in uno show. O al circo. Infatti, abbiamo a che fare coi pagliacci. Tutto è bene quel che finisce bene: la Rai ha improvvisamente rinunciato a fare causa a Fedez dopo le accuse di tentata censura lanciate dal cantante sul palco del Concertone del Primo Maggio, e Fabio Fazio stranamente stasera lo ha invitato come ospite d'onore della prima puntata - si comincia sempre dal meglio - della sua trasmissione Che tempo che fa. Che è un po' come se io e te litighiamo ferocemente per sei mesi, io ti accuso di un reato pesantissimo in diretta televisiva e via social, tu contro-minacci di querelarmi per diffamazione, poi tutti e due ci ripensiamo, meglio far finta di niente, capiamo che entrambi ci guadagniamo se lasciamo perdere una cosa inutile come la dignità, e alla fine io rinuncio ad andare per vie legali tu agli sfottò e ti invito una sera a casa mia, per una chiacchierata in salotto. E il bello è che tu accetti di corsa: «Sì, vengo!». Se a qualcuno avanza un naso rosso con l'elastichino da prestare a Fedez, scrivetemi in privato. E così il Mr. Ferragni torna a grande richiesta - di chi? - sugli schermi di Viale Mazzini, stasera, stessa rete - Rai3 - infamata il Primo di neppure tanti mesi fa: era Maggio. Non si sa che tempo farà, ma scorre veloce. Fabio Fazio di qui e Fedez di qua. Chissà se il padrone di casa intervisterà l'ospite, o se l'ospite trasformerà in un comizio l'invito. Del resto entrambi cercano sempre il contraddittorio... Finiranno col parlare di politica - è il posto giusto - o punzecchiare il direttore di Rai3, Franco Di Mare, il quale a Fedez ha dato del «manipolatore» e a Fazio la solita trasmissione... Cose che succedono.

Ma perché è successo? È successo semplicemente perché Fabio Fazio pur di portarsi in studio un influencer con la sua legione di follower (più quelli della moglie), che significano punti di share, è pronto a passare sopra anche alle offese alla propria famiglia, che di cognome fa Rai. E Fedez perché pur di presentare un suo prodotto al grande pubblico della tivù (si esibirà con Achille Lauro e Orietta Berti sulle note del tormentone estivo Mille) fa finta di dimenticarsi con chi si è preso a pesci in faccia fino a ieri. Pensavo Fosse Amore E invece feat Fabio Fazio #èsoloBusiness... Forse ci va bene: stasera magari ci fanno pure la morale. La Rai liscia il pelo agli influencer - meglio averli dalla propria parte che contro, con quello che pesano i post - e gli influencer, che tutto sommato è meglio che fare il rapper, lisciano il pelo alla Rai, che resta sempre un bel palcoscenico: buttalo via. #SenzaPagare

Alla fine tutta questa storia - Tu mi hai censurato, no non è vero, Io ti querelo, tu hai manipolato i fatti, Dài ma vieni in trasmissione, Sì va bene, grazie Mille - è Meglio del cinema. Comico. Il vantaggio è che, come il nuovo pezzo dedicato da Fedez alla moglie, una ballatina pop innocua, ha un grande pregio. Si dimenticherà in fretta. Su Rai3, si sa, si è tutti amici.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Ara

"Fedez? È stato un agguato”. Quell'accusa a Travaglio e Gomez. Francesca Galici il 5 Maggio 2021 su Il Giornale.  Franco Di Mare verrà ascoltato in Commissione Vigilanza per fare luce e chiarezza sulla telefonata tra Fedez e la Rai prima del Concertone. Oggi si scriverà una pagina importante nella querelle tra la Rai e Fedez con il colloquio di Franco Di Mare in Commissione di vigilanza Rai. Il direttore di Rai3 verrà ascoltato in merito alla telefonata intercorsa tra il suo vicedirettore Ilaria Capitani e il rapper il giorno prima del Concertone del Primo maggio. Sono tanti i dubbi che aleggiano attorno a quella telefonata sulla quale ora la Rai vuole fare chiarezza, anche se Franco Di Mare pare abbia una sua teoria precisa sulle dinamiche che si sono sviluppate sulla vicenda, che ha a che fare con le prossime nomine nel Cda della tivvù pubblica.

La telefonata a Fedez. Su quella telefonata si è detto tanto. Il primo a renderla nota è stato Fedez, che sui social ha però pubblicato solo un estratto di nemmeno 3 minuti. Un taglia e cuci creato a suo uso e consumo, dove erano assenti moltissimi passaggi chiave per capire l'atteggiamento della Rai. Poco meno di 24 ore dopo, infatti, è stata diffusa la telefonata quasi integrale e la versione di Fedez è stata smentita dai fatti. "È stato un agguato", ripete oggi Franco Di Mare stando a quanto riporta la Repubblica. Il quotidiano spiega che la linea del direttore di Rai 3 non sarà solo quella di difesa dell'operato di Ilaria Capitani e degli altri interlocutori che si rapportano con Fedez nel corso della chiamata. Di Mare pare sia pronto anche a muovere accuse ben precise, puntando il dito proprio contro il rapper, che avrebbe registrato la telefonata all'insaputa di tutti per poi diffonderla con i tagli già citati. Per Di Mare questa altro non era che una trappola, "orchestrata, secondo lui, con l'ausilio di Marco Travaglio e Peter Gomez", scrive Repubblica. Non due nomi a caso, perché è stato lo stesso cantante a menzionare i due giornalisti durante la telefonata, parlando del testo che avrebbe letto sul palco del Concertone: "Io ho fatto leggere questo testo ai miei amici giornalisti: a Peter Gomez, a Marco Travaglio, al direttore di Repubblica. Nessuno ha notato nella sintassi, nella struttura di questo testo cose che vertono a qualcosa di sgradevole, perché riporto solo fatti".

I dubbi della Rai. Dal canto suo la Vigilanza Rai ha molti nodi da sciogliere sulla questione prima di decidere se procedere legalmente contro Fedez. Come rivela Il Tempo, infatti, è necessario capire alcuni passaggio tutt'ora poco chiari sulla dinamica di quella telefonata. Tra i primi quesiti che verranno posti c'è quello basilare: chi ha chiesto di chiamare Fedez? Perché non ci si è rapportati con il suo manager? I maggiori vertici Rai erano al corrente di quanto stava accadendo? Franco Di Mare nelle scorse ore si è già espresso in merito alla telefonata con un post molto duro pubblicato su Facebook. Ora dovrà chiarirsi con la Vigilanza Rai per dare chiarezza al pubblico di rete e levare dalla tivvù pubblica l'onta di un'accusa di cenura.

Caso Fedez in Rai, Di Mare: "Calcolo dell'artista per ottenere più like, visualizzazioni e consensi". Francesca Galici il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Franco Di Mare è stato ascoltato in Commissione di Vigilanza Rai in merito al caso Fedez e ha esposto la sua ricostruzione su quanto accaduto al Concertone. Come previsto, Franco Di Mare quest'oggi è stato ascoltato dalla Commissione di Vigilanza Rai in merito alla querelle con il cantante Fedez per quanto accaduto nelle ore precedenti la sua salita sul palco. Al centro di tutto la telefonata intercorsa tra Fedez da una parte e un autore, l'organizzatore e il vicepresidente Rai dall'altra parte, con la partecipazione iniziale dell'attore Lillo, conduttore dell'evento per la Rai. L'accusa per la Rai è stata di censura nei confronti di Fedez, che si sarebbe sentito limitato nella sua libertà di espressione in quanto artista.

"Nessuna censura dalla Rai". "Nessuna censura, solo manipolazione dei fatti che ha ottenuto l'effetto desiderato: quello di gettare discredito sul servizio pubblico", ha detto Franco Di Mare in Commissione, come riporta la Repubblica, spegando dal suo punto di vista cosa è accaduto in quelle ore concitate del 30 aprile. Franco Di Mare è sicuro del buon lavoro svolto dai suoi collaboratori e considera strumentale la polemica montata da Fedez contro la Rai: "Si tratta di una polemica basata sulla manipolazione dei fatti, che avrebbe dovuto dimostrare nelle intenzioni dell'autore l'esistenza di una censura che non c'è mai stata. La Rai non ha chiesto il testo di Fedez, quello che lui dice è falso. La Rai era all'oscuro, lo ha fatto iCompany". La compagnia citata da Franco Di Mare è quella responsabile dell'organizzazione dell'evento, venduto poi alla Rai. Il direttore di Rai3 è ben consapevole dei danni d'immagine causati all'azienda da questa vicenda: "La Rai è stata crocifissa e condannata prima ancora che Fedez salisse sul palco. Possiamo rimediare? Mi auguro di sì, ma il danno è gigantesco. La Rai e Ilaria Capitani si aspettano delle scuse che non arriveranno mai, io temo". Franco Di Mare, quindi, è entrato nello specifico, spiegando che essendo un prodotto esterno del quale la Rai acquista solo il diritto di ripresa, "le scelte editoriali di chi produce l'evento non competono alla nostra azienda". Pertanto, il direttore ha ribadito: "La Rai non ha chiesto niente. Dunque la prima affermazione di Fedez, che afferma che la Rai avrebbe chiesto il testo, non è vera. Il testo è stato chiesto dall'agenzia che organizza l'evento". Posta questa premessa, Di Mare evidenzia che ogni valutazione sul contenuto "è demandata alla produzione perché è scritto nel contratto". Si tratta di una prassi che "si configura nella responsabilità di chi organizza l'evento: è un atto doveroso".

"Fedez ha fatto un calcolo". Nel merito della telefonata, Franco Di Mare non crede alla buona fede del cantante ma non vuole esprimersi in merito a un eventuale complotto: "Non sono complottista. Forse c'è stato un calcolo dell'artista per ottenere più like, visualizzazioni e consensi". In audizione, Franco Di Mare ha chiarito anche la frase di Ilaria Capitani, che si può ascoltare nella telefonata integrale, nella quale la vicedirettrice parla di contesto inopportuno: "L'artista afferma 'che il servizio pubblico ha il potere di censurare chi volete'. Un'affermazione inaccettabile: la dottoressa Capitani ha dunque chiarito la posizione dell'azienda che viene chiamata in causa in maniera diffamante".

Di Mare, da Fedez manipolazione fatti, nessuna censura. (ANSA il 5 maggio 2021) "Si tratta di una polemica basata sulla manipolazione dei fatti, che avrebbe dovuto dimostrare nelle intenzioni dell'autore l'esistenza di una censura che non c'è mai stata". Così il direttore di Rai3, Franco Di Mare, in audizione in Commissione di Vigilanza sul caso Fedez.

Franco Di Mare svela la porcheria di Fedez: "Ha manipolato quella telefonata". Libero Quotidiano il 05 agosto 2021. Franco Di Mare non ha perdonato la "gallina" data da Mauro Corona a Bianca Berlinguer. E così il direttore di Rai 3 ha deciso di tenere ancora una volta fuori l'alpinista da CartaBianca, il programma che lo ha visto ospite fisso nelle stagioni passate. "Non lo ha deciso Di Mare, ma è una scelta aziendale che condivido", ha comunque tenuto a precisare nel corso di un'intervista a Repubblica. Togliendosi qualche sassolino dalla scarpa Di Mare ha preso la palla al balzo per soffermarsi su un altro caso spinoso: la polemica innescata da Fedez. Il rapper, durante il concerto del Primo Maggio, ha puntato il dito contro la Rai accusandola di "censura" e scatenando il putiferio. "La storia del Primo maggio mi ha amareggiato - ha ammesso -. Al netto del fatto che il signor Federico Lucia ha manipolato una registrazione telefonica, mi ha lasciato interdetto la reazione delle forze politiche che hanno inseguito una manipolazione. Eravamo di fronte alla fake news che Rai 3 avrebbe censurato un cantante, una follia". CartaBianca tornerà il 7 di settembre e le sorti di Corona ormai sono chiare nonostante i continui tentativi da parte dello scrittore e della conduttrice di tornare insieme in tv. In alternativa Corona potrebbe affiancare Paolo Del Debbio, come ospite in collegamento. Proprio il conduttore di Rete Quattro, alla chiusura di stagione di Dritto e Rovescio, aveva detto di voler prenotare Corona per la successiva edizione. Invito che però il diretto interessato aveva preso con le pinze nella speranza di tornare a Viale Mazzini. "Paolo, vieni su che ne parliamo. Domani incontro Bianchina a Vicenza, vediamo che dice", era stata la vaga risposta di Corona. Ma adesso il quadro, dopo il "no" di Di Mare a un suo ritorno, potrebbe essere cambiato. 

Di Mare, Rai crocifissa sul caso Fedez, si aspetta scuse. (ANSA il 5 maggio 2021) "La Rai è stata crocifissa e condannata prima ancora che Fedez salisse sul palco. Possiamo rimediare? Mi auguro di sì, ma il danno è gigantesco. La Rai e Ilaria Capitani si aspettano delle scuse che non arriveranno mai, io temo". Così il direttore di Rai3, Franco Di Mare, in audizione in Commissione di Vigilanza. "La Rai, nel caso del Primo Maggio, fa un acquisto di ripresa per un evento e non ha alcuna responsabilità diretta su quanto avviene in quel luogo. Le scelte editoriali di chi produce l'evento non competono alla nostra azienda. I temi da veicolare sono di esclusiva pertinenza degli organizzatori che decidono il tono da dare alla serata e lo comunicano alla Rai". Così il direttore di Rai3, Franco Di Mare, in audizione in Commissione di Vigilanza sul caso Fedez.

Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2021. Rischia di finire in Procura, con tanto di richiesta di risarcimento danni in sede civile, lo scontro tra Fedez e la Rai sulla manifestazione del Primo Maggio. È quanto hanno chiesto molti parlamentari ieri, sia pure con toni diversi, dopo aver ascoltato in commissione di Vigilanza Rai, il duro atto di accusa del direttore di Rai3, Franco Di Mare, contro il rapper. A Fedez, il direttore ha addebitato di aver «manipolato» la telefonata intercorsa tra lui e la società iCompany, organizzatrice del concerto, cui ha preso parte anche la vicedirettrice di Rai3, Ilaria Capitani. Franco Di Mare ha esposto quali brani della telefonata sarebbero stati omessi dal rapper volutamente, brani nei quali Capitani diceva che la Rai non aveva intenzione di censurare ma che considerava solo inopportuni alcuni passaggi dello speech . La tesi di Di Mare è che la Rai ha solo acquistato un diritto di ripresa. Per questo non ha mai chiesto a Fedez di conoscere alcun testo in anticipo perché i responsabili per contratto dei contenuti della manifestazione sono la iCompany e i sindacati. Proprio da questi soggetti sarebbe stata inviata un'email, la sera prima del concerto, a Capitani per avvisarla che il discorso di Fedez, di cui avevano preso visione, era «duro, polemico, gratuito, soprattutto non in linea con il messaggio del concerto». Capitani avrebbe risposto che in effetti quella del rapper era «un'invettiva senza contradditorio» e fuori contesto rispetto al tema della manifestazione, tuttavia «non sono di nostra competenza nè la scelta né la responsabilità» di quei contenuti. «Noi, Rai, veniamo crocifissi e condannati prima ancora che Fedez salga sul palco» ha detto Di Mare. E ancora: «Siamo finiti sui siti internazionali, perfino a Singapore - ha proseguito -: è un imbroglio, una manipolazione», ha commentato, aggiungendo che «in alcuni Paesi la manipolazione è un reato penale». Il direttore ha detto di aspettarsi delle scuse alla Rai che probabilmente non arriveranno. Infine, più in generale, ha lamentato che «le indicazioni che ci arrivano dalla politica sono spesso contraddittorie: ci viene chiesto conto delle scelte editoriali. Non sostengo che la verifica non sia necessaria, ma un eccesso di interventi può diventare un impedimento allo svolgimento del nostro lavoro». Il dibattito che è seguito è stato per certi versi sorprendente. Quasi la totalità dei partiti intervenuti nel dibattito hanno chiesto che della presunta manipolazione si occupi la Procura. I toni però sono stati molto diversi: la capogruppo del Pd, Valeria Fedeli, ha attaccato il direttore e difeso la congruità del discorso di Fedez rispetto ai temi della manifestazione. E ha sfidato Di Mare ad andare in Procura se davvero ce ne sono gli estremi. Primo Di Nicola (M5S) invece ha difeso Di Mare, dicendosi d'accordo sull'andare in Procura, ma sottolineando che manifestazioni della portata del Primo Maggio non vanno appaltate all'esterno. Considerazione questa condivisa dal presidente Alberto Barachini. Andrea Ruggieri di FI ha rivendicato alla Rai il diritto di controllare il contenuto di quanto mandato in onda e ha consigliato una causa civile per danni contro Fedez. Quanto al leghista Massimiliano Capitanio, ha detto di apprezzare «che, dopo l'iniziale timore, la Rai ha avuto il coraggio di chiamare l'operazione di Fedez per quello che è stato: un imbroglio. Proceda con le dovute azioni legali». Il rapper replica su Instagram: «Io una causa civile me la posso permettere, ma quanti in Rai non possono farlo e subiscono?». Infine Davide Faraone di Italia Viva: «Di Mare accusa Fedez di ciò che Report ha fatto con Renzi: è la stessa sorte che ha subito Renzi che ha risposto per oltre un'ora alle domande di Report . Eppure quello che è andato in onda è stato manipolato e strumentalizzato». Pronta la replica di Di Mare che ha difeso la decisione di trasmettere le immagini dell'incontro tra Renzi e l'agente dei servizi segreti Marco Mancini: «Non c'è un colpo basso, né una malevola interpretazione. Credo che fosse giusto mettere in onda quell'incontro».

Striscia la Notizia, il sospetto su Rai e concertone del Primo Maggio: "Perché si affida a una società esterna?". Quanto è costato. Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Striscia la Notizia, attraverso l'inviato Pinuccio, torna a occuparsi del concertone del Primo Maggio trasmesso dalla Rai. Dopo l'udienza del direttore di Rai Tre Franco Di Mare in Commissione di vigilanza, infatti, viene da chiedersi come mai la tv di Stato si affidi a una società esterna per l'organizzazione dell'evento, con notevoli costi per l'azienda. Quando in Vigilanza è stato chiesto a Di Mare il costo del concertone, lui ha risposto così: "Dieci anni fa la cifra complessiva dell’acquisizione dei diritti di ripresa del concertone del Primo Maggio era di molto superiore rispetto a quella attualmente pagata, possiamo dire che era quasi il doppio. Mentre invece a 10 anni di distanza si è dimezzata. Con una scrematura di un altro 25 per cento negli ultimi tre anni". Poi però l'onorevole Massimiliano Capitanio, segretario della commissione vigilanza Rai, gli ha posto la domanda in maniera più diretta: "Ma conosce le cifre?". A quel punto il direttore di Rai Tre ha replicato: "No, mi sono state fornite queste indicazioni che le sto dando". Intervistato da Striscia, allora, Capitanio ha commentato: "Era una domanda semplice. La cifra la sanno tutti e la sapeva anche il direttore Franco Di Mare. Era tra i 500 e i 600mila euro. Come lo sapevano tutti i membri della vigilanza, sicuramente lo sapeva anche il direttore". Parlando della riduzione dei costi, invece, Capitanio ha sottolineato: "Se c’è stata una diminuzione di costi quest’anno rispetto alle edizioni precedenti non è stato sicuramente per un’opera di spending review da parte dell’azienda, ma semplicemente perché il concerto al chiuso  ha comportato un costo minore". Infine un appello: "Non capiamo perché la Rai non faccia il concertone del Primo Maggio direttamente e si affidi ormai da diversi anni a una società esterna sicuramente con una lievitazione dei costi. La Rai trasmetta il concertone e non spenda 600mila euro per pagare una società esterna".

Chi è Giulia Berdini, la fidanzata del direttore di Rai3 Franco Di Mare che ha attaccato Fedez. Alice Coppa il 04/05/2021 su Notizie.it.  Giulia Verdini è la fidanzata del direttore di Rai3 balzata alle cronache nei giorni scorsi per il suo attacco contro Fedez. Giulia Berdini è la fidanzata del direttore di Rai3 Franco Di Mare, balzato alle cronache nei giorni scorsi per il presunto tentativo di censura attuato dalla Rai nei confronti di Fedez al concerto del 1° maggio. Giulia Berdini si è scagliata contro il rapper via social.

Giulia Berdini: chi è. Classe 1991, Giulia Berdini lavora per il servizio pubblico ma è lontana dal mondo dello spettacolo: è infatti responsabile operativa presso l’azienda che svolge i servizi di ristorazione in Rai. Grazie al suo lavoro in Rai ha conosciuto Franco Berdini, il direttore di Rai3 balzato agli onori delle cronache nei giorni scorsi per la presunta censura attuata nei confronti del discorso di Fedez (che a seguire ha postato via social la telefonata intercorsa tra lui e il direttore Franco Di Mare). Nonostante 36 anni di differenza Giulia Berdini e Franco Di Mare sono più innamorati che mai e lo stesso direttore di Rai3 ha confessato via social a proposito della loro relazione: “Capisco anche che a guardarla da fuori la cosa appaia un tantino cliché. Il fatto è che non avevo messo in conto che, molto banalmente, il cuore conosce ragioni che la ragione non conosce, come diceva Blaise Pascal molto prima di diventare un bigliettino nei cioccolatini. Ora so che è vero.”

Giulia Berdini: lo sfogo contro Fedez. Dopo che Fedez si è sfogato in merito al tentativo della Rai di censurare il suo discorso al concertone del 1° maggio Giulia Berdini ha commentato via social la vicenda scagliandosi contro il rapper: “Fedez è disgustoso. È l’ipocrisia del politicamente corretto, la classica nullità del mainstream che, grazie a qualche paracelo occulto, sta facendo i milioni sparando min***te funzionali al sistema. È un finto rivoluzionario, innocuo come un omogeneizzato Plasmon”, ha tuonato la ragazza, visibilmente infuriata con il rapper.

Giulia Berdini: la relazione con Franco Di Mare. Giulia Berdini e Franco Di Mare sono legati ormai da moltissimi anni, ma i due hanno sempre vissuto la loro relazione con il massimo riserbo. Prima della relazione con Giulia il direttore di Rai3 è stato sposato con un’altra donna, Alessandra, con cui ha adottato sua figlia Stella. Non si sa con precisione quando il direttore Rai si sia legato alla sua attuale compagna. Alice Coppa

MA PERCHÉ FEDEZ HA VOLUTO SPOSTARE L’OBIETTIVO SULLA RAI? La zuffa del Concertone del Primo Maggio, una strumentalizzazione per scatenare la bagarre. Marco castoro su Il Quotidiano del Sud il 5 maggio 2021. Quando un ospite viene invitato in un programma Rai in diretta sa gli argomenti su cui dovrà intervenire ma non entra in studio se prima non ha firmato la liberatoria. Una prassi che sarà pure antipatica ma va espletata a tutela del programma e dell’azienda. Perché in diretta, soprattutto se parte l’embolo, può uscire di tutto. Il caso Celentano di qualche anno fa, ora quello di Fedez ne sono la testimonianza: un artista quando sale sul palco se ha un peso sullo stomaco si lascia andare e lo sputa. Sta agli organizzatori e alla produzione far valere la liberatoria, perché nel caso del Concertone la Rai acquista i diritti e non è responsabile dei contenuti editoriali. Tuttavia non sempre i messaggi raggiungono l’obiettivo. Nel suo intervento Fedez ha giustamente sottolineato le vergognose frasi del politico leghista, che meriterebbe l’espulsione dal partito come si fa nel calcio, ma alla fine per colpa del video che ha pubblicato (in cui sono state tagliate le risposte della vicedirettrice di Rai 3, Ilaria Capitani) nel mirino c’è finita l’azienda di Viale Mazzini. Passata per una tv che censura i discorsi. E invece è Fedez che ha censurato le risposte della Capitani. Lo scrive in un post su Fb il direttore di Rai3, Franco Di Mare: «Nella versione pubblicata da Fedez ci sono gravi omissioni, questi tagli alterano oggettivamente il senso di quanto detto dalla vicedirettrice – cui va la mia vicinanza umana e la mia stima professionale – che nel colloquio esclude fermamente, ben due volte, ogni intenzione censoria e che alla domanda esplicita dell’artista se può esprimere considerazioni che lei reputa inopportune ma lui opportune lei risponde con un netto “assolutamente”. A me francamente spiace sempre quando si manipolano conversazioni per far valere le proprie ragioni: che lo abbia fatto un artista del calibro di Fedez che è anche un riferimento positivo per tanti giovani mi spiace ancor di più». Di Mare che oggi viene ascoltato in commissione Vigilanza, ha dovuto però incassare il parere negativo di Conte, nuovo leader del M5S (il partito che volle Di Mare alla guida di Rai3) che in prima battuta ha sposato le ragioni di Fedez. A fari spenti la vicenda assume sempre più le sembianze della strumentalizzazione politica. Quando c’è di mezzo la Rai si scatena sempre la bagarre tra i partiti e i media schierati, tanto più in un periodo in cui la governance è in scadenza di mandato e le poltrone già ballano il valzer.

Mario Ajello Diodato Pirone per "il Messaggero" il 3 magio 2021. In pieno conto alla rovescia per il rinnovo dei vertici Rai, sul palco del concertone del Primo maggio è scoccata la scintilla che ha innescato una polemica violentissima sulla Rai e sul disegno di legge Zan contro l'omofobia che nei prossimi giorni sarà votato in Senato. Protagonista del caso il cantante Fedez che, in poche parole, prima ha attaccato la Lega perché contraria alla legge Zan e poi ha accusato la Rai - emittente che ha trasmesso il concertone - d' aver tentato di censurarlo. L' effetto è stato quello di un gigantesco polverone con la Rai che ipotizza una denuncia contro il cantante ma soprattutto con la politica che, per tutta la giornata, ha bombardato il quartier generale di Viale Mazzini. Da Giuseppe Conte a Luigi Di Maio, da Enrico Letta a Nicola Zingaretti, da Andrea Orlando a Stefano Patuanelli tutti hanno chiesto nuovi vertici e soprattutto invocato una nuova governance «libera da condizionamenti partitici». Tanto che in serata Matteo Salvini, dopo aver attaccato Fedez, ha sintetizzato la giornata parlando di «una polemica tutta interna alla sinistra».

LA SCINTILLA. Tutto inizia sulle prime note del Concertone quando la Lega scrive in una nota che «se Fedez userà a fini personali il concerto del 1 maggio la Rai dovrà impugnare il contratto e far pagare tutto ai sindacati». L' artista prima della sua esibizione risponde su Instagram: «È la prima volta che mi succede di dover sottoporre il testo di un mio intervento ad approvazione politica. Ho dovuto lottare un pochino, ma alla fine mi hanno dato il permesso di esprimermi liberamente». Poi Fedez, dal palco, attacca vari esponenti leghisti citando loro affermazioni contro gli omosessuali. Ma la polemica si fa rovente sulle accuse alla Rai. Dopo che Rai3 respinge al mittente l'accusa di censura preventiva, il cantante pubblica un video nel quale si sente la telefonata con i vertici di Raitre - la vicedirettrice Ilaria Capitani e i suoi collaboratori - gli viene chiesto di «adeguarsi a un sistema». La battaglia riprende ieri mattina quando la Rai interviene nuovamente per sottolineare che la direzione di Rai3 «non mai chiesto preventivamente i testi degli artisti, richiesta invece avanzata dalla società che organizza il concerto». Più tardi l'ad Fabrizio Salini, ha spiegato «di non aver mai censurato nessuno e di certo in Rai non esiste nessun sistema, se qualcuno ha usato questa espressione chiedo scusa». Intanto Fedez raccoglie gli applausi di moltissimi artisti fra cui Celentano e Vasco Rossi. La parola passa poi alla politica con Letta che chiede «parole chiare dalla Rai, di scuse e di chiarimento. Poi voglio ringraziare Fedez» e Giuseppe Conte che spiega: «Io sto con Fedez. E' ora di riformare la Rai». A fare chiarezza sarà la Commissione di Vigilanza Rai che probabilmente domani o mercoledì ascolterà il direttore di Rai3 Franco Di Mare per avviare un'indagine. Come leggere tutta la vicenda? La Rai intanto sta pensando di fare causa a Fedez. Perché - si fa notare a Viale Mazzini - non si possono registrare le telefonate senza il consenso dell'interlocutore. «Fedez è stato scorrettissimo», è l'umore dei vertici della tivù pubblica. Ma non solo. Anche i sindacati sono considerati responsabili di questa vicenda perché spettava a loro garantire il pluralismo politico anche durante il concertone. Perché - ci si chiede al Settimo Piano della Rai - i sindacati, invece di mettersi al seguito degli osanna mainstream per Fedez, non si assumono le proprie responsabilità? Ma intanto il caso Fedez - inteso come una sorta di nuovo Pasolini agli occhi dei dem - è diventato anche il modo per Pd e M5S per chiedere le dimissioni di Salini e Foa. E avviare subito il cambio del comando in Rai previsto a luglio. Entrambi i partiti accelerano perché, nella nuova spartizione della tivvù pubblica, vogliono ridimensionare il potere dell'altro partner di governo, la Lega, che gode ancora di poltrone risalenti al tempo dell'esecutivo gialloverde. Ridimensionare la Lega anche a costo di favorire Fratelli d' Italia, che rivendica spazi in Rai sia a livello di guida di telegiornali sia nelle reti sia per la presidenza dell'azienda. Che, tranne in rari casi, è sempre stata appannaggio dell'opposizione.

Da liberoquotidiano.it il 3 maggio 2021. La Lega al contrattacco. Dopo il discorso-invettiva di Fedez al concertone del Primo Maggio contro alcuni esponenti del partito di Matteo Salvini per il Ddl Zan, il Carroccio adesso si fa sentire. Lo fa attraverso Massimiliano Capitanio, il capogruppo della Lega in commissione di Vigilanza, che spiega come si muoverà la Lega sulla vicenda Rai-Fedez nei prossimi giorni. "Vogliamo vedere il contratto tra la società esterna che ha organizzato il Concertone e la Rai. Dalle prime verifiche che ho fatto risulta che la Rai abbia speso circa 600mila euro tra costi esterni e costi di produzione. Chiederemo approfondimenti per vedere se ci sono gli estremi per un esposto alla Corte dei Conti e per esprimere un atto di indirizzo in Vigilanza, affinché l'Azienda di Servizio Pubblico impugni il contratto alla luce dei gravi errori che ci sono stati sul palco del Concertone – ha spiegato Capitanio, come riportato da Repubblica -.  E mi riferisco sia all'uso strumentale della festa dei lavoratori per parlare d'altro senza contraddittorio, peraltro in una rete pubblica, e sia al mancato controllo sulla promozione di marchi pubblicitari da parte di Fedez, cosa assolutamente vietata dalle policy Rai". Sulle accuse mosse da Fedez, secondo cui gli sarebbe stato chiesto di inviare in anticipo il testo del suo discorso per tutti i controlli del caso, Capitanio ha spiegato: “Non mi risulta che nessuno della Lega abbia letto preventivamente l'intervento di Fedez, sicuramente nessuno della Vigilanza, anche perché non abbiamo mai avuto alcun atteggiamento censorio. Chi poteva leggerlo sono invece i rappresentanti del Pd e del M5s che hanno lottizzato quella Rete”. E ancora: “Dispiace vedere che alcuni giornali vogliano attribuire alla Lega responsabilità che stanno tutte a sinistra”. La sera del concertone, durante la festa dei lavoratori, il popolare rapper se l’è presa soprattutto con i leghisti in merito al Ddl Zan, facendo l’elenco delle loro prese di posizione su omosessualità e scelte di genere. Fedez ha recitato il suo monologo per intero, anche se prima ha accusato la Rai di censura, rivelando che i vertici dell’azienda gli avrebbero chiesto di leggere in anteprima il discorso che aveva preparato. Quando Viale Mazzini ha smentito ogni tipo di censura, il cantante ha pubblicato la telefonata avuta il giorno prima del concertone con il capo degli autori di iCompany (la società che produce la kermesse per la Rai) Massimo Cinque e con la vicedirettrice di Rai3, Ilaria Capitani. Entrambi gli hanno fatto notare che il "contesto è inopportuno”.

Giusy Caretto per startmag.it. Non solo musica al Concerto del Primo maggio. A metà serata il rapper Fedez ha tenuto un monologo pro legge contro l’omotransfobia, accusando gli esponenti di Lega non favorevoli al Ddl Zan. Non solo. Lo stesso cantante ha accusato la Rai di volerlo censurare. Ma l’azienda radiotelevisiva stipula un contratto per i diritti di trasmissione in tv dell’evento e non ha voce sui contenuti, gestiti invece da iCompany. Tutti i dettagli. Partiamo dal ruolo di Radiotelevisione italiana S.p.A. Secondo quanto sottolineato dal quotidiano Domani, “la Rai paga una somma che si aggira intorno ai 500mila euro per i diritti di trasmissione dell’evento”. Non ha alcun ruolo, quindi, nella scelta dei contenuti. Ruolo, invece, che spetta alla società iCompany, che come si legge sul sito si occupa di progettazione e realizzazione di eventi musicali. “Se di censura si trattasse, dunque, semmai questa sarebbe arrivata dalla società e non dalla Rai. Come si evince anche dal secondo comunicato della Rai sul tema, nel quale si riporta la conversazione integrale tra Fedez e la vicedirettrice Capitani, intervenuta a stoppare le parole di un autore, Massimo Cinque, capo progetto di iCompany, il quale stava chiedendo all’artista di «adeguarsi al sistema»”, precisa Domani. ICompany, società costituita il 5 novembre 2014, si legge sul sito, si occupa di “ideazione, produzione, management, edizioni musicali, comunicazione e percezione, formazione, fundraising, distribuzione, sviluppando e potenziando le sue attività attraverso collaborazioni e partnership strategiche con alcune delle principali realtà del settore musicale nazionale”. La società da sette anni organizza l’evento promosso da CGIL, CISL e UIL. Quindi la società cura l’organizzazione dell’evento dopo essere stata costituita poco mesi prima di occuparsi del Concertone. L’azienda, che ha un capitale sociale di 10.000 euro e che conta in media 7 dipendenti (si oscilla dai 9 del primo trimestre 2020 ai 4 dell’ultimo), è controllata al 60% da Massimo Bonelli e al 40% da Andrea Lancia. ICompany, nel 2019, ha registrato un valore totale della produzione pari a 1.402.351 euro, in crescita rispetto ai 1.289.754 euro del 2018. In crescita anche i costi a 1.407.644 (1.275.672 euro nel 2018), per una rosso pari a 7.660. iCompany aveva chiuso il 2018 con un utile di 8.750 euro.

Luca Dondoni per "la Stampa" il 3 maggio 2021. «Sono devastato». La mattina dopo il discorso dal palco del Concertone del Primo Maggio a favore del Ddl Zan e la denuncia di aver subito un tentativo di censura, il rapper ha la voce che gli trema: «Non voglio sembrare uno che vuole sfruttare questa situazione per apparire. Quello che volevo dire l'ho detto. Se la Rai vuole fare chiarezza, bene. Altrimenti quello che è accaduto ieri è sotto gli occhi di tutti». Mentre lo smartphone si riempie di reazioni, Fedez incomincia a rispondere alle critiche su Instagram, spiegando ancor meglio il perché del suo discorso. «Ho dormito poco e niente, ma ho visto che c'è chi mi ha attaccato su tutto, sul discorso che ho fatto ma anche sulla macchina, sulla Lamborghini. Ecco una novità, vendo la Lamborghini, tanto non la uso più e butto lì una domanda: ma se compro una Panda sono più credibile e posso dire quello che penso?». «Voglio solo tornare dalla mia famiglia», dice Fedez: solo dopo aver raggiunto Milano, dove vive con la moglie Chiara Ferragni e i due figli Leone e la neonata Vittoria, si è finalmente sentito più tranquillo. E per capire l'aria che tirava in casa Ferragnez, bastava dare un'occhiata all'account Instagram della regina degli influencer. Che, come sempre, sostiene il marito: «Sono veramente molto fiera di Federico: ha avuto il coraggio di andare contro tutti e dire ciò che si pensa». Certo non è stato un colpo di testa, quello di Fedez: era un mese che preparava il discorso da fare al Concertone. Il tema dei diritti civili gli sta particolarmente a cuore, tanto che il 3 aprile aveva organizzato una diretta Instagram con il deputato del Pd Alessandro Zan per parlare della tanto sofferta legge e aveva chiesto, assieme a Chiara, alle oltre trentamila persone collegate di firmare la petizione e mandare una mail al Presidente della commissione giustizia del Senato per chiedergli di calendarizzare la discussione in Aula. «Sono felice di poter mettere a disposizione il mio Instagram per questa causa». Ma oltre ai problemi di merito - e la sacrosanta battaglia contro l'omofobia -, ci sono quelli di metodo, le accuse di censura alla Rai e la rabbia del rapper di fronte al fatto che «mi vogliano far passare per bugiardo». «Non solo è vero che mi hanno chiesto di non fare i nomi dei politici leghisti - rincara - ma sono sicuro che sia successo anche ad altri. Sarebbe interessante indagare dietro le quinte dei concertoni passati. In queste ore mi stanno scrivendo tanti colleghi anche molto famosi che mi dicono come situazioni simili siano capitate anche a loro». Così quando è arrivato il comunicato che sosteneva: «È fortemente scorretto e privo di fondamento sostenere che la Rai abbia chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al concertone per il semplice motivo che è falso, si tratta di una cosa che non è mai avvenuta», la reazione di Fedez è stata netta e inconfutabile: ha subito pubblicato la telefonata intercorsa con la vicedirettrice Rai che lo invitava ad abbandonare l'idea di fare nomi e cognomi di alcuni politici leghisti. «Meno male che ho registrato la telefonata e non pensavo di dover arrivare fino a questo punto, ma evidentemente non c'è limite alla vergogna - ha detto Fedez nei suoi post -. Io il testo alla Rai l'ho mandato eccome e al telefono mi hanno detto parole come "devi adeguarti ad un sistema, i nomi che fai non puoi dirli" e una serie di altre cose. Ora, nel momento in cui con un comunicato ufficiale mi si dà del bugiardo, sono costretto a pubblicare la telefonata che fortunatamente ho registrato. Tra l'altro, è stata una delle telefonate più spiacevoli che ho avuto in vita mia. Adesso la Rai mi accusa di aver montato ad arte il video, ma io metto a disposizione la versione integrale e a quanto pare, visto che la stanno facendo girare anche loro, mi stavano registrando». Una situazione quasi surreale, dice Fedez. «Nella parte che hanno pubblicato loro si danno la zappa sui piedi da soli. Io chiedo: "ma allora posso dire quello che voglio?" E la dirigente Rai mi risponde "no, no, no". A quel punto chiedo se posso dire delle cose che per lei sono inopportune ma che per me sono opportune, non hanno turpiloqui o bestemmie e riportano semplicemente i fatti: quel silenzio assordante che si sente di risposta dice davvero tutto».

Giuseppe Marino per "il Giornale" il 3 magio 2021. Che fortuna avere una telecamera accesa che ti inquadra perfettamente e registra durante una telefonata delicata. L' osservazione è ironica, ma apre una finestra seria su un altro aspetto critico della disputa Fedez-Rai. È legittimo registrare una chiamata e diffonderla? Nell' era dei social, la risposta al quesito mette in gioco diritto alla privacy e libertà di espressione. E può spalancare la porta a un far west senza riservatezza. «Il rischio -dice al Giornale Guido Scorza, giurista e componente del collegio del Garante della Privacy- è che migliaia di piccoli Fedez registrino e diffondano qualunque chiamata, visto che ora è diventato tecnicamente semplice fare entrambe le cose». La risposta, in realtà, è sfaccettata. Codice penale e codice della privacy tutelano la riservatezza delle conversazioni, ma di per sé registrare all' insaputa dell'interlocutore non infrange la legge, se è a scopo personale. E la legge è molto chiara anche sul fatto che una registrazione può essere usata per far valere i propri diritti in tribunale. «Il giudizio non può essere semplificato -chiarisce Scorza, che sottolinea di parlare a titolo personale e non a nome del Garante- chiaro che se il video fosse rimasto sullo smartphone di Fedez la questione non si porrebbe. Tutto il contesto suggerisce che la registrazione non fosse a scopo personale. È una situazione professionale e l'interlocutrice, in quanto dirigente Rai, assume un ruolo pubblico, quindi un'aspettativa di privacy attenuata». Fedez non può invocare il diritto di cronaca come i giornalisti. Ma il codice della privacy prevede esplicite deroghe alla riservatezza per tutelare «la libertà d' espressione e di informazione» e le «manifestazioni del pensiero». «Il codice -spiega Scorza- ammette deroghe alla privacy in riferimento all' attività che si sta compiendo, non a chi la compie». Come dire: non serve essere giornalisti per aver diritto a informare, se non si rivelano dati personali ma questioni di rilievo pubblico. «Al telefono c'era un artista che stava per salire su un palco -aggiunge il giurista- e l'interlocutrice sapeva di parlare con un influencer avvezzo a rendere pubblica la propria vita privata. Ma è vero che è un caso che non si presta a giudizi in bianco e nero, anche perché il codice tutela il bilanciamento tra diritto alla riservatezza e libertà di manifestazione del pensiero». Il giurista sottolinea i rischi di un giudizio non ben circostanziato. «Ciò che spaventa -ragiona Scorza- è l'impatto su potenziali comportamenti di massa. Dev' essere chiaro che ci si riferisce a una situazione molto specifica e che essere influencer non dà in automatico diritto a violare la privacy». C' è poi l'aspetto della possibile manipolazione della telefonata: «La registrazione pare pianificata -conclude l'esperto- ma se è stata manipolata, anche solo omettendo qualche parte, in modo non fedele al vero senso della conversazione, allora cambia tutto».

Da "il Giornale" il 4 maggio 2021. «Visto che Fedez ha deciso di intervenire dal palco del concertone del Primo Maggio non solo per cantare ma anche per sensibilizzare su alcuni importanti temi della società, confesso che due paroline sulla precarietà del lavoro e sulla vita dei lavoratori precari ci avrebbero sicuramente fatto piacere, le avremmo davvero gradite». È quanto afferma all' AdnKronos Vincenzo Guerriero, funzionario Uiltucs di Piacenza, sede del primo e più grande sito di Amazon in Italia. Osserva Guerriero, a proposito dell' intervento di Fedez, che in passato ha anche promosso programmi di Amazon Prime Video: «È ovvio che, se si abbracciano i temi sociali, il mondo del lavoro precario è un tema sul quale ogni intervento da parte di personalità, come quelle dello spettacolo come Fedez, garantisce un rilievo e una cassa di risonanza molto maggiore rispetto a tante azioni di protesta che spesso restano prive di copertura mediatica». Insomma, per uno dei sindacalisti che segue più da vicino i dipendenti italiani della multinazionale più volte è finita sotto accusa proprio per la scarsa attenzione alle condizioni di lavoro, Fedez ha perso un' occasione per parlare di lavoro, materia più attinente al Primo Maggio dell' omofobia.

M.A. per "il Messaggero" il 4 maggio 2021. Gode nel suo ruolo di leader politico. Anzi post politico, anti-politico 2.0, che si sente «più avanti rispetto alla destra e alla sinistra» ma anche riguardo al grillismo al tramonto. In nome di un populismo commerciale tra temi social e quelle che un tempo si chiamavano televendite e ora sono - ci si passi l' eccesso odioso di inglesismi - trade on line. Il giorno dopo il caos Concertone, il rapper milanese - che volendo potrebbe comprarsi la Rai, come dicono i suoi amici, ma non gli interessa e neppure ha intenzione di fare politica almeno nel senso tradizionale - lancia una nuova sfida: «Voi politici ora decurtate una parte del 2 per mille del vostro introito del partito a favore dei lavoratori dello spettacolo, se ne siete capaci. Se i lavoratori sono ancora sfruttati in questo paese, la responsabilità di chi è? E' mia? Io e altri amici dello spettacolo abbiamo raccolto 4 milioni di euro per sostenere i lavoratori di questo settore che da oltre un anno sono fermi». Non vuole fare un altro movimento grillesco Fedez. Ma in politica lui c' è, a caccia non di elettori bensì di follower, di clienti e di consumatori. Con questa tecnica: lancio campagne, come quella a favore del ddl Zan o per l' aborto o contro il vitalizio a Formigoni o in polemica con la Regione Lombardia che ritarda la vaccinazione di mia nonna di 90 anni, e su queste fidelizzo le truppe targate Ferragnez (35,6 milioni di seguaci) sulla mia griffe e sulle griffe che mi riguardano, da Amazon (di cui è testimonial) a Nike il cui logo svettava sul cappellino indossato da Federico nel Concertone e anche nelle scarpe che indossava sul palco. LA DIARCHIA Il piano Ferragnez, di lui e Chiara, uno più contundente essendo rapper e una più cauta e più ecumenica essendo imprenditrice e dovendo vendere a tutti, è quello del lanciamo idee, diffondiamo i valori e i principii del Bene o almeno del mainstream politicamente corretto e questo fa aumentare il cosiddetto personal branding. Ovvero dà più forza commerciale a Fedez e a sua moglie Ferragni in tutto quello che fanno e che piazzano.

Dalle canzoni alle ciabatte. La politica, versione neo o post e in confronto il grillismo è archeologia, come arma della celebrity e del trade. E chi non vuole rientrare tra i cattivi, in questo commercio dei buoni sentimenti, non può che aderire alle campagne dei Ferragnez. Che non sono una democrazia diretta - Gianroberto Casaleggio? Un matusalemme! - ma un oligarchia o una monarchia-diarchia assoluta. Alla quale è difficile non soggiacere. Infatti ieri al Nazareno, quartier generale del Pd, andava forte questa battuta: «Mai mettersi contro lo stramilionario Fedez, che non ha nulla da perdere, ha sempre il telefonino acceso e può registrati, controllarti e ricattarti e dice molto meglio di noi ciò che tutti i nostri elettori pendano». Ma Fedez non vuole elettori che lo votino, ma da influencer insieme a Chiara vuole gente che lo segue. Nella campagna contro l' ultra cattolico Giovanardi sulle droghe leggere così come in quella anti Renzi («Totalmente ininfluente») e anche su M5S non è tenero ormai: «Di Maio parla alle persone come se fossero stupide». La politica li lusinga, ma loro non abboccano. Come nel caso di Conte che da premier provò a ingaggiarli nella campagna a favore dell' uso della mascherine ma niente: loro sono più furbi di lui e di tutti. Pure Salvini, che sui social pensa di essere una superstar ma non vale nulla rispetto ai Ferragnez, in realtà li teme. Guarda caso non ha azzannato Fedez sul primo maggio ma gli ha detto in maniera riverente: «Prendiamoci un caffè e ne parliamo». Di fatto siamo di fronte a una nuova oligarchia politica, o post politica. Che chi non clicca un like moltiplicato 35 milioni e mezzo appartiene, come la Rai, al mondo di ieri.

Le bugie hanno le gambe corte. Ecco l'audio integrale fra Fedez e la Rai. Serena Pizzi il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Il "caso Fedez" prende un'altra piega. Pubblicata tutta la telefonata avuta con la Rai e gli organizzatori del concertone. Così il rapper ha manomesso l'audio. Fedez ha toppato. Il suo sentirsi sopra tutto e tutti, la voglia di strafare, il suo ego hanno preso il sopravvento su ogni cosa. Pure sulla libertà di espressione tanto reclamata e per la quale è scoppiato il bubbone. La registrazione audio (manomessa) tra lui e alcuni organizzatori del concertone del primo maggio gli sta tornando indietro come un boomerang. Il motivo? Il rapper, in primis, ha reso pubblica una conversazione privata. In secondo luogo, ha forzato la mano tagliando e cucendo le parole dei suoi interlocutori per suggerire un senso diverso al discorso. Perché lo ha fatto? Chi lo ha consigliato malamente? Non lo sappiamo, quello che è certo è che ora tutto l'audio della conversazione lo sbugiarda e lo mette in imbarazzo.

L'audio manomesso. Un passo indietro. Dopo la sua esibizione dal palco rosso - con tanto di discorso pro ddl Zan con poche parole rivolte ai lavoratori (peccato!) - il rapper ha condiviso 2 minuti e 19 secondi di filmato per dimostrare di essere stato censurato dall'azienda. La Rai ha subito smentito specificando che il video era stato tagliato in più parti e che non gli è mai stato messo il bavaglio. Il rapper è scattato sulla difensiva dicendosi pronto ad offrire ai vertici Rai tutta la telefonata registrata. Così è partita la guerra fra titani, dove non importa tanto il mezzo quanto il fine: vincere. Si scopre che entrambi hanno registrato la famigerata telefonata (quando si dice fidarsi l'uno dell'altro...), che entrambi sono convinti di aver ragione e che entrambi sostengono di aver ricevuto uno sgarbo. E che forse entrambi si vogliono incontrare in tribunale.

Fedez è la nuova sardina. Ecco. Da sabato primo maggio alle 22.30 ad oggi è successo di tutto. Comunicati stampa, storie social di moglie e marito ultramilionari che si dicono indignati ma felici del sostegno internazionale (sì, pure la Bbc si è divertita a scrivere dei nostri teatrini), vip o presunti tali che non aspettavano altro che questa occasione per brillare - per un attimo - di luce riflessa. Politici che si dicono felici "dell'atto di coraggio di Fedez", del suo "non piegarsi al sistema", delle necessità di togliere le chiavi della Rai alla politica. Politici che se si stracciano le vesti per un modus operandi che hanno inventato loro, politici che ora vedono nel rapper - che abusa di autotune quanto dei social - la loro nuova sardina. Politici che hanno completamente perso la testa e non sanno dove ritrovarla. Politici che si sono ridotti a ringraziare Federico Lucia perché credono che il ddl Zan subirà un'accelerata proprio dopo il suo intervento. Ma fanno davvero?

Ecco il testo integrale della telefonata. Detto ciò, torniamo alla telefonata. In un modo o nell'altro pure la Rai o gli organizzatori del concertone dei kompagni (non sappiamo di preciso) fanno uscire l'audio integrale. 11 minuti e 49 secondi di telefonata. Ve la alleghiamo qui perché crediamo che sia importante per tutti sapere cosa sia successo, cosa si sono detti, cosa hanno spiegato in modo educato la Rai, organizzatori e il conduttore Lillo, come Fedez sia stato scortese/montato/pieno di sé nell'urlare risposte sconnesse e pilotate per dare una sua impronta alla storia. Dalle parolacce a quel "eh sì, certo" passando da quell'indignato "sistema". Il doppiogioco di Fedez si vede fin da subito. Ha tagliato e cucito le risposte in modo da passare dalla parte della ragione per essere idolatrato da chi si accontenta della sua versione dei fatti. Ma il suo taglia e cuci ha avuto vita breve. Avrebbe dovuto immaginarlo il nostro rapper, il primo a partire in attacco e a stravolgere le regole del "gioco". Dopo la ramanzina sul suo - giustissimo - diritto ad esprimersi, gli fanno notare che esiste un editore. "Qualcuno mi spieghi perché il testo non va bene", chiede. E qui arriva il bello perché tutto gli viene chiarito ma nel suo estratto pubblicato su Twitter questo passaggio è stato volontariamente omesso. "(Questo è) servizio pubblico - spiega Massimo Cinque, uno degli autori del programma - e tu puoi dire tutto quello che vuoi ma dovresti avere anche le persone che citi nel tuo discorso le quali potrebbero difendersi". Fedez sbraita aggrappandosi al fatto che negli scorsi anni non ricorda il contraddittorio presente sul palco. "Non si alteri, non c'è bisogno", gli dice Cinque. "Certo che mi altero, lei sa cosa mi sta chiedendo di fare?", urla Federico. "Le sto chiedendo di adeguarsi a un sistema che probabilmente lei non lo riconosce corretto", continua l'autore del programma. Ma il rapper di Rozzano schiaccia il piede sull'acceleratore e procede alla velocità della luce. "Non posso esprimere un'idea su un disegno di legge...", continua. "No, non ho detto questo. Noi siamo entrati nel merito perché lei ha citato... Mi scusi, lei ha tutte le sue ragioni, ma permetta anche agli altri di esprimersi", replica Massimo Cinque. Così Fedez inizia a fare domande viziate dal "mi spieghi la parte incriminata che non vi sta bene" al "avete verificato che le citazioni sono vere o false", domande che nel suo audio si sentono bene. Peccato che le risposte vengano tagliate in modo sapiente. "Tutte le citazioni che lei fa con nomi e cognomi non possono essere citate perché non c'è la controparte", ripete l'autore. Nel montaggio del rapper manca tutto questo scambio di battute dove Cinque spiega che "quelle citazioni possono essere dette in contesti che non sono quelli che lei sta riferendo". Qui il marito della Ferragni ci attacca tutte le frasi contro la Lega (frasi tenute strette nella clip per fare un certo effetto splatter), ma non mette il "non sto dicendo questo" e mostra il bombardamento di sue domande quasi a voler mostrare un interlocutore in difficoltà. "Io le sto dicendo - continua Cinque - che questo non è il contesto corretto per esprimere queste...". Sotto si sente che qualcuno suggerisce "l'editore". In effetti, ma forse Fedez è abituato a fare quello che gli pare e non sa quale sia il ruolo dell'editore. "Io le sto dicendo che prendere un microfono e usare una telecamera, un contesto diverso da quello che può essere una tribuna politica, non è corretto". E Fedez? "Non è una tribuna politica, io sto esprimendo un mio pensiero nel merito della politica e non posso esprimerlo lei mi sta dicendo. Perché non posso?" La telefonata è parecchio lunga, l'autore continua a spiegargli quali sono i problemi a cui vanno incontro, "noi vogliamo evitare Fede che la cosa diventi questa, che il tema diventi questo (propoganda politica, ndr)". "Voi nel servizio pubblico avete il potere di censurare chiunque, ma io per fortuna posso...", ma qui poco si sente. Cosa potrà fare il comunista col Rolex? Forse contare sui milioni di follower che influenza a suo uso e consumo? "Nono, non è una censura", gli ribadiscono. "Fedez, mi scusi, sono Ilaria Capitani - interviene la vicedirettrice di RaiTre -. La Rai non ha proprio censura da fare. Se posso finire di parlare ne sarei grata. La Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza né di quello che dirà, ci mancherebbe altro". "Quindi in questo momento lei non ha voce in capitolo - dice il rapper-. Vorrei capire con chi parlare, chi è che mi sta muovendo questa richiesta". Massimo Bonelli, organizzatore: "Io rispondo a Rai e ai sindacati, perché la Rai mi dà un incarico". A questo punto sbobiniamo l'intero scambio perché è proprio qui che verte tutto il taglia e cuci fatto al millimetro. Fedez: "Il vicedirettore della Rai ha appena detto il contrario, che tu non rispondi alla Rai". Massimo Bonelli: "No, Federico non è così. La Rai acquista i diritti e vuole un prodotto editoriale che abbia delle caratteristiche" . Fedez: "La vicedirettrice della Rai in questo momento ha detto 'tu puoi salire sul palco e dire quello che vuoi'". Ilaria Capitani: "No no, non ho detto questo... Io trovo che..." Fedez: "Ah quindi io non posso salire sul palco e dire quello che voglio". Ilaria Capitani: "No va beh, ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura. Dopo di che io ritengo inopportuno il contesto, ma questa è una cosa sua". Fedez: "Perfetto, quindi io potrei benissimo fare quello che voglio, visto che non c'è un contesto di censura. Posso salire e fare le cose che per voi sono inopportune ma per me sono opportune? Questa è la domanda". Capitani: "Assolutamente". Massimo Bonelli: "Sì, Fede è che ci creiamo..." Fedez: "Si o no? Si o no? È una domanda semplice: sì o no". Continua a mettere in difficoltà gli organizzatori perché non capisce il concetto di linea editoriale. È evidente. Ora subentra il "non avete il coraggio", il "non sapete rispondere", Bonelli spiega che è un problema di "linguaggio complessivo". Fedez: "Questo palco rappresenta la riapertura e il futuro. Nel vostro futuro i diritti civili sono contemplati?" Massimo Bonelli: "Assolutamente sì, Federico". Fedez: "E allora perché non posso parlare di questa cosa?" Massimo Bonelli: "Perché il contesto in cui lo stiamo facendo, con questi termini non è editorialmente opportuno". Allora riprendono a spiegargli della necessità di avere una controparte in grado di ribattere, altrimenti "non è editorialmente opportuno all'interno del contesto del primo maggio". Fedez torna ad urlare e gli dicono pure che lui ha ragione a voler dire quelle cose. Infatti il problema non è la censura, ma il contesto e la scelta editoriale. Ricomincia la solita solfa del sono un artista e bla bla bla e ovviamente gli fanno notare che lo hanno chiamato "per cantare in realtà" non per fare comizi. "Ho fatto leggere il testo a mei amici giornalisti, Peter Gomez, Marco Travaglio, al direttore di Repubblica, nessuno ha notato cose in questo testo che vertano in qualcosa di sgradevole. Riporto fatti che non sono contestabili". Dall'altra parte della cornetta capiscono che hanno una bella gatta da pelare e ammettono che stanno cercando di capire e Fedez gli dice che è in imbarazzo per loro. Beh, arrivati alla fine della sboniatura ci viene da dire poco. Lo scambio di battute parla da solo. Che Fedez dica che questi giornalisti - noti per una certa propensione politica - gli abbiano dato l'ok fa ridere. Che Fedez non capisca il significato di editore pure. Che Fedez manometta un audio di 11 minuti e 49 secondi per uscirne bene è davvero singolare. Proprio lui che si erge a paladino della verità, giustizia, etc ci casca con entrambi i piedi? Che figura barbina, Fedez.

La pagliacciata del milionario Fedez col cappellino griffato manda in delirio la sinistra. Luca Maurelli domenica 2 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Il cappellino griffato dalla Nike, azienda con la quale casualmente ha un pubblico contenzioso per una vicenda che riguarda un paio di scarpe “horror” non autorizzate dal brand ufficiale (in violazione delle norme Rai sullapubblicità occulta, tra l’altro) La telefonata di Fedez sulla presunta censura della Rai registrata, casualmente, prima di andare in onda. Il monologo incentrato su una frase mai pronunciata da nessun vertice della Lega contro i gay per promuovere il ddl Zan su cui, casualmente, il centrodestra è contrario, per ragioni politiche e che nulla hanno a che vedere col razzismo. Tutto previsto, anche la claque della sinistra. La sceneggiata e il comizietto di Fedez al Primo Maggio hanno colpito nel segno a sinistra, mandando in sollucchero opinionisti e leader. Una giornata triste per la democrazia, il sindacato, il lavoro e perfino per la musica. “E’ la prima volta che mi succede di dover inviare il testo di un mio intervento perché venga sottoposto ad approvazione politica, approvazione che purtroppo non c’è stata in prima battuta, o meglio dai vertici di Raitre mi hanno chiesto di ometterne dei partiti e dei nomi e di edulcorarne il contenuto”, ha detto Fedez, il rapper milionario marito di Chiara Ferragni. “Ho dovuto lottare un pochino ma alla fine mi hanno dato il permesso di esprimermi liberamente. Come ci insegna il Primo maggio, nel nostro piccolo dobbiamo lottare per le cose importanti. Ovviamente da persona libera mi assumo tutta la responsabilità di ciò che dico e faccio Il contenuto di questo intervento è stato definito inopportuno dalla vicedirettrice di Raitre”, ha spiegato. Ma perché non ha parlato anche delle accuse di Beppe Grillo alla ragazza che sarebbe stata stuprata dal figlio, per esempio? Il tema della violenza sulle donne non gli interessava? E degli scandali della magistratura di sinistra? E delle inchieste di Bibbiano sui bambini abusati? E delle Ong inquisite per traffico di migranti? E dei suoi amici Scanzi, il bay vaccinato, e Zingaretti che negavano la pericolosità del Covid? Andiamo avanti? In tv dovrebbe esserci la par condicio, anche quando si fa finta di fare musica… “Buon primo maggio e buona festa a tutti i lavoratori, anche a chi un lavoro ce l’ha ma non ha potuto esercitarlo per oltre un anno. Per i lavoratori degli spettacolo questa non è più una festa. Caro Mario, capisco che il calcio è il vero fondamento di questo paese. Non dimentichiamo che il numero dei lavoratori del calcio e dello spettacolo si equivalgono. Non dico qualche soldo, ma almeno qualche parola, un progetto di riforma in difesa di un settore decimato dall’emergenza e che è regolato da normative stabilite negli anni ’40… Caro Mario, come si è esposto riguardo alla Superlega con grande tempestività, sarebbe altrettanto gradito il suo intervento nel mondo dello spettacolo”, ha detto rivolgendosi al premier Mario Draghi. Quindi, il capitolo relativo alla legge contro l’omofobia, con le farneticanti interpretazioni della legge in discussione in Parlamento: “Questa era la parte approvata, ora arriva la parte forte… Due parole sull’uomo del momento, il sonnecchiante Ostellari”, ha deto riferendosi all’esponente leghista, presidente della commissione Giustizia a Palazzo Madama, che ha deciso di incardinare il ddl Zan sull’omofobia ma tenendo per sé il ruolo di relatore. “Ha deciso che un disegno di legge di iniziativa parlamentare come il Ddl Zan, già approvato alla Camera, può essere bloccato dalla voglia di protagonismo di un singolo, cioè se stesso. D’altronde Ostellari fa parte di uno schieramento che si è distinto negli anni per la lotta all’uguaglianza. Qualcuno come Ostellari ha detto che ci sono altre priorità rispetto al Ddl Zan” compreso “il vitalizio di Formigoni” che è “più importante della tutela dei diritti di tutti”. Quindi, la chiusura: “Il presidente dell’associazione Pro Vita, l’ultracattolico e antiabortista Jacopo Coghe, è stata la prima voce a sollevarsi contro il Ddl Zan ma non si è accorto che il Vaticano ha investito più di 20 milioni in un’azienda farmaceutica che produce la pillola del giorno dopo. Cari antiabortisti, non vi siete accorti che il nemico ce l’avevate in casa”.

Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 3 magio 2021. Comunisti col Rolex (era il titolo di un suo album con J-Ax), Che Guevara in Lamborghini: per i detrattori si possono assumere posizioni politiche solo se si è disperatamente alla canna del gas. «Allora vendo la Lamborghini e mi compro una Panda». Fedez ieri ha rivendicato così il diritto a esprimere le proprie idee anche a bordo piscina. Al netto del conto in banca, la verità è che il Fedez «politico» - grazie anche all' unione con Chiara Ferragni - smuove più like di tanti che il politico lo fanno di professione. Belli, ricchi, famosi, la vita diventata un reality permanente su Instagram, royal family di uno Stato (il Ferragnezland) da quasi 36 milioni di follower (una volta si chiamavano volgarmente sudditi). Andasse alle Politiche la coalizione Fedez-Ferragni avrebbe tranquillamente la maggioranza (alle ultime elezioni il centrodestra si fermò a 12 milioni e mezzo di voti). Impegnati, ma non fino al punto di scendere davvero in campo (almeno così dicono nelle dichiarazioni pubbliche). Lui più fumantino (del resto è rapper), lei più stratega (del resto è imprenditrice). Fedez non teme l'uno contro uno e si è scontrato con tutto l'arco parlamentare: non solo Salvini (ormai è una saga) e Gasparri (che lo definì «coso dipinto»), ma anche l'ultracattolico Giovanardi (sulle droghe leggere); durissimo con Renzi («totalmente ininfluente») ma poi poco malleabile anche con quei 5 Stelle per cui aveva scritto un inno anti-Napolitano («Di Maio parla alle persone come se fossero stupide»). Chiara Ferragni è invece più cauta (un'azienda del resto può sposare solo battaglie di tutti). Il tema del femminismo, di certo meno divisivo, lo sente suo. «La nostra società è ancora maschilista e patriarcale, le donne vengono giudicate in maniera differente e spesso il giudizio non arriva solo dagli uomini ma anche da altre donne pronte ad accusarsi a vicenda», aveva detto denunciando contestualmente i fenomeni di victim blaming , slut shaming , revenge porn (le battaglie civili ormai passano solo per l' inglese). A volte è la stessa politica a lusingarli, come quando l'allora presidente Conte li ingaggiò per lanciare una campagna sull' utilizzo delle mascherine. Quindi? «Non siamo né di destra né di sinistra. Siamo avanti», aveva detto lui. Scendere in politica? «Non è una velleità». L' italiano medio? «Fa casino durante il minuto di silenzio e sta in silenzio quando deve far casino». Difficile dargli torto.

Fedez, Sigfrido Ranucci difende la Rai ma non convince. E se avesse parlato di pedofili nella Chiesa? Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. «C'è stato un cortocircuito nel modo in cui si sono relazionati Fedez e alcuni autori. Voglio ricordare che le voci maschili che parlano della telefonata di Fedez, di "un sistema", che non è giusto "fare i nomi", sono degli autori esterni alla Rai. Una società di produzione che era stata incaricata dai sindacati, da una società che doveva gestire l'evento. E qual è, alla fine, l'ipocrisia di tutta questa cosa: i sindacati dovrebbero cominciare a guardare dentro la loro pancia, non confondere le libertà sindacali con delle storture. Il valore che viene difeso dalla Costituzione deve essere rispettato, un'opportunità non un modo per approfittarsene». L'amico Sigfrido Ranucci, ottimo cronista e deus ex machina di Report, su questa personale opinione apparecchia la difesa della Rai sul caso Fedez. Aggiunge che «sono contento che la Rai abbia chiesto scusa, come solo le grandi aziende sanno fare. Non sono scuse per una censura, mai avvenuta, ma scuse per la gestione: è grave anche solamente che una persona possa pensare di essere censurata in Rai». La sintesi di Sigfrido è: Fedez si comporta come Fedez. Dice che ha il diritto di dire ciò che vuole; ma la responsabilità della sua concione pro-legge Zan non è della Rai ma dei sindacati che contrattualmente allestiscono in piena autonomia il concertone. In teoria Sigfrido ha ragione. I sindacati organizzano e vendono a viale Mazzini il pacchettone del 1° maggio chiavi in mano, a 600mila euro. La Rai, di solito, non interviene. Di solito. Stavolta, però Ranucci sbaglia. Ilaria Capitani, vicedirettrice di Raitre, è intervenuta con una telefonata che avrebbe dovuto essere risolutiva nella gestione di un formidabile colpo di marketing (di Fedez) trasformato in tentativo di censura. In realtà bastava mettersi d'accordo con i sindacati, in sede precontrattuale, sulle regole d'ingaggio scritte: non si parla di contenuti politici senza contraddittorio a meno che non siano strettamente attinenti all'evento. Qua, per dire, si poteva parlare di lavoro, lasciando le polemiche sulla legge Zan ad altre sedi. Dice un dirigente Rai: «Pensa se Fedez avesse parlato dei pedofili nella Chiesa? Cosa sarebbe successo?». Ma la frittata era già fatta.

Domenica In, Mara Venier: "Al fianco degli omosessuali, bisognava avere coraggio ai tempi", stoccata a Fedez? Libero Quotidiano il 02 maggio 2021. Anche a Domenica In è stato sfiorato il caso di Fedez, della Lega e della Rai quando in studio da Mara Venier sono entrate Eva Grimaldi e Imma Battaglia. Quest’ultima ha esordito elogiando la padrona di casa, che ha sposato certe cause in tempi non sospetti e soprattutto molto più complicati di quelli attuali. “Sei sempre stata al fianco delle nostre lotte, quando non era di moda”, ha dichiarato Imma Battaglia. La Venier ha gonfiato il petto: “Bisognava avere coraggio, adesso è un po’ più facile”. Non a caso poi Imma Battaglia ha ricordato com’era difficile ai tempi fare volontariato o sposare le cause degli omosessuali: “Si parlava dell’Aids come della malattia degli omosessuali”. A questo punto la padrona di casa è intervenuta di nuovo per ricordare un episodio che lo ha segnato molto: “Mi ricordo quando una volta ci siamo incontrate per caso in aeroporto. Ci siamo abbracciate forte senza dirci niente, erano anni in cui nessuno aveva coraggio”. Più avanti nel corso dell’intervista Imma Battaglia ha nominato anche la Lega in accezione negativa correlandola alle sue battaglie, ma la Venier ha preferito non toccare il tasto politico: “Io sono per la libertà, ognuno può dire quello che vuole. Non c’entra la politica ma l’amore, una come te le battaglie le faceva fuori dalla politica”. La Battaglia non è parsa particolarmente d’accordo…

Dagospia il 2 maggio 2021. Dal profilo Facebook di Mario Adinolfi. Fedez è come quelli che tiravano i bulloni a Gaber, sta con la moda corrente, persino Salvini è intimidito e vuole offrirgli il caffè. Il tema della libertà in Rai va valutato su questo punto: il pezzo di Pio e Amedeo sarebbe stato mai mandato in onda? O il direttore di Raiuno sarebbe intervenuto atterrito dalla rivendicazione di vera libertà dei due ragazzi pugliesi? Caro Salvini, ma quale caffè: come urlava Gaber alla fine di questo pezzo straordinario contro il conformismo di sinistra cui proprio non riusciva ad adeguarsi (non riesco a fare/neanche un po’ l’omosessuale…), quando è merda è merda, definiamola e restiamole lontani.

Paolo Giordano per "il Giornale" il 3 magio 2021. Comunque vada, lui ci mette la faccia. Sempre. Anche quando rischia di perderla o, addirittura, la perde proprio. Fedez è il prototipo del rapper 2.0, del musicista ma non solo, del cantante che si auto promuove, che è imprenditore, influencer, gaffeur, eroe dei social, capopopolo. Come sabato sera sul palco del Concertone quando ha iniziato l'atteso, annunciato, temuto, criticato monologo sul Ddl Zan in diretta radiotv. L' ultimo atto (per ora) della parabola di uno degli artisti più divisivi in circolazione. Così divisivo da farsi criticare di volta in volta da «fazioni» diverse. Più che un musicista, è lo specchio delle nostre contraddizioni o, anche, di quanto sia volubile l'opinione pubblica. Per capirci, tra chi oggi lo difende c' è anche chi un anno fa lo accusava di opportunismo per aver lanciato la raccolta fondi per aumentare i posti in terapia intensiva all' Ospedale San Raffaele di Milano (uno dei crowdfunding più grandi del mondo, 17 milioni di euro). Allora era un'opportunista. Ora che ha attaccato la Lega è un eroe. È una popstar a geometria variabile: talvolta vale milioni di applausi (leggasi click), altre volte è solo le due ultime lettere del marchio Ferragnez che condivide con la moglie Chiara Ferragni. Di certo lui non si sarebbe mai aspettato tanto. Milanese cresciuto a Buccinasco, classe 1989, ha iniziato come tanti altri rapper ingenui e spacconi, facendosi largo a base di rime goliardiche, talvolta inappropriate o addirittura criticabili ma comunque dotate dell'ingrediente che, in quel mondo, fa la differenza: il flow, ossia la capacità di «rappare» mantenendo la stessa metrica. Non a caso, prima su YouTube e poi con il disco Mr Brainwash, il primo ad arrivare in testa alla classifica, si è trasformato in uno dei punti di riferimento generazionali. Subito dopo, con il disco Pop-Hoolista, ha allargato l'orizzonte, collaborando con Elisa, Noemi e Francesca Michielin ed entrando nel grande circuito popolare. Dopo con J-Ax è entrato anche a San Siro grazie al successo di un disco come Comunisti col Rolex che prende in giro una categoria senza tempo ma attualissima, la stessa che, per dire, oggi estremizza il politicamente corretto fino alla tagliola della censura. Le contraddizioni dei radical chic. Le paranoie dell'ideologia. Il tutto restando sempre a piedi uniti nella polemica, volente o nolente. Di certo non si immaginava di passare per «fascista» quando, da giudice di X Factor, nel 2014 ha criticato un concorrente che aveva scelto un brano di Lucio Dalla (E non andar più via), definito «comunista e quindi inadatto». Forse era meno deluso quando si è scatenata la polemica sul «Fedez grillino». Invitato dai Cinque Stelle al Circo Massimo, sempre nel 2014, aveva scritto un brano per l'occasione (Non sono partito) che poi si è trasformato in un inno del Movimento. Risultato: due deputati del Pd chiesero la sua esclusione da X Factor. Risposta di Fedez: «Il fatto che si chieda la mia testa ci riporta indietro di 60 anni alla censura e al fascismo». Insomma, un «fascista» che critica il fascismo ma che allo stesso tempo è pure grillino e, qualche anno dopo, canta i comunisti con il rolex al polso. Un corto circuito. Di certo, nel suo piccolo, ha un approccio molto americano perché i rapper Usa non si fanno problemi a intrecciare business e musica e politica, nuove pubblicazioni e iniziative collaterali che aiutino a vendere più copie o a fare più click (anche sugli e-store...). Ma Federico Lucia in arte Fedez, padre di Leone e Vittoria, colleziona anche memorabili gaffe. Il compleanno al Carrefour con lancio di carrelli, ad esempio. Oppure la consegna, poco prima di Natale 2020, di buste con mille euro a cinque persone bisognose di Milano: peccato che fosse a bordo della sua Lamborghini Huracan da 200mila euro. O per ultima quella prima del Festival di Sanremo, quando ha per sbaglio spoilerato una piccola parte del suo brano in gara. Una figuraccia da principianti, una delle tante sfaccettature di un rapper che, tra alti e bassi, è diventato (anche) un protagonista politico in una politica con pochi protagonisti.

TESTO DI “FACCIO BRUTTO” BY FEDEZ

Faccio brutto, ho il ferro sotto la mia tuta da ginnastica

E rime taglienti come le posate in plastica

Anche se a otto anni ho fatto un po' di danza classica

La mamma mi diceva: "Col tutù mi sei fantastica"

Ma poi insieme ad un mio amico che lavora a Banca Intesa

Ho iniziato a fare brutto e a preparare la mia ascesa

Insieme alle mie bitches dormo con la luce accesa

Arrivo con la gang e spaccio buste della spesa 

Una volta al giorno lucido la Beretta

Quando non so cosa fare incendio una camionetta

Ogni rapper mi rispetta perché arrivo dalla strada

"Eh in effetti sono rapper anch'io ma io arrivo da casa"

Voglio la fama dei Beatles ma non i fan di John Lennon

Ho la marijuana dentro il doppio fondo del termos

La polizia mi ha detto che sono in stato di fermo

"Guarda che non sono un drogato, sono un ragazzo moderno, zio"

Faccio brutto, faccio brutto, faccio brutto

Ho visto più erba di un corso di giardinaggio

Faccio brutto, faccio brutto, faccio brutto 

Ho visto più lame di un corso di pattinaggio sul ghiaccio

Oggi ho ritirato almeno venti grammi di moffo

Me lo imbosco dentro le mutande gialle di SpongeBob

Spingo la mia merda e vado molto di corpo

E ad ogni live stacco a morsi la testa di Ozzy Osbourne

Ho la catenazza d'oro presa nell'uovo di pasqua

Giro coi fusilli crudi e ti chiedo se vuoi una pasta

Non esco mai di casa se non ho il mio ferro in tasca

Però prima mi sistemo un po' i capelli con la piastra

Grido: "Poliziotti infami" ma con voce un po' indecisa

Poi mi sente mio papà mentre si toglie la divisa

Mangio pane e malavita e pippo polvere da sparo

Ho il poster di Tupac con la faccia di Totò Cuffaro

Ho un odio represso verso tutte le persone gay

Ma poi limono con la foto del cantante dei Green Day

Quattro giorni di galera, risse ogni sabato sera

I soliti racconti finti tratti da una storia vera 

Una volta al giorno lucido la Beretta

Quando non so cosa fare incendio una camionetta

Ogni rapper mi rispetta perché arrivo dalla strada

"Eh in effetti sono rapper anch'io ma io arrivo da casa"

Voglio la fama dei Beatles ma non i fan di John Lennon

Ho la marijuana dentro il doppio fondo del termos 

La polizia mi ha detto che sono in stato di fermo

"Guarda che non sono un drogato, sono un ragazzo moderno, zio"

Faccio brutto, faccio brutto, faccio brutto

Ho visto più erba di un corso di giardinaggio

Faccio brutto, faccio brutto, faccio brutto

Ho visto più lame di un corso di pattinaggio sul ghiaccio

Vita nel ghetto, ma quando non smazzavo nel parchetto 

Mi vestivo da Naruto alla fiera del fumetto

E non sono cambiato con l'arrivo del successo

Semplice, perché non sono stato mai me stesso

Per amore della fama ogni cosa è lecita

Prendi la tua piccola parte in questa grande recita

E se menti come gli altri non puoi farne più altrimenti

La fortuna mi ha baciato prima di lavarsi i denti

Faccio brutto, faccio brutto, faccio brutto

Ho visto più erba di un corso di giardinaggio

Faccio brutto, faccio brutto, faccio brutto

Ho visto più lame di un corso di pattinaggio sul ghiaccio

 

Testo di TI PORTO CON ME

Questa sera ti porto a ballare

Non voglio pensare alla merda che ho intorno a me

(Sai che c'è , sai che c'è) 

Di merda a cui pensare in questo paese ce n'è

(Beato te beato te)

Non ci voglio pensare ti porto a balla

Dai cazzo federico con sti suoi elettronici

Tu devi far rap con I suoi suoni canorici

Sembrate il coro degli evangelisti cattolici

Fotografa sto cazzo cazzo ti fotografi 

Da quando ho incominciato a firmare gli autografi

Uno stronzo mi fa sempre gli scherzi telefonici

Ma non sa che sono l'inventore di scientology

Quindi ho dei seri problemi psicologici

Confondo barbabietole con dei barbiturici

Mi chiudo delle ore dentro i bagni pubblici

E solo perchè colleziono peli pubici

Cazzo questa sera ne ho trovati undici

Fino a un mese fà avevo solo nemici

Ma da quando è uscito il disco son tutti miei amici

(Oddio ti sto toccando quanto siamo felici)

Ti sorrido mentre sento le stronzate che dici

Questa sera ti porto a ballare

Non voglio pensare alla merda che ho intorno a me

(Sai che c'è , sai che c'è)

Di merda a cui pensare in questo paese ce n'è

(Beato te beato te)

Non ci voglio pensare ti porto a ballare con me

Ti porto a balla

Non so se ne sai molto bene di frazioni

Ho diviso I miei ascoltatori in 16/9

1/4 di sticchia , 1/3 di nicchia 

E tu mi hai già rotto 3/4 di minchia

In una valle verde ho sepolto nella valle

Milano è piena di cavalle ma senza le stalle

Ho I denti del colore delle pagine gialle

Si! Sono troppo avanti scusatemi le spalle

Dai fammela menare fino a quando non salgono

Poi ti giuro che torno a dondolare nel angolo

Non fare l'emo frocio con lo smalto sulle dita

Non dire buonafortuna perchè porta sfiga

Non guardare il dito se ti indico la luna 

Se c'è il bagno di folla prepara il bagnoschiuma

Scusa devo scappare ho un concerto all'una

(Spacchi di brutto buonafortuna)

Questa sera ti porto a ballare

Non voglio pensare alla merda che ho intorno a me

(Sai che c'è , sai che c'è)

Di merda a cui pensare in questo paese ce n'è

(Beato te beato te) 

Non ci voglio pensare ti porto a ballare con me

Ti porto a balla

Sono convinto che il 280 grammi del mc donald

Faccia più male di 200 grammi di coca

Consapevolezza tanta ma di voglia ce n'è poca

(Mi dia un big mc , una patatina e una coca)

Milano è uno stagno quante oche

Ce l'hai una sigaretta , cara poche

Mi canti una canzone ?

Mi hai preso per coglione

Guarda che non sono mica un karaoche

Le donne aristocratiche col visone

Con la faccia tutta gonfia tipo cortisone

(Mio figlio fa la scuola privata di design)

Però magari c'ha l'aids che cazzo ne sai

A tutte ste cazzate non ci voglio pensare

Stasera sei mi ti porto a ballare

E se non vuoi scopare domani ti porto al mare

Ti tocco il culo con la scusa della crema solare 

Questa sera ti porto a ballare

Non voglio pensare alla merda che ho intorno a me

(Sai che c'è , sai che c'è)

Di merda a cui pensare in questo paese ce n'è

(Beato te beato te)

Non ci voglio pensare ti porto a ballare con me

Ti porto a balla

Moratti stuprata, D'Urso uccisa. Frasi choc nei dischi di Fedez. Massimo Arcangeli il 5 Maggio 2021 su Il Giornale. Negli album cantati e prodotti da Fedez non solo brani omofobi, ma versi che incitano alla violenza. Nei versi in cui lo offendi, caro Fedez, quando parli di Tiziano Ferro, non è vero che volevi dire il contrario. La frase da intendere all'inverso era la sola premessa: «M'interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing». Tutto il contrario (2011) è però la punta dell'iceberg. «Non fare l'emo frocio con lo smalto sulle dita» (Ti porto con me, 2011) ne fa appena spuntare un pezzetto di più. C'è altro Fedez, molto altro. «Cugino, / anche se non hai la parrucca, / io ti sgamo da lontano, / sei una troia. / Succhia, succhia» (Boom, 2010). «I soliti sospetti verso i soliti frocetti, / la realtà è sempre peggio / di come te l'aspetti» (Disagio Skit, 2010). «Io non succhio cazzi, / non sono tuo fratello, / e comprati il labello / al sapore di uccello» (Non ci sto più dentro, 2010; il brano è contenuto nel mixtape BCPT di Fedez; il rapper duetta qui con Emis Killa, ma la strofa è cantata da lui). «A me mi piace prendere le cose di petto, / a te ti piace prendere le cose nel retto. / Io i culi non li lecco, chiedi pure al tuo garzone / che fa i testi da finocchio e mi sembra Checco Zalone» (Into My Head, 2010). «Perché nessuno ha ancora detto a Flavio Briatore / che andare in giro col pareo è un po' da ricchione? / I tipi da spiaggia con gli slippini bianchi / sembrano usciti da un festino di Ricky Martin» (Bella vita, 2011). «Lo vedi quel signore che si mette la gonna? / È Cecchi Paone che si veste da donna. / Mi ha chiesto se vogliamo fare lo scambio di coppia, / ha già preso un hotel con una camera doppia» (Una cosa sola, 2011; il brano è dell'album di Fedez Il mio primo disco da venduto, prodotto da Franco Godi; Fedez è stavolta affiancato da Danti, dei Two Fingerz, ma la strofa è intonata da lui). «Ho un odio represso verso tutte le persone gay, / ma poi limono con la foto del cantante dei Green Day» (Faccio brutto, 2013). Certo, Fedez, si può cambiare idea. Quando però il messaggio è ancora lì, e musiche e testi sono in rete, a disposizione di tutti, allora cambiare idea non può più bastare: bisogna chiedere scusa. Poco importa se la vittima è un gay o una lesbica, un (una) trans o una donna. Sì, Fedez, perché ne hai avute anche per le donne. «Ti do mezza busta se mi fai un mezzo busto, / te la do tutta se ammazzi Barbara D'Urso / perché io non posso ancora concedermi questo lusso» (Blasfemia, 2010; con Emis Killa). «Stupro la Moratti / e mentre mi fa un bocchino / le taglio la gola / con il taglierino» (B-Rex status domini, 2010; con Rise). «C'è chi fa la ragazza immagine per noia / per alimentare la sua immagine da troia» (Dove si va, 2010; con Maxi B). «Siete troie, troie, / non fate le modeste. / Guarda come cazzo / sono vestite queste. / / Riconosco una bitcha / già da come si veste. / / «La mandi in giro vestita da troia, / poi piangi se la violentano. / / Sono troie, e se non lo sono / poi lo diventano» (Si muovono le, 2010; con Bat One, o semplicemente Bat). Sono tutti brani sono contenuti in BCPT. A cantare è in tutti e quattro i casi Fedez, e il mixtape è prodotto da lui. Forse, caro Fedez, la tua Chiara non è più così fiera di te. Non sei comunque da solo in quella selvaggia selva del rap e dell'hip hop che con la scusa della libertà d'espressione, o della licenza di rima, diffonde messaggi omofobi o sessisti assorbiti e ritrasmessi dal music system come niente fosse. Sei in buona compagnia, Fedez. Tanti, chi più chi meno, nemici dei gay e delle donne, trattate, quando va bene, da oggetto sessuale per il piacere del maschio dominatore e prevaricatore. Non eri poi molto diverso, Fedez, nei primi anni della tua carriera, dai politici e politicanti con cui ora te la prendi. Forse, anzi, sei anche peggiore di loro, perché pretendi di metterti per calcolo, ipocrisia o altro alla testa di una causa che non sai nemmeno cosa sia.

"Li chiamo infami". Ecco perché Fedez deve vergognarsi. Ignazio Stagno il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Il rapper ha interrotto il lockdown della retorica insegnandoci nel weekend i valori in cui (a suo dire) dobbiamo credere. Ma ha dimenticato gli insulti (vergognosi) a chi difende la sua libertà. Cosa diceva sulle divise...È salito sul palco per attaccare, per fare un sermone, per usare uno spazio del servizio pubblico (pagato dai contribuenti) per fare propaganda politica senza contraddittorio. Al di là della polemica su presunte censure preventive o meno, Federico Lucia ha scelto di ignorare il tema centrale del concertone del Primo Maggio, il lavoro, per mettere nel mirino il suo nemico preferito la Lega. Di certo le citazioni degli esponenti della Lega riportate nel discorsetto di Fedez sono da condannare, ma resta il fatto che le sedi per il confronto politico sono altre. Eppure ancora una volta il campione di moralismo, l'uomo che incarna tutte le libertà moderne (tranne quella di ascoltare le ragioni altrui) è salito sul pulpito e ha moralizzato tutti in nome del Ddl Zan. Mentre Fedez sciupava il suo intervento per parlare del disegno di legge contro la omotransfobia, milioni di lavoratori, che magari in passato hanno votato a sinistra, vedevano definitivamente morire sul palco del 1 maggio la tanto amata lotta di classe e i diritti rivendicati per più di un secolo. Più importante (e soprattutto più figo) per il signor Lucia parlare del mondo Lgbt e del Carroccio. Il messaggio che ha voluto regalarci Fedez per la festa del Primo Maggio è il seguente: vi spiego io quali sono i valori in cui credere, vi dico io qual è la parte giusta in cui stare e soprattutto vi dico io chi sono i "buoni" e chi sono i "cattivi". Poi l'ambizione di avere una parte del Paese ai suoi piedi adorante sui social a scrivere "come è bravo", "quanto sto godendo". Un ego smisurato quello di Federico Lucia che però non ha avuto il tempo di controllare il suo passato. Già perché il moralizzatore che col bazooka della retorica e del killeraggio politico contro la Lega ha di fatto ignorato i lavoratori nel giorno della loro festa, ha scordato quando dal pulpito del rap offendeva e insultava chi garantisce la sua sicurezza e soprattutto custodisce lo Stato di diritto in cui Federico pontifica dai palchi. Basta rispolverare il testo di una sua canzonetta di qualche tempo fa per rendersi conto della coerenza del signor Lucia. Il testo che va ricordato è "Tu come li chiami". In pochi pseudo-versi, Fedez attacca forze dell'ordine e militari: "Tutti quei figli di cani, tu come li chiami, carabinieri e militari, io li chiamo infami, tutti quei figli di cani". Parole chiare che non meritano commenti. Qui non c'è odio, sia chiaro. Il moralizzatore segnala l'odio altrui, le sue sono "opinioni", la sua è "arte", guai a toccaglierla. Lui è libero di insultare chi vuole, anche le divise, perché vive in un Paese come il nostro. Ma almeno ci risparmi le lezioncine col microfono in mano. Impari dai suoi testi in libertà cosa significa davvero democrazia.

DiMartedì, Alessandro Sallusti contro Fedez: "Invitava a stuprare la Moratti e uccidere la D'Urso". Libero Quotidiano il 04 maggio 2021. Non le manda a dire Alessandro Sallusti sul "caso Fedez", da giorni ormai sulla bocca di tutti. Il rapper dal palco del Concertone del primo maggio ha attaccato la Lega e la Rai. "Visto il contesto - ha esordito il giornalista a DiMartedì su La7 - sarebbe stato più logico parlare di sicurezza sul lavoro. Basta pensare a quello che è accaduto oggi a una 22enne a Prato". E ancora, nel salotto di Giovanni Floris il 4 maggio: "Ma non voglio censurare Fedez. In quanto a parole non può lanciare la prima pietra, in un album invitava a stuprare la Moratti e uccidere la D'Urso". Per Sallusti "le parole sono già soggette al codice penale e civile, quindi quando vengono pronunciate in maniera pericolosa sono già punibili". Secondo il direttore del Giornale, libero deve essere il pensiero che deve però essere espresso con delle giuste parole. I famosi brani del rapper che oggi si dice a favore degli omosessuali hanno creato scalpore anche in Vittorio Sgarbi. "Fedez e le frasi contro gli omosessuali: 'Ho sbagliato: anni fa ero più ignorante'. Poi, però, ha capito che poteva vendergli le unghie smaltate", ha cinguettato il critico d'arte. E infatti il marito di Chiara Ferragni ha difeso a spada tratta lo smalto sugli uomini, anche contro qualche consigliere della Lega. Una casualità o solo perché ha lanciato la sua nuova linea di smalti? Viene spontaneo chiedersi. La stessa Barbara d'Uso a Pomeriggio 5 ha ammesso: “Io su queste cose ho sempre volato alto, nonostante fossi a conoscenza bene di questa cosa”, ha dichiarato in riferimento alle minacce del rapper nei suoi confronti, per poi aggiungere: “Ho sempre comunque fatto mille applausi per il suo impegno”.

Fedez continua a guadagnare con i vecchi video violenti e anti-gay. Massimo Arcangeli il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. I brani omofobi, volgari e sessisti sono ancora in Rete, anche sul canale ufficiale di Youtube: così il rapper incassa sponsor e visualizzazioni. Gli altri testi che non ha mai voluto rinnegare. I video omofobi e sessisti sono tutti in rete, e Fedez ci guadagna ancora. Alcuni sono anche sul canale ufficiale Youtube (FedezChanneL), con più di un milione e ottocentomila iscritti. C'è Ti porto con me (oltre 12 milioni di visualizzazioni), il brano dell'«emo frocio con lo smalto sulle dita», preceduto dal suo bell'annuncio pubblicitario, e c'è Tutto il contrario (quello con le pesanti offese a Tiziano Ferro, anche qui le visualizzazioni superano i 12 milioni). È preceduto da un'avvertenza che attacca così: «Tutti i personaggi e i luoghi rappresentati in questo video anche quelli che si riferiscono a personaggi veri sono del tutto immaginari e surreali». Quando, scorrendo il video, vedi perfino materializzarsi le facce di Ferro e Cristicchi non sai se ridere o piangere. E intanto pensi ai proventi. 4 giugno 2016 Fedez è vicino a compiere 27 anni. Quel giorno sembra abbia dato un pugno in pieno viso a un dj, Cesare Mario Guglielmo Viacava, in arte Mc Cece, presentatore del Nameless Festival di Barzio (Lecco). Il dj aveva commentato nel marzo precedente su Facebook, sulla bacheca di un conoscente, riferendosi a Fedez (colpevole di non essersi presentato a un evento milanese): «Quel gay non dichiarato ne ha combinata un'altra». Il rapper gli aveva intimato di ripetere quelle parole, Mc Cece lo aveva fatto e lui gli avrebbe così assestato il pugno. Scrisse al tempo Mc Cece sulla sua pagina Facebook: «Ci ha provato in tutti i modi a rovinare il Nameless il rapper Fedez! Tirarmi un pugno alla domanda #seigay e farsi difendere dal suo buttafuori non ti fa Uomo! Non ti fa Artista! Non ti fa nemmeno onore!». Il dj cita Fedez in giudizio, il rapper risponde con una querela per calunnia e dopo una serie ripetuta di udienze si arriva al 3 maggio scorso, con la ripresa a Lecco del processo a carico di Fedez (aggiornato al 5 luglio). Un discografico serbo, Goran Ilic, ha confermato la versione di Mc Cece e Fabio Rovazzi quella di Fedez, che dice di non averlo nemmeno sfiorato. Diranno i giudici se il rapper quel pugno l'ha dato oppure no, ma è ora che Fedez renda conto del suo passato da omofobo e sessista della peggior specie. 15 gennaio 2012 Fedez annuncia, dalla sua pagina Facebook, la presentazione di un nuovo mixtape (Fastlife vol. 3) nato in collaborazione con Gué Pequeno. Il post reclamizza L'idea sbagliata, contenuto in quel lavoro. Ecco un passaggio del brano, circolante su molti canali Youtube (su uno ha raggiunto oltre 3 milioni di visualizzazioni): «Si toglie i vestiti insieme / a quel briciolo di dignità rimasto. / Le tue labbra dicono no, / ma i tuoi occhi dicono Scopami!. / Mi stai dicendo che non sei come le altre / ma le sante non sono troie, / le troie non sono sante / e io non sono mai stato / un cristiano praticante. / Perdonami ti prego, / perdonami anche se / io per te mi ammazzerei / ma solo dopo di te» (versi cantati da Fedez). 97 Kalash commenta (1 anno fa): «Io per te mi ammazzerei, ma solo dopo di te» (124 mi piace, 0 non mi piace). Risponde Kerim Prod (8 mesi fa): «Yes». E ancora, a cantare è sempre Fedez: «Voi non siete racchie, / ma vere e proprie vacche / giuste per i mattatoi» (Te lo do, con Emis Killa); «Fuori luogo, / come il feto dentro il ventre di una lesbica» (Fuori luogo, con Canesecco e Gemitaiz); «Preferisco risultare stonato / che apparire finocchio. / Se ci ricasco m'ammazzo / mi sento un finocchio del cazzo / quando uso l'Auto-Tune» (D.O.A., Death Of Autotune). Era proprio agli inizi, Fedez, ma già prometteva bene.

Fedez contro la Rai? Clamorosa scoperta sulla telefonata: chi è la figlia dell'uomo dietro alla cornetta. Libero Quotidiano il 06 maggio 2021. Prosegue la polemica sul Concertone del Primo maggio in cui Fedez ha attaccato la Lega, rea di essere contro il ddl Zan (il disegno di legge contro l'omotransfobia). Il rapper non ha solo inveito dal palco contro il Carroccio, ma anche contro i vertici Rai. Il motivo? A suo dire Viale Mazzini gli avrebbe impedito di dire certo cose (contro la Lega appunto). Un botta e risposta, quello tra il marito di Chiara Ferragni e la Rai, pubblicata da Fedez stesso sui suoi profili social attraverso un video. "La famosa telefonata  pubblicata dal rapper vede come protagonista - scrive Giuseppe Candela per Dagospia -, oltre alla vicedirettrice Ilaria Capitani, anche il capoautore dell'evento Massimo Cinque, ritenuto responsabile di una gestione disastrosa. Tra agli autori dell'evento figura anche sua figlia Barbara Cinque, impegnata in questa stagione a Oggi è un altro giorno di Serena Bortone. Nella telefonata integrale Massimo Cinque si rivolgeva così al cantante: "Il servizio pubblico è il servizio pubblico. Tu puoi dire tutto quello che vuoi ma a questo punto dovresti avere le persone che citi nel tuo discorso che a questo punto dovrebbero difendersi. Non c'è bisogno di alterarsi. Le sto chiedendo di adeguarsi a un sistema che probabilmente a lei non lo riconosce ma è quello corretto. Lei ha tutte le sue ragioni ma permetta agli altri di esprimersi. Tutte le citazioni che lei fa con nomi e cognomi non possono essere citate perché non c'è una controparte. A prescindere dalle affermazioni vere o meno, quelle citazioni possono essere dette in contesti che non sono quelli che lei sta riferendo. […] Un contesto diverso da una tribuna politica non è corretto". Discorso però che non ha convinto Fedez, tanto che il rapper si è presentato sul palco per dire quanto gli fosse intimato di non dire. Creando così un vero e proprio putiferio.

Fedez parla ancora e il figlio sbotta: "Basta..." Novella Toloni il 6 Maggio 2021 su Il Giornale. Fedez è tornato a parlare del "caso Rai" attraverso alcune storie Instagram, ma questa volta a dire "basta" è stato il figlio di 3 anni Leone. A quasi una settimana dal concerto del primo maggio non si abbassano i toni dello scontro tra Fedez e la Rai sulla questione censura. Una storia che non sembra trovare fine e che, dopo la riunione della commissione di vigilanza Rai, sembra prendere una brutta piega per il rapper tra denunce, querele e allontanamento dei palinsesti televisivi di viale Mazzini. Fedez, però, continua a parlare sui social network, ma all'ennesima storia Instagram a sbottare e a dirgli "basta" questa volta è stato suo figlio Leone. Nelle scorse ore l’artista ha esordito sulla sua pagina Instagram per rilanciare l'assalto ai vertici Rai e in particolare al direttore di Rai Tre, Franco Di Mare: "Ragazzi si è appena radunata la commissione di Vigilanza Rai". Ma Leone, all'ennesimo video sulla polemica che dai sei giorni impazza ovunque, ha gridato spazientito: "Basta, non voglio!". Un'esclamazione che, oltre a far sorridere, avrà incontrato il consenso di molti che, da una settimana a questa parte, non leggono altro che notizie su Fedez. Dopo aver messo a letto il figlio, il rapper si è concesso ai follower per tornare all'attacco di Rai e Lega in merito al suo comizio del primo maggio: "In ordine, il direttore di Rai 3 mi accusa di manipolazione del video e allude al fatto che avrei tramato un complotto alle loro spalle con dei giornalisti. Dall'altra la Lega propone di denunciarmi". "Di Mare sostiene che la Rai non c'entra niente col primo maggio - ha proseguito Fedez sul suo canale social - perché ne acquisiscono solo i diritti. Allora a che titolo la vice presidente di Rai Tre mi dice di andare cauto nel fare nomi e giudica lei stessa il mio intervento inopportuno?". Per contro il direttore della terza rete di Stato, ascoltato in commissione vigilanza Rai, ha parlato di "strumentale polemica montata da Fedez contro la Rai. Forse c'è stato un calcolo dell'artista per ottenere più like, visualizzazioni e consensi". Una situazione complicata che ha portato come prima conseguenza l'allontanamento di Fedez dalle reti Rai e poi una possibile causa. Le iniziali conseguenze non hanno però sorpreso il rapper, che è tornato all'assalto: "Sapevo a cosa andavo incontro, ma rifarei quello che ho fatto 100mila volte. Io sono un privilegiato, se la Rai mi fa causa io ho i mezzi per difendermi, se la Rai mi bandisce a me non mi cambia la vita".

Fedez ora prova a difendersi: "Ero ignorante". Novella Toloni il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Sui social network il rapper si è scusato per alcune delle sue canzoni inneggianti all'omofobia ma il tempo del pentimento è durato poco e Fedez è tornato ad attaccare la Lega, Salvini e anche la stampa. Si potrebbe quasi dire che il cellulare è diventato l'estensione del braccio di Fedez. L'unico mezzo, oltre al palco del concertone, dove esprimere la sua opinione a ruota libera senza la presunta censura. Ma dopo gli attacchi e le arringhe, oggi, attraverso Instagram sono arrivate le scuse del rapper: "Ho peccato anche io. Da giovane ho sicuramente detto delle cose omofobe". Dopo giorni di polemica rovente, infatti, Fedez è passato da paladino dei diritti della comunità Lgtbq a primo odiatore per le sue dichiarazioni e per alcuni dei suoi brani più famosi palesemente omofobi. Il riferimento più chiaro è alla canzone "Tutto il contrario", scritta anni fa, dove il rapper cantava "Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing, ora so che ha mangiato più wurstel che crauti". Una posizione che si scontra con la sua fervente lotta in difesa dell'approvazione del ddl Zan che, scherzo del destino, se fosse approvata, vedrebbe proprio Fedez il primo soggetto ad essere denunciato in base alle nuove disposizioni normative sull'odio. Non solo. Come riporta Dagospia, passi che quello poteva essere definito un "errore di gioventù", peccato che quella canzone Fedez abbia continuato a cantarla nei suoi live fino al 2019 (dopo non avrebbe potuto solo per colpa del lockdown). "A metà del 2019, nel suo ultimo tour Paranoia Airlines - riporta il sito di Roberto D'Agostino - Fedez sul palco cantava ancora il discusso brano "Tutto il contrario". Non dieci anni fa, solo due anni fa. [...] È sufficiente consultare la scaletta del tour per ritrovare il brano tra quelli eseguiti con tanto di video". Lo sa bene Jacopo Coghe, vicepresidente di Pro Vita, che su Instagram è stato deriso dal rapper con una foto con sopracciglia arcobaleno e che ha inevitabilmente scatenato l'odio degli hater. E allora, giusto per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ecco arrivare le scuse di Fedez. "Mi fa strano dover rendere conto di una canzone che ho scritto dieci anni fa, a 19 anni si è delle persone completamente diverse e ci si esprime con termini e toni completamente diversi. Certe cose oggi non le rifarei uguali. Non c'è mai stata nel quartiere in cui sono cresciuto educazione in tal senso ma poi ho cercato di migliorarmi", ha dichiarato nelle Stories il marito di Chiara Ferragni. Peccato che il pezzo scritto a 19 anni non sia l'unico finito nel mirino, ma ci sia anche il più recente "Le feste di Pablo". La scusa, però, è pronta anche per quel brano: "Ho sbagliato per cose dettate dall'ignoranza; ho fatto un testo recentemente che è stato giudicato transfobico, ma non era voluto: ho invitato una ragazza trans al mio podcast, abbiamo affrontato il tema e ho imparato un sacco di cose perché non mi voglio dare preclusioni". Le scuse sono durate giusto il tempo di una storia (o due), però, visto che poche ore dopo il rapper è tornato ad attaccare la Lega, Matteo Salvini e anche i giornalisti per alcune domande rivoltegli su Grillo: "Ha detto cose terribili ed aberranti, non esiste giustificazione. Ma esiste una lista di temi a cui devo dare una risposta prima di esprimere una mia opinione. Mi spieghi, ora che le ho chiarito il punto su Grillo ho ottenuto il permesso di parlare di altro? Funziona così?". Nuovi attacchi, nuove provocazioni e nuovi politici da mettere nel mirino come Guido Crosetto, con il quale il rapper ha ingaggiato un battibecco social sul tema della magistratura e del Csm "sulle oltre 30.000 ingiuste detenzioni e sulle carceri italiane". Il rappresentante di Fratelli d'Italia ha provato a coinvolgerlo nel dibattito, suscitando la replica seccata del rapper: "Mi chiedo una cosa: un uomo politico che non riesce a sollevare interesse su battaglie che gli stanno a cuore al punto da dover chiedere ad un povero ignorante come me, sta forse sbagliando qualcosa?". Una risposta sprezzante alla quale Crosetto non ha dato corda: "Il mio non era un messaggio condito di disprezzo, la sua risposta sì. Era semplicemente un modo per far risaltare l'incapacità della politica di sollevare temi. Cosa che invece lei fa. Ora potrebbe scusarsi".

Dagospia il 2 maggio 2021. Dal profilo Facebook di Selvaggia Lucarelli. Alcune considerazioni sparse sul caso Fedez: Oggi abbiamo scoperto che in Rai esiste il patronato politico, pazzesco. Vorrei raccontarvi che succede da qualche decennio e che la politica (TUTTA, a destra e sinistra) non si limita a chiedere a un cantante di non fare politica su un palco, ma decide amministratori, conduttori, contenuti e veti. Li decidono anche i partiti di quei politici che oggi twittano Bravo Fedez, con acrobazie degne delle finali di un campionato russo di ginnastica ritmica. Fedez ha fatto benissimo a non cedere alle pressioni che abbiamo ascoltato. E ha fatto anche bene a registrare e a sputtanare chi negava tentativi di censura. Faccio però sommessamente notare che alla fine sono rimasti tentativi. E’ salito sul palco e ha detto quello che voleva, non mi pare un passaggio trascurabile. Con un Renzi qualunque dubito anche solo che sarebbe stato INVITATO su quel palco. Fedez improvvisamente paladino del mondo Lgbt. Bene. Fedez però è anche quello che quando il primo cantante italiano famoso anche fuori dai confini nazionali ha fatto coraggiosamente coming out e nel 2010 - mica ora, con la strada più che spianata- nella canzone “Tutto il contrario” gli dedicò la strofa” “Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing, ora so che ha mangiato più wurstel che crauti. Si era presentato in modo strano con Cristicchi: ciao sono Cristiano non è che me lo ficchi?”.  Ora, era ironico? Va bene. Voleva dire il contrario? Va bene. Quella strofa però era violenta, qualunque lettura le si voglia dare. La canzone è ancora lì, mai ritirata. E questo che Fedez definisce “cambiamento nel modo di esprimersi” lo avrei accompagnato con delle scuse fatte bene a Ferro, come gli suggerì Mika anni fa: “Si dice sono stato uno stronzo”. Invece, a chi glielo ha fatto notare negli anni, sempre risposte piccate, infastidite. E Ferro- che è stato coraggioso quando quel coraggio poteva avere un prezzo molto alto- non gliel’ha mai perdonato. A ragione. Non importa quanto si sbaglia, importa come poi decidi di riparare. Fedez coraggioso? C’è una differenza tra l’essere nel giusto ed essere coraggiosi. Questo secondo me è il passaggio più importante. Il coraggio si misura con un’unica unità di misura: quanto e cosa si rischia di perdere, compiendo una determinata azione. Fedez ha sposato una causa giusta in una fase di consenso per il ddl Zan enorme, e per fortuna. Non lavora in Rai, non ha bisogno dei pochi soldi della Rai perché ne guadagna moltissimi altrove. “Beh, intanto lui ha denunciato le pressioni e gli altri no!”, dicono in molti. Beh, signori miei, non tutti si possono permettere di rinunciare al loro stipendio in Rai o altrove, per questioni di principio. E lo dice una per cui i principi sono importanti. C’è chi deve mangiare, Fedez continuerà a mangiare. Sapete cosa sarebbe stato davvero coraggioso, da parte di Fedez? Fedez è testimonial Amazon. Guadagna svariati milioni di euro con Amazon. Questo sì che rappresenta quel “qualcosa da perdere”. Ieri era la festa dei lavoratori, questo era il tema e su quel palco si doveva parlare soprattutto di lavoro e lavoratori. Lui quel tema l’ha sfiorato con quel “caro Mario” un po’ frettoloso, e poi è passato ad altro. Poteva rivolgersi al suo principale datore di lavoro, Amazon, e usare quel palco per chiedere di tutelare i diritti dei suoi lavoratori che fanno pipì nelle bottiglie e i cui sindacati sono costantemente ostacolati. In questo Fedez poteva essere coraggioso. Dimostrare di avere il coraggio di perdere qualcosa. Sposare - anche- una causa molto meno popolare, molto meno nota, molto meno raccontata. Di Amazon dentro e fuori il Parlamento, non frega niente a nessuno. A parte ai sindacati, al Landini che parlava di questo l’altra sera a Piazza Pulita. Che si sporcano le mani, ma non con una scritta da fotografare su Instagram. Dunque, Fedez, ha fatto male? No, ha dato massima visibilità ad una questione che aveva (per fortuna) già molta visibilità, guadagnando molto in termini di consenso. Per questo, va ringraziato comunque, al di là del fatto che si intraveda o meno la scintilla della verità in quello che fa. Contano i risultati. Mi aspetto però che nelle sue battaglie sia disposto anche a perdere qualcosa, visto che è uno dei pochi che se lo può davvero permettere. Infine, Salvini. Lui che per ragioni di opportunismo politico da un po’ ha optato per il registro passivo- aggressivo e risponde “Andiamo a prenderci un caffè” a qualsiasi provocazione dei suoi avversari politici, fa pisciare sotto dal ridere. Quasi lo preferivo quando si presentava con le bambole gonfiabili sul palco: almeno, somigliava alle sue parole.

Da ilgiornale.it il 2 maggio 2021. Più che un cantante ormai Fedez sembra essere divenuto un politico. È vero che ognuno ha diritto ad esprimere le proprie opinioni ma colpisce l’impegno sempre più marcato del rapper su temi sociali tanto cari alla sinistra e al mondo progressista. Soprattutto perché ogni suo intervento riesce a scatenare polemiche. Forse, chissà, a Fedez il mondo della musica inizia a stare stretto. E così il cantante volge la sua attenzione altrove. Ormai da tempo sui suoi canali social lancia proclami e non risparmia attacchi contro quelli che considera oppositori. Nel suo mirino, in particolare, ci sono la Lega e Matteo Salvini. Proprio con l’ex ministro gli scontri verbali sono sempre più frequenti. L’ultimo infuocato tema sul quale Fedez è intervenuto è il ddl Zan, il disegno di legge contro le discriminazioni basate su genere, sesso, disabilità e orientamento sessuale. Una dimostrazione la si è avuta ieri quando sul palco del concerto dedicato alla Festa del Primo Maggio il rapper si è esibito in un monologo durante il quale ha citato più volte il leader leghista. Tripudio per il mondo progressista e radical-chic. Del resto se difendi un provvedimento tanto caro alla sinistra attaccando un avversario, per di più del calibro dell’ex ministro, non puoi che essere supportato. Da Pd e M5s si sono levate voci di sostegno in favore del rapper che ha accusato la Rai di aver tentato di censurare il suo intervento. Quello che appare è che dal palco degli spettacoli Fedez si sta trasferendo poco alla volta sulle tribune politiche. Nuovo idolo della sinistra, sembra essere diventato il rapper. Vicino alle persone deboli e discriminate tanto che non perde occasione di lanciare proclami per l’approvazione del ddl Zan. Eppure Fedez non è stato sempre così attivo sul fronte dei diritti. E qualcuno, nelle ultime ore, lo ha fatto presente. Non solo gli utenti dei social ma anche il Codacons hanno evidenziato cosa scriveva il rapper qualche anno fa sui gay. L’associazione dei consumatori, ad esempio, ha ricorda il testo di una canzone pubblicata da Fedez nel 2011 il cui contenuto "appare chiaramente omofobo ed offensivo verso i gay, e che sembra dimostrare il doppio salto carpiato compiuto dal rapper, passato in poco tempo da testi omofobi a difensore del ddl Zan". Nel testo del brano "Tutto il contrario" si legge: "Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing/Ora so che ha mangiato più würstel che crauti/Si era presentato in modo strano con Cristicchi/Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?/E non è vero che il potere è in mano ai ricchi". Non proprio parole tenere. "Tutti cambiano idea nella vita", ha spiegato Fedez. "Il vostro leader è passato da "senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani" a voler governare il Paese", ha proseguito il cantante che poi ha evidenziato che la sua canzone si intitola "Tutto il contrario: io scrivo tutto il contrario di quello che penso. Non è difficile". Indubbiamente nella vita sono possibili ripensamenti, anche così clamorosi. Chissà se all'epoca ci fosse stata la legge Zan cosa sarebbe successo al rapper. Quale sarà la prossima battaglia del rapper? E nel suo mirino ci sarà sempre Salvini? Lo si saprà nel prossimo futuro. Forse non bisognerà aspettare molto per le mosse del cantante, nuovo idolo della sinistra.

Quarta Repubblica, Federico Rampini seppellisce il Pd: "Sceglie Fedez? Ormai è il partito delle celebrità". Libero Quotidiano il 03 maggio 2021. Il Pd in ginocchio Fedez si sta scavando la fossa da solo. Ne è convinto Federico Rampini, storico inviato di Repubblica, non certo tacciabile di simpatie sovraniste o destrorse. Ospite di Nicola Porro in collegamento con Quarta Repubblica su Rete 4, il giornalista commenta con durezza le prese di posizione dei politici dem sul caso della presunta censura di Fedez al Concertone del Primo maggio. Un caso che coinvolge la Rai (che ha smentito con forza, scaricando ogni eventuale responsabilità sugli organizzatori esterni), ma anche la Lega e Matteo Salvini, chiamati in causa dal rapper milanese in quanto responsabili dell'"insabbiamento" del Ddl Zan. "La sinistra che diventa il partito delle stars non si accorge che perde popolarità", chiosa Rampini riassumendo in poche battute una tendenza ormai avviata da anni nella gauche sempre più salottiera (tv e non)  italiana. "Sono cittadino di un Paese dove è stato legalizzato il matrimonio gay, e lo considero una conquista di civiltà, ma sono molto perplesso sulla sinistra che tende a diventare il partito delle celebrities". Gli fanno eco Daniele Capezzone e Stefano Zecchi, politicamente schierati dalla parte opposta. "Fedez ha fatto tante cose che gli vanno riconosciute, ciò detto siamo davanti ad un volpone incredibile e polli quelli che ci cascano", commenta il primo. Secondo il filoso Zecchi invece "c'è una degenerazione antropologica della politica, non accetto che la politica usi Fedez in questo modo. Il Pd ormai è il partito dell'establishment, che stabilisce chi sta bene o chi sta male". E il Concertone del Primo maggio, da che mondo e mondo, è il palcoscenico perfetto per questo manicheismo.

Da liberoquotidiano.it il 6 maggio 2021. Il Pd in ginocchio Fedez si sta scavando la fossa da solo. Ne è convinto Federico Rampini, storico inviato di Repubblica, non certo tacciabile di simpatie sovraniste o destrorse. Ospite di Nicola Porro in collegamento con Quarta Repubblica su Rete 4, il giornalista commenta con durezza le prese di posizione dei politici dem sul caso della presunta censura di Fedez al Concertone del Primo maggio. Un caso che coinvolge la Rai (che ha smentito con forza, scaricando ogni eventuale responsabilità sugli organizzatori esterni), ma anche la Lega e Matteo Salvini, chiamati in causa dal rapper milanese in quanto responsabili dell'"insabbiamento" del Ddl Zan. "La sinistra che diventa il partito delle stars non si accorge che perde popolarità", chiosa Rampini riassumendo in poche battute una tendenza ormai avviata da anni nella gauche sempre più salottiera (tv e non) italiana. "Sono cittadino di un Paese dove è stato legalizzato il matrimonio gay, e lo considero una conquista di civiltà, ma sono molto perplesso sulla sinistra che tende a diventare il partito delle celebrities". Gli fanno eco Daniele Capezzone e Stefano Zecchi, politicamente schierati dalla parte opposta. "Fedez ha fatto tante cose che gli vanno riconosciute, ciò detto siamo davanti ad un volpone incredibile e polli quelli che ci cascano", commenta il primo. Secondo il filoso Zecchi invece "c'è una degenerazione antropologica della politica, non accetto che la politica usi Fedez in questo modo. Il Pd ormai è il partito dell'establishment, che stabilisce chi sta bene o chi sta male". E il Concertone del Primo maggio, da che mondo e mondo, è il palcoscenico perfetto per questo manicheismo.

Fabio Martini per "la Stampa" il 6 maggio 2021. Con i suoi 29 anni vissuti in casa Rai e i quattro trascorsi in casa Cairo a La7, pochi come lui conoscono i politici, le loro debolezze e le loro pressioni sui diversi palcoscenici tv, e in questa intervista a La Stampa, Massimo Giletti spiazza i tradizionali schemi di buoni e cattivi.

Fedez?

«Quanta debolezza culturale nel non capire che basta mezza frase di personaggi così abili e influenti e sei spacciato: fai diventare martire chi, magari, non è stato neppure oggetto di una censura! I martiri veri sono altri!».

Tutti si lamentano della lottizzazione della Rai, ma nel corso degli anni c' è stata una lottizzazione greve e una lottizzazione artefice di pagine di ottima tv, magari ripetibili?

«Certo. C' è molta ipocrisia: il Parlamento, come è giusto che sia, detiene il controllo su un' azienda pubblica. Il problema è che ai tempi di Ettore Bernabei, la massima espressione del potere e della politica, c' erano grandi dirigenti che avevano al centro il prodotto e sapevano dire no ad un certo tipo di pressioni. Oggi c' è uno scadimento di qualità e di competenze nella gestione dell' azienda. Una parte dell' azienda lavora alla grande e un' altra parte è prona ai poteri politici. In una forma di vassallaggio che mi fa molta tristezza».

A caldo la vicenda Fedez è sembrata grave, ma i dettagli messi assieme nei giorni successivi hanno ridimensionato la denuncia?

«Sì certo, c' è stata l' abilità da parte di Fedez di saper trasformare in evento una piccola cosa di cui nessuno si sarebbe mai occupato. Questa storia racconta la debolezza culturale di una struttura che non capisce che non si possono dire certe cose. Fedez sarà pure bravo a gestire il marketing di se stesso ma è anche un artista che deve parlare di ciò che vuole sul palco. E invece tutti hanno finito per parlare del caso. Lo stesso Salvini non ha potuto rispondere a Fedez. Devi ammiccare, devi invitarlo a prendere un caffè. Morale della storia: non "puoi" censurare Fedez che ha milioni di persone che lo seguono. L' aveva detto Umberto Eco diversi anni fa che saremmo diventati schiavi dei social».

In una rete privata margini di libertà sono teoricamente superiori ma non sarebbe credibile negare le pressioni anche in questo ambito. Vero?

«Sfido a chiedere a qualunque dei miei colleghi se Cairo abbia mai fatto una telefonata a Mentana, a Floris e a tutti gli altri per chiedere qualcosa! Io sono a La7 da quattro anni e nella mia decisione sul futuro peserà il mio senso di libertà. Perché io faccio una televisione che è al "limite". Le battaglie contro Bonafede e le scarcerazioni dei mafiosi. O quella che ho fatto, isolato, contro Arcuri non avrei mai potuto farle altrove».

Da parte di un politico ci sono tanti modi per esercitare una pressione: non vengo se mi pressi troppo o se mi fai trovare interlocutori sbagliati.

«Sa cosa ho detto ai miei? Ragazzi, lo vedete, da quanto ho "toccato" certe corde, non viene più nessuno dei big! Di Maio, Zingaretti, nessuno. E ho aggiunto: sappiate una cosa: forse dobbiamo cambiare idea sulla valutazione di un programma. Il valore si misura a sottrazione, sei non hai molti nomi importanti, significa che lavori bene! Se non vengono, vuol dire che stiamo facendo un lavoro importante, che dà fastidio».

Chi sono più permalosi? Quelli di sinistra, quelli di destra o i Cinque stelle?

«Permalosi i politici? Direi che dovremmo farlo noi un mea culpa: oramai ci sono politici che vogliono in anticipo le domande. E allora, pur di avere il politico forte, ti accordi, non fai le domande! Se ci dobbiamo appiattire meglio non averli».

Una ricetta per limitare l' invadenza dei politici in Rai?

«Impossibile. La politica in Italia non è ancora matura per fare un passo indietro e forse non mollerà mai. Soprattutto i programmi che oramai contano più dei Tg».

Ha mai sospettato che la semplificazione del linguaggio dei talk show, ragionare per buoni e cattivi, vincitori e perdenti ha spalancato la strada all' antipolitica?

«Oggi la politica si fa per social e per slogan e forse anche noi siamo stati in parte responsabili. Ma non siamo certo responsabili dell' incapacità della politica di programmare ad una settimana. Pensano solo all' oggi».

FdI: “Concertone? No, Festa dell’Unità. Fedez esprime il furore ideologico di sinistra sulla Zan”. Marta Lima domenica 2 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. La passerella di Fedez al Concertone? Matteo Salvini l’ha presa con filosofia, citando Buddha e la meditazione, che dovrebbe praticare maggiormente Fedez. Dopo il delirio di Fedez sul palco del Primo Maggio  (video) il leader della Lega lo ha invitato a bere un caffè, per parlare di libertà e di diritti”. “Adoro la Libertà. Adoro la musica, l’arte, il sorriso. Adoro e difendo la libertà di pensare, di scrivere, di parlare, di amare. Ognuno può amare chi vuole, come vuole, quanto vuole. E chi discrimina o aggredisce va punito, come previsto dalla legge. È già così, per fortuna. Chi aggredisce un omosessuale o un eterosessuale, un bianco o un nero, un cristiano o un buddhista, un giovane o un anziano, rischia fino a 16 anni di carcere. È già così”, scrive Salvini su Fb. “‘Canta che ti passa’ invece Fedez preferisce fare un comizio, trasformando il ‘concertone’ in un festival dell’Unità vecchio stile. E, dal palco in diretta Rai3, mentre pubblicizza indirettamente la Nike indossando un cappello logato, il politico-cantante insulta, con tanto di nomi e cognomi, rappresentanti del mondo associativo pro Life, la cui ‘colpa’ è quella di criticare il ddl Zan e l’introduzione del reato di omontrasfobia”. Lo dichiara la senatrice di Fratelli d’Italia, Isabella Rauti, responsabile del Dipartimento Pari Opportunità, Famiglia e Valori non negoziabili. “La smodata esibizione del cantante – prosegue Rauti – è la conferma del furore ideologico del ddl Zan e dell’intolleranza verso tutti coloro che dissentono dal ‘pensiero unico’. Così, abusando del servizio pubblico pagato da tutti noi e senza possibilità alcuna di contraddittorio, viene lanciato ed imposto un messaggio politico a senso unico, funzionale alla più generale offensiva gender. Le esternazioni di Fedez sono l’ulteriore conferma di voler reprimere la libertà di espressione e di opinione di chi la pensa diversamente”, conclude.

Sgarbi fulmina Fedez: “Non sei un artista ma un militante”. La Rai: “Telefonata tagliata ad arte”. Marta Lima domenica 2 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia.  “Se decidi di partecipare al concerto del Primo Maggio parli di lavoro, non fai un comizio per attaccare i tuoi avversari. Diversamente, il tuo ruolo non è quello dell’artista, ma di un militante che utilizza il servizio pubblico per propagandare le proprie idee politiche”. E’ durissimo Vittorio Sgarbi su Twitter, dopo il comizio andato in scena ieri al Concertone del Primo Maggio, con accuse di censura rivolte alla Rai dal rapper e un monologo politico rivolto contro la Lega e contro la legge Zan. Dopo le accuse lanciate ieri da Fedez, “la direzione di Rai3 conferma di non aver mai chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al concerto del Primo Maggio – richiesta invece avanzata dalla società che organizza il concerto – e di non aver mai operato forme di censura preventiva nei confronti di alcun artista”. E’ quanto si legge in una nota rilasciata dopo il video pubblicato su Twitter dal rapper con la registrazione della telefonata con la Rai 24 ore prima dell’evento. In riferimento al video pubblicato sul suo profilo Twitter da Fedez, notiamo che – prosegue la nota – l’intervento relativo alla vicedirettrice di Rai3 Ilaria Capitani (l’unica persona dell’azienda Rai tra quelle che intervengono nella conversazione pubblicata da Fedez) non corrisponde integralmente a quanto riportato, essendo stati operati dei tagli. Le parole realmente dette sono: “Mi scusi Fedez, sono Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai3, la Rai non ha proprio alcuna censura da fare. Nel senso che… La Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza, ci mancherebbe altro, né di quello che lei dirà.” E ancora: “Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo […] Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto, ma questa è una cosa sua.”

Ignazio Stagno per ilgiornale.it il 5 maggio 2021. È salito sul palco per attaccare, per fare un sermone, per usare uno spazio del servizio pubblico (pagato dai contribuenti) per fare propaganda politica senza contraddittorio. Al di là della polemica su presunte censure preventive o meno, Federico Lucia ha scelto di ignorare il tema centrale del concertone del Primo Maggio, il lavoro, per mettere nel mirino il suo nemico preferito la Lega. Di certo le citazioni degli esponenti della Lega riportate nel discorsetto di Fedez sono da condannare, ma resta il fatto che le sedi per il confronto politico sono altre. Eppure ancora una volta il campione di moralismo, l'uomo che incarna tutte le libertà moderne (tranne quella di ascoltare le ragioni altrui) è salito sul pulpito e ha moralizzato tutti in nome del Ddl Zan. Mentre Fedez sciupava il suo intervento per parlare del disegno di legge contro la omotransfobia, milioni di lavoratori, che magari in passato hanno votato a sinistra, vedevano definitivamente morire sul palco del 1 maggio la tanto amata lotta di classe e i diritti rivendicati per più di un secolo. Più importante (e soprattutto più figo) per il signor Lucia parlare del mondo Lgbt e del Carroccio. Il messaggio che ha voluto regalarci Fedez per la festa del Primo Maggio è il seguente: vi spiego io quali sono i valori in cui credere, vi dico io qual è la parte giusta in cui stare e soprattutto vi dico io chi sono i "buoni" e chi sono i "cattivi". Poi l'ambizione di avere una parte del Paese ai suoi piedi adorante sui social a scrivere "come è bravo", "quanto sto godendo". Un ego smisurato quello di Federico Lucia che però non ha avuto il tempo di controllare il suo passato. Già perché il moralizzatore che col bazooka della retorica e del killeraggio politico contro la Lega ha di fatto ignorato i lavoratori nel giorno della loro festa, ha scordato quando dal pulpito del rap offendeva e insultava chi garantisce la sua sicurezza e soprattutto custodisce lo Stato di diritto in cui Federico pontifica dai palchi. Basta rispolverare il testo di una sua canzonetta di qualche tempo fa per rendersi conto della coerenza del signor Lucia. Il testo che va ricordato è "Tu come li chiami". In pochi pseudo-versi, Fedez attacca forze dell'ordine e militari: "Tutti quei figli di cani, tu come li chiami, carabinieri e militari, io li chiamo infami, tutti quei figli di cani". Parole chiare che non meritano commenti. Qui non c'è odio, sia chiaro. Il moralizzatore segnala l'odio altrui, le sue sono "opinioni", la sua è "arte", guai a toccaglierla. Lui è libero di insultare chi vuole, anche le divise, perché vive in un Paese come il nostro. Ma almeno ci risparmi le lezioncine col microfono in mano. Impari dai suoi testi in libertà cosa significa davvero democrazia.

Giuliano Guzzo per "la Verità" il 5 maggio 2021. Dopo lo show di Fedez al concertone, la sinistra ha preso ad adorare il ddl Zan come mai prima, quasi come testo sacro, un vangelo progressista da approvare a tutti i costi. D'accordo, ma agli italiani la norma interessa davvero? Anche se non c' è conduttore televisivo né influencer che osi porsi il dubbio, è uscito un sondaggio che svela quello che in fondo tutti sanno: alla stragrande maggioranza degli italiani di identità di genere, transgenderismo e dintorni interessa ben poco. Si tratta d' una rilevazione di cui ha dato notizia ieri sulla Stampa la scrittrice Marina Terragni e promossa con una raccolta fondi da varie sigle femministe: Se non ora quando, Radfem Italia, Libreria delle donne, Udi. I dati rilevanti emersi attraverso tale indagine sono almeno tre. Il primo riguarda l'atteggiamento rispetto alla partecipazione di atlete trans agli sport femminili, tema assai caro alla Casa Bianca, dove Joe Biden ha emesso un apposito executive order permissivo in tal senso. Ebbene, si è visto come il 56% degli interpellati dissenta da questa linea, il 14% non sappia e solamente il 30% ne sia favorevole. E questo è il dato più arcobaleno di tutti. Sì, perché la scelta del sesso a prescindere da quello di nascita, con una semplice e rapida autodichiarazione, convince invece appena il 20% dei cittadini, con quasi il 70% (68, per la precisione) che si dichiara convintamente contrario. Musica non diversa, anzi, per i farmaci che bloccano lo sviluppo di bambine che si sentono «dell'altro sesso»: solo il 13% degli italiani è favorevole al loro impiego. Insomma, sette italiani su dieci, se non di più, rifiutano quell' ideologia gender che, inutile girarci attorno, è il cuore pulsante del ddl Zan. Sì, perché ritorna in almeno due passaggi centrali del testo. Anzitutto nel primo articolo della norma - precisamente alla lettera d) del primo comma - là dove si definisce l' identità di genere come «identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall' aver concluso un percorso di transizione». Ma anche l'articolo 7 del testo, quello sulle iniziative di sensibilizzazione contro l' omobitransfobia «per le scuole di ogni ordine e grado», è evidentemente permeato da una visione antropologica tale per cui il genere altro non è che «identificazione percepita e manifestata di sé». Ecco che allora il sondaggio svelato dalla Terragni diventa assai scomodo. Così scomodo che pure il quotidiano che l' ha riportato - la citata Stampa - ha provato maldestramente ad insabbiarne i contenuti con un titolo furbetto: «Scegliere il proprio genere? L' Italia si spacca in due ma prevale il fronte del no». «Il titolo della Stampa "minimizza"», protesta la stessa Terragni sui social. In effetti, cosa ci sia di spaccato «in due» in uno scenario che vede almeno sette su dieci degli interpellati contrari ad una certa idea, lo sa solo il titolista della testata diretta da Massimo Giannini, assai portato per il genere fantasy. Ma per tutti gli altri, abituati a leggere i numeri - e pure a comprenderli -, la sostanza del sondaggio promosso dal fronte femminista è chiarissima: sulla norma di Alessandro Zan, quello che una volta si sarebbe definito Paese reale ha le idee ben diverse da quelle chi vive negli attici milanesi di City life. Dopodiché, ovvio, la sinistra fa bene a tenersi stretti i suoi influencer. Basta che poi, alla prossima batosta elettorale, non si mettano nel mirino i sovranisti, che sfondano per il semplice fatto che, a quelli «civili», continuano ad anteporre altri diritti. Tipo arrivare a fine mese.

Antonio Padellaro per “il Fatto Quotidiano” il 5 maggio 2021. "In realtà questo è un depistaggio per il funzionario della Rai", gorgheggiavano Elio e le Storie Tese al Concertone del Primo maggio 1991. Citato dopo il caso Fedez come la storica censura in diretta del servizio pubblico di lorsignori. Con alcune differenze rispetto a quanto accaduto un trentennio dopo. A cominciare dal contenuto della canzone "Sabbiature", al cui confronto il monologo dell'influencer milanese sulla legge Zan è una tenera filastrocca di Natale. A ritmo di rock: "Perché anche Andreotti è stato giudicato dalla corte inquisitoria per un caso di depistaggio. Nelle indagini sul tentato golpe Borghese. Il caso poi è stato archiviato come del resto altri 410 su 411. E gli unici sfigati che non sono stati archiviati sono stati Gui e Tanassi. Per il caso della Lockheed. Ma d'altra parte Tanassi era il segretario del Partito socialdemocratico. E come lui Pietro Longo che era nella P2 . E dopo di lui Nicolazzi è stato inquisito per le carceri d'oro. Ma tutto questo è stato archiviato in nome dell'amore". Perché quei birbanti sventolavano i panni zozzi dei politici potenti al cospetto del popolo italiano (ascolti boom) senza sermoneggiare ma prendendo per i fondelli tutto il cucuzzaro. Compresi i papaveri di viale Mazzini. "Come anche il caso delle armi all'Iraq. In cui era coinvolto l'attuale presidente della Rai Manca. Poi il caso è stato archiviato ma il popolo italiano si chiede perché. Evidentemente il popolo italiano non è deficiente. Se tutti gli anni elegge questi uomini. È perché ha capito che loro lo fanno nel nome della nazione. E nel nome dell'amore". Sapremo poi che in Rai scoppia l'iradiddìo. Ma Elio è incontenibile: "Urliamo anche ti amo a Ciarrapico l'attuale presidente della Roma. Lui vendeva il pesce c'ha una fedina penale lunga così. Poi ha conosciuto Andreotti, è diventato il re delle acque minerali. Ha avuto un prestito di trentanove miliardi con cui ha comperato la Fiuggi". Stacco, appare il cerimoniere Vincenzo Mollica con faccia d'ordinanza, scaraventato sul palco per arginare la montagna di merda che sta travolgendo i palazzi della Capitale. Farfuglia: "Cerco di capire una cosa. Stiamo passando dalla Rete tre alla Rete due? Benissimo. No ancora no". Geniale. Lui si è fatto scudo umano mentre oscurati dalla diretta quei disgraziati continuano a cantare: "Ti amo Ciarrapico. Ti amo per l'emissione di assegni a vuoto". Imparate gente, imparate come si scortica davvero il potere. E come si censurano i veri rompicoglioni. Senza spararsi sui piedi.

Estratto dell'articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 5 maggio 2021. Negli anni Novanta il partito-azienda era Forza Italia. Negli anni Venti sono i Ferragnez. (…) Nella dinamica del partito-azienda - un flusso quotidiano di post, tweet, foto, streaming, un reality h24 che produce egemonia come gli intellettuali organici negli anni Cinquanta, lo strutturalismo nei Settanta e Maria De Filippi negli anni Zero - Ferragni fa la politica, Fedez fa il politico. Lei ci mette la visione, lui le ansie militanti. Dopo il Concertone è tutto un chiedersi: farà politica? È il nuovo "fortissimo" punto di riferimento della sinistra? Il nuovo papa straniero? Di certo nessuno, a sinistra, si azzarda a dargli torto. Del resto, se Fedez attacca i beceri leghisti anti-gay, che fai, non gli dici bravo? Glielo dici. E intanto è già scattata la legge del beduino, o con lui o contro di lui, e se ne contesti i metodi sei amico dei censori, e se vedi l'ombra del grillismo più vieto sei colluso con Pillon, perché la filosofia di genere, su cui si scannano da anni anche le femministe, è non binaria ma il dibattito nell'era dei social è super binario: o di qua o di là. E Fedez sa far scattare l'interruttore del circuito come pochi altri. La centralità di Fedez si basa sulla nuova catena del valore: visibilità, consenso, royalties. È insomma già tutto molto politico senza bisogno di scese in campo e nuovi partiti. Perché la politica questo è oggi, mica i programmi elettorali e le mozioni in Parlamento. (…) Fedez vende, intraprende, sponsorizza, conduce ma ha ancora la saltuaria ambizione di rimarcare il suo spirito anti-sistema. Quale sistema? Come quale sistema? Il Sistema, maiuscolo. Come tutti i sedicenti scomodi ha la tendenza a seguire il flusso ma con la posa del contestatore, condivide con buona parte della sua generazione la presunzione di essere controculturale anche quando fa il bagno nel conformismo, "sono fuori dal coro" dicono oggi tutti i migliori coristi e i tempi sono questi, in un bar del 2021 sarebbe l'avventore qualunquista a scagliarsi infuriato contro il Nanni Moretti di Ecce bombo rivendicando il coraggio e la scomodità dei suoi strali contro il magna magna ("E che siamo, in un giornalone? Ve li meritate i giornaloni!"). (…) Fedez ha vinto la battaglia con la coscienza ideologica e quindi la battaglia dell'esistenza. Ora le ha cantate a Salvini, e domani le canterà alla sinistra che lo applaude e al centro che non si schiera, e ci sono buone probabilità che lo farà citando gli indifferenti di Gramsci, il bacio Perugina dell'impegno prêt-à-porter. Ma, nel caso, non si illudano i "compagni" già sedotti sul ddl Zan. 

Santoro ora si inchina a Fedez: "Pagherei il canone per lui". Luca Sablone il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Il giornalista elogia il rapper italiano dopo il discorso in onda sulla Rai: "Grazie, ci hai fatto assaporare di nuovo il profumo della libertà". Anche Michele Santoro si aggiunge al fronte che è andato in difesa di Fedez. Il rapper italiano, diventato adesso il punto di riferimento della sinistra, ha tenuto un discorso al Concertone del Primo maggio per schierarsi a favore del ddl Zan e per attaccare alcuni esponenti della Lega. Il marito di Chiara Ferragni ha inoltre pubblicato un video sui social per denunciare ciò che definisce un tentativo di censura da parte della Rai, anche se da Viale Mazzini hanno tenuto a smentire questa versione. L'ultimo a difendere il cantante è stato il giornalista, intervistato da Massimo Giletti a Non è l'arena su La7. L'ex conduttore di Servizio pubblico ha voluto ringraziare Fedez per la prova di coraggio che ha dimostrato nelle scorse ore: "Grazie Fedez perché ci ha fatto assaporare di nuovo un profumo che era stato cancellato dalla Rai, ovvero quella della libertà". Sostiene che persone come Fedez potrebbero rappresentare un buon motivo per cui pagare il canone: "Io il canone non lo pago volentieri per vedere Salvini nei telegiornali che non solo parla senza contraddittorio, ma con quelle immagini di repertorio che rullano come in nessuna altra circostanza civile nel mondo". E ha criticato i monologhi concessi agli esponenti dei partiti a cui viene consentito di tenere dei veri e propri comizi televisivi senza che i giornalisti pongano domande: "Ci stiamo rassegnando a questa situazione, e vogliamo parlare di libertà?". Santoro però ha stigmatizzato gli interventi dei politici italiani - tra cui l'ex premier Giuseppe Conte ed Enrico Letta - domandandosi chi ha cancellato quel profumo di libertà dalla Rai: "L'hanno cancellata i loro partiti, così come Salvini e la Meloni". Successivamente ha rimproverato la Rai per la gestione che ha adottato nel corso dell'emergenza Coronavirus: "Si è autoridotta sia come lavoro negli studi, sia come format dei programmi. Quindi ha assecondato l'andamento della pandemia". Invece a suo giudizio doveva essere il "centro di una risposta per i lavoratori dello spettacolo", duramente colpiti dalle restrizioni imposte per combattere la diffusione del Covid-19. Secondo il giornalista nessun sistema può impedire né l'esercizio di una libertà costituzionale né il diritto di autore di esprimersi liberamente, soprattutto quando il contesto viene visto come appropriato: "Non c'è più bisogno di censurare nessuno semplicemente perché non c'è più libertà. Quando non c'è libertà cosa devi censurare? La censura diventa una cosa superflua".

Mezz'ora in più, Lucia Annunziata: “Fedez ha ragione, le scuse di Salini non bastano”. Altro terremoto su Rai3. Libero Quotidiano il 02 maggio 2021. Lucia Annunziata ha assunto una posizione ferma e inequivocabile su quanto accaduto sul palco del concertone del Primo Maggio, dove Fedez ha denunciato le “mostruosità omofobe” della Lega e ribadito il suo sostegno al ddl Zan, che il partito di Matteo Salvini sta ostacolando in ogni modo consentito al Senato. Ma la polemica più travolgente riguarda proprio la Rai, sbugiardata da una telefonata pubblicata da Fedez in cui si sente la vicedirettrice di Rai3 e i suoi collaboratori chiedere al cantante di “adeguarsi al sistema”, intimandogli di non fare nomi e cognomi sul palco del concertone. “Sono completamente d’accordo con quello che ha detto Fedez”, ha esordito la Annunziata in apertura di Mezz’ora in più. “Penso che abbia il diritto di dire quello che vuole, come tutti - ha continuato - sull’intervento della Rai abbiamo già avuto diverse prese di posizione, la più forte è stata quella del segretario del Pd che ha detto di aspettarsi delle scuse insieme a parole chiare. Le scuse sono arrivate da parte dell’amministratore delegato Salini, basta o no per chiudere questo caso?”. A rispondere è stata la stessa Annunziata: “Per me non basta, la Rai spesso è stata attaccata per aver fatto interventi non appropriati. Nel servizio pubblico non può esistere alcun sistema a cui adeguarsi. La Rai deve aprire una discussione, specialmente in un momento come questo, e deve avere un rapporto più chiaro con l’editore, che ricordiamo essere direttamente lo Stato. Si apra questa discussione - ha chiosato - e sia franca, chiara e definitiva”. 

Raffaella Silipo per "la Stampa" il 3 magio 2021. Good job boy. E poi cuori, applausi, mani alzate, muscoli e sorrisi: corre sui social, tra pensieri ed emoticon, l'abbraccio dei colleghi a Fedez, dopo il monologo sul palco del Primo Maggio: da Levante a Mahmood, da Achille Lauro a Elisa fino a Claudio Santamaria, un coro che mescola speranze, frustrazioni e paure accumulate in questi mesi di lockdown e concerti azzerati, con la sensazione di essere considerati «categoria socialmente inutile». Come dice Emma Marrone: «Do tutto il mio sostegno a Fedez! Lo stesso che avrei voluto ricevere io ogni volta che in questi anni mi sono esposta mettendoci la faccia e mi è stato detto dai politici: "pensa a cantare"». E invece gli artisti vogliono pensare E cantare. Per contare. A partire da Lodo Guenzi de Lo Stato Sociale, in passato presentatore del Concertone, «un palco - sottolinea - che per me è casa e che ha senso di esistere per trasmettere dei messaggi. Si è parlato di politicamente corretto, ed è vero che la discriminazione non è nelle parole ma nelle intenzioni. Ma non è vero che siamo tutti uguali. Questo Paese e la sua classe politica sono ancora in larga parte razzisti e omofobi, e questo è vergognoso». Un tema, quello dell'inclusione, molto vicino alle nuove generazioni come la giovanissima Gaia, anche lei al Concertone, «commossa ed emozionata» dalle parole di Fedez: «Potrebbe sembrare un piccolo passo "politicamente parlando", ma umanamente questo discorso ci sta dando qualcosa di molto più speciale, la speranza nell'Amore, così luminoso che porta con sè una voglia di vivere che un po' mancava a tutti noi». Un piccolo passo che unisce le generazioni, fino ad arrivare al decano Vasco Rossi - «Bravo! Questo è BUON servizio pubblico» - e a dama Ornella Vanoni : «Non ho parole da aggiungere. Più d'accordo di così non si può essere». Non solo il mondo della musica: per il regista Gabriele Muccino «la politica non è più cosa da Palazzo. Torna nelle piazze. La libertà di espressione è la colonna portante della democrazia e della nostra Costituzione. Ricordiamocelo sempre». Anche le due sorelle Guzzanti difendono orgogliosamente il diritto a esprimersi liberamente dal palco: «Se tutti quelli a cui viene chiesto costantemente di rinunciare ad esprimersi liberamente, reagissero con un centesimo dell'energia di #Fedez - dice Sabina - avremmo una splendida tv, informazione vera e soprattutto intelligenza che circola». Mentre per Caterina, reduce dal successo di Lol, «esporsi, impuntarsi, esigere, tremare e andare avanti. Il primo maggio 2021 è di Fedez e dei diritti civili». E Paola Turci dà appuntamento «l'8 maggio a piazza della Scala. Tutti per il DDL Zan».

Chiara Ferragni sulle parole di Fedez: “Non potrei essere più fiera di così”. Jacopo Bongini il 2/05/2021 su Notizie.it. Anche Chiara Ferragni ha commentato l'intervento che il marito Fedez ha tenuto sul palco del Concerto del Primo maggio: "Non potrei essere più fiera". A pochi minuti dall’intervento di Fedez sul palco del Concerto del Primo maggio non è mancato il commento della moglie Chiara Ferragni, che da casa stava seguendo la diretta dell’evento. Nelle storie pubblicate sul suo profilo Instagram, l’imprenditrice ha elogiato il comportamento del marito, affermando di essere fiera di come Fedez sia andato contro gli stessi vertici della Rai pur di far valere la sua libertà di espressione. Com’è possibile ascoltare nelle storie pubblicato sul suo profilo nella notte tra l’1 e il 2 maggio, Chiara Ferragni ha affermato: “Comunque ragazzi non potrei essere più fiera di così, per quello che ha fatto Fede stasera. È veramente avere il coraggio di andare contro tutti per dire ciò che si pensa e non è cosa da poco. Sono superfiera”. “Volevo ringraziare tutti voi perché vi sento molto uniti ed è bellissimo leggere quanti di voi sono stati toccati da questo discorso. È il potere della condivisione come dico sempre”, ha poi aggiunto l’imprenditrice, che assieme al marito da sempre sostengono le cause dei diritti civili in Italia. Poche ore prima peraltro, Chiara Ferragni aveva pubblicato un piccolo estratto dell’intervento del marito Fedez mentre esponeva il suo intervento sul palco del concerto. Nel corso della serata, il rapper aveva infatti lanciato un appello al presidente del Consiglio Mario Draghi affinché facesse qualcosa per i lavoratori del mondo dello spettacolo e attaccato duramente la Lega per il suo atteggiamento contro il Ddl Zan e contro i diritti civili in generale: “Il Senato ha tempo di ridare il vitalizio a Formigoni, ma non di tutelare i diritti di chi viene discriminato”. In un successivo post su Twitter, Fedez aveva poi smentito le parole della stessa Rai che negavano di aver esercitato qualsiasi forma di censura nei suoi confronti: “La Rai smentisce la censura. Ecco la telefonata intercorsa ieri sera dove la vice direttrice di Rai 3 Ilaria capitani insieme ai suoi collaboratori mi esortano ad “adeguarmi ad un SISTEMA” dicendo che sul palco non posso fare nomi e cognomi”.

Da repubblica.it il 2 maggio 2021. Neppure il Covid intacca uno dei "must" del concerto del Primo maggio, la polemica politica, con il duello a distanza tra il leader della Lega, Matteo Salvini, e il rapper Fedez. Già prima dell'esibizione si erano venuti a sapere i contenuti al vetriolo contro il Carroccio, il tutto condito dalle accuse del marito di Chiara Ferragni di aver subito un tentativo di censura dalla Rai. Nel suo discorso che, annunciato, nel pomeriggio aveva suscitato la reazione preventiva del leader leghista su Twitter, il rapper e influencer milanese ha attaccato le posizioni della Lega sul ddl Zan e ne ha criticato alcuni esponenti elencando le loro frasi e definendole omofobe. Salvini in serata ha risposto con un post su Facebook in cui, tra le altre cose, ha scritto: "Chi aggredisce un omosessuale o un eterosessuale, un bianco o un nero, un cristiano o un buddhista, un giovane o un anziano, rischia fino a 16 anni di carcere. È già così. Reinvito Fedez a bere un caffè, tranquilli, per parlare di libertà e di diritti". "Le banalità dette da Fedez fanno parlare. Le proteste della gente da più di un anno senza lavoro no. L'Italia si merita Fedez?". Così su Facebook il senatore Fdi e presidente di Asi Claudio Barbaro.

Pd e M5S difedono Fedez. Ma oggi  Pd e M5S intervengono a difenderlo. Con Letta e Di Maio in prima linea. "Condividiamo le parole di Fedez e ci aspettiamo che la tv pubblica si scusi" afferma il segretario dem Enrico Letta a Radio 24. "Un paese democratico non può accettare alcuna forma di censura", aggiunge su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Sulla stessa linea anche il presidente del Lazio Nicola Zingaretti e la sindaca di Roma Virginia Raggi. "Fedez ha citato frasi ed espressioni di alcuni politici della Lega. Forse ora se ne vergognano, ma certo la soluzione non può essere la censura di un artista" scrive Zingaretti su Instagram. "Ricordiamoci che ci sono esseri umani - prosegue - picchiati e offesi solo per quello che sono. Dovrebbe essere naturale approvare una legge che li tuteli. Questa è la legge Zan e va approvata". "Fedez è stato un grande e ha ragione. Bisogna ripartire dal lavoro, dal sostegno a chi è rimasto indietro e dai diritti di tutti" è il tweet di Raggi. "Parole di una semplice verità quelle di Fedez sul palco del concertone- scrive su Twitter il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni - inutile che ora la Lega si agiti, fra loro ci sono i campioni dell'omofobia e dell'odio. C'è voluto il coraggio di un giovane artista per smontare la loro ipocrisia. Grazie Fedez".

Pd e M5S chiedono dimissioni vertici Rai. Pd e M5S sono compatti anche nel chiedere le dimissioni dei vertici Rai responsabili della censura. "C'è poco da discutere, si colga questa occasione per fare ciò che finora non si è stati capaci di fare: siano rimossi i responsabili di questo scempio e si dia al servizio pubblico la dignità necessaria all'informazione di un Paese civile! Un sincero grazie a Fedez per aver denunciato, non è da tutti", afferma sui suoi canali social Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera e deputato del MoVimento 5 Stelle, postando la telefonata dei vertici Rai al cantante. Sulla stessa linea anche i dem Bordo e Provenzano. "Dopo quanto avvenuto ieri, non c'è un attimo da perdere: è opportuno che i vertici dell'azienda coinvolti in questa vicenda rassegnino immediatamente le dimissioni. La libertà di espressione in Rai dovrebbe essere tutelata sempre. A nessuno può essere consentito di minare questo valore", dichiara il deputato dem Michele Bordo, membro della commissione di Vigilanza Rai. "Mettere le cose in ordine. 1 Grazie Fedez. 2 Ma dov'è la sinistra? se discutiamo di #ddlzan è grazie al pd. 3 E i diritti sociali? i diritti si tengono e il #primomaggio i lavoratori lottano per la libertà di tutti. 4 Lo scandalo è nella rai. I nuovi vertici vi pongano fine, aggiunge su Twitter Giuseppe Provenzano, vicesegretario Pd. "A prescindere dal merito di quello che Poi ha detto Fedez, che io condivido, oggi qualcuno dovrebbe chiedere scusa a nome della Rai. E qualcuno dovrebbe dimettersi. Perchè non è accettabile in democrazia e nella nostra tv pubblica censurare le libere opinioni di un artista" dice Emanuele Fiano, deputato Pd. "Il Paese ha bisogno della legge Zan ed ha bisogno di voci indipendenti pronte a battersi per la libertà di espressione e i diritti" aggiunge l'ex presidente della Camera Laura Boldrini.

La nota di Rai3: "Nessuna censura". Da parte sua la direzione di Rai3 in una nota conferma di "non aver mai chiesto preventivamente i testi degli artisti intervenuti al concerto del Primo maggio - richiesta invece avanzata dalla società che organizza il concerto - e di non aver mai operato forme di censura preventiva nei confronti di alcun artista. In riferimento al video pubblicato sul suo profilo Twitter da Fedez, notiamo che l'intervento relativo alla vicedirettrice di Rai3 Ilaria Capitani (l'unica persona dell'azienda Rai tra quelle che intervengono nella conversazione pubblicata da Fedez) non corrisponde integralmente a quanto riportato, essendo stati operati dei tagli. Le parole realmente dette sono: 'Mi scusi Fedez, sono Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai3, la Rai non ha proprio alcuna censura da fare. Nel senso che... La Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza, ci mancherebbe altro, né di quello che lei dirà [...] Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo [...] Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto, ma questa  una cosa sua".

Usigrai ai partiti: "Lasciate libera la Rai". "Nella Rai Servizio Pubblico non può esistere alcun "sistema" cui adeguarsi. Nella Rai Servizio Pubblico ci si deve adeguare esclusivamente ai valori del Contratto di Servizio, quindi a quelli della Costituzione. Detto questo, vedere i partiti che si accapigliano sulla vicenda Fedez è il trionfo dell'ipocrisia" scrive l'Esecutivo Usigrai in un comunicato. "Perché noi un "sistema" in Rai lo denunciamo da anni: ed è esattamente quello della partitocrazia, che - a partiti alterni - occupa il Servizio Pubblico. Come del resto accadrà ancora una volta nelle prossime settimane con il rinnovo del CdA. Lasciate libera la Rai, lasciate libere le idee, lasciate libere l'informazione e l'arte.  Gli unici limiti che si possono legittimamente porre sono quelli imposti dalle leggi e dalla nostra Costituzione".

Dagospia il 2 maggio 2021. Dal profilo facebook di Enrico Mentana. Se esponenti politici di ogni ordine e grado sui temi della lotta all'omotransfobia, del politically correct e del diritto vaccinale sono costretti a inseguire, copiare, criticare e ripostare Fedez, Pio e Amedeo e Checco Zalone, non significa forse che c'è più vita nel mondo dello spettacolo che sotto il cielo grigio della politica?

Il protogrillino dei centri sociali usa i giovani come arma politica. #Fedez. Daniele Dell'Orco il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Era presente in piazza al primo Vaffa-Day e scrisse l'inno per i grillini, da anni fa politica contro il centrodestra e ora usa i social, il rap e il vittimismo per fare presa sui giovani sempre più disorientati. È il capostipite dell'era degli influencer in politica. Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, il protogrillino antagonista che usa i social e il rap per arrivare a milioni giovani che i politici non sanno più raggiungere. Cresciuto a pane e centri sociali come il Leoncavallo di Milano, Fedez è diventato in breve tempo il cantore numero 1 della fetta post-ideologica di millennias. La sua ascesa ebbe inizio nel 2014-15 quando la politica si accorse della necessità di iniziare a parlare meno il politichese e più la lingua dei ragazzi. Erano gli anni in cui Matteo Renzi si presentava col giubbotto di pelle ad "Amici di Maria De Filippi", e in cui Beppe Grillo iniziava a capitalizzare il suo odio per il Palazzo veicolato tramite il neo-linguaggio "aperto a tutti" della comicità. Se l'Elevato era il capopopolo giusto per trainare il pubblico adulto, la sua perfetta stampella per assoldare i giovani, invece, fu proprio Fedez, il rapper che iniziò a seguirlo prima da spettatore nei primi Vaffa-Day (era presente in piazza Cairoli nel settembre 2008) e poi lo aiutò a dipingere i contorni "di sinistra" del Movimento 5 Stelle. A cominciare dall'inno, "Non sono partito", scritto da Fedez e particolarmente osteggiato da quelli che all'epoca erano i nemici pubblici principali dei grillini: gli esponenti del Partito Democratico. Quel testo, intriso di attacchi al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e alla "trattativa stato-mafia", venne impugnato proprio da alcuni onorevoli del Pd, che chiesero a Sky di cacciarlo da X-Factor. Ironia della sorte, oggi i dem parlano di tentativo di "censura" per via di un comizio di Fedez sulla tv di Stato, ieri provavano a far pressioni addirittura su un'emittente privata pur di farlo fuori. Si deve a quei tempi anche l'inizio della faida con la Lega e con esponenti politici di centrodestra come Carlo Giovanardi, Maurizio Gasparri e ovviamente Matteo Salvini. Tutto previsto in un canovaccio meta-politico che serviva al M5S per studiare un'opposizione al Pd diversa da quella dei leghisti. A forza di studiare il giusto codice comunicativo per sostenere la battaglia contro la vecchia politica, Fedez è diventato più bravo dello stesso Grillo, ed ha iniziato a padroneggiare alla grande una sorta di populismo-rap attraverso cui ha vergato rime che a rileggerle oggi fanno davvero sorridere. Una su tutte: "Generazione televoto coi cervelli sotto vuoto / Sempre più risucchiati dal televuoto", è il ritornello della sua "Generazione-boh", anno del Signore 2014. Sembra una vita fa visto che, complice la sua joint-venture amorosa/aziendale con Chiara Ferragni (a sua volta bersagliata in una sua canzone "Vorrei ma non posto" composta insieme a J-Ax poco prima dell'unione sentimentale iniziata nel 2016) la strategia comunicativa di Federico ha fatto un salto di qualità. Non più spot pubblicitari da vendere sui social per poche decine di migliaia di euro, bensì la costruzione di una megaindustria con un catalogo di prodotti da sfogliare: gadget, smalti, capi d'abbigliamento, format tv, podcast, talent show ma pure concetti e tesi politiche. Come fossero in fondo la stessa cosa, ossia una leva per aumentare la portata dell'"influenza". Su chi? Ma proprio su quella "generazione televoto" di giovani post-ideologici disorientati e disinteressati a qualsiasi cosa non si muova su Instagram. Quando l'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha chiamato alle armi Fedez e Chiara Ferragni nell'ottobre del 2020 per aiutarlo a far arrivare ai ragazzi le corrette istruzioni sulle norme anti-Covid, i Ferragnez non si sono più fermati. C'è anche da sottolineare, però, che sono stati capaci di tirare su su 4,4 milioni di euro per costruire una terapia intensiva e subintensiva del San Raffaele. Un grande gesto, sicuramente. Ma poco dopo, hanno iniziato a condurre stress-test continui sulla politica locale e nazionale. Sempre portando avanti battaglie gradite al mondo liberal e soprattutto facili da inculcare nella mente dei giovani "copiaincolla". Ne sono dei chiari esempi la crociata contro la Regione Lombardia sui vaccini e la presunta "corsia preferenziale" dedicata alla nonna di Fedez (quando in realtà al Pirellone stanno inanellando record su record nell'inoculazione di sieri, senza che i Ferragnez lo dicano), e soprattutto l'appoggio incondizionato al ddl Zan. Lo stesso onorevole dem, Alessandro Zan, primo firmatario della legge, è diventato a sua volta un personaggio pubblico grazie al suo nome spiattellato di fronte a milioni di persone (gli account social di Fedez e Chiara Ferragni messi insieme raggiungono 35 milioni di utenti) che altrimenti avrebbero ignorato la sua esistenza. Cos'hanno in comune queste due crociate? Sono intrise di idealismo, presunta superiorità morale, senso di ingiustizia sociale, disuguaglianza. E soprattutto, hanno lo stesso bersaglio: la Lega e Matteo Salvini. A condire il tutto, per generare ancora più hype, l'asso nella manica narrativo che sui social va sempre per la maggiore: il vittimismo. Il presunto tentativo di censura subito dalla Rai altro non è che un modo per manipolare ad arte gli avvenimenti e far passare Fedez automaticamente dalla parte del giusto, come un Giordano Bruno senza macchia e senza paura voglioso di scardinare un "sistema" retrogrado, bigotto, patriarcale. I leader politici più interessati al gioco delle parti, cioè i giallo-rossi, hanno preso le sue difese. Conte dice: "Io sto con Fedez. Nessuna censura". Letta addirittura ribalta completamente la realtà: "Per colpa di Salvini abbiamo passato 20 giorni a parlare solo della calendarizzazione del ddl Zan", scrive quando invece è stato proprio Fedez a monopolizzare l'agenda politica italiana con il dibattito intorno alla legge per spostare l'attenzione da tutto il resto. Tralasciando il fatto che anziché lottare contro il "sistema" Fedez rappresenta il "sistema" (è inattaccabile dai media, è amico del politicamente corretto, è testimonial di colossi come Amazon e Nike), a riprova del fatto che il suo vittimismo si basi sulla cattiva fede, è arrivato il comunicato ufficiale della Rai, attraverso cui Ilaria Capitani, vicedirettrice di Rai3, ha diffuso la conversazione intercorsa col rapper senza tagli, e in passaggio dice chiaramente: "La Rai non ha proprio alcuna censura da fare. Nel senso che la Rai fa un acquisto di diritti e ripresa, quindi la Rai non è responsabile né della sua presenza, ci mancherebbe altro, né di quello che lei dirà - e infine - Ci tengo a sottolinearle che la Rai non ha assolutamente una censura, ok? Non è questo [?] Dopodiché io ritengo inopportuno il contesto, ma questa è una cosa sua". Fedez usa i taglia e cuci, gli escamotage, i colpi di teatro nelle stories di Instagram per elevare la sua immagine, consapevole del fatto che il suo pubblico lo proteggerà, o semplicemente ignorerà le contraddizioni, l'ipocrisia, la partigianeria delle sue istanze. Se il suo interesse fosse davvero il tema sociale, e non il potere persuasivo, se volesse davvero essere solidale con le vittime di violenza, come mai ha preferito il silenzio di tomba sul video del suo mentore Beppe Grillo?

Da repubblica.it il 7 maggio 2021.  L'ex compagna di Silvio Berlusconi Francesca Pascale si scaglia contro Forza Italia dopo le dichiarazioni di Antonio Tajani sulla famiglia. In vista della festa della mamma, il coordinatore nazionale degli azzurri ieri infatti ha detto che "una famiglia senza figli non esiste", scatenando la polemica di Pd e M5S. Contro queste affermazioni scende oggi in campo Pascale, da sempre anche sostenitrice della legge Zan (anche questa nuovamente difesa in un'altra storia su Instagram) e dei diritti della comunità Lgbt. Ecco "perché non voto più Forza Italia", scrive l'ex del Cavaliere in una storia su Instagram in cui riporta l'articolo di ieri di Repubblica, accompagnata con le note di "The End" dei Doors.

La sinistra riparte da Fedez e i grillini lo vogliono in Rai: per Salvini tanto odio social. Piero de Cindio su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Fedez sale sul palco del concerto del primo maggio annuncia di essere stato censurato dalla Rai e attacca la Lega su ddl Zan e questioni civili. Questa è la sintesi della festa dei lavoratori nel secondo anno di pandemia appena trascorsa, che ha scosso i social e l’opinione pubblica. Se l’obiettivo era accendere i riflettori sulla legge Zan, la politica ha intrapreso un percorso ancora più intricato e tortuoso accendendo il dibattito sull’indipendenza della Rai e la sua lottizzazione politica. Il modus con cui Fedez ha informato i suoi fans è stato oscuro e poco chiaro nei metodi. Non è un caso che ha registrato la telefonata di 11 minuti e mezzo avuta con la produzione Tv, esterna alla Rai, e con la vicedirettrice di Rai3 Ilaria Capitani, e ne ha montato un breve video dove si evinceva una intimazione a censurarlo nel fare i nomi e cognomi sul palco. Nominativi di politici della Lega che si sono macchiati in questi anni di dichiarazioni che andrebbero perseguite aldilà del Ddl Zan perché discriminatorie. Questa polemica, come davvero poche a livello nazionale fino ad oggi, ha scatenato su Twitter la bellezza di 120.523 tweets contenenti la parola Fedez, 3.102.027 di likes, 380.174 condivisioni, 41.969 citazioni e 125.171 commenti secondo una ricerca del data journalist Livio Varriale. I tweet più visualizzati sono stati quelli dello stesso cantante che ha racimolato quasi 2 milioni di visualizzazioni al video della telefonata e più di 150.000 mi piace. A godere di un enorme successo su questa vicenda è stato l’ex Premier Giuseppe Conte che con il suo “Io sto con #Fedez. Nessuna censura.” ha incassato la bellezza di 54 mila likes. In classifica si evincono i nomi illustri di Laura Boldrini, Emma Marrone, Ermal Metal con il suo tweet dissacrante “@Fedez dimostra di saper suonare benissimo! Come gliele ha suonate mamma mia! #fedez”, Sabrina Guzzanti e gli attivisti per i diritti LGBT l’onorevole Alessandro Zan, padre putativo dell’omonimo decreto, e l’avvocato Cathy la Torre.

TOP LIKES. “La strategia di Fedez non è stata naturale e lo si nota prevalentemente da due aspetti” dichiara al Riformista Livio Varriale “Il primo è che ha pubblicato una telefonata montata in modo da essere utile alla sua tesi. Secondo, invece, il placement di due prodotti presentati nei giorni precedenti, tramite notizie di ufficio stampa, che hanno guadagnato maggiore visibilità con il discorso del primo maggio essendosi l’artista presentato sul palco con lo smalto che egli stesso produce, indirizzato guarda caso a un pubblico LGBT, e la presenza sul cappellino del marchio dell’azienda produttrice delle scarpe. C’è però una legge nella comunicazione in rete: chi la spara prima, quello vince e tutti i conflitti di interesse di Fedez sono passati in secondo piano seppur curiosamente ricordati da personaggi che condividono con lui la lotta contro la Lega e Salvini come Selvaggia Lucarelli, Potere al Popolo e nostalgici della sinistra di Gramsci. Compensazione della realtà distorta dal cantante oppure invidia dei colleghi per aver occupato la sedia vuota di un eventuale social leader di sinistra?”.

MENZIONI. Dal punto di vista delle menzioni il discorso invece cambia con il protagonista sempre al primo posto che si porta con se molti attori protagonisti. I primi sono il Pd e Alessandro Zan, poi i tre di destra Salvini, Borghi e Crosetto con Pillon in fondo alla classifica. Ruolo marginale per Enrico Letta e in fondo alla top 20 c’è la moglie di Fedez, Chiara Ferragni. “Qui si evince quello che accade quando si mette in piedi un dibattito social acceso soprattutto su Twitter. – Spiega varriale – In questo caso la politica è stata tirata in ballo su più fronti come responsabile dell’assenza di libertà di espressione e di disinteresse verso tematiche sensibili come la legge Zan. C’è anche da sottolineare come messaggi simili siano poi utilizzati come giustificativo a ripagare "della stessa moneta" gli avversari politici ed è per questo che gli esponenti della destra occupano le posizioni più alte in blocco”.

HASHTAG. Anche nella classifica degli argomenti più utilizzati c’è ovviamente Fedez, ma passa anche il messaggio del Ddl Zan che si trova declinato in più forme semantiche nella top 20. Grande spazio per la Rai ed il concertone del primo maggio. Presenti anche Salvini e la Lega come oggetto di contestazione del pubblico ma secondo Varriale “dire come fanno molti che la polemica messa in piedi da Fedez non abbia portato l’attenzione sul decreto Zan, facendola passare in secondo piano, non è del tutto corretta. E’ corretto invece dire che se anche Fedez fosse stato mosso da uno spirito sociale forte, la politica ha sviato il discorso sulla Rai e sulle Nomine che dovranno farsi tra poco. Non è un caso che ad accogliere l’invito di Fedez siano stati Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e Roberto Fico che con l’avvento di Draghi hanno perso maggiore rappresentatività nella tv di stato che conta. D’altro canto, non mi sorprenderebbe vedere sulla tv pubblica lo stesso Fedez con una sua produzione essendo stato San Remo un’esperienza non proprio gratificante dinanzi al pubblico della tv che tutti gli influencer della rete disprezzano, ma in fondo dimostrano sempre di voler comprare”.

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format.

·        La corruzione delle menti.

Attenzione ai social, ci lavano il cervello. Giuliano Aluffi La Repubblica 13 dicembre 2021. Da Pavlov alla Cina di Mao, dalla Cia anni 50 all’anonima sarda. Lo psichiatra Joel Dimsdale ripercorre in un libro le tecniche di persuasione che hanno fatto la storia. Fino a Facebook. Gli amici vi fanno notare dei cambiamenti nel vostro comportamento, come una radicalizzazione improvvisa nelle vostre posizioni politiche? Può essere che qualcuno su Facebook vi abbia condizionato. E non sareste i primi: nel 2020 una startup israeliana, The Spinner, è stata estromessa dal social proprio perché vendeva servizi di condizionamento psicologico subconscio attraverso post camuffati da contenuti editoriali. 

 La tv è un cattivo esempio continuo. Ma è più facile dare la colpa a Squid Game. Beatrice Dondi su L'Espresso il 15 novembre 2021. Bulli, insulti, scatti d’ira, scontri e altre nefandezze: i palinsesti tutti sono un modello da cui i giovani spettatori dovrebbero fuggire a gambe levate. Altro che la serie coreana. Tu guarda l’accanimento del destino. Avevamo appena tirato un sospiro di sollievo per aver scampato il pericolo del fantomatico spettro gender nelle scuole grazie alla bocciatura del ddl Zan quando all’improvviso un nuovo attacco all’integrità dei nostri figli arriva a gamba tesa dalla lontana Corea. La serie Netflix dei record “Squid Game” è il nuovo spauracchio, un modello negativo in ben nove episodi in cui la violenza continua e sottesa che ne costituisce la tessitura narrativa starebbe ispirando i minori italici a darsele di santa ragione pur di replicare in qualche modo l’agognato Calamaro. Altro che Schiaffo del soldato o palline Clic Clac. L’accusa, che parte dal Moige, arriva ai presidi, attraversa una raccolta firme e si chiude con un’interrogazione parlamentare della leghista Laura Cavandoli, punta il dito contro la descrizione seriale del mondo bruto in cui il divario ancestrale tra ricchezza e povertà si esplicita in un macabro torneo di giochi per bambini. In estrema sintesi, il racconto che restituisce un nuovo punto di vista all’antico adagio da briganti “O la borsa o la vita” è un pericolo che passa dalla tv. Così, verrebbe da credere che il palinsesto restante sia al contrario educativo e che allontani i nostri piccoli lanciati verso il futuro dalle cattive intenzioni. Peccato poi che ci si ritrovi a ogni pié sospinto con minori armati di microfoni, truccati da rossetti scadenti, lasciati davanti alla telecamera da quegli stessi genitori che gli permettono visioni già vietate. Peccato inoltre che la tv stessa, a cui i giovani virgulti hanno libero accesso, gli abbia spalancato la strada del protagonismo, e che in programmi edificanti come “Il Collegio” si mostri impunemente in prima serata una ragazza presa da un tale impeto di rabbia contro una compagna di studio (televisivo) da sbattere il pugno sul muro sino a trovarsi con una mano fasciata. E poi tg e talk in cui gli avversari si “asfaltano”, reality dove vige la legge del più forte, modelli estetici da replicare a tutti i costi, bullismi estremizzati, conduttori che si ostinano a mettere in piazza i loro disappunti personali, giornalisti piccati, vaccini presentati come il grande male e altre nefandezze. Sino all’esempio del “Grande Fratello” che tanto ha dato al Paese e agli spettatori tutti. In cui, tra i tanti momenti alti, ha anche regalato un duello tra una specie d’attore e un campione sportivo, mani in faccia, sberla sulla spalla e un monito: «Ti darei due schiaffoni». “Squid Game” colpisce ancora. Persino tra i maggiorenni. 

I talk show e la disinformazione. La persuasione nella psiche. I talk show e la disinformazione sul Covid. Cacciari spiegato da Platone: la retorica vince sul vero. Michele Prospero su Il Riformista il 17 Settembre 2021. Le illimitate comparsate di Massimo Cacciari in Tv (ultima quella a Otto e mezzo) segnano, ogni volta che si parla dei vaccini, una completa rivincita di Platone. La ossessiva ribellione televisiva alle implicazioni del foglio verde riabilita l’antico pregiudizio contro la retorica, una ambigua “tecnica di combattimento” la chiamava Platone. Il timore del filosofo greco era che, in una controversia su argomenti rilevanti per la città, si potesse riscontrare la prevalenza della opinione del non competente rispetto a quella formulata “dai tecnici del mestiere”. L’avversione al magismo della parola nasceva in Platone dalla constatazione che, dinanzi al pubblico in larga maggioranza incolto, la argomentazione di sicuro più seduttiva introdotta da un abile costruttore di frasi avrebbe agevolmente prevalso sulle ben più corroborate asserzioni di uno specialista del settore. Il credere dai molti prestato al suono anche musicale delle argomentazioni avrebbe sopraffatto il nudo ragionamento del sapere ogni volta che le parole del tecnico-scienziato e le seduttive metafore del filosofo retore si fossero presentate dinanzi a un giudizio dell’uditorio. Scriveva Platone nel Gorgia che chi ha «il potere di persuadere la massa attraverso la forza della parola», ovvero di esercitare «la persuasione nella psiche», vince agevolmente il confronto con lo specialista ancorato alla freddezza dei numeri. In molte trasmissioni televisive, nelle quali c’è libertà di opinare inoltrandosi sino alla disinformazione come ha giustamente notato Stefano Feltri ospite di Lilli Gruber, esce confermata la preoccupazione di Platone. Nell’arena della demagogia post-moderna che sono i talk show trionfano le ipotesi mediche di Cacciari, secondo cui «i vaccini non sono abbastanza sicuri», le notizie delle autorità sanitarie sono del tutto menzognere, i dati sugli effetti della somministrazione sono maldestramente fallaci, lo Stato di diritto e la legge positiva sono stati calpestati. L’audience potenziale di un personaggio che sbuffa è assai più rilevante della funzione pubblica della informazione. Ricorrendo a pie’ sospinto a quello che Platone chiamava «il trucco capace di rendere persuasiva» anche una cosa errata, Cacciari asserisce che il fallimento dei vaccini è confermato da ciò che accade in Israele dove tra i nuovi contagiati spiccano proprio i vaccinati (quota statisticamente del tutto comprensibile però in un universo di così diffusa vaccinazione). Da filosofo che contende al virologo i segreti dello specialismo, Cacciari certifica la scomparsa dell’emergenza pandemica (non si capisce allora la sua pretesa di un ricorso alla legge sulla obbligatorietà dei vaccini) e da filosofo che indica al medico il vero proclama che i vaccini sono «molto precari». Come filosofo del diritto annuncia che con il Covid è per sempre finita la certezza del diritto, che è stata annichilita la dignità della persona, che l’emergenza sanitaria affrontata con degli obblighi non è che uno strumento dei governi (quindi i poteri liberali sarebbero solo quelli di Bolsonaro, Trump) per instaurare un definitivo e liberticida stato di eccezione. Le performance reiterate di Cacciari sono ricercate dai conduttori perché le intemperanze e le esagerazioni fanno ascolto, poco importa delle conseguenze delle spigolose pietre filosofiche sulla vita delle persone. E anche questo andazzo nichilistico della Tv sembra dare ragione a un pronostico di Platone. «Se un retore e un medico andassero in una qualsiasi città e si dovesse ingaggiare una discussione nell’assemblea popolare o in qualunque altra adunanza per decidere quale dei due debba essere scelto come medico, il medico scomparirebbe e sarebbe eletto il retore, se solo lo volesse». Confidando in questa prevalenza dei paralogismi sulla coerente asserzione, della persuasione sul sapere, i filosofi alla Cacciari danzano con le parole incuranti del principio di contraddizione, ricevono dal relativismo funzionale del talk la licenza di disinformare. La retorica degenerata è infatti una merce agognata nel mercato televisivo capace di vendere al pubblico la persuasione che un filosofo la sa ben più di un medico, di un costituzionalista. Michele Prospero

Con il termine “cultura”. È tutta questione di… parole giuste. Alessandro Bertirotti il 30 agosto 2021 su Il Giornale. Con il termine cultura intendiamo l’insieme dei comportamenti e degli atteggiamenti di un gruppo umano storicamente determinato e determinantesi. In ottica antropologico-mentale, con questa parola ci si riferisce a tutti gli schemi di comportamento condivisi dai membri di una comunità e che fanno affidamento su informazioni trasmesse socialmente nel tempo. Dalle teorie scientifiche alle tecniche di ricerca del cibo in qualsiasi società, tribale o industriale, dal design automobilistico e navale agli stili musicali di successo: situazioni, competenze ed abilità che si sviluppano attraverso infiniti cicli di innovazione. Tutte cose che migliorano progressivamente una base iniziale di conoscenza. Ripetere e innovare senza mai fermarsi, incessantemente. E non dimentichiamo che il crogiolo in cui si sviluppa il linguaggio umano è la continua ripetizione dell’apprendimento, ed in questo risiede il segreto del nostro successo come specie. Sono molti gli animali che imitano il comportamento di altri loro simili. È così che apprendono comportamenti legati alla dieta, con le tecniche per il procacciamento del cibo, oppure i modi per evitare i predatori o per richiamare con i canti altri individui conspecifici. Gli individui più giovani delle diverse comunità di scimpanzé africani imparano i comportamenti del loro gruppo (come aprire le noci martellandole con un sasso, oppure utilizzare uno stecco per raccogliere le formiche) imitando individui più esperti. Ma questo non accade soltanto nei primati, perché le ricerche dimostrano che l’apprendimento sociale (per imitazione, appunto) si verifica in centinaia di specie di altri mammiferi, in uccelli, pesci e insetti. Persino le giovani femmine di Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta, selezionano, come compagni di accoppiamento, i maschi che le femmine più anziane avevano già scelto in precedenza. Insomma, sono femmine che vogliono andare sul sicuro! Anche noi esseri umani impariamo imitando coloro che chi hanno preceduto e coloro che condividono con noi, nella contemporaneità, le stesse informazioni, gli stessi stimoli. Sulla base di questa idea, la ricerca scientifica internazionale ha cercato di individuare la presenza nel cervello umano di quelle aree, anatomiche oppure funzionali, che avrebbero potuto stimolare una imitazione più accurata ed efficiente. Per esempio, anche il miglioramento della percezione visiva poteva certamente rientrare in questo tipo di ricerca, proprio perché essa permette di imitare a distanze maggiori, o di copiare azioni motorie cosiddette di manipolazione fine. Inoltre, un altro settore di ricerca ha riguardato lo studio di quei collegamenti neuro-cognitivi tra le strutture percettive e quelle motorie nel cervello. Sono queste che aiutano gli individui a tradurre la visione di altri (che esibiscono un’abilità) nella prestazione corrispondente, muovendo il proprio corpo in modo simile. Ecco, penso che queste spiegazioni scientifiche ci permettano di comprendere il perché di molti comportamenti umani, con particolare riferimento alla funzione dei media e della comunicazione politica nella veicolazione delle nostre azioni quotidiane.

Coltivare la cultura. Sandro Abruzzese su Il Quotidiano del Sud il 27 giugno 2021. Si fa sempre un gran parlare di cultura nel nostro paese, si tira in ballo la scuola e quello che i ragazzi dovrebbero sapere e non sapere. L’ultima trovata ministeriale è stata l’introduzione dell’Educazione civica nelle scuole superiori, come se studiando la Storia o il Diritto non si affrontassero i medesimi argomenti, o come se fosse possibile studiare la Storia senza affrontare l’educazione civica. A scuola non si fa politica, spesso si ripete. Ma è proprio così? Ebbene l’impressione è che alberghi molta confusione non tanto sul termine specifico, quanto sullo scopo finale della cultura. Se cultura vuol dire coltivare, passare dalla superficie alla profondità e comprendere, essa è sempre arbitraria, è sempre una scelta di campo, ecco perché non può delinearsi solo come sapere astratto o disciplinare. Anzi il senso ultimo per noi italiani non può essere che la cultura democratica tout court, ovvero l’unione di uguaglianza e diritti nella vita individuale, sociale, politica, come recita la Costituzione. Il fine di questa cultura poi, non potrà che essere l’antifascismo, ovvero l’amore per la libertà dei popoli e per i diritti umani, alla base di qualsiasi legittimazione istituzionale democratica. D’altronde di cosa parla quel capolavoro letterario di La Cava, I fatti di Casignana, se non dell’utopia dell’emancipazione? Di cosa parla Sciascia quando nelle sue opere mette a fuoco con estrema lucidità l’essenza della Sicilia e il suo rapporto con la mafia? E di cosa parlano La storia di Elsa Morante, o Il partigiano Johnny di Fenoglio? Sullo sfondo vi è sempre la costruzione o l’utopia di un paese democratico, dunque più umano. L’abissale differenza tra partigiani e fascisti in Fenoglio è nella diversa dignità che si attribuisce al genere umano, è questo in fondo a farne una questione di vita o di morte con i repubblichini, non è altro che la diversa considerazione che si ha per i popoli e le genti. Se questa è la premessa naturale a un discorso culturale repubblicano, va rilevato che la cultura democratica ha un forte senso politico, o meglio che nella nostra storia non esiste cultura senza politica, anche perché essendo l’Italia la patria della dittatura fascista, i nostri padri costituenti hanno scritto la Costituzione in completa opposizione ai princìpi del Ventennio. Eppure, da più parti, in varie stagioni e giorni alterni, si invoca sempre più una cultura indistinta, magari piegata alle leggi di mercato, cioè svuotata della sua carica politica. Si vorrebbe quasi che la cultura democratica perdesse di vista il suo telos, e magari smarrisse il suo scopo finale per diventare qualcosa di innocuo e irrilevante per chi esercita il potere.

Quattro colonne in cronaca o un «romanzo» di mille pagine? Mode editoriali. I casi più popolari rivisti da scrittori che sfidano la narrazione televisiva. Luca Pakarov il 29.05.2021 su Il Manifesto. Storie terribili che hanno segnato la storia della nera sedimentandosi nel senso comune in un ricordo polarizzante, con vittime e colpevoli. Sono i potenti fatti di cronaca su cui i media hanno acceso le luci per mesi facendo vivere allo spettatore o al lettore un continuo, morboso e accecante, stato di febbrile informazione. Se si domandasse a un telespettatore o a un semplice passante chi uccise Sarah Scazzi le risposte sarebbero probabilmente la zia e la cugina. Ma se in verità il processo non fosse stato così lineare, lasciando parecchi dubbi? E in un caso in cui i colpevoli sembrano essere delineati sin da subito come quelli dell’omicidio di Luca Varani, seviziato per ore da Marco Prato e Manuel Foffo nell’appartamento di Roma di quest’ultimo, si domandasse al solito spettatore qual è stato il movente? La risposta cadrebbe probabilmente sulla mostruosità dei due e sulla cocaina, a rimarcare le distanze. Ma se le distanze fossero meno profonde? Per questo motivo i libri, Sarah. La ragazza di Avetrana (Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni, Fandango, pp. 311, 18 euro) e La città dei vivi (Nicola Lagioia, Einaudi, pp 472, 22 euro), usciti a poca distanza uno dall’altro, possono considerarsi difficili da digerire perché sono in grado di riaccendere le ossessioni dei protagonisti e di chi ha seguito le due storie, ricucendo la voragine fra la percezione e le informazioni effettivamente emerse. Con gli scrittori e i giornalisti che scardinano la narrazione giallistica della televisione, ricordandoci la complessità dell’umano, sia esso inteso come pubblico/spettatore o come attore della tragedia. Sbattendoci in faccia l’appiattimento dei dettami della velocità dell’informazione e la sua deriva nell’intrattenimento, così come il conseguente effetto framing, capace di selezionare per noi ciò che ci rassicura, spingendoci rapidamente verso considerazioni di circostanza. Lasciandoci quindi assoggettati alla presunta imparzialità e pluralità dell’etere. Difficile non visualizzare nei ricordi, dieci anni fa, la figura di un padre impacciato col suo cappello da pescatore sempre in testa, succube del contesto familiare e sociale e che, per salvare la dispoticha moglie e figlia da una condanna, si addossò la colpa di un terribile reato. Un uomo che diventò per tutti zio Miche’. Un nomignolo affettuoso conclamatosi a seguito di un morboso assedio mediatico di Avetrana che fagocitò «il caso Sarah Scazzi». La quindicenne scomparve il 26 agosto e venne rinvenuta oltre 40 giorni dopo nel pozzo all’interno della proprietà della famiglia Misseri. Poco a poco cronaca e illazioni non si distinsero più, portando l’informazione al livello di reality e talkshow insieme, tanto che alla madre Concetta venne comunicato in diretta, davanti alle telecamere di Chi l’ha visto, il ritrovamento del corpo. E come in un reality nacquero le tifoserie a cui gli interpreti principali offrirono sempre più particolari, riscuotendo applausi o insulti (e anche soldi per le interviste). Un cortocircuito fra vita e spettacolo che gli autori di Sarah paragonano al caso di Alfredino che nel 1981 entrò nelle case degli italiani con oltre 18 ore di diretta Rai. Il libro nel lettore più spigliato può suscitare a prima vista diffidenza per il timore che vada a intercettare i lati scandalistici di quei mesi, ripercorrendo la rappresentazione immaginifica di un contesto degenerato dalla normalità, invece si tratta di un’accurata inchiesta giornalistica che ricostruisce l’humus della provincia senza iconizzarla, infilando piuttosto un’infinità di dubbi sul processo stesso. Analizzando la messa in scena di una tragedia in cui la vittima sparisce per far spazio a invidie, retroscena, fantasie. Dove non è la ricerca della verità a plasmare le notizie ma il contrario, un peso mediatico che forza e manipola il vissuto, e (forse) l’indagine degli inquirenti.

Parzialità. Dalla lettura se ne esce (anche) con il terrore che il destino possa virare all’improvviso, tutti noi possiamo ritrovarci immersi in una storia dove regna una parzialità che si allarga agli occhi dell’opinione pubblica fino a diventare ingestibile, in cui si può divenire colpevoli e in cui alla meglio si verrà giudicati anche per i piccoli segreti portati alla luce dall’abbondanza di sensazionalismo. Come se la propria storia, involontariamente, potesse entrare in qualunque momento nel solco di una narrazione accattivante, pronta a strizzare l’occhio alla morale collettiva e condivisa. Allontanando irrimediabilmente i fatti. Ma se nella provincia l’attenzione si sposta dal generale di un atto macroscopico verso il particolare di una frase o di una particella del ristretto contesto che l’ha contenuto, nella metropoli si può partire dal particolare di una stanza per arrivare alla visione generale di una città. Avetrana e Roma. Come ci si può immedesimare con due tizi che, dopo tre giorni trascorsi a consumare cocaina e vodka, invitano a casa loro il ventitreenne Luca Varani per seviziarlo e ucciderlo? Due che si addormentano vicino al cadavere, si svegliano e finiscono a bere in un bar?

L’appartamento. Era il 2016. Nicola Lagioia indaga certo attraverso le carte, i verbali, le dichiarazioni, senza adottare gli stilemi giornalistici proprio per scandagliare il gesto inspiegabile anche da parte degli autori, avvalendosi però della cassetta degli attrezzi della letteratura e – sembrerebbe pericoloso scriverlo – dell’empatia. L’autore resta sin da subito attratto da quell’efferato fatto di cronaca e non ne capisce il motivo, c’è qualcosa che supera la notizia, un’attrazione maligna che lo costringe a fare i conti anche con la sua storia e un particolare momento sliding doors che ritorna a galla, dove per qualche centimetro anche il futuro Premio Strega sarebbe potuto diventare un assassino. E malgrado la sproporzione del suo gesto con quello di Foffo e Prato, lì sente che pulsa la stessa materia. La confessione catartica dell’autore si aggiunge a quelle dei due protagonisti, i quali però non sembrano compiere un atto esorcistico. Il male resta lì, fra le pareti dell’appartamento. La narrazione canonica è già alterata sin dal principio, stravolta. Lo scrittore, secondo J. Bruner, è in grado di andare oltre i copioni convenzionali e di condurre la gente a vedere gli avvenimenti umani con una luce nuova, a cogliere cose che non aveva mai «notato» e magari neppure sognato. Una connessione fra scrittore e assassini necessaria a radicalizzare un fatto fuori dalle categorie razionali, deviando il fatto verso il lato oscuro scortosi distintamente dentro chi, almeno una volta nella vita, ha percepito vicino il punto di non ritorno. Un quadro quindi delle azioni dei due romani che comincia a sembrare meno lontano, la ricostruzione dei rapporti con i personaggi minori permette, di riflesso e con occhi nuovi, di scrutare se non proprio se stessi, almeno il vicino di casa, l’altro, non tanto come rischio/pericolo ma come essere potenzialmente mosso dalle stesse angosce e vuoti. Lagioia è attento a restare in equilibrio fra rappresentazioni della città e fatti, raccontando il pericolo di venire sbranato lui stesso da quella storia che giorno dopo giorno, fino all’ultimo, implode trascinandosi dietro chiunque tenti di avvicinarsi. Il disordine della stanza di Foffo che prende corpo sembra un concentrato di quella esterna, della città di Roma, la Capitale si veste di nero, una città commissariata, allo sbando, fascinosa e maligna. E in una scenografia così non c’è bisogno di una realtà aumentata.

Movente. L’assurdità dell’omicidio formalmente distanzia la comunità dagli assassini ma la mancanza di movente diventa un pericolo comune, personale, dove parrebbe (anche qui) che ognuno possa incappare, volontariamente o involontariamente, nel ruolo di vittima o carnefice. Anche per questo è intrigante scoprire come i singoli innervati di segreta «potenza» nietzschiana escano dal binario. Chi non ha mai sognato di deviare la propria ordinarietà? Per farlo esistono un ventaglio di opzioni disparate, quasi sempre ricacciate nei sogni (o negli incubi). L’ibridismo del racconto con la cronaca azzera la finzione narrativa, non mette un punto sul caso e smussa i momenti di rottura biografica degli attori principali propri della letteratura. Una contrapposizione alla spaccatura originale con l’altro nella quale lo spettatore tende a trovare conforto – confermando il proprio io a distanza di sicurezza ma attivando comunque un fondamentale processo di mimesi. Nella lettura di libri simili si può attraversare l’inchiesta per affacciarci sulla società di oggi o di ieri, la cronaca (anche quando manipolata) diventa allora un punto di vista privilegiato che affonda nell’ontologia, superando ceto, età, censo. Modellando un altro essere umano diverso e uguale a noi.

Il giornalismo. In entrambi i libri il giornalismo, un certo tipo di giornalismo, viene smascherato. L’audience atomizzata più difficile da raggiungere e segmentata nei tanti «online», così come la crisi dei quotidiani, svantaggia la ricerca, lo studio, l’attenzione in favore di un’immediatezza che produce grandi titoli clickbait, a effetto, ma poca argomentazione. Pagine da riempire ogni giorno e ogni ora. Di qua, dalla parte dei lettori, si è costretti a comunicare e ad avere un’opinione. L’atto più nefasto, l’omicidio, allora viaggia su onde della percezione effimere che tendono a rafforzare solo il punto di vista che più si confà all’humus culturale dominante. In altre parole coesisto al meglio con me stesso schermandomi dall’altro, senza mettermi in ascolto e creare un legame fra la mia sofferenza e quella dell’altro (Byung-Chul Han). Se questo meccanismo di protezione è facile da smascherare quando si ha a che fare con la storia di un delitto efferato, in cui sin da subito non ravvisiamo punti di contatto con le nostre abitudini, lo è meno quando ci si confronta con la cronaca più spicciola, un furto, lo spaccio o tutto ciò che accade anche per motivi socioeconomici. Le notizie in questo caso sembrano scivolare sul lettore disinteressato, invero attecchiscono poco a poco nelle categorie di bene e male già consolidatesi nella cronaca più clamorosa.

Luoghi oscuri. Tornando indietro nel tempo un altro esempio ne è La scuola cattolica (Rizzoli, 2016) di Edoardo Albinati, l’autore ci mette di fronte ai massacratori del Circeo stesi sulle quasi 1300 pagine del romanzo (ma forse non è nemmeno giusto definirlo così), partendo proprio dalla scuola comune, la San Leone Magno di Roma, frequentata dall’autore e dagli assassini. In seno c’è l’urgenza di allargare le ombre di questo delitto terribile sull’ideologia maschilista di fine secolo strutturata sui rapporti di classe e su radici antropologiche ben più lontane. Tanti temi vengono trattati attraverso il filtro della psicologia del flusso di coscienza ma l’oscurità resta, anzi si fa più densa, e proprio perché il punto cruciale del saggio (torna la difficoltà per definirlo, biografia?) non è la violenza e quindi la cronaca, ma le onde che dall’esterno come cerchi concentrici si muovono al contrario di quelle create da un sasso lanciato in uno stagno, verso un unico momento e luogo, l’Armageddon dove si concentra il male. Che però viene appena evocato. Il fatto ha rilevanza anche e soprattutto per quello che c’è intorno, tanto che i diversi registri narrativi sembrano necessari per circoscrivere quanto più possibili traiettorie diverse della stessa umanità. E certo giammai ci si ritrova a giustificare – né tanto meno a metterci nei panni di – Ghira, Guido e Izzo, ma si può cominciare ad avere l’impressione che quella bestialità cresca nella società per qualche motivo. Attenzione, non è cosa da poco. Un’altra volta la Puglia, siamo a Bari però. Per riprendere le parole di Wu Ming, uno spiazzante case study sulle narrazioni tossiche legate alla nera e alla propaganda è il libro Pozzi. Il diavolo a Bitonto (Edizioni Allegre, 2019) di Selene Pascarella che riporta alla luce la storia dei bambini annegati fra il ’71 e il ’72 nelle cisterne di Bitonto. Il giallo dei pozzi. Ma protagonista è la povertà delle famiglie di questi bambini e il giudizio della «brava» gente che condanna mamme, cugini, zii e poi nonne, producendo un casellario di orchi. Così come altri lavori: Sangue sull’altare. Il caso Elisa Claps: storia di un efferato omicidio e della difficile ricerca della verità (Tobia Jones, Il Saggiatore, 2012, pp 307), Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini (Matteo Cavezzali, Minimunfax, 2018, pp. 231) o La cronaca nera italiana nelle pagine del Corriere della Sera (Cesare Fiumi, Rizzoli, 2006, pp. 189). Il corpo a corpo ermeneutico con la cronaca (spesso ermetica) può diventare infinito se si volesse interpretare ogni protagonista od ogni azione che sviluppa la trama, scrittori e giornalisti stringono il campo facendo affiorare un senso unico, proprio (e si spera appropriato), un occhio di bue esclusivo delle vicende umane. La verità, o meglio la narrazione della verità, si sprigiona a partire dal seme della curiosità con processi lunghi e faticosi. Questi possono diventare una sorta di autoanalisi e di sensibilizzazione che permette al lettore (come allo scrittore) di ascoltare finalmente cosa l’abbia penetrato del flusso mediatico. Ma soprattutto di individuare i denominatori comuni della sua vita (credenze, ideologie, frustrazione, etc.) con i protagonisti della storia così corrotta e dove i suoi (pre)giudizi morali hanno preso il sopravvento in favore di una logica binaria, scartando in direzione della confort zone dei buoni. Un esercizio di comprensione che si fortifica nella lettura di queste indagini e che può, per esempio, aprire uno spiraglio sul conformismo autoimposto dei social, produrre un sano sospetto nella notizia strillata. Ma soprattutto riproporzionare il frastuono della vita fuori con quella dentro.

Da “la Repubblica” il 5 maggio 2021. Caro Merlo, perché i critici cinematografici non scrivono mai la verità? Siamo andati, tutta la famiglia, a vedere Nomadland e ne siamo usciti un po' peggiori di come eravamo entrati. Mi sono ricordata che lei aveva scritto che facciamo troppa retorica sui premi Oscar che spesso spengono i talenti. E questo ne ha presi tre! Il film è lento e deprimente, ma supponente e ricco di virtuosismi tecnici. Ci sono la vecchiaia, la malattia e la vita grama sul camper. A mio marito, che ogni tanto diceva "affittiamo un camper e partiamo", è passata completamente la voglia ed è il solo motivo per non rimpiangere il tempo (più di due ore) e i soldi dei biglietti. Nel film non c' è un solo momento di gioia, non c' è una vera trama e non ci sono neppure i cattivi contro cui combattere (e tutto questo sulle strade americane dove spesso esplode la cattiveria del mondo). A mio suocero, che ha l' età, Nomadland ha ricordato i film italiani "impegnati" degli anni Sessanta: silenzi eterni, interminabili primi piani, imbarazzanti zoom sulle pietre, bei paesaggi con la presunzione di fare poesia e mai nulla da dire: lo chiamavano il cinema dell' incomunicabilità (urca!). Ovviamente Frances McDormand è bravissima (bella scoperta) e le musiche di Ludovico Einaudi hanno la forza di tenerti compagnia mentre ti annoi. Eppure non lo scrivono: il successo non misura la qualità e il premio Oscar a Nomadland è la nuova Corazzata di Paolo Villaggio. Giulia Acciarito - Roma

Risposta di Francesco Merlo: Meglio non si poteva dire. La sua lettera è una lezione ai "critici" che hanno ormai una soggezione imbarazzante nei confronti di Oscar, Nastri, Leoni e Papere d' argento. Brava e grazie.

In libreria scaffali pieni di libri Lgbtqia per i bambini. Ecco come cercano di indottrinarli. Redazione sabato 7 Agosto su Il Giornale. Alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte, a Milano, c’è un’intera parete denominata Wunderkammer, come “stanza dei desideri”. Lo racconta il Giornale che osserva come «sugli scaffali di questa nicchia privilegiata troviamo oggi decine di titoli dedicati a un tema di moda, la presunta normalità di essere LGBTQIA, questa sigla che ormai si estende a tutte le sfumature arcobaleno della sessualità, basta che non sia etero. Un insieme che contiene un vasto sottoinsieme, proposto ai visitatori degli scaffali in periodo di rifornimento pre-vacanziero: quello per ragazzi, e soprattutto per bambini». Si comincia, scrive il Giornale, da un piccolo/grande classico, quel Piccolo uovo di Francesca Pardi, illustrato da Altan (ed. Lo Stampatello, 2011), «dove un protagonista asessuato incontra tutte le combinazioni di famiglie bi- e omogenitoriali, decidendo che l’una vale l’altra. Di fianco, una ghiotta occasione per mettere il figlio in età prescolare alla pari con la vulgata corrente: come favola della buona notte, si può leggere al proprio figlio quattrenne La bambola di Luca (ed. Nube Ocho, 2021), storia di questo bambino che va pazzo per una bambola, finché arriva il solito bullo e gliela deturpa. Ma il bullo fra l’altro è un bambino di colore, e nessuno vuole che un bambino di colore sia anche ostile alle teorie gender fluid. Perciò egli si pente e si riscatta e diventa buonissimo, cioè gioca con le bambole anche lui». Poi, scrive ancora il Giornale,  «…I due papà di Fiammetta, di Émilie Chazerand e Gaëlle Souppart (ed. La Margherita, 2019), dove i soliti bulli prendono in giro la bambina e lei invece li convince di quanto è fortunata, mentre la sua amica che ha invece due genitori biologici è disperata perché divorziano». E poi ancora: «O, pensando ai ragazzi più grandicelli, Le semplici cose di Massimiliano De Giovanni e Andrea Accardi (Feltrinelli Comics, 2019), una graphic novel su quanto sia appropriato, per due maschi quarantenni, servirsi di un utero per conto terzi». E poi tanto altro ancora.

La festa dei lavoratori. Storia del Primo maggio 1982 a Santiago del Cile, quando sfidammo Pinochet. Giuliano Cazzola su Il Riformista l'1 Maggio 2021. Non ho mai tenuto il conto dei comizi che ho svolto in ventotto anni di attività sindacale e in una più corta appendice politica. Mi sentirei di azzardare una cifra accompagnata da tre zeri, ma credo di non aver bisogno di referenze perché per un dirigente/militante della mia generazione arringare i lavoratori (spesso durante uno sciopero) da un palco o anche solo da un camioncino (una volta mi toccò persino di accontentarmi della panchina di un giardino pubblico) faceva parte –soprattutto in certe occasioni come le campagne per i rinnovi contrattuali – delle più frequenti e gratificanti esperienze. Il comizio, ora, è un genere superato di comunicazione, ammazzato anch’esso dalla televisione, ma soprattutto dalla scomparsa dei grandi leader e delle idee forti che essi condividevano con le masse raccolte intorno a loro. Per l’oratore è una sorta di recita a soggetto, il cui successo non è scontato, ma dipende dall’essere riuscito a realizzare un transfert con chi ascolta, preferibilmente in una piazza all’aperto. Se questo comune sentire non si realizza è meglio chiudere in fretta. Perché ciò sia possibile non bastano gli artifici retorici e lo sciorinare di frasi fatte (gli appelli all’unità, l’attacco ai padroni e ai governi; una volta era di moda prendersela con la polizia e i carabinieri) che strappano un applauso rituale, come gli “amen” che accompagnano la celebrazione della messa. Ma perché l’oratore sia in grado di coinvolgere e sollecitare le passioni dell’uditorio, è indispensabile che questi sentimenti ci siano. E ciò dipende dall’autorevolezza del leader che parla, ma soprattutto dal contesto in cui si svolge la manifestazione ovvero dalla forza dei motivi che hanno indotto migliaia di persone a ritrovarsi lì. Ero un bambino quando ebbi il primo contatto con un comizio nell’immediato dopoguerra. Lo testimonia una foto in cui cammino a fianco del mio amico Andrea sotto la sorveglianza della signora Ines (la vicina che ci aveva accompagnati in Piazza Maggiore) sventolando una bandierina di carta che da un lato mostrava il tricolore, dall’altro lo stemma del Pci. La mia “prima volta” da protagonista avvenne il 1° maggio del 1965 (dopo pochi mesi da quando avevo iniziato a lavorare alla Fiom di Bologna). Mi mandarono in un comune agricolo della pianura, dove abitavano anche dei miei parenti un po’ alla lontana. Volle accompagnarmi con la sua auto (se la era potuta permettere –usata – poco più che 50enne) mio padre. Non è facile vincere la difficoltà di parlare in pubblico. Mi ero preparato un testo scritto a mano dove affrontavo tutti i temi possibili e immaginabili. Arrivammo nella piazza del paese con un largo anticipo e non trovammo nessuno. Ci sedemmo in un bar ad aspettare. Verso le 17 gli uffici della locale CdL si aprirono e comparvero all’improvviso il responsabile e la segretaria (io ebbi l’impressione che provenissero ambedue dall’interno). Montarono un palchetto con un microfono, poi mi diedero la parola. Intorno a debita distanza si era radunata qualche decina di persone. Mio padre fu molto contento. Quella fu l’ultima volta che ci capitò di stare assieme, perché morì all’improvviso il 9 giugno di quello stesso anno. Al ritorno ci fermammo a salutare i parenti che non si erano fatti vivi in piazza. Quando ci videro caddero dalle nuvole e giurarono di non aver saputo nulla. In effetti avevano ragione, perché poco dopo, tornando verso la città, mi imbattei in un manifesto che annunciava il comizio in cui avrebbe parlato un certo Cazzoli Emilio. In sostanza, in quel pomeriggio parlai sotto falso nome. Il comizio più importante della mia vita lo feci a Santiago del Cile il 1° maggio del 1982 (era stato eletto da due anni segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna). In quella ricorrenza la Confederazione inviava una delegazione non solo per esprimere solidarietà alle organizzazioni sindacali oppresse da una feroce dittatura. Così facevano anche i partiti politici di sinistra, il Psi in particolare. Era anche un modo di “proteggere” la manifestazione alternativa a quella del regime, perché Pinochet preferiva non avere grane diplomatiche e comparire sulla stampa internazionale per aver fermato uno straniero (a volte capitava, ma tutto si risolveva in poche ore) durante un’iniziativa della opposizione democratica. Come si direbbe oggi era un “rischio ragionato”; anche se si era sempre in contatto con l’ambasciata, non si trattava comunque di un viaggio turistico. La visita era un’occasione per incontri con i leader sindacali di opposizione (la Coordinadora sindical) che raccoglievano anche – come in una sorta di Cln –rappresentanti dei partiti democratici, dal momento che i sindacati avevano un minimo di agibilità politica, tollerata nei fatti dal regime (anche se i dirigenti che incontrai erano stati più volte, in quegli anni, ospiti delle patrie galere). La mattina della Festa, la manifestazione si svolse al chiuso in una grande sala, davanti a un migliaio di persone, mentre al di fuori la polizia sparava lacrimogeni. Pronunciai, quando venne il mio turno, un discorso tradotto in lingua spagnola dal mio accompagnatore. Fu trasmesso in diretta dalla radio della Curia ed ebbe una vasta eco. In quel caso riuscì anche il transfert (Los que tienen la fuerza y no la razón) perché sia io che i tanti cileni in sala eravamo consapevoli dell’importanza di quanto stavamo facendo; per dare un senso a quel momento io ero arrivato lì dall’altra parte del mondo e loro lottavano per quella libertà di cui erano stati privati con la violenza. Ma il comizio più sentito dei tanti, avvenne anch’esso in maggio, a Imola, il giorno dopo la strage di Brescia (il 28 maggio 1974). Quella volta avvertii un comune sentimento condiviso che saliva dalla piazza stipata di lavoratori e cittadini. Sul palco c’erano diversi oratori. Quando venne il mio turno ebbi un’intuizione geniale. Mi ricordai che conservavo nel portafoglio il testo dattiloscritto di quella splendida iscrizione che Piero Calamandrei aveva dettato per il monumento alla Resistenza della città di Cuneo. Dopo un breve discorso, declamai ad alta voce le parole di quel foglio gualcito, con un tono ispirato e una commozione sincera. «Lo avrai, camerata Kesserling, il monumento che pretendi da noi italiani, ma di che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi…». Quando l’eco di quei versi si spense nell’aria (nell’indimenticabile “Ora e sempre Resistenza”), io vidi, in un grande moto di solidarietà, centinaia di uomini e di donne in lacrime. Giuliano Cazzola.

Concertone Primo Maggio, Chadia Rodriguez in topless: “Viva la libertà d’amore e l’amore di essere liberi”. Ilaria Minucci l'1/05/2021 su Notizie.it. La rapper Chadia Rodriguez si è mostrata in topless durante la sua prima partecipazione al Concertone del Primo Maggio, per lanciare un messaggio. Nel corso degli anni, il Concertone del Primo Maggio si è trasformato spesso in un palcoscenico sfruttato dagli artisti per sfoggiare, di volta in volta, nuovi generi di provocazione e lo spettacolo allestito in occasione del 1° maggio 2021 non ha fatto eccezione. Alcuni anni fa, in occasione del Concertone del Primo Maggio, il cantante Piero Pelù aveva suscitato scandalo infilando sul microfono di Vincenzo Mollica un preservativo. Qualche anno dopo, invece, è stato il turno di Fabri Fibra, aspramente criticato per i testi dei suoi brani che, poi, ne causarono l’esclusione dall’evento. Nel 2021, a sorprendere conduttori e telespettatori ci ha pensato la giovanissima Chadia Rodriguez, rapper italiana di origini marocchine poco più che ventenne, alla sua prima partecipazione al Concertone. L’artista, infatti, si è presentata sul palco destinato ad ospitare l’evento per cantare il suo brano intitolato Bella così, in compagnia di Federica Carta. Durante la performance, però, Chadia Rodriguez ha lentamente iniziato a spogliarsi rimanendo, infine, in topless e mostrando i capezzoli coperti soltanto da un paio di adesivi arcobaleno. Una volta conclusa la sua esibizione, la rapper italiana ha lanciato un appello dal palco, pronunciando le seguenti parole: “Viva la libertà d’amore e l’amore di essere liberi, di amare chi vogliamo e come vogliamo”. La ragazza ha diffuso il suo invito con un tono di voce allegro e spensierato che non lasciava trapelare alcun tipo di intento provocatorio. Inoltre, prima di lasciare la scena, ha accostato le sue mani a quelle di Federica Carta, mettendo in evidenza la scritta “Libera l’amore”. A proposito del messaggio trasmesso, Chadia Rodriguez ha anche ribadito: “Sentitevi sempre liberi di essere voi stessi e di amare chi volete: è il cuore del mio messaggio – e ha aggiunto – diciamo che questa idea è nata per dare più forza all’esibizione, ad una canzone che lancia un messaggio positivo, per emozionare e sorprendere i messaggi che mi sono arrivati la canzone lascia questo messaggio, struttura lo show emozionare le persone a casa”.

Concertone Primo Maggio, chi è Chadia Rodriguez. La rapper Chadia Rodriguez, 22 anni, è nata ad Almería da genitori di origine marocchina ma è cresciuta nella città di Torino. La sua più grande passione era il calcio, mondo dal quale si è dovuta ritirare a causa di un serio infortunio. In seguito all’addio al calcio, la ragazza si è trasformata in una delle principali ragazze della nuova scena trap, forgiando il proprio successo sfruttando le piattaforme social e musicali, conquistando il favore di milioni di fan. Proprio raccogliendo e analizzando i numerosi commenti ricevuti sui social, la giovane rapper italiana ha realizzato, in collaborazione con Federica Carta, il progetto Bella così, impegnato nella lotta al cyberbullismo, ai pregiudizi, al bodyshaming e alla violenza sulle donne.

"Vi spiego la verità sulla politica e gli influencer". Alessandro Ferro il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Le tematiche calde di attualità, la politica e molti dibattiti, politici e pubblici, cambiano e si adattano al mondo 2.0 di social ed influencer: Lorenzo Pregliasco ci ha spiegato come funziona la politica Netflix. Nell’ultimo periodo, moltissimi influencers e personaggi famosi sui social hanno iniziato ad esporsi su temi di attualità, sociali e di politica: chi perché sente un'esigenza, chi per tornaconto personale, l'esposizione mediatica è stata esponenziale vedi Fedez, la moglie Chiara Ferragni o Aurora Ramazzotti, che attraverso delle storie pubblicate su Instagram ha denunciato delle molestie di cui era stata vittima per strada aprendo un dibattito che è andato avanti per settimane sui social sul tema del catcalling. In esclusiva per ilgiornale.it abbiamo intervistato Lorenzo Pregliasco, analista politico e fondatore di Quorum/YouTrend oltre ad essere Professore presso la Scuola di Scienze Politiche dell'Università di Bologna. È l'ideatore di un binomio molto significativo che associa la politica a Netflix per il modo in cui, negli ultimi anni, si è modificata anche questa comunicazione a causa dell'avvento dei social media e delle piattaforme on demand.

Cos’è politica Netflix e come funziona?

"Io chiamo politica Netflix, anche in Italia, almeno tre aspetti nel dibattico pubblico: da un lato la presenza di soggetti non politici che pubblicano e si espongono su temi politici come Fedez, Chiara Ferragni e non solo. Dall'altro lato, la tendenza a costruire dei momenti di partecipazione politica che sono on demand, non hai delle campagne ideologiche ad ampio spettro valoriale ma la presa di posizione su temi molto specifici quali, ad esempio, il razzismo come stiamo vedendo con la Nazionale di calcio oppure i diritti civili. Politica Netflix signica che questi soggetti prendono posizione su singoli temi ma senza abbracciare l'universo ideologico come poteva essere la politica qualche decennio fa in Italia".

E il terzo aspetto?

"L'ultimo aspetto interessante è che i vip si sono sempre esposti, in passato non sono mancati esempi, ma trovo che sia particolarmente importante che le figure che adesso prendono posizione sui temi, ispirano e mobilitano anche delle comunità a sostegno delle loro posizioni politiche, sono personalità che hanno dei loro canali, dei loro pubblici, ed hanno migliaia o milioni di follower a cui arrivano direttamente ed è un'enorme differenza rispetto a quello che poteva fare un cantante negli anni '80 quando aveva un suo pubblico ma non aveva un canale per arrivare direttamente al suo pubblico. Oggi è radicalmente diverso".

Oltre ai casi Ronaldo Coca-Cola e Fedez-ddl Zan, le vengono in mente altri casi, anche meno noti, di politica Netflix?

"Sicuramente, il terzo aspetto recente è quello dell'inginocchiamento agli Europei, vicenda che nasce nel football americano nel 2016 legata alle violenze della polizia ed al razzismo nei confronti degli afro-americani, nasce nel contesto della Nfl americana ed ha una seconda vita nell'ambito delle mobilitazioni del 2020 che oggi arriva anche agli Europei di calcio. È un altro classico che si pone nell'ottica della politica Netflix ovvero con realtà e soggetti sportivi che devono discutere di una tema politico e devono scegliere se e come prendere posizione. Quando dico politico è in senso lato con tutto ciò che ha a che fare con il vivere insieme, non è un modo per delegittimare la scelta di inginocchiarsi o meno. In realtà, però, ce ne sono molte altre".

A quali altre iniziative si riferisce?

"Dal mio punto di vista anche una serie di iniziative che ci sono state sull'ambiente con la presa di posizione di personaggi pubblici e aziende che rientrano in questo paradigma. Nella stessa zona della politica Netlifx sta un enorme fenomeno che in Italia sta arrivando lentamente che è l'attivismo dei brand, aziende che prendono posizioni politiche e lo stiamo vedendo con il pride, in questo periodo, ma riguarda moltissimo anche la sostenibilità e l'ambiente".

Spulciando sul suo profilo Instagram, su una “storia” ha scritto che chi fa politica, lobbying, comunicazione dovrebbe guardare queste cose e rendersi conto che il mondo sta cambiando. Cosa significa?

"Volevo dire che per tutti noi che ci occupiamo di questi temi o per soggetti che hanno l'obiettivo di incidere sul dibattito pubblico, è il momento di capire che l'ecosistema non è più quello di 10 anni fa in cui l'agenza era dettata unicamente dai media, non è più un ecosistema nel quale se vuoi avere un impatto sulla questione energia o mobilità, o finanza, quello che si deve fare è un convengo con il professore universitario dell'argomento di cui vuoi parlare. Queste modalità di intervento nel dibattito pubblico saranno sempre più affiancate da modalità diverse: mi aspetto che ci sia una crescita del ruolo degli influencer non sono come realtà che pubblicizzano i prodotti ma come realtà che sposano campagne di advocacy, che sposano delle cause di interesse pubblico. Non solo la pubblicità alla crema o alle bibite ma anche realtà, collaborazioni e progetti di comunicazione che tengono conto di questa nuova realtà, che oggi una parte dell'influenza politica sta nella presa di posizione di personalità pubbliche che hanno un grosso seguito e possono attivare i loro follower intorno un certo tema di policy".

Cosa vogliono comunicare, secondo lei, personaggi famosi ed influencer sui propri canali social? Cercano di avvicinare la gente a politica e temi di attualità o il loro scopo è un altro?

"Dipende dai singoli casi, ciascuno ha i suoi scopi. Da un lato la scelta di esporsi su temi politici e sociali derivi da una pressione che si sente, ed è lo stesso motivo per cui negli Stati Uniti i brand fanno attivismo molto pronunciato su alcune questioni perché sentono che c'è pressione da una parte del loro pubblico affinché si schierino, affinché dicano la loro non solo su qual è il cosmetico da comprare ma anche su aspetti più valoriali. Una parte del perché lo fanno viene da li. In molti casi, gli scopi possono derivare da una volontà genuina di dire la propria, per altri può essere una modalità attraverso cui assumere rilevanza, ci son tanti casi in cui prendere posizione su temi politici ha enormemente accresciuto la visibilità di queste figure".

Nei suoi interventi hai parlato spesso del passaggio da “class politics” a “identity politics”, cosa significa e che conseguenze può avere?

"È un aspetto che ho ricondotto alla politica Netflix ma che è oggetto di analisi serie da ormai un po' di anni: da class politics, cioé una forma di posizionamento politico basato sul concetto di classe e sulle materie economiche e lavorative, ad un modello fondato invece sull'identità. In altre parole, la parte progressista dello spetto politico tende ad essere più attiva sul fronte dell'identità, sul fronte dei diritti civili che non su fronti più tradizionali della sinistra. Nell'intervento di Fedez del 1° maggio, molti hanno osservato come la festa per eccellenza della sinistra di una volta sul lavoro abbia di fatto assunto molto un lato di identity politics, cioé la festa dei lavoratori che diventa una festa per i diritti civili più che la festa per i diritti dei lavoratori in quanto lavoratori".

La sensazione è che la politica Netflix tenda a concentrarsi su singoli temi, come il ddl Zan, non c’è il rischio di perdere la complessità del dibattito politico e pubblico?

"Si, questo è uno degli enormi rischi della politica Netflix, io la chiamo così perchè è un meccanismo che si basa su un consumo politico on demand in cui mi prendo la puntata, mi prendo un pezzetto che voglio vedere quando voglio, non c'è più il palinstesto né l'ideologia generale ma è politica on demand. Il rischio è quello che dici tu, cioé nella politica on demand i cittadini vengono esposti a punti di vista frammentati su poche questioni e perdano le chiavi di lettura più generali e complessive che rimangono. La politica non funziona affrontando un pezzetto per volta, da ogni scelta politica derivano delle conseguenze che poi impattano su altre scelte. Questa dimensione si rischia di perderla, c'è poco da fare".

Eventualmente, come si può recuperare?

"I media dovrebbero lavorare in quella direzione, dovrebbero essere uno strumento che ha l'ambizione di contribuire a costruire l'agenda del dibattito pubblico e uno strumento che può offrire ai lettori pluralità di punti di vista e di questioni. Un lavoro giornalistico ben fatto è un antidoto a questa parcellizzazione totale del dibattito. Anche lì, il rischio è che molti media stanno facendo l'opposto, stanno inseguendo questa forma di interesse politico molto parcellizzato e focalizzato e spesso giocano un po' a parlare soltanto alla propria bolla. È un rischio che c'è ed è legato alla polarizzazione, in Italia un po' meno ma negli Stati Uniti è già molto avanti."

Questa mutazione della comunicazione politica che impatto può avere sui partiti, sia sulle loro agende che sul loro approccio comunicativo?

"Devono sapere che sono attori anche loro, cioé che su una parte dell'elettorato incide quello che fa Pogba agli Europei o la storia su Instagram di Cathi La Torre, un'altra influencer che si occupa molto di temi politici e sociali. Si tratta di sapere che c'è questa realtà e non averne eccessiva paura, la politica deve rivendicare forza e valore. I leader politici nazionali sono, a loro modo, più che influencer perché convincono milioni di persone a sostenerli, perché incidono sull'agenda politica del Paese, perché si assumono scelte e responsabilità. I leader politici sono molto più che degli influencer, in un certo senso, e l'impressione che ogni tanto si dimentichino di questo e rischino di inseguire gli influencer con la i minuscola che abitano i social. Sapere che c'è questa realtà, non averne paura e cercare di essere presenti nella vita degli elettori anche sulle piattaforme e canali di cui ormai un bel pezzo di elettorato si informa. Non pensare che tutto si esaurisca nella ospitata di un talk show in prima serata ma sapere che c'è anche un pezzo di Paese, che poi vota, che le idee se le fa su altri canali ed in altri modi".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi

Vittorio Macioce per "il Giornale" il 25 giugno 2021. Si chiama Fedez e a quanto pare è un maestro del pensiero. Non bisogna stupirsi. È l'opinionista che fa più rumore. Fedez parla e c' è subito qualcuno che risponde. Fedez scandisce il dibattito pubblico. Fedez pesa di più di Enrico Letta. Fedez con l'indice puntato e ballerino dice: «Raga, ma chi cazzo ha concordato il Concordato? Voi avete concordato qualcosa?» e manca poco che il Papa gli risponda. Ci pensa però monsignor Galantino: «O non sa o è in male fede». Fedez incassa e ringrazia. È così che funziona la piazza politica al tempo della democrazia virtuale: tu sei chi ti risponde. Il resto è Draghi e si è vaccinato. È così che in questo strano paese il banchiere è l'anomalia, il deviante, e il rapper il conformista, il maestro dell'orecchiabile. Non sempre ci crede. È una storia che sarebbe piaciuta a Pessoa. Il fedezismo è la faccia paciosa del grillismo. È rassicurante, ma ne incarna lo spirito populista. È l'influencer qualunque, l'ultimo discendente di Guglielmo Giannini, il commediografo e giornalista che nel dopoguerra inventò il Fronte dell'uomo qualunque. Giannini, come Grillo, amava storpiare i nomi dei suoi avversari. Calamandrei lo chiamava «Caccamandrei», Ferruccio Parri fu ribattezzato «Fessuccio Parmi». È l'ingrediente base del qualunquismo. Giannini ballò una sola stagione e fu archiviato come fenomeno di destra. Fedez è qualunquista, ma di sinistra. È il fronte del palco ideale per la nuova ditta Letta-Conte. È lì che trova e allarga il suo spazio d' azione. Fedez qualunquista, ma se difende i diritti Lgbt?. Non cambia. Non è che le battaglie di Giannini o di Grillo fossero tutte da buttare o senza senso. Se hanno trovato consensi è perché esprimevano disagi. Qualunquista è il metodo. È come le porti in piazza. È come parli, a chi parli, quali corde smuovi. La questione dei diritti, in generale, si presenta nella discussione pubblica in modo binario e bidimensionale. È aperto o chiuso. È luce accesa o luce spenta. È solo presente, senza profondità o prospettiva. Tutto così finisce per assomigliare a un «trend» su Tik Tok o a un «hashtag» di twitter. È rapido, breve, immediato e funziona. Non c' è molto da dire: devi solo cliccare il «mi piace». Se ti inginocchi sei buono e se non lo fai sei cattivo. Il resto non conta. Non importa se, per esempio, temi che l'ossessione per l'identità possa creare un corto circuito nella carta dei diritti. È un dubbio. Se spacchetti l'umano fino ai minimi termini non è che si perde il principio di umanità? La forza dei diritti è che sono universali. «Tutti gli umani nascono liberi e uguali...».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. Con una vita ormai superiore rispetto all' età media dei suoi concorrenti, è tornato anche quest' anno in versione serale il talent show «Amici di Maria De Filippi», arrivato alla 20ª edizione (Canale 5, sabato in prima serata). Vent' anni di storia sono molti per un programma televisivo: alla schiera dei defilippologi dovrebbero offrire l' opportunità di preziose osservazioni con risvolti storici e sociali, non solo «mitici». I programmi della De Filippi S.P.A. sono accomunati da una caratteristica interessante: nel mondo di Maria il tempo sembra non passare mai. Difficile trovare altri universi narrativi in cui i linguaggi e le estetiche si mantengano così immutati, forse perché sbocco diretto della sua «Weltanschauung». Vero che, nel tempo, «Amici» si è aperto all' esplorazione di nuovi stili e generi musicali (come dimostrano i profili dei concorrenti più interessanti di quest' anno, da Sangiovanni ad Aka7even), vero che Maria ha progressivamente smussato l' approccio da rigida istitutrice collegiale per proporsi come una figura più comprensiva, quasi genitoriale, ma il cuore narrativo del programma non ha bisogno di cambiare mai: «Amici» è un fermo immagine, un assopimento nel tempo neutro, né durata né eternità. L' effetto novità dovrebbe forse passare da giudici e professori del talent: il mondo di «Amici» si popola ogni anno di personalità nuove, che però vengono presto defilippizzate, modellandosi irrimediabilmente ai tratti caratteristici di linguaggi e ingranaggi ben consolidati. Bisogna aspettare tarda notte per veder comparire Pio e Amedeo, unici ancora immuni all' effetto Fascino, anche se sono parsi leggermente appannati rispetto ai loro standard di comicità volutamente scorretta e «cafona». L' innesto più inspiegabile di quest' anno è quello del principe Emanuele Filiberto: forse cerca una Oprah Winfrey che gli regali un senso (più narrativo che esistenziale).

Che razza d'Italia racconta C'è Posta per te? Suocere, perdono, lacrime e televisione materna: il programma di Canale 5 parla furbescamente alla pancia di un Paese incapace di aggiornarsi. Beatrice Dondi su L'Espresso il 25 gennaio 2021. Sono passati vent’anni dall’apertura della prima busta ma la Storia ha fatto finta di non aver fatto nessun passo avanti, ancorandosi con ostinazione in un passato che rivive solo in quello studio azzurro. Pause, camminate, un tocco di Dior per un racconto monocorde della pancia di un Paese che non si smuove di una virgola. D’altronde che senso avrebbe rivoluzionare la formula di un programma da record? In termini d’ascolto nessuno, ovvio, ma qualche riflessione al di là di ogni sconforto ogni tanto bisognerebbe pur farsela scappare. Innanzitutto sul perché una parte d’Italia si senta fieramente descritta da “C’è Posta per Te”, una sorta di “Piccolo mondo antico” con dettagli che Fogazzaro avrebbe copiato volentieri. Dove le suocere sono ancora in guerra con le nuore, le mamme sono sempre delle sante e nel caso incauto in cui osino ricostruirsi una vita dopo l’abbandono del marito, vengono subito considerate indegne dell’affetto filiale. Nelle storie che sfilano il sabato sera impera la richiesta del perdono, quello assoluto. Ho ragione io chiedi scusa, hai ragione tu, scusa. Finiamola lì. Anche lo strappo estremo del tradimento, in fondo, si può ricucire, per amore dei figli, che seppur ingrati hanno sempre bisogno dell’unità casalinga. Poi ci sono i ricongiungimenti da lontano, quelli con lo strazio del pianto che lascia il volto umido e sgualcito, quel tipo di induzione alla commozione che ha reso le carrambate di Raffaella delle sperimentazioni da dilettante. Un profluvio di destini interrotti che in un mondo che si vorrebbe digitale affidano il loro futuro al passato ancestrale di un postino in bicicletta. E poi l’emozione del divo visto dal vivo, lo scherzo sulla sessualità degli over che cercano la fidanzatina del secolo scorso, il saluto al sindaco e al farmacista, la risata sugli accenti dialettali, le memorie del villaggio. Una strana Italia incapace di aggiornarsi, che ancora confida nella Tv materna, pronta a sollevarti dalle difficoltà economiche elargendo premi consolatori, da utilizzare magari per un matrimonio degno, anche questo ben rinchiuso in una busta. E a quella confezione senza cedimenti del tempo, perché quel tempo non l’ha mai avviato, onestamente non daresti un soldo di cacio. Invece la concorrenza si intimorisce al punto che non solo non scende neppure in campo per cercare un secondo posto ma incensa appena possibile la cosiddetta regina, cercando di intercettare un suo sguardo di approvazione negli studi di viale Mazzini e dintorni. Che lei, sì furbamente ben ancorata al presente, elargisce con magnanimità. Accettando sempre l’invito.

Quando la campagna vaginale e la patata contagiano la tv. Marco Castoro su Il Quotidiano del Sud il 23 marzo 2021. La campagna vaccinale ha seminato il panico nei tiggì. Questa volta AstraZeneca non c’entra. Più di una conduttrice ha commesso in diretta la gaffe per eccellenza, scambiando l’aggettivo vaccinale con quello vaginale, di ben altro significato. Il primato spetta a Cristiana Mancini di SkyTg24 che addirittura ha rifilato una tripletta memorabile, utilizzando più volte in diretta l’espressione sbagliata. “La gaffe a luci rosse” come l’ha definita Staffelli quando le ha consegnato il Tapiro di Striscia La Notizia per le prime due performance disastrose. Poi è arrivata la terza.

VOTO A PERDERE. Anche la veterana Veronica Voto ci è cascata. E la campagna vaginale è di nuovo comparsa a SkyTg24. Quasi fosse un altro virus contagioso.

LA PATATA DI ILARY. «Vi faccio entrare per la prima volta nella patata!». Con questo invito Ilary Blasi ha movimentato sui social la prima puntata dell’Isola dei Famosi, in onda su Canale 5. La gaffe è stata quella di scambiare il luogo che ospita i naufraghi – la Palapa – con qualcos’altro che si presta a una duplice chiave di lettura e che ha generato una spontanea e imbarazzante risata di massa.

LA GAFFE SI È FERMATA A EBOLI. Il canale diretto da Giuseppe De Bellis è stato menzionato da Striscia anche in altre occasioni che hanno visto i giornalisti di SkyTg24 esibirsi con delle chicche strepitose, diventate pane quotidiano per i social, come quella di Vittorio Eboli che ha detto che la Gran Bretagna è fuori dal Regno Unito. Una Brexit nella Brexit, insomma.

TG8 ZERO VIRGOLA. Il Tg8 è destinato a un’inevitabile chiusura ancor prima di decollare. Un esperimento fallimentare. Con gli ascolti che non sono mai usciti dal tunnel dello zero virgola. Una fascia d’informazione destrutturata, con una grafica e uno studio da tv locale. Guardandolo nessuno ha mai pensato che si trattasse di un canale nazionale. Un tiggì de’ noantri che non è riuscito a fare la differenza affossando il progetto editoriale che doveva essere innovativo e che vedeva in campo il colosso Sky e la rete generalista Tv8. Una débacle che porta la firma del direttore De Bellis e dei responsabili di Tg8, Marta Meli e Massimo Di Pietrantonio, non dimostratisi all’altezza delle aspettative. E pensare che questo tiggì doveva «arricchire il panorama del giornalismo italiano». Ha contribuito al flop anche il mezzobusto Francesca Baraghini, fortemente voluta dai vertici ma non in grado di smuovere gli ascolti dallo zero virgola.

MERLINO, DOMENICA BESTIALE. A proposito di flop viene alla mente l’esperimento di Myrta Merlino alla domenica pomeriggio, durato solo poche settimane. Progettare un programma in un orario consacrato alla zia Mara Venier, al calcio e a Lucia Annunziata è stato un mezzo suicidio. E la nuova trasmissione della Merlino è durata solo poche puntate. La chiusura è stata inevitabile visto l’1,8% di share. A La7 avranno pensato che il gioco non valesse la candela.

GAFFE E TWITTER. A Giuseppe De Bellis ne capitano di tutti i colori. Tanto da essere costretto a parare di tutto. Un altro autogol a SkyTg24 l’ha messo a segno Valentina Clemente, che ha dovuto scusarsi con un tweet, rilanciato dal direttore. L’errore commesso dalla giornalista riguarda un “purtroppo” di troppo detto in diretta (non voluto, si spera), che però ha accompagnato la sconfitta della Lazio facendo arrabbiare i tifosi del Bologna, tutt’altro che dispiaciuti del successo sui biancocelesti.

IL CODICE GRILLO. Cominciano i primi casi in tv di interruzioni e lamentele. Ieri mattina l’ex Iena, ora eurodeputato del M5S, Dino Giarrusso se l’è presa con il conduttore dell’Aria Che Tira di La7, Francesco Magnani, accusandolo di essere stato interrotto con una domanda mentre esprimeva un concetto. «Bisogna essere un po’ flessibili. Non è un’interruzione, è una domanda, è un dialogo», ha replicato il conduttore. E meno male che non è finita come con Maurizio Gasparri quando sono volati gli stracci tra il politico e Magnani.

I manipolatori dei piccoli schermi tra idiozie, falsi e populisti cialtroni. Un bla bla concentrato sulle sorti dei personaggi politici lontano dai problemi veri del Paese reale. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 9 marzo 2021. È incredibile e anzi perfettamente logica la ridicola e surreale caparbietà con cui le televisioni e gli show più o meno politici cercano di imporre un falso globale. Il falso globale è quello di un caro e stimato malato, forse moribondo, cui tutta l’Italia onesta è devota e comunque in palpitante apprensione. Ce la farà? Non ce la farà? Qual è il suo male più profondo? Quali farmaci prende? Avete fatto una Tac di recente? Il malato in questione è quel grumo, bolo o malloppo indigesto formato dall’innesco o poltiglia di quel che resta del PD e quel che resta del Movimento Cinque Stelle. La finzione consiste nel far credere che il tema di cui parlano gli italiani a tavola sia: chi succederà a Zingaretti? Ma davvero Beppe Grillo con lo scafandro vuole diventare segretario del PD? Ma che cosa succede fra i cinque stelle? Ma che cosa ne sarà di Di Battista, e che ne sarà di Di Maio e come faranno questi due acquitrini a formare di nuovo un mare lucente su cui far navigare l’Italia? Intanto, ieri Draghi ha dato un’ennesima prova di sobrietà mediatica. Ha parlato dell’Otto marzo in modo sobrio e i telegiornali hanno potuto pubblicare una sua foto fissa con un riassunto delle cose dette, peraltro in un linguaggio di circostanza. Rispetto al passato presenzialismo di tutti i membri dei precedenti governi, un bel salto di qualità, ma ci permettiamo in tutta sincerità di dare un suggerimento al professor Draghi. Questo: signor presidente del Consiglio, nelle circostanze gravi e anzi eccezionali che l’hanno portata a guidare un governo che sta a metà fra l’emergenza e l’unità nazionale, lei ha accettato un ruolo di leader. Lei pensa in inglese, oltre a parlarlo in modo eccellente e sa bene che cosa sia la leadership. La modestia e la compostezza sono virtù lodevoli come anche il ritrovato senso della misura. Tuttavia, è la nostra impressione, poiché questo Paese allo stremo l’ha accolta quasi universalmente con grande gioia e altrettanta speranza, pensiamo sia arrivata l’ora in cui lei accetti la croce che si è caricato sulle spalle e faccia il leader. Non soltanto essere, ma anche apparire, ci sembra importante. È importante farlo con gusto e sobrietà, soltanto quando è indispensabile, ma ci sembra che oggi sia davvero indispensabile che una persona del suo rango e nella sua posizione eccezionale – ed anche anomala perché risponde ad una grave anomalia democratica – debba uscire dal camerino, entrare in scena sotto in riflettori e dire qualcosa. Sul che cosa, non ha bisogno di consigli. Ma dica di essere il leader perché è questo il contratto che lei ha firmato e perché l’Italia ha bisogno di un pilota che faccia quel lavoro delicatissimo che fanno i piloti delle navi che attraversano lo stretto di Suez: ci vuole qualcuno che sappia portare la nave da un mare all’altro lungo un budello stretto e difficile. Fine della metafora. Nel frattempo, come dicevamo all’inizio, il chiacchiericcio televisivo e anche radiofonico per non dire di quello sui social, finge di che la questione sia davvero sapere se Zingaretti facesse sul serio o faceva finta, se Conte ha accettato di guidare i Cinque Stelle su richiesta del Grillo scafandrato per evitare che si faccia un partito da solo in grado di scippare una bella fetta del movimento e anche del PD, mentre in realtà agli italiani di tutto ciò non importa nulla. E si assiste a un vero accanimento su temi assurdi e bislacchi, come l’attacco forsennato dei pentastellati, seguiti passivamente anche dalla Meloni contro la McKinsey & Company ingaggiata come consulente tecnico dal governo per una ridicola parcella di meno di trentamila euro. È ridicolo, ovviamente, come tutto ciò che fanno i Cinque Stelle che non hanno tempo per studiare, capire, elaborare e che infatti spediscono regolarmente davanti alle telecamere dei telegiornali qualcuno dei loro, maschi o femmine, con gli occhi strabuzzati a pronunciare frasi ansiogene e insignificanti. Ma McKinsey significa “multinazionale” e multinazionale è una evocazione con l’idea cretina della cupola mondiale che governa le borse, le banche e ogni potere, rinnovando i fasti fascio-nazi-comunisti delle demoplutocrazie giudaico-massoniche capitaliste unite in un’unica congiura, con tutto il loro codazzo di malfattori. Si può essere più cretini? Difficile. Ma non si tratta soltanto di scarso quoziente d’intelligenza: si tratta prima di tutto del primato della scorciatoia. La scorciatoia come ideologia, dell’idea secondo cui non solo uno vale uno scivolando verso gli abissi della decrescita felice, ma lo deve fare seguendo poche e intuitive indicazioni stradali. Tutte sbagliate. Tutte le indicazioni stradali offerte dal M5S e purtroppo anche dal gruppo dirigente del PD, portano a sbattere. Un Paese democratico deve avere sempre di riserva uno schieramento alternativo a quello di governo, che ambisce ad andare al governo e che è rispettato per questo. Non da noi. Da noi la rispettabilità è decisa da un gruppo di televisionisti che senza rendersene conto – massì, che se ne rendono conto – si comportano come esorcisti. Non vogliamo fare la spunta dei nomi, è un esercizio che potete fare comodamente da casa vostra col televisore acceso e spostandovi lungo le fasce delle News. Quando qualcosa di particolarmente psichiatrico o irrilevante accade in quell’area – come le improvvise e stupefacenti dimissioni di un segretario che dà dei malfattori ai suoi colleghi di partito affamati di potere e di poltrone – il circo mediatico si raduna sotto le sue tende per fingere di dibattere il seguente tema: che cosa avrà “realmente” in mente quel segretario, furbo come un campione di scacchi? E vanno avanti così per giorni, con esercitazioni macabre sui nomi delle femmine del partito, esibite come possibili viceministre o sottosegretarie, mentre dall’altra parte nell’anima torbida del populismo grillino si praticano sacrifici umani, scomuniche, espulsioni, purghe staliniane, roghi, esilii oltremare, in un globale incanaglimento delle parole, con un’ondata limacciosa alle spalle di insulti via social, una lunga notte dei morti viventi come in un film horror di Quentin Tarantino. Così oggi siamo di fronte a due impasti della politica di natura opposita fra loro: da una parte quello del populismo cialtrone e ignorante che scatena muffe crociate sule parcelle di uno studio di tecnici, dall’altra l’estrema e quasi lunare sobrietà del leader Mario Draghi che non vuole cedere nulla allo stile del passato per impartire lezioni di sobrietà. Ora, è vero che l’Italia ha stanca di ubriachezze parolaie e di decreti ingiuntivi, improvvisazioni e commissari incompetenti, ma è anche vero che l’Italia è depressa, colpita al cuore come nella canzone di De Gregori, irata per le beffe e l’incompetenza, grata e speranzosa per l’arrivo di una squadra di governo che finora non ha avuto lo spazio e il tempo necessari per stupire e illuminare l’arena con qualche accettabile effetto speciale, usando il ritorno alla normalità come propellente. È un equilibrio difficile, un compito infernale, lo sappiamo, ma non si tratta soltanto di un compito tecnico, ma anche politico nel senso onesto del temine. È ora cioè – lo ripetiamo un’ultima volta – che il nuovo stile si incarni nelle persone oltre che nei fatti e che un nuovo stile nello stare sul proscenio scacci i fantasmi del passato, quella torma di sciacalli, stracci e morti infuriati che fini qui ha mantenuto intatto il suo dominio televisivo, nello sforzo satanico di impedire la comprensione del mondo reale, di valutare e di legittimare le azioni dei governi. “Vaste programme” come rispose De Gaulle quando gli proposero di fucilare tutti gli imbecilli. Ora, qui si tratta di liberarsi non tanto degli imbecilli quanto dai manipolatori dei piccoli schermi. Qualche segnale già c’è stato, perché comincia a scarseggiare l’acqua in cui nuota il pesce della manipolazione, e perché gli usurpatori della notizia comprendano che forse è tempo di migrare.

·        La TV tradizionale generalista è morta.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 settembre 2021. In tanti hanno provato a denunciare sprechi e giochi di potere dentro la Rai. Ma in pochi lo hanno fatto dall'interno, con un contratto in essere e da un osservatorio privilegiato, come può essere quello di caporedattore centrale della testata giornalistica regionale della tv pubblica, dove lavora la metà dei 1.750 giornalisti Rai. I capiredattori centrali della Tgr in Italia sono quattro e hanno sopra di sé solo direttore, Alessandro Casarin, due condirettori (Roberto Pacchetti e Carlo Fontana) e sei vicedirettori. Tarcisio Mazzeo, 64 anni, originario del Beneventano ma ligure di adozione, giornalista professionista dal 1982 e dipendente Rai dal 1990, è capo della redazione di Torino ed è uno di quei quattro capiredattori centrali. A fine agosto, assistito dall'avvocato genovese Maurizio Mascia, ha presentato una denuncia alla Procura del capoluogo piemontese per mobbing e stalking aziendale, documento di cui La Verità è entrata in possesso. Oggi Mazzeo è a casa per malattia. Nella querela ha descritto un'azienda stretta nella morsa sindacato-politica e in cui i giornalisti sono perennemente a caccia di privilegi. La causa scatenante della denuncia è stata la decisione della Rai di sollevarlo senza avviso da un incarico che di solito viene rinnovato automaticamente. Il giornalista, che difenderà le sue ragioni in Tribunale, ritiene che la sua bocciatura sia legata a interessi superiori. Cdr e Usigrai gli avrebbero fatto «una guerra totale per sostenere il proprio candidato» e la direzione li avrebbe lasciati «lavorare nella prospettiva di sostituire» Mazzeo, «con il candidato del loro partito di riferimento», in questo caso la Lega. Mentre il predecessore di Mazzeo sarebbe stato d'area Pd. Dunque il caporedattore sarebbe il vaso di coccio tra direzione e Usigrai, «che esercita con molta energia il proprio contropotere, favorendo gli amici». Con tanto di esempio: «In una sede regionale una bravissima collega destinata a diventare vicecaporedattrice non piaceva al sindacato, che proponeva un altro nome: poiché "non era il caso di fare un braccio di ferro", è passato l'altro. [] La mia direzione ha dimostrato di avere soggezione massima dell'Usigrai». Ma il sindacato avrebbe messo lo zampino anche in altri avvicendamenti. Come si legge sempre nella querela: «Permettendo il mio allontanamento, dopo che lo stesso ha fatto in Toscana e allo stesso rischio è esposta la delicatissima sede di Trieste (fa anche tg e gr in lingua slovena), la direzione sta alimentando, a proprio evidentissimo danno, uno squilibrio pericoloso nel rapporto di forza con l'Usigrai, che tende a imporre la propria volontà» ha raccontato Mazzeo. Il caporedattore in disgrazia fa accuse specifiche e circostanziate e parla anche di «demolizione della sua immagine professionale e personale», essendo stato descritto come «aggressivo, maleducato e indisponibile al dialogo». Al suo arrivo a Torino il giornalista avrebbe trovato una situazione desolante: «Mi colpiscono l'alto numero di servizi che i colleghi si assegnano da soli, annunciando accordi già presi con operatori e persone da intervistare, e la quasi assoluta mancanza di controllo su ciò che va in onda». Nella denuncia sottolinea anche «l'uso incontrollato e non sempre giustificato del taxi»; «l'abitudine di impiegare operatori in appalto facendoli partire da Torino anziché ricorrere a service locali, il cui utilizzo dimezzerebbe le spese, ma costringerebbe i giornalisti a recarsi personalmente sul posto anziché farsi portare»; «la gestione non sempre lineare degli stessi appalti, cui chiunque può chiedere strumenti tecnici aggiuntivi senza nessun controllo sui costi»; «le incongruenze della pratica "acquisto immagini", che prevede incredibili costi di invio (120 euro anziché zero utilizzando Internet) a fronte di un limitatissimo uso dei "girati"». Mazzeo avrebbe provato a porre rimedio a questi sperperi e, a suo giudizio, questo sarebbe stato il casus belli che gli ha messo contro collaboratori e sindacato: «Ciò che ha con tutta evidenza disturbato una parte della redazione, trovando sostegno nella componente sindacale, sono stati i miei interventi sulle modalità di spesa del denaro pubblico» e in particolare la cancellazione della «comodità di partire da Torino per andare ovunque, usando gli operatori in appalto come autisti ovviamente pagati»; l'adozione della «regola aziendale per la quale i giornalisti devono farsi autorizzare il taxi e poi portare la ricevuta»; l'eliminazione della «pratica di accumulare recuperi trasformando i fine settimana di riposo in giorni coperti dalla legge 104»; l'abolizione dell'«uso di andare in un'altra città per partecipare come ospite a convegni utilizzando il regime di trasferta», anziché moderarli o fare da relatori nei giorni liberi dal lavoro. A proposito dell'utilizzo della 104 Mazzeo fa l'esempio della responsabile del Tg Leonardo Silvia Rosa-Brusin e racconta che era solita segnarsi il permesso per assistere la mamma il sabato e la domenica, per poi smaltire d'estate i riposi accumulati durante l'anno: «In pratica non lavorava per tre mesi». Ma il caporedattore segnala altri casi, come quello del caposervizio Daniele Cerrato, dal 2009 al 2021 presidente della Casagit salute, la cassa autonoma di assistenza integrativa dei giornalisti. Cerrato, a dire di Mazzeo, durante la presidenza dell'ente, «viene in redazione per cinque giorni al mese, conduce la trasmissione e poi torna a Roma dove nelle quattro settimane successive fa il presidente di Casagit, poi torna a Torino per un altro turno di conduzione e così via, salvo il periodo estivo, quando Leonardo non va in onda e lui si divide fra Casagit e vacanze». Aggiunge Mazzeo: «L'orario di lavoro del gruppo Leonardo è incontrollabile: un vecchio caporedattore centrale si metteva dall'ascensore per salutare chi usciva con ampio anticipo rispetto agli altri, tutt'altro che gratificati da questa disparità». L'inviato Maurizio Menicucci, invece, è stato al centro di uno strano caso legato al Covid. Nel 2015 mandò in onda un servizio su un esperimento effettuato dalle università della North Carolina e di Wuhan intitolato «Scienziati cinesi creano super virus polmonare da pipistrelli e topi. Serve solo per motivi di studio, ma sono tante le proteste». Nel marzo 2020, a inizio pandemia, il servizio diventa virale e nello stesso periodo uno studio di Nature Medicine smentisce ogni collegamento della pandemia con l'esperimento, sostenendo che l'attuale virus è di origine naturale, non artificiale. Menicucci fa subito un servizio di rettifica sul Tg3. Ma non sarebbe bastato. Mazzeo ricostruisce così quello che accadde: «La direzione dice di aprire tutti i Tg regionali» sul servizio virale, «mettendo nel titolo, nel lancio e in uscita l'avviso che la storia del 2015 era stata più volte smentita. Dieci minuti prima del Tg arriva un contrordine: non si mette niente. Gira voce che il segretario dell'Usigrai Di Trapani (Vittorio, ndr) abbia chiamato il direttore Casarin e gli abbia detto: ma come facciamo a mettere in onda un servizio dicendo prima e dopo che era tutto falso? Insomma Di Trapani si è sostituito al direttore?» domanda il querelante. Successivamente Mazzeo chiede chiarimenti a Menicucci e questo sbotta: «È da ieri che mi state minacciando». Chi ha intimidito Menicucci per un servizio che dava la colpa del Covid a un esperimento cinese? Non è dato sapere. A Torino c'è pure chi, come Paolo Volpato, ha chiesto, innervosendo il capo della redazione, il rimborso di 1 euro per l'utilizzo dei servizi igienici alla stazione di Alessandria durante una trasferta. Ricordiamo, infine, l'episodio che ha esacerbato definitivamente i rapporti tra Mazzeo e il sindacato ed è collegato al lavoro all'alba (il cosiddetto turno A) del giornalista del Tg Leonardo Antonio Sgobba: «Durante l'emergenza Covid prima ottenne un mese di distacco a Milano, dove risiede, con una richiesta difficile da respingere. Poi tentò di autoassegnarsi l'obbligo di fare quotidianamente il pendolare, cosa che lo avrebbe esentato dal lavoro all'alba». La motivazione dell'istanza? Sgobba non aveva un regolare contratto di affitto a Torino e quindi non poteva dimostrare, in caso di controlli, di essere domiciliato nel capoluogo piemontese. Il caporedattore rimase basito di fronte a questa giustificazione e non le mandò a dire al collega: «Non gli consentii di fare il pendolare e allora mi denunciò al sindacato». Praticamente (giura Mazzeo) l'inizio della sua fine. 

Da "iltempo.it" il 23 settembre 2021. Che cosa è successo a Rainews24? I telespettatori sono rimasti sbalorditi per il servizio su Ita, la nuova compagna aerea che prenderà il posto di Alitalia. Dallo studio danno la linea all'inviato, Paolo Mancinelli, ma si capisce subito che c'è qualcosa di strano. Il giornalista riesce a fatica a dire qualcosa, senza alcuna chiarezza nel servizio televisivo. Poi improvvisamente il blocco e la crisi di panico nonostante gli appunti: silenzio totale e scena muta. "Grazie, grazie Paolo" la conduttrice in studio riprende subito la linea e ne esce con grande eleganza conscia del momento di difficoltà del collega.

Rainews 24, il giornalista muto in diretta: crisi di panico, secondi drammatici. Libero Quotidiano il 26 settembre 2021. Il giornalista di Rainews24 si blocca in diretta e fa scena muta. Per questo Paolo Mancinelli, inviato a Roma per fornire dettagli sul caso Ita - Alitalia, è finito nel tritacarne dei social, insultato e deriso per il suo momento di defaillance televisiva. Mancinelli va letteralmente nel panico, balbetta, controlla nervosamente i fogli in mano, farfuglia qualche parola e poi si ferma, senza più pronunciare una parola. Lo sconcerto della collega in studio è evidente, così come il terrore puro negli occhi del povero giornalista. La regia ha tagliato il collegamento dopo pochi ma interminabili secondi. Non è servito a ridimensionare la gaffe, diventata ovviamente virale. E mentre migliaia di telespettatori si sono accaniti scrivendo le peggiori offese, ben oltre l'ironia del caso, si è scatenato anche il "movimento d'opinione" opposto, al grido virtuale dell'hashtag #paolosonoio. A difendere Mancinelli anche Walter Veltroni, con un accorato editoriale sul Corriere della Sera: "Non riusciva a mettere in sequenza concetti e parole. Alla fine ha onestamente opposto un decoroso silenzio all'attesa delle informazioni che doveva fornire. Si è smarrito, ha mostrato una fragilità che non saprei giudicare essere migliore o peggiore di certe cronache meccaniche, di certi dibattiti pieni di ovvietà, urla preparate e luoghi comuni". Impreparazione, sciatteria o, peggio, vera e propria crisi di panico? La situazione è più delicata di quanto questo video "divertente" possa rivelare. E infatti il fondatore del Pd tuona: "Non so e non voglio sapere perché quel giornalista si sia smarrito. Ma so che capita. So che il mondo non è fatto dagli infallibili ma dalla meravigliosa approssimazione con la quale ciascuno cerca di corrispondere alla miriade di attese alle quali si deve inesorabilmente saper ogni giorno tenere testa. Sbagliare è sbagliato. Ma nessuno si può sentire autorizzato, da dietro una tastiera spesso anonima, a distruggere la rispettabilità professionale e personale di un essere umano reo di aver mostrato un istante di fragilità".

Elogio dell’errore umano contro l’odio social. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2021. Il mondo non è degli infallibili. E gli insulti sul web al giornalista che si è bloccato in diretta tv non rappresentano l’Italia reale. Una denuncia e una riflessione a commento della notizia che ha impegnato in questi giorni quel tribunale popolare permanente che è diventato il mondo dei social. Nel corso di un collegamento per la testata Rainews24, un giornalista, Paolo Mancinelli, ha avuto un blackout: improvvisamente non riusciva a mettere in sequenza concetti e parole. Alla fine ha onestamente opposto un decoroso silenzio all’attesa delle informazioni che doveva fornire. Si è smarrito, ha mostrato una fragilità che non saprei giudicare essere migliore o peggiore di certe cronache meccaniche, di certi dibattiti pieni di ovvietà, urla preparate e luoghi comuni. I responsabili della testata immagino abbiano cercato di capire cosa sia successo e perché. È il loro ruolo e, se hanno richiamato il collega al dovere di assolvere pienamente al suo compito professionale, sono stati nel giusto.

Clima da mattatoio. Ma quello che è ingiusto, insopportabile e feroce è il clima da mattatoio che è scattato sui social. Dileggio, accuse personali, insulti. Una vita di lavoro messa in discussione e delegittimata per un momento di inspiegabile buio delle parole. Non so e non voglio sapere perché quel giornalista si sia smarrito. Ma so che capita. So che il mondo non è fatto dagli infallibili ma dalla meravigliosa approssimazione con la quale ciascuno cerca di corrispondere alla miriade di attese alle quali si deve inesorabilmente saper ogni giorno tenere testa. Sbagliare è sbagliato. Ma nessuno si può sentire autorizzato, da dietro una tastiera spesso anonima, a distruggere la rispettabilità professionale e personale di un essere umano reo di aver mostrato un istante di fragilità. C’è da immaginare che gli insulti a quel giornalista vengano da persone che non hanno mai sbagliato nulla nella propria vita.

Il Tribunale supremo. L’errore invece è un elemento costitutivo dell’esperienza umana. Sbagliano calciatori e politici, professori, papi e artigiani. Ma il Tribunale supremo, o una parte di esso, si diverte, gode nello sbranare la vita di chi soffre, di chi è scivolato, di chi è caduto. La solidarietà verso quel giornalista, verso quell’essere umano, è dunque un piccolo dovere civile. E infatti la reazione delle persone per bene non si è fatta attendere. Qui si apre la riflessione. È un discorso difficile, ma ora forse necessario. Quando parliamo di questi fenomeni di odio ci stiamo davvero occupando di qualcosa che meriti la nostra attenzione? Un singolo tifoso urla contro il portiere del Milan, una donna interrompe un comizio di Letta, Conte o Salvini, uno squinternato manda proiettili a qualcuno di cui non condivide idee, posizioni, decisioni o tifo sportivo. È giusto denunciarlo, lo stiamo facendo. Ma sono minoranze. Sono unità di odio la cui amplificazione mediatica finisce col cambiare dimensione e volto al fenomeno. Sono singoli, spesso. Non movimenti, non migliaia di persone. Però il rilievo mediatico del gesto o dell’insulto di un singolo o di un gruppo ristretto lo fa diventare indizio presumibile di un pensiero diffuso. Una ristretta minoranza, fatta di uno o cento persone, diventa così la maggioranza della “rete” o dei “social”.

Ragioni politiche. Spesso, ormai lo sappiamo, all’odio dei singoli si uniscono gli “shitstorm” organizzati per imbarazzanti ragioni politiche. Ma il quadro non cambia. Sono i media a trasformare gesti e parole dei singoli nell’immagine di una dilagante corrente di pensiero che merita il nostro allarme o la nostra riprovazione. Il rischio così è che la profezia si autoavveri. I fanatici e gli odiatori non sono solo inebriati dalla rilevanza che il loro gesto assume, ma scoprono e si illudono di non essere soli, anche se lo sono. La maggioranza nei social e nel paese, le due dimensioni non si identificano, è certamente estranea alla violenza verbale che può trasformare quotidianamente persone dabbene in anonimi e ringhiosi seminatori di veleno. Bisogna sempre ricordarlo, per non sbagliare analisi e fotografia del paese reale. E per non pensare che la cosa migliore da fare sia mutuare, da quei comportamenti, contenuti e linguaggi E per evitare che lo “spirito del tempo” sia definito da minoranze rissose e capaci di provocare frastuono. Esiste nel nostro paese una consistente maggioranza di persone responsabili, capaci di misurare parole e reazioni, di ascoltare e apprezzare pensieri altri dai propri. Se arrivano uno o cento messaggi di odio, bisogna sempre rammentare che siamo sessanta milioni di cittadini. È proprio quella maggioranza assoluta di italiani a costituire la base su cui edificare un tempo nuovo. Non è una maggioranza silenziosa. È una maggioranza consapevole e responsabile. Che non discrimina gli altri e cerca ogni giorno di costruire una comunità di persone diverse tra loro e capaci, perciò, di convivere. Che distingue il conflitto, necessario in democrazia, dall’odio. È l’Italia reale.

La TV è morta, viva la TV! Marco Lenoci su Money.it l'1 settembre 2021. Il vero problema dei broadcaster nazionali non è tecnologico ma di creazione e distribuzione di contenuti nell’era digitale. Sotto mentite spoglie di tech companies, Disney, Netflix, YouTube, Apple, Amazon, Twitch, sono a tutti gli effetti aziende televisive che utilizzano la tecnologia come grimaldello per scardinare il caveau della TV tradizionale. Il vero problema dei broadcaster nazionali non è tecnologico ma di creazione e distribuzione di contenuti nell’era digitale. Nei primi anni ‘90, Sky entrò nel Regno Unito proponendo un nuovo modello di gestione e commercializzazione dei diritti televisivi della premier league di calcio. Sky aveva intuito, prima e meglio degli altri, che il modello basato sugli abbonamenti sarebbe stato più remunerativo rispetto al sistema della pay-per-view e ha utilizzato la tecnologia come grimaldello per scardinare il caveau della TV tradizionale. È ovvio che un’operazione di questo calibro richiedesse una tecnologia all’avanguardia ed infatti il decoder funzionava bene, l’interfaccia grafica costituiva un miglioramento sostanziale rispetto agli operatori esistenti e persino l’assistenza al cliente era efficace. Tuttavia, la tecnologia non fu la causa del successo di Sky ma solo uno strumento a supporto di un nuovo modo di concepire la commercializzazione, distribuzione e fruizione di contenuti di qualità. La storia si ripete, errare è umano, perseverare è diabolico ma per qualche assurdo motivo nel mondo della TV ci si ricasca spesso. Ho trascorso quasi dieci anni come manager in Google, di cui quattro nella Silicon Valley, troppi per non rendersi conto che Disney, Netflix, YouTube, Apple, Amazon, Twitch non sono tech companies ma semplicemente aziende televisive che usano la tecnologia per smontare e ricostruire la nuova TV. Prendiamo il caso Netflix, non vi è dubbio che la tecnologia abbia contribuito in maniera sostanziale al successo della piattaforma, la app funziona come nessun competitor, il motore di ricerca è efficace, i film suggeriti sono più o meno calzanti, gli utenti sono in media soddisfatti. Tuttavia, è evidente che Netflix non avrebbe il successo che ha se non offrisse contenuti appetibili agli utenti e non è un caso che proprio sui contenuti (non sulla tecnologia) si stia giocando la battaglia per il dominio della nuova TV. Nel 2021, Netflix spenderà quasi $17 miliardi in contenuti originali, in una competizione che vede Disney al comando con investimenti di oltre $25 miliardi sulle proprie piattaforme proprietarie Hulu, Disney+ e ESPN+. Di contrasto, nell’esercizio 2020 i nostri broadcaster nazionali, Mediaset e RAI hanno registrato investimenti di appena €430M ed i €180M rispettivamente, davvero troppo pochi per rappresentare un’alternativa credibile nell’era della TV digitale. La portata degli investimenti dei colossi americani non è altro che una conferma di come Disney, Netflix, YouTube, Apple, Amazon, Twitch, non operino come tech companies usando la TV per entrare in altri business. La TV è il loro business anzi, la vera TV sono loro. Per dare un’idea della portata del fenomeno delle OTT, mi allontano per un momento dalla TV per parlare di un settore da 1 trilione di dollari, la logistica. Nel 2013 a San Francisco nasce Flexport, con l’obiettivo di digitalizzare il settore dei trasporti transoceanici, rendendolo tracciabile, trasparente e comprensibile a tutti. L’idea di partenza parte dagli stessi presupposti di quella di Netflix, ovvero utilizzare la tecnologia come grimaldello per sovvertire l’ordine di un settore elefantiaco, in cui nessuna delle aziende leader era nata dopo il 1994. Fino all’arrivo di Flexport, i giganti del settore della logistica non avevano né le competenze né la volontà di tracciare e condividere in tempo reale gli spostamenti delle merci attraverso i vari stadi della filiera, perchè l’accesso a questo tipo di informazioni avrebbe portato a galla tutte le opacità e le inefficienze (sempre a carico del cliente) di un intero settore. Il ritornello è sempre lo stesso, la tecnologia esisteva già, gli incentivi e la volontà di migliorare no. Flexport di suo ha messo l’idea ed il coraggio, il magico mondo della Silicon Valley ha fatto il resto. In meno di 8 anni, Flexport ha raccolto $1,4 miliardi di dollari (con un round D da $1 miliardo nel 2019 guidato dal solito SoftBank Vision Fund) per costruire il nuovo gigante della logistica, che ha già raccolto quasi 2.000 clienti e che senza dubbio diventerà il primo freight forwarder al mondo nei prossimi dieci anni, Amazon permettendo. Sfatato quindi il mito delle OTT come tech companies, cosa rimane dell’industria dei media tradizionali in generale e nello specifico, in Italia? Nella migliore delle ipotesi poco, nella peggiore quasi nulla. Se è lecito chiedersi come possano i broadcaster tradizionali, piuttosto che i freight forwarder o i produttori di automobili al tempo di Tesla e NIO, competere in questo nuovo mercato con una frazione delle risorse (Amazon dispone di $73 miliardi in riserve di cassa) e delle competenze tecnologiche che le OTT hanno accumulato in questi anni, è altrettanto lecito aspettarsi che la risposta a queste domande afferisca ancora una volta al campo televisivo piuttosto che a quello tecnologico. La tecnologia è ormai una commodity e nel caso della TV, la creazione e la distribuzione di contenuti originali saranno fattori determinanti per assicurarsi quote di mercato rilevanti. In questo senso, negli ultimi due anni il lockdown ha messo a nudo la carenza di contenuti dei broadcaster tradizionali, spingendo gli utenti ad affidarsi a servizi a pagamento per soddisfare il fabbisogno crescente di contenuti originali. Il risultato è stato un aumento sostanziale del tempo di permanenza sulle piattaforme OTT a scapito della vecchia TV. Negli Stati Uniti, il tempo trascorso sulle OTT ha già raggiunto il 30% di quello televisivo e nella più conservativa delle ipotesi, nei prossimi due anni si raggiungerà il 50%. In Italia, secondo l’ Osservatorio Internet Media della School of Management del Politecnico di Milano, nei primi mesi del 2020, anche a causa del lockdown, il 59% degli italiani ha usufruito di almeno un servizio video on demand a pagamento (SVOD) in streaming e il 20% ha utilizzato contemporaneamente tre o più abbonamenti. Alla luce degli ingenti investimenti in contenuti originali da parte delle OTT, è evidente che questo trend sia destinato ad aumentare. Le grandi piattaforme globali continueranno nel processo di crescita e consolidamento dell’audience nei prossimi anni, andando ad intercettare budget televisivi che fino ad oggi sono stati una fortezza inespugnabile appannaggio esclusivo dei broadcaster tradizionali. Le implicazioni per la TV tradizionale sono facilmente prevedibili. Prepariamoci ad un’accelerazione drammatica di un circolo vizioso al quale assistiamo ormai da più di dieci anni. Meno spettatori porteranno ad una riduzione degli introiti pubblicitari, ovvero minori risorse da investire in contenuti originali ed una conseguente, progressiva estinzione della TV per come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Una spinta decisiva in questo senso è rappresentato dalla delibera dell’Agcom del 10 Giugno 2021. La delibera si concentra sulla necessità di una misurazione unificata dell’audience di tutti i soggetti operanti con l’obiettivo di fornire agli inserzionisti una visione trasparente sulla distribuzione dell’audience televisiva in Italia attraverso tutti i device e le piattaforme esistenti. Questo significa che l’audience televisiva sulle piattaforme OTT come Amazon Prime Video, Netflix, YouTube, Apple, Twitch, TikTok, Disney+, così come l’audience che transita sui contenuti video integrati all’interno dei siti editoriali, sarà equiparata a quella dei broadcaster nazionali. A partire da settembre come riporta primaonline, DAZN farà un primo passo verso la nuova direttiva, adottando un sistema misto che prevede la misurazione Auditel dell’audience sul digitale terrestre e su TIM Vision e ad elaborazioni di Nielsen per le performance dello streaming su web e app. L’unificazione dell’audience è una svolta epocale che porterà ad un confronto diretto tra la capacità di attrarre l’attenzione degli spettatori sia sugli schermi domestici che su computer e smartphone. In questo contesto, la sopravvivenza dei broadcaster nazionali dipenderà dalla capacità di fare sistema, di aggiornarsi, di intercettare il fabbisogno di contenuti domestici ma anche dalla lungimiranza nell’identificare canali di distribuzione aggiuntivi per i propri contenuti. Sotto questo aspetto, il web è un’area enorme di opportunità che intercetta, secondo una rilevazione Audiweb effettuata ad Aprile 2021, il 74,4% della popolazione dai due anni in su. Se da un lato l’unificazione del dato televisivo auspicata dall’Agcom spalancherà inevitabilmente le porte dei budget televisivi alle OTT, dall’altro offrirà un’opportunità unica per collaborazioni tra i grandi broadcaster nazionali e realtà editoriali di spicco. Gli editori web godono di un audience video ampia e stabile che si presterebbe benissimo all’integrazione e distribuzione di contenuti televisivi e che sarebbe in grado di contrastare la potenza di fuoco delle grandi OTT all’interno dei confini nazionali. Non tutto è (ancora) perduto, Per uno strano gioco del destino, il pallino è ancora una volta nelle mani dei broadcaster tradizionali, nella speranza che sappiano trovare il coraggio e le competenze per affrontare la più grande sfida della loro storia. La TV è morta ma la nuova TV è già arrivata.

·        La Pubblicità.

Striscia la Notizia, "i vostri telefonini vi ascoltano". La sconvolgente verità sulle pubblicità che vi bombardano. Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. A volte capita che poco dopo aver parlato di un determinato argomento ci ritroviamo le relative pubblicità sui social o su altri siti. Come se qualcuno ci avesse ascoltato. Com'è possibile? Ce lo spiega Marco Camisani Calzolari, l'esperto di Striscia la Notizia sui segreti del web. "Quante volte vi è capitato di parlare di qualcosa al telefono e poco dopo vi appare sui profili social vi appaiono pubblicità di quello di cui avete parlato pochi prima. Per esempio Facebook lo usa grazie alle piccole microapp che abbiamo installato. Registrano sui loro server quello che diciamo poi un sistema traduce la voce in testo scritto e questo poi viene venduto in veri e propri mercati in cui c'è qualcuno che vuole fare pubblicità ai proprio prodotti", spiega Marco Camisani Calzolari. Camisani Calzolari spiega però che adesso con questi metodi sanno anche quello che pensiamo le aziende pubblicitarie: "Un mercato complesso nato all'uso di machine learning che prevedono quello che vorremmo. Ma come possiamo difenderci?". Camisani Calzolari racconta come modificare il proprio cellulare entrando nelle impostazioni della privacy per bloccare il microfono delle App che abbiamo scaricato sul nostro cellulare, cosicché le suddette applicazioni non possano ascoltare e recepire i nostri interessi e addirittura prevedere quello che noi pensiamo per poi proporcelo sotto forma di pubblicità.

Luca Doninelli per “Il Giornale” l'8 agosto 2021. Un certo vezzo intellettuale, eredità del passato, guarda alla pubblicità, soprattutto a quella televisiva, come a qualcosa di negativo. L'espressione «interruzione pubblicitaria» (deprecata, specie se inserita durante la programmazione di un bel film) trattiene un filo di ideologia che mi ricorda i vecchi tg in b/n, quando il Ventennio di Mussolini veniva chiamato «parentesi fascista». Ma la realtà, il tempo, la storia sono un'altra cosa, e ben di rado, per non dire mai, si danno parentesi o interruzioni. Le pubblicità tv, viste nel loro insieme, ci offrono una narrazione abbastanza onesta del nostro mondo così com' è: meglio, spesso, dei telegiornali e degli innumerevoli talk show e tribune politiche che ci opprimono sempre con le stesse facce. C'è insomma meno circo mediatico, meno finzione nelle pubblicità che nelle trasmissioni impegnate. E il tempo, con il suo scorrere e con i cambiamenti che opera in noi tutti, vi lascia la sua traccia meglio che altrove. I soliti noti in tv devono sempre passare in sala trucco, la pubblicità no. La realtà è complicata e la pubblicità non lo nasconde mai. Negli ultimissimi anni l'ideologia (che è un fattore della realtà e non lo si può eliminare) si è fatta sentire ad esempio sul tema del gender. C'è chi non fa mistero di presentare i propri prodotti a un pubblico sessualmente più ampio di quello tradizionale, con maschietti dello stesso sesso che si baciano, coppie lesbiche, oltre a molti single. Il catalogo delle differenze di gender è molto più lungo, si sa, ma qui si tratta di vendere qualcosa, e si vende qualcosa a chi è presente nella società in numero considerevole. Si vende ai corpi, non alle anime. Nulla da dire sul movimento Lgbtq, però chi vende si deve chiedere: quante sono le «elle»? Quanti i «gi»? Eccetera. Un po' cinico, se vogliamo, ma la realtà è cinica. Il proliferare di supermercatini urbani (Carrefour, Sma ecc.) e di lavanderie a gettoni 2.0 - realtà non destinate, almeno all'origine, alle famiglie tradizionali - ci dice che non è solo ideologia. Naturalmente c'è chi resiste fieramente e vuole imporre ancora la famiglia classica riunita intorno a una merendina, i suoi baci avidi sotto l'acquazzone, le sue nonne amorevoli e il suo esercito di strafighe: funziona ancora per le auto di lusso, i profumi, gli aperitivi, gli snack, ma non sembra destinato a durare a lungo. Il corpo umano «reale» sembra volersi imporre sempre (soprattutto dopo la dieta ingrassante del Covid-19) sul fascismo delle linee perfette e sul fascino anoressico delle grandi firme. Tutti i corpi sono belli, tutti siamo belli, anche se è meglio perdere qualche chilo. Deliziose pubblicità (amo fra tutte quella di Vinted) ci presentano ragazze bruttine o finto-bruttine ma simpaticissime, con voci vere, anti-strafiga (la strafiga è pagata per sussurrare) che fanno cose vietate alla mia generazione, come vendere i vestiti usati sul web (mi raccomando la disinfezione!) o farsi belle con una crema o un balsamo, senza bisogno di ritocchi. L'ideologia del momento è: ciascuno è bello così com' è, e comunque meglio simpatici che belli (difficile riciclare i bellissimi in chiave di simpatia). Il cinismo obbligatorio - non morale ma professionale - si palesa talvolta allo stato puro: per esempio in diverse pubblicità di disinfettanti per la casa, aspirapolvere e prodotti igienizzanti che promettono l'eliminazione di batteri e virus (virus: si badi) ossia la disinfestazione da ogni genere di fantasmi, il principale dei quali è il Covid. Ed ecco, immancabile, la raffigurazione di questi agenti patogeni in forma di Coronavirus. Più interessante è l'evidente, enorme quantità di lavoro e di ricerca (inclusi test, focus group ecc.) che i pubblicitari devono svolgere sul nostro linguaggio quotidiano per individuare le parole e le immagini che possano meglio agire sui nostri neuroni. Volti che compaiono per un nanosecondo in modo che quell'unica espressione istantanea (perlopiù allusiva) rimanga impressa in noi, e che presuppongono la cestinazione di miliardi di altre immagini. Una ragazza ultramoderna che fa il brodo, una mamma sexy che, allusivamente, indica uno sgrassatore come segreto della propria pace domestica. Poi ci sono le parole-chiave, talvolta dette, talvolta visualizzate. Quella del momento mi sembra «croccante». Verdure croccanti, pollo croccante, biscotti croccanti, gelati che fanno «croc» sotto i denti di una maggiorata - qui la strafiga è ancora d'obbligo. «Croccante» suggerisce l'idea di una resistenza tenue, di qualcosa che si oppone solo per rendere più lussurioso il momento della tua vittoria, e al tempo stesso di una quantità moderata di grassi. E ci rivela il bisogno che abbiamo di uscire senza ulteriori dolori, senza troppi sacrifici aggiunti, da questo periodo così duro e incomprensibile. Sappiamo che non sarà così, che nuovi sacrifici e nuovi pezzi d'ignoto ci attendono. Ma proprio per questo è bene non dimenticare che nella vita di un essere umano non tutto può andar male allo stesso tempo, e che qualche vittoria facile, facile e simbolica, ci è necessaria. Proprio come è avvenuto nei recenti Europei di calcio. La pubblicità è destinata a tutti, non agli intellettuali e ai garantiti in genere, perciò sa queste cose meglio di loro.

·        La Corruzione dell’Informazione.

La guerra dei media e il futuro dell'informazione. Federico Giuliani l'1 Dicembre 2021 su Il Giornale. Negli ultimi 20 anni una rivoluzione silenziosa ha trasformato il mondo dell'informazione. Ne parla Jill Abramson nel suo ultimo libro uscito in Italia: "Mercanti di verità. La grande guerra dell'informazione". Nell'ultimo ventennio una rivoluzione silenziosa ha trasformato radicalmente il mondo dell'informazione. La rivoluzione di cui stiamo parlando, la stessa che pochi hanno studiato e compreso a fondo, è figlia di più concause tra loro collegate. L'avvento di tecnologie innovative, la comparsa dei social network, l'importanza dei big data. E ancora: la crisi della raccolta pubblicitaria e, più in generale, l'insorgere di molteplici crisi economiche. Ebbene, tutto questo ha dato vita a nuovi modi di informare i cittadini.

La trasformazione del mondo dell'informazione

I quotidiani tradizionali, le riviste e le testate televisive e radiofoniche, hanno visto evaporare il proprio pubblico di riferimento come neve al sole. Stanno anche gradualmente perdendo autorevolezza, prestigio e potere di influenzare i lettori, in un processo che, in certi casi, appare ormai irreversibile. Allo stesso tempo sono sorte, sul web e in digitale, realtà che hanno cambiato la cronaca dei fatti, delle notizie e perfino il concetto di verità giornalistica. La rivoluzione dei media ha generato due eserciti contrapposti: quello dei vecchi media contro le truppe dei nuovi mezzi di informazione. La guerra dei media è ancora in corso, non sappiamo come si evolverà né chi sarà il vincitore, anche se tutti gli indizi lasciano presagire che il futuro del giornalismo sarà appannaggio dei new media.

Questa guerra è proprio il tema centrale dell'ultimo libro di Jill Abramson, pubblicato in Italia da Sellerio con il titolo di Mercanti di verità. La grande guerra dell'informazione. Abramson, storica prima direttrice donna del New York Times tra il 2011 e il 2014 (oggi editorialista politica al Guardian e docente alla Harvard University), ha ricostruito passo dopo passo che cosa è accaduto al mondo dell'informazione. E lo ha fatto fondendo in un imprescindibile volume il linguaggio tipico di un reportage ad un'esperienza narrativa ricca di testimonianze, cronaca nuda e pura e descrizione degli eventi. In circa 800 pagine – non spaventatevi, perché il racconto scorre in maniera agile dall'inizio alla fine – Abramson ha preso in esame quattro realtà editoriali americane: il New York Times e il Washington Post, ovvero due quotidiani appartenenti all'esercito degli old media, e BuzzFeed e Vice, due campioni della new school.

Old media vs new media

Il confronto tra i due mondi è emblematico. Da una parte troviamo Times e Post, leggendari quotidiani statunitensi roccaforti dell'etica giornalistica, forti di un pubblico di riferimento consolidato ma sempre più anziano. Due quotidiani - uno controllato dalla famiglia Sulzberger, l'altro appena acquistato dal "papà" di Amazon, Jeff Bezos - che hanno dovuto reinventarsi per continuare a incidere sul grande pubblico. Due aziende costrette a rilanciare i loro siti online fino a farli diventare siti di enorme successo, tra tagli di centinaia e centinaia di posti di lavoro a causa della crisi e di scelte non sempre azzeccate, e la possibilità di utilizzare l'arma dei social network per imporsi nel mondo virtuale.

Dall'altro lato, Abramson racconta la storia di due nuovi media riusciti a stravolgere ogni regola del giornalismo rivolgendosi a un pubblico giovane e trasversale: Vice, la creatura di Shane Smith, e BuzzFeed, l'invenzione di Johan Peretti. Il loro marchio di fabbrica è rappresentato da articoli e video a metà strada tra l'informazione e l'intrattenimento. Le "10 bevande per tenervi idratati", le "21 foto che ti ridaranno fiducia nell'umanità" nel caso di BuzzFeed, oppure documentari girati in Pakistan o in Corea del Nord per quanto riguarda Vice. Se in un primo momento realtà del genere erano più affini all'infotainment che non al giornalismo con la g maiuscola, da qualche anno entrambe le testate hanno allestito potenti redazioni per coprire notizie politiche e tematiche ben più serie, con risultati più che ottimi.

È altamente probabile che i giornali di carta continueranno a esistere solo come contenitori di approfondimenti ed editoriali, e che il grosso dell'informazione si trasferirà sul web. È probabile anche che soltanto le testate che riusciranno a investire in maniera corretta "sull'online" potranno sopravvivere e competere con Vice, BuzzFeed e i loro fratelli. Comunque vada a finire la sfida tra vecchi e nuovi media, abbiamo una certezza: il giornalismo non morirà mai.

Federico Giuliani è nato a Pescia (Pistoia) nel 1992. Si è laureato in Comunicazione, Media e Giornalismo presso la Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" di Firenze. Si è poi specializzato in Strategie della Comunicazione Pubblica e Politica con una tesi sul sistema politico della Corea del Nord, Paese che ha visitato nel 2017. È iscritto all'Albo dei Giornalisti Pubblicisti dal 2015. L'Asia è il suo campo di ricerca. Dall'agosto 2018 si occupa regolarmente di vicende asiatiche per ilGiornale.it e InsideOver. Ha scritto due libri: Corea del Nord. Viaggio nel paese-bunker (Polistampa, 2018) e La Rivoluzione Ignota. Dentro la Corea del Nord. Socialismo, progresso e modernità (2019, La Vela).

Fini fa a pezzi il giornalismo. Ed è una buona notizia. Matteo Carnieletto il 20 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel suo ultimo libro Il giornalismo fatto in pezzi (Marsilio), Massimo Fini ripercorre la storia d'Italia. E offre al lettore un modo diverso di fare (e raccontare) questo mestiere. Milano, aprile 2021. "Massimo, ci possiamo vedere? Ho bisogno di uno psicologo". "Vediamoci da me domani sera", risponde Fini. Passano 24 ore e mi presento da lui con un muso lungo così. Gli racconto cosa vorrei fare, gli parlo della delusione per il giornalismo di oggi, spesso approssimativo e quasi sempre troppo veloce. Mi guardo attorno - gli dico - e mi sento un marziano. Non perché io mi senta migliore, sia chiaro. Ma perché ho nostalgia del giornalismo di una volta, quello fatto consumando la suola delle scarpe. Perché mi mancano le inchieste fatte come si deve. Forse tutte cose che non sono in grado di fare ma di cui sento il bisogno che almeno le facciano gli altri. Per oltre due ore tormento il povero Massimo, il quale, alla fine di questo strazio, socchiude gli occhi e, all'improvviso, dice: "Alexa, metti Don Chisciotte di Guccini". Mi chiede se conosco questa canzone e dico di sì, anche se preferisco il Cyrano (probabilmente perché con il personaggio di Edmond Rostand condivido un naso non propriamente greco). "Ho letto millanta storie di cavalieri erranti, di imprese e di vittorie dei giusti sui prepotenti...", inizia la canzone. Massimo chiude gli occhi. Si immerge nella canzone mentre tormenta tra le labbra una sigaretta alla quale ha tolto il filtro. "Colpirò con la mia lancia l'ingiustizia giorno e notte, com'è vero nella Mancha che mi chiamo Don Chisciotte...", prosegue Guccini. Silenzio. Le note corrono veloci, mentre sale l'urlo di don Chisciotte e del suo fedele scudiero: "Sancho ascoltami, ti prego, sono stato anch'io un realista, ma ormai oggi me ne frego e, se anche ho una buona vista, l'apparenza delle cose come vedi non m'inganna, preferisco le sorprese di quest'anima tiranna che trasforma coi suoi trucchi la realtà che hai lì davanti, ma ti apre nuovi occhi e ti accende i sentimenti". Sancho, come suo solito, non capisce nulla ma vuole dare scacco al mondo intero e canta, ma questa volta insieme al cavaliere errante: "Il potere è l'immondizia della storia degli umani e, anche se siamo soltanto due romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte: siamo i grandi della Mancha, Sancho Panza... e don Chisciotte". Così, in un crescendo, termina la canzone. Fini apre gli occhi e dice: "E quindi è così". "È così", rispondo io, anche se non capisco bene perché ma so che, appunto, è così. "Tra qualche mese uscirà un mio libro, si chiamerà Il giornalismo fatto in pezzi, credo di piacerà", mi dice. Milano, novembre 2021. Dopo alcune peripezie, ho finalmente in mano il libro. Scorro l'indice e mi fermo sui temi che mi incuriosiscono di più, o che sento più miei, e mi accorgo che non parlano solo di ieri, ma anche di oggi. "Milano che muore" racconta di una città che non c'è più. Una Milano che ha ancora "il cielo con la rete", ma che forse ha perso la sua anima. Una Milano che dopo essersi conquistata una vita notturna mirabolante l'ha persa negli ultimi due anni: "Milano è buia. Dopo le dieci di sera cala sulla metropoli lombarda una sensazione di angoscia, di solitudine e di desolazione, un silenzio strano e anormale per una città abituata da anni a trar dalla notte, nel suo centro ma anche nei suoi bassifondi, l'alimento e gli spunti per il suo famoso dinamismo notturno". Vado avanti e l'indice si ferma a pagina 384: "Un'altra idea di giornalismo". Un pezzo del 1987 su Tommaso Giglio, direttore dell'Europeo, e una lunga intervista a Giorgio Bocca che, comunque la si pensi politicamente, resta un mostro sacro del giornalismo italiano. Sul primo sento un'eco di don Chisciotte: "I giornalisti dell'Europeo si sentivano, con lui, un po' degli astati, dei cavalieri templari la cui unica religione era il mestiere del quale, soprattutto i giovani, sotto la sua sferza (perché Giglio era un uomo autocratico, dispotico, un vero 'padre-padrone'), imparavano la dura etica. Riusciva a dare al nostro lavoro - che può anche essere molto misero e immiserente se non è preso dal giusto verso - il senso di una missione". Del secondo, invece, condivido la denuncia non tanto (anzi, non solo) riguardante i quattrini e contro il "sindacalismo idiota e suicida" della nostra corporazione, ma anche quella riguardante la mancanza "di soddisfazioni intellettuali, di opinione, di coscienza". Vado avanti. Mi immergo nella storia del Jean Valjean italiano (non un articolo ma un vero e proprio racconto) e accompagno un morto che ritorna al suo Paese. Salto poi dritto alla fine, alla parte che mi è più affine: quella riguardante i reportage all'estero: nella fredda Unione sovietica che si avvia verso il suo declino e poi nell'immaginifico Iran, passando per New York e Il Cairo. Le immagini e le interviste corrono come se fossero su una pellicola in bianco e nero. Lontana. Di un giornalismo che non c'è più. Fatto all'epoca in pezzi e oggi a pezzi. Ma non c'è solo la nostalgia o, peggio ancora, lo sconforto in questo libro ("l'ultimo", dice, anche se spero non sia così). C'è pure la voglia di dire che si può fare questo mestiere diversamente. Arrivati alla fine, sembra di sentirlo Fini: "E quindi è così". "È così'". E oggi ho capito il perché.

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue occidentale e Cristiani nel mirino. Con Fausto Biloslavo ho invece scritto Verità infoibate. Nel dicembre del 2016, subito dopo la liberazione di Aleppo, ho intervistato il presidente siriano Bashar al Assad. Nel 2019 ho vinto il premio Prokhorenko-Paolicchi per i miei scritti sulla Siria

NEL SILENZIO SINDACALE MEDIASET CHIUDONO TG4,STUDIO APERTO E SPORTMEDIASET. Consumatori, Imprese, Media, Sindacato Il Corriere del Giorno il 15 Novembre 2021. Alla base della decisione ascolti sempre più in calo e l’esigenza di dover tagliare dei costi. L’informazione passa a TGCom24. Ridimensionate anche le news sportive. Una decisione storica quella del network televisivo Mediaset, che sembrerebbe aver deciso di dare un taglio netto alla produzione giornalistica a causa anche di ascolti sempre più bassi. A partire da fine novembre verranno chiuse le redazioni storiche gli studi dei telegiornali di StudioAperto (Italia Uno), Tg4 e SportMediaset con un ridimensionamento importante che porterà ad un addio sostanziale allo sport. Continueranno ad andare in onda le news del Tg5 e di TgCom24, con quest’ultima che si occuperà di tutte le notizie dell’azienda ad esclusione del telegiornale della rete ammiraglia. La crisi sta colpendo tutti e la decisione dell’azienda è conseguenziale dopo aver chiuso Mediaset Premium, al crollo degli ascolti, come per Tg4 e StudioAperto, che sono sono vertiginosamente calati. Lo “share” dei vari telegiornali per i quali è prevista la chiusura è notoriamente calato ed i mancati introiti pubblicitari hanno indotto il vertice a ragionare su come impiegare al meglio le proprie risorse legate all’azienda da un contratto a tempo indeterminato. Le voci che circolano nei corridoi dell’azienda parlano di circa 45 uscite previste in tre anni, di prepensionamenti su base volontaria, della chiusura di uno studio a Cologno Monzese e di una compressione generale dei costi di produzione.  I collaboratori de i giornalisti con contratto a tempo determinato, hanno lasciato trapelare che non dovrebbero essere. confermati. Invece di inviare ad una conferenza stampa, ad un evento, quattro giornalisti per quattro telegiornali diversi , dopo la ristrutturazione organizzativa giornalistica ne saranno inviati solo due (o addirittura uno) sia per il Tg5 che per il TGcom24 redazione in cui dovrebbero confluire la maggior parte dei giornalisti con contratto a tempo indeterminato attualmente in servizio nelle redazioni di SportMediaset, StudioAperto e Tg4. Buona parte degli altri verrebbero distaccati nelle redazioni di Videonews e dei programmi del mattino come Mattino Cinque. Gli attuali direttori delle testate giornalistiche, cioè Alberto Brandi della redazione SportMediaset , Anna Broggiato di StudioAperto telegiornale di Italia 1 e Rosanna Ragusa del TG4 telegiornale di Rete 4, dovrebbero diventare condirettori, mantenendo le attuali linee editoriali e gli stessi conduttori. Paolo Liguori, nelle vesti di consulente, manterrà la direzione del Canale 51 e la direzione editoriale del sistema multimediale TGCom24.

I no vax hanno vinto la loro battaglia più pericolosa: quella televisiva e sui social dove si sono conquistati all’arma bianca il permesso accordato vigliaccamente di diffondere notizie false. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 13 novembre 2021. I no vax hanno vinto la loro battaglia più pericolosa: quella televisiva e sui social dove si sono conquistati all’arma bianca la visibilità che non meritavano, la dignità di cui non disponevano, il permesso accordato tacitamente e molto vigliaccamente di diffondere notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico ma anche ad arrecare danno ai corpi, alle coscienze, alle menti, a bimbi, grandi e anziani.

IL RIFIUTO DEL DIALOGO

L’Italia è stata devastata dal panico determinato dal loro panico. La maggior parte dei nemici del vaccino e poi quelli contrari al Green pass sono per lo più persone impaurite che non hanno coraggio di farsi iniettare un liquido nella spalla. L’incredibile crescendo della loro propaganda ha devastato i palinsesti delle reti televisive. Improvvisamente quella che è l’evidente verità coincidente con il bene pubblico è diventata un’opzione fra le tante. Non è più dato sapere che cosa sia un virus e se il vaccino sia o non sia un farmaco. Il vaccino non è un farmaco, ma è un vaccino. La differenza sta nel fatto che un vaccino non consiste in un aggeggio chimico che interviene nel corpo per modificarne il funzionamento. Un vaccino, specialmente quelli americani basati sul RNA, è semplicemente una password. Una password che fornisce un’informazione volutamente sbagliata al tuo sistema immunitario, il quale vede un nemico che ancora non c’è e si attrezza per combatterlo. Il nemico è la famosa proteina spike che vediamo sempre nelle grandi illustrazioni che sembrano delle fragole su una torta con panna. I no vax hanno un’organizzazione comunicativa ferrea. Non discutono, non dibattono, non sono disposti ad accogliere come una possibile informazione le cose che dice loro un opponente. Un no vax e un no Green pass insultano in una maniera blindata da cui è esclusa la logica, ma in cui è incluso il forsennato desiderio di uccidere. Tutti noi giornalisti che in un modo o nell’altro ci esponiamo davanti al pubblico esponendo i buoni motivi per cui è meglio che le persone si vaccinino se vogliono salvare la loro e l’altrui vita, siamo bombardati da messaggi ai quali è impossibile rispondere, in cui compare in un modo ossessivo la parola merda, seguita dalla parola culo, seguita poi dagli insulti, dalle condanne a morte espresse sotto forma di auspicio. Possa tu morire questa notte di ictus, speriamo che tu crepi insieme a tutti quelli come te, ed è perfettamente inutile tentare di risponder loro dicendo: guarda caro che io, diversamente da te, desidero che tu viva, desidero che tu stia bene e faccia star bene gli altri, io desidero il tuo bene e non il tuo male. È incredibile come anche di fronte a una tale dichiarazione i no vax e i no Green pass rispondano sempre invariabilmente con una chiusura paraocchi citando fumosamente notizie che solo loro conoscono, da cui si dovrebbe apprendere che i vaccini anti Covid contengono dei microchip diabolici che saranno usati per porre fine alla vita dei vaccinati e altre immani sciocchezze del genere.

TALK SHOW E SOCIAL

Ma l’argomento che più ci interessa è l’accoglienza di questa gente o dei loro sostenitori nei talk show e sui social. Vengono cioè esposti alla pari. Uno a uno. Un intelligente contro un maniaco depressivo. Poi ci sono i filosofi, i quali si proclamano difensori della libertà ma a cui non importa un fico secco della verità. Il filosofo Massimo Cacciari si è distinto più di ogni altro per aver allestito un suo banchetto di idee contorte da cui uscirebbe fuori la straordinaria conclusione secondo cui nessuno ha il diritto di costringerti a fare qualcosa neanche se c’è il sospetto, o forse la certezza, che le tue azioni possano essere dannose per gli altri. Il complottismo e persino la paranoia sono strumenti che la natura ci ha dato per incoraggiarci a diffidare quanto basta e a temere sempre la vittoria del male sul bene. Possiamo dire che in una certa misura sia fisiologico. Ma oltre una certa misura dovrebbe essere un reato punito con mesi tot di reclusione. Naturalmente manifestare per strada gridando libertà è bellissimo. Tutti i giovani sciamano e gridano parole d’ordine senza senso, ma con l’inebriante sensazione che noi tutti abbiamo provato più volte nella vita di essere parte di un grande movimento che scuote la civiltà umana dalle fondamenta e la costringe a riflettere sul bene sul male, ma anche semplicemente a divertirsi a non cedere di un millimetro alle imposizioni del potere.

IL DIO “INDICE DI ASCOLTO”

Questa parola, potere, crea una parola assolutamente equivoca perché è chiaro che quando questo potere deriva dalle democrazie, tale potere non è più censurabile se è espresso e amministrato nelle forme dovute e secondo le esigenze anche eccezionali che si presentano. Questo avrebbe dovuto apparire nei talk show e nei social. Ma la legge primaria dell’informazione, chiedo scusa, della comunicazione, non ha niente a che vedere con la verità ma con un unico elemento: l’indice di ascolto. Ogni bravo o brava conduttore o conduttrice di talk show sa che è bene invitare a blaterare o a fare qualsiasi esposizione di stupide idee prive di qualsiasi dignità e contenuto, affinché questa persona posso dare spettacolo delle proprie fantasie e dei propri slogan in modo sufficientemente irritante da provocare la reazione delle persone sempre più rare che esprimono idee correlate ai fatti e ai dati, sicché alla fine la scintilla scocca e la paglia prende fuoco, e si accende un magnifico falò fatto di nulla che però fa schizzare il dibattito nelle classifiche e, come conseguenza immediata, la raccolta pubblicitaria delle reti e dei social, basata sull’indice di ascolto. Questa è l’unica ragione per cui un tale evento culturalmente disastroso e suicida può ancora avere luogo impunemente e, anzi, essere difeso in maniera spudorata e consapevolmente lesiva nei confronti di coloro che sono meno capaci di prendere decisioni e formarsi delle opinioni, dagli opinionisti borderline, quelli della zona grigia, quelli che «io mi sono vaccinato ma non voglio che gli altri siano obbligati a farlo», «io ho il Green pass ma difendo il diritto di coloro che non lo vogliono possedere», «io voglio poter andare dove mi pare, nessuno può impedirmelo», sicché si genera non solo una enorme confusione ma anche una strage che imminente come sanno tutti in tutto il mondo.

LA QUARTA ONDATA

La quarta ondata non farà prigionieri. La quarta ondata sta devastando il mondo occidentale e lo stato di Israele ha proclamato per giovedì prossimo un giorno di esercitazioni militari a cui tutta la popolazione sarà invitata, anzi chiamata e obbligata, a partecipare, e probabilmente coloro che vorrebbero manifestare contro il vaccino e contro la Green card, se osassero farlo in quello Stato molto serio e molto poco enfatico, troverebbero pane per i loro denti. 

Populismo a reti unificate. La par condicio è rimasta nell’aria come un droplet. E sui vaccini fa danni enormi. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 15 Novembre 2021. Grazie a un uso malinteso e sadico del meccanismo “pluralista” introdotto quando un certo tycoon si dedicò alla politica, i conduttori dei talk show modello Speakers’ corner hanno creato una galleria di mostri. E vabbé. Però, almeno sul Covid, servirebbe un po’ di autocontrollo. Fa bene Christian Rocca a perdere la pazienza e usare il telecomando per evitare a sé stesso la tortura dei talk show – di tutte le reti, ma qualcuna è più zelante – che sono diventati il caravanserraglio del populismo che avanza, inteso come cibo avanzato, dopo l’abbuffata di osceno e di improbabile che già tanti danni ha fatto quando la luna del populismo era crescente o piena. Ma la luce azzurrina resta accesa ugualmente in milioni di case, anche dopo un assennato click che mette fine allo strazio. Finché si parla di argomenti vari ed avariati – Silvio Berlusconi al Quirinale, Matteo Salvini che chiede in tv cose che non ha chiesto in Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte che racconta banalità non avendo avuto (nella vita) tempo per prepararsi – la cosa male non fa, o meglio ne fa poco. Ma confondere le idee alla casalinga di Voghera su vaccino sì e vaccino no, qualche ricaduta di valore generale ce l’ha, e forse almeno un richiamo alla responsabilità ci vorrebbe. Utilizzare il bilancino della par condicio in materia vaccinale è qualcosa di irresponsabile, cercare un rimedio farebbe parte dell’etica professionale. Il criterio della par condicio è il frutto avvelenato dell’epoca in cui un tycoon entrò in politica e per di più diventò presidente del Consiglio, per cui l’informazione tv fece filotto: non 3 ma 6 reti a rischio pensiero unico. Non era poi davvero così, perché il tycoon cercava voti, è vero, ma ancora di più audience, ed essendo del mestiere sapeva che per la pubblicità un menu fisso non è appetibile. In un sistema ipocrita, che ha paura del confronto di opinioni, la medicina fu comunque quella di centellinare, millesimare l’utilizzo dello strumento, sempre nel presupposto antico che la libertà sia rischiosa. Da Fëdor Dostoevskij (il grande inquisitore) a Ettore Bernabei (il grande controllore dell’unico canale Rai) bisognava evitare lo choc del dubbio. Ma poi il sistema si è un po’ evoluto, abbiamo oggi centinaia di canali, ed è normale che alcuni siano schierati da una parte e altri dall’altra. Si paga un prezzo a un Carnevale inguardabile, ma non è poi tanto pericoloso. C’è un canale occupato giorno e notte da un non medico che vende ricette miracolose a platee osannanti, intervistato sempre dallo stesso falso giornalista e trattandosi di salute sarebbe un problema, ma vendere placebo al massimo è una truffa. Negli Stati Uniti nessuno si lamenta se la Fox è un tantino reazionaria. Da noi, quella “par condicio” è rimasta invece nell’aria, come il droplet, e ha infettato abitudini, pigrizie e convenienze. Non c’è la sana gioia, in campagna elettorale, di assistere a un bel confronto senza veli tra Matteo Renzi e Conte, o tra Salvini e Giorgia Meloni. Un doppio podio per dirsi tutto quello che serve a capire. No, ci vuole sempre un palco capace di ospitare per lunghezza il Bucintoro, e tutti lì a dire qualcosa prima del gong. Cinquanta secondi di slogan sbocconcellati e sotto a un altro. Cose inguardabili. Non si può comunque applicare questo stesso metodo quando si parla di vaccini. È materia delicata, è facile disorientare e confondere. Lo telespettatore ha davanti qualcosa che viene celebrato, con pari forza e convinzione, da chi dice una cosa e da chi dice il suo contrario. Ha allora tutto il diritto di pensare che il valore è equivalente ed è umano, fortemente in linea con il mezzo tv, che possa essere attratto dal più bravo nello storytelling o nella violenza verbale. Il conduttore pensa come al solito che la rissa equivalga a picchi di audience e lascia fare, anzi gira la manopola, il regista inquadra in modo da poter montare mezzo schermo per ciascuno dei due contendenti, e dal divano vedi e senti la materializzazione di un confronto plasticamente alla pari. C’è poi chi è più sadico e chi più temperato. Giovanni Floris, per esempio, ha cominciato negli anni creando dal nulla (ma proprio dal nulla, in tempi non sospetti) personaggi tv come Renata Polverini o Francesca Donato o l’irresistibile Antonio Rinaldi, sempre in omaggio alla par condicio, perché la Polverini era di un sindacato di destra (merce rara), la Donato era no euro (marketing puro con un’associazione composta da due soci, lei e il marito), Rinaldi era addirittura presentato come portavoce di Paolo Savona, quando quest’ultimo, ombra di Guido Carli per una vita, direttore generale dei Confindustria, aveva sfogato vecchie frustrazioni nella scoperta dell’anti Europa. Perfetti sconosciuti, personaggi improbabili senza un palcoscenico, portatori di pensieri deboli, votati poi da migliaia di telespettatori/elettori entusiasti perché trasformati da zucche in carrozze grazie a mago Floris. Un metodo, dunque, di successo (complimenti, potrebbe formare un gruppo parlamentare), che però assume connotati inquietanti quando si dà spazio a un monsignor Viganò che teorizza lo sterminio di massa per propiziare la vaccinazione di massa. Qui siamo in un campo in cui non si può scherzare. C’è gente che sul divano fa zapping, o dorme e si sveglia di colpo, che ha già tanti dubbi. Vede un monsignore, o un professore, o l’inventore di Pubblicità Progresso che spiegano che il vaccino è sperimentale nonostante 3 miliardi di cavie, e si mette in allarme. Certo non ha molta voglia di farsi pizzicare il braccio. Ora che viene il difficile, cioè incolonnare di nuovo 45 milioni di italiani verso gli hub della terza inoculazione all’anno, bisognerà clonare il generale Figliuolo per riuscire a convincere le masse. Un conduttore che di solito riesce a essere equilibrato, sempre della 7, come Corrado Formigli, l’altra sera ci è cascato anche lui. Schierato personalmente e chiaramente pro vax ha fatto intervenire (sempre la maledetta par condicio) due o tre no vax ed è finita male. L’ubiquo Matteo Bassetti di tutte le tv se ne è andato, e Formigli ha dovuto, per par condicio, chiudere il collegamento a chi festeggiava questa fuga. Naturalmente, in un’ottica liberale, è motivo di imbarazzo criticare il confronto tra idee diverse. Lungi da noi l’idea della censura, che aggrava solo i problemi. Siamo sempre convinti che dal dibattito vengano vantaggi. Forse verranno anche da queste che sembrano accozzaglie. E certamente l’alternativa non è quella cui abbiamo assistito nei mesi della virologia à gogo, con parere scientifici tutti contrastanti. Ma affidare una operazione collettiva tanto decisiva come la campagna di vaccinazione alle obiezioni di tuttologi, filosofi, improvvisatori del pensiero non è confortante. Ci siamo già fatti abbastanza del male. Il complottismo, il disprezzo per i fatti, per la scienza, per la preparazione, persino per i congiuntivi, ha affascinato e sedotto, almeno per un attimo (ma era un attimo importante, quello del voto), un italiano su tre. È andata male. La macchina dell’odio ha mischiato tutto e restituito molta pericolosa delusione e molto insidioso doroteismo di certi ex gilet gialli. Dunque, un po’ di autocontrollo nella comunicazione tv (sui quotidiani di carta è diverso, ma quanto incidono?) non starebbe male. Click.

Talk show politici al capolinea, continua la caduta degli ascolti. I talk di Rete4 sono tra quelli con le maggiori perdite. In Rai scivola in basso #CartaBianca. A La7 Otto e Mezzo ha perso 309mila telespettatori rispetto al 2020. Cresce solo PiazzaPulita. Marco Mele su Il Quotidiano del Sud il 14 novembre 2021. «Comunque la pensiate, benvenuti a Samarcanda». Fu Michele Santoro da Salerno, nel 1987, a lanciare un nuovo formato di talk show dove i politici e gli opinionisti in studio e la “piazza”, in collegamento esterno, interagivano e facevano spettacolo e audience. Vennero cambiati i canoni del talk storico, quelli dove il pubblico applaudiva e i politici e le “star” parlavano – Maurizio Costanzo fa quarant’anni del suo Show in questo mese. Samarcanda, in un momento storico caratterizzato dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della Prima Repubblica, salì dagli 800mila spettatori del 1987 agli oltre quattro milioni e mezzo della stagione 1991-1992. Siamo arrivati al capolinea per i talk show politici? Nella prima parte della stagione autunnale, da fine settembre, all’11 novembre, Piazza Pulita è il solo talk politico ad aver guadagnato in quota di ascolto sui televisori accesi (share) rispetto all’anno precedente. Tutti gli altri hanno perso ascolti. Certo, ad ottobre tutta la televisione ha prodotto un ascolto inferiore di un milione rispetto al giorno medio dell’ottobre 2020, mentre la prima serata ha perso due milioni e mezzo di individui in ascolto. La piazza, inoltre, è progressivamente scomparsa dai talk, se non con interviste spesso selezionate “su misura” per convalidare la tesi del programma. Il pubblico è tornato ad applaudire e basta, e talvolta a fischiare e rumoreggiare. I politici sono stati portati ad elevare i toni dello scontro più che a confrontarsi sui contenuti. La televisione generalista, che ha creato i talk show, del resto, è assediata da contenuti trasmessi in streaming da colossi come Netflix e Amazon, su tutte le piattaforme e su tutti i terminali, compresa la televisione, quando si tratta di una smart tv collegabile alla Rete. Il dato di ottobre rilevato da Studio Frasi vede le tv Altre, quelle che non aderiscono alla rilevazione ma trasmettono contenuti tv, crescere del 10,6% in prima serata ma, soprattutto, del 93,9% tra i possessori di un apparecchio connesso alla Rete. Il cambio obbligato del televisore o del decoder entro il gennaio 2022 e per i più vecchi già da fine ottobre, rischia di trasformarsi in un clamoroso vantaggio per le multinazionali dello streaming. La pandemia, con il lockdown, insomma, ha premiato gli schermi domestici, rivitalizzando anche gli ascolti dei talk show. Ora, gli ascolti tornano a scendere. Un’analisi sui dati di ascolto dei principali talk show politici, effettuata dallo Studio Frasi sui dati Auditel, permette di valutare l’andamento dei talk dal 2019 al 2021, tenendo conto della crescita nel consumo di televisione avvenuto nel corso del 2020. Dall’inizio di quest’anno, peraltro, si è avviata una nuova fase anche per la comunicazione politica televisiva. L’ex premier Conte era la presenza principale nei Telegiornali e nelle Reti nazionali e il Governo era al centro dei dibattiti. L’Esecutivo delle larghe intese, guidato da Mario Draghi, ha cambiato anche la comunicazione della politica nei media, a partire da quello televisivo. La presenza in prima persona dei membri del Governo si è rarefatta, l’opposizione si è ridotta a Fratelli d’Italia, il populismo, del quale molti talk sono stati il megafono e la nutrice, ha cercato nuovi contenuti da “gridare”, come il No Green Pass o l’immigrazione clandestina, mettendo in secondo piano l’economia reale e le politiche governative. “I partiti non si differenziano – aggiunge Francesco Siliato, partner di Studio Frasi – perché sono tutti all’interno di una cultura neoliberista e quasi tutti all’interno della maggioranza che sostiene Draghi. I Talk, allora, cercano di calcare la mano sulle differenze tra i partiti, come sull’immigrazione, sul reddito di cittadinanza o sul Green Pass. Il Governo non è più al centro dell’attenzione”. I risultati non sono eclatanti, con qualche differenza tra un talk e l’altro: secondo Studio Frasi, tra gli altri, Otto e mezzo, su La 7, ha perso 309mila individui in ascolto sul 2020 ma ne ha guadagnati 106mila sul 2019. Presa diretta, su RaiTre, ha perso oltre 200mila ascolti ma ne ha guadagnati 251mila sullo stesso periodo del 2019.

I Talk di Rete4 sono tra quelli con le maggiori perdite: Stasera Italia ha perso 269mila individui in ascolto sul 2020 e 230mila sul 2019, a parità di puntate trasmesse. Quarto grado ha perso 106mila ascolti sul 2020 e ben 221mila sul 2019. Fuori dal coro ha perso 141mila individui in ascolto rispetto al 2020, ma ancor più rispetto al 2019 (237mila), quando non ci fu alcun picco di ascolti. Quarta Repubblica ha perso 256mila ascolti sul 2020 e 312mila sul 2019, sempre a parità di puntate trasmesse (con l’1% di share in meno sul 2020).

Non sono solo alcuni talk politici di Mediaset a perdere ascolti: anche la Rai registra alcuni vistosi arretramenti. #CartaBianca, ad esempio, perde 220mila ascolti sul 2020 e 126mila sul 2019, in linea con la riduzione del consumo di tv, ma ben 350mila sul 2019.

I talk più “gridati”, insomma, sembrano non riscuotere più i favori del pubblico: a La 7, mentre Piazza Pulita guadagna l’1,4% di share sul 2020, Non è l’Arena perde l’1,2% di quota e ben 322mila ascolti rispetto al 2019. Deve far riflettere, infine, l’età media degli spettatori dei talk politici: la pandemia aveva abbassato l’età media, quando l’intera famiglia doveva stare in casa. Ora l’età media si rialza.

Stasera Italia aveva 67 anni di età media dei suoi spettatori nel 2019, era scesa a 65 nel 2020, è tornata a 67 nel 2021. #CartaBianca era scesa da 65 a 64 anni di età media tra il 2019 e il 2020. Nel 2021 il suo spettatore ha mediamente 66 anni. Non è un buon viatico per il futuro dei nipotini di Samarcanda.

Il punto di Roberto Napoletano. La crisi senza freni del talk italiano.  Il punto di Roberto Napoletano, Direttore del Quotidiano del Sud – l’Altravoce dell’Italia il 14 novembre 2021. . La crisi senza freni del talk italiano. Il Titanic Italia della brutta tv e della brutta politica. Gli italiani vogliono credere nella Nuova Ricostruzione e si sono stufati della politica e della TV delle chiacchiere. Conduttori e cerimonieri non lo sanno che sono a fine corsa. Sono così autoreferenziali che non si sono nemmeno resi conto che gli italiani li hanno abbandonati. La sintesi estrema è che quella politica già molto malata non dà ma prende ordini, quasi si muove a comando perché “se non urli non ti invito”. Diciamo che per la sua estrema nullità è costretta a inseguire il verbo dei cerimonieri della grande malattia italiana che è il dibattito televisivo rissoso e incompetente della pubblica opinione. Abbiamo usato da mesi un’espressione, Titanic Italia, per raccontare la nostra grande crisi, civile e morale prima che economica, dalla quale sta cercando di risollevarci il governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi. A prua la politica del nulla sovranista e populista con le sue figurine del mondo della irrealtà. A poppa gli orchestrali del talk italiano che nulla hanno a a che fare con la televisione, che hanno messo su un “teatrino” permanente di puro politichese con una compagnia di giro di politicanti che non hanno mai avuto un mestiere e giornalisti della carta stampata, a volte a gettone a volte no, a volte di qualità a volte di quarta serie, che vanno in televisione senza conoscerla e senza rispettarla. Rifiutano a priori gli orchestrali televisivi del Titanic Italia la fatica di studiare qualsiasi tipo di contenuto o di confrontarsi con chiunque ne è portatore, non fanno più televisione che è programmi, immagini, reportage, inchieste/documentari e molto altro, loro sanno solo “ballare e cantare” lo spartito del mondo della irrealtà. Rappresentano insieme i primi e i secondi il circolo più autoreferenziale della storia politica e mediatica di questo Paese che ignora i bisogni delle persone e svende la reputazione di una nazione e il futuro dei suoi giovani in cambio di mezzo punto in più nei sondaggi o nello share.

Un solo esempio: oltre 46 milioni di vaccinati valgono come qualche migliaio di no vax che manifestano, non siamo più nemmeno all’uno vale uno, siamo scesi molto sotto i gradini della dignità cronistica oltre che di quelli della realtà. 

Telepopulismo. Il metaverso di Cairo e i peggiori istinti della nostra tv. Christian Rocca su L'Inkiesta il 12 novembre 2021. L’ultimo caso di fuori di testa televisivo è quello del vescovo Viganò che da Floris ha comiziato di omicidi mirati per imporre lockdown e mascherine, ma ogni sera va in onda una pantomima che non merita di essere alimentata da chi ha a cuore il paese. Il comizietto del vescovo Viganò su La 7 a proposito dei morti Covid uccisi intenzionalmente non si sa da chi ha destato quei consueti cinque minuti di quotidiana indignazione, pronti a essere soppiantati da altri cinque minuti di attivismo social su una qualche altra stronzata detta in tv da qualche altro imbecille in abito talare o no, togato o no, del Fatto o no. Ma se lo stolto guarda Viganò o la compagnia di saltimbanchi che occupa gli schermi televisivi, il saggio in realtà indica Urbano Cairo e gli irresponsabili mestatori nel torbido della società italiana che guidano e gestiscono e conducono i programmi di La7 con l’obiettivo consapevole o no, ma certamente preciso, di mandare il paese a carte quarantotto appellandosi in nome degli ascolti ai peggiori istinti della natura umana. I programmi di La7 non sono gli unici responsabili della devastazione del dibattito pubblico italiano, perché di show altrettanto ridicoli è pieno il palinsesto Mediaset e ce ne sono anche in Rai. Con l’eccezione dell’informazione seria e puntuale di Skytg24, che gli altri definiscono noiosa, e di qualche altro sporadico programma o tg qua e là come Che tempo che fa, il panorama televisivo nazionale esprime e rappresenta perfettamente lo stile complottistico della politica italiana e produce un racconto criminale dell’economia e della società contemporanea che diventa terreno di coltura per ogni tipo di populismo. In questo contesto, è ovvio che Dibba e i novax, Scanzi e i noeuro si trovino a loro agio, e che i neo, ex, post fascisti digitali e analogici siano poi la maggioranza del paese. Del resto, ripensiamo a come si sono chiamate le trasmissioni televisive di questi anni: Piazzapulita, La gabbia, L’aria che tira, Annozero, Bersaglio mobile, Virus, Ballarò, L’A­rena, Agorà, Quarto grado. Basta mettere i nomi in fila uno dietro l’altro e non serve nemmeno accendere la tv per individuare le origini del populismo giustizialista e della gigantesca truffa della democrazia diretta. Le trasmissioni di La7 hanno però qualcosa in più, perché nella loro diversità sembrano progettate per rispondere a un medesimo disegno populista intanto per ottimizzare il conto economico, costruendo programmi a basso costo con ospiti che pagherebbero di tasca propria pur di essere chiamati in tv ed essere riconosciuti dal pizzicagnolo sotto casa e quindi con focus sulle più improbabili e strampalate e pericolose argomentazioni su qualsiasi argomento dello scibile umano perché anche in tv, come sui social, prevale la logica premiante della rabbia e del risentimento. Ma oltre a quella degli affari, legittima, c’è anche una motivazione politica o, meglio, antipolitica nel puntare editorialmente sempre sul peggio di noi stessi, ed è quella di fare tabula rasa del panorama politico per preparare una sempre-possibile-ma-sempre-rimandata discesa in campo sul modello di Berlusconi. Cairo dispone anche del Corriere della Sera, il più importante e storico e popolare quotidiano italiano, il cui declino in termini di autorevolezza, nonostante gli sforzi della redazione, va ben oltre gli effetti fisiologici della crisi del settore tanto che non mi stupirei se a un certo punto in via Solferino diventasse direttore Fedez o altro analfabeta democratico. Un editore privato è libero di fare quello che vuole, e va difeso nella libertà di fare le sue scelte e di indirizzare le sue aziende, ma i politici e gli intellettuali che poi si lamentano del declino del discorso pubblico non sono più credibili se continuano ad alimentare la messinscena quotidiana e poi a lagnarsi degli effetti nocivi. Da qualche tempo va di moda alzarsi dallo sgabello e abbandonare lo studio, o solo minacciare di farlo, quando si reputa che la misura delle enormità dette in diretta sia colma. Ecco, le trasmissioni televisive quotidiane sono colme di improbabili novax, no euro, complottisti, mozzorecchi, fascisti, livorosi e squilibrati di ogni estrazione e grado che parlano di cose che non conoscono. È il modello di business della tv politica italiana, con acrobati e mangiatori di fuoco. Provare a ribattere, più che impossibile, è inutile. Meglio mantenere il distanziamento sociale, spegnere la tv, interrompere per sempre l’emozione. Lasciare che se la vedano tra loro. Le elezioni e le battaglie culturali si perdono lo stesso, ma non si rischia il contagio e si vive meglio.

«A diciassette anni fui assunta come cronista in un quotidiano di Firenze. E a diciannove o giù di lì fui licenziata in tronco (…). Mi avevano ingiunto di scrivere un pezzo bugiardo su un comizio d'un famoso leader nei riguardi del quale, bada bene, nutrivo profonda antipatia anzi avversione (…). Pezzo che, bada bene, non dovevo firmare. Scandalizzata dissi che le bugie io non le scrivevo, e il direttore (…) rispose che i giornalisti erano pennivendoli tenuti a scrivere le cose per cui venivan pagati. "Non si sputa nel piatto in cui si mangia". Replicai che in quel piatto poteva mangiarci lui, che prima di diventare una pennivendola sarei morta di fame, e subito mi licenziò. (…). No, nessuno è mai riuscito a farmi scrivere una riga per soldi. Tutto ciò che ho scritto nella mia vita non ha mai avuto a che fare con i soldi.» Oriana Fallaci

SI GUARDA LA PAGLIUZZA E NON SI VEDE LA TRAVE. TV E GIORNALI NUTRONO I PARTITI DEL RUMORE RIMANENDO ABBRACCIATI FUORI DAL MONDO REALE. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 16 ottobre 2021. La verità è che c’è qualcuno che sta facendo girare il transatlantico Italia dentro il canale di Suez e nel supertalk si parla solo del barchino che per un fatto suo ha difficoltà ad attraccare. La gente vuole vivere tranquilla e vuole le riforme senza frattura sociale. Questo è il nuovo miracolo italiano. Mentre i partiti fanno propaganda. La destra prova a fare la respirazione bocca a bocca a questa minoranza del nulla perché spera le dia la vittoria elettorale senza accorgersi che ha sbagliato tutti i conti. La sinistra mette su un altro spettacolino che è quello dell’antifascismo e ritiene di poterlo fare senza mettere in discussione il governo di unità nazionale. Che non c’entra nulla con la nettezza di risposte necessarie all’assalto subìto dalla Cgil e con la bellezza della grande piazza del Sindacato sui valori fondanti. VOGLIAMO ripeterci. Perché come abbiano scritto ieri non si può più stare zitti. Il problema italiano è la sua bolla mediatica. Un racconto del niente, soprattutto televisivo, che manda in onda ogni giorno un’Italia che non c’è più. In settembre sembrava impossibile aprire le scuole perché c’era malcontato un migliaio di no vax e non contava nulla il record assoluto europeo di vaccinati del personale scolastico e degli studenti. Tanto meno contavano avere messo in cattedra centoventimila persone nella prima settimana di settembre, non a novembre come avveniva da decenni, e la piattaforma tecnologica in funzione che fornisce il quadro della situazione di ogni classe nel giro di qualche secondo. Niente, niente. C’era un preside che aveva dei dubbi, o meglio esternava dei dubbi perché stava facendo campagna elettorale per le sue elezioni di categoria, e quel preside passava a tutte le ore da una rete all’altra in un crescendo valchiriano di bolla mediatica che portava il “circo equestre” autoreferente nel suo bel mondo dove ogni competenza è frantumata, dove i fatti spariscono, e dove il fossato tra Paese mediatico e Paese reale diventa incolmabile. Impedisce di vedere che in Italia la scuola si riapre senza doverla richiudere perché si sta ricostruendo il Paese con l’unico vero esercizio riformista degli ultimi trent’anni. Siamo pericolosamente davanti a una rappresentazione che non ha più corrispondenza nel Paese reale. Tv e giornali del Paese nutrono la politica e la politica nutre tv e giornali rimanendo tutti insieme abbracciati fuori dal mondo reale. Non si coglie l’esercizio vero che sta riformando il Paese perché ci si occupa con pervicace ostinazione solo di gossip. Il Paese reale che ha preso d’assalto il salone del libro di Torino, che riempie i teatri, che è tornato entusiasta a lavorare e vuole cimentarsi con prove sempre più impegnative, ma cosa ancora più grave il Paese che vive sulla sua pelle la questione sociale italiana che viene da molto lontano, non entrano nel dibattito della pubblica opinione. Perché non interessa la tv e, soprattutto, è anni luce distante dai talk show quasi tutti schiacciati neppure più sul quotidiano, ma sul particolarismo di questa o quella battuta e controbattuta, entrambe impegnate nella nobile gara della conquista del primato dell’insignificanza. La verità è che c’è qualcuno che sta facendo girare il transatlantico Italia dentro il canale di Suez e nel supertalk si parla solo del barchino che per un fatto suo ha difficoltà ad attraccare. Emerge nettissimo, oltre a un evidentissimo problema mediatico, un analogo problema di rappresentanza della politica. Per cui la gente si identifica con Draghi rispetto a una rissosa e inconcludente rappresentanza partitica a sua volta pure frammentata. La gente vuole vivere tranquilla e vuole le riforme senza frattura sociale. Questo è il nuovo miracolo italiano. Che è il senso profondo, autentico del riformismo e, cioè, l’esatto contrario della rivoluzione che spacca tutto. Perché il miracolo prosegua e produca effetti duraturi, bisogna combattere il male italiano del trasformismo. Soprattutto bisogna che il “circo equestre” mediatico lasci Marte e rimetta piede sulla Terra e che i suoi compagni di merenda, che sono i partiti del rumore, facciano un percorso analogo. Viceversa cercano di farsi un nido nella nuova stagione rimanendo con la testa in altre stagioni e, quindi, rinunciando ai vantaggi effettivi della ripresa del Paese. Abbiamo, da un lato, la sinistra che, a margine dello spettacolo, mette su un altro spettacolino che è quello dell’antifascismo e ritiene di poterlo fare senza mettere in discussione il governo di unità nazionale. Non abbiamo qui bisogno di ribadire la gravità inammissibile dell’assalto squadrista alla Cgil e la nettezza di risposte che richiede. Così come la bellezza della grande partecipazione e della mobilitazione su valori fondanti che il sindacato tutto è riuscito a rappresentare ieri a a Roma. Il punto sono le conseguenze sul governo di unità nazionale della strumentalizzazione a fini elettorali di tutto ciò. Dall’altro lato, abbiamo invece la destra che prova a fare la respirazione  bocca a bocca a questa minoranza del nulla  perché spera che questa minoranza le dia la vittoria elettorale senza rendersi conto che ha sbagliato tutti i conti. Perché ammesso e non concesso che questo comportamento portasse a una vittoria sarà una vittoria di Pirro. Perché se vogliono spendere quatto miliardi  per regalare tamponi ancora meno ne avranno per potere abbassare le tasse. Siamo alla demagogia della spesa pubblica che porta consenso per qualche minuto e nelle cento ore successive ti porta la rivolta della gente perché o devi aumentare le tasse o devi tagliare i servizi. Bisogna incentivare il meno possibile la spesa pubblica dove non ha senso farla. Non ha alcuna logica fare pagare all’ottanta e passa per cento di vaccinati il conto del venti per cento fortemente a scalare di chi è fuori dal mondo e che il caravanserraglio mediatico-politico si sforza vanamente di volere legittimare a tutti i costi. La politica, al contrario, deve dire a questa gente che sbaglia recuperando il suo ruolo di guida come accade sempre nelle grandi stagioni della politica. Bisogna cominciare a dirglielo che sono come i terrapiattisti e, cioè, che sostengono qualcosa che non sta né in cielo né in terra.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 16 ottobre 2021. Esiste il tipo ideale di ospite da talk show in epoca pandemica? Domanda più che lecita, visto l'alto numero di trasmissioni e il conseguente bisogno di reclutamento. La tv generalista è piena zeppa di ospiti, una catena fordista che rimpolpa di manodopera congetturante la maggior parte delle trasmissioni. Dimenticando morti, terapie intensive, «eroi» in camice bianco, incubi del lockdown. Caratteristica principale dell'idealtipo di ospite è la disponibilità, condizione necessaria al funzionamento della macchina (si possono immaginare la tensione e il disappunto di una redazione nel momento delle telefonate: se non viene x chiama y che è sempre disponibile). La disponibilità dipende da molti fattori: dal gettone di presenza (non a tutti è concesso), dal trovarsi nella condizione di umarell della politica, dall'impulso insopprimibile alla visibilità, dal grado di parentela con il conduttore o la conduttrice. L'ospite più ricercato è quello considerato «scomodo»: il prototipo è l'intellettuale dai toni wagneriani, costantemente in dissenso, specie sul green pass. La negazione, si sa, è l'«ospite scomodo» di ogni cultura e avere a disposizione uno spazio di alterità cui delegare le nostre inquietudini fa sempre, per paradosso, comodo. Così il conduttore può affermare: «Questo è un programma che fa parlare tutti». All'opposto dello scomodo c'è l'accomodante. Che, con le sue non prese di posizioni, le sue frasi di buonsenso, la sua bonomia serve a fingere di ricondurre la conversazione sui binari dell'utilità pubblica. L'ospite più osceno è il provocatore, il narcisista patologico. Sa tirare fuori il peggio dalle persone con cui si relaziona, sa farle arrabbiare e irritare come nessun altro, riesce a creare discussioni e litigi dal nulla, è insuperabile nel mettere in imbarazzo. La canea fa ascolto. Il serpente (il talk) si morde la coda nell'eterno ritorno dell'identico.

Gli ospiti dei talk in epoca pandemica: l’eterno ritorno dell’identico. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2021. Quello più osceno è il provocatore, il narcisista patologico. Sa tirare fuori il peggio dalle persone con cui si relaziona, sa farle arrabbiare e irritare come nessun altro. Esiste il tipo ideale di ospite da talk show in epoca pandemica? Domanda più che lecita, visto l’alto numero di trasmissioni e il conseguente bisogno di reclutamento. La tv generalista è piena zeppa di ospiti, una catena fordista che rimpolpa di manodopera congetturante la maggior parte delle trasmissioni. Dimenticando morti, terapie intensive, «eroi» in camice bianco, incubi del lockdown. Caratteristica principale dell’idealtipo di ospite è la disponibilità, condizione necessaria al funzionamento della macchina (si possono immaginare la tensione e il disappunto di una redazione nel momento delle telefonate: se non viene x chiama y che è sempre disponibile). La disponibilità dipende da molti fattori: dal gettone di presenza (non a tutti è concesso), dal trovarsi nella condizione di umarell della politica, dall’impulso insopprimibile alla visibilità, dal grado di parentela con il conduttore o la conduttrice. L’ospite più ricercato è quello considerato «scomodo»: il prototipo è il l’intellettuale dai toni wagneriani, costantemente in dissenso, specie sul green pass. La negazione, si sa, è l’«ospite scomodo» di ogni cultura e avere a disposizione uno spazio di alterità cui delegare le nostre inquietudini fa sempre, per paradosso, comodo. Così il conduttore può affermare: «Questo è un programma che fa parlare tutti». All’opposto dello scomodo c’è l’accomodante. Che, con le sue non prese di posizioni, le sue frasi di buonsenso, la sua bonomia serve a fingere di ricondurre la conversazione sui binari dell’utilità pubblica. L’ospite più osceno è il provocatore, il narcisista patologico. Sa tirare fuori il peggio dalle persone con cui si relaziona, sa farle arrabbiare e irritare come nessun altro, riesce a creare discussioni e litigi dal nulla, è insuperabile nel mettere in imbarazzo. La canea fa ascolto. Il serpente (il talk) si morde la coda nell’eterno ritorno dell’identico.

Non capisco chi va a dimostrare. I loro problemi li manifestano in piazza: a chi?

Alla stampa omertosa? Ai politici menefreghisti? Ai colleghi di sventura che pensano a risolvere la loro personale situazione?

Non basta una buona rete sul web per far sentire la nostra voce?

Chi ha votato, si rivolga al suo rappresentante in Parlamento, affinchè tuteli il cittadino dai poteri forti.

Chi non ha votato, partecipi con altri alla formazione di un movimento democratico e pacifista per poter fare una rivoluzione rosa e cambiare l’Italia.

Cosa potrebbe nascondersi dietro la rilevanza che il mainstream sta dando alle proteste dei portuali di Trieste. Zaira Bartucca su recnews.it il 15 Ottobre 2021. Perché i media commerciali non hanno atteso il canonico anno per avvicinarsi all’argomento e perché non nascondono anche stavolta tutto sotto il tappeto? l mainstream questa volta si è accorto subito della protesta che sta interessando i portuali di Trieste, e non solo loro. Non ha atteso neppure il canonico anno per avvicinarsi all’argomento, come ha fatto per le cure contro il covid o per le proteste di piazza. No, stavolta riflettori subito puntati. Perché? C’è da dire che il pericolo di trovare gli scaffali vuoti e il possibile colpo alle derrate alimentari non c’entri poi tanto. Lo chiariscono tutti gli organismi di categoria: al massimo i blocchi potrebbero portare a ritardi di consegne (nemmeno imminenti) di latte, frutta e verdura e – chiarisce chi ne mastica di import/export – ci vuole almeno un mese per fare in modo che si giunga a questo punto, semplicemente perché per il momento i porti sono forniti di merce che attende di essere allocata. Il colpo all’Unione europea? Favole, se si considera che semplicemente l’Italia sarà glissata dagli autotrasportatori, che già stanno virando verso la Francia e altre destinazioni. E allora? Il dubbio è che – analogamente a quanto è accaduto con la manifestazione di Piazza del Popolo– anche questa volta qualcuno abbia deciso di cavalcare la pur legittima ed esistente protesta di chi dovrà mettere a rischio la propria possibilità di sostenere sé stesso e la sua famiglia per colpa dell’introduzione del lasciapassare di mussoliniana memoria. Il diavolo, del resto, risiede nei dettagli, e a volerli cercare sono tanti i portuali che non chiedono completa libertà di scelta, bensì “tamponi gratuiti”. Dunque, non l’annullamento del Green Pass, ma il Green Pass edulcorato. Perché in tutta questa grande commedia all’italiana, a ben guardare, quelli che si battono per il vero ritorno alla normalità, in realtà si contano davvero sulle dita di una mano. Chi di volta in volta viene indicato come l’eroe di turno non fa parte di questa categoria, ma di quella che racchiude chi è eterodiretto dallo stesso sistema e si preoccupa ogni giorno di creare finte contrapposizioni e finte opposizioni, nella speranza di raggiungere il punto di collasso definitivo. Nel caso di Piazza del Popolo, cavalcare il (reale) dissenso di decine di migliaia di persone ha permesso di gridare contro il fantomatico pericolo fascista, e soprattutto di far distogliere lo sguardo dai veri fascisti: quelli che siedono al governo e sono convinti che le Libertà personali e imprescindibili possano essere compresse per anni e per Dpcm. A che serve, invece, l’occhio puntato sui portuali e sulle altre categorie che stanno (legittimamente) protestando in questi giorni? Perché i media commerciali questa volta non nascondono tutto sotto il tappeto, come hanno fatto con i danneggiati e i deceduti per colpa del vaccino, con chi si è suicidato per colpa della crisi indotta e con chi lotta per garantire cure pubbliche e ospedaliere anche ai malati di covid? Il modesto parere di chi scrive è che si stia tentando di far confluire il dibattito sulla necessità del pugno duro da parte dello Stato. Una – per il momento timida – riprova inizia a giungere da dichiarazioni controverse come quelle di Illy: “Se i ribelli bloccano il porto di Trieste – sono le parole dell’industriale del caffé – devono intervenire le Forze dell’Ordine“. I “ribelli”. E quasi che i diritti di associarsi, radunarsi, manifestare e protestare siano ormai ricordi del passato. Si è a lungo parlato di legge marziale e, dunque, di una possibile militarizzazione delle aree calde, da cui conseguirebbe facilmente l’introduzione di misure coatte che potrebbero riguardare anche la somministrazione del vaccino. Un po’ il sogno dei pro-vax più estremisti, quelli che – come Licia Ronzulli – considerano “malati di mente” le persone che si permettono di dissentire dalla narrazione di sistema e di esercitare la propria libertà di scelta. Essere padroni del proprio corpo, infatti, in Italia vale per le femministe, per gli lgbt e per i sostenitori dell’eutanasia, ma non per chi vuole rifiutare un trattamento sanitario e la somministrazione di un preparato sperimentale che non mette dal riparo dall’infezione.

LA BOLLA MEDIATICA CHE NASCONDE LA REALTÀ. LA PAGINA NERA DELL’INFORMAZIONE. NON SI È CREDIBILI QUANDO SI RACCONTA UN PAESE IRREALE. Roberto Napoletano il 15 ottobre 2021 su Il Quotidiano del Sud. C’è uno scollamento tra il Paese mediatico fatto di filosofi autoreferenti del supertalk del nulla e il Paese reale fatto di gente che si è messa a correre. Che vuole lavorare a ogni costo. Che non rinuncerebbe per nulla al mondo a quello che sta facendo perché è tornata a vivere. Che scommette sulla forza tranquilla di Draghi – e di Brunetta oggi con tutta la pubblica amministrazione come ieri di Bianchi con la scuola – che ha dimostrato di mantenere equilibrio e barra dritta. Il tanto temuto Venerdì Nero è stato una bolla mediatica. Un racconto del niente che descrive ogni giorno un’Italia che non c’è più. Decine di persone riunite, venti trenta settanta, qui e là. Qualchecentinaia di persone a Trieste, non i cinquantamila previsti. Che cumulati per i nostri media valgono come gli altri 46 milioni di italiani vaccinati. Non si può più stare zitti. Il problema italiano è la sua bolla mediatica. Un racconto del niente, soprattutto televisivo, che manda in onda ogni giorno un’Italia che non c’è più. Non sanno di che cosa parlano. Inseguono file che non ci sono. Descrivono blocchi che nessuno ha visto. Inquadrano per ore il camionista Sirio che ai loro occhi è un guru della scienza che può tranquillamente dire che il professor Remuzzi che parla dell’84% di vaccinati dà i numeri perché i suoi numeri, quelli delle sue fonti, dicono un’altra cosa. Per cui il supertalk estate inverno tiene a battesimo i numeri à la carte. Ognuno ha i suoi. Hanno tutti la stessa legittimazione. Si sono persi ogni pudore e ogni vergogna. Questi signori che hanno in mano il dibattito della pubblica opinione non hanno nemmeno la forza di ricordare che siamo sette punti più avanti della Germania e cinque punti più avanti della Francia proprio perché c’è il green pass e perché ci siamo intelligentemente vaccinati in massa. Come si potesse anche solo ipotizzare con questi numeri di base, come si è fatto in un crescendo valchiriano fino a notte, che una minoranza così fuori dal mondo potesse bloccare l’intero Paese, per noi resta incomprensibile. Diciamo le cose come stanno. C’è uno scollamento tra il Paese mediatico fatto di filosofi autoreferenti del nulla e il Paese reale fatto di gente che si è messa a correre. Che vuole lavorare a ogni costo, che vuole andare in pizzeria con gli amici, che è tornata a riempire i teatri. Che non rinuncerebbe per nulla al mondo a quello che sta facendo perché è tornata a vivere. C’è un Paese reale che ha voglia di fare le cose, anche quelle difficili, che scommette sulla forza tranquilla di Draghi e di Brunetta – oggi con tutta la pubblica amministrazione come ieri Bianchi con la scuola che è stata la prima a riaprire – che hanno dimostrato sul campo la capacità di mantenere equilibrio e barra dritta. Gli italiani, le donne e gli uomini, i giovani e i meno giovani, lo hanno capito bene. Altrimenti dopo la scuola non avremmo riaperto la variegatissima galassia della pubblica amministrazione centrale e locale inventando un modello positivo di flessibilità e di sicurezza. No, nell’Italia di prima questo non sarebbe stato possibile. Chi ha gli occhi per vedere e vuole vedere dovrebbe godere del fatto che gli italiani stanno attuando quello che scrivevano sui muri durante il primo lockdown: “ne usciremo, ce la faremo”. Al posto di dire quanto è stato bravo questo Paese e di raccontare il Paese che è ripartito, si perde il tempo a dare legittimazione mediatico-politica a chi corre dietro alle sue invenzioni per mania di protagonismo dove si mescolano egoismo individuale e ideologia. Dove si correggono i numeri della scienza perché esistono i loro numeri che hanno il solo scopo di nascondere la realtà. Se avessero un po’ di seguito nel Paese reale avremmo fatto la fine dell’Inghilterra, che non ha le derrate alimentari in molti supermercati e è tornata a tremare con la curva dei contagi e delle terapie intensive che corrono all’insù. Questa minoranza del nulla è invece il protagonista del racconto mediatico del nulla. I due racconti combinati insieme sono l’emergenza democratica del momento. Al supertalk italiano non interessa guardare e raccontare la realtà, ma piuttosto mettere su tutti i giorni lo spettacolo del gladiatore. Siamo davanti allo spettacolo moderno della battaglia dei gladiatori. Uno è vestito con la rete e con il tridente. Uno con la corazza e con il gladio. Tutte le sere. Perché in TV bisogna vedere due entità contrapposte e dare lo spettacolo in pasto al pubblico che fa il tifo o per l’uno o per l’altro. Il pubblico è consapevole che lo spettacolo si ripeterà centinaia di volte. Ogni giorno arriva un altro scontro. Il talk show è la traduzione moderna di questo gusto antico del pubblico di essere spettatore della rissa. Il fine non è arrivare a stabilire chi ha torto o chi ha ragione, ma arrivare a replicare all’infinito lo scontro proprio come nello spettacolo dei gladiatori dove la guerra finta vince sulla guerra vera. Tutto ciò è incompatibile con la possibilità anche remota di vedere la realtà. Quarantasei milioni di italiani che non contano niente. Decine di persone riunite, venti trenta settanta, qui e là. Qualche centinaia di persone a Trieste non i cinquantamila previsti. Che cumulati per i nostri media valgono come gli altri 46 milioni. A volte di più. Siamo davanti a una pagina nera dell’informazione. Prima ce lo diciamo, meglio è.

Piazza del Popolo tra strategia della tensione e armi di distrazione di massa. Zaira Bartucca su recnews.it il 12 Ottobre 2021. Scene da Actors Studio coordinate da una regia nemmeno poi tanto occulta, che ha pensato di speculare sul dissenso (quello sì, reale) di decine di migliaia di cittadini. E’ l’11 settembre italiano in salsa covid iente (o quasi) è come sembra. E’ il riassunto striminzito della manifestazione che è andata di scena sabato 9 a Roma che ha avuto come teatro – è proprio il caso di dirlo – Piazza del Popolo. Scene da Actors Studio coordinate da una regia nemmeno poi tanto occulta, che ha pensato bene di speculare sul dissenso (quello sì, reale) di decine di migliaia di cittadini che hanno voluto urlare il proprio “No” secco al Green Pass e dunque a ogni proposta di contrazione delle libertà costituzionalmente garantite. Famiglie con bambini e anziani costretti a fuggire e a ripararsi nei negozi, donne comuni (mica solo quelle organiche a partiti considerati estremisti) che si sono beccate manganellate in testa e lacrimogeni in faccia, nel silenzio complice delle femministe. Niente inginocchiate buoniste, questa volta, per condannare la violenza delle Forze dell’Ordine e di quegli operatori che si sono accaniti su alcuni malcapitati. Episodi di ferocia disumana, gratuita e inspiegabile di cui restano macabre cartoline: un uomo giace a terra tenuto fermo da oltre cinque agenti mentre uno in borghese lo colpisce con veemenza allo stomaco con pugni e calci. Un anziano è in ginocchio a capo chino, in una posa che ricorda gli abusi sui prigionieri (documentati da Wikileaks) di alcuni militari americani. Scene raccapriccianti per alzare il tiro, l’asticella dello scontro sociale, il confine tra la non accettazione e l’accettazione forzata. E’ l’11 settembre italiano in salsa covid, con protagonisti assoldati e scritturati e decine di migliaia di comparse ignare del copione. Va di scena l’attacco lacrimoso ai sindacati, la Capitol Hill de noartri, con sistemi di sicurezza inesistenti o che si eludono con troppa facilità e le Forze dell’Ordine che presidiano la sede della CGIL ma spariscono nel momento meno opportuno. Una parte è abilmente recitata dal leader dei presunti aperturisti, quelli cooptati dai partiti e dai meta-partiti che dallo scorso anno tentano di canalizzare – sedandolo – il dissenso dei commercianti e dei ristoratori. I falsi eroi, quelli con cui ci si deve identificare, gli avvelenatori dei pozzi. Il gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, in uno scenario complessivo che non fa che disorientare gli spettatori di servizi televisivi sempre uguali a sé stessi. Così per giorni e forse per settimane: il covid è sparito, ora c’è posto solo per le scene da guerriglia urbana. Tutto, pur di far passare l’idea che le manifestazioni vadano limitate e controllate. E’ la “stretta sui cortei” chiesta da Palazzo Chigi che tradisce uno degli obiettivi che si dovevano ottenere. Uno, ma non l’unico. Perché scomodare il fascismo o il neo-fascismo per caratterizzare un gruppo di esaltati e qualche partito nostalgico, fa sì che si possa gridare all’attacco alla democrazia, mentre l’attacco e l’eversione con ogni evidenza provengono dai promotori del Green Pass, da chi parla di obbligo vaccinale nonostante esistano le cure da marzo del 2020 e da chi ha deciso di legare la vita del governo al perdurare infinito di un’emergenza sanitaria che da almeno un anno esiste solo su carta. “Se ti muovi ti dò un calcio nelle palle”, una poliziotta minaccia un giovane costretto a terra da tre agenti della Polizia Armi di distrazione di massa e strategie della tensione. Guerriglia urbana, devastazione, rabbia, feriti, finché non ci scappa il morto. L’instaurazione di una legge marziale – teme qualcuno – e poi tutto pur di tornare alla quiete. Accettare tutto, anche quel Green Pass che prima non si voleva, anche il preparato sperimentale che, dai, confrontato con il rischio di morire mentre si passeggia per strada non è così male. Ad uscirne peggio, del resto, è sempre il cittadino. Plagiato, manipolato, violato nei suoi diritti fondamentali. I partiti? Rinvigoriti, a destra come a sinistra, rifocillati da un volemose bene che mette tutti d’accordo. Niente distinzioni, solo la casacca del partito unico. Michetti abbraccia Landini, Landini abbraccia Draghi. Il Pd grida al fascismo e dopo Salvini ha un altro motivo di esistere, Meloni fa la vittima e recupera i voti – in vista del ballottaggio su Roma – di chi la vede di nuovo come l’unica in grado di contrastare una sinistra che (in realtà) non esiste più, si insinua nei discorsi dei cosiddetti democratici: “Il Green Pass è un atto di libertà” e “il vaccino rende liberi”, mentre si torna a parlare di leggi naziste per instaurare l’obbligo vaccinale, mica delle cure. Tutto debitamente calcolato, ma non una cosa: il dissenso spontaneo che fin qua è esistito poco: quello che si paleserà dopo lo sblocco dei licenziamenti e quando si inizieranno a fare più evidenti gli effetti della campagna vaccinale di massa.

Zaira Bartucca Direttore e Founder di Rec News, Giornalista. Inizia a scrivere nel 2010 per la versione cartacea dell’attuale Quotidiano del Sud. Presso la testata ottiene l’abilitazione per iscriversi all’Albo nazionale dei giornalisti, che avviene nel 2013. Dal 2015 è giornalista praticante. Ha firmato diverse inchieste per quotidiani, siti e settimanali sulla sanità calabrese, sulle ambiguità dell’Ordine dei giornalisti, sul sistema Riace, sui rapporti tra imprenditoria e Vaticano, sulle malattie professionali e sulle correlazioni tra determinati fattori ambientali e l’incidenza di particolari patologie. Più di recente, sull’affare Coronavirus e su “Milano come Bibbiano”. Tra gli intervistati Gunter Pauli, Giulio Tarro, Armando Siri, Gianmarco Centinaio, Michela Marzano, Vito Crimi, Daniela Santanché. Premio Comunical (2014, Corecom/AgCom). Autrice de “I padroni di Riace – Mimmo Lucano e gli altri. Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato”.

Che vergogna il bullismo televisivo. Davide Bartoccini il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nell'epoca in cui viviamo, il bullismo si combatte a scuola ma si insegna in televisione. E nessuno, professore, politico o giornalista, darebbe la vita - come Voltaire - per permettere a chi che sia di contraddirlo. Non so quando sia iniziato né perché. Non so come gli editori lo consentano, né perché i conduttori televisivi, nella maggior parte dei casi giornalisti fin troppo navigati sempre appellatisi alla democrazia e alle più buone maniere, lo esercitino senza pudore; ma finiamo sempre più spesso con l'assistere a imbarazzanti siparietti che sfociano nel "bullismo televisivo" che scandisce quest'epoca. E francamente è vergognoso. Fa bene dunque un Guido Crosetto, che giovedì si è riconfermato un sobrissimo gentiluomo, ad abbandonare un talk televisivo dove il copione scritto dagli autori poteva e doveva avere un solo epilogo: mettere nell'angolo l'unico contraddittorio presente in studio, sapendo che l'altrettanto gentiluomo, sempre sobrio e rispettoso nei toni, Alessandro Sallusti, non si sarebbe messo a fare la fronda dell'ultimo dei mohicani. Destrorso chi scrive? Ma per favore. Difensore di Giorgia Meloni, detrattore dei giornalisti che in "tre anni di barbe finte", come hanno scritto sul Riformista, hanno "svelato" le malefatte del Barone Nero? Ma per carità. Non è una questione di "vittimismo da camerati", come scherzano sui social. È una questione di coerenza e onestà intellettuale: non si possono continuamente camuffare da talk televisivi delle trasmissione disegnate per "moralizzare" metodicamente la propria audiance. Alle lunghe i non maoisti sono costretti a cambiare canale. Le altre emittenti, per bilanciare le forze, a costruire gli stessi siparietti al contrario, e chiunque abbia conservato un po' di buon gusto, a spegnere il televisore e ad aprire un libro. Questo j'accuse potrà apparire banale, anche fuori tempo, perché è da anni che si consumano queste pantomime. Ma la pandemia che ci ha costretti a guardare più televisione del necessario, e tutto il dibattito tra vaccinisti coatti e no-vax da protesi di complotto, sembrerebbe aver alzato il livello di spocchia di un'ampia schiera di conduttori e ospiti che in virtù delle loro competenza - chi gliele nega per carità - vogliono apparire senza essere contraddetti come dei narratori onniscienti e non come quello che dovrebbero in vero essere: moderatori e interlocutori accreditati. Chi viene chiamato in una trasmissione, in presenza o in collegamento esterno, dovrebbe essere in primis ascoltato, e poi rispettato, anche dovesse abbandonarsi al delirio. Senza dover ripetere l'immancabile "Non mi interrompa perché io non l'ho interrotta" che ormai occupa metà nel minutaggio delle trasmissioni. E senza che il conduttore s'innalzi a paladino della lotta alle fake news: se ti colleghi con un terrapiattista, quello a domanda risponderà che la "terra è piatta". Risibile? Non obietto. Ma neppure si può deriderlo in diretta. Altrimenti è un evidente caso di bullismo. E noi siamo tutti contrari al bullismo no? Facciamo corsi per estirpare il problema nelle scuole e poi lo consentiamo in televisione tra gli adulti con lauree, cattedre e ministeri? Eh no. Così non va. Oggi per esempio, giornata di fuoco per l'opinionismo data l'entrata in vigore nel Green pass per i lavoratori di tutti i settori, ho sentito un ospite del quale non ricordo il nome, che derideva a microfono aperto un camionista che aveva detto di chiamarsi Sirio, e che non si è vaccinato per scelta. Gli diceva ghignando: "Sirio, ma che vivi su una stella?" E poi rincarava con una doppia dose di classismo: "Si vede che sei uno scienziato". Gli altri del "plotone d'esecuzione opinionistico", come siamo ormai abituati a vedere, scuotevano la testa ad intervalli regolari scambiandosi battute ed encomi. Ecco, se non è bullismo questo. Chissà dov'è finito quello spirito voltariano del "Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa continuare a dirlo". Forse nei vecchi palinsesti. Nelle vecchie trasmissioni. Nell'epoca del tubocatodico e dei telecomandi Mivar dello zapping fantozziano. Tempi più civilizzati.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nomina

Dagospia il 5 agosto 2021. ORA SARETE ANCORA PIÙ FELICI DI PAGARE IL CANONE! – I SOLDI DELL’ABBONAMENTO NON FINISCONO SOLO NELLE CASSE DEL DISASTRATO CARROZZONE RAI, MA FINANZIANO ANCHE UN MIGLIAIO DI EMITTENTI LOCALI – PER IL 2020 SONO STATI DISTRIBUITI 42 MILIONI (SOLTANTO TELENORBA E VIDEOLINA BECCANO QUASI 3 MILIONI IN DUE) – LA NORMATIVA È CAMBIATA NEL 2017, CON IL PIDDINO GIACOMELLI SOTTOSEGRETARIO ALLE COMUNICAZIONI, CHE PROMETTEVA: "BASTA CONTRIBUTI A PIOGGIA"...

1 - ART. 616 E SEGUENTI – LEGGE DI BILANCIO 2021 

616. Al fine di semplificare le procedure contabili di assegnazione delle risorse, tenendo conto dello stabile incremento delle entrate versate a titolo di canone di abbonamento alle radioaudizioni ai sensi degli articoli 1 e 3 del regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, convertito dalla legge 4 giugno 1938, n. 880, a decorrere dal 1° gennaio 2021 le predette entrate sono destinate:

a) quanto a 110 milioni di euro annui, al Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze, quale quota di cui all'articolo 1, comma 2, lettera c), della legge 26 ottobre 2016, n. 198. Nel predetto Fondo confluiscono, altresi', le risorse iscritte nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico relative ai contributi in favore delle emittenti radiofoniche e televisive in ambito locale; 

b) per la restante quota, alla società RAI-Radiotelevisione italiana Spa, ferme restando le somme delle entrate del canone di abbonamento già destinate dalla legislazione vigente a specifiche finalità, sulla base dei dati del rendiconto del pertinente capitolo dell'entrata del bilancio dello Stato dell'anno precedente a quello di accredito.

617. Le somme di cui al comma 616, lettere a) e b), non impegnate in ciascun esercizio possono essere impegnate nell'esercizio successivo.

618. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio, anche nel conto dei residui. 

619. A decorrere dal 1° gennaio 2021:

a) il comma 292 dell'articolo 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, è abrogato. Conseguentemente, il comma 4 dell'articolo 21 del decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 giugno 2014, n. 89, riacquista efficacia nel testo vigente prima della data di entrata in vigore della citata legge n. 190 del 2014;

b) i commi 160, 161 e 162 dell'articolo 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, sono abrogati;

c) al comma 163 dell'articolo 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208, le parole: «del Fondo di cui alla lettera b) del comma 160» sono sostituite dalle seguenti: «del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione istituito nello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze».  

Contributi per l’emittenza locale. Da mise.gov.it il 5 agosto 2021. Se stai cercando le graduatorie relative ai contributi per le radio e le tv locali, consulta la sezione dedicata. Il Regolamento DPR 146/2017 disciplina i criteri di riparto e le procedure di erogazione delle risorse finanziarie del Fondo per il pluralismo e l'innovazione dell'informazione assegnate al Ministero per la concessione dei contributi di sostegno alle emittenti televisive e radiofoniche locali. I contributi sono destinati all’emittenza locale (tv titolari di autorizzazioni, radio operanti in tecnica analogica e titolari di autorizzazioni per la fornitura di servizi radiofonici non operanti in tecnica analogica, emittenti a carattere comunitario) e vengono concessi sulla base di criteri che tengono conto del sostegno all’occupazione, dell’innovazione tecnologia e della qualità dei programmi e dell’informazione anche sulla base dei dati di ascolto. 

Requisiti di ammissione. I requisiti di ammissione al contributo tengono conto di un numero minimo di dipendenti e giornalisti in regola con i versamenti dei contributi previdenziali che l’emittente deve avere per il marchio e la regione per i quali presenta la domanda di accesso ai contributi. Ad ogni emittente che accede ai contributi verrà assegnato un punteggio in base al quale viene quantificato il contributo. 

Per le emittenti Tv. numero di dipendenti pari a 14 (di cui 4 giornalisti) dedicati alla fornitura di servizi media audiovisivi se il territorio in cui sono diffuse le trasmissioni nell’ambito di ciascuna regione per cui è stata presentata la domanda ha più di 5 mln abitanti. Numeri che scendono a 11 (di cui 3 giornalisti) se il territorio nell’ambito di ciascuna regione per cui è stata presentata la domanda ha tra 1,5 e 5 mln abitanti; a 8 ( di cui 2 giornalisti) se il territorio nell’ambito di ciascuna regione per cui è stata presentata la domanda ha fino a 1,5 mln abitanti; 

impegno a non trasmettere (per i soli marchi/palinsesti per i quali si è presentata domanda) programmi di televendita nelle fasce tra le 7 e le 24 superiori al 40% relativamente alla domanda per il 2018. Percentuale che scenderà al 30% relativamente alla domanda per il 2019 e 20% a partire dalla data di presentazione della domanda per l’anno 2020;

adesione ai codici di autoregolamentazione su televendite, tutela dei minori e avvenimenti sportivi; 

aver trasmesso nei marchi e palinsesti per cui presentano domanda, nell’anno solare precedente a quello della presentazione della domanda, almeno due edizioni giornaliere di Telegiornali con valenza locale (con decorrenza dalla domanda per l’anno 2019).

Regolarità nel pagamento dei contributi e diritti amministrativi dovuti dagli operatori di rete al Ministero.

È previsto un regime transitorio per le domande relative agli anni di contributo che vanno dal 2016 al 2018.               

Per le emittenti radiofoniche. Numero minimo di 2 dipendenti con almeno un giornalista;

È previsto un regime transitorio per le domande relative agli anni di contributo che vanno dal 2016 al 2018. 

Emittenti a carattere comunitario. Il 50% del finanziamento dedicato alle emittenti comunitarie sarà ripartito in parti uguali tra tutti i soggetti beneficiari ammessi; l’altro 50% sulla base dei criteri di merito riguardanti dipendenti e giornalisti. Usufruiranno dei contributi le emittenti televisive a carattere comunitario che si sono impegnate a trasmettere programmi di televendite per una durata giornaliera non superiore ai 90 minuti. 

Fondi alle Tv locali, si cambia. Giacomelli: “Fine dei contributi a pioggia”. Da corrierecomunicazioni.it - 24 marzo 2017. Contributi alle tv locali, si cambia. Più risorse, ma più vincoli. Per le “Pmi” italiane dell’emittenza 50 milioni aggiuntivi provenienti dal canone oltre ai 67 previsti per il 2017. Ma per accedere ai finanziamenti dovranno dimostrare di investire su occupazione, innovazione tecnologica e pluralismo dell’informazione. È quanto stabilisce lo schema di regolamento per l’erogazione dei contributi alle emittenti locali approvato oggi dal Consiglio dei ministri: manca il passaggio al Consiglio di Stato ed alle Commissioni parlamentari competenti prima dell’approvazione definitiva. “Quello approvato oggi è senza dubbio un regolamento molto innovativo e più selettivo rispetto al passato – il commento del sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle comunicazioni Antonello Giacomelli -. Superata l’erogazione a pioggia dei contributi. L’obiettivo del governo è destinare il sostegno dello Stato a chi davvero svolge la funzione di editore locale”. Soddisfazione delle Tv locali: Marco Rossignoli, coordinatore di Aeranti-Corallo che rappresenta 700 imprese del settore: “L’approvazione dello schema del nuovo Regolamento permetterà la ripresa degli interventi a sostegno del settore in un’ottica di stimolo dell’attività editoriale e di informazione sul territorio basata sulla qualità, realizzata mediante dipendenti e giornalisti e l’utilizzo di tecnologie innovative”. L’associazione chiede un’approvazione in tempi rapidi. Più risorse: la Legge di stabilità 2016 ha destinato parte delle risorse derivanti dal recupero dell’evasione sul canone fino a 100 milioni di euro per il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione, dei quali fino a 50 milioni per le emittenti radio televisive locali. Le somme si sommeranno a quelle già previste che ammontano a circa 67 milioni per il 2017. Contestualmente la legge di stabilità 2016 ha previsto di modificare le regole di riparto delle risorse con la definizione di un nuovo regolamento che tenesse conto di criteri selettivi di merito per l’erogazione dei contributi. Requisiti di ammissione: terranno conto di un numero minimo di dipendenti e giornalisti che l’emittente deve avere per poter accedere ai contributi, del rispetto di un tetto giornaliero di ore di televendite e di un numero minino telegiornali giornalieri locali.

Ripartizione: lo stanziamento totale annuale è ripartito in base ai seguenti criteri: l’80% in base al numero di dipendenti e tipologia dei dipendenti, assegnando punteggi diversi per esempio a giornalisti, pubblicisti, dipendenti full time o a tempo parziale, con una maggiorazione del 10% del punteggio per chi incrementa le assunzioni rispetto all’anno precedente. Il 10% per le emittenti televisive in base all’Auditel per premiare chi ha maggiori ascolti, per le radio sulla base dei ricavi dell’emittente per vendita di spazi pubblicitari ammissibili nell’anno precedente. Il 10% sulla base dei costi sostenuti per spese in tecnologie innovative. Prevista una maggiorazione del 15% del punteggio per le emittenti che operano nelle regioni del sud (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia. Si modifica anche il processo di erogazione: fine delle graduatorie regionali stilate dai Corecom, si prevede ora una singola graduatoria nazionale ed una procedura totalmente on line. Un meccanismo in grado di superare le attuali distorsioni dato che il meccanismo attuale prevede una procedura complessa che coinvolge i Corecom che hanno il compito di elaborare le graduatorie regionali delle emittenti e solo quando tutti i Corecom hanno approvato le graduatorie regionali il Ministero può approvare il Decreto di riparto dei contributi. Un passaggio che ha generato in passato ritardi derivanti anche da contenziosi ai TAR sulle singole graduatorie regionali, bloccando per mesi il processo di erogazione. “Ora si apre una fase di confronto – dice Giacomelli – che precede la definitiva approvazione del regolamento in cui si valuterà se il livello della proposta dei criteri di ammissione sia sufficiente a raccogliere le obiezioni finora sollevate dalla Corte dei conti e se per questa via si difenda con chiarezza il pluralismo dell’informazione con un sostegno alle realtà locali che realmente informano e innovano. Sul fronte delle risorse, si è passati da uno stanziamento di quasi 43 milioni nel 2015 ai circa 120 milioni del 2017 comprensivi dei 50 milioni di recupero dell’evasione del canone – conclude Giacomelli – Con il regolamento, a cui a breve di aggiungerà l’intervento sulla numerazione Lcn, si completa la riforma e si volta finalmente pagina: si mettono infatti le basi per superare la logica, peraltro discrezionale, dei contributi a tutti e per avviare un percorso che comporti un impegno di stabilizzazione da parte dello Stato nel sostegno alle emittenti locali di qualità’’.

Fabio Pavesi per ilfattoquotidiano.it il 18 agosto 2021. Il decennio che si è chiuso da poco passerà alla storia come il più grave dissesto dell’editoria italiana. Dieci anni in cui i giornali hanno visto un calo continuo e inarrestabile delle copie vendute nelle edicole, rimpiazzate solo in minima parte, quanto a ricavi, dalle edizioni digitali. È un cambio di paradigma drammatico che non potrà che accelerare in futuro, con la fruizione dei giornali che passa dalla copia fisica a quella consultabile sui dispositivi. Ma come tutte le transizioni da un modello di business all’altro, prima che il passaggio si completi lascerà dietro di sé una scia di distruzione creativa. Per ora si raccolgono solo i cocci della rivoluzione digitale per l’industria dei giornali. Ricavi a picco e perdite per 2 miliardi di euro – I ricavi da vendita, in media, per i più grandi gruppi quotati si sono più che dimezzati dal 2010 al 2020. A inizio decennio valevano 4,4 miliardi, a fine 2020 il fatturato si è fermato a soli 2 miliardi. Con i ricavi crollati era inevitabile continuare a segnare perdite. Nel decennio il sistema dell’informazione ha prodotto oltre 2 miliardi di passivo. Un’ecatombe mitigata, ma solo in minima parte, dalle centinaia di pre-pensionamenti e dal continuo ricorso agli ammortizzatori sociali per giornalisti e poligrafici e da un complessivo taglio dei costi, che poco hanno potuto nel frenare la caduta. Un bagno di sangue in cui, salvo pochissime eccezioni come vedremo, le aziende hanno inanellato perdite su perdite. Un excursus sui principali gruppi, tutti quotati, aiuta a comprendere la portata drammatica della crisi strutturale della stampa. Il giornale degli imprenditori fa peggio di tutti – Il gruppo che edita il primo giornale economico-finanziario del Paese, posseduto da Confindustria, è il campione indiscusso dell’incapacità imprenditoriale di fermare il declino. Dal 2009 (prima perdita di bilancio) ha chiuso in utile (per soli 7,5 milioni) un solo anno, il 2017. Per il resto è stata una via crucis. Un filo rosso di perdite che dal 2010 al 2020 hanno cumulato un passivo di oltre 300 milioni. Bruciate per quasi due volte tutte le risorse raccolte dalla quotazione del 2007. I ricavi, che valevano nel 2010 472 milioni di euro, a fine del 2020 si collocano sotto i 200 milioni. Una crisi che non ha mai trovato soluzione. Solo dal 2018 Il Sole24Ore ha ritrovato un margine industriale positivo, ma a livello dell’ultima riga di bilancio il rosso non è scomparso. Anche nei primi sei mesi del 2021, pur con il margine operativo lordo a 7,3 milioni su ricavi per 97 milioni, il gruppo ha chiuso ancora in perdita per 3,3 milioni. Nel mezzo della lunga crisi il giornale di Confindustria ha usufruito, come tutti, di tutte le tipologie di ammortizzatori sociali: dalla cassa integrazione, ai contratti di solidarietà ai prepensionamenti. E sempre in quegli anni ha dovuto affrontare lo scandalo delle copie digitali farlocche che hanno visto patteggiare il presidente e l’ad del gruppo e finire a processo l’ex direttore Roberto Napoletano. Rcs, la svolta nei conti con l’arrivo di Urbano Cairo – E’ una vicenda a due facce quella di Rcs, il gruppo che edita tra le altre cose il Corriere della Sera e la Gazzetta dello Sport. Un decennio diviso in due. Prima la gestione fallimentare degli azionisti dell’ex salotto buono che hanno visto cumulare perdite colossali. Dal 2010 al 2015 è andata in scena la più grave crisi del gruppo che edita il primo giornale italiano. Le perdite, continue, sono state di 1,3 miliardi con ricavi crollati da 2,2 miliardi a solo 1 miliardo e con una situazione debitoria finanziaria sempre più grave con debiti a oltre mezzo miliardo. La svolta è arrivata con la presa di possesso di Rcs da parte di Urbano Cairo nell’agosto del 2016. Da lì in poi ecco ritrovare l’utile. Il primo già a fine del 2016 per 3,5 milioni. Poi una progressione invidiabile – non senza, anche qui, prepensionamenti e cassa integrazione per i lavoratori – con una dote cumulata dal 2016 al 2020 di ben 260 milioni di profitti netti. Anche Rcs ha sofferto del calo dei ricavi, passati dai 940 milioni del 2016 ai 750 milioni del 2020. Ma nel 2021 c’è già stato un forte rimbalzo con un recupero di 100 milioni di ricavi e il gruppo si appresta a chiudere l’anno, secondo le stime, con un fatturato intorno agli 880 milioni. Con il balzo dei ricavi di quest’anno è tornata anche la marginalità lorda che ora è sopra il 15% dei ricavi e anche l’utile netto a 39 milioni solo nei primi 6 mesi del 2021. Al netto dell’affaire Blackstone e della relativa causa milionaria, Rcs è oggi, tra i grandi gruppi editoriali, quello con le performance di gran lunga migliori del settore. La parabola di Gedi, dal successo al crollo della gestione Agnelli – Rispetto a Rcs, Gedi, cioè l’ex gruppo L’Espresso Repubblica, oggi controllato all’89% dalla Exor della famiglia Agnelli e che ha assorbito sia La Stampa sia Il Secolo XIX, ha compiuto il percorso inverso. Nei primi anni del decennio era il gruppo editoriale più in salute. Tra il 2010 e il 2016 era riuscito a collezionare 160 milioni di utili, mentre Rcs perdeva oltre 1,3 miliardi. Poi l’inizio della crisi che ha ribaltato il quadro. Dal 2017 al 2020, complice la grave crisi di diffusione de La Repubblica, ma anche de La Stampa e Il Secolo, la società che era dei De Benedetti ha cumulato 450 milioni di perdite. Solo nel 2020, l’anno del passaggio da Cir alla famiglia Agnelli, le perdite sono state di ben 166 milioni. A pesare non solo il calo potente dei ricavi che nel decennio hanno perso 385 milioni, ma anche le pulizie sul valore delle testate. Solo tra il 2019 e il 2020 Repubblica è stata svalutata di oltre 130 milioni, portando il valore del brand da oltre 200 milioni a solo 80 milioni. Sorte analoga anche per la divisione Gnn che edita i giornali locali, oltre a La Stampa e Il Secolo XIX, svalutati solo nel 2020 di 48 milioni. E che anche la gestione industriale vada assai male lo dicono i conti. Alla Divisione Repubblica (il giornale più gli allegati più il settimanale L’Espresso) i costi superano i ricavi e il margine è negativo. Meglio la divisione Gnn (giornali locali più La Stampa e il Secolo) che ha un margine di 14 milioni su 206 milioni di ricavi, ma le svalutazioni hanno portato in rosso anche i conti di Gnn.  Tengono solo le radio pur con ricavi crollati da 64 milioni a 45 nell’ultimo anno con un utile operativo sceso a solo 1,2 milioni dai 15 milioni del 2019. Ora l’amministratore delegato Maurizio Scanavino chiede un taglio massiccio dei giornalisti a Repubblica e ha societarizzato i periodici tra cui L’Espresso, segno prodromico a una cessione o a una chiusura futura. Perdite da 400 milioni per le testate di Caltagirone – Una serie decennale di perdite per 394 milioni per il Caltagirone editore. I suoi giornali (Il Mattino, il Messaggero, il Gazzettino) che fatturavano 242 milioni nel 2010 ora fanno ricavi solo per 119 milioni. Non solo la crisi delle entrate ha prodotto le perdite, ma anche le continue svalutazioni delle testate del gruppo. Meno copie, meno ricavi, valore dei marchi che scende inesorabilmente. Monrif, il rosso è contenuto ma mancano le svalutazioni – Stesso film per Andrea Riffeser Monti, l’editore del Giorno, di Qn, e del Resto del Carlino, nonché presidente della Fieg, la Confindustria dei padroni dei giornali. I ricavi sono scesi da 252 milioni a solo 143 milioni nei dieci anni. Le perdite sono più basse rispetto a Caltagirone, solo 40 milioni, ma va anche detto che Riffeser ha fatto molte meno svalutazioni delle sue testate. Class, la finanza non paga – Il gruppo Class, che edita tra gli altri Milano Finanza e Mf, non è stato immune alla crisi dei giornali. Fatturava nel 2010 128 milioni, ora i ricavi sono scesi a 64 milioni. La striscia delle perdite dice che nel decennio sono state di 140 milioni. Non solo, ma la casa editrice ha dovuto rinegoziare più volte il debito con le banche. Seif sempre in utile, tranne che nel 2019 – Seif, editore de Il Fatto Quotidiano e Ilfattoquotidiano.it nati rispettivamente nel 2009 e 2010 prima della crisi dell’editoria italiana, ha chiuso sempre in utile nel decennio con la sola eccezione del 2019, anno della quotazione sul listino Aim (rosso di 1,49 milioni). Nel 2020 i ricavi sono saliti da 32 a 38 milioni con margine industriale a quota 5,2 milioni e un utile netto di 300mila euro.

Da primaonline.it il 29 giugno 2021. Come di consueto Il Post segue con attenzione la questione legata ai contributi pubblici diretti ai quotidiani distribuiti dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio. È stata infatti assegnata la prima delle due quote annuali di contributi pubblici diretti ai quotidiani che ne hanno fatto richiesta in base ai criteri stabiliti dalla legge. Criteri che, come scrive Il Post  – “in teoria dovrebbero sostenere i giornali pubblicati da cooperative di giornalisti, da enti non profit o destinati a minoranze linguistiche – insomma tutelare utili e bisognosi mezzi di informazione – mentre nella pratica sono per buona parte sfruttati con costruzioni formali da giornali con proprietà tradizionali oppure con ricavi già molto cospicui, attribuendo soldi pubblici a una concorrenza piuttosto sleale nei confronti delle altre testate, e senza che ne venga incentivata in nessun modo la qualità dell’informazione o un servizio pubblico. In nome di un’idea di “pluralismo” che si limita a finanziare qualunque testata si costituisca in modo da essere finanziata”.

Le quote maggiori delle nuove attribuzioni replicano sostanzialmente quelle dell’anno precedente. Eccole: 

Dolomiten 3.088.498,02 euro

Famiglia Cristiana 3.000.000 euro

Libero Quotidiano 2.703.559,99 euro

Avvenire 2.533.353,97 euro

Italia Oggi 2.031.266,98 euro

Il Quotidiano del Sud 1.848.080,44 euro

Il manifesto 1.537.625,76 euro

Corriere Romagna 1.109.178,49 euro

Cronacaqui.it 1.103.650,03 euro

Il Foglio 933.228,99 euro

Primorski dnevnik 833.334,04 euro

Il Cittadino 712.049,4 euro

Cronache di (Libra editrice) 629.978,39 euro

Quotidiano di Sicilia 524.703,62 euro

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LE MELE E LE PERE. Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 28 agosto 2021. (…) Càpita poi che il Fatto immortali una brigata di renziani che se la spassa a Formentera mentre tenta di scippare ai poveri i 500 euro al mese di reddito di cittadinanza al grido "dovete soffrire e sudare". La risposta degli scioperati è: "Anche Travaglio è stato a Formentera". Già, ma non è un parlamentare, non campa di soldi pubblici e soprattutto non ha mai dato lezioni di laboriosità a chi vive in miseria. Se non capiscono la differenza, gli facciamo un disegnino.

Brunella Bolloli per “Libero quotidiano” il 28 agosto 2021. Lucianone Nobili c'è cascato di nuovo. Si parla ancora delle sue vacanze. Il fedelissimo di Matteo Renzi è fatto così: è romano de Roma, è pieno di contatti, ha 43 anni ma almeno da venti bazzica le serate e gli eventi politico-mondani della Capitale prima con la Margherita, poi con il Pd, ora per Italia Viva con cui è stato eletto alla Camera. Domina il mezzo social neanche fosse un millennial ed è un twittatore seriale, anche in vacanza. Quest' anno, dopo le fatiche parlamentari, ha raggiunto gli amici qualche giorno a Formentera e tutto abbronzato si è fatto i selfie con la storica cumpa: lui, il collega senatore Francesco Bonifazi, Federico Lovadina (presidente di Sia, società controllata da Cassa depositi e prestiti), il coordinatore romano di Italia Viva, Marco Cappa, e il parlamentare azzurro Andrea Ruggieri, compagno di Anna Falchi. Una Band of brothers, come recita l'hashtag della loro estate 2021, che non è certo sfuggita a quegli stakanovisti francescani del Fatto quotidiano, i quali hanno visto su Instagram le foto della combriccola gaudente al mare e sono inorriditi: non si fa! I giornalisti cari ai grillini, in assenza di altre notizie, hanno quindi deciso di confezionare un paginone tra lo sfottò e l'indignato per dire che non è giusto, quelli di Italia Viva se la spassano troppo sulle spalle della povera gente a cui vorrebbero togliere il reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia pentastellato. «Il nuovo Giglio magico combatte la povertà a modo suo», si legge nel titolo nel pezzo di Tommaso Rodano, che riporta anche una frase estrapolata del leader di Iv sullo stop ai sussidi e la gente che «deve soffrire». Il Fatto, in sintesi, parte dal presupposto che poiché Renzi è contro il reddito di cittadinanza, allora i suoi parlamentari non hanno diritto ad andare in ferie. O, se proprio devono farlo, meglio si rintanino in qualche eremo lontano dalla folla, dai ristoranti, dalle spiagge dorate e dal mare incantato delle Baleari. Piuttosto si portino la sedia di plastica da casa e il mangiare al sacco. Nobili, neanche a dirlo, è il bersaglio preferito del giornale diretto da Marco Travaglio, forse perché è vicinissimo al "nemico" Matteo Renzi, per il quale sarebbe disposto perfino a immolarsi o a giurare sul suo scranno che Iv è il primo partito o che l'assemblea on line è stata partecipata all'inverosimile, o forse perché è uno che ama comunicare in modo appassionato, senza tanti giri di parole, e quando lo fa gli riesce così bene che spesso spiazza l'avversario. Ad esempio, in risposta all'attacco dell'altro giorno, vedendosi le sue foto in primo piano con la maglietta provocatoria (Politics is like sex...), gli scatti in relax con gli amiconi «un po' tardo adolescenti romantici, un po' vitelloni italiani alla conquista delle Baleari», li sbeffeggia il giornale citando «Bonifazi languido in camicia di lino e lenti scure»; leggendo l'ironia sul video che li ritrae con l'attore spagnolo che interpreta Arturito nella Casa di carta mentre canta "O partigiano, portami viaaa, o Bella Ciao, ciaoooo", ecco Luciano avrebbe potuto tacere e lasciare cadere la cosa. Invece, dal suo personalissimo archivio mentale di elefantiaca memoria, il renziano ha risposto, al solito, con un tweet. Su Travaglio al mare. Proprio a Formentera. Travolto da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto (o forse era settembre) del 2018. Il direttore che fa la morale a tutti, come mostrano le foto pubblicate allora da Chi, era, in t-shirt e pantaloncini con telo sulla spalla e aria rilassata nella stessa isola dei vipponi che piace alla Roma godona, ma evidentemente perfino a lui. E Nobili l'ha asfaltato: «Oggi il #FattoQuotidiano mi attacca perché ho trascorso dei giorni a Formentera con i miei amici. Non capisco perché: ho visitato, per la prima volta, un'isola dove #Travaglio e i suoi amici sono habitué. Dov' è il problema?», ha cinguettato l'ex portavoce di Gentiloni. Qualche anonimo commentatore sui social ha obiettato che «Travaglio è un giornalista e si paga le ferie, tu sei un deputato e te le paghiamo noi». Insomma, la solita, odiatissima, casta. «Ma non è assolutamente vero!», replica l'esponente renziano già l'anno scorso nel mirino per una foto con la Boschi e altri in motoscafo, «è una polemica ridicola. Chi è eletto in Parlamento non dovrebbe andare in vacanza? Il Fatto da sempre si diverte a prendere di mira Italia Viva e io ricevo anche minacce di morte sui social da qualche fanatico, ma non sto qui a lamentarmi, anche se tra un po' dovrò cominciare a querelare. In quanto al reddito di cittadinanza», spiega, «noi non abbiamo mai nascosto di volerlo cambiare. I Cinquestelle dicono di avere abolito la povertà, ma lo sanno anche loro che non è vero. Renzi da premier con il reddito di inclusione aveva decuplicato i fondi per la povertà, mentre il contributo dei grillini è irrisorio. Gli scatti al mare? Dopo Ferragosto ho raggiunto i miei amici che avevano preso in affitto una casa a Formentera. Nessuna donna con noi, ci conosciamo da anni, volevamo stare al mare, se avessimo voluto andare in giro a fare le seratone, sceglievamo Ibiza. Trovo assurda tutta questa storia, alimentata da odiatori che però prima di attaccare dovrebbero pensare. Ormai noi di Iv siamo abituati al livore di una parte politica: se avessero trovato 24mila euro nel giardino di Renzi, anziché nella cuccia del cane della Cirinnà, avrebbero fatto partire un mandato di cattura internazionale. Io, poi, non ero mai stato prima in quest' isola, a differenza di Travaglio che invece potrebbe scrivere una guida sui ristoranti e i locali del posto, visto che la conosce meglio di me».

Soldi pubblici, ecco la furbata del “Secolo”. È la stampa, bellezza? Dal 2017 la legge esclude contributi ai quotidiani di partito. Ma lo statuto è stato “pulito” cancellando “organo politico di AN” Così è tutto “a posto”…Marco Lillo su Il Fatto Quotidiano il 31 agosto 2021. Una legge del 2017 approvata ai tempi di Renzi e Gentiloni, vieta allo Stato di dare soldi ai giornali dei movimenti politici. Il Secolo d’Italia, che ha nel suo organico come giornalista in aspettativa parlamentare Giorgia Meloni, ha continuato a incassare il contributo anche se è edito da una società che nel suo statuto fino […]

Dal “Fatto” un dossieraggio inconsistente sul “Secolo”. La nostra colpa? Non essere di sinistra. Girolamo Fragalà martedì 31 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Siamo sorpresi dalle pagine dedicate al nostro giornale dal Fatto Quotidiano (“Soldi pubblici, ecco la furbata del Secolo”). Si tratta di un inconsistente dossieraggio costruito con l’unico intento di gettare ombre sul nostro quotidiano, che di certo non è un organo di partito ma ha forse il torto di non essere un giornale di sinistra. E quel che ci sembra ancora più inaccettabile è che il dossieraggio venga da parte di colleghi. Il Secolo d’Italia è una testata storica, che dal 1952 informa gli elettori di destra con puntualità, correttezza, competenza e autorevolezza. La redazione, da sempre, ha lavorato con impegno, si sono susseguite tante firme importanti e i giornalisti hanno dimostrato, in qualsiasi occasione, la loro professionalità. Del resto, come si evince dagli articoli, il Fatto riconosce che tutto è conforme alle normative vigenti, che non c’è nessuna ombra e che quindi la regolarità contraddistingue il Secolo d’Italia. C’è da sottolineare che in tutta Europa i governi finanziano il pluralismo dell’informazione con risorse molto più ingenti rispetto a quelle che sono garantite in Italia, riconoscendolo come un valore imprescindibile della democrazia. E questo è un elemento su cui si dovrebbe riflettere, perché la libertà d’informazione è un patrimonio al quale nessuno Stato democratico può rinunciare. Le risorse, peraltro, sono fondamentali per chi, come noi, non fa un’informazione sensazionalistica, perché il sensazionalismo porta vendite ma il Secolo ha come priorità quella di diffondere tesi e idee, ragion per cui ha bisogno del sostegno pubblico.

“Il Fatto Quotidiano non riceve contributi pubblici”… ma poi ottiene un prestito garantito di 2milioni e mezzo. Il Corriere del Giorno il 13 Giugno 2020. Provate ad essere un imprenditore con un bilancio in perdita per 1,492 milioni (questo il risultato del bilancio 2019 della società Editoriale il Fatto ) e con i vostri ricavi caratteristici derivanti dalle vendite crollati nello stesso anno di un milione e mezzo di euro, in un settore non proprio florido come quello dell’editoria, e sopratutto immaginatevi essendo in analoghe condizioni del Fatto di recarvi dal direttore dalla vostra banca e di chiedere un prestito di 2,5 milioni garantito: che risposta potreste ricevere? ROMA – Il quotidiano diretto da Marco Travaglio ha ottenuto ieri un finanziamento erogato da Unicredit, dell’importo di 2 milioni e mezzo di euro con garanzia pubblica quasi totale (al 90%) . Sarà il Fondo di Garanzia a concederla grazie agli ultimi decreti del premier Conte il governo dovrà rifinanziare, secondo notizie di queste ultime ore, aumentando il deficit per poter fare operazioni, appunto come quelle appena deliberate. Nel comunicato, che prima incredibilmente prevedeva l’intervento di Cassa Depositi e Prestiti si precisa: “Il contratto di finanziamento prevede il rimborso in n. 60 mesi, inclusivo di un preammortamento di 12 mesi, ad un tasso variabile in linea con gli standard di mercato. Il finanziamento è assistito dalla garanzia concessa dal Fondo Centrale di Garanzia pari al 90% dell’importo”. Quel famoso slogan su cui Travaglio & compagnucci vari hanno marciato per anni, “non riceviamo aiuti pubblici”, adesso non potrà più comparire sulla testata del Fatto Quotidiano, perchè altrimenti sarebbe pubblicità ingannevole, a dire poco… Cosa è la garanzia dello Stato, per la società editrice de Il  Fatto Quotidiano , se non un “chip” messo dal Governo con i soldi dei contribuenti per rendere più garantito un prestito bancario altrimenti inesigibile ? Sarebbe molto interessante conoscere il tasso di interesse, applicato da Unicredit che il comunicato indica allineato a quelli di mercato, giusto per poter fare un raffronto con quanto avviene per l’universo mondo delle imprese. Legittimo porsi una domanda molto semplice. Provate ad essere un imprenditore con un bilancio in perdita per 1,492 milioni (questo il risultato del bilancio 2019 della società Editoriale il Fatto ) e con i vostri ricavi caratteristici derivanti dalle vendite crollati nello stesso anno di un milione e mezzo di euro, in un settore non proprio florido come quello dell’editoria, e sopratutto immaginatevi essendo in analoghe condizioni del Fatto di recarvi dal direttore dalla vostra banca e di chiedere un prestito di 2,5 milioni garantito: che risposta potreste ricevere? Ma se vi illudete che il Fatto Quotidiano sia un giornale realmente indipendente infine immaginate di essere voi per una volta al posto di Marco Travaglio e dover commentare il fatto che il giornale oggi più “vicino” al Governo Conte (M5S-Pd -LeU) , ottiene un bel prestito, nonostante i conti societari in profondo rosso, e per di più garantito dal Governo stesso attraverso la longa manu dal Ministero dello Sviluppo economico, retto dal ministro “grillino” Stefano Patuanelli. Cioè da un esponente di quel Movimento 5 Stelle che da sempre vuole togliere i contributi di Legge sull’ Editoria!

Stampa e regime. Maxi-finanziamento al Fatto Quotidiano, tre domande a Marco Travaglio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Giugno 2020. Marco Travaglio ieri ha iniziato il suo editoriale sul Fatto Quotidiano con una autocritica giusta ma feroce. Ha scritto: «Fermo restando che certe cartacce buone per avvolgere il pesce, comunemente definite “quotidiani”, sono un po’ meno attendibili di “Tiramolla…». Apprezzo il coraggio dell’autodenuncia, anche se giudico i toni che usa, come al solito, eccessivamente crudi e (auto)aggressivi. Il problema che pone, tuttavia è sacrosanto. Basta dare un’occhiata, seppur di sfuggita, alle campagne condotte dal Fatto contro Berlusconi, o Renzi, o il Pd (campagna improvvisamente sospesa nello scorso agosto), o Salvini, o le Ong, o i migranti che prendono i taxi del mare, o le regioni del Nord. Dopo questo attacco bruciante del suo articolo, però, Travaglio cambia improvvisamente argomento e presenta una complicata autodifesa sulla vicenda del prestito chiesto e ottenuto dal suo giornale con la garanzia di Stato. E protesta in particolare per come la notizia è stata riportata dal nostro giornale. Che lui definisce, polemicamente, il giornale dell’imputato Romeo e dell’impunito Sansonetti. È vero che Romeo è imputato (anche se è uno dei pochissimi editori di giornale del tutto incensurato) come del resto sono imputato anche io e lo è anche Travaglio. E non posso neanche lamentarmi per il fatto che lui, quando parla del Riformista, gli storpia il nome (lo chiama “il Riformatorio”) e cita sempre l’editore. Anche io del resto spesso cito l’editore di Travaglio (Davigo e il partito dei Pm) anche se non storpio mai il nome del Fatto (ma questo solo perché ho avuto dei genitori che tenevano moltissimo alla buona educazione). Veniamo al dunque. Travaglio è indignato perché – dice – il prestito di due milioni e mezzo (capperi!!) ottenuto da Unicredit, non è un aiuto di Stato. È solo un semplicissimo prestito che viene concesso per investimenti, sulla base di una legge del 1996, e che è garantito non dal governo ma da Medio Credito Centrale. Ok.

IL FATTO SI “ARRENDE” AI CONTRIBUTI PUBBLICI ALL’EDITORIA. Di Massimo De Bellis su editoriatv il 10 Luglio 2012. Era nato come il paladino della vera informazione, del giornalismo d’inchiesta, delle notizie date solo ed esclusivamente per informare, liberi da ogni freno, editori indipendenti. La forza del Fatto Quotidiano era da sempre stata quella dell’indipendenza, anche dai contributi pubblici all’editoria. Fonte di sostentamento per tante testate locali che altrimenti non potrebbero sopravvivere al calo dei lettori e alla mancanza di investimenti pubblicitari, i contributi pubblici all’editoria erano stati additati dalla redazione de Il Fatto come una fonte di “servilismo” nei confronti del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri. «Alcuni giornali imbottiti di soldi pubblici si sono adontati perchè abbiamo fatto notare la coincidenza del loro silenzio su Malinconico che li aveva appena imbottiti di soldi pubblici: ma, se la coincidenza non la fa notare l’unico giornale che rifiuta i finanziamenti pubblici, chi altri la farò notare?», scriveva Travaglio in occasione dello scandalo che portò alle dimissioni di Carlo Malinconico dalla nomina a sottosegretario con delega all’editoria. La questione aveva fatto nascere una diatriba tra il Fatto Quotidiano, la Repubblica e il Manifesto. Il Fatto attaccava i giornali che usufruiscono del finanziamento pubblico, accusandoli di aver dato la notizia dello scandalo che investiva il sottosegretario Malinconico mentre il Manifesto rispondeva ricordando che l’attuale direttore del Fatto Antonio Padellaro, quando era alla guida de l’Unità, firmò nell’agosto del 2006 insieme ai direttori di Europa, Liberazione, Secolo d’Italia e Padania, un appello in difesa proprio del finanziamento pubblico ai giornali. «In Italia esiste la tradizione dei quotidiani di partito. Questi giornali hanno avuto, e hanno, una funzione molto importante», si leggeva nell’appello di Padellaro. «Rappresentano la pluralità delle informazioni e delle opinioni in un mercato editoriale assai ristretto e controllato da pochi gruppi». «I giornali di partito – continuava Padellaro – sono uno strumento fondamentale di dibattito, di informazione e di lotta politica. Un pezzo importante del nostro sistema democratico. Oggi i giornali di partito sono in forti difficoltà economiche. Soprattutto perché sono tagliati fuori quasi completamente dagli investimenti pubblicitari. Vi forniamo questo dato: i grandi giornali di informazione ricevono 1 euro dalla pubblicità per ogni euro ottenuto dalle vendite. Giornali come ‘Liberazione’ o ‘II Secolo d’Italia’ ottengono per ogni euro di incassi da vendite circa 3 centesimi di pubblicità. Si vede bene che c’è una disparità insopportabile e per sanare questa disparità occorre il finanziamento pubblico dei giornali di partito. Se si rinuncia al finanziamento pubblico si rinuncia a una parte fondamentale della libertà di informazione». «Il successo del Fatto è nell’indipendenza che gli permette di fare ciò che gli altri non hanno il coraggio di fare» aveva ribadito Peter Gomez, azionista e fondatore della casa editrice, in un’intervista a Italia Oggi del 14 febbraio scorso. Paradossalmente, la motivazione che giustifica i finanziamenti ai giornali è stata “confermata” proprio dalle ultime scelte editoriali del giornale di Padellaro che ha dovuto fare i conti con le leggi del mercato e chiudere un occhio su ciò che poteva essere interessante e altamente informativo ma poco remunerativo. Così la società per azioni de Il Fatto ha detto addio al supplemento culturale ‘Saturno’: le otto pagine settimanali di libri, arti, cinema, scienze, dal punto di vista delle vendite non hanno mai dato molte soddisfazioni, a fronte di un budget non esagerato ma neppure minimo (si parla di un costo di circa 10mila euro a numero, per un totale di 500 mila euro l’anno), non si è registrato un aumento di copie vendute al venerdì, giorno di uscita dell’allegato culturale, e neppure una significativa raccolta pubblicitaria. In un articolo di Italia Oggi si legge che il quotidiano di Padellaro, che come sottotitolo mantiene la frase “Non riceve nessun finanziamento pubblico”, ha presentato domanda per beneficiare del credito d’imposta al 10% sull’acquisto della carta. Dobbiamo preoccuparci? Non stiamo forse perdendo l’ultima voce libera d’Italia? Massimo De Bellis

Il Fatto Quotidiano “non riceve alcun finanziamento pubblico”. Non è un fatto, ma una teoria. Di  Redazione CCE il 29 Dicembre 2020. Il direttore de “Il Fatto quotidiano”, Marco Travaglio continua a decantare l’unicità del suo giornale nel panorama informativo italiano. Offendendo, come fa spesso, il resto dell’informazione perché ingessata, perché lontana dai cittadini, perché, alla fine, corrotta. Racconta, giustamente, i successi editoriali de Il Fatto quotidiano. Che, oggettivamente, sin dall’esordio in edicola si è dimostrato un’anomalia nel contesto dell’editoria italiana per la capacità di vendere le copie, di sviluppare un modello di business particolare e, cosa unica nell’asfittica situazione dell’editoria italiana, di garantire importanti dividendi ai soci. Ma in realtà un appunto a Il Fatto quotidiano si può muovere: sarebbe arrivato il momento di levare dalla testata quella storica frase “Non riceve alcun finanziamento pubblico”. Non era vero all’inizio, in quanto Il Fatto quotidiano beneficiò da subito dei contributi alla carta, ma per trovarne traccia bisognava andarsi a leggere i bilanci. Oggi, anche grazie alle battaglie de Il Fatto quotidiano per la trasparenza dei contributi pubblici i numeri sono on line, reperibili da tutti. E facendo come fanno i bravi giornalisti de Il Fatto, andando, semplicemente, sul sito del Registro Nazionale degli aiuti di Stato, ecco che Il Fatto quotidiano si appresta a percepire 72.057,90 euro per il credito d’imposta sui servizi digitali, ha ricevuto una garanzia pubblica, classificata come aiuto di Stato, per euro 2.534.612,98 per il finanziamento per i danni del Covid19, un’esenzione fiscale di euro 500.000 per le attività di consulenza per la quotazione in borsa e pochi spiccioli per l’assunzione di un dipendente disabile. Tutto legittimo e tutto giusto. Ma quella dizione “Non riceve alcun finanziamento pubblico” non corrisponde ai fatti. Sarebbe più corretto scrivere: “Non riceve alcuni tipi di finanziamento pubblico”. 

Fiorina Capozzi e Fabio Pavesi per ilfattoquotidiano.it il 7 luglio 2021. Contributi con aliquote ridotte rispetto a quelle dell’Inps (con un risparmio per gli editori da 900 milioni), mancate riscossioni per 270 milioni e 170 milioni di crediti contributivi persi nel nulla. I mali dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti privatizzato dal ’95, vengono da lontano. E mentre gli editori ringraziano per anni di regali e chiedono nuovi prepensionamenti, i collaboratori e i liberi professionisti della gestione separata rischiano di essere espropriati di parte del patrimonio dell’Inpgi2. Senza peraltro riuscire a mutare le sorti dell’Istituto, il cui consiglio di amministrazione ha appena varato a maggioranza una manovra da poche decine di milioni per evitare il commissariamento. Come se non bastasse lo stesso consiglio ha anche approvato la realizzazione di un’operazione immobiliare, che modifica il patrimonio dei lavoratori più precari a vantaggio dei giornalisti contrattualizzati e dei pensionati. Così sostiene un’interrogazione parlamentare dello scorso 17 giugno 2021 che parla dell’ “ennesima manovra non risolutiva, che rischia di compromettere anche le casse in salute dell’Inpgi 2, operazione che dovrebbe realizzarsi con il passaggio di immobili dal fondo “Giovanni Amendola” a un fondo separato e trasformato in SICAF”. Ma di che cosa si tratta esattamente? Per comprendere la storia bisogna fare un passo indietro. “Per tamponare le perdite, a partire dal 2013, l’Inpgi ha progressivamente trasferito la proprietà degli immobili al fondo immobiliare “Giovanni Amendola”, di cui l’Inpgi è l’unico azionista – chiarisce lo stesso documento – Si è deciso di mettere in atto una rivalutazione del patrimonio immobiliare, un escamotage per usare le plusvalenze, fittizie, per coprire le perdite della gestione previdenziale. In parallelo è cominciata la vendita dello stesso patrimonio immobiliare, finalizzata a coprire un disavanzo (…). Non sempre la gestione di questi è stata trasparente e vantaggiosa per l’Inpgi”. Fin qui il passato recente. Ora che la crisi si è acuita, il consiglio dell’ente previdenziale ha deciso di trasferire alcuni immobili del fondo Amendola a quello ex Hines trasformato in Società di investimento a capitale fisso. L’Inpgi2 dovrebbe quindi acquistare una quota (51%) di questo veicolo e provvedere poi anche ad effettuare investimenti per riqualificare il patrimonio immobiliare, rendendolo più appetibile alla vendita. All’Inpgi 1 resterebbe il 49% della SICAF. Il punto dolente è l’esborso chiesto all’Inpgi2 per acquistare la maggioranza della società. Una cifra che sarà definita da una perizia indipendente sugli immobili confluiti nella SICAF. Il problema è il valore attribuito agli immobili: se dovesse risultare inferiore a quello di costituzione del fondo Amendola, richiederebbe una svalutazione che provocherebbe non pochi problemi all’Inpgi1, che già naviga in brutte acque a differenza dell’Inpgi2. Inoltre non si capisce per quale ragione la cassa dei professionisti e dei collaboratori non possa investire in attività diverse che non siano già di proprietà dell’Inpgi1 che peraltro le ha anche già messe in vendita senza successo.  “In pratica, i soldi dei giornalisti collaboratori andrebbero a “finanziare” le esigenze di cassa della gestione dei giornalisti dipendenti – riprende l’interrogazione – (…) In questo modo, sostengono i fautori della proposta, si metterebbe “a fattor comune” le risorse delle due gestioni (immobili di pregio e liquidità) per la valorizzazione e la massimizzazione dei risultati ottenibili. Tutto questo, appunto, “attraverso "un patto" tra le due Gestioni”, che non è detto sia ben visto da collaboratori e liberi professionisti. Si tratta in sintesi di una toppa che rischia di essere peggiore del buco. Con di fatto l’utilizzo del patrimonio positivo di Inpgi2 a salvaguardare i bilanci scassati di Inpgi1. Peraltro in un contesto in cui ancora gli editori reclamano nuovi prepensionamenti. Anche a dispetto del fatto che per decenni hanno goduto di un trattamento di maggior favore rispetto alla generalità dei lavoratori dipendenti iscritti all’Inps. Un grande regalo, che cumulato nel tempo, ha fatto risparmiare agli editori italiani qualcosa come 900 milioni di euro che non sono entrati nelle casse dell’istituto. I vertici della cassa dei giornalisti (l’unico ente privatizzato tra le casse professionali che assicura lavoratori dipendenti) hanno fatto pagare aliquote contributive per le pensioni di circa 4 punti percentuali in meno rispetto al regime previdenziale dell’Inps. E questo è durato dalla privatizzazione fino al 2012 quando i primi scricchioli sulla tenuta dei conti si palesavano, solo allora è stato deciso di allineare la contribuzione degli editori a quella del sistema Inps. Quei 4 punti percentuali di fatto regalati ai datori di lavoro valevano ogni anno la bellezza di circa 50 milioni di euro. Calcolati su un imponibile previdenziale delle retribuzioni dei giornalisti dipendenti che è passato da 1,5 miliardi degli anni d’oro a poco più di 1 miliardo post-crisi. Un peccato originale grave che segnala la miopia di chi ha gestito l’Inpgi fin dalla privatizzazione e che ha fatto mancare all’istituto di risorse fondamentali. Oggi quei denari, se fossero stati incassati, come avvenuto per la totalità dei lavoratori dipendenti iscritti all’Inps, servirebbero eccome a rimandare il crac patrimoniale dell’ente di previdenza dei giornalisti. Ma oltre al “regalo” della contribuzione di favore agli editori, gli stessi hanno finito, non di rado, anche per non versare quanto dovuto. Nel bilancio dell’Inpgi c’è un monte contributi non riscossi dai datori di lavoro che supera i 270 milioni di euro. Un livello che si trascina inalterato da anni. Già nel 2011 il monte contributi evasi o meglio in sofferenza era di 274 milioni di euro. Come si vede da allora nulla è successo. L’ente si trascina da un decennio una montagna di contributi non pagati senza fare quasi alcunché. I tassi di recupero, come rileva ogni anno la Corte dei Conti, sono risibili. Pochi milioni l’anno. E così ogni anno l’ente deve svalutare i crediti in sofferenza di decine di milioni. Nel bilancio dell’Inpgi c’è tuttora un fondo svalutazione di un centinaio di milioni. Una cinquantina di milioni sono incassi che maturano l’anno successivo e un’altra cinquantina sono di aziende nel frattempo fallite. Restano però circa 170 milioni di crediti contributivi persi per strada che oggi servirebbero come oro per i bilanci scassati dell’istituto che ha un saldo negativo sulla sola gestione previdenziale di 200 milioni. L’altro grande “regalo” l’Inpgi, che soffre anche la crisi dell’editoria e la fuoriuscita massiccia di giornalisti dipendenti dal lavoro oltre all’aumento vertiginoso delle nuove pensioni, l’ha fatto proprio ai giornalisti. Per decenni, fino alle ultime riforme recenti che hanno allineato le aliquote di contribuzione e di rendimento all’Inps, l’aliquota di rendimento è stata del 2,66% su ogni anno di lavoro, contro al 2% in vigore all’Inps. Vuol dire, se guardato in retrospettiva, che la pensione dei giornalisti era più remunerativa del 30% rispetto alla previdenza pubblica. Pensioni più ricche per decenni, tanto che l’Inpgi tra tutte le casse privatizzate vantava il rapporto più alto tra retribuzione media e pensione media. Contribuzione degli editori basse e rendimenti più elevati delle pensioni hanno tenuto finché l’editoria tirava. A partire dal 2010-2011 quando la crisi ha iniziato a mordere, tutti i nodi sono venuti al pettine in un colpo solo. La grave crisi dell’editoria ha solo dato il colpo di grazia a un equilibrio dei conti precario, in cui la forbice tra entrate e uscite era di fatto già sbilanciata. Ora, dopo le due riforme fatte nel 2011 e nel 2017 che non hanno di fatto arginato il buco nei conti, l’Inpgi, insiste per portare nel suo alveo i cosiddetti comunicatori, allargando così la base contributiva, si affida insomma all’ennesima “riformicchia”. A regime consentirà un risparmio nel saldo entrate/uscite di appena 20 milioni. Ovvero solo il 10% del buco previdenziale. Una soluzione che peraltro viene è rigettata al mittente dagli stessi comunicatori che dovrebbero abbandonare la previdenza pubblica per quella “privata” con tutti i rischi che comporta. Tanto più che ormai le aliquote di rendimento sono allineate a quelle dell’Inps. L’unica soluzione realistica sarebbe quella di ammettere che l’istituto autonomo non ha più da tempo sostenibilità finanziaria e, come è stato per altri enti privatizzati, rientrare nell’alveo pubblico. Ipotesi contro cui si scagliano con veemenza i vertici dell’istituto e il sindacato che gridano all’attentato alla libertà di informazione e all’indipendenza dei giornalisti. Cosa abbia a che fare la buona stampa libera con i flussi di cassa delle pensioni è difficile da comprendere.

Dagospia il 6 settembre 2021. Dal profilo Facebook di Pha Bioh. Ieri è stata pubblicata su Repubblica una mia lettera a Francesco Merlo in cui, col mio nome anagrammato e fingendomi un grafico di un imprecisata azienda invece che un ex giornalista di Repubblica, ho raccontato la vicenda lavorativa che mi ha visto coinvolto 3 anni fa. Sono contento che Francesco Merlo, che son sicuro mi perdonerà le petit jeu, abbia definito, anche se inconsapevolmente, le modalità di impiego dell'azienda per cui io lavoravo e per quale lui tuttora lavora "trucchi da precariato eterno".

Da “la Repubblica” il 6 settembre 2021. Caro Merlo, sono un grafico di 37 anni. Negli ultimi sei anni ho lavorato quotidianamente ed esclusivamente per la stessa azienda. Ora, invece del contratto da dipendente, mi è stato chiesto di firmare un foglio in cui dichiaro di essere un fornitore esterno, rinunciando a qualsiasi diritto acquisito. Non so cosa fare: firmare e continuare a lavorare da finta partita Iva o dire basta a questo sfruttamento cercandomi un altro lavoro, magari per la consegna del cibo a domicilio? Tobia Bufera - Vicenza

Si partì con la flessibilità, che avrebbe reso moderno il mercato del lavoro, e si è arrivati ai trucchi del precariato eterno. Aspetti però di trovare di meglio delle consegne a domicilio prima di andarsene al grido di "Ccà nisciuno è flesso".

Francesco Curridori per ilgiornale.it il 15 giugno 2021. Giuseppe Conte, una volta risolto il contenzioso con Davide Casaleggio, ha scelto la trasmissione della domenica pomeriggio condotta da Lucia Annunziata per delineare i contorni del nuovo M5S che si appresta a guidare. Una scelta che ha lasciato un po' di stucco un osservatore attento come Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, che a ilGiornale.it fa notare: “Con l’ospitata di Conte a Mezz’ora in più direi che il caso Annunziata, che aveva avanzato una richiesta di audizione in Vigilanza, possa dirsi risolto”. Lo scorso 23 maggio, infatti, la conduttrice del programma aveva dovuto leggere una lunga lettera in cui l'ex premier le contestava l’accostamento fra la vicenda delle consulenze per la compravendita di un albergo a Venezia prima di arrivare a Palazzo Chigi, e il caso dell’esponente della Lega, Claudio Durigon. “Chiederò al presidente Barachini di rigettare l’ipotesi di ascoltare la conduttrice, visto che il caso si è risolto alla “volemose bene”: dall’arrogante minaccia di querela del leader M5s siamo passati all’intervista senza affrontare neanche di striscio il casus belli, le ricche parcelle ricevute da Conte da un imprenditore bancarottiere. Davvero imbarazzante. È la conferma che è più attuale che mai la necessità di fare luce sul Metodo Casalino”, anticipa Anzaldi che si chiede: “Quindi è stata tutta una sceneggiata?”. Il deputato renziano si dice convinto che sia ancora più urgente “che la commissione di Vigilanza si occupi del Sistema Casalino, alla luce del suo ritorno con tanto di doppio stipendio da Camera e Senato”. E, proprio sul doppio stipendio dell'ex portavoce di Palazzo Chigi, non si fermano le polemiche sia dentro sia fuori il M5S. Un fuoriuscito come il deputato Pino Cabras è convinto che, dietro l'intervista 'alla volemose bene' ci sia, ovviamente, lo zampino di Rocco Casalino e, in merito al suo compenso, polemicamente dice: “Ho l'impressione che, per convincere il sistema politico a tagliare i costi della politica, hanno dovuto stipendiare dei costosi consulenti e, quindi, la politica ritorna ad essere cara”. Dentro i Cinquestelle c'è chi difende la scelta della doppia retribuzione per l'ex gieffino e chiarisce: “Il fatto che uno abbia una retribuzione divisa tra i gruppi non significa avere il doppio stipendio e che i due gruppi, per ragioni amministrative, si dividano i costi è una cosa assolutamente normale”. Casalino, fanno notare dentro il M5S, “non è l'unico ad avere lo stipendio spalmato così. Anzi, l'intero staff social di Salvini prima era assunto al Viminale e, oggi Morisi è assunto nel gruppo del Senato”. E chiosano: “Si sa che i partiti non hanno molti soldi e sono i gruppi a guidare l'attività politica e, quindi, anche il personale sta perlopiù ai gruppi”. Non tutti, però, sono così magnanimi con il 'nuovo dipendente' del Movimento. “Quel che ci domandiamo è: 'Noi diamo tutti questi soldi a Casalino, ma lui per chi lavora?' Ed è chiaro che lavorerà per Conte, non per i parlamentari”, ci dice un deputato alla seconda legislatura che ci chiede di mantenere l'anonimato. “Integriamo Casalino nello staff perché ci viene chiesto di dare una mano e non c'è alcun problema sulla legittimità dell'assunzione, ma si sa che Rocco è una figura ingombrante...”. E, soprattutto, molto esosa. Tanto esosa che “hanno spalmato il suo stipendio per evitare che prendesse più di un dipendente apicale altrimenti il capo della comunicazione della Camera avrebbe potuto far causa al M5S”. Un capo, in quanto tale, non può prendere meno di un collaboratore. Insomma, “è stato trovato un cavillo, ossia dividere il costo dello stipendio di Casalino tra Camera e Senato, per evitare questo tipo di problema”. “Se, però, si uniscono i due stipendi è chiaro che, di fatto, Casalino prende di più degli apicali...”, concludono maliziosamente i suoi detrattori che confermano come il M5S sia incappato nell'ennesima contraddizione: i costi della politica devono essere bassi, ma per gli amici del M5S si può sempre fare un'eccezione...

Enrico Paoli per "Libero quotidiano" il 25 maggio 2021. Lucia Annunziata, conduttrice del programma di Rai Tre In mezz' ora in più, la si può criticare per tante ragioni. Ma non la si può certo accusare, come ha fatto l' ex premier, Giuseppe Conte, di travisare la realtà. Durante la puntata di domenica scorsa la giornalista ha letto una lettera inviatale dall' ex capo del governo con la quale respinge l' accostamento fra la vicenda delle consulenze per la compravendita di un albergo a Venezia, prima che egli arrivasse a Palazzo Chigi, e il caso dell' esponente della Lega, Claudio Durigon. L' Annunziata, dopo aver dato conto della posizione di Conte, ha annunciato di aver chiesto di essere ascoltata dalla Commissione di vigilanza sulla Rai. Avendo «gestito» viale Mazzini (dal 13 marzo del 2003 al 4 maggio del 2004 è stata la presidente dell' azienda) la giornalista conosce le regole del gioco meglio di chiunque altro. Insomma, difficile prenderla in castagna. Per questa ragione la conduttrice televisiva, dopo l' affondo dell' ex capo del governo, offeso e pronto a querelare, ha deciso di spostare il «duello» all' interno degli organi parlamentari, essendo le due camere gli azionisti della Rai. L' Annunziata, chiedendo «l' applicazione del codice etico della Rai», ha messo sul piatto la richiesta di convocazione in Vigilanza «per giudicare se ho effettivamente violato questi codici del Servizio Pubblico. Pronta ad assumere le mie responsabilità. Pronta anche a confrontarmi con il Professor Conte, nel caso accettasse uno dei tanti inviti rivoltigli nel corso della sua presidenza», sottolinea la giornalista.

IL BOOMERANG La mossa della conduttrice di Rai Tre non è passata inosservata è rischia di trasformarsi in un boomerang per Conte. «Mi auguro che la richiesta dell' Annunziata di essere ascoltata in Commissione di vigilanza, dopo la lettera dai toni minacciosi e arroganti ricevuta dall' ex presidente del Consiglio, venga accolta», afferma il deputato di Italia Viva e segretario della Commissione, Michele Anzaldi, «perché può diventare l' occasione per iniziare a fare luce con una serie di audizioni sul "metodo Casalino"». In effetti la lettera inviata da Conte alla giornalista ricorda molto, nei toni e modi, lo stile di Rocco Casalino, ex portavoce del premier a Palazzo Chigi. «Tre anni di abusi, forzature, toni minacciosi e attacchi all' autonomia giornalistica, in particolare del servizio pubblico, perpetrati dall' allora presidente Conte e dal suo portavoce», sottolinea Anzaldi, «la lettera inviata alla conduttrice di Rai Tre», prosegue l' esponente renziano, «mostra toni davvero gravi, addirittura la minaccia di querela in caso la lettera non venga letta "per intero". Conte dopo le inquadrature dei tg vuole decidere anche come debba essere letta una precisazione? Ma non è il primo episodio. In questi anni abbiamo visto di tutto, nel silenzio generale quando Conte era ancora presidente del Consiglio». Stessa indicazione anche dal Pd, con la senatrice, Valeria Fedeli, capogruppo in Commissione vigilanza, e il collega Francesco Verducci, che chiedono di convocare al più presto la giornalista. L'ex premier, in particolare, contesta alla conduttrice quanto affermato nel corso della puntata di domenica 16 maggio, quando ha replicato all' intervistato, Alessandro Di Battista. Conte non ha gradito le «valutazioni» espresse dall' Annunziata «sul caso Durigon», obiettando che «quest' ultimo caso è paragonabile a una vicenda che mi riguarderebbe personalmente», sostiene l' ex premier. «L'interpretazione del prof Conte credo sia fondata, sicuramente senza dolo, su una incomprensione», afferma l' Annunziata, «si traggono conclusioni citando una sola frase di quella che è stata invece una non breve discussione avvenuta nel corso della mia intervista ad Alessandro Di Battista». Ecco perché Lucia vuole essere ascoltata dalla Commissione di vigilanza, istituzione del Parlamento che vigila sull' applicazione del codice etico della Rai.

Il regalo dell’Agcom a Mediaset: un altro canale generalista per il Biscione. di Carlo Tecce su L'Espresso il 14 maggio 2021. L’Autorità per le comunicazioni ha accolto la richiesta del gruppo televisivo: 20 raggiunge il rango di Rete4, Canale5 e Italia1. In questo modo l’azienda della famiglia Berlusconi batte la Rai. E a firmare la delibera è stata la commissaria scelta da Forza Italia. Alla fine è accaduto: lo Stato ha registrato la supremazia del gruppo privato Mediaset nei confronti del servizio pubblico Rai. Dal 21 aprile, dopo una arzigogolata delibera dell’Autorità per le garanzie e le comunicazioni, più nota con la sigla Agcom, l’emittente della famiglia Berlusconi dispone di quattro canali di tipo generalista: Rete4, Canale5, Italia1 con l’aggiunta di 20, uno spazio nello spettro televisivo in passato acquisito da Retecapri. Viale Mazzini è ferma al solito terzetto con Rai1, Rai2 e Rai3, Urbano Cairo ha La7, Comcast (cioè Sky) ha Tv8, Discovery ha la Nove. Questo passaggio di 20 - che sfiora la media giornaliera dell’1 per cento di ascolto - da canale semigeneralista che trasmette eventi sportivi e serie televisive a canale generalista ne aumenta il valore economico e comporta per Mediaset vantaggi industriali e pubblicitari. Cresce il divario pratico e simbolico dai principali concorrenti. Nel documento Agcom la novità viene presentata con la tradizionale panoplia di rimandi e citazioni di leggi: “Sempre alla luce dei criteri direttivi individuati dal Legislatore (articolo 32, comma 2, lettera c), del Testo Unico e articolo 1, comma 1035, della Legge di Bilancio 2018), nel I arco di numerazione, sono necessariamente previsti gli spazi nella numerazione destinati: a) ai canali generalisti nazionali (numeri da 1 a 9 e numero 20)”. Come si evince dalle ultime righe, i canali generalisti sono collocati sul telecomando, in maniera omogenea, da 1 a 9 con l’unica esclusione di 20 che si trova fra i locali e i tematici. Fonti di Mediaset fanno sapere che la richiesta all’Agcom, di riconoscere il rango di generalista a 20, per l’appunto, si era resa necessaria per non perdere la posizione. Il Biscione si è rivolto all’Autorità lo scorso ottobre – anche se dalla stessa precisano che tali domande transitano prima per il ministero per lo Sviluppo – durante il trasferimento delle frequenze televisive per l’arrivo, con enorme ritardo in Italia anche per l’ostruzionismo di Cologno Monzese, della seconda generazione del digitale terrestre. Sempre nel medesimo periodo si è insediato il nuovo collegio dell’Agcom presieduto da Giacomo Lasorella, fratello della giornalista Carmen, ex vicesegretario generale della Camera, nominato in quota Cinque Stelle. La delibera del 21 aprile è firmata da Laura Aria come commissario relatore. Aria è stata eletta in Parlamento su proposta di Forza Italia. Quantomeno non ha deluso le aspettative.

Aggiornamento 17 maggio – La replica di Agcom e la nostra risposta.

L'Agcom e il canale Venti. Gentile Direttore, l’articolo apparso oggi sull’edizione online de L’Espresso dal titolo “Il regalo dell’Agcom a Mediaset: un altro canale generalista per il Biscione”, firmato da Carlo Tecce, ricostruisce in modo errato i fatti, portando a conclusioni fuorvianti. La materia è tecnica e richiede l’inevitabile richiamo a norme giuridiche. La numerazione automatica dei canali è soggetta ad una specifica disciplina, ai sensi dell’art. 32 del Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (TUSMAR). Il primo piano di numerazione automatica dei canali televisivi sul digitale terrestre è del 2010, con l’approvazione della delibera 366/10/CONS, quello successivo al 2013 attraverso la delibera 237/13/CONS. Il 21 aprile di quest’anno, il Consiglio dell’AGCOM a seguito di consultazione pubblica con tutti i soggetti interessati, ha approvato all’unanimità l’aggiornamento del Piano con la delibera 116/21/CONS. Come è agevole verificare, consultando i provvedimenti citati, ai canali generalisti nazionali vengono attribuiti sin dal 2010 i numeri da 1 a 9 e, per quelli che non trovano collocazione in tale sequenza di numeri, il numero 20 del primo arco di numerazione. È dunque dal 2010, cioè dall’avvento della televisione digitale nel nostro Paese, che il canale 20 viene attribuito a un canale generalista nazionale. Il Piano LCN non assegna i numeri alle singole emittenti, semplicemente ripartisce gli archi di numerazione in base ai generi (canali generalisti nazionali; emittenti locali e nativi digitali a diffusione locale; digitali terrestri a diffusione nazionale in chiaro; servizi di media audiovisivi a pagamento; trasmissioni differite dello stesso palinsesto, canali diffusi in HD, trasmissioni radiofoniche): i numeri vengono assegnati dal Ministero per lo sviluppo economico (MISE). Venendo alla vicenda citata nell’articolo, il canale numero 20 nel 2010 era stato assegnato a Rete Capri, nel 2017 Mediaset lo ha acquistato assieme al ramo d’azienda. Nel 2018 il canale ha adottato l’attuale denominazione. Come è stabilito dalla normativa, l'attribuzione dei numeri LCN e le autorizzazioni al subentro nella titolarità dei canali sono di esclusiva competenza del MISE. David Nebiolo, Ufficio comunicazione Agcom.

Siccome sono tre giorni che l’Agcom finge di non comprendere la questione, adesso manda addirittura un comunicato stampa per parlare di altro e confondere. Come è scritto nella delibera del 21 aprile scorso dell’Agcom e come riportato sull’Espresso, a questo punto ci ripetiamo a beneficio della medesima Agcom, il canale 20 di Mediaset ha raggiunto il rango di canale generalista con i suoi relativi vantaggi. Cosa vuol dire: che fino al 21 aprile non lo era per Mediaset, per l’Auditel, per i centri media che smistano la pubblicità. E sempre fino al 21 aprile, ancora, Mediaset aveva tre canali generalisti, Rete4, Canale5, Italia1. Come il servizio pubblico Rai. Proprio come fu stabilito dall’Agcom, durante la transizione dall’analogico al digitale terrestre, per chiudere il contenzioso - l’Agcom si ricorda? - con la Commissione europea grazie a una garanzia: che Mediaset e Viale Mazzini avessero lo stesso numero di canali generalisti. L'equilibrio si è interrotto il 21 aprile. Cos’è successo il 21 aprile? L’Agcom ha approvato la contestata delibera a firma del commissario Laura Aria, nominata in Parlamento su indicazione di Forza Italia. Chi dà il parere per decretare se un canale è semigeneralista - per esempio non ha spazi informativi - oppure generalista? L’Agcom. Chi vigila sulla concentrazione nel mercato televisivo? L’Agcom. Che c’entrano il ministero per lo Sviluppo economico, il piano del 2010 e del 2013 citati da Agcom contro l’Espresso? Niente. Nessuno ha discusso della collocazione dei canali sul telecomando. Se l’Agcom nutre ancora dubbi, può chiedere lumi a Mediaset - come ha fatto l’Espresso - che ha aggiornato i palinsesti del canale 20 per ottenere la promozione. Magari all’Agcom qualcuno ha un numero di Mediaset. O più di uno. Auguri. Carlo Tecce

Lo sfogo di Rocco Commisso: «La Fiorentina è andata male anche per colpa dei giornalisti». Il Quotidiano del Sud il 14 maggio 2021. Il presidente viola in conferenza stampa: «Ho letto e sentito un sacco di porcherie». Poi si è detto pronto ad impedire l’accesso al centro sportivo ai giornalisti “scorretti”. «Sento, leggo un sacco di porcherie». Rocco Commisso contro la stampa. Il presidente della Fiorentina si è scagliato contro i media in una conferenza “movimentata”. «Ne sono state dette troppe. Sento, leggo, un sacco di porcherie», ha detto nella sua conferenza stampa di fine anno prima del ritorno in America, vista la salvezza matematica dei viola. «Sono state scritte cose indegne, sulla mia squadra, sul mio allenatore. Voi siete gente di calcio? Io faccio questo lavoro da 71 anni. La Fiorentina è andata male anche per colpa dei giornalisti, avete scritto cose ingiuriose. Non avete il coraggio di dire che quello che viene scritto non è vero. Sono stato chiamato “Rocco il Terrone”, “Lo Zio d’America”. Ho investito molto più dei Della Valle in due anni, loro sono stati 17 anni. Sono qui da 2 anni, datemi altri 15 anni per fare paragoni. I risultati non sono arrivati, anche loro non li hanno fatti subito», ha proseguito il numero uno viola che ha poi rincarato la dose. «Sono state scritte bugie», ha detto riferendosi ad un presunto incontro con Maurizio Sarri. «I giornalisti fiorentini ne hanno dette tante. E quando ciò accade, gli altri devono intervenire. Può darsi sia arrivata una falsa informazione, ma il giorno dopo dovevano essere fatte delle scuse. Invece non è accaduto. Per come la vedo io, penso che l’ordine sia arrivato da altri. Per voler fare del male alla Fiorentina. Gli errori si possono commettere, ma si può chiedere scusa, con noi e per i tifosi», ha aggiunto Commisso, pronto a mostrare anche il “cartellino rosso” agli operatori dell’informazione considerati “scorretti”: «Ci saranno persone che non potranno accedere alla Fiorentina, e al centro sportivo, che sarà una proprietà privata».

Da corrieredellosport.it il 14 maggio 2021. Federazione nazionale della Stampa italiana, Associazione Stampa Toscana, Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Toscana, Unione Stampa Sportiva Italiana e Ussi Toscana denunciano con forza le intollerabili offese pronunciate dal presidente della Fiorentina, Rocco Commisso, in una videoconferenza stampa, che avrebbe dovuto fare il punto della situazione dopo la salvezza raggiunta in campionato, e che invece si è trasformata in un allucinante processo a tutti i colleghi che hanno seguito la squadra. Parole inaccettabili, quelle pronunciate da Commisso, mai ascoltate in un incontro stampa e non giustificabili nemmeno con l'amarezza di una stagione difficilissima. Commisso ha parlato di giornalisti ruffiani e addirittura manipolati da presidenti di altri club, di giornalisti che fanno i soldi con la Fiorentina, di giornalisti che non raccontano mai il vero. Inutile anche il tentativo di intervenire per chiedere a Commisso un approccio diverso, più sereno e confacente alla situazione nella quale si stava trovando, fatto dal presidente dell'Ast, Sandro Bennucci, al quale è stata tolta la parola dopo pochi secondi con una frase secca. Un atteggiamento inqualificabile: solo nei regimi autoritari si verificano comportamenti del genere. In una prossima occasione, di fronte a simili epiteti, i colleghi sono invitati a uscire dalla video conferenza. Fnsi, Associazione Stampa Toscana, Ordine dei giornalisti della Toscana, Ussi nazionale e Ussi Toscana si rivolgono a Federcalcio e Lega di serie A perché approfondiscano, anche attraverso la Procura federale, quello che è accaduto stamani, 14 maggio 2021, durante la videoconferenza del presidente della Fiorentina. Un appello è rivolto anche al prefetto di Firenze, Alessandra Guidi, perché intervenga nel caso in cui le parole di Commisso possano provocare atti irresponsabili nei confronti dei giornalisti. Gli organismi della categoria sono pronti a schierarsi al fianco di tutti quei colleghi che, chiamati in causa direttamente, abbiano intenzione di rivolgersi ai propri legali.

Da forzaroma.info il 14 maggio 2021. A Firenze oggi il presidente viola Rocco Commisso ha rubato la scena. Nella sua conferenza stampa ha attaccato giornalisti, ha messo in vendita provocatoriamente la Fiorentina, ha parlato di mercato e ha commentato gli operati dei suoi "colleghi". Nel suo monologo ci sono finiti anche i Friedkin, citati dall'italo-americano per difendere in qualche modo il suo operato: "Ho preso una squadra che da sedicesima è arrivata decima. La Roma con i nuovi proprietari ha fatto peggio dell'anno prima" ha detto Commisso. Lo show del newyorkese ha divertito anche l'ex presidente della Roma James Pallotta, che ha commentato così su Twitter: "Non riesco a smettere di ridere. È una delle migliori tre conferenze di sempre". In passato l'ex patron della Roma aveva punzecchiato Commisso: "Voleva la Roma, ma non l'ho mai voluto come socio".

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 14 maggio 2021. Un fedele e malizioso lettore del Corriere mi chiede se Andrea Scanzi abbia spezzato il cuore di Bianca Berlinguer e di Lilli Gruber. Nonostante le sue discutibili opinioni (un anno fa, per lui, il Covid-19 era poco più di un'influenza) e sulla poco nobile arte del saltafila, le due conduttrici lo hanno prontamente «sdoganato»: non ci sono altri ospiti all' altezza di uno Scanzi? Via le questioni di cuore, via i moralismi, affrontiamo solo la questione tecnica. Per dare vivacità a un genere come il talk show è importante che gli ospiti assolvano ad alcune funzioni. Quali?

La prima: ci vuole prontezza. L' ospite dev' essere sempre pronto a rispondere, anche su cose che non conosce (la cultura, per esempio). Le incertezze, i silenzi, i dubbi non sono previsti, causano un'intollerabile caduta della tensione.

La seconda: bisogna rappresentare qualcuno (un movimento d' opinione, un partito, una moda, insomma qualcosa e qualcuno). Tra Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano e il M5S c' è vicinanza di idee; ora con qualche tardiva presa di distanza. Che non è mai ravvedimento o rinsavimento: come detto, la contraddittorietà non è un discrimine, basta essere sempre assertivi e tutto è dimenticato.

La terza: accendere il dibattito, sempre. Il professionista del talk (non l'ospite invitato per acclarata competenza) dev' essere mosso da uno spirito polemico, servirsi di facili slogan, litigare, dare sulla voce, fare i numeri.

La quarta: il mondo chiuso. Nei talk si crea un mondo chiuso, si chiacchiera sempre delle stesse cose, non c' è mai apertura culturale o psicologica: ogni ospite deve diventare un personaggio che recita sempre la stessa parte, come un «Andrea Scanzi».

La quinta: il contesto. Se Scanzi va in un talk vuol dire che lo chiamano, che funziona, che serve. Altrimenti chiamerebbero un altro: questa, purtroppo, è l'unica morale da trarre.

Dagospia il 28 aprile 2021. Dal profilo Instagram di Antonella Nesi - giornalista di AdnKronos . Semibreve storia molto triste: ci invitano, a me e ad altri colleghi, ad un incontro stampa su un importante evento che si terrà alla fine della settimana. Non c’è verso, nonostante diverse domande specifiche, di far dire all’organizzatore praticamente nulla sul cast (che vada oltre un comunicato diramato la mattina stessa dell’incontro) né sulla conduzione dello show. Stacco. Stamattina un importante nome del cast, direi il più importante per un evento che si tiene a Roma, è su circa 8 quotidiani come il nome di un conduttore. Ai colleghi e agli uffici stampa mi sento di chiedere: non sarebbe stato meglio abolire completamente l’incontro con i giornalisti ‘foglia di fico’? Potete fare gli incontri ristretti (come già avviene per le interviste esclusive) contrattandoli direttamente con il club degli 8. È più dignitoso per tutti. Quello che non si può fare è far perdere un paio di ore di tempo ad un gruppo di colleghi per farli passare da ricoglioniti. Sono sicura che capirete. Ps: voglio aprire un dibattito, non accusare qualcuno. E in realtà, rispetto a quello che è stato definito il club degli 8, il perimetro stamattina è più ristretto perché c’è chi ha deciso di fare scelte più originali.... “Noi siamo noi e voi non siete un … “: 8 giornali insieme per non farsi bruciare la notizia dai più piccoli

Franco Bagnasco per Tpi.it - 15 aprile 2021. Tra chi si cimenta ogni giorno, per lavoro, nel racconto dello spettacolo, esiste una serie A e una serie B? Tra i cronisti che scodellano perennemente news sulle uscite discografiche e interviste ai cantanti da classifica, c’è una ridottissima casta di eletti, gaudente e privilegiata, e a seguire una plebe smarrita e scomposta, che tira a campare? Parliamoci chiaro, in Italia la risposta è sì. È sempre stato così, da che giornalismo è giornalismo. Fanno premio naturalmente non tanto firma e notorietà del collega o della collega (per quanto possa avere lavorato bene sulla propria autostima), ma la testata di appartenenza del medesimo/a, la sua autorevolezza e soprattutto la sua diffusione. Leggi, le vendite. Tutto questo nel meraviglioso mondo pre-pandemia. Popolato spesso di conferenze stampa (fisiche, in adeguata, ampia location) per “tutti”, e di lussuose cenette privée a invito con l’artista seduto al tavolo a conferire con 5-6 giornalisti delle agenzie e dei principali quotidiani. Per dare a questi ultimi lo scoop o le notizie più performanti, e lanciare al ringhiante resto del mondo le fettine panate di quel che avanza. Poi magari, se ti va di lusso, esce qualcosina di buono anche per il gruppone dei gregari che poi si accalca al buffet; sempre sia benedetto. Un mondo popolato di presentazioni di dischi di artisti italiani fatte a Miami (perché fa più figo) con volo e hotel pagato solo per pochissimi amichetti del gotha. Ma anche di inviti ai concerti all’Arena di Verona col pullmanone pieno di cronisti che parte da Milano un po’ prestino per seguire conferenza ed evento e tornare a casa nottetempo in torpedone, sempre modello Coppa Cobram di Fantozzi, e a far da contraltare l’auto privata che preleva i 5-6 fortunati che una volta giunti a Verona avranno posto in prima fila riservato dall’ufficio stampa in sala conferenze (questa cosa mi ha sempre divertito molto) e albergo in centro gentilmente prenotato e pagato dall’organizzazione. Hai visto mai si possano stancare e poi, innervositi, farsi scappare nel pezzo due critiche all’artista. Ma c’è un problema: la pandemia, come La Livella di Totò, ha quasi spazzato via quel mondo di privilegi al quale una fetta (fettina) del giornalismo musicale italiano era abituata. Le conferenze stampa di una volta, quelle in presenza, quelle a cui partecipavano principalmente le testate che si potevano permettere di esserci (vedi alla voce trasferta) o che entravano nel numero chiuso di uno spazio “fisico”, per via del Covid non ci sono più. La pratica delle conferenze in streaming per tutti, fatta di Zoom, Skype, Streamyard e quant’altro, nel combinato disposto con le chiusure di ristoranti e locali, ha dato una mazzata all’ego e ai benefit (anche concreti ma soprattutto informativi) della serie A dell’informazione leggera. Ora, alle conferenze stampa online, ci sono tutti, dal quotidiano nazionale al grande o piccolo sito con due redattori. Così si è creato di recente un gruppetto di pressione di otto primarie testate nazionali che ha rivolto un accorato invito privato ma ufficiale agli uffici stampa nostrani. Ridatece er mejo. Trovate il modo. Rivogliamo la panna sulla torta: solo noi otto, tutti assieme appassionatamente. Magari fate un doppio streaming, quello dei pochi Ricchi e quello dei tanti Poveri. È inaccettabile che si sia tutti qui, in 170 nelle rispettive finestrelle, a pari merito sulla linea di partenza. Noi e L’Eco di Gorgonzola. Noi e il sito Canicattì News. Noi e il blog Spettacolissimo per tuttissimissimi. Alle prese con le stesse notizie. Che magari, coi potenti mezzi e l’immediatezza del “webbe”, escono anche prima ovunque bruciandosi! Suvvia, è così volgaVe… Suvvia, non possono uscire Fanpage o Open o Leggo o magari TPI prima di noi… Ironie a parte, la motivazione ufficiale della richiesta sarebbe non mettere sullo stesso piano testate gratuite e altre a pagamento. E non mescolare eventuali domande di interesse squisitamente locale ad altre di respiro nazionale. O magari lasciare che un sito pubblichi prima del grande giornale la risposta alla domanda argutissima (e durata 10 minuti d’orologio, il triplo della risposta) di uno dei soloni del giornalismo musicale in Italia. Ovvero, dare qualcosa in più, d’ufficio, a quei giornali per i quali, in edicola o sul web, c’è un prezzo da pagare. Ma in concreto si legge: gli scoop a noi. Preorganizzati. Gli altri, quelli più piccoli, si accontentino degli avanzi, come nei cari vecchi tempi pre pandemici. In attesa che tornino (ma quando? E con quanto budget in meno?), alcuni uffici stampa si stanno già organizzando con interviste Skype singole a parte riservate ai pochi, ma non sempre la cosa è fattibile per ragioni organizzative. E tutto comunque ha un sapore terribilmente retrò piuttosto sgradevole. Soprattutto se è richiesto d’ufficio per pochi eletti e non è frutto di contatti, conoscenze o accordi personali del singolo giornalista con l’artista. Cioè un valore aggiunto scaturito dal lavoro, non dà una corsia preferenziale. Non è tanto fame, insomma, “ma voglia di qualcosa di buono” direbbe la Contessa dello spot all’autista Ambrogio. Come la prendono gli uffici stampa? “A me pare un suicidio – dice il responsabile di una nota agenzia di comunicazione che preferisce non rivelare il proprio nome -: se questi otto vogliono lo stream collettivo da soli, io lo posso anche organizzare, figurarsi, mi evito otto interviste singole: ma il rischio è l’omologazione. Avranno tutti e otto le stesse frasi e le stesse notizie. Quando ho visto arrivare questa richiesta sono rimasto più che altro stupito. E poi, in genere, noi non amiamo le corsie preferenziali. Possiamo fare a volte scelte precise di testate, questo sì, per garantirci maggiori coperture. Si parla quasi solo di quotidiani, parliamoci chiaro. E poi valutare altre richieste motivate e interessanti di approfondimenti da parte di altre testate a seconda anche dello spazio che verrà concesso al pezzo o al servizio. E poi molto dipende anche dal nome dell’artista. Non posso andare da alcuni dei big della mia agenzia e chiedere loro di fare un’intervista collettiva, e una per otto persone. Mi guarderebbero male, come minimo. Si fa un’unica conferenza stampa con tutti, e non se ne parla più. Non so, da un lato è una richiesta che paradossalmente mi toglierebbe anche qualche incombenza; lasciandomi però tante perplessità”.

Vittorio Feltri per Libero Quotidiano il 28 aprile 2021. La cronaca nera un tempo rendeva i giornali interessanti per il pubblico desideroso di scoprire la realtà drammatica che lo contornava e di cui gli sfuggivano i particolari. Giornalisti di grande talento, per esempio Dino Buzzati, dedicavano la loro prosa elegante e intensa alla narrazione di fatti impressionanti, per esempio la strage di Rina Fort. Gli articoli erano appassionanti e provocavano nel lettore sensazioni forti. I delitti in particolare suscitavano emozioni e gli acquirenti dei quotidiani li sfogliavano col desiderio di capire perché l'umanità potesse sprofondare nella violenza e nella crudeltà. Oggi i redattori, oltre a non avere il talento dei loro predecessori, se ne infischiano dei fatti di sangue come fossero eccezioni indegne, perché volgari, di essere approfondite. Non capiscono che i conflitti i quali spesso sconfinano nell'omicidio riflettono le atrocità della vita sociale e famigliare. I miei ex colleghi se ne guardano dall'alzare i glutei dalla sedia per correre sui luoghi delle tragedie e raccontarle dal vivo spiegandone i motivi reconditi. Preferiscono stare ore e ore davanti al computer, che li ipnotizza e rimbambisce. Se una notizia non appare sullo schermo del portatile non è tale, al massimo la riassumono in un paio di dispacci, in un italiano approssimativo, e si illudono di avere compiuto il loro dovere. Poi si lagnano perché il giornalismo è in decadenza, mal pagato e ha perso prestigio. Si occupano soltanto di Salvini, Draghi, Letta, di virus e di coprifuoco. Roba importante di sicuro, eppure la politica e i suoi riflessi contano per il 10 per cento, l'altro 90 riguarda le vicissitudini delle persone, eternamente alle prese con guai e conflitti su cui colpevolmente si sorvola. Io non ne posso più dei giornalisti che considerano quella che è stata la mia antica professione una attività burocratica e tecnologica. Mi viene voglia di cedere alle lusinghe del riposo. Resisto poiché mi inganno di essere in grado di riuscire a convincerli che il loro mestiere non è sedentario come quello del notaio o del virologo, bensì richiede lo sforzo di comprendere quello che succede (anche fuori dagli ospedali), cioè esige l'indagine onde portare alla luce le tribolazioni dei nostri simili. Ieri, alcuni quotidiani hanno riportato la storia allucinante di Marco Eletti, 33 anni, ragazzo intelligente, autore di buoni gialli, il quale avrebbe stecchito il padre e tramortito la madre per motivazioni oscure, forse di genere finanziario. Lo hanno arrestato. Stupisce che un giovane solare come lui, che peraltro partecipò al programma televisivo "L'eredità" ( Rai uno), un tipo di talento, abbia commesso codesto atto da criminale incallito. Un mistero, va svelato, in quanto turba la coscienza di chiunque. Tuttavia, per investigare bisogna recarsi sul posto, parlare con i vicini, i parenti, esplorare gli anditi bui della psiche del presunto assassino. L'esistenza degli uomini è piena di pieghe occulte. Occorre esaminarle. Il mio vecchio direttore della Notte diceva: risparmia pure il cervello che non hai, ma non la suola della scarpe. Prima di scrivere bisogna scavare. Aveva ragione.

Articolo di The Guardian dalla rassegna stampa di Epr Comunicazione il 31 marzo 2021. Quanti teorici della cospirazione ci vogliono per cambiare una lampadina? QAnon non me lo lascia dire. Posso, tuttavia, rivelare che ci vogliono solo una dozzina di no-vax per diffondere una pericolosa disinformazione a milioni di persone. Secondo un rapporto della ONG Center for Countering Digital Hate (CCDH), fino al 65% del contenuto anti-vaccino su Facebook e Twitter può essere ricondotto a sole 12 persone. Anche se Facebook ha contestato la metodologia del rapporto, i 12 sono stati soprannominati la "dozzina della disinformazione", e comprendono Robert F Kennedy Jr, il nipote di John F Kennedy. Alcuni dei 12 sono stati rimossi da almeno una piattaforma di social media, ma sono ancora liberi di pubblicare su altre – scrive The Guardian. Citando il rapporto CCDH, un certo numero di legislatori statunitensi ha esortato le società di social media a espellere immediatamente dalle piattaforme i 12. Il che sembra una cosa sensata da fare considerando che siamo nel mezzo di una pandemia che si trascinerà per sempre a meno che una massa critica di persone non venga immunizzata. Tuttavia, penso che sia importante non reagire alla disinformazione con una risposta impulsiva. Questioni di libertà di parola a parte, bandire le persone dalle piattaforme tecnologiche è un gioco rischioso. Mentre big tech può facilitare e trarre profitto dalla diffusione della disinformazione, dobbiamo ricordare che Facebook e gli altri non hanno poteri magici. Hanno modi ingegnosi per dirottare la vostra attenzione, ma non possono agitare una bacchetta magica e costringervi a credere che Bill Gates ha progettato la pandemia in modo da poter impiantare microchip rintracciabili nelle persone. Dobbiamo spingere le aziende tecnologiche ad agire in modi più etici, ma non possiamo contare sul fatto che un gruppo di amministratori delegati con interessi personali sviluppi improvvisamente una coscienza. La disinformazione non andrà mai via; non è solo un problema di Big Tech, è un problema di educazione. Invece di urlare contro le aziende tecnologiche, i politici dovrebbero concentrarsi su ciò che il ministro digitale di Taiwan chiama "immunità nerd" - il governo dovrebbe investire nell'istruzione in modo che le persone abbiano le competenze per identificare le notizie false. La Finlandia, che l'anno scorso è stata classificata come la nazione europea più resistente alle fake news, è un modello di come fare. Nel 2014, dopo un aumento della disinformazione dalla Russia, il governo ha inserito l'alfabetizzazione mediatica nel curriculum nazionale. A partire dalla scuola primaria, i bambini imparano le capacità di pensiero critico necessarie per analizzare il moderno ecosistema dell'informazione. Gli studenti imparano quanto sia facile manipolare le statistiche nelle loro lezioni di matematica, per esempio. Imparano a distinguere la satira dalle teorie della cospirazione nelle loro lezioni di finlandese. Guardano come le immagini possono essere usate per la propaganda nelle lezioni di arte. E questo tipo di educazione non viene data solo ai bambini: anche i dipendenti pubblici finlandesi, i giornalisti e i lavoratori delle ONG vengono formati all'alfabetizzazione digitale. Il governo britannico ha fatto un sacco di rumore su quanto sia importante insegnare ai bambini l'alfabetizzazione mediatica. Nel 2019, per esempio, il segretario all'istruzione ha annunciato una guida sull'insegnamento della sicurezza online nelle scuole. Mentre questo è fantastico in teoria, la "guida" non è sufficiente. Da quando il governo di coalizione guidato dai conservatori ha preso il potere nel 2010, i finanziamenti per l'istruzione sono diminuiti significativamente, e abbiamo visto i più grandi tagli alla spesa scolastica dagli anni '80. La situazione non è migliore negli Stati Uniti, dove il sottofinanziamento è così grave che circa il 94% degli insegnanti della scuola pubblica riferisce di dover spendere i propri soldi per il materiale scolastico. Mentre il sottofinanziamento colpisce in modo sproporzionato i bambini svantaggiati, ha un effetto a catena sulla società. Non c'è problema al mondo che non possa essere migliorato investendo nell'istruzione. Bandire alcuni anti-vaxers da Facebook può avere benefici a breve termine, ma se vogliamo costruire società sane a lungo termine dobbiamo dare priorità all'istruzione e sviluppare l'immunità dei nerd.

Da "nytimes.com" il 28 febbraio 2021. André Leon Talley, l'esuberante e pionieristico redattore di moda nero che ha scosso l'industria lo scorso maggio con il suo libro di memorie, "The Chiffon Trenches", in cui ha criticato Anna Wintour e Karl Lagerfeld, è tornato a esporre parti del ventre fangoso della moda, anche se inavvertitamente. Dal 2004, il signor Talley, 72 anni, vive in una villa coloniale di 11 stanze a White Plains, appena a nord di New York City. Anni fa, George Malkemus, l'ex capo di Manolo Blahnik USA, e Anthony Yurgaitis, suo socio in affari e marito, comprarono la casa per circa $ 1 milione, con la consapevolezza che il signor Talley ci avrebbe vissuto e avrebbe pagato Malkemus e Yurgaitis ogni mese. Malkemus e suo marito lo chiamavano "affitto", e i tre uomini hanno firmato un contratto di locazione di due anni, rinnovabile per altri otto anni. Quel contratto di locazione è scaduto nel 2014 e non è mai stato rinnovato e la quantità di denaro che Talley ha pagato ogni mese variava ampiamente a seconda del suo flusso di reddito. E poi, nel novembre 2020,  Malkemus e Yurgaitis hanno presentato istanza per sfrattare Talley. Alla fine di gennaio, Talley ha presentato una domanda riconvenzionale, dicendo che credeva che questi pagamenti fossero un investimento azionario destinato all'acquisto dell'immobile. Ma non è tanto il caso nello specifico che ci interessa, ma quanto spesso nella moda lavoro, amicizia e favori siano intrecciati. Più in generale, il problema della casa mette in luce un modello di comportamento endemico nel mondo della moda, in cui regali, favori e influenze sono la moneta di scambio e spesso è difficile dire cosa sia un affare e cosa sia personale. Può sembrare un fatto minore, ma non lo è: una borsa gratuita, nella speranza che un giornalista possa essere fotografata mentre la mostra in prima fila a una sfilata, serve come pubblicità per un marchio così come un viaggio gratuito per uno show in un paese lontano, con un biglietto e un hotel di prima classe, in cambio di una recensione diventa funzionale.

Un settore in cui "regalare" è un verbo. Un rapporto molto stretto Talley lo aveva anche con Lagerfeld, nelle cui tenute trascorreva spesso le vacanze e i cui doni includevano una spilla Fabergé e un baule gigante di Louis Vuitton. «Se eri nella vita di Karl, ti vestiva - scrive Talley nel suo libro - Paloma Picasso e Ines de la Fressange erano vestite gratuitamente da Chanel e Fendi. Come lo era Tina Chow». E così anche Talley. Sebbene questo fosse un esempio estremo di scambio di favori nella moda, è tutt'altro che unico. Nel suo libro di memorie, "Clothes ... And Other Things That Matter", Alexandra Shulman, ex direttrice di British Vogue, scrive di essere stata «dotata di due giacche Chanel dall'ufficio stampa londinese dell'etichetta subito dopo il mio arrivo a Vogue, nel 1992. Costavano circa mille sterline l’una».

Shulman parla anche di redattori che arrivano a Parigi per trovare "armadi pieni di borse Chanel". Ancora oggi, i prodotti, comprese le ultime scarpe da ginnastica, cosmetici e borse, vengono regolarmente ricevuti da alcuni potenti attori del settore - generalmente editori di riviste di moda patinate o influencer dei social media - da marchi che sperano in una copertura favorevole. Ma nella moda, che era ed è un settore in cui i salari sono notoriamente bassi e la pressione per rappresentare il marchio è notoriamente alta, è stata a lungo considerata parte dell'economia di base del settore e uno strumento di costruzione di relazioni (che spesso, per i marchi, è considerata una spesa di marketing). A volte le modelle vengono pagate per la sfilata o il servizio fotografico con abiti o accessori piuttosto che in contanti, o perché sono agli inizi o perché stanno facendo un favore a uno stilista che altrimenti non potrebbe permettersi di pagarle. Tali pratiche promuovono un ambiente in cui tutte le persone coinvolte sono condizionate a fare affidamento non sulla gentilezza di estranei, ma sulla generosità di conoscenti che gravitano nel mondo del lavoro.

Il business dell'amicizia. Inoltre, spesso nel mondo delle riviste esistevano accordi e favori tra datori di lavoro e alcuni dipendenti famosi. A Condé Nast, Talley ha iniziato a lavorare nel 1988, gli stipendi erano spesso integrati da indennità per l'abbigliamento, servizi di auto e ingenti rimborsi spese. I confini sono ulteriormente offuscati dal fatto che nella moda i rapporti professionali sono spesso coltivati in contesti non professionali: su una spiaggia per un servizio fotografico, dove tutti alloggiano nella stessa località; a cena al Caviar Kaspia di Parigi, per vedere uno spettacolo. Era pratica comune, nelle riviste patinate, assumere alcuni "redattori " per i loro contatti in modo che potessero esortare i loro amici a diventare “sudditi”. E con questi metodi l'obiettività è solo un miraggio. 

Articolo di Marco Benedetto per cronacaoggi.com pubblicato da blitzquotidiano.it il 28 febbraio 2021. Giornali in crisi nel mondo. Non ce la fa quasi nessuno. Si salvano solo con tagli selvaggi, o confluendo nel no profit, o con gli aiuti dello Stato. Se la cavano solo pochissimi, in lingua inglese, produttori e detentori di contenuti esclusivi a interesse universale. Questi fenomeni raccolgono abbonamenti a prezzo scontatissimo nei quattro angoli del mondo, dall’Italia al Bangladesh. dalla Terra del Fuoco a Novosibirsk. Sono ricavi che si aggiungono a quelli locali, per nulla cannibalizzati. Grazie alle migliaia di chilometri che proteggono le copie su carta e gli abbonamenti locali. Poi c’è la variante inglese, di cui preclaro esempio è il Daily Mail. Ad essi internet ha spalancato il mercato americano. Il loro contenuto popolare a base di pettegolezzi e tette e chiappe al vento ha trovato un pubblico da sempre tenuto a stecchetto dai quotidiani locali. E alimentato solo da pochi e trucidi settimanali da supermercato. Per la maggior parte dei giornali su carta e on line, specie non in lingua inglese, ci sono solo due tipi di salvagente. Quello dei grandi benefattori che si scaricano dalle tasse gli oneri del no profit. A parte gli Agnelli, non sembra che ci siano ricchi italiani disponibili per imprese definibili sere. Quello degli aiuti statali, che già una volta, 40 anni fa, salvarono, rimisero in sesto e contribuirono a rilanciare i giornali quotidiani in Italia. Ma oggi siamo permeati di grillismo. Quando i grillini torneranno ai loro nidi, sarà forse ormai troppo tardi. Queste sono le ultime notizie dagli Usa, buone e cattive.

1. La catena del Chicago Tribune  ingoiata per 630 milioni di $ (una volta sarebbero stati miliardi) dall’Hedge Fund che taglia i costi e chiude le redazioni. Ne fanno parte, oltre alla Chicago Tribune, giornali come New York Daily News, Sun Sentinel, Orlando Sentinel, Virginia’s Daily Press ,The Virginian-Pilot, The Morning Call of Lehigh Valley (Pennsylvania). Fra le redazioni chiuse durante la pandemia quelle del Daily News, The Morning Call and The Orlando Sentinel.

2. È andata meglio al Baltimore Sun, quotidiano di Baltimora che vende come Repubblica uscito dalla stretta del fondo e riscattato da una non profit che fa capo a  Stewart Bainum, magnate delle case per anziani e alberghi.

La non profit si chiama Sunlight for All Institute (Luce del sole per tutti) e è collegata con una organizzazione filantropica di miliardari, The Giving Pledge (la promessa di dare), di cui sono parte Mark Zuckerberg di Facebook, Elon Musk, Michael Bloomberg, Ted Turner, MacKenzie Scott, il petroliere Texano T. Boone Pickens. Nonché il miliardario del biotech Patrick Soon-Shiong. Che ha già rilevato Los Angeles Times and San Diego Tribune dalla Tribune Publishing per $500 milioni nel 2018.

·        L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Radical choc. Cacciari a vita. La casta inossidabile degli opinionisti da talk show. Riccardo Chiaberge su L'Inkiesta il 22 Settembre 2021. Editorialisti e politologi perdurano nel tempo indisturbati, forti della loro nomea di intellettuali. Ai tuttologi - come l’ex sindaco di Venezia - viene perdonato proprio tutto, anche e soprattutto i fiaschi. Uno dei grandi misteri italiani, insieme al sangue di San Gennaro e ai cantieri della Salerno-Reggio Calabria, è l’abissale divario delle aspettative di vita tra politici e politologi. Un Presidente del Consiglio raramente mangia il panettone due Natali di seguito, i leader passano dagli altari alla polvere in tempi sempre più rapidi. È capitato a Matteo Renzi, sta capitando a Matteo Salvini, presto forse sarà la volta di Giorgia Meloni. I consigli di amministrazione dell’Atac e dell’Unicredit, i board delle fondazioni saudite e le cattedre di Sciences Po rigurgitano di politici trombati. Intellettuali e opinionisti, invece, non hanno bisogno di essere riciclati per il semplice fatto che nessuno li tromba. Invecchiano serenamente sulle prime pagine e nei talk show, incuranti dei sondaggi e delle elezioni, dei cambi di stagione e di governo, delle pandemie e delle recessioni. Se gli scappa qualche minchiata, i social li massacrano per qualche ora o per un giorno, poi se ne dimenticano, e loro riprendono imperterriti a pontificare. Eterni, inamovibili come le concessioni balneari. Silvio Berlusconi sarà bollato per il resto dei suoi giorni come il papi del bunga bunga, a Renzi (per gli amici “il cazzaro di Rignano”) non verrà mai perdonata la batosta del referendum costituzionale o l’infelice sortita sul rinascimento arabo, Pier Luigi Bersani resterà sempre il leader della «non vittoria» alle elezioni del 2013, Salvini passerà alla storia come il bullo del Papeete. Gli intellettuali, invece, sopravvivono gagliardamente ai propri fallimenti. A Massimo Cacciari, per esempio, nessuno rinfaccia il fiasco del partito del Nord-Est, lanciato alla fine degli anni Novanta insieme all’industriale veneto Mario Carraro e subito dissolto nelle nebbie della laguna, o la sua sponsorizzazione (insieme a Clemente Mastella) dell’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio a candidato presidente del Consiglio del centrosinistra nel 2001 (quattro anni dopo sarà costretto a dimettersi per le accuse di aggiotaggio e insider trading), oppure il flop di Verso Nord, il movimento da lui fondato nel 2010, o ancora, l’anno successivo, la bocciatura di Giuliano Pisapia come aspirante sindaco di Milano in quanto a suo dire troppo «radicale». Massimo gli avrebbe preferito Gabriele Albertini, e sappiamo com’è andata: un trionfo. Allo stesso modo, nessuno rimprovera a Ernesto Galli della Loggia di avere definito, nel 1994, Forza Italia «partito di plastica» (è poi durato vent’anni) né di avere dato credito a Virginia Raggi e al partito del vaffa nella lungimirante convinzione che potesse rinnovare la classe dirigente del paese. Così come tanti si prostrano al genio di Carlo Freccero, creatore della Raidue di trent’anni fa, e ben pochi rammentano il naufragio della Raidue sovranista del 2019, la famigerata Televisegrad con Gianluigi Paragone e gli speciali su Beppe Grillo. La verità è che questi signori erano già in ballo ai tempi della tv in bianco e nero, quando per le strade circolavano le Fiat Duna. Davano del tu a Enrico Berlinguer e a Mariano Rumor, e i primi articoli li dettavano ai dimafonisti, perché non esisteva neppure il fax (quando è arrivato Internet, molti di loro l’hanno presa per una moda passeggera). Poi uno si stupisce che un Cacciari o un Giorgio Agamben considerino il green pass un’angheria di stampo nazista, o che propongano comunità stile Amish per chi lo rifiuta, o che Freccero farnetichi del “Grande Reset” ordito dalle perfide élite globali per ridurci in schiavitù: prima i vaccini, poi la rivoluzione digitale e la rivoluzione verde. Sono uomini di un altro secolo (dovrei dire siamo, visto che hanno più o meno la mia età). Somigliano al don Ferrante dei Promessi Sposi, che si ostinava a inquadrare la peste nelle categorie della filosofia aristotelica, negandone l’esistenza. Salvo poi beccarsela non avendo preso nessuna precauzione.  Oggi non basta aver studiato Michel Foucault o Martin Heidegger ed essere entrati nel catalogo di Adelphi. Non basta sapere tutto sulle foibe, o aver bazzicato fin da piccoli nei corridoi di Rai e Mediaset. Per capire il mondo contemporaneo devi avere almeno qualche idea di cosa sia lo mRna o l’editing genetico, le energie rinnovabili e i pozzi di assorbimento della CO2, di come funzionino gli algoritmi della rete e l’Intelligenza artificiale o di cosa abbia in mente “Mister Ping” per espandere il dominio cinese in Asia e nel Pacifico. Anche Indro Montanelli ha lavorato fino all’ultimo, ha pure scritto il proprio epitaffio. Ma era Montanelli, e qualche boiata è sfuggita perfino al lui (anche se non c’erano Facebook e Twitter a farglielo notare). Dopotutto quello dell’opinionista è un mestiere usurante, almeno quanto il bidello. Sia per chi lo pratica che per chi lo subisce, lettori e spettatori. Sul New York Times o sui grandi network americani non vedi le stesse firme e le stesse facce dell’epoca di Ronald Reagan. Certo, Bob Woodward sforna ancora i suoi libri su Trump, ma i columnist sono in maggioranza trenta-quarantenni, e iperspecializzati. In Italia, gli editorialisti sono una casta inossidabile, buona per tutti gli usi e per tutte le stagioni. Tuttologi a lunga conversazione. Cacciari a vita. 

L’INFORMAZIONE E LA COMUNICAZIONE SONO CAMBIATE. QUELLO CHE I GIORNALISTI ITALIANI NON RIESCONO A CAPIRE… Antonello De Gennaro il 13 Giugno 2021 su Il Corriere del Giorno. In altri Paesi europei come la Germania, Spagna, dove non c’è uno status giuridico vero e proprio dei giornalisti, esattamente come in Inghilterra e negli Stati Uniti d’ America. In Italia i corrispondenti dei quotidiani esteri esercitano la professione di giornalista senza aver alcun Ordine professionale. Un articolo di cronaca economica un giornalista americano lo può consegnare per la pubblicazione nella sostanza identico al Wall Street Journal o al New York Times. Arriva da Bari l’ultima querelle fra coloro i quali sono legati ancora a quel tesserino di giornalista, il cui possesso è sempre più facile grazie alla mancanza di controlli e regole da rispettare dell’Ordine dei Giornalisti. Oggi sul CORRIERE DEL MEZZOGIORNO, l’edizione pugliese del CORRIERE DELLA SERA è apparso un articolo molto critico nei confronti del Comune di Bari, che ha affidato la comunicazione ad un ingegnere regolare vincitore di un concorso bandito dal Comune anni fa. “Imbattibile con l’online, un vero mago nei contenuti e nei sistemi spesso complessi e oscuri della Rete – scrive il CORRIERE DEL MEZZOGIORNO – ma sicuramente non titolato a dirigere e coordinare una struttura che si occupa di comunicazione. In sostanza preparazione di comunicati, rassegne stampa e rapporti con gli organi di informazione”. Il CORRIERE DEL MEZZOGIORNO che riempie le proprie pagine grazie sopratutto a collaboratori periferici, pagati con pochi euro ad articolo, dopo il ridimensionamento del proprio progetto editoriale iniziale, rende noto che “la testata giornalistica del portale istituzionale del Comune (con tanto di autorizzazione del Tribunale di Bari del 16 marzo 2000, anno in cui nacque appunto il sito online) non ha un direttore responsabile. L’ufficio stampa si regge solo con due istruttori amministrativi, regolarmente iscritti all’Ordine dei giornalisti nell’Albo pubblicisti”. Qualcuno dovrebbe spiegare a questi colleghi che il mondo della comunicazione e dell’informazione è cambiato. In altri Paesi europei come la Germania, Spagna, dove non c’è uno status giuridico vero e proprio dei giornalisti, esattamente come in Inghilterra e negli Stati Uniti d’ America. In Italia i corrispondenti dei quotidiani esteri esercitano la professione di giornalista senza aver alcun Ordine professionale. Un articolo di cronaca economica un giornalista americano lo può consegnare per la pubblicazione nella sostanza identico al Wall Street Journal o al New York Times. Per il diritto di cronaca i giornalisti americani hanno il Primo Emendamento della Costituzione, e sono notoriamente molto più tutelati dei giornalisti italiani. Bisogna provare non solo che le informazioni sono state volontariamente riportate in maniera errata, ma anche che vi era l’intento di nuocere, molto difficile anche per un bravo avvocato lavorare sul confine dell’assenza o meno di malizia. Negli Stati Uniti i giornalisti amano i fatti, mentre in Italia molto spesso vengono mischiati troppo spesso con le opinioni, non solo scrivendo di politica. Le notizie e i commenti, dovrebbero essere sempre ben separati, in quanto sono due lavori diversi. Mentre nei giornali e televisioni italiane è la norma corrente. Basta dare un occhio alla proprietà editoriale per capire di cosa si parla, e sopratutto come si parla. Un giornalista americano Eric Sylvers, che è stato corrispondente americano dall’Italia per il New York Times e il Financial Times, in Italia avrebbe dovuto sostenere un esame di Stato per diventare giornalista professionista, e così commenta: “Lo so e francamente lo trovo ridicolo! Da noi sei un giornalista se ti pagano per fare questo lavoro. Ci risulta davvero difficile capire per quale ragione in Italia venga richiesta un’abilitazione, come se si trattasse di diventare un medico, per esempio”. A mio parere è semplicemente ridicolo ed anacronistico sostenere delle campagne di “casta” per la tutela di un titolo professionale, sempre meno qualificato e sicuramente poco redditizio come comprova la crisi occupazionale dei giornalisti in Italia. Qualcuno dovrebbe spiegare che in RAI la stragrande maggioranza di persone che lavorano nelle redazioni dei programmi sono assunti con contratti da programmatore-regista e non come giornalisti. Che i nostri vertici delle istituzioni e della politica corrono per farsi intervistare nei programmi popolari condotti da Mara Venier e Barbara D’ Urso che giornaliste non sono. Ma in tal caso nessuno dice una parola. Per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti va tutto bene…Non è un caso che i programmi più seguiti e temuti in Italia siano “STRISCIA LA NOTIZIA” e “LE IENE”, i cui inviati non sono iscritti all’ Ordine dei Giornalisti, ma fanno un’ottima informazione, inchieste incisive e risolutive, e lo fanno molto meglio dei giornalisti televisivi con il tesserino in tasca, che si preoccupano solo dei propri privilegi contrattuali. Così come i “comunicatori” del Movimento 5 Stelle che attraverso un buon uso del web hanno letteralmente scavalcato ed annientato la mediazione del giornalista politico o parlamentare. Evidentemente in molti non si sono accorti che il mondo è cambiato. Fa semplicemente sorridere leggere chi scrive e sostiene che qualcuno “Imbattibile con l’online, un vero mago nei contenuti e nei sistemi spesso complessi e oscuri della Rete”, sicuramente (da dove arriva questa sicurezza?) non sia “titolato a dirigere e coordinare una struttura che si occupa di comunicazione. In sostanza preparazione di comunicati, rassegne stampa e rapporti con gli organi di informazione”. Il giornalista del CORRIERE DEL MEZZOGIORNO scrive di “un’altra emergenza molto simile alla Regione Puglia dove con la prossima tornata di concorsi, preannunciata urbi et orbi dall’assessore al Personale” annunciando che “si dovrebbe colmare anche il sottorganico nell’ufficio stampa del consiglio regionale e della giunta con il reperimento di undici unità. Di cui almeno cinque giornalisti, mentre per le altre sei figure in lizza si parlerebbe genericamente di «comunicatori». Per i quali al momento non esiste in Italia né un ordine professionale, né tantomeno alcun titolo, ma solo la rappresentanza di alcune associazioni. Ma forse per la Regione Puglia la tessera di un’associazione vale di più dell’iscrizione a un importante ordine professionale”. La realtà è che spesso i comunicatori sono più preparati, competenti ed elastici dei giornalisti, sopratutto di quelli troppo attaccati ai millantati diritti sindacali, ma che in realtà si preoccupano esclusivamente dei propri interessi economici e non prestano alcun interesse a quei colleghi sottopagati e sfruttati dalle redazioni. E’ la stampa bellezza? No. E’ un mondo autoreferenziale che non ha capito che di anno in anno il loro ruolo sarà quello dei “passacarte”. Basta sfogliare i giornali per rendersi conto della valanga di comunicati stampa copiati ed incollati, che vengono spacciati come articoli, o guardare nei telegiornali filmati forniti dalle Forze dell’Ordine e spacciati come propri.

(Adnkronos il 19 marzo 2021) "La transizione MiTe impone un diverso approccio, etico e riguardoso della persona e della sua immagine anche negli spazi televisivi dedicati alla politica ed ai suoi approfondimenti. Il cittadino ha diritto di essere informato sui contenuti. Non è più tollerabile che il dibattito sui temi che interessano ai cittadini venga svilito da una sorta di competizione al ribasso dove vince chi urla più forte. Non è più accettabile che le immagini dei servizi e degli ospiti in studio vengano svilite con inquadrature spezzettate e artatamente indirizzate. Non è più ammissibile che l'ospite in trasmissioni televisive (rappresentante politico, esperto, opinionista, ecc) venga continuamente interrotto quando da altri ospiti, quando dal conduttore, quando dalla pubblicità, che determina il livello del programma fomentando la litigiosità ed immolando il rispetto della persona sull'altare dell'audience". Lo scrive Beppe Grillo sul suo blog. "Questo modo di fare televisione -aggiunge- non serve a informare, ma a propinare le posizioni degli editori o dei conduttori di turno e queste non interessano ai cittadini. Questa non è informazione, ma intrattenimento di bassa lega che sfocia in propaganda da quattro soldi. D'ora in poi, per rispetto dell'informazione e dei cittadini che seguono da casa, chiediamo che i nostri portavoce, ospiti in trasmissioni televisive, siano messi in condizione di poter esprimere i propri concetti senza interruzioni di sorta per il tempo che il conduttore vorrà loro concedere, e con uguali regole per il diritto di replica, che dovrà sempre essere accordato". "Chiediamo, inoltre, che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate, affinché l'attenzione possa giustamente focalizzarsi sui concetti da loro espressi. Poche regole, di buon senso oltre che di buona educazione, che se osservate -conclude- consentiranno ai portavoce del M5S di presenziare a trasmissioni televisive con la giusta considerazione e il dovuto rispetto nei confronti dei telespettatori".

Grillo massacrato dopo il diktat sui M5s in tv: “Irricevibile, canoni sovietici”. Vito Califano su Il Riformista il 20 Marzo 2021. Continua la parabola grottesca di Beppe Grillo che doveva liberare e redimere l’Italia dalla casta e azionare le energie migliori in onore della democrazia partecipativa, dell’uno vale uno, della transizione ecologica e dell’abolizione della povertà e via dicendo. Il comico e garante del Movimento 5 Stelle se n’è uscito con questo codice per la partecipazione dei suoi per partecipare ai talk show. Buon senso, dice lui. Più che altro un assetto simil berlusconiano o da televisione sovietica, come si è fatto notare. Grillo è arrivato a chiedere, nel testo sobriamente intitolato come di consueto “L’etica dell’informazione”, inquadrature in modalità singola per i suoi. Questo dopo che al vertice di fine febbraio con l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Roma si è presentato con un casco da astronauta. Un notevole primo piano. Il codice di Grillo nel dettaglio: “Il cittadino ha diritto di essere informato sui contenuti. Non è più tollerabile che il dibattito sui temi che interessano ai cittadini venga svilito da una sorta di competizione al ribasso dove vince chi urla più forte. Non è più accettabile che le immagini dei servizi e degli ospiti in studio vengano svilite con inquadrature spezzettate e artatamente indirizzate. Non è più ammissibile che l’ospite in trasmissioni televisive (rappresentante politico, esperto, opinionista, ecc) venga continuamente interrotto quando da altri ospiti, quando dal conduttore, quando dalla pubblicità, che determina il livello del programma fomentando la litigiosità ed immolando il rispetto della persona sull’altare dell’audience”. La nuova etica è stata dettata sul blog di Grillo: “Un diverso approccio, etico e riguardoso della persona e della sua immagine anche negli spazi televisivi dedicati alla politica ed ai suoi approfondimenti. Questo modo di fare televisione non serve a informare, ma a propinare le posizioni degli editori o dei conduttori di turno e queste non interessano ai cittadini. Questa non è informazione, ma intrattenimento di bassa lega che sfocia in propaganda da quattro soldi. D’ora in poi, per rispetto dell’informazione e dei cittadini che seguono da casa, chiediamo che i nostri portavoce, ospiti in trasmissioni televisive, siano messi in condizione di poter esprimere i propri concetti senza interruzioni di sorta per il tempo che il conduttore vorrà loro concedere, e con uguali regole per il diritto di replica, che dovrà sempre essere accordato. Chiediamo, inoltre, che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate, affinché l’attenzione possa giustamente focalizzarsi sui concetti da loro espressi. Poche regole, di buon senso oltre che di buona educazione, che se osservate consentiranno ai portavoce del M5S di presenziare a trasmissioni televisive con la giusta considerazione e il dovuto rispetto nei confronti dei telespettatori”. Una sparata che ha scatenato immediatamente, e giustamente, reazioni senza mezzi termini. Enrico Mentana durante il TgLa7 ha definito “irricevibili” le parole del comico. E quindi: “Ognuno svolge il proprio ruolo, e a questo proposito ci sarebbe da capire quale è il ruolo di Grillo, e già che ci siamo di Conte. Se si chiede chiarezza bisogna anche dare chiarezza”. Bordate anche da Stefano Cappellino su La Repubblica: “Ora decidete voi se questa pretesa di Grillo somiglia più alle regole non scritte del periodo d’oro berlusconiano, quando ogni presenza tv del leader era attentamente studiata da uno staff estraneo al programma che decideva luci, inquadrature e make-up. Oppure se evoca i canoni della tv di Stato bulgara degli anni Settanta. Ma anche qui non crucciatevi troppo: non è detto che i due rimandi storici siano del tutto in contraddizione”. E siccome l’ironia al comico non manca, Grillo è tornato sul suo Facebook poco dopo a sparare nel mucchio: “Continuano imperterriti a chiamarci grillini. In ogni contesto. Noi non ce la siamo mai presa, non ce la prendiamo. Siamo nati francescani, umili. Il diminutivo ha il potere di rendere tutto più simpatico e accettabile. Per cui ne proponiamo l’adozione anche per altre categorie sociali che hanno bisogno di ritrovare il favore dell’opinione pubblica. Basta nomi pomposi e altisonanti! Iniziamo un’azione collettiva di diminutive-washing. Per cui:

Giornalisti -> Giornalistini

Direttori -> Direttorini

Professori -> Professorini

Esperti -> Espertini

Opinionisti -> Opinionistini

Scrittori -> Scrittorini

Conduttori -> Conduttorini

Presidenti -> Presidentini

Commissari -> Commissarini

Politici Pd -> Piddini

Politici di FI -> Berlusconini

Politici della Lega -> Salvinini

Politici di Fdi -> Melonini

Politici di IV -> Renzini

Telegiornale -> Telegiornalino

Giornale -> Giornalino

Talk show -> Talkino

Piccolo è bello!

Luca Telese per “la Verità” il 22 marzo 2021. Allarme catodico in casa 5 Stelle. Beppe Grillo emana un nuovo decalogo sui rapporti tra il Movimento e la tv, accompagnando questo diktat con l' immagine inquietante di un vecchio monoscopio. Il segnale che (un tempo) segnava il silenzio radio, la fine di ogni programma. Dopo aver letto questo messaggio del Garante si possono immaginare solo tre ipotesi: o si tratta di uno scherzo; o si tratta di un tentativo di censura camuffata da battaglia libertaria oppure chi lo ha stilato non capisce nulla di televisione. Dato che nel caso di Grillo la terza non si dà, resta una sola possibilità: si tratta di una burla o di un bavaglio. Perché il tema è questo: il garante Pentastellato pone come condizioni discriminanti delle richieste tecnicamente inattuabili per i talk show. Leggete ad esempio questo passaggio del diktat di Grillo: «Non è più ammissibile che l' ospite in trasmissioni televisive (rappresentante politico, esperto, opinionista, eccetera) venga continuamente interrotto quando da altri ospiti, quando dal conduttore, quando dalla pubblicità, che determina il livello del programma fomentando la litigiosità ed immolando il rispetto della persona sull' altare dell' audience». Ovviamente Grillo sa benissimo che l' interruzione degli spot nella tv commerciale è inevitabile (altrimenti i canali privati, che non percepiscono canone morirebbero), così come sa che i primi a interrompere i soliloqui degli ospiti sono i rappresentanti del suo Movimento. Così come Grillo sa bene che ogni buon conduttore deve limitare la vocazione innata dei politici al pistolotto o al monologo. La cosa che però fa pensare a una burla, leggendo questo decalogo, sono le righe successive, dove si scade quasi nel grottesco. Secondo Grillo, infatti, bisognerebbe attenersi a queste prescrizioni: «Chiediamo che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate, affinché l' attenzione possa giustamente focalizzarsi sui concetti da loro espressi». A parte la gag sulle calzature, viene davvero da sorridere. Nel linguaggio della televisione, la regia rappresenta il pubblico di quelli che sono a casa. Consente, cioè, di capire cosa sta accadendo. Il «controcampo» è l' occhio di chi non può essere in studio perché è lontano. Ovviamente Grillo cerca una motivazione alta al suo veto: «Questo modo di fare televisione non serve a informare, ma a propinare le posizioni degli editori o dei conduttori di turno e queste non interessano ai cittadini». È vero il contrario. Il suo proclama rappresenta un bavaglio in primo luogo per i suoi «portavoce» che (se chiedessero di applicare questo precetti) resterebbero fuori da tutti i talk in cui, invece, si sono conquistati il diritto di parola. Altra postilla: molti ascoltatori non sanno che la scelta dei campi e delle inquadrature è una prerogativa indiscussa che attiene alla libertà professionale del regista. Che più è bravo, più riesce «a far vedere» meglio (in un tempo rapido) ciò che accade in uno studio. E così, molto spesso, sono i conduttori che entrano in conflitto con i loro demiurghi, tant' è vero che - più di una volta - è capitato che in onda degli anchorman di ogni segno e colore (da Paolo Del Debbio a Lilli Gruber) chiedessero al proprio regista di «silenziare» e di «chiudere i microfoni». Il controllo assoluto dello studio, infatti, corrisponde al silenzio. Celebre è rimasto lo stop foriero di polemiche della conduttrice di Otto e mezzo a Matteo Salvini: «Sono costretta a togliere l' audio». Mentre l' ultima perla di Del Debbio - con uno stile decisamente più prosaico e più ruvido - è stato un botta e risposta con Vauro: «Adesso ti chiudo il microfono perché mi sono rotto i coglioni!». Dice ancora Grillo: «Non è più accettabile che le immagini dei servizi e degli ospiti in studio vengano svilite con inquadrature spezzettate e artatamente indirizzate». Ma il punto è questo: Grillo ha in mente sé stesso, e il tempo del monologo di un solo, e di un elevato, in un codice che è quello teatrale, esattamente il contrario del pluralismo, della dialettica, e quindi della democrazia (non solo in tv). Scrive giustamente Enrico Mentana, lanciando una sfida: «Chiedo ai rappresentanti del M5s ospitati in questi anni nelle nostre trasmissioni di prendere posizione sulle disposizioni date da Beppe Grillo riguardo alle presenze tv degli esponenti del Movimento». Aggiunge il direttore del Tg di La7: «Qualora si dovessero confermare quelle linee, dal mio punto di vista irricevibili, saranno adottate dal M5s» , conclude Mentana, «ne dovremo trarre le conseguenze». Un guanto di sfida. Non si può far altro di augurarsi che sia presto raccolto.

In un solo istante Grillo si improvvisa giornalista, regista, cameraman e chissà che altro. Detta le condizioni per avere i suoi parlamentari in televisione. Come fossero suoi, davvero. Ma l’errore è il nostro che glielo abbiamo sempre permesso. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 20 marzo 2021. Beppe Grillo ci ricasca. E come all’inizio della sua esperienza politica prova a dettare la linea non solo ai suoi seguaci ma anche all’informazione. Così, il rifondatore del Movimento 5 Stelle, smanioso di tenere sotto controllo l’intero processo di mutazione genetica della sua creatura, pubblica un post sul suo Blog intitolato L’etica dell’informazione. Di etico, in realtà, a spulciare tra le parole vergate dal garante pentastellato c’è ben poco. Evidente, invece, è il vademecum, se non l’editto, di Beppe sul sistema di comunicazione. Il senso del messaggio, riassunto all’osso, è: se volete ospiti del M5S in studio dovete fare come dico io. E come dice Grllo? Così: «Chiediamo che i nostri portavoce, ospiti in trasmissioni televisive, siano messi in condizione di poter esprimere i propri concetti senza interruzioni di sorta per il tempo che il conduttore vorrà loro concedere, e con uguali regole per il diritto di replica, che dovrà sempre essere accordato». Giusto, sacrosanto. Ma non finisce qui: «Chiediamo, inoltre, che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate, affinché l’attenzione possa giustamente focalizzarsi sui concetti da loro espressi». In un solo istante Grillo si improvvisa giornalista, regista, cameraman e chissà che altro. Detta le condizioni per avere i suoi parlamentari in televisione. Come fossero suoi, davvero. Sembra esser tornati all’epoca in cui per avere un grillino in studio bisognava garantire l’assenza di contraddittori politici. Un giornalista al massimo e nessun esponente di altri partiti. Insomma, Grillo ci ricasca. Ma l’errore è il nostro che glielo abbiamo sempre permesso.

Enrico Mentana contro Beppe Grillo e il diktat sui M5s in tv: "Parole irricevibili, pensi a svolgere il suo ruolo".  Libero Quotidiano il 20 marzo 2021. Beppe Grillo detta le regole di comportamento ai suoi, persino per andare in tv. Ed Enrico Mentana lo massacra in diretta. Il comico, in un post si lamenta dei talk show e attacca: "Chiediamo che i nostri portavoce, ospiti in trasmissioni televisive, siano messi in condizione di poter esprimere i propri concetti senza interruzioni", "chiediamo, inoltre, che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate, affinché l'attenzione possa giustamente focalizzarsi sui concetti". Per Grillo si tratta di "poche regole, di buon senso oltre che di buona educazione, che se osservate consentiranno ai portavoce del Movimento Cinque Stelle di presenziare a trasmissioni televisive". Un diktat quello di Grillo che non è piaciuto a Enrico Mentana. Come riporta il Corriere della Sera, il direttore del TgLa7 ieri sera 19 marzo, durante lo speciale del telegiornale sulla conferenza di Mario Draghi, replica durissimo: "Sono parole irricevibili". E ancora: "Ognuno svolge il proprio ruolo, e a questo proposito ci sarebbe da capire quale è il ruolo di Grillo, e già che ci siamo di Conte. Se si chiede chiarezza bisogna anche dare chiarezza". Una bordata. Nel Movimento 5 stelle, intanto, c'è tensione. I grillini sono in uno stallo politico totale e crescono i malumori versoi vertici e verso Giuseppe Conte da parte dei parlamentari. "Ci viene chiesto di non muoverci sia a livello di immagine personale sia per mosse politiche sui territori, ma tutto rimane fermo: non è accettabile", si sfogano alcuni pentastellati. Da oggi 20 marzo è formalmente scaduto anche l'interregno di trenta giorni della discussa reggenza di Vito Crimi e si è aperta di fatto una fase di vuoto di potere. "Anche se Conte presentasse il suo piano a ridosso di Pasqua e si superassero in tempi brevi i problemi con Rousseau, il nuovo M5S non potrebbe essere ufficialmente operativo prima di maggio", chiarisce un deputato. 

Giletti scarica Grillo dopo il diktat sulle ospitate tv: "Pensa di essere in Corea del Nord". Le regole che Grillo vorrebbe imporre ai conduttori tv per gli ospiti pentastellati non piacciono a Massimo Giletti, pronto a rinunciare ai grillini. Francesca Galici - Sab, 20/03/2021 - su Il Giornale.  Ha fatto molto discutere il diktat dei giorni scorsi di Beppe Grillo in merito alla presenza dei pentastellati nelle trasmissioni televisive. L'ex comico ha stilato un vero e proprio decalogo di norme che secondo lui dovrebbe rispettare chi invita un esponente del Movimento 5 Stelle nelle sue trasmissioni: nessuna interruzione ai loro interventi, nessuno split con altri ospiti in studio, inquadratura fissa, niente stacchi sulle scarpe o su altri ospiti politici. In sostanza, Beppe Grillo chiude a qualunque dibattito politico in favore di brevi monologhi non interattivi. Sono condizioni che difficilmente un conduttore televisivo è pronto ad accettare e lo dimostra la reazione di Massimo Giletti, raggiunto telefonicamente dall'agenzia AGI. "Forse Grillo pensa di essere in Corea del Nord, il suo diktat mi mette una profonda tristezza, soprattutto perché arriva da un uomo intelligente come lui", ha spiegato il conduttore di Non è l'Arena, il programma in onda la domenica sera su La7. Secondo Massimo Giletti, quella di Beppe Grillo è un'esternazione frutto di un momento di difficoltà del MoVimento, che da tempo sta attraversando una fase politica calante: "Credo che questa esternazione di Grillo racconti le difficoltà che stanno vivendo i Cinque stelle, e mi rincresce molto perché al Movimento riconosco il merito di aver dato voce alla rabbia sociale evitando di farla sfociare in violenza". Il conduttore di La7, poi, continua: "Piuttosto che alle inquadrature, Grillo dovrebbe pensare ai contenuti. Con queste richieste sembra un erede del cambogiano Pol Pot". Parole forti da parte di Massimo Giletti nei confronti di Beppe Grillo, dal quale Massimo Giletti all'AGI ammette di non voler accettare richieste di questo tipo per i suoi programmi. Piuttosto il giornalista si dice pronto a non avere più esponenti del Movimento 5 Stelle nel suo programma domenicale. Con grande onestà, però, Massimo Giletti crede che per quanto riguarda la sua trasmissione non dovrebbe porsi il problema di accettare o meno il diktat di Beppe Grillo: "Credo però che il problema per quanto mi riguarda non si porrà, perché ho sempre avuto difficoltà ad averli nel mio studio". Pare, infatti, che i pentastellati non vogliano (o non possano) da tempo frequentare il salotto domenicale di Non è l'Arena. Massimo Giletti ha anche individuate qual è stato il momento preciso che ha segnato quasi uno spartiacque nei rapporti con i grillini: "Da quando mi sono occupato dell'ex ministro Bonafede relativamente alla questione della scarcerazione dei mafiosi i miei inviti purtroppo sono caduti nel vuoto".

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 20 marzo 2021. È al centro dei nostri pensieri, un chiodo fisso, qualcosa che scandisce i ritmi della nostra giornata, insomma non pensiamo ad altro: alla transizione ecologica, anzi alla «transizione MiTe» come la scrive e descrive Giuseppe Piero Grillo (Beppe per gli amici) sul suo blog. Il comico-politico Grillo dev' esser convinto che anche Mario Draghi non pensi ad altro, al punto da aver esposto proprio sul suo blog - attenzione - una nuova «Etica dell'informazione». Ne ha riscritto le regole che ora vi riportiamo, anche se - scusate lo spoiler - la sostanza è questa: bisogna comportarsi al contrario di come hanno sempre fatto i grillini. Beppe Grillo, fondatore del M5S e grande urlatore, adesso vuole toni soft Prima cosa da notare: Grillo è quel signore che aveva detto che (anche) la tv era morta, ma ora parla solo di comportamenti televisivi: la prima notizia, quindi, è che la tv è resuscitata (periodo pasquale, sapete). Ora scrive che «La transizione MiTe impone un diverso approccio, etico e riguardoso della persona e della sua immagine anche negli spazi televisivi dedicati alla politica», quindi dobbiamo dedurre che prima (prima della mitica transizione) negli spazi dedicati alla politica andasse bene anche un approccio immorale e irriguardoso: ecco perché gli ospiti grillini facevano sempre un gran casino e rendevano ingovernabili i talkshow. Era una strategia. Non è che fossero incivili di loro. Che furbi.

 LA "SVOLTA ETICA". Ma proseguiamo con la svolta etica di Grillo: «Non è più tollerabile che il dibattito venga svilito da una sorta di competizione al ribasso dove vince chi urla più forte», scrive l'inventore del «Vaffanculo» come manifesto politico. Prima, deduciamo, era tollerabile: e siccome gli specialisti erano ancora i grillini, comprendiamo che trattavasi anch' essa di strategia: ora si passerà al «pssst.. shhh fai piano vaffanculo». Diabolico. E ancora: «Non è più ammissibile che l'ospite venga continuamente interrotto quando da altri ospiti, quando dal conduttore, quando dalla pubblicità immolando il rispetto della persona sull'altare dell'audience». Anche qui: rivoluzionario. In pratica va abolito il dibattito (si deve parlare uno alla volta, in sequenza) e va abolita anche la cosiddetta scaletta, quella che serve a contingentare i tempi e gli argomenti previsti, e che comprendono anche i contributi filmati (i servizi, i collegamenti) per non sforare a fine trasmissione, col rischio di escludere la pubblicità che tiene in piedi la baracca. Straordinario. Ma non è finita, perché Grillo passa ai consigli di regia: «Non è più accettabile che le immagini dei servizi e degli ospiti vengano svilite con inquadrature spezzettate e artatamente indirizzate». Ergo, inquadrature fisse come negli anni Settanta quando c'era «Tribuna politica» o «Vangelo vivo», grandi successi ai tempi in cui l'Auditel non esisteva. E ha ragione. Basta con le regie sincopate e mosse (spesso rimontate e spezzettate in falsa diretta, in post-produzione) e viva la camera fissa, magari senza operatore, e perché no, senza regista: basterà un timer e la camera si sposta da sola. Nostro contributo: suggeriamo anche fari a occhio di bue sparati dall'alto, stile Santoro: sono più drammatici e darebbero carisma anche a un cavolfiore; sconsigliamo invece la luce diffusa, tipo show pomeridiano della domenica: spiana le rughe, ma fa sembrare più grassi. Parentesi: non si vorrebbe mai, ora, che qualcuno stesse pensando che stiamo sfottendo Beppe Grillo. Guai. Falso. Anche perché, da un'informazione meno urlata, dove ciascuno abbia tempi e modi per esporre pacatamente le proprie idee (cioè quelle dettate dalla segreteria) in fondo hanno tutti da guadagnarci. Non è forse vero - domanda - che ci lamentiamo di continuo perché nei talkshow «non si capisce niente» perché «urlano tutti» anche se poi ce li guardiamo lo stesso da perfetti coglioni? Non è forse vero che anche i giornaloni, nelle loro articolesse, lamentano l'infimo livello di certi pollai televisivi anche se poi, nei loro siti internet, nella colonnina di destra, riportano solo i video in cui Tizio s' azzuffa con Caio e si esprime sulla madre di Sempronio? La faccenda è seria, e se qualcuno sta pensando che stiamo sfottendo Beppe Grillo, sappia, insomma, che ha ragione. Perché Grillo, vedete, si riferisce agli ospiti dei talkshow, immaginiamo i politici: ma mica tutti. Parla solo dei suoi. Scrive: «D'ora in poi, per rispetto dell'informazione e dei cittadini che seguono da casa, chiediamo che i nostri portavoce, ospiti in trasmissioni televisive, siano messi in condizione di poter esprimere i propri concetti senza interruzioni di sorta». Questo, naturalmente, «con uguali regole per il diritto di replica, che dovrà sempre essere accordato». Pure la replica obbligatoria: anche se magari non ti ha filato nessuno. Ci sono anche i dettagli di regia personalizzzati: «Chiediamo che i nostri portavoce siano inquadrati in modalità singola, senza stacchi sugli altri ospiti presenti o sulle calzature indossate». Grillo deve pensare che abbiano scarpe inguardabili. O forse ignora che nelle puntate registrate (regola valida per tutti) quegli stacchetti, quei tagli delle camere sulle scarpe o su un altro ospite o su altro ancora, servono a movimentare o a tagliare i dialoghi troppo lunghi o ripetitivi nelle puntate registrate, in cui talvolta si registra più del dovuto. Come nei film. Il cambio rapido d'inquadratura inoltre serve proprio per spezzare la monotonia dell'inquadratura fissa che Grillo vorrebbe accoppiare col monologo fisso. Una tv in stile vecchia Polonia.

PEDAGOGO. Oddio: esistono anche persone civili che si rendono conto che il tempo è contingentato e che hanno l'accortezza di dire addirittura «grazie, ho finito, questo volevo dire». Quanti ne avete visti? In Italia, s' intende. Tra i grillini, soprattutto. Conclusione del Grillo in versione pedagogo televisivo - uno che notoriamente non esce mai dalle righe - è scolastica: «Poche regole di buon senso, oltre che di buona educazione, che se osservate consentiranno ai portavoce del M5S di presenziare a trasmissioni televisive con la giusta considerazione». Sintesi nostra: bisogna far parlare i grillini inquadrandoli fissi e senza interromperli, anzi, aspettando che siano loro a smettere di parlare. Gli altri continuino pure a scannarsi.

·        Le Redazioni Partigiane.

La Stampa è il cane da guardia della democrazia: CANE CHE NON MORDE IL SUO PADRONE.

Rete 4, la rete dell’odio diventata irrilevante. Luca Bottura su L'Espresso il 27 ottobre 2021. Il giorno dopo la batosta elettorale della destra, i talk show spazzatura sono andati avanti come se nulla fosse alimentando la loro narrazione. Ma neppure chi li guarda è andato a votare. Faceva effetto, la sera post-ballottaggi, guardare Rete 4. La sera in cui si celebrava il (momentaneo) tonfo dell’estrema Destra (ex) catodica, di quell’agglomerato televisivo fatto di livore e lavorio ai fianchi del popolino, sorta di crasi in movimento della foia complottista così bene rappresentata dai quotidiani sovranisti, quelli sospesi tra palco e realtà. Faceva effetto perché nulla era cambiato. Il solito conduttore che al mattino su Facebook sproloquia come un Montesano più parolacciaro, i soliti opinionisti a senso unico, la solita rappresentanza minoritaria di chi pure aveva vinto le elezioni, presente in studio a mo’ di ostaggio. Spero remunerato. Faceva effetto perché su quella linea da minoranza rumorosa si erano appena schiantati Salvini, la Meloni, i loro social media manager così impegnati a indirizzare l’odio verso qualcuno, da dimenticarsi che poi però serve il consenso. Che se presenti candidati incapaci di allacciarsi le scarpe, o capaci solo dando la colpa alla Trojka qualora non ci riescano, la gente magari non vota i «comunisti dei poteri forti». Questo no. Ma sta a casa. E se sta a casa, perdi. E se perdi, poi ti tocca, come Meloni, rinculare paurosamente sulla strada già tracciata del voto anticipato. E a poco servono i microfoni furbeschi sventolati davanti all’ennesimo disturbato contro il green pass, le balle spaziali dei Giordano di turno sul certificato medesimo, i vox populi orientati, i titoletti furbeschi, la fabbrica del dissenso incapace, ma guarda un po’, di costruire il consenso. Cioè i voti. Che poi, certo, alle politiche sarà diverso. L’italiano medio, lo spettatore di Rete 4, ma non solo, si è ormai abituato, complici dieci anni di governi che nulla c’entrano con la volontà popolare, ammesso esista, a votare come un tempo si faceva alle Europee. Preferenze di testimonianza, per dirla bene. Una croce alla cazzo, da ultrà, se la si vuole dir tutta. Ché se devi scegliere chi ti tapperà le strade, il mitomane proveniente dall’antica Roma lo lasci a casa. Se invece le sorti sono quelle del Paese, dello Stato, dell’entità indefinita che (quale scempio) ti chiede le tasse e di cui vuoi lamentarti al bar, o sui social, che è poi la stessa cosa, allora puoi permetterti di scegliere la squadra del cuore. Devi. Che sia mussoliniana, poco importa. Anzi: la voti proprio per quello, per rifocillare il tuo antagonismo sul nulla con un gesto dadaista. Motivabile, ragionevole, quasi auspicabile, se a compierlo è la parte del Paese che dalla politica nulla riceve, dalla quale è dimenticata e derisa, buona solo sotto elezioni e mai più, povera per davvero. Insopportabile, vergognosa, fonte del guano in cui controvoglia guazziamo, se viene da chi rivendica il diritto a fare l’accidenti che predilige come sempre. E ha deciso che sia lo Stato, quindi i poveri veri, a saldare la differenza tra le sue aspettative di Miracolo economico e un presente fatto di sacrifici per tutti. Persino per lui. L’anarcoide egoriferito che gonfia quei giornali, quelle tv, quei social. La novità, a ‘sto giro, è che ha perso perfino lui. Che sia accaduto insieme a Meloni e Salvini è definitivamente irrilevante.

Fatto Quotidiano, "Pd e M5s insieme vincono": la surreale prima pagina di Travaglio dopo le amministrative. Libero Quotidiano il 05 ottobre 2021. Ogni quotidiano ha una sua linea e una sua vicinanza politica, più o meno spiccata e più o meno palese. Ovvio, scontato. Noi di Libero, per esempio, all'indomani del voto rimarchiamo in prima pagina come il voto sia "un campanello d'allarme" per il centrodestra. Ne segue titolo di apertura: "Sveglia centrodestra". Quindi, in sintesi: "Ko a Milano, al ballottaggio solo Roma, Torino e Trieste. Consolazione Calabria". Già, per il centrodestra non è andata bene. Affatto. Doveroso riconoscerlo. E poi, giusto per pescare un giornale dal mazzo, c'è Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, megafono e gazzettino del M5s di Giuseppe Conte. E la prima pagina confezionata oggi dal direttore contiano è uno spettacolo. Uno spettacolo comico: deliziosa, strepitosa, imperdibile. Già, perché, considerato il disastroso tracollo dei grillini guidati da Conte alle amministrative, forse il gazzettino-M5s poteva suggerire al suo punto di riferimento una "sveglia". Ma invece no, non accade. Il titolone di prima pagina recita: "Pd e 5Stelle uniti vincono, le destre unite perdono". E si trasecola: ma come? Travaglio cerca davvero di spacciarci come una mezza vittoria quella del M5s, in tandem con quello stesso Pd che ha insultato, deprecato e ritratto come una banda di gangster per anni? Pare proprio di sì: quando si dice "essere senza vergogna...". Ma si immagina che, studiando meglio la prima pagina, si possano trovare accenni critici ai tanto-cari-grillini. Dunque, leggiamo l'occhiello del titolone: "Il centrosinistra prende Milano, Bologna e Napoli al primo turno". Nessuna critica. Proseguiamo col catenaccio: "Male la lega e il M5s, bene Meloni e Pd". Oh, per fortuna: "Male il M5s", l'aspra critica la abbiamo trovata, ben infognata e in verità assai poco "aspra". Viene poi rivendicato quasi con orgoglio il risultato a Roma di Virginia Raggi, "terza", come se per un sindaco uscente non arrivare neppure al ballottaggio non sia una specie di tregenda politica. Sublime, infine, il richiamo a un articolo all'interno del quotidiano, il quale recita: "I voti M5s decisivi a Roma e Torino. Conte arbitro dei 2 ballottaggi: sì a Gualtieri, ma no a Lo Russo". Insomma, un trionfo: il fulgido "Giuseppi" Conte "arbitro" del secondo turno (ma de che?). E poi ovviamente c'è lui, c'è Travaglio, col suo "graffiante" fondo nel quale si legge che "i non votanti - primo partito d'Italia - sono soprattutto ex elettori 5Stelle in attesa di un'offerta credibile. È un monito soprattutto per Conte, che dovrà trovare linguaggi e contenuti di populismo gentile e competente per recuperare almeno una parte delle periferie sociali ed elettorali che non si sentono rappresentate da nessuno". Che prosa, che tatto: Travaglio sembra essersi trasformato improvvisamente in Paolo Mieli, abbandonando insulti e toni forcaioli, per spendersi in compite analisi e posati scenari. Una pacata analisi in cui il disastro alle urne per il M5s viene confezionato e presentato come "un monito per Conte", il quale, va da sé, per i grillini e secondo Travaglio resta l'unica speranza. Grassissime risate...

IL VERO PORTAVOCE DEL M5S “TARGATO” GIUSEPPE CONTE E’ IL FATTO QUOTIDIANO! Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2021. Il giornalista toscano del Fatto Quotidiano, opinionista televisivo su Rai3 a spese del contribuente, e su La7, e conduttore di “Accordi e Disaccordi” programma prodotto dalla factory televisiva del Fatto Quotidiano sul Nove, finge di voler intervistare Conte, diventando comprimario e “spalla” del suo percorso elettorale. Giuseppe Conte, presidente del M5s “bis” sta girando in tournée elettorale i comuni italiani dove si vota per promuovere i candidati del M5s che si svolgeranno programma per il 3-4 ottobre prossimi. Una scadenza importante per le sue sorti politiche, visto che per lui si tratta del “battesimo del fuoco” nelle nuove vesti di leader di partito, a cui Grillo ha già addossato ogni responsabilità sui risultati elettorali. E’ scontato che un disastro in termini di voti offuscherebbe la sua fama immeritata di idolo delle folle, amplificando i numerosi detrattori che ha all’interno del Movimento stesso fra i quali il fondatore Beppe Grillo che non ha proferito parole di elogio sul suo conto dopo i noti contrasti pubblici. Conte ha già tentato di mettere le mani avanti, cercando preventivamente di separare il suo destino dall’esito delle consultazioni amministrative i cui sondaggi sono vicini al disastro per i pentastellati. In questa situazione è ben accetto chiunque possa aiutare Conte. L’imbarazzante aiuto si è manifestato a Montevarchi, in provincia di Arezzo sotto forma del giornalista Andrea Scanzi (il “furbetto della vaccinazione”). dove il leader dei 5 Stelle si è presentato per sostenere pubblicamente il candidato sindaco Luca Canonici appoggiato dalla strana “coppia” M5S -PD. Il giornalista toscano del Fatto Quotidiano, opinionista televisivo su Rai3 a spese del contribuente, e su La7, e conduttore di “Accordi e Disaccordi” programma prodotto dalla factory televisiva del Fatto Quotidiano sul Nove, ha finto di voler intervistare Conte, diventando comprimario e “spalla” del suo percorso elettorale. Immancabile l’attacco congiunto di Conte & Scanzi contro Italia Viva e Matteo Renzi, considerato la causa della conclusione del Governo Conte e dell’idillio piddino-grillino. “Giuseppi” Conte ha dichiarato: “Con il Pd avevamo un chiaro progetto, compromesso da unforza politica che ha pensato al proprio tornaconto. Una forza politica che non c’era prima, perché Italia Viva si è costituita dopo con una operazione artificiosa”. Ed è stato a questo punto che è intervenuto Scanzi con il suo squallido commento abituale: “Italia Viva non c’è neanche adesso…”. La nuova accoppiata Conte-Scanzi, più che in un comizio elettorale, credevano di partecipare a una puntata di “Otto e mezzo” senza la sodale Lilli Gruber. Se Italia Viva non c’era prima, e non c’è neanche adesso, la realtà è che il Governo Conte bis è caduto e il Governo Conte ter non è mai nato. Quindi non può ritenersi lusingato Giuseppe Conte ad essere stato mandato a casa, sfrattato da Palazzo Chigi, da qualcuno che, secondo l’ex-premier ed il suo “supporter” Andrea Scanzi, di fatto non esiste neppure! Provate ad immaginare cosa sarebbe successo se a un comizio di Silvio Berlusconi anni fa fosse comparso qualche giornalista di centrodestra contrattualizzato dalle reti Mediaset o dalla Rai per fargli da supporter.

Repubblica si rimangia l’assunzione del “fascista” Magliaro e dimentica i trascorsi di Scalfari nei Guf. Redazione lunedì 13 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Discriminato in base al cognome. E’ accaduto al giornalista Fernando Magliaro, la cui esemplare vicenda è stata raccontata ieri sul quotidiano Libero. In pratica Magliaro, oltre a essere un esperto di cronaca di Roma, è anche figlio di Massimo Magliaro, già capo dell’ufficio stampa di Giorgio Almirante. Questa la ragione per cui Repubblica, dopo avergli assicurato l’assunzione, ha cambiato idea nel giro di poche ore. Tutta colpa di quella genealogia sospetta, macchiata di “fascismo” insomma. Pochi giorni fa – racconta Libero – “Magliaro si era dimesso dal quotidiano per cui lavorava da quattordici anni, Il Tempo, con tanto di saluti di rito via Twitter. Per dire quanto era sicuro del suo futuro prossimo. Che si chiama, o meglio si chiamava, Repubblica, con cui aveva un pre-accordo. A fine agosto gli viene comunicato che il vicedirettore Carlo Bonini ha confermato l’ingaggio e avrebbe a breve firmato il contratto di collaborazione, per prendere servizio l’1 settembre. Al momento fatidico, gli viene però annunciato che la collaborazione è stata bellamente stracciata dal direttore responsabile Maurizio Molinari”.

E allora Scalfari che era valente fascista da giovane?

E’ d’obbligo a questo punto rammentare che il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, scriveva su “Roma fascista” e militava nei Guf (Giovani universitari fascisti). Non solo: quattro anni fa Micromega pubblicava un breve testo dello studioso Dario Borso. Si scopriva così che Scalfari iniziò il suo impegno giornalistico fascista ben prima di quanto si è finora creduto: non nella seconda metà del 1942, su Roma fascista. Ma – con maggiore coerenza mussoliniana e assoluta fedeltà alla «battaglia spirituale» del Duce – molti mesi prima, con una serie di articoli (che erano spariti, e ora ritrovati) su Gioventù italica e Conquiste d’Impero.

Il servizio non è stato trasmesso né dal Tg1 né dal Tg3. Tg2 filocinese, Anzaldi prepara interrogazione: “Voglio sapere che ne pensano Fuortes e Soldi”. Redazione su Il Riformista il 29 Agosto 2021. Il Tg2 è stato l’unico notiziario Rai a trasmettere l’ormai famoso servizio della corrispondente da Pechino Giovanna Botteri sull’introduzione del pensiero di Xi Jinping nel sistema scolastico, fin dalle elementari. Né il Tg1, né il Tg3 lo hanno mandato in onda facendo pensare che sia stato richiesto espressamente dal direttore Gennaro Sangiuliano tanto che Marco Taradash, radicale vicino al cd senza però essere filo sovranista: “Il direttore si chiama Gennaro Sangiuliano, un ammiratore di tutte le dittature scelto da Salvini. La giornalista Giovanna Botteri, corrispondente da e sponsor di Pechino. Se ne devono andare di corsa dalla Rai, come cavalli scossi”. Sulla stessa linea i commenti di Oscar Giannino: “Io della RAI non rimango stupito mai da anni e anni… nei partiti ITA c’è chi la pensa esattamente come in questo servizio e la RAI è dei partiti”. Quindi Michele Anzaldi, Segretario della commissione di vigilanza Rai, che con il suo tweet ha fatto cadere la prima tessera del domino, ha fatto sapere che intende dare seguito alle sue parole. “Sto lavorando per presentare un’interrogazione, se possibile anche con firme trasversali, per fare luce sulla trafila redazionale che ha portato alla messa in onda di quel servizio: se è stato richiesto dalla redazione o proposto dall’ufficio di corrispondenza, chi lo ha supervisionato, quale vicedirettore era di turno, quale caporedattore lo ha avallato”. E poi Anzaldi conclude: “È opportuno fare luce su tutte le responsabilità. Sarà interessante conoscere l’opinione dell’Ad Fuortes e soprattutto della presidente Soldi, che ha competenza su tali questioni”.

Giovanna Botteri dalla Cina, Anzaldi contro il servizio sul presidente Xi: "Neanche la tv di Stato di Pechino, roba da Istituto luce". Libero Quotidiano il 29 agosto 2021. La giornalista Rai Giovanna Botteri ancora sotto accusa. Il siluro parte nuovamente da Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e storico membro (anzi, agitatore) della Commissione di vigilanza Rai sempre pronto a sganciare bombe su viale Mazzini portando a galla scandali, scandaletti e magagne. Questa volta il casus belli è dato da un servizio firmato dalla Botteri per il Tg2. Si parla del "nuovo corso" comunista a Pechino, con la obbligatorietà per tutte le scuole cinesi, dalle elementari in su, di studiare il pensiero del presidente cinese Xi Jinping. Una decisione storica, certo. La macchina della propaganda rossa tocca nuovi orizzonti. Ma Anzaldi contesta alla corrispondente Rai da Pechino toni un po' troppo enfatici, quasi trionfalistici. Il presidente Xi Jinping viene definito nel servizio "il nuovo grande timoniere" della Cina, l'erede designato del padre della patria Mao, capostipite di una "nuova era". Elegia del dittatore, insomma, o giù di lì. Un ritratto "agiografico", sottolinea il renziano Anzaldi, "da far impallidire l'Istituto Luce, la tv di Stato cinese sarebbe stata più critica. Quindi la domanda, più che maliziosa: "Che c'entra questa propaganda col servizio pubblico Rai?". Ma stavolta dalla Rai arriva la dura, asciutta replica all'onorevole di IV, firmata direttamente dal Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano, che in questi mesi sta incassando grandi risultati sul piano degli ascolti. Dalla redazione invitano Anzaldi a riascoltare il servizio della storica corrispondente sottolineando "il raffinato senso di ironia della collega che ha fatto, come sempre, il suo dovere di cronista: raccontare i fatti, senza appesantire la narrazione con giudizi espliciti o personali".

"Le mie parole...". Così Giorgia Meloni ha asfaltato chi la scredita. Francesca Galici il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. La Meloni lancia l'allarme sulle mire dei talebani sul Pakistan. L'Espresso la attacca sui social ma la leader di Fdi si difende e va al contrattacco. Dopo la presa di ferragosto di Kabul da parte dei talebani, gli scenari geopolitici si sono fatti molto più complessi. Il Medioriente è una corda di violino straordinariamente tesa e l'incertezza domina sovrana in molti Paesi. Traendo spunto da un articolo del Corriere della sera dal titolo "La vittoria talebana e le mire sul Pakistan nucleare", Giorgia Meloni in settimana ha rilasciato alcune dichiarazioni con cui ha alzato l'allerta su quanto potrebbe accadere nei prossimi mesi. Le sue parole sono state, però, utilizzate dal settimanale L'Espresso per deridere la leader di Fratelli d'Italia sulle sue presunte poche conoscenze di geopolitica. Durante il meeting di Comunione e liberazione, parlando di "conseguenze geopolitiche imprevedibili" dopo i fatti di Kabul, Giorgia Meloni ha sottolineato come il Pakistan, uno Stato islamico dotato di bomba atomica, "rischia di finire sotto controllo dei talebani". Niente di nuovo per chi conosce le dinamiche di quelle realtà, come infatti spiega il Corriere della sera, che riprende a sua volta The Economist: "La presa di Kabul apre la strada alla destabilizzazione di fatto del Pakistan. Con ogni probabilità, non appena i talebani avranno consolidato il potere, tra le altre cose rivolgeranno lo sguardo verso il Paese confinante, con l’obiettivo di influenzarlo seriamente". Tuttavia, le parole di Giorgia Meloni sono finite nel calderone de L'Espresso tra le "dichiarazioni peggiori della settimana" in un articolo dal titolo "Meluzzi e la geopolitica di Giorgia Meloni: vota il peggio". Sfuggendole il motivo per il quale la sua dichiarazione sul Pakistan sia da considerare tra le peggiori della settimana, la leader di Fratelli d'Italia non ha mancato di replicare a L'Espresso, ribadendo quanto già detto. "La disastrosa gestione del disimpegno dall’Afghanistan da parte di Biden apre scenari inquietanti", ha scritto Giorgia Meloni. La leader di FdI, quindi, spiega quali siano questi scenari: "La vittoria dei talebani in Afghanistan rischia di galvanizzare gli integralisti islamici in tutto il mondo, e il 'bottino' più ricco al quale puntare è per loro il controllo del Pakistan e della sua bomba atomica". Un'analisi non inedita quella di Giorgia Meloni, che consiglia la lettura dell'articolo del Corsera anche ai giornalisti de L'Espresso, "che hanno inserito la mia dichiarazione su questo esatto tema nello "stupidario" della settimana".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

"Agiografia...", "Richiesta di censura...": è scontro per il servizio del Tg2 su Meloni e Orban. Francesca Galici il 29 Agosto 2021 su Il Giornale. Il Tg2 informa sull'incontro tra Giorgia Meloni e Viktor Orban e della commissione Vigilanza Rai scattano le proteste per la messa in onda del servizio. Nelle scorse ore, Giorgia Meloni ha incontrato il premier ungherese Viktor Orbán, che si trova in Italia per alcuni giorni di vacanza e per partecipare al meeting della rete internazionale dei legislatori cattolici (ICLN). Oggetto dell'incontro, al quale hanno partecipato anche il ministro per la Famiglia e vice presidente di Fidesz, Katalin Novak, e il responsabile Esteri di FdI, Carlo Fidanza, sono stati i temi di più stretta attualità, incluso l'Afghanistan. Tuttavia, la notizia dell'incontro data dall'edizione serale del Tg2, ha scatenato le polemiche da parte degli oppositori di Fratelli d'Italia, ai quali ha prontamente replicato Daniela Santanchè. Ad alzare la voce contro il telegiornale del secondo canale Rai è stato Michele Anzaldi, deputato di Italia viva e segretario della Vigilanza Rai. In un'intervista rilasciata a Vigilanza Tv, l'esponente del partito di Matteo Salvini dichiara: "Il Tg2 confeziona uno spot a favore della leader di Fratelli d'Italia e del suo alleato Orbán, esaltando i successi del regime ungherese senza evidenziarne le tante ombre". Quindi, Anzaldi rincara: "Tornando all'agiografia dell'Ungheria di Orbán e della Cina di Xi Jinping da parte del Tg2 voglio ribadire che ci troviamo in una congiuntura delicatissima, con una situazione internazionale a dir poco infuocata, esacerbata da un pericolo terroristico tornato prepotentemente incalzante". Il segretario della Vigilanza Rai poi prosegue: "Sarebbe il caso di ricordare che siamo un Paese inserito in un patto Atlantico, e a maggior ragione il servizio pubblico pagato dal canone dovrebbe andarci cauto con le strizzate d'occhio a regimi nel mirino della comunità internazionale per la loro politica repressiva". E in conclusione chiama in causa i nuovi eletti ai vertici della Rai: "Cosa ne pensano Carlo Fuortes e Marinella Soldi, ma anche le istituzioni, l'ambasciata americana, di tali derive da parte di un Tg nazionale?"". A Michele Anzaldi ha risposto Daniela Santanchè, senatrice di Fratelli d'Italia: "La leader dell'opposizione incontra un premier straniero, il Tg2 ha la 'balzana' idea di darne notizia e scatta subito la richiesta di censura dei Buoni e dei Migliori". L'esponente del partito di Giorgia Meloni, nonché capogruppo nella Commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai, ha concluso: "Li spaventa così tanto Giorgia Meloni, che puntano proprio a impedire se ne parli".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 22 agosto 2021. Si chiamerà «le Franc-Tireur», che in francese equivale a «cane sciolto». È un nuovo settimanale, che uscirà in Francia a partire da settembre, a poco più di sette mesi dalle prossime elezioni presidenziali, un appuntamento temuto da Emmanuel Macron. Si tratterà di un «giornale d'opinione»: ogni volta, una ventina di articoli «brevi e pungenti», scritti da editorialisti più o meno noti. A finanziare l'iniziativa è ancora lui Daniel Kretinsky, 46 anni, miliardario ceco e un francese perfetto, che proprio in Francia (ma pure nel resto dell'Europa) investe quando meno te l'aspetti. Personaggio misterioso e low profile (rarissime le interviste), è uno dei self-made man spuntati fuori con il post-comunismo. Si ritrova oggi con un patrimonio di più di tre miliardi di euro, messi insieme dal nulla. Nato a Brno, seconda città della Repubblica ceca, l'uomo è figlio di un professore d'informatica e di una giudice, attiva anche alla Corte costituzionale. Da giovane era uno studente brillantissimo di Legge (fece un semestre all'università di Digione). Iniziò come avvocato, per poi lanciare un gruppo nell'energia (Eph). Ha fatto fortuna (nell'Europa dell'Est e poi dell'Ovest) acquisendo centrali a carbone a fine ciclo, comprate per due soldi, perché senza futuro, sfruttate fino all'ultimo, contando sulle scadenze di fine attività rinviate da vari Paesi. Poi, è partito all'attacco di altri settori, come la grande distribuzione (in Francia detiene più del 10% di Casino, uno dei colossi del comparto) e i media (si è rivelata per quest' uomo colto, poliglotta e, dice lui, europeista e liberista, una vera passione). In Germania ha più del 10% della tv ProSiebenSat (il primo azionista è Mediaset e c'è già chi vede all'orizzonte un'alleanza tra i Berlusconi e Kretinsky). In Francia, nel 2018 tentò di prendere il controllo del quotidiano Le Monde, ma fu fermato, anche se mantiene una (pericolosa) quota di minoranza. Intanto si è creato un piccolo impero editoriale, acquisendo il femminile Elle e il settimanale politico Marianne. Adesso crea addirittura un nuovo giornale e tutti a Parigi dicono che voglia influenzare la campagna elettorale delle presidenziali. Kretinsky ha fatto sapere dal suo entourage che la linea sarà «estremamente ragionevole» e addirittura «anti-populista». Le cattive lingue a Parigi ricordano che «Marianne», un tempo riferimento di una sinistra spinta, è oggi, con la direzione di Natacha Polony e la gestione di Kretinsky, uno dei vettori del neopopulismo «intelligente» alla francese.

Chiara Baldi per “la Stampa” il 22 agosto 2021. In calcio d'angolo il Movimento Cinque Stelle sceglie la sfidante di Giuseppe Sala: sarà la manager Layla Pavone, classe 1963, amministratrice delegata di Industry Innovation di Digital Magics, nonché consigliera di Italia Startup e membro del consiglio di amministrazione del Fatto Quotidiano. La scelta arriva a soli 47 giorni dal voto e dopo un'assemblea fiume che si è tenuta online venerdì notte tra gli esponenti milanesi del Movimento e il nuovo leader, Giuseppe Conte. Un confronto intenso, che ha visto da una parte le istanze della «base» del Movimento, che voleva Elena Sironi, già consigliera di municipio, e dall'altra le necessità del nuovo corso iniziato con la leadership dell'ex presidente del Consiglio. Conte voleva, infatti, una candidatura «più forte», considerando anche lo sfilacciamento del Movimento proprio a Milano: a dieci anni dall'entrata a Palazzo Marino, oggi i grillini si ritrovano con i tre consiglieri eletti nel 2016 che sono in due casi passati a altri partiti (Patrizia Bedori è capolista di Milano in Comune e Simone Sollazzo è in lista con Europa Verde) e in un caso, quello di Gianluca Corrado, all'addio: l'ex candidato sindaco lascerà la politica. «Il voto su Pavone ha dato un esito largamente positivo. Nella consapevolezza che il M5S di Milano mi avrebbe sostenuta se avessi deciso di imporre la mia candidatura, ho riconosciuto il valore aggiunto che Pavone potrebbe portare in questa sfida elettorale e ho lanciato l'invito a esprimersi liberamente», ha detto Sironi, che sarà capolista per il Consiglio Comunale. Proprio le liste ora rischiano di diventare un problema: sono in molti nel Movimento a vedere difficile la presentazione di una lista per ognuno dei nove municipi. «A oggi», spiega una fonte, «ne abbiamo chiusi sei. Ma da Roma ci hanno assicurato tutto il supporto necessario per arrivare a nove». Per Massimo de Rosa, capogruppo grillino al Pirellone, Pavone rappresenta «una bella operazione, una scelta di rinnovamento che tiene insieme il nuovo corso di Conte con le istanze del territorio. Ora è chiaro, però, che il Movimento opera nel campo del centrosinistra per cui, in un eventuale ballottaggio, cercheremo l'interlocuzione con Sala». Dal canto suo il sindaco, che in queste settimane ha prima dato una sponda ai Cinque Stelle per un apparentamento salvo poi raffreddarsi quando ha visto le «difficoltà interne» al partito, annuncia: «Non conosco Pavone ma la chiamerò così come ho fatto con gli altri candidati». Ma resta cauto sulle convergenze: «Non è questo il momento di pensarci. Da adesso in poi ognuno deve parlare del suo programma». Per Sala resta comunque difficile una vittoria al primo turno: «A Milano è sempre difficile, è successo molto raramente, quindi non faccio neanche proclami e non dico dobbiamo provarci».

Federica Venni per repubblica.it il 23 agosto 2021. "Presidente, voi chiedete sacrifici ai lavoratori, aziende, professionisti, ma non vi viene in mente di dimezzarvi lo stipendio nemmeno per sogno. Attenzione che la gente è stanca e tra poco perderà le staffe e scatterà la rivolta". Di commenti così l'ex premier Giuseppe Conte, sui suoi profili social, ne avrà ricevuti a migliaia. Solo che a rispondere, in questo caso, sotto un cinguettio dell'allora presidente del Consiglio (è ottobre del 2020, in piena seconda ondata di pandemia) è Layla Pavone, la neocandidata sindaca del Movimento Cinque Stelle alle Comunali di Milano del 3 e 4 ottobre. Scelta, anzi quasi imposta, dopo un lungo e aspro confronto con la base milanese del partito, proprio dallo stesso Conte. In piena seconda ondata della pandemia l'attuale leader dei grillini twittava le #tresempliciregole da seguire per difendersi dai contagi: "Indossa la mascherina, mantieni la distanza, lava spesso le mani", e Pavone rispondeva con il commento di cui sopra, con quel riferimento al dimezzarsi lo stipendio in pieno stile anti-casta. Non è l'unica frecciata, o aspra critica, che Pavone - che dopo la decisione di candidarsi ha lasciato il posto nel cda della Seif, la società editoriale del Fatto Quotidiano - muoveva a Conte: il giorno prima, mentre lui twittava l'approvazione del Decreto Ristori in Consiglio dei Ministri, lei lo incalzava: "Le briciole avete dato altro che ristori. 200 euro a chi ne fattura 400.0000 l'anno?". Chissà se Conte era al corrente del carattere così battagliero della sua candidata, scelta per risollevare le sorti del Movimento in Lombardia. O, forse, chissà, l'ha lanciata proprio per questo.

Il "coming out" del quotidiano. Per Travaglio la democrazia è un cesso, svolta fascista del Fatto Quotidiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Settembre 2021. Ieri Il Fatto Quotidiano ha reso il suo “coming out”, come si dice nel nuovo linguaggio inglesizzante. Cioè ha dichiarato l’essenziale della sua ideologia politica. Ha pubblicato in prima pagina una grande immagine di un gabinetto, con una fessura sulla tavoletta per introdurre la scheda elettorale. Tradotto dall’immagine alle parole, il messaggio è nettissimo: le urne sono un cesso. La democrazia è un cesso. Il voto è un cesso. Più o meno è quello che pensava Pinochet. Oppure, potremmo dire nel giorno in cui se ne va Miki Theodorakis, quello che pensavano i colonnelli greci che in una cupa notte del 1967, armi in pugno, arrestarono tutto l’establishment della democrazia greca, misero in fuga il re, presero il potere e lo esercitarono per diversi anni senza fare uso delle urne, ma solo delle celle e delle torture. Poi, se volete, per essere equanimi possiamo trovare anche tanti altri esempi novecenteschi nell’est Europa. Sull’odio per la democrazia politica, fascismo e bolscevismo si assomigliavano. Credo che Marco, rispetto a Pinochet e ai colonnelli greci, abbia una posizione molto diversa sull’argomento della tortura. Immagino che lui sia nettamente contrario. In fondo è un uomo mite, anche se un po’ rabbioso. Penso che lui si contenti delle celle e soprattutto dell’abolizione di questo metodo insopportabile e mollemente borghese di distribuire il potere che consiste nell’uso delle urne. Le urne, il voto, i candidati, il decadente sistema democratico, sono il male della modernità. Una vera modernità si libera di questi orpelli ottocenteschi e seleziona il potere, non lo distribuisce. Il potere, secondo Travaglio e molti suoi predecessori, spetta agli onesti, o ai giusti, o ai camerati, o alla classe. Lui propende per gli onesti. Chi sono gli onesti? Quelli che appartengono al partito degli onesti e che sono giudicati tali dai magistrati, dai Pm, dalle varie associazioni antimafia, da Di Battista e da Fofò. Su Di Maio bisogna stare più attenti: negli ultimi tempi ha sbandato e in lui sono evidenti netti segni di imborghesimento democratico. Un po’ di prudenza anche su Grillo, che certo non ha tentazioni democratiche, però si è dissociato da Conte, e Conte invece è un uomo puro. Come lo era Bessarione (non sapete chi era Bessarione? Ve lo racconto un’altra volta). Il tono scherzoso che sto usando per riferire della svolta dichiarata del Fatto, che in modo solenne si schiera per una ideologia comunque antidemocratica e che richiama esplicitamente i toni del fascismo mussoliniano, forse è fuori luogo. A me viene spontaneo scherzare un po’ quando parlo di Travaglio (Perché? Ve lo spiegherò un’altra volta quando vi racconterò anche di Bessarione). Il problema però è molto serio. La presenza in Italia di un nucleo di energie politiche, giornalistiche e intellettuali fortemente e appassionatamente contrarie alla democrazia è una questione che va affrontata. Quando io ero ragazzo, per molto meno si sarebbe gridato al colpo di Stato. Ma allora i colpi di Stato erano possibili, persino in Europa (come dimostrò proprio la Grecia, e più tardi – in senso inverso – di nuovo la Grecia e poi il Portogallo quando dei putsch eliminarono la dittatura per mano militare e restaurarono la democrazia). Oggi i colpi di Stato non sono possibili. Ma il progressivo deterioramento della democrazia, del suo funzionamento, delle sue garanzie, del suo legame indissolubile con lo Stato di diritto non solo è possibilissimo ma è largamente in atto. Le forze che in modo esplicito o no non amano la democrazia e lavorano per ridurne la portata e il potere sono presenti in diversi partiti. Sono fortemente maggioritarie tra i 5 Stelle, sfiorano ormai, e penetrano, nel Pd, hanno un peso discreto nella Lega. Non credo che siano presenti anche in Fratelli d’Italia, e se lo sono del tutto marginali, perché Fratelli d’Italia – paradossalmente – è un partito che affonda più di tutti gli altri le radici nella Prima repubblica e nella struttura democratica dei partiti. Fratelli d’Italia ha tendenze reazionarie nettissime, e anche giustizialiste. Sicuramente alcune sue posizioni risentono di una vaga ascendenza fascista. Ma è un partito democratico, che ama la democrazia. Si è del tutto liberato del ricordo autoritario del fascismo. Queste forze sovversive trasversali sono fortemente influenzate, e influenzano, una parte significativa del mondo dell’informazione. E trovano un interlocutore potentissimo e attento nel partito dei Pm. Perché l’idea alla quale si ispirano è quella di Travaglio: la Repubblica degli onesti, dei giusti, lo Stato etico. Qual è il rischio? Che proceda il logoramento in corso. Lo Stato di diritto ormai in Italia è ridotto al lumicino. La magistratura è in mano a una Loggia, che sia l’Ungheria o no non saprei. E ha un potere sconfinato. I partiti devono sottoporsi a cerimonie umilianti per avere l’imprimatur dei giusti. E non possono più scegliere, e non hanno autonomia, e non sono – proprio per queste ragioni, oltre che per un difetto di pensiero – capaci di elaborare strategie e politiche. La campagna del Fatto contro gli impresentabili (con il corredo dell’urna-cesso) è uno dei grimaldelli. Si pubblicano liste di proscrizione, tipiche di tutti i regimi, che si fondano sull’idea che se stai antipatico a un Pm sei un farabutto. Pensate al caso Calabria, dove i Pm hanno fatto fuori il presidente eletto, Mario Oliverio, rispettabilissima persona, erede della nobile tradizione del Pci, lo hanno arrestato, hanno poi dovuto liberarlo solo su ordine della Cassazione per inconsistenza delle accuse, e ora che, indebolito illegittimamente dai poteri occulti delle Procure, prova a ripresentarsi alle elezioni, gli tornano addosso e lo rimettono di nuovo sotto il fuoco per mezzo di Travaglio: sei impresentabile, gridano. Impresentabile? Piuttosto Oliverio è un perseguitato. Ma nei regimi la parola perseguitato è abrogata. Facciamo spallucce a tutto ciò e andiamo avanti? Sotto il ricatto continuo dei manettari? I partiti non sono in grado di reagire, vili e impauriti? La campagna contro Berlusconi ha portato a tutto ciò? Ha demolito l’attaccamento alla democrazia politica e allo Stato liberale? Gli intellettuali di sinistra sono scomparsi o si riparano dietro Montanari? Già. Poi se io dico che siamo al fascismo mi dicono che sono ottuso dalle ideologie. Non c’è niente di ideologico in quello che dico. Questa roba qui nella quale stiamo vivendo assomiglia tantissimo a un moderno fascismo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Blitz Conte-Travaglio a Milano. Stop al candidato della base. Marta Bravi il 22 Agosto 2021 su Il Giornale. L'aspirante sindaco è la Pavone, che è nel cda del "Fatto". Assemblea farsa per far approvare il nome ai militanti. Schiaffo del Movimento 5 Stelle alla sua stessa base. Nella notte tra venerdì e sabato l'assemblea del movimento milanese ha cambiato in corsa, su indicazione del presidente Giuseppe Conte, la candidata sindaco per la sfida delle comunali milanesi del 3 e 4 ottobre. Sarà Layla Pavone e non più Elena Sironi, consigliera uscente del Municipio 4 e indicata dagli attivisti, la candidata sindaca del M5s per Milano. Con un blitz Conte ha imposto la sua linea verticistica mascherata da «logica politica tattica» proponendo la sua candidata, che fa parte del Cda del Fatto di Marco Travaglio, contro quella indicata il 10 agosto dagli attivisti. Alla Sironi viene affidata anche l'operazione di maquillage per nascondere lo «scacco matto» del presidente e del direttore del Fatto, in una riunione che ha escluso gli attivisti stessi all'ombra della Madonnina. Così Sironi «sconfitta» in partenza e «retrocessa» a capolista racconta la sua versione edulcorata: «Dopo l'intervento di Giuseppe Conte e le sue risposte alle domande, vi è stata la presentazione di Layla Pavone con un lungo momento di confronto, al quale si è deciso di far seguire una votazione che ha dato un esito largamente favorevole al passaggio di testimone a Pavone. Nella consapevolezza che il gruppo M5s di Milano mi avrebbe comunque sostenuta - racconta Sironi - se avessi deciso di imporre la mia candidatura, prima della votazione ho espresso il mio parere riconoscendo il valore aggiunto che Layla Pavone potrebbe portare in questa sfida elettorale e ho lanciato l'invito ad esprimersi liberamente». Ecco allora che la scelta di Pavone, amministratore delegato di Industry Innovation di Digital Magics, consigliere di Italia Startup, oltre che consigliere d'amministrazione di Seif, la società editrice del Fatto Quotidiano, vuole essere una strizzata d'occhio al mondo delle piccole e medie imprese. Proprio quel mondo produttivo che Conte diceva di aver dimenticato nel suo mea culpa ad alta voce di qualche giorno fa: «A Milano il Movimento ha conseguito dei risultati non propriamente brillanti. E le ragioni sono molteplici. Di certo non siamo riusciti ad ascoltare con sincera attenzione i bisogni dei cittadini milanesi, delle varie fasce sociali e, in particolare, del ceto professionale e imprenditoriale. Anzi. Abbiamo pagato la diffusione dello stereotipo di un Movimento poco attento alle necessità del tessuto imprenditoriale e produttivo». La candidatura della manager, spiega il capogruppo M5s in Regione Lombardia Massimo De Rosa, rappresenta quindi «un primo tassello di rinnovamento del nostro Movimento», aperto «alla società civile» pur mantenendo «la tradizione che da sempre contraddistingue la nostra anima movimentista». Ma non certo quella che era un principio cardine del movimento: quell'«uno vale uno», che sembra essersi trasformato in «uno decide per tutti» come sottolinea la candidata sindaco nel 2016 sempre a Milano Patrizia Bedori. «Come da copione, è arrivata la nomina calata dall'alto. Già tutto deciso. Altrove. Perché mai una manager accetta di diventare consigliera del Comune di Milano? - si chiede maliziosamente l'ex grillina -. Non darà mica le dimissioni appena eletta? Non è che per caso la logica di politica tattica nasconde un accordo pre-elettorale nelle segrete stanze per dare un posto in giunta alla nuova candidata?». Così da vedere sarà l'eventuale alleanza con Beppe Sala al ballottaggio. «Non è adesso il momento di pensarci - replica il sindaco uscente -. Cominciamo ad andare bene alle elezioni, poi si vedrà». Marta Bravi

Andrea Senesi per il “Corriere della Sera” il 23 agosto 2021. Layla (il nome arabo significa «notte» e si deve allo zio appassionato di Egitto) Pavone è la candidata sindaco a Milano del M5S. Una pioniera del web, una manager molto conosciuta nel mondo dell'innovazione e delle start-up. 

Perché ha accettato una sfida dove non ha possibilità di vincere?

«E chi lo ha detto? Ho lavorato in ambito manageriale, sono vicina da sempre al mondo delle imprese e della politica. E sono una milanese che ha a cuore la sua città. Se viene offerta l'opportunità di dare un contributo è giusto metterci la faccia. E poi penso che le mie competenze possano essere utili alla città». 

Gli attivisti avevano però indicato un'altra candidata.

«Elena Sironi. Sottolineo che si tratta di un'altra donna. Il M5S è l'unico soggetto politico che avrà due donne al comando, Elena capolista e io candidata sindaco. Un doppio passo in avanti perché c'è bisogno di un punto di vista femminile sulla città». 

Lei è stata imposta alla base da Giuseppe Conte.

«La base è stata coinvolta e si è deciso di allargare alla società civile. Con Conte siamo in ottimi rapporti. Da premier ha fatto benissimo, basti pensare al Recovery fund. E mi ritrovo totalmente nella Carta dei valori: sostenibilità, innovazione, ruolo delle imprese». 

Lei siede nel cda del Fatto. Si dimetterà?

«Mi sono già dimessa. Due giorni fa, per la precisione. Per ragioni di trasparenza». 

Cosa ha votato in passato?

«Da giovane il Partito radicale, soprattutto per Emma Bonino. Poi sempre nell'area di centrosinistra, mai a destra. 

E il M5S?

 «Sì, ho votato anche il M5S». 

 Un giudizio su Sala?

 «Luci e ombre. Ci sono state cose interessanti ma su altre è stato fatto invece poco. Troppa attenzione al centro e poca alle periferie. Io lavoro in zona Ripamonti e diciamo che lì, come in molte altre zone, ci sarebbe molto da fare». 

Saranno possibili apparentamenti con Sala al ballottaggio?

«Non è nei miei pensieri in questo momento. Abbiamo un programma molto interessante che vogliamo far conoscere ai milanesi». 

Si dice che lei possa entrare in giunta in caso di vittoria di Sala.

«La domanda giusta è semmai se io chiederò a Sala di entrare nella giunta Pavone (ride, ndr )». 

D'accordo. Chiederebbe a Sala di entrare nella futura giunta Pavone?

 «Ci possiamo ragionare». 

Un giudizio su Luca Bernardo e sul centrodestra milanese.

«Una persona che dice di non distinguere tra fascisti e antifascisti mi preoccupa molto». 

Le priorità per Milano?

«Ho una visione olistica: i temi non sono mai così separati. Se parliamo di periferie, per esempio, dobbiamo ragionare di case popolari, di scuole, di servizi. E di sicurezza, un tema molto sentito dalle donne».

Nel dibattito sulle piste ciclabili come si schiera?

«A favore, a patto che siano fatte bene: non basta buttar giù due strisce bianche. Io vado spesso in giro in bici per cui so di cosa parlo. Ci vogliono corsie protette e sicure». 

Gira la città solo in bici?

«No, non solo. Uso spesso anche il monopattino. Qualche volta l'auto». 

Da candidata del M5S considera le Olimpiadi invernali che Milano ospiterà nel 2026 un'opportunità o un rischio?

«I Giochi, conquistati grazie a Conte, rappresentano certamente una grande opportunità. Sarà necessario che la città si doti di un piano di infrastrutture utili per il futuro evitando sprechi e speculazioni». 

IL PARTITO DEL FATTO. Domenico Di Sanzo per “il Giornale” Alla nascita, nel 2009, il Fatto Quotidiano era un giornale tutto polemico e politico, però orfano di un partito. Tanto da avere contribuito a spianare la strada all'antipolitica dei grillini. Quindi, appena il M5s è entrato nella scatoletta di tonno del Parlamento, è stato per un periodo una sorta di organo del Movimento. Solo che nessuno pensava che il quotidiano ora diretto Marco Travaglio alla fine diventasse esso stesso un partito. Altro che Cinque Stelle, ora c'è il Pdf, quello che tanti pentastellati chiamano «il Partito del Fatto». Sì ci sono stati Antonio Di Pietro e il Popolo viola. Quindi il Vaffa, Beppe Grillo, Gianroberto e Davide Casaleggio, il grillismo a guida Luigi Di Maio dell'exploit alle Politiche del 2018. Il Fatto, durante queste fasi della politica, ha sempre interpretato il ruolo di suggeritore dell'area di riferimento. Ma quand'è che il giornale ha cominciato a vivere, politicamente, di vita propria? È su questo che si arrovellano nel M5s. Ben prima che una componente del Cda di Seif (Società editrice del Fatto) diventasse la candidata dei 5 Stelle per la poltrona di sindaco di Milano. La scelta da parte di Giuseppe Conte del nome di Layla Pavone per il capoluogo lombardo è solo l'ultimo segno tangibile dell'influenza di Travaglio e soci. Fonti stellate di primo livello descrivono così al Giornale la situazione: «Non pensate che sia Conte a dettare la linea al Fatto, è il contrario». E ancora: «È il giornale contiano, non del M5s». Chi tenta di mettere ordine nella storia del «Partito del Fatto» colloca l'inizio della simbiosi agli esordi del governo giallorosso. Meglio: alla fine del governo gialloverde. A quella giornata in cui Conte sboccia d'improvviso e mette in scena a Palazzo Madama una ramanzina ai danni di un incredulo Matteo Salvini. In redazione trovano un leader. Il direttore il 10 settembre 2019 a Otto e Mezzo spiega che l'alleanza con il Pd «si doveva fare un anno e mezzo fa», delinea la nascita di «un nuovo bipolarismo tra Conte e Salvini». Segue a ruota Andrea Scanzi, anche l'opinionista di punta benedice la svolta. La pandemia accelera il processo. Travaglio fa da parafulmine a tutte le scelte della catena di comando contiana. Intanto a maggio del 2020 Lucia Calvosa, ex membro del Cda del Fatto, professoressa universitaria specchiata e dal curriculum ricchissimo, diventa presidente di Eni. I tanti che nel M5s non amano Travaglio ridacchiano compiaciuti a proposito della rabbia del direttore dopo l'arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Lui, da parte sua, inizia ad attaccare gli avversari interni. Innanzitutto Davide Casaleggio. Poco prima del divorzio tra i grillini e Rousseau, il 13 aprile in un editoriale stronca l'erede di Gianroberto. «Ora, visto che il nuovo corso non gli garba - scrive - ha tutto il diritto di farsi un partitucolo con qualche fuoriuscito portandogli la piattaforma Rousseau, sempreché riesca a dimostrare che è sua». Dunque passa a Grillo. In estate, quando Beppe e Giuseppi litigano, lui ci dà dentro contro il fondatore. Il 2 luglio lo paragona al «marito ipnotizzato dalla partita di calcio in tv mentre la moglie nell'altra stanza se la spassa con l'idraulico». Il quotidiano incalza sulla giustizia. Mette in prima un fotomontaggio con Grillo, Di Maio e Patuanelli che osannano un imperturbabile Draghi. Li chiama «calabrache» per l'ok in Cdm alla riforma Cartabia. Il Fatto butta Conte nella lotta nel fango. L'avvocato però strappa un accordicchio e dal giornale arriva un mezzo rimprovero. L'8 agosto in un'intervista sulle stesse colonne lo convincono ad alzare di nuovo la tensione: «Nel 2023 campagna elettorale per cambiare la legge Cartabia», il virgolettato dell'ex premier. Nel M5s scommettono che la prossima campagna sarà contro Di Maio. Già il Fatto se l'è presa con lui per la svolta garantista sul caso Uggetti. Di recente è spuntato un trafiletto velenoso sul ministro degli Esteri che si è affiliato alla «Casta». Per capire cosa accadrà nel M5s toccherà leggere anche Travaglio e compagnia. E questo è un Fatto.

Gustavo Bialetti per "la Verità" il 19 ottobre 2021. Giovedì Lilli Gruber ha presentato a Piazzapulita di Corrado Formigli su La7 (stessa rete del suo talk) il suo nuovo libro. Prima era stata da Fabio Fazio, a Che tempo che fa su Rai3 (la tv pubblica è generosa: promuove la concorrenza). Ma tutto si tiene: da chi sono rappresentati Lilli, Corrado e Fabio? Dall'agenzia Itc2000, fondata da Beppe Caschetto. Che rappresenta tre giornalisti de La7 di Urbano Cairo (oltre a Formigli e Gruber, Giovanni Floris), i quali ospitano colleghi della loro stessa «scuderia», tipo Fabio Volo, Ilaria D'Amico, Massimo Gramellini. La7 però è una tv privata, il cui editore si regola come crede sui conflitti d'interesse. Per la Rai il discorso dovrebbe essere diverso. Invece l'Itc2000 spopola anche qui, in barba a una risoluzione dell'ex ad Fabrizio Salini atta a limitare lo strapotere degli agenti a viale Mazzini, stabilendo che in un identico programma non più del 30% di chi ci lavora possa veder curati i propri interessi dalla stessa agenzia. E invece, come sottolineato dal deputato Michele Anzaldi che è segretario della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, lo show Quelli che il lunedì su Rai2 vede ben 8 artisti targati Itc2000 (Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, Federico Russo, Enrico Lucci, Melissa Greta Marchetto, Brenda Lodigiani, Ubaldo Pantani, la giornalista Mia Ceran), agenzia cui si sono affidati altri volti Rai: Lucia Annunziata, Domenico Iannacone, Geppi Cucciari, Luciana Littizzetto nonché i ricordati Fazio e Gramellini, cui capita di invitare Andrea Delogu, Alessia Marcuzzi, Enrico Bertolino, Neri Marcorè, Enrico Brignano. Tutti Itc2000. Ma che corrispondenza di amorosi sensi che si respira in Rai, tra dirigenti e agenti.

Lilli Gruber e Marco Travaglio, Matteo Renzi solleva il sospetto: "Rapporto strano e inquietante tra La7 e Il Fatto Quotidiano". Libero Quotidiano il 05 agosto 2021. Matteo Renzi torna a terremotare i piani alti della politica. Nel suo ultimo libro dal titolo Controcorrente, il leader di Italia Viva racconta le ore e i giorni più concitati del Conte bis. Quando il suo partito decise di ritirare le ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, dando il via alla crisi di governo. Da quel giorno a capo dell'esecutivo c'è Mario Draghi, ma l'ex premier non ha dimenticato Giuseppe Conte. A lui, e in particolare alla sua gestione politica ed emergenziale, sono dedicate molte pagine dell'opera. A fornire un breve commento del libro ci pensa Italia Oggi che descrive le cose che racconta Matteo Renzi "inquietanti e le domande che formula cruciali". All'interno c'è infatti la questione Cairo-Blackstone (il fondo americano che gli ha fatto causa) sotto il profilo del mancato accantonamento per far fronte a una eventuale perdita, cosa per la quale viene chiamata in causa la Consob. E poi ecco che "c'è il rapporto particolarmente strano e inquietante tra La7 in persona di Lilli Gruber e il Fatto quotidiano", si legge ancora nell'articolo a firma di Domenico Cacopardo che snocciola i numeri diffusi dal leader di Iv: "su oltre 1200 puntate, dal 2016 al giugno 2021, Otto e mezzo avrebbe dato spazio alle firme de Il Fatto quotidiano per 568 volte; la seconda testata sarebbe il Corriere della Sera, 378 (che in edicola vende 8 volte di più del quotidiano di Travaglio)". Travaglio è in assoluto il primo ospite, con 206 puntate, segue Andrea Scanzi "e non è certo un caso di competenze riconosciute. Scanzi, ad esempio, è quel giornalista che nel 2020 sosteneva che il Coronavirus non fosse una pandemia, ma un semplice raffreddore. E certo non una malattia mortale". Insomma, il libro di Renzi fa luce su vari e inattesi aspetti.

Da vigilanzatv.it il 5 agosto 2021. Grazie ai dati pubblicati su Twitter dall'economista Riccardo Puglisi e raccolti dall'economista Tommaso Anastasia, abbiamo avuto conferma che, nel periodo compreso fra il 2016 al  gennaio 2021,  le firme del Fatto Quotidiano risultano egemoni  rispetto a quelle delle altre testate. Tuttavia, dai dati pubblicati evinciamo un altro elemento. Fra i primi dieci ospiti, non è presente neppure una donna. Per trovarla bisogna scendere all'undicesimo posto con Marianna Aprile. E fra i primi ventisei, le ospiti sono solo cinque: la già citata Aprile, Annalisa Cuzzocrea, Lina Palmerini, Evelina Christillin, Antonella Viola. Un po' pochino per una conduttrice che insiste a ogni piè sospinto sull'importanza della rappresentanza Femminile nella società civile. Tanto da scriverci pure un libro al riguardo, dal titolo Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone. Per il suo programma ad alto contenuto testosteronico questo assunto non vale?

(Adnkronos il 5 agosto 2021) - "Il caso degli opinionisti a pagamento nelle trasmissioni di informazione, rivelato dalla Rai sul compenso ad Andrea Scanzi ospite fisso a “Cartabianca” su Rai3, si allarga anche alle altre emittenti, come a La7. L'Agcom valuti se non sia opportuno un suo intervento per imporre trasparenza alle trasmissioni: rendere pubblico ai telespettatori, nei titoli di coda o in altre forme, chi sono gli ospiti a pagamento. Se un opinionista riceve un compenso, se va in trasmissione a seguito di un contratto e non semplicemente perché chiamato ad esprimere la sua opinione, è giusto che i telespettatori lo sappiano. Vista la reticenza del servizio pubblico e delle emittenti commerciali a fare chiarezza, intervenga l'Authority. Il presidente Lasorella e i commissari valutino di coinvolgere l'Ordine dei Giornalisti, chiedano un parere al Consiglio Nazionale". Lo scrive su Facebook il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi. "I dati pubblicati - prosegue Anzaldi- dall'economista Riccardo Puglisi (Lavoce.info) a proposito della trasmissione 'Otto e mezzo' su La7 mostrano che in 4 anni c'è stata un'assoluta predominanza di giornalisti del Fatto Quotidiano in trasmissione, con spazi addirittura doppi rispetto al Corriere della Sera (testata il cui editore Cairo è lo stesso de La7). Per i giornalisti del Fatto tra il 2016 e il 2020 ci sono state 474 presenze, per il Corriere 360, segue Il Giornale con 171, la Stampa con 114, la Verità con 110, Repubblica 109. Alla trasmissione di Lilli Gruber, tra i primi 5 giornalisti più presenti 3 sono del Fatto (Travaglio, Scanzi e Padellaro). Sono stati chiamati in base a contratti economici? C'è un accordo de La7 con il Fatto, oppure con i suoi singoli giornalisti. Sarebbe opportuno saperlo, anche perché in certi casi si fa fatica a distinguere tra opinionisti e supporter politici".  

Pd, la denuncia di Repubblica: "I dem di Roma rubano i giornali", articoli gratis per tutti gli iscritti. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 02 agosto 2021. L'accusa è gravissima ma ben circostanziata: il Partito democratico è "tecnicamente un ladro". In particolare si tratta del Pd romano e la denuncia proviene nientemeno che dalla cronaca locale di Repubblica, che si affida alla breve requisitoria di Giuliano Foschini. Titolo: «Se anche il Pd deruba i lavoratori». Svolgimento, in estrema sintesi: sul proprio canale Telegram, i democratici capitolini offrono ai loro iscritti «l'intera rassegna stampa del Comune di Roma»... centinaia di pagine con dentro una lunga selezione di articoli provenienti da vari giornali, tutti naturalmente protetti da copyright. «Si tratta di un reato. E anche piuttosto grave», osserva Repubblica, è cioè un furto appesantito dalla non trascurabile aggravante che a perpetrarlo con tale spudorata leggerezza è «un partito asseritamente di sinistra». Sicché la brutta faccenda non configura soltanto «un reato ma è anche un calpestio volgare del lavoro, della passione di migliaia di persone (giornalisti, poligrafici, tipografi, edicolanti) che svolgono, ciascuno nel migliore dei modi possibili, un mestiere che in qualche modo è anche un servizio pubblico, un sostegno della democrazia».

Il j' accuse è assai pesante: l'intera catena del valore dell'informazione, dall'ideatore al distributore, cade vittima di un brigantaggio quotidiano contro il quale Repubblica evoca a giusto titolo l'intervento della Guardia di Finanza. E che i colpevoli siano proprio gli esponenti del principale partito italiano di sinistra, colti a pubblicare «gratuitamente e integralmente quello che invece si dovrebbe comprare», rappresenta un desolato spunto in più per riflettere sui fondamentali di una denuncia sinceramente democratica che travalica la cronaca minuta. In attesa di leggere o ascoltare le spiegazioni dei dirigenti più alti in grado (il compagno Enrico Letta non ha ancora preso gli opportuni provvedimenti?), dobbiamo intanto accontentarci delle scuse del capogruppo dem all'assemblea capitolina, Giulio Pelonzi, che ha fatto ammenda e chiuso in tutta fretta il canale telematico. Ora, premesso che la pratica di rubacchiare online le prime pagine o gli articoli della stampa nazionale e straniera è divenuta una prassi diffusissima e sempre più difficile da estirpare, è bene sottolineare come la circostanza in questione confermi con forza inesorabile l'avvenuto scollamento tra la classe dirigente democratica e il mondo del lavoro intellettuale. Passi per gli operai, che da almeno un quarto di secolo votano in larga maggioranza a destra, l'ultima ridotta della sinistra asserragliata nei centri storici metropolitani era rappresentata dal variegato paesaggio giornalistico e da quello della selezionata intellighenzia degli scrittori impegnati; sebbene giornali se ne vendano pochi, libri meno ancora e pure la tv non si senta molto bene. Ma a ben vedere la proditoria rapina via Telegram si combina in modo perfetto con la recente cooptazione di Fedez in qualità di maître à penser della ditta, ovvero con la sopraggiunta sostituzione del desueto intellettuale organico gramsciano con il più contemporaneo cantante e influencer, nonché marito della influencer Chiara Ferragni. Non saremo certo noi, qui, a rimpiangere i bei tempi andati in cui i militanti del Pci - di cui il Pd vuoi o non vuoi è erede più o meno legittimo - volantinavano per strada le copie dell'Unità, il quotidiano di partito la cui diffusione serviva a scolpire di giorno in giorno il verbo dell'ideologia marxista. Oggi, in definitiva, anche l'egemonia del pensiero è divenuta un sogno astratto soppiantato dalla fluidità di genere. Ogni genere. E può dunque accadere che a squadernare il tradimento inflitto ai lavoratori sia il giornale ora posseduto dagli Agnelli ma editato fino a pochi anni fa da Carlo De Benedetti, la famosa tessera numero uno (ricordate?) del nascente Partito democratico. È la farsa che si fa storia nel suo ultimo atto: compagni che sbagliano, capitalisti che se ne accorgono e giocano ai supplenti... mondi avviati parallelamente al crepuscolo. 

LA CARTA STAMPATA E’ MORIBONDA. CRESCE L’INFORMAZIONE ONLINE. Il Corriere del Giorno il 27 Luglio 2021. Sempre più centrale appare poi il ruolo di Facebook, Youtube e dei principali social network, mentre si affievolisce il mondo della televisione, con telegiornali e programmi tv che in dieci anni ha visto un calo del 10% dei giovani utenti. Accanto al piccolo schermo, a soffrire le pene più grandi rimane comunque la carta stampata: in pochi acquistano i giornali. La relazione annuale dell’Agcom pubblicata il 26 luglio sottolinea che “la crisi strutturale della stampa si sta rilevando irreversibile e mostra di non aver beneficiato della accresciuta domanda di informazione dovuta alla crisi pandemica. Nel secondo trimestre 2020, solo il 17,6% degli italiani ha scelto in media di informarsi sui quotidiani. Il trend di riduzione nella lettura giornaliera dei quotidiani è comunque un fenomeno comune a tutti i Paesi europei: nell’Unione europea, infatti, si osserva un declino di 12 punti (dal 38% al 26%) nel periodo che va dal 2010 al 2018. Questi dati risultano certamente significativi anche alla luce del forte calo dei ricavi della stampa quotidiana e rendono evidente la crisi specifica che attraversa il settore”. Altro dato importante rimane il supporto per fruire le informazioni preferito dagli under 30: il virtuale. Secondo una ricerca realizzato dall’Istituto Demopolis, la sintesi di quanto emerso dal focus sul rapporto tra nuove generazioni e media nel nostro Paese, infatti, il 60% dei giovani sarebbe sempre connesso a internet e il 75% entra in contatto con l’attualità proprio attraverso siti web, portali e testate online. Sempre più centrale appare poi il ruolo di Facebook, Youtube e dei principali social network, mentre si affievolisce il mondo della televisione, con telegiornali e programmi tv che in dieci anni ha visto un calo del 10% dei giovani utenti. Accanto al piccolo schermo, a soffrire le pene più grandi rimane comunque la carta stampata: in pochi acquistano i giornali, anche se i quotidiani continuano ad essere letti, online e in tempo reale. Il ciclo di osservazione dei dati Audiweb elaborato dalla Nielsen contiene l’analisi più dettagliata dell’audience online dell’ultimo mese di rilevazione. Dallo scenario generale nel mese di maggio la Total Digital Audience ha raggiunto 43,9 milioni di utenti unici, pari al 73,6% della popolazione dai due anni in su, online complessivamente per 61 ore. La fruizione di internet da Mobile (Smartphone e Tablet) in questo mese di rilevazione ha raggiunto l’89,7% della popolazione maggiorenne, pari a 39,1 milioni di individui di 18-74 anni, collegati in media per quasi 57 ore per persona. Per quanto riguarda i contenuti e servizi fruiti nel mese di maggio, dai dati aggregati Audiweb by Nielsen delle sotto-categorie di siti e applicazioni più visitate risulta che, rispetto ad aprile, in questo mese di rilevazione crescono di almeno il 3% la sotto-categoria “Weather” che raggruppa siti e applicazioni dedicati al meteo (+4,9%), la sotto-categorie “Sports” (+6,3%), la sotto-categoria “Multi-category Entertainment” dei siti e applicazioni dedicate all’intrattenimento in generale (+3,3%), Apparel/Beauty (+3,8%) e gran parte delle categorie dedicati ai viaggi e al turismo. Per contro nel mese di maggio è iniziata a proiettarsi la riapertura di tutte le attività e il ritorno alla normalità, si registrano delle lievi flessioni per le sotto-categorie dedicate alle news online (-1,3% gli utenti unici mensili rispetto al mese di aprile), ai contenuti video “Videos/Movies” (-1,1%), ai contenuti dedicati al benessere e alla salute “Health, Fitness & Nutrition” (-2,7%), al mondo del cibo e delle ricette (-2,8%). Vediamo, quindi, di riflesso quali sono i principali media online iscritti alla rilevazione Audiweb più visitati a maggio 2021. Tra i primi media troviamo Corriere della Sera con 31 milioni 312 mila utenti unici mensili, seguita da La Repubblica con 24 milioni 573 mila utenti unici, quindi ilMeteo.it con 23 milioni 217 mila utenti, TGCOM24 con 21 milioni 714 mila utenti, Pinterest con 20 milioni 875 mila utenti, Fanpage con 20 milioni 380 mila utenti, La Gazzetta dello Sport con 17 milioni 872 mila utenti, Il Messaggero con 17 milioni 499 mila utenti, Il Fatto Quotidiano con 16 milioni 141 mila utenti, Virgilio con 15 milioni 54 mila utenti, Il Giornale con 13 milioni 213 mila utenti, 3BMeteo con 12 milioni 714 mila utenti, ANSA con 12 milioni 474 mila utenti unici, Giallo Zafferano con 12 milioni 212 mila utenti, Libero con 11 milioni 176 mila utenti. 

La flessione generale dell’audience online dei brand iscritti alla rilevazione Audiweb non ha riguardato alcuni brand che, rispetto ad aprile, invece, presentano variazioni positive, come nel caso dei già citati Corriere della Sera (+2,5% gli utenti mensili rispetto ad aprile), ilMeteo (+4,2%), Pinterest (+5,2%), La Gazzetta dello Sport (+28,2%), Virgilio (+6,4%), 3BMeteo (+8,6%) e di altre entità tra cui iNews24.it (+12,9% gli utenti unici mensili rispetto ad aprile 2021), Skuola.net (+12,7%), Treccani (+8,3%), YesLife Magazine (+8,2%), Studenti.it (+1,7%), ELLE.IT (+14,9%), Calciomercato.it (+45,9%) – che rientra nella categoria Sport in crescita questo mese, come per il già citato Gazzetta dello Sport (+28,2%) -, UnioneSarda (+8,4%), Ohga (+26,1%), LA7 (+8,0%) e Upday (+2,5%). 

Note per la consultazione dei dati

1) I dati della ricerca Audiweb 2021 derivano da un adeguamento della metodologia di rilevazione messo a punto per predisporre il sistema di rilevazione al nuovo scenario cookieless. Pertanto, sebbene basato sulle stesse principali componenti della ricerca, il processo di produzione non contempla più “big data” di terza parte, per questo motivo i dati riferiti alla rilevazione del mese di gennaio 2021 e successivi non sono confrontabili con i dati prodotti fino a dicembre 2020.

2) La metodologia Audiweb consente alle properties dotate di TAG/SDK di essere rilevate e quindi di avere accreditati i consumi effettuati mediante “Mobile in-app browsing”, “AMP”, “Facebook Instant Article” e Video E” quindi opportuno che eventuali confronti tra le properties tengano conto dei perimetri rilevati mediante TAG/SDK così come rappresentati nella tabella “Perimetro censuario” presente nel documento di sintesi di Audiweb.

3) Sintesi dati SITO & MOBILE APP: I dati qui rappresentati sono riferiti solo alla c.d. componente “SITO & MOBILE APP”, ovvero all’audience derivata dalla fruizione dI contenuti su pagine web e applicazioni mobile delle entità rappresentate, non è dunque contemplata la rilevazione della componente di audience derivante dalla fruizione dei contenuti video.

LEGENDA

UTENTI UNICI

Il numero di singole persone, deduplicate, che si sono collegate, in un determinato arco temporale, ad un sito e/o elementi di esso effettuando una o più visite. Differiscono dai browser unici in quanto rappresentano persone fisiche.

INTERVALLO “GIORNO MEDIO”

Il giorno medio indica, per il mese di riferimento, il numero medio di utenti unici giornalieri, che nel giorno hanno effettuato almeno un accesso a internet / entità o elemento di riferimento.

INTERVALLO “MESE”

Il dato mensile per il mese di riferimento, il numero di utenti unici (persone fisiche) che in questo intervallo hanno effettuato almeno un accesso a internet / entità o elemento di riferimento.

DIFFERENZA TRA DATO “MESE” E DATO “GIORNO MEDIO”

L’osservazione del dato mensile rende un’idea della copertura del mezzo nel periodo di rilevazione, mentre l’osservazione del dato nel giorno medio fornisce, tra le varie informazioni, indicazioni sulla frequenza di utilizzo del mezzo da parte degli utenti unici.

Perimetro “complessivo” = valori derivanti dai consumi realizzati su siti/mobile app di proprietà del Publisher iscritto ad Audiweb e, se presenti, derivanti da T.A.L.

Perimetro “organico” = valori derivanti dai consumi esclusivamente realizzati su siti/mobile app di proprietà del Publisher iscritto ad Audiweb.

Al fine di garantire la massima trasparenza il sistema Audiweb prevede di classificare le T.A.L. in sub-brand ad-hoc nominate in modalità univoca e riconoscibile: elenco completo nella tab “Dettaglio Sub-brand TAL”. T.A.L. = acronimo di Traffic Assignment Letter, consente ad un publisher di far confluire – e quindi attribuire – la rilevazione del traffico di una propria property all’interno di una “brand” di un publisher iscritto ad Audiweb.

Dagospia il 23 luglio 2021. Estratto da “Controcorrente”, di Matteo Renzi, ed. Piemme. Ma volendo volare più basso torniamo alla nostra Italia nell'inverno 2020. Il Governo e le aziende pubbliche tornano a fare tanta pubblicità sui giornali e in tv. Sono denari sonanti per le anemiche casse degli editori italiani strangolati dalle difficoltà del mercato pubblicitario privato. La Consob, il cui presidente è nominato dal Governo populista, evita di intervenire sulle vicende complicate di Urbano Cairo e della sua causa a Blackstone. Ovviamente nessuno fiata, per paura delle reazioni del principale editore italiano, ma il fatto che la Consob non ritenga di accertare la presenza di eventuali accantonamenti al gruppo RCS impegnato in una controversia legale del valore di circa seicento milioni di euro è uno degli scandali più incredibili del mondo finanziario degli ultimi anni. Altro che banche popolari e cooperative: il mancato accantonamento di RCS è una clamorosa ingiustizia per i risparmiatori. E forse non è un caso che alcune trasmissioni de La7 e la testata filogovernativa «il Fatto Quotidiano» — anch'essa in difficoltà economica dopo il crollo delle vendite della direzione Travaglio rispetto alla direzione Padellaro, e come tale costretta a ricorrere al sostegno finanziario dei Decreti Conte — stringano una fortissima collaborazione: prendiamo ad esempio la trasmissione più vista, la storica Otto e mezzo condotta dalla ex europarlamentare Lilli Gruber.

Marcello Zacché per “il Giornale” il 23 luglio 2021. Urbano Cairo non intenderebbe accantonare risorse di Rcs in vista della causa intentata da Blackstone a New York. La società lo comunicherà al mercato nella relazione semestrale che sarà sottoposta al cda venerdì prossimo 30 luglio. Per Cairo la causa di Blackstone non sarebbe fondata, oltre a non esserci nemmeno la competenza territoriale. Per questo, assistito da legali e consulenti, ritiene che non servano gli accantonamenti. Come noto il gruppo di fondi Usa chiede a Rcs 600 milioni di dollari di risarcimento per la mancata vendita dell'immobile di via Solferino e per i relativi danni. La questione deriva dal fatto che quando Cairo ha preso il controllo di Rcs, nel 2016, ha contestato a Blackstone di aver acquistato la sede storica del Corriere approfittando della situazione di difficoltà in cui versava Rcs. Ma l'arbitrato concluso a Milano qualche settimana fa ha escluso questa circostanza. E il presidente, fondatore e ceo di Blackstone Stephen A. Schwarzman, assai offeso per un'accusa di quel tipo, ha riavviato la causa rimasta in sospeso. In attesa che il procedimento avanzi, intorno a Rcs e al suo azionista di controllo (Cairo detiene il 63% di Rcs) girano Cassandre e nubi cariche di tempesta. A Milano la storia appassiona ogni salotto che si rispetti e i grandi nomi della finanza e dell'industria quali Mediobanca, Pirelli, Unipol e Della Valle, che sono rimasti nel capitale Rcs anche dopo la sconfitta del 2016. Da allora hanno lasciato il controllo ma non il cda. Quello che si dice è che, si presentasse l'occasione, sarebbero pronti a tornare all'attacco. E troverebbero tanti disposti ad accodarsi. Dagli Angelucci, editori di Libero, ben consapevoli che per imprenditori romani della sanità una strada in solitaria verso il Corriere è improponibile, ma dentro a una cordata sarebbe un'altra cosa; ai Riffeser, già editori del gruppo Poligrafici e ben noti a Mediobanca; al cosiddetto «gruppo di Italo», gli imprenditori che hanno lanciato il treno privato ad alta velocità capitanati da Luca di Montezemolo; fino a Intesa, la prima banca italiana al fianco di Cairo nella scalata Rcs, ma i cui rapporti con l'editore si sono incrinati (anche per la faccenda Blackstone) proprio quando si sono stretti quelli con Mediobanca. Bisognerà vedere se nel cda di venerdì prossimo qualcuno contesterà la scelta di Cairo. Ma al momento non tira aria di tempesta. «Alla fine una soluzione con i finanzieri di Blackstone si troverà - dice un socio della vecchia guardia - e Cairo farà il suo cammino di Compostela». Per quanto riguarda la Consob, bisognerà vedere se all'Autorità guidata da Paolo Savona la semestrale di Cairo sarà giudicata sufficiente per la tutela dei soci Rcs. Certo, le pressioni non mancano. E arrivano anche da un ex premier, Matteo Renzi, che, a pagina 25 del suo ultimo libro, «Controcorrente» scrive che il mancato intervento della Consob «il cui presidente è nominato dal governo populista» sugli accantonamenti non effettuati da Rcs per la causa Blackstone «è uno degli scandali più incredibili del mondo finanziario degli ultimi anni». Renzi attacca Cairo perché non gli garba - e lo scrive - la linea filo grillina tenuta da La7, di cui è pure editore. E che gli avrebbe dato una mano tramite Savona. Ma così mantiene alta la pressione sul futuro del Corrierone. Di sicuro quel 63% del capitale è «tanta roba» come si dice oggi. Tanto che Cairo ripete che «me lo devono portare via a forza», riferendosi all'impossibilità di un'operazione di mercato. Certo, tutto cambierebbe se per far fronte a un problema finanziario Rcs avesse bisogno di così tanto capitale da costringere Cairo a diluirsi sotto il controllo. Per questo Blackstone accende la fantasia di tanti. E per lo stesso motivo è montata anche la questione dei fornitori di Rcs con fatture scadute da mesi e mesi. Tra questi ci sarebbe anche, secondo il sito Dagospia, Andrea Ceccherini, il promotore e presidente dell'Osservatorio permanente giovani editori. Un «fornitore» illustre, quindi. Tra quelli che possono tenere alto il pressing.

BARBA E CAPELLI - Sulla Rai un posto in prima fila per la disinformazione. Mediaset invece fa sforzi titanici per offrire rappresentanza a quelli che dovrebbero essere gli avversari dell'area berlusconiana. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 21 maggio 2021. Saranno trent’anni che sono condannato a scrivere lo stesso pezzo: in Italia non esiste servizio pubblico per la pubblica informazione ma soltanto un servizio privato per la privata comunicazione. La comunicazione non è l’informazione. E viceversa. L’informazione sta alla comunicazione come i passeggeri stanno al treno. Corrono treni colorati, velocissimi e sferraglianti con dentro nulla e milioni di passeggeri attendono vanamente sulla banchina di potere viaggiare sulla conoscenza dei fatti amministrati in maniera onesta. Non riapriamo per carità la questione delle linee editoriali per ripetere che ognuno ha la sua e che Rai Tre è di sinistra come Rai Due era prima socialista e poi leghista e poi forse pentastellata mentre Rai Uno tocca chi tocca, dipende da chi fa banco. Già questo sarebbe gravissimo perché sempre vero, ma in più si è aggiunta anche la televisione privata. E devo dire che in tutta onestà Mediaset fa sforzi titanici per offrire rappresentanza a quelli che dovrebbero essere gli avversari politici dell’area berlusconiana forse per un certo complesso di ghettizzazione. Pochi giorni fa Alessandro Sallusti, che da un giorno all’altro è sparito dal Giornale per ricomparire su Libero, ha scritto un articolo in cui sosteneva che a destra in Italia tutti cercano di sembrare di sinistra, non nel senso che si danno al socialismo sfrenato ma che non si vogliono far scavalcare su argomenti come quelli che sembrano essere diritti civili, tra cui il famoso disegno di legge Zan, ormai un laboratorio di ogni ipocrisia. Ma Rai e La 7 fanno a gara per mantenere recinti stretti dei “corrail” in cui entrano solo i Mustang della scuderia, ragion per cui dalla Gruber tu vedi Travaglio e sai che quello non è un’ospite ma un editore che dice quel che gli pare, ma più che altro dà la linea. Infatti Lilli Gruber che pure abbiamo conosciuto come una persona di ampie vedute, vive in un acquario in cui navigano sempre gli stessi guru. Ecco così che Matteo Salvini alla fine vince a mani basse proprio grazie a questi giochi furbissimi, perché è l’oggetto dell’acrimonia ma anche del desiderio, cosa che lui sa benissimo e che manovra con successo sicché si è creata una complicità per cui tu vedi Salvini ovunque funzionante come un orologio svizzero, mentre ogni altro parere è annebbiato, reso inutile, spesso ridicolo o comunque non benvenuto. Talvolta le persone che dirigono questi show sono amici di persone con cui si ha confidenza da anni ma se li togli il risultato è desolatamente sempre lo stesso forse addirittura è peggiore. È un punto per uscire dall’angustia delle generiche parole e senza fare la classifica coi punteggi dei cattivi e dei pessimi suggerisco tutti i lettori quali certamente hanno una parabola e quindi l’accesso alle news non soltanto americane ma anche inglesi francesi tedesche e anche russe Russia Today e ci metto anche Al-Jazeera in inglese e in italiano fino ai polacchi e ai francesi agli svizzeri, per andare a ficcanasare un po’ in quel che succede in casa altrui. Non intendo certo dire che la televisione russa primeggia nell’informazione libera e multipla ma proprio per questo non va vista come tutte le altre televisioni anche se non si parla e non si capisce una parola della lingua di Tolstoj. Il fatto è che nelle televisioni consolidate di importanti non solo su CNN, Fox new, Bbc e tutte le altre più note, le notizie non vengono somministrate da un redattore di che le legge sul gobbo e che recita sbagliando intonazione perché mette l’enfasi dove non ci andrebbe senza accorgersi che ci voleva un punto fermo. Questo accade soltanto in Italia nelle grandi televisioni dei paesi abituati all’informazione lo stesso spazio da cui escono le notizie e contemporaneamente condiviso da uno o più persone che rappresentano di volta in volta opinioni talvolta opposte, talvolta prossime, ma comunque opinioni. Si assiste ad alcuni scontri veloci in tempi rapidi senza concedere fronzoli virgola e lo spettacolo delle news e lo show della comunicazione. Intendo dire che l’informazione viaggia suscitando in chi la assorbe sia le nozioni che le emozioni connesse. La questione emozionale è essenziale. E facile come rubare un gelato a un bambino creare un ambiente emotivamente favorevole o emotivamente opposto a qualcuno OA qualcosa, infarcire il parterre di compari della stessa bocciofila e infilarci di straforo qualche forestiero l’idea diversa o da sottomettere, o da ricondurre alla ragione punto fateci caso, i nostri programmi cosiddetti di approfondimento sono per lo più, con parecchie eccezioni e modulazioni e anche gradi di qualità il negabili, ma per lo più sono delle sale da box truccate punto il trucco sta nel non mostrare insieme lo stato della verità dei fatti con le solite tabelle, documentazioni filmate, ingresso di esperti con opinioni e opinionisti che abbiano il tempo necessario per quanto sintetico di esprimere punti di vista e significati comprensibili e rispettati. L’ho detto, è vero che ci sono delle eccezioni, ma la tendenza e quella di diverse forme di dittatura televisiva in piantagioni o orticelli già recintati. Ci sono trasmissioni e parterre in cui mai entrerà uno dell’altra parte e ci sono altri altre recinzioni e orticelli in cui la monotonia segue un corso parallelo. Ma lo stato della confusione resta altissimo e lo si è visto in tutta la durata delle Covid perché pur di non dare un’informazione corretta e non corrotta, le televisioni hanno scelto di prendere una posizione preconcetta piuttosto che l’altra, chiusure contro aperture, morti contro commercianti.

E hanno ben dosato i loro alchimismi in modo da impedire qualsiasi movimento di idee promosso dalla conoscenza. Invettive, temi politicamente corretti, finti duelli come quello tra Enrico Letta e Matteo Salvini in ogni salsa possibile immaginabile perché quel che conta alla fine e ciò che si leggerà al mattino dopo negli appositi siti auditel dove ciascuno fa a misurarsi col bilancino quanta percentuale ha incassato. E di conseguenza quanto vale il suo spazio rispetto alle inserzioni pubblicitarie. Tutto ciò va benissimo perché la televisione è fatta di spazi pubblicitari il quali garantiscono la libertà proprio perché sorreggono le televisioni che ne hanno bisogno e non potrebbero vivere altrimenti. Ma la voracità dell’ indice di ascolto supera di gran lunga qualsiasi etica e la partigianeria delle piccole frazioni di bocciofile prevale su ogni qualità di un servizio pubblico. Ovviamente un servizio è pubblico quando è destinato al pubblico non soltanto quando proviene da un ente come la Rai che per sua natura è servizio pubblico benché nutrita di pubblicità, dal momento che tutti ne paghiamo il canone punto una storia così vecchia e triste che viene la nausea a rivangare la punto ma anche le altre televisioni, poiché si rivolgono al pubblico, sono altrettanto pubbliche, benché private. Lo stato dell’arte attuale dell’informazione della comunicazione televisiva e sceso ulteriormente e questa discesa purtroppo compagnia anche lo smarrimento della memoria della liberal democrazia così come un giorno anche se in completamente, fu. Sappiamo che dire a scrivere leggere queste parole è del tutto inutile ma c’è sempre la speranza che qualcosa possa cambiare in meglio.

Svaccato, perbene e perbenista. "Zoro", l'elitarismo in t-shirt. Luigi Mascheroni il 28 Giugno 2021 su Il Giornale. Propaganda Live è uno dei pochi programmi per cui vale la pena guardare la tv. Ma anche di spegnerla. E poi c'è il conduttore: Diego Bianchi, in arte Zoro. Propaganda Live è uno dei pochi programmi per cui vale la pena guardare la tv. Ma anche di spegnerla. E poi c'è il conduttore: Diego Bianchi, in arte Zoro. C'è chi lo adora, e sono molti. E chi cambia canale appena lo vede, e sono anche di più. La distanza fra un maestro e un maestrino è tutta in uno zapping. Del resto, Propaganda Live è l'unico programma dove ti puoi ritrovare a ridere e a piangere nella stessa serata. E non è detto sia una cosa positiva. Positivo nei confronti della vita, sempre il primo a essere dalla parte degli ultimi, ossessionato dagli oppressi, vendicatore degli oppressori, intollerante con gli intolleranti e tollerante con i compagni: paladino dei diritti, che a volte legge a rovescio, conformista, perbenista e di sinistra, Diego Zoro Bianchi, romano del quartiere più romano di Roma, San Giovanni, così antico che parlano l'appio-latino - Veni, Vidi, Daje e Aridaje è uno dei personaggi più divisivi della televisione italiana. La sinistra di scherno e di governo lo vorrebbe ministro della Propaganda, la destra gira dopo la sigla d'inizio. La prima lo trova irresistibile, la seconda insopportabile. Per capire quanto, si può fare un esempio. A un elettore del centrodestra Zoro è simpatico quanto Gasparri a uno di estrema sinistra. Daje, eddaje, daje tutta, e daje forte! Così di sinistra da permettersi di laurearsi alla Sapienza con Domenico Fisichella, poi ministro del governo Berlusconi; così romano da concedersi di suonare in una band di Sora, capitale culturale dell'Impero; così militante da personificare il detto della nonna, la famosa nonna Zora («Mia nonna diceva che la politica si fa pure in bagno». Appunto), Zoro, un giornalismo tra il gonzo e Gazebo, è un indiscusso professionista. Una solida carriera alle spalle e un futuro da Pif. Prima blogger, poi youtuber, passaggi nel mondo della radio e del cinema, e ora conduttore intelligente, ironico, sensibile, fazioso, stucchevole. Che ha inventato a suo modo uno stile. In inglese si dice understatement. Da noi: svaccato. Ahò, Appiccicà, Cojonà, Inquartasse, Intuzzà, Svortà, Stacce, Fattela pijà bene, Sto a schiumà, Magnatela na cosetta, Sto' a rota, zagajà, Fàmose a capì', e Rula Jebreal... E dajé! Jeans largo, posizioni rigide, magliettine stazzonate - er mejo majettaro de Roma, brand da migliaia di euro, si compra tutto online, o da Zoro Home - Diego Bianchi è stropicciato, indolente, umile ma restando sempre migliore degli altri. Come i vacanzieri intellettuali ultra chic - piedi nudi da giugno a settembre, capanno sul mare a Marina del Chiarone ma con il cuore a Coccia di morto - trasandato, controvoglia, provinciale, Damilano al mondo, da Roma Sud alla Curva nord «Forza Roma, daje lupi!» - tra Mostacciano e Spinaceto. Si chiama autoreferenzialità, facendo finta di parlare a tutti. Quelli di Propaganda Live - televisivamente bravissimi, ideologicamente insopportabili - sono così. Forti nei palazzi del potere e delle tv, deboli nel Paese e tra la gente. Come il Pd. Che ha governato per 11 anni negli ultimi 15, ma l'ultima volta che ha vinto le elezioni è stato nel 2006. La si può definire una prova di notevole abilità. Ma alla lunga risulta surreale. Daje ar fascio! Gigante in una rete di L7 nani, Zoro voce di autentica rottura, in qualsiasi senso lo si intenda - ha dalla sua il privilegio di condurre l'unica trasmissione del panorama televisivo italiano che ha sul mondo un punto di vista diverso. Il suo. Show, tweet e T-Shirt, in realtà Diego Bianchi - share medio 5,2 per cento, Zoro in condotta è rimasto un conduttore alla mano, nonostante l'indiscusso successo. Sempre gentile e disponibile, non ha mai ceduto al fascino tentatore della prima donna, lui che è l'esempio televisivamente migliore di maschio femminista. L'Italia lo malsopporta, ma Roma lui l'ha conquistata. Potrebbe candidarsi anche sindaco. La Giunta è già fatta: Makkox alla Cultura, Missouri 4 ai Trasporti, Roberto Angelini - il chitarrista ricercato dalla Guardia di Finanza - alla Legalità e trasparenza, Marco Damilano al Pluralismo dell'informazione. Capalbio e caparbi. È la bellissima Sinistra velleitaria e supponente, ecologica e accogliente, presuntuosa e narcisista. L'Italia però è migliore di così...Che poi. Su Propaganda Live, non si può dire nulla. Criticare la trasmissione significherebbe ammettere di essere invidiosi. Ottimo programma di informazione, un format che ci guadagnerebbe se fosse più snello, loro sono battutari micidiali, cazzoni, sempre obiettivi, sempre sul pezzo, sempre a dar voce a chi non ne ha, un non-lieu del palinsesto dove lottare per avere più diritti. Per gli altri e per sé. Ecco sì, magari un po' più d'attenzione al casting delle quote rosa... Comunque «Grazie per esserci stati ogni venerdì, viva Diego, viva Makkox, viva il Pojana, viva Propaganda Live». Come diremmo a Busto Arsizio: Mecojoni! E comunque chi li critica non li conosce abbastanza. Reportage a Rozsko e pipponi, la «jungle» di Calais e Porta Metronia, servizi di qualità e spaccati toccanti di vite perdute, palestinesi, Val di Susa, migranti, tanti migranti, migranti dappertutto, prima e dopo ogni blocco pubblicitario, rider, migranti, Ilva, terremoti, migranti, disagio per lo sfruttamento del lavoro nero, spiegoni, migranti, l'agricoltura chimica e il glisofato, ipocrisia, principi etici, collette alimentari, élitarismo intellettuale, migranti e qualche ammiccamento adolescenziale di troppo. Zoro e i suoi lo scriviamo senza ironia sono fantastici. E chi non lo pensa è un salviniano ignorante populista sovranista sessista bianco omofobo meloniano neocolonialista e potenziale stupratore. Sbeffeggiando&ridacchiando, Zoro&Co sanno informare, divertire e farci compagnia. Certo, fra nepotismo artistico e familismo ideologico, quella simpatica comitiva di borgatari da bar dell'Appio-Tuscolano che è Propaganda Live sa troppo di amichettismo che rischia di sfociare nel cameratismo. Che, a pensarci, è una cosa di destra. Ma in fondo - da mamma Zoro al Ricciolo, tassinari compresi - è tutto molto leggero, con quell'aria tipica da Sinistra dell'Aventino di un gruppo di vecchi amici che hanno capito come va il mondo, e te lo spiegano. Di peggio, a sinistra, in questo senso, c'è solo Michele Serra. Dajeeeeee a tutti! Di suo, Diego Bianchi, che è solo un po' più coatto di Formigli, un po' meno radical chic della Gruber, sarà anche eticamente superiore a tutti noi «Io so' io e voi non siete un...», non mi ricordo cosa - ma intanto ha capito benissimo che la satira è la forma di politica più efficace che esista. Purtroppo, però, non che il sarcasmo è solo una arguzia più vile. La statura di un comico - si sa - si misura con quella di coloro che prende in giro. Tirata d'orecchi al compagno che sbaglia, e la gogna a tutti gli altri. Poi, certo, il caso Angelini poteva essere gestito meglio. Come iniziare con una trasmissione alternativa per poi finire sulle riviste di gossip a un euro, Cairo editore. A Roma si dice «Tocca abbozzà». Per il resto, un saluto a tutt*, e arrivederci a settembre. «Che manco ce fai ride!».

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge

Matteo Salvini e Berlusconi, Travaglio e Fatto quotidiano fuori controllo: "Mafia, toghe e condannati". Libero Quotidiano il 08 giugno 2021. "Mafia, toghe e condannati". A sinistra Matteo Salvini deve proprio far paura da morire. La federazione di centrodestra scombussola i piani di Pd e M5s, convinti di poter decidere da soli il futuro inquilino del Quirinale. Non sarà così, e al Fatto quotidiano, house organ dei 5 Stelle con rinnovato entusiasmo grazie all'arrivo ufficiale di Giuseppe Conte alla plancia di comando, si adeguano tirando fuori l'artiglieria pesante. Tradotto: fango, fango, fango. Intendiamoci: il quotidiano diretto da Marco Travaglio quell'artiglieria non l'ha mai lasciata impolverare per troppo tempo, perché è sempre servito il nemico pubblico da polverizzare. Matteo Renzi ne sa qualcosa, così come Silvio Berlusconi. E proprio il Cav, storica ragion d'essere editoriale del Fatto, è il termine di paragone usato per denigrare e abbattere il leader della Lega. "Salvini si è berlusconizzato", assicura l'articolo a firma di Fabrizio D'Esposito che campeggia a pagina 5. "Il leader leghista parla come Dell'Utri sui pentiti - si legge - e ora vuole la separazione delle carriere dei magistrati". Fumo negli occhi per Travaglio e tutta la redazione del Fatto, fieramente schierata a fianco dello statista Alfonso Bonafede, ex ministro della Giustizia d'ispirazione "davighiana". Toh, non poteva mancare l'asso buono per tutte le stagioni: la separazione delle carriere è "l'obiettivo di Gelli e 'Silvio'". Pazienza se la battaglia vada avanti da decenni, arruolando fior di giuristi e costituzionalisti. "Tra l'uomo del Papeete e il Pregiudicato azzurro - è la sprezzante sintesi di D'Esposito - è di nuovo esploso l'amore sotto forma di federazione o di che cavolo sarà (complimenti per la fine analisi politica, ndr)" e "il risorgente forza-leghismo si fonda sull'antico obiettivo di B. al momento della fatidica discesa in campo: l'impunità e quindi la lotta feroce ai magistrati". Che bello avere delle certezze in questo mondo che cambia a velocità così vorticosa: al Fatto per esempio, il tempo non passa mai. È il 2021, ma sembra il 2011.

Marco Zini per tag43.it il 10 giugno 2021. Psicodramma a La7, teledivi che si schierano, editore imbarazzato. Tutto è successo per colpa di un no. Quello opposto da Lilli Gruber, la conduttrice di Otto e mezzo, a Massimo Giletti che aveva chiesto di andare ospite nel suo programma. Apparentemente nulla di strano, visto che spesso i salotti della tivù di Urbano Cairo sono frequentati dalle star della rete che vanno come ospiti nei programmi degli altri. Per esempio, qualche sera fa è successo a Giovanni Floris, titolare del talk del martedì, di andare proprio dalla Gruber. Lo stesso Giletti non aveva mancato in precedenti occasioni di essere ospite della combattiva Lilli. Quindi c’è da immaginare lo sconcerto del conduttore di Non è l’Arena di fronte al rifiuto. Chieste spiegazione, Gruber senza girarci troppo attorno gli avrebbe detto che è troppo di destra, quindi poco in sintonia con la linea del programma. Pazienza gli ospiti destrorsi, anche quelli che tentano di edulcorarla portandole mazzi di fiori, ma un giornalista della rete proprio non era il caso. Discretamente offeso, Giletti si è allora confidato con Floris sperando di trovare comprensione. Speranza subito smorzata perché il suo interlocutore ha preso le parti della Gruber, se pur dando una motivazione paratecnica (e leggermente paracula). Tu hai già il tuo programma, questo il senso delle parole di Floris, quindi stai a casa tua e non ti lamentare. A quel punto, ancora più inviperito, Giletti ha preso il telefono e chiamato Cairo in cerca di comprensione. E l’editore cosa ha fatto? A Roma si direbbe ha abbozzato, a Milano il pesce in barile. Conclusioni: Giletti ha capito che sta sulle palle ai suoi colleghi, oltre ad aver avuto la conferma della particolare avversione, per altro reciproca, della Gruber. Il gossip è girato immediatamente tra gli studi dell’emittente, e qualcuno, giusto per capire l’aria che tira (ogni riferimento al programma di Myrta Merlino è puramente casuale) è arrivato al punto di immaginare che il buon Giletti se la sia cercata apposta, in modo da avere un motivo per rompere con una rete dove si sente politicamente sempre più isolato. Fortuna che anche la stagione televisiva de La7 volge al termine, e forse la pausa estiva e il meritato riposo consentiranno di rasserenare un po’ gli animi. O forse no. Lo scopriremo solo a settembre.

Massimo Giletti "troppo di destra"? Dopo lo sfregio di Lilli Gruber, la telefonata a Cairo: è guerriglia a La7. Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. La bufera mediatica a La7 non si placa. Il no secco di Lilli Gruber a Massimo Giletti, che le aveva chiesto di andare opite nel suo programma, continua a far discutere. La colpa del conduttore di Non è l'arena? "Essere troppo di destra", secondo quanto riportato da Tag.43.it. A prendere la parola stavolta è il giornalista stesso. "Nella mia vita il verbo supplicare non appartiene al mio vocabolario. Non faccio chiarimenti o confidenze a persone con le quali non ho rapporti. Quello che mi interessa è lavorare sul mio prodotto. E tutto il resto... è noia", ha detto Massimo Giletti in merito alle indiscrezioni sulla richiesta di essere ospitato a Otto e Mezzo che avrebbe rivolto a Lilli Gruber. Pare che Giletti si sia offeso e che si sia quindi rivolto a Giovanni Floris, che conduce DiMartedì, per avere la sua solidarietà. Peccato però che Floris si sia schierato dalla parte della Gruber con una motivazione "tecnica", della serie, "tu hai già il tuo programma, non ti lamentare". Allora, sempre più sconvolto e infuriato Giletti ha telefonato anche a Cairo in persona per cercare un po' di comprensione. Ma l'editore ha abbozzato. Quindi Giletti ha capito di non essere particolarmente simpatico ai suoi colleghi, in particolare alla Gruber, per la quale anche lui nutre una certa avversione. In ogni caso ora si chiude la stagione televisiva di La7 e tutti i talk saranno in pausa per l'estate. Chissà che un po' di ferie e di vacanze per tutti non facciano calmare gli animi troppo accesi.

Rissa in diretta tra Santoro e Annunziata. Francesca Galici il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. Michele Santoro accusa la tv di non dar voce ai contrari al vaccino e Lucia Annunziata lo attacca: volano accuse tra i due giornalisti. Le acque a sinistra sembrano piuttosto agitate a giudicare dalle ultime discussioni che hanno animato i talk televisivi e che hanno avuto come protagonisti proprio gli esponenti di quella parte politica. L'ultimo in ordine di tempo è stato tra Lucia Annunziata e Michele Santoro, ospite nella trasmissione Rai della giornalista. L'ex conduttore di Annozero da qualche mese è tornato in tv per promuovere il suo libro, non senza qualche sorpresa. Gli animi a Mezz'ora in più si sono accesi e lo scambio di battute tra Annunziata e Santoro è stato piuttosto caldo. La miccia che ha innescato la disfida? I vaccini e il fatto che, come lamentato più di una volta dal giornalista, non ci siano voci contrarie al loro utilizzo nei talk televisivi. "Gli scienziati non sono Dio, devono fornirmi i dati per prendere le decisioni", ha tuonato Michele Santoro, apparso scettico sull'efficacia dei vaccini contro il coronavirus. L'opinione del giornalista, però, non è stata accolta positivamente dalla padrona di casa: "Ma né tu né io siamo in grado di leggerli". Una replica pungente da parte di Lucia Annunziata, che ha sottinteso l'incapacità dei non addetti ai lavori di leggere correttamente gli eventuali dati di ricerca in campo scientifico, a meno che a guidarli non ci sia un esperto. Ma Michele Santoro si sa che non è uno che molla facilmente la presa, nemmeno quando è messo con le spalle al muro. E così, alla giusta obiezione di Lucia Annunziata ha replicato con durezza: "Allora dobbiamo farci governare dagli scienziati? Ci sarà qualcuno che li deve saper leggere. Il rischio per me è metterli sul piedistallo come se fossero degli dei. Pretendo che mi diano quanti più dati possibile per verificare che le loro teorie siano corrette". Ormai la discussione era entrata nel vivo e Lucia Annunziata, per evitare che il suo ospite prendesse il sopravvento, ha attaccato direttamente Santoro: "Vuoi criticare la politica, gli scienziati o tutti e due?". A quel punto è iniziato un botta e risposta diretto, con l'ex conduttore di Annozero che ha invocato "più democrazia nel mio Paese", accusando l'informazione italiana: "Poi se a te stanno bene i telegiornali che non danno spazio a opinioni critiche che ci sono e che corrisponde al 30 per cento dell’opinione pubblica, dimmi tu se questo è normale". La Annunziata, quindi, ha scansato la polemica, dichiarando che lei si assume solo la responsabilità di quanto accade nel suo programma. Quindi, ha piazzato una stoccata importante al collega: "Scusa ma tu adesso non eserciti nel senso che non hai una tua trasmissione e vieni qui a farci notare queste cose? Vuoi darmi lezioni?". Ma Michele Santoro è un lupo televisivo e ad accusa ha risposto con accusa: "Non ho una mia trasmissione ma sono un giornalista". A quel punto si è alzato e ha lasciato la trasmissione borbottando con sarcasmo a microfono aperto: "Io non esercito...".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Da liberoquotidiano.it il 7 giugno 2021. Ed è scontro tra Lucia Annunziata e Michele Santoro. L'ospitata dell'ex volto Rai a Mezz'ora in più su Rai 3 si è trasformata in un botta e risposta durissimo. Ad accendere la miccia i vaccini e la mancanza di voci contrarie lamentate da Santoro: "Gli scienziati non sono Dio, devono fornirmi i dati per prendere le decisioni". "Ma né tu né io siamo in grado di leggerli", ha prontamente replicato la conduttrice mentre il collega rincarava la dose: "Allora dobbiamo farci governare dagli scienziati? Ci sarà qualcuno che li deve saper leggere. Il rischio per me è metterli sul piedistallo come se fossero degli dei. Pretendo che mi diano quanti più dati possibile per verificare che le loro teorie siano corrette". Frasi che hanno scatenato la Annunziata, pronta a incalzare nel chiedere se "vuoi criticare la politica, gli scienziati o tutti e due?". Ma Santoro non si è arreso e fermo sulle sue posizioni ha rivendicato "più democrazia nel mio Paese". Nel mirino del giornalista ci sono finiti anche i politici, accusati di aver utilizzato gli esperti del Covid. La situazione è però diventata piano piano più incandescente: "Poi se a te stanno bene i telegiornali che non danno spazio a opinioni critiche che ci sono e che corrisponde al 30 per cento dell’opinione pubblica, dimmi tu se questo è normale", ha sbottato a quel punto il fu conduttore di AnnoZero. Presa in contropiede, la Annunziata non ha gradito la stoccata: "Intanto voglio dirti che io sono giornalista e mi assumo la responsabilità di quello che faccio io, credo che sia ingiusto da parte mia criticare i colleghi". Finita qui? Neanche per sogno perché la Annunziata non ha affatto preso bene la critica del collega: "Scusa ma tu adesso non eserciti nel senso che non hai una tua trasmissione e vieni qui a farci notare queste cose? Vuoi darmi lezioni?". A sua volta Santoro ha risposto per le rime: "Non si possono fare domande". E ancora: "Non ho una mia trasmissione ma sono un giornalista". Poi si è alzato ed è andato via ancora borbottando con ilarità: "Io non esercito...".

Mezz'ora in più, Adriano Celentano durissimo contro Lucia Annunziata: "Maleducata, preoccupante cretinata. Quando eri ospite in tv..." Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. Adriano Celentano contro Lucia Annunziata. E tramite social, dalla pagina Instagram L'inesistente che è legata proprio al Molleggiato, arrivano parole durissime. "Non mi sei piaciuta per niente con Michele Santoro ieri sera. Forse i temi con i quali ti aveva coinvolta non ti andavano a genio? A tal punto da zittirlo bruscamente (e direi molto maleducatamente) con la frase: 'Conosci i tempi televisivi. Lo avresti fatto anche tu'. Quando tu eri ospite nelle sue trasmissioni lui con te è sempre stato corretto. Ma tu, invece, sempre bruscamente hai concluso con la preoccupante cretinata secondo la quale non avendo lui in questo momento una trasmissione televisiva non sarebbe abilitato a parlare. Allora anche giornali come Corriere, Repubblica e Stampa e altri non possono parlare? Perché non hanno una trasmissione televisiva? Ma tu sei sicura che la tua lo sia davvero?". Quella del Molleggiato sembra una vera cannonata, senza precedenti. L'ospitata di Santoro, che con un nuovo libro è tornato sulle scene, adesso lascia tutti senza fiato. In pratica, il giornalista - che sta girando tutte le trasmissioni televisive - è tornato in grande spolvero sulle scene. Ed ha incontrato la sua storia collega, ed anche amica, Lucia Annunziata (che è spesso stata ospite di Santoro nei suoi storici talk politici). Ora, però, sembra che sia accaduto l'imprevedibile. Ed infatti lo scontro non è sfuggito a Celentano, sempre molto attento a quello che è accaduto in studio. Una tele-rissa che potrebbe avere altri sviluppi a colpi di post e like sui social. 

Antonello Piroso per "la Verità" il 9 giugno 2021. Ullalah. Joan Lui versus la Badessa. Quasi meglio di Godzilla contro Mazinga, per rimanere nell' archeo tv. Adriano Celentano bacchetta Lucia Annunziata, già direttora del Tg3 e poi presidente Rai, rea di aver tappato la bocca a Michele Santoro a Mezz' ora in più su Rai3. Il triangolo tra giovani virgulti (più di 220 anni in tre) va raccontato.

Annunziata, stanca di sentirsi spiegare, dal solito Santoro salito in cattedra, come oggi dovrebbe fare il suo mestiere, ha ribattuto: «Scusa ma tu adesso non eserciti, nel senso che non hai una trasmissione, e vieni qui a farci notare queste cose?».

Controreplica di Michelino: «Non ho un programma ma sono sempre un giornalista».

Il para-guru canoro ha commentato: «Cara Lucia, non mi sei piaciuta. Forse i temi nei quali ti aveva coinvolta non ti andavano a genio? Tutte cose che stranamente sembravano irrigidirti. A tal punto da zittirlo bruscamente, e molto maleducatamente, con l'ipocrita frase: "Conosci i tempi televisivi, lo avresti fatto anche tu". Mentre invece quando tu eri ospite nelle sue trasmissioni, lui con te - e non solo con te - è sempre stato corretto».

Molleggiato ingrato e smemorato. Guereggiare va bene, ma senza amnesie. Innanzi tutto perché Annunziata prese le parti proprio di Celentano, durante il santoriano Servizio pubblico del 2012, in cui i compagnucci della parrocchietta - Antonio Di Pietro, Carlo Freccero, Corradino Mineo, Norma Rangeri, Nino Rizzo Nervo, unico infedele: l'oggi direttore della Verità Maurizio Belpietro - (stra)parlavano della mission editoriale di viale Mazzini. E pazienza, si fa per dire, se Annunziata, volendo difendere il cantante dalla shitstorm piovutagli addosso dopo l' esternazione dal palco di Sanremo contro la stampa cattolica - «Famiglia Cristiana e Avvenire, giornali ipocriti e inutili che andrebbero chiusi definitivamente», una cosuccia delicatissima - se ne uscì con una provocazione raggelante: «Avrei difeso Celentano anche se avesse detto: i gay sono da mandare nei campi di sterminio» (e perché non anche se avesse sostenuto, giusto per buttar lì un' altra frase a caso di cane: «Lo stupro di una donna è lecito se veste in modo provocante?»).

Quanto alla correttezza di Santoro, poi...Nel gennaio 2009 Annunziata abbandonò lo studio di Annozero durante una puntata sull' eterno conflitto tra israeliani e palestinesi, giudicata dalla giornalista «schierata al 99,9%» con questi ultimi. Santoro a muso duro: «Non dire anche tu le scemenze che ci dicono in tanti, basta con questa volgarità. Sei qui per parlare di questo problema, non per contestare la trasmissione». E lei, come ora Santoro a parti invertite: «Essendo una giornalista, posso criticarla se la trovo sbilanciata». «Gigi er bullo», copyright di Beniamino Placido, non si contenne e aggiunse uno sfregio anche vagamente infamante, alludendo alla volontà di Annunziata di «acquisire dei crediti nei confronti di qualcuno» (Silvio Berlusconi aveva da poco rivinto le elezioni politiche).

Insomma, negli anni il livello di affettuosità tra i due è rimasto invariato. Come spesso e volentieri càpita nel campo dei sinistrati democratici. Dove volano gli stracci, e non solo tra le iene dattilografe.

Accantoniamo Santoro, non senza aver prima rievocato il battibecco del 2014 con Marco Travaglio (offeso in quanto zittito, lasciò lo studio pure lui), per il modo in cui il direttore del Fatto Quotidiano si stava rivolgendo al presidente della Liguria Claudio Burlando del Pd, accusandolo di essere un cementificatore e di aver compiuto «porcate» (da allora i rapporti con Santoro si sono, per dir così, raffreddati). Vogliamo vedere come proprio il Fatto, «l'house organ dei grillopitechi» per i detrattori, ormai avvinto come l'edera alla causa di Giuseppe Conte quale leader del M5s, ha asfaltato Davide Casaleggio? Un ritratto al vetriolo, in cui gli sono stati imputati «l'infilata di consulenze da Poste, Moby-Tirrenia e Philip Morris», il fallimento della piattaforma Rousseau, puntava al «milione di adesioni, invece è finito nella ridotta degli iscritti certificati: 195.000», senza contare che i quesiti su cui votare erano «una rassegna di plebisciti previo indottrinamento dei big», altro che uno-vale-uno. Un rosario di nequizie che neppure il più avvelenato foglio di destra sarebbe riuscito a mettere insieme. Quasi quanto quelle rinfacciate, in più riprese, da Daniele Luttazzi a Freccero, che da direttore di Rai2 nel 2001 gli aveva mandato in onda un programma, Satyricon, nel 2019 invece no: «Le sue sono balle acrobatiche. Et voilà Freccero: berlusconiano a La Cinq, ulivista nella Rai dell'Ulivo, sovranista nella Rai sovranista». Arringa pubblicata dal Fatto che, si sa, è un modello perché «è una testata senza padroni»: parola di Gad Lerner, quando approdò alla corte della vedova di Giuseppi. Al che dal suo ex-giornale, Repubblica, a infilzarlo ci pensò Stefano Cappellini, capo della redazione politica: «Ora che non ha più padroni, c' è solo un problema: chi lo porta in barca, quest' estate?», ammiccamento tutt' altro che velato alle immagini del nostro con Carlo De Benedetti in Costa Smeralda (Cappellini l' ha scritto su Twitter, saccheggiato da Propaganda Live su La7, ma c' è da dubitare che Travaglio l' abbia visto lì: non andrebbe mai in quel programmaccio perché il conduttore, Diego Bianchi aka Zoro, «mi fa venire l' orticaria», ha confessato una volta, memore forse di una serie di precedenti «vaffa» reciproci, ma mai dichiarati come tali, non sia mai).

Intendiamoci: i maestri dei pesci in faccia sono i politici. Massimo D' Alema dipinse -con una frase poi smentita ma a me confermata in video da Giampaolo Pansa che l'aveva trascritta per primo - come «due flaccidi imbroglioni» Walter Veltroni e Romano Prodi. Prodi che era stato pesantemente perculato pure da Fausto Bertinotti - all' epoca presidente della Camera, carica in cui lo aveva voluto proprio il professore bolognese in quanto capo della coalizione- prendendo a prestito l'acido di Ennio Flaiano su Vincenzo Cardarelli: «Il più grande poeta morente». E che dire del tweet di Enrico Letta in risposta a Matteo Renzi (il quale, nel suo libro Avanti del 2017, scrisse che al momento del passaggio di consegne, dopo il celeberrimo «Enrico, stai sereno», Letta entrò «in modalità broncio», vestendo i panni «della vittima»): «Reazioni a Renzi? A volte il silenzio esprime meglio il disgusto». Capite perché non è tanto incredibile che Pd, Italia viva e Liberi e Uguali governino con Lega e Forza Italia, quanto che siano alleati tra loro?

La "Repubblica" dominata dalla Meloni. Luigi Mascheroni il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. Secondo più di un analista politico alle prossime elezioni Giorgia Meloni può prendersi un bel pezzo del governo della Repubblica. Secondo più di un analista politico alle prossime elezioni Giorgia Meloni può prendersi un bel pezzo del governo della Repubblica. Per ora, ieri mattina, ha occupato la prima pagina «di» Repubblica, il quotidiano. Lo ha fatto con una campagna pianificata di pubblicità del suo libro, Io sono Giorgia, pubblicato da Rizzoli, cioè Mondadori. Ogni tanto anche Berlusconi ama prendersi le rivincite. Un assedio: due manchette a destra e a sinistra della testata, e un «quadrotto» al piede della pagina. Nell'insieme faceva un bell'effetto. Quanto tempo è passato da quando il giornale la definiva «fascista» e «coatta»? La politica puzza, ma pecunia non olet. E così mentre le librerie fedeli al Pd si rifiutano di vendere il libro, Repubblica, tradendo la propria linea, si porta a casa qualche modulo ben pagato di pubblicità. È solo questione di affari, niente di personale. Certo è curioso. Rizzoli ritiene di poter vendere il libro di Giorgia Meloni ai lettori di Repubblica. Ma del resto è da un po' che stanno tentando di vendere Repubblica agli elettori di Giorgia Meloni. Non esiste più la destra, non esiste più la sinistra, è tutto business. Peraltro non si può negare che il giornale di Eugenio Scalfari, almeno da quando c'è a dirigerlo Maurizio Molinari, sia irriconoscibile. Ieri, a parte la lettura filoisraeliana (!) dei fatti di Gaza, in prima pagina (sopra la pubblicità della Meloni) c'era persino un pezzo di Claudio Tito sulle spese «ingiustificate» di Massimo D'Alema dentro la Fondazione europea dei progressisti... E nel pomeriggio il sito web apriva con la notizia che la Meloni sta volando nei sondaggi... Non capiamo cosa stia succedendo. Forse il fatto è, come pensano da quelle parti, che soltanto a sinistra comprano e leggono libri. Quindi è lì che bisogna andare per fare pubblicità... O forse i lettori di Repubblica sono diventati di destra. E del resto è una vita che i giornali di destra hanno la pubblicità di libri scritti da politici di sinistra, peraltro pubblicati da Berlusconi. Comunque, non si capisce se sia la targetizzazione del marketing a essere senza senso o se sono i quotidiani che hanno perso la loro linea editoriale. Del resto il primo a dire che leggerà il libro di Giorgia Meloni è stato Enrico Letta, segretario del Pd. Il problema semmai, ora, sono i lettori «dal primo numero» di Repubblica che smetteranno di leggere il giornale. E forse a questo punto era meglio vendere il libro della Meloni e regalare il quotidiano. Strano che al marketing non ci abbiano pensato.

La Repubblica prima diffama e poi censura la Meloni. Ecco la verità. Giorgia Meloni venerdì 25 Ottobre 2020 su Il Secolo d'Italia. Repubblica insulta Giorgia Meloni con tanto di di titolo in prima pagina e pubblica di nascosto e tagliandola vistosamente la replica della presidente di Fratelli d’Italia. Noi, invece, la riproponiamo integralmente ai lettori del Secolo d’Italia che vorranno diffondere la risposta di Giorgia Meloni a tutti i loro amici e vedremo chi vince questa partita tra noi e loro. (f.s.) La risposta integrale di Giorgia Meloni.

Egregio Direttore, ho letto con grande stupore il fiume rancoroso di insulti, volgarità e falsità che Francesco Merlo mi ha rivolto nel lunghissimo articolo pubblicato da La Repubblica il 24 ottobre. Dedicate tempo e spazio a parlare della necessità di combattere le fake news e le “parole d’odio”, soprattutto contro le donne, ma evidentemente questo non vale quando si tratta di attaccare chi ha la grave colpa di fare politica a destra. Tanto livore mi ha fatto tornare in mente una frase di Plutarco: “I nemici sono eccitati dai mali, dalle brutture, dalle sofferenze della vita”. Così Merlo si è voluto lanciare rapace sul mio aspetto fisico, sul mio accento, sulla mia vita, anche privata e familiare, sulle difficoltà vissute; tutte cose che ben poco hanno a che fare con il mio ruolo di donna impegnata in politica e che in buona parte non sono dipese dalla mia volontà, ma piuttosto imposte dalla sorte, che non sempre è generosa e benevola come vorremmo.

La democrazia degli oligarchi. Dovrei vergognarmene? Dovrei vergognarmi di essere cresciuta e vivere tutt’ora in una periferia romana e non in una zona prestigiosa del centro? Di aver dovuto lavorare fin da ragazzina perché a casa non nuotavamo nell’oro? Di aver deciso di fare l’indirizzo linguistico in un alberghiero perché all’epoca non c’era altro modo di imparare lingue straniere nella scuola pubblica? Il filone di pensiero di Merlo che insulta i “coatti romani e gli emarginati” ha precedenti illustri: si va dal socialista Hollande che deride i poveri chiamandoli “sdentati” alla Clinton che li chiama “miserabili”. Dietro tanta cattiveria si cela una finalità ambiziosa: delegittimare il popolo per operare un trasferimento di sovranità dal popolo alle élite. Per la sinistra, come scrisse Scalfari proprio su questo giornale: la democrazia non può che essere oligarchia. Certo che chi invece, come me, sostiene che la sovranità appartiene al popolo, che vuole addirittura l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e l’abolizione dei senatori a vita non può che essere un grande nemico. Ma evidentemente a Merlo gli attacchi personali, la “Reginetta di Coattonia”, le schifose insinuazioni su mia figlia strumentalizzata a fini politici e addirittura il riferimento al funerale di mio padre, devono essere sembrati troppo fragili, e allora si è dedicato a un’altra specialità della sinistra: diffondere falsità sugli avversari politici.

Le bugie di Repubblica sulla Meloni. Mi limito a riportare solo le più grossolane. 1. Merlo mi attribuisce questo virgolettato: «Spariamo sulle navi». Mai detto. Io voglio sequestrare e affondare le navi (vuote) che violano la legge italiana sull’immigrazione. 2. Merlo dice che sono andata a Torre Maura, che lì ho difeso e organizzato delle rivolte contro i rom e che avrei pronunciato queste parole: «Cacceremo i rom a uno a uno stanandoli casa per casa». Falso. A Torre Maura non sono mai andata e non ho mai pronunciato le parole che Merlo mi attribuisce. Io voglio semplicemente che ai rom sia applicata la stessa legge di tutti gli altri cittadini. 3. Il giornalista dice, poi, che ho dichiarato guerra ai gay e che in piazza San Giovanni avrei parlato di «orchi omosessuali che rubano le identità». Falso, mai detto. Sono contraria alle adozioni gay, tutto qui. 4. Merlo mi accusa poi di aver bruciato in piazza i libri della sinistra. Falso. Ho regolarmente comprato e poi timbrato, questo sì, con "falso d’autore" quelli che definivano le Foibe "luoghi di suicidi di massa". Chissà se chi ha scritto l’articolo si è accorto che nel pezzo sono presenti tutti gli ingredienti per una deriva autoritaria e liberticida: la denigrazione e delegittimazione indiscriminata di intere fasce della popolazione, la demonizzazione personale dell’avversario politico, lo scientifico ricorso alla menzogna, perfino il malcelato avvertimento – degno degli agenti della STASI – nei confronti dei personaggi del mondo dello spettacolo che hanno avuto l’ardire di esprimere, fuori da ogni contesto di natura politica, semplice simpatia umana nei miei confronti. Mi sono chiesta del perché di questo duro attacco a me e a Fratelli d’Italia. Forse la risposta è in una celebre frase di Gandhi: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”. Siamo già alla terza fase.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 5 maggio 2021. Rai3 sta vivendo momenti inquieti: il concertone del Primo Maggio a Roma e il caso Fedez, le accuse di censura, la nozione di Servizio pubblico rimessa in discussione, le scuse, le incertezze sulla linea editoriale, la fidanzata del direttore di Rai3 Franco Di Mare che si scaglia contro Fedez (speriamo che alla fidanzata del direttore non risponda Chiara Ferragni) e altre cose del genere. Poi arriva Report versione Sigfrido Ranucci, vicedirettore della rete e ospite fisso di Fabio Fazio. Lunedì sera, Report ha mandato in onda un video girato con il cellulare, attraverso il finestrino, da una automobilista ferma all'autogrill di Fiano Romano, sull'autostrada che da Roma porta a Firenze. È il pomeriggio del 23 dicembre 2020. La testimone oculare dell'incontro, un'insegnante, sostiene di aver riconosciuto l'ex presidente del Consiglio e di aver catturato così le immagini. Poi le ha girate alla redazione di Report, che ha confezionato il servizio. Non capita tutti i giorni che un'insegnante («una cittadina curiosa») resti tutto quel tempo in macchina a filmare Matteo Renzi, sostenendo di essersi fermata per un'emergenza. Dice con voce artefatta per non essere identificata: «Mi fermavo in quella piazzola di sosta perché mia madre si era sentita male e mio padre era sceso per accompagnarla. Un caso fortuito al mille per mille». Però l'obiettivo era ghiotto, è anche vero che non capita tutti i giorni che Renzi incontri un agente segreto (che tanto segreto non è) in un autogrill. Quello che lascia perplesso è il servizio in sé, che mescola molte cose, e non tutte pertinenti. In molti hanno criticato quell'intricato giro di registrazioni telefoniche tra Fedez e i suoi interlocutori del concertone e della Rai: sì, c'è questo brutto vizio di non rispettare più la privacy, di registrare per poi rendere pubblici i colloqui. Montano le proteste, ma ormai la diga sembra rotta.

C.V. per "Libero Quotidiano" il 5 maggio 2021. Un milione di euro, o giù di lì, in propaganda "Pd". A iniziare a far di conto - a proposito del "costo fisso" per il contribuente del "comizio" andato in onda sulla tv pubblica in questo fine settimana - è stato Matteo Salvini. Il leader della Lega ha preso di mira lo show del Primo Maggio in diretta Rai: «Il "concertone" costa circa 500mila euro agli italiani, a tutti gli italiani» ha commentato su Twitter indicando come fuori luogo, proprio per questo motivo, «i comizi "de sinistra"» che vanno in onda puntualmente ogni festa dei lavoratori sulla terza rete. L'intervento senza contraddittorio di Fedez è solo l'ultimo della lunga serie, insomma. Ma se il concertone dei sindacati - in fondo - è una volta l'anno, in questo week-end (con l'appendice del lunedì) il combinato disposto di programmi assimilabili all'area "de sinistra", ossia all'area Pd con una strizzata d'occhio ai 5 Stelle, è costato parecchio al contribuente. Certo, c'è il "giallo" - ventilato dall'interrogazione del deputato di Italia Viva Luciano Nobili a proposito della puntata di Report - sulla «presunta fattura da 45mila euro ad una società lussemburghese per confezionare un servizio contro Renzi». La polemica è esplosa subito, anche se, ha assicurato alla Stampa Sigfrido Ranucci, si tratta «solo di fango: tutte accuse false» (e per questo è il conduttore di Report è pronto ad adire le vie legali, «se qualcuno avrà il coraggio di rinunciare allo schermo della tutela parlamentare»). Di certo meno oscuro è il gravoso sermone progressista andato in onda puntualmente a Che tempo che fa di Fazio Fazio domenica sera. Da anni, infatti, si discute - e non poco - sul costo di ogni singola puntata della trasmissione condotta dal guru radical-chic: circa 400mila euro. E anche in quest' ultima, per rispettare il copione, non sono mancate le stoccate contro la Lega sul ddl Zan («Vogliamo il copione dei politici», parola di Luciana Littizzetto) e il lancio della puntata di Report. Il conto totale? Un milione di euro circa utilizzato per un fine settimana a senso unico ed alzo zero contro il Carroccio e contro chi ha determinato l'implosione dell'esecutivo giallo-fucsia. Proprio Matteo Renzi, obiettivo polemico di Report, è tornato sulla puntata della trasmissione di Rai3 che ha mandato il video del suo incontro in autogrill con il dirigente del Dis Marco Mancini: «È andato in onda un servizio che andrebbe studiato nei manuali di complottismo», ha attaccato il senatore. L'ex premier non si limita all'invettiva ma elenca tre motivi a sostegno della sua tesi: «1. Sono tra i pochi politici che risponde sempre alle domande di Report. 2. L'intervista che ho rilasciato dura un'ora ed è stata tagliata. Per gli appassionati, il video si trova sul mio canale YouTube. 3. Non faccio incontri segreti e se devo fare un incontro riservato non lo faccio in Autogrill ma in ufficio. Se vedo una persona al volo in Autogrill, in stazione, allo stadio, non lo definisco incontro segreto. Se qualcuno pensa che si possa organizzare un incontro segreto in un luogo pubblico, costui ha bisogno di un Tso immediato».

Open Arms, i complici della persecuzione contro Matteo Salvini: chi censura il leghista per aiutare i magistrati. Renato Farina su Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. Morta lì e pure sepolta a ritmi di funerale islamico: 24 ore dopo, la scopa della censura ha spazzato via la realtà di una sentenza. Stava per scapparmi un aggettivo consumato e pure con il punto esclamativo: incredibile! Ma no. Normale in Italia. Da quasi trent' anni l'apparato unico di magistratura-politica-media rotola come un masso sul corpo della nazione e schiaccia il respiro della sovranità popolare. È un Moloch che esibisce una maschera democratica, ma ha la zampa ungulata da regime sudamericano, però fattosi furbo. C'è bisogno di spiegare a cosa ci stiamo riferendo? Forse sì, perché se siete reduci come il sottoscritto dalla visione di qualche Tg o dalle rassegne stampa con le prime pagine degli ex grandi giornali, c'è da togliersi il catrame dagli occhi. In Italia la magistratura ha sferrato sabato un colpo alla schiena del leader del partito che oggi in Italia gode del maggior consenso, ne ha stabilito il processo imputandogli un reato gravissimo per un atto politico compiuto da ministro, con il consenso del governo, eppure la notizia è già sparita. Il fatto esiste, la ferita è uno squarcio nella pancia della democrazia, ma non si trova una protesta, un rigo, una frase sulla prima pagina di Corriere, Repubblica, Stampa, caratteri cubitali della menzogna dominante del Quotidiano-Tg-Unico è senz' altro quello di un romanzo della nostra giovinezza: "Dimenticare Palermo" di Edmonde Charles-Roux, da cui Francesco Rosi trasse un film. Il tema è la mafia della droga. Anche qui la metafora è perfetta. Ma non riusciranno a narcotizzarci. Qui esibisco alcuni temi che dovrebbero indurre a sollevare una polemica civile, e magari spingere qualche Emile Zola ad un J' accuse. Chessò uno di sinistra, una toga di Magistratura democratica, persino in pensione va bene. Occorre qualche inaspettato eroe civile. Oltretutto questo torto non tocca solo il cittadino Matteo Salvini, ma il presente e il destino della nostra democrazia. Esagero? Alcuni temi, senza pretesa di esaurire la gamma degli argomenti, sono una lacerazione della buona fede su cui può reggersi la coesione sociale più che mai oggi necessaria.

QUATTRO DOMANDE -

1) Fatto salvo che la falla all'onesta è stata prodotta dal voto al Senato che ha messo un ministro dell'Interno nell'esercizio delle sue funzioni vocitate dal Parlamento nelle mani della magistratura. Com' è possibile che non si prenda atto, dopo l'uscita del libro "Il sistema" (Palamara-Sallusti), dell'inquinamento pesantissimo da parte delle correnti politiche della magistratura l'indipendenza del giudice naturale Luigi Patronaggio, procuratore ad Agrigento, spingendolo a dare addosso a Salvini a prescindere dai fatti?

2) Come diavolo è possibile che per i medesimi atti, semplicemente decisi a qualche chilometro di distanza, Salvini sia a Catania ampiamente prosciolto dal Procuratore della Repubblica e a Palermo mandato a processo dal Gip su accuse quasi da ergastolo imputate da un procuratore delle medesima (?) Repubblica?

3) L'avvocato Bongiorno ha ampiamente dimostrato la totale collegialità delle scelte riguardo al trattamento riservato alle navi ong da cui il supposto reato. Perché il premier Giuseppe Conte, il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, la ministra della Difesa Elisabetta Trenta? Com' è possibile una simile trascuratezza della verità?

4) La ministra dell'Interno (Conte 2 e Draghi) Luciana Lamorgese ha praticato, usando circonvoluzioni amministrative, un trattamento di clausura assoluta dei presunti profughi, anche qui come illustrato in Tribunale dalla Bongiorno. Come si spiega non sia oggetto di alcuna indagine? Meglio così. Ma perché l'aggressione a Salini? Come diceva Renzo Arbore: meditate, gente, meditate. Mi fermo. Non servirà a nulla, anche se mi auguro di essere smentito. Pongo un'altra questione. Le citate testate silenti hanno una linea a sostegno del governo Draghi. È evidente che il caso Salvini, come quello Speranza, pongono problemi per la tenuta della maggioranza. Non si fa il bene né del governo né del Paese se si cerca di nascondere gli elefanti sotto un tappeto di silenzio. Senza verità, o almeno la ricerca leale della stessa, non esistono né giustizia né democrazia. Vale per la politica, e per il giornalismo. 

Maurizio Caverzan per “la Verità” il 16 aprile 2021. Che fine ha fatto Rocco Casalino? E Gianrico Carofiglio? Non che ci sia da preoccuparsi, parliamo di emuli di Ercolino sempre in piedi, ricordate? Però, così, «le domande sorgono spontanee». Su Andrea Scanzi, invece, dopo il vaccino con salto della fila incorporato, le domande scarseggiano. Ora che è stato elegantemente bannato dalle signore di Rai 3 e La7, Bianca Berlinguer e Dietlinde Gruber detta Lilli, gli è rimasto Accordi & Disaccordi, sulla Nove, la tribuna dalla quale i virologi più rigoristi dispensano i niet rimasti ancora in canna. Da quando a palazzo Chigi c' è un nuovo inquilino, il «contismo senza limitismo» (copy Dagospia) batte in ritirata, non senza disseminare il campo di battaglia di mine insidiose e accuse di complotti ai danni dell' ex avvocato del popolo. Completato il giro delle sette chiese della telepolitica, il portavoce dell' ex premier è sparito dai radar. Anche se la solita Gruber insisteva a indicargli la via del Parlamento, l' abbiamo lasciato destinatario di «numerose proposte di lavoro, nell' ambito della televisione e del giornalismo», Casalino dixit. Niente e nessuno gli può impedire, magari all' inizio della prossima stagione, di rispuntare in veste di titolare di qualche postazione di prima serata. Da un mese a questa parte, invece, lo scrittore ex magistrato, fra i più tetragoni ideologi giallorossi, ha diradato le apparizioni. Dopo essersi vaccinato da volontario a favor di telecamera, si è dedicato alla stesura di Della gentilezza e del coraggio - Breviario di politica e altre cose. «Il breviario laico di Gianrico Carofiglio, per un nuovo modello di società civile», annuncia l' editrice Solferino. Brividi. «Comunicheremo solo le cose che abbiamo fatto»: con una sola frase, pronunciata dopo l' insediamento, Mario Draghi ha mandato in soffitta il caravanserraglio delle dirette Facebook, delle interviste fluviali, delle conferenze stampa nell' atrio del Palazzo. Scompaiono i testimonial del contismo, si disperdono gli esponenti del «Conte Illimani», come li ha ribattezzati su Twitter Guido Vitiello. Non proprio tutti, però. Marco Travaglio e Antonio Padellaro resistono, forti dei loro record di presenze a Otto e mezzo e Piazzapulita e non si vede chi li possa spodestare. Qualcuno invoca una «Norimberga giornalistica» per i fiancheggiatori dell' infodemia. Servirà invece la nemesi della storia. Che però richiede tempo. Intanto, si cominciano a notare i vuoti, ma saranno presto riempiti con nuovi testimonial. Tanto più se la triangolazione La7-Fatto Quotidiano-Corriere della Sera continuerà a funzionare.

 (ANSA il 24 marzo 2021) - "Se altri partiti vogliono votare contro il rispetto del pluralismo, che comporta tra l'altro che le presidenze delle commissioni parlamentari di garanzia spettino all'opposizione a cui va anche un terzo degli spazi sulla tv pubblica, allora ci mettano la faccia e dicano apertamente no a Fratelli d'Italia". A dirlo è la senatrice di Fratelli d'Italia Daniela Santanchè parlando all'ANSA dopo aver avuto un confronto, su questo tema, con la presidente del Senato Elisabetta Casellati. Santanchè denuncia il mancato rispetto di una prassi nella tv pubblica italiana per cui un terzo degli spazi viene riservato generalmente all'informazione sul governo, un terzo a quella sulla maggioranza e un terzo alle minoranze. "Ma vedendo i dati dell'Osservatorio di Pavia e dell'Agcom, oggi FdI ha una rappresentanza pari al 5% - sottolinea la senatrice - Quindi le forze di maggioranza hanno tutto il resto degli spazi televisivi, cioè siamo al 5% contro il 95%. Questo non è un regime?!". Da qui la sua richiesta: "Chiedo che quello che e' stato fatto finora, cioè il rispetto della prassi sugli spazi tv venga mantenuto. Sennò si mette in discussione la democrazia. A questo punto ci devono dare delle risposte". E ha aggiunto: "Nella commissione di vigilanza Rai non siamo riusciti nemmeno a illustrare la questione delle presidenze delle commissioni di garanzia perchè il regolamento del Senato, a differenza di quello alla Camera, prevede che non si possono convocare le sedute da remoto. Ci vuole la presenza fisica e quindi ogni volta si rinvia. Per ora il voto è un'ipotesi ancora molto lontana". Nell'incontro avuto con la Casellati, ha poi chiarito Santanchè, "la presidente mi ha assicurato che avrebbe posto la questione delle sedute da remoto sul tavolo della conferenza dei capigruppo di oggi e così è stato, probabilmente se ne discuterà nella prossima Giunta per il regolamento che dovrebbe riunirsi mercoledì". Quindi ha concluso: "In ogni caso sono passati quasi due mesi da quando il nuovo governo si è insediato e noi abbiamo ancora il 5% di rappresentanza in tv ne' si e' affrontata la questione delle commissioni di garanzia. E' un fatto gravissimo".

Fabrizio D’Esposito per ilnapolista.it l'11 marzo 2021. Al solito, le notevoli considerazioni di Massimiliano Gallo nei suoi due ultimi articoli, dopo la disfatta bianconera in Champions (qui e qui), offrono vari spunti di riflessione. Ne proverò a sviluppare due, partendo soprattutto dalla prima analisi. Quella sulla narrazione mediatica dei guai della Juventus, il cosiddetto racconto mainstream. La premessa consiste nella conferma ai miei sospetti ricevuta ieri da un amico nonché autorevole collega di fede juventina. Cioè che a differenza di Maurizio Sarri, ad Andrea Pirlo è stato risparmiato il linciaggio social e giornalistico che fu invece riservato all’allenatore in tuta (chi l’avrebbe mai detto che un giorno mi sarei ritrovato a difendere il Comandante dell’Estetica). La stessa cosa che oggi accade in politica con il governo Draghi. Mi spiego: sia Giuseppe Conte sia SuperMario hanno gli stessi problemi con l’emergenza pandemica. Nulla è migliorato e anzi la situazione peggiora al punto che si discute di un nuovo lockdown. Eppure Draghi gode della benevolenza dei giornaloni mainstream che non fanno nulla per contenere il loro eccesso di salivazione, come direbbe il mio direttore Travaglio, nei confronti del nuovo uomo della provvidenza. Sono gli stessi giornaloni che per mesi hanno diffuso la vulgata di un Conte dittatore ma anche inetto. Ecco lo stesso paragone vale per Pirlo e il suo predecessore Sarri. Entrambi eliminati agli ottavi di Champions con due squadre di livello non eccelso, Lione e Porto; entrambi con una squadra senza identità dal gioco incerto; entrambi non all’altezza del trionfante ciclo di Massimiliano Allegri. Già, Allegri. La scena madre di questa genuflessione collettiva ai piedi dell’inespressivo Pirlo (che vinca o perda ha sempre la stessa faccia immota) è andata in onda a caldo, pochi minuti dopo l’inutile vittoria della Juve con il Porto. Ovviamente nel salottino di Sky. Fabio Capello, a cui va riconosciuta una schiettezza anomala in questi circoletti tv del calcio, ha squarciato il velo come scrive Max e detto la verità più scomoda. Per la serie: come la mettiamo con il “vituperato” Allegri gestionista che comunque due finali di Champions le conquistò? A quel punto Capello si è trasfigurato in una sorta di Giovanni Battista che predicava nel deserto. L’ineffabile Paolo Condò sembrava lì di passaggio, uno capitato per caso da quelle parti. Silenti, ma terrei in volti anche Billy Costacurta e Alessandro Del Piero. Insomma, una notazione caduta in un abisso di imbarazzo muto. Il fatto è che alla verità scomoda di Capello ne va contrapposta un’altra: Pirlo, a differenza del marziano Sarri, è uno di loro, uno del clan Sky, già commentatore come Costacurta e Del Piero. Scatta allora l’omertà amicale tipica delle lobby. È quella commistione famiglia-squadra-tv che ha già investito Ilaria D’Amico e Massimo Mauro. Senza dimenticare che un’aura indulgente avvolge tutti i campioni del mondo del 2006 diventati allenatore, come ha scritto Roberto Liberale. E qui, la “protezione” mainstream di Pirlo, rinforzata anche da giornali e altri salotti tv, incrocia il secondo spunto di Massimiliano Gallo: la modestia del campionato italiano che pratica un calcio vecchio di tre lustri. Accanto a Pirlo, va quindi collocata una figura che da tifosi napoletani conosciamo bene, ahinoi: Gennaro Gattuso detto Rino. Pure Gattuso gode di grande benevolenza mediatica. Potrei citare Il Mattino di oggi, per esempio, in cui le sconfitte di Mister Veleno vengono addirittura addebitate a De Laurentiis, colpevole di aver trasformato Gattuso in un Re Travicello per il contratto rinnovato e poi rimangiato. Ma anche qui sovviene in aiuto la solita scena di Sky, stavolta domenica sera dopo Napoli-Bologna e già raccontata dal Napolista. Ossia un surreale teatrino, in cui spiccava Sandro Piccinini, che elevava lodi all’amico Rino. Insomma i campioni arrivati sul tetto del mondo a Berlino nel 2006 non si toccano. Eppure sia Pirlo sia Gattuso (lascio perdere il linciaggio toccato a Re Carlo nella sua permanenza a Napoli, uno che aveva capito tutto) non hanno un’idea che sia una e condividono persino gli stessi errori. La disfatta della Juve con il Porto è iniziata infatti con una bestialità nella fatidica costruzione dal basso. Idem, domenica il Napoli col Bologna. Aggiungo che per fare questa minchiata ormai vecchia come il cucco, Gattuso sta sacrificando un talento di 23 anni (Meret) per affidarsi a un portiere di 32 anni ritenuto più bravo coi piedi (Ospina). Giusto per parlare di rinnovamento. Dove vogliamo andare, allora, se questa è la nuova generazione di allenatori? Ricordo che Allegri il suo primo scudetto lo vinse a 43 anni, Conte (oggi primo in classifica) a 42. Volete sapere l’età attuale di Pirlo e Gattuso? Eccola: Pirlo ne ha 41, Gattuso 43 e vanta già un mediocre curriculum da allenatore. Certo, poi magari la realtà mi spiazzerà e Pirlo vincerà lo scudetto e Gattuso supererà se stesso arrivando per la prima volta nella sua carriera al quarto posto. Ne dubito. In ogni caso il movimento calcistico italiano continua ad avere i suoi migliori allenatori nel passato (Allegri, Conte, Mancini, Ancelotti) e il futuro si prospetta ancora più tragico. Perché l’alternativa ai campioni del 2006 sono i nuovi sarriti col joystick in panchina, quelli che teleguidano i giocatori per impedire loro di pensare: Italiano, Juric, De Zerbi. E il rischio è che uno di questi tre rischiamo di ritrovarcelo a Napoli il prossimo anno.

 (Adnkronos il 9 marzo 2021) - Rinasce "Micromega", la rivista di cultura politica e filosofica fondata e diretta dal filosofo e politologo Paolo Flores d'Arcais, che diventa anche editore. Flores d'Arcais ha costituito, infatti, "MicroMega edizioni impresa sociale srl", che da adesso in poi pubblicherà il mensile: si tratta di una società non profit, che non potrà distribuire utili fra i soci, e tutto sarà reinvestito per allargare le attività di "MicroMega". La precedente proprietà, Gedi, che ha come azionisti di riferimento la famiglia Agnelli-Elkann (proprietà di quello che fu in origine il Gruppo Caracciolo-Espresso-Repubblica, con cui la rivista nacque nella primavera del 1986), ha deciso di chiudere la pubblicazione di "MicroMega" con il 31 dicembre del 2020, "in previsione della propria pianificazione industriale ed editoriale". "Non potevo certo rassegnarmi che la storia più che trentennale di "MicroMega" finisse qui - spiega Flores d'Arcais in una newsletter come anticipa l'Adnkronos - Non volevo accettare che il panorama culturale italiano perdesse - bando all'ipocrisia delle false modestie - una delle sue voci più autorevoli. Negli anni a venire ci sarà sempre più bisogno di un impegno intellettuale e politico per "giustizia e libertà" e di pensiero critico, spirito illuminista, intransigenza laica".

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it il 28 maggio 2021. Micromega, la rivista fondata e diretta da Paolo Flores d’Arcais è risorta a nuova vita dopo la chiusura decisa dal Gruppo Gedi. Il messaggio affidato alla e-mail avverte: È online il nuovo numero di MicroMega+ con contributi di: Lorini, Odifreddi, Pompili, “Frida Guerrera”, Grazzini, Portelli. Interessanti la ricostruzione fatta da Alessandra Lorini dell’inizio della lotta alla segregazione razziale in Usa, il 14 maggio 1961. E il racconto di Piergiorgio Odifreddi della scoperta del primo vaccino, il 14 maggio 1796. Cellofanato con il fascicolo regolare, c’è un altro volume, di eguale foliazione. Vi sono raccolte decine di testimonianze, quasi tutte da sinistra, che rievocano i primi 25 anni di Micromega. C’è anche un mio contributo, doveroso, anche se con molti di quei nomi non prenderei nemmeno un caffé. Ma ho una speciale ammirazione per Paolo Flores, la cui attività ho seguito fino a quando sono rimasto al Gruppo Espresso. Ero in carica quando Micromega fu lanciato. Se Carlo Caracciolo ne fu padrino, io posso considerarmi l’ostetrica. Per questo un po’ d’orgoglio e anche di senile vanità riporto qui il testo del mio contributo al numero speciale di Micromega. Bruno Manfellotto, ex direttore dell’Espresso, ha definito il mio pezzetto un “monumento al genio di Flores”. Non penso si tratti di un monumento, ma di genio certo è giusto parlare: guardate gli occhi nella foto che correda questo articolo e giudicate voi.

Ed ecco il testo sui primi 35 anni di Micromega. Conosco Paolo Flores d’Arcais da 35 anni, lo ammiro molto e devo dire che non mi ha mai deluso. Raramente sono stato d’accordo con le sue idee. Molte volte ho trovato gli articoli di Micromega troppo superiori alla mia capacità di lettura e anche alla mia pazienza. Ma ho sempre apprezzato l’onestà intellettuale di Flores. E la freschezza intellettuale e l’originalità di Micromega. Ultimo esempio quando, dopo una stagione intensamente grillina, Paolo Flores ha rivisto senza ipocrisia le sue posizioni.

Lui è quello che scomunica. Probabilmente questo dipende dal fatto che non è Paolo Flores a aderire a una idea, ideologia, linea politica, ma è Flores a giudicare l’aderenza di quella linea al Flores-pensiero. Lui è quello che scomunica. Non è mai lui a essere scomunicato. Sempre coerente, ha severamente castigato amici e compagni di strada quando sono scivolati nella incoerenza. Coerente anche nelle forme. In questo periodo di decadenza formale, in cui la cravatta è oggetto obsoleto, e spesso lo è anche la camicia, Paolo Flores si fa fotografare per il lancio del nuovo Micromega con tanto di giacca e cravatta. Un richiamo, un riferimento, che non può sfuggire a un vecchio nostalgico degli anni felici della gioventù, come sono io, ai grandi della sinistra europea, da Togliatti a Sartre a Hobsbawn. Per la sua coerenza e un po’ anche per la sua insistenza nel non deviarne, Flores non ha avuto molti amici nel sistema, almeno dietro le spalle (Scalfari e Mauro mi smentiscano). Sempre più di me, è vero: ma se vuoi essere coerente, devi fare cose che ti rendono antipatico anche a te stesso. Per sua fortuna Flores è del cancro, e questi dubbi non credo lo abbiano mai sfiorato. In virtù della mia ammirazione per la sua coerenza e per la sua onestà intellettuale, ho rispettato, nel silenzio della mia cameretta, anche di recente, scelte editoriali dal mio punto di vista discutibili. Ma è in linea con lo spirito volterriano della testata.

La vicenda Fiat dell’80, un punto di vista sbagliato. Ad esempio la ricostruzione degli eventi della Fiat sfociati nella cosiddetta Marcia dei 40 mila. Ne fui testimone e forse qualcosa di più, secondo Carlo Callieri che ne fu grande regista. Per me, che seguii in diretta la sua evoluzione, fu la reazione spontanea di una città a un clima abbastanza opprimente (eufemismo). Per l’articolo di Micromega si trattò di un complotto finalizzato a fermare la luminosa marcia della rivoluzione. Fu un “golpe sociale”, “una manifestazione di crumiri precettati e organizzati dalla FIAT, amplificata a dismisura dai media”. Su un punto convergono i giudizi. Per Micromega “cambiò in pochi giorni il paese e la sua politica”. Per me fu un momento di svolta che fermò l’Italia sul piano inclinato del caos. Le cose poi non evolsero come potevano, per un eccesso di arroganza e rigidità e anche un po’ insipienza padronale. Ma questo è un altro film. All’opposto, solo su Micromega ho trovato una analisi del reddito di cittadinanza che prescindesse da ideologie e luoghi comuni. E spiegasse come l’istituto funziona nei Paesi europei dove funziona: con buona pace dei miti grillini. Ritorno al 1986, nel mio ufficetto nella soffitta di via Po 12, mitica sede dell’Espresso per la mia generazione, un sogno che mai avrei pensato si realizzasse, dove entrò per la prima volta questo ossesso di giovanotto. Parlava con un ritmo incalzante, inesorabile, senza pause e senza dubbi. Odioso. Mi piacque, fui attratto dal personaggio, dalla sua forma di magnetismo. Penso che gli rimasi simpatico, altrimenti non mi avrebbe chiesto questo contributo.

Quando Carlo Caracciolo approvò l’idea di Flores. Carlo Caracciolo, penso un po’ influenzato anche da Giorgio Ruffolo, aveva deciso di accogliere o lanciare Nuova Ecologia, Micromega, cui qualche anno dopo si aggiunse Limes. (Rido ancor oggi quando ricordo che un giovane azionista, pensando che Limes fosse parola inglese e non latina per confine, se ne uscì una volta pronunciandola “laimes”, forse plurale di quella specie di limoni). Chiusi Nuova Ecologia alcuni anni dopo. Il verde piace ai politici ma non ai lettori (la contemporanea scelta verde dell’Espresso non portò copie). Dirigendo Nuova Ecologia con 6 redattrici erinni, fra Chicco Testa e le incursioni di Ferdinando Adornato allora ambientalista, Paolo Gentiloni rivelò precocemente le qualità di mediatore che ne hanno fatto un eccellente ministro e primo ministro. A volte penso se Gentiloni mi avesse dato retta e invece di entrare in politica con Francesco Rutelli fosse entrato nella redazione dell’Espresso. Mi domando: cosa farebbe oggi invece del supremo economista europeo? Micromega uscì in quella primavera del 1986 e fu un successo. Rimasi colpito, quell’estate, nella piazza centrale di Anzio, sul litorale a sud di Roma. Un giovanotto si allontanava dall’edicola brandendo come un trofeo il numero di Micromega: centinaia di pagine per un prezzo molto alto, un po’ fonte di sapere un po’ status symbol.  Dal mio punto di vista, di responsabile amministrativo del Gruppo Espresso (poi Espresso-Repubblica), non guastava che Micromega fosse un successo editoriale. Non da farci ricchi. Ma abbastanza perché, nell’arco dei suoi 20 anni (su un totale di 35) sotto la mia gestione, il conto globale di Micromega si potesse considerare in equilibrio.

Libertà di manifestazione del pensiero: il Potere la vuole opprimere. E poi perché pensavo, allora, nel mio cantuccio, come oggi, libero e incondizionato pensionato, che la libertà di espressione non è solo un diritto assoluto, un bene indiscutibile. Un diritto sempre conculcato, oggi un po’ meno che nei millenni passati. Ma che sempre il potere tende a opprimere. Se seguite in trasparenza lo scandaletto che affligge la famiglia reale inglese, vi rendete conto che il Paese dove nacque la libertà di stampa è ancor oggi afflitto dal vizietto della censura. E se scavate nella memoria della nostra repubblica italiana, furono proprio due paladini, pilastri, eroi della nostra libertà a mandare in carcere un giornalista, Giovanni Guareschi, per una vignetta e una notizia. La libertà di manifestazione del pensiero è per me essenziale al progresso, alla crescita economica, al benessere. Decrescita più o meno felice è sinonimo di fascismo. Fascismo è architrave di arretratezza: Italia, Spagna, Portogallo, Argentina sono nella storia a dimostrarlo. Sarà un caso, ma sono i ricchi e i loro figli a idealizzare l’involuzione dell’economia. Ditemi un povero che la sostiene. Ditelo a quegli africani che rischiano la morte per venire in Europa, invece di starsene felici e contenti nella loro miseria. Libertà di parola e di diffusione di ogni parola, anche estrema, è condizione necessaria anche se non sufficiente di quella crescita. Prima di tutti questi bei concetti e idee e ancor più di essi, però, da parte mia c’era e c’è la stima per l’uomo Flores. Un uomo che può essere insopportabile, ma davanti al quale non puoi non inchinarti. Non puoi non ammirare la sua forza nelle avversità, personali e di famiglia. Non te ne sei quasi accorto, non te le ha fatte mai pesare. Né le ha fatte sentire a Micromega, la sua creatura. Decoro, dignità, orgoglio.

Una prova di coraggio e resilienza. La scelta di reagire alla chiusura di Micromega decisa dalla nuova proprietà del gruppo editoriale ora Gedi, rilanciando Micromega è una sublime prova di coraggio e resilienza, se si vuole usare un termine oggi in voga ma difficile da praticare. A 77 anni quasi compiuti si pensa a tirare i remi in barca, altro che imbarcarsi ancora in una avventura iniziata quando avevi metà degli anni. La chiusura di Micromega costituisce per me anche un piccolo spunto di riflessione sugli intrecci della vita. John Elkann ha chiuso una rivista che per anni Carlo De Benedetti, più feroce del feroce Saladino davanti alla semplice idea di un costo, ha sempre sostenuto e difeso; 30 anni prima lo stesso De Benedetti aveva fatto chiudere una rivista culturale edita dalla Mondadori di cui era principale azionista. Anima di quella rivista era Alain Elkann, padre di John. Paolo Flores porta come qualifica filosofo, credo perché insegnava filosofia all’università. Il vizietto del giornalismo italiano di regalare etichette. Filosofi sono anche stati battezzati Rocco Buttiglione e Massimo Cacciari. Vien da ridere a uno che, come me, pensa che dopo Aristotele è stato tutto un rielaborare la rielaborazione, con la parentesi di Galileo, Leibnitz e contemporanei. In realtà sul biglietto da visita, che forse, come me, non ha, dovrebbe scrivere: genio del marketing, Cosa di meno si può dire a un giornalista-editore-direttore-diffusore che per anni  ha fatto comprare la sua rivista, numero dopo numero, a decine di migliaia di persone. Le faceva sentire parte di una comunità intellettuale, allargava i loro orizzonti culturali, sosteneva idee anche fastidiose e controverse. Con poco successo? Vox clamantis in deserto: è il destino di tutti i giornali non conformisti, pensate in Usa a The Nation (sinistra) e National Review (destra). In un mondo di yes men e di lecchini, è meglio di un antivirus.

Dagospia il 26 marzo 2021. Eugenio Scalfari per “la Repubblica” - Estratto. Il nostro piano industriale prevedeva un investimento di 5 miliardi di lire, appena sufficiente per avviare il giornale. Avevamo calcolato il punto di pareggio - il break even - come si dice oggi, si attestava intorno alle 130mila copie vendute. Per quanti sforzi facessimo, i nostri capitali erano insufficienti e perciò ci rivolgemmo alla cosiddetta "borghesia illuminata" facendo il classico giro delle sette chiese tra coloro che avevano un cospicuo reddito. Pochissimi si mostrarono interessati e alla fine raccogliemmo meno di quattrocento milioni. Gli utili accantonati nell' Espresso ammontavano a circa un miliardo e con le fideiussioni che alcune banche ci accordarono arrivammo alla cifra di due miliardi e mezzo. Dovevamo trovare il resto sul mercato. Solo due editori erano in grado di affrontare quell' investimento, Rizzoli e Mondadori. Mi rivolsi al primo. Avevo conosciuto superficialmente Angelo Rizzoli, un imprenditore che si rivelò abilissimo nel suo campo. Non posso dire lo stesso del figlio Andrea e del nipote Angelo. "Angelone" come era stato soprannominato per via del suo corpo massiccio. Andrea si dimostrò ambizioso ma debole. Aveva sposato Ljuba Rosa, una ragazza molto avvenente con cui Caracciolo aveva avuto un flirt. Nel 1970 alla morte del padre Andrea ereditò una parte dell' impero e con i capitali a disposizione tentò la scalata al Corriere della sera allora nelle mani di Giulia Maria Crespi, Gianni Agnelli e Angelo Moratti. Nel 1974 i Rizzoli riuscirono a conquistare il quotidiano di via Solferino. Alla luce delle cose che sarebbero accadute in seguito non fu un grande affare. L' anno successivo cominciò a girare la voce che ad Angelone, forse per affrancarsi dall' ingombrante figura del padre, non dispiaceva l' idea di creare un nuovo quotidiano. Andai a trovarlo una prima volta a Roma. Abitava a Porta San Pancrazio dove più di un secolo prima c' era stata la battaglia di Garibaldi contro i francesi. L' impatto visivo della casa dall' esterno era notevole: da una finestra si scorgeva sullo sfondo la statua di Anita Garibaldi, un' eroina a cavallo con la mano nell' arma mentre si fa largo tra le schiere dei nemici che la circondano. Nell' agiografia risorgimentale Anita era sempre stata vista come il riflesso delle imprese dell' eroe dei due mondi ma in quella composizione scultorea acquisiva forse per la prima volta uno spessore e un' autonomia che la storia le aveva negato. Chissà se anche Angelone avrebbe avuto il suo momento di gloria. Quel primo incontro in realtà servì solo a capire quanto fossero fondate le voci circa il progetto di un nuovo giornale. Ci riservammo un secondo round, questa volta nella sua abitazione milanese dove arrivai con leggero anticipo. Aprì un cameriere che mi fece accomodare nello studio. Improvvisamente sentii una voce stridula e sgraziata che pareva dire "buongiorno". Era il verso di un pappagallo chiuso in una piccola voliera. Pochi minuti dopo Angelo entrò nella stanza e per prima cosa si diresse verso la gabbia, l' aprì e, facendone uscire il pappagallo, cominciò a parlargli. La scena era a dir poco surreale. Gli aveva insegnato a ripetere "Angelo, sei uno stronzo". Ma come è possibile che qualcuno abbia addestrato un uccello per farsi insultare? Rivolsi la domanda a Rizzoli il quale lo spiegò. "Ogni qualvolta prendo una decisione voglio che il pappagallo mi dica se ho fatto bene o no. Se mi insulta e se mi dà dello stronzo allora ci penso due volte prima di concludere l' affare". Pensai che forse sarebbe stato più pratico se si fosse affidato ai dadi o all' oroscopo. Finalmente parlammo del progetto che mi stava a cuore. Gli dissi che in quella fase esplorativa avevamo pensato alla Rizzoli come alla grande famiglia editoriale in grado di sostenere la metà di un investimento che avevamo calcolato intorno ai 5 miliardi. Angelone prese tempo. Guardai il pappagallo, che si era appollaiato sul davanzale della finestra. Mi pare appartenesse alla specie dei Cenerini. Angelone si alzò un po' a fatica dalla poltrona e claudicante si diresse verso il pennuto. Sibilò nell' aria uno "stronzone" che mise fine a una storia che non era neppure cominciata. Nel 1978 Andrea Rizzoli lasciò l' impresa editoriale nelle mani del figlio e si ritirò nel Sud della Francia incalzato da una malinconia e da un' inerzia che i soldi non potevano curare. In poco tempo Angelo si lasciò invischiare a pericolose trame finanziarie e nell' affaire P2. Fu travolto dai debiti e dall' opinione pubblica che gli voltò le spalle. Ho provato una certa pena per quest' uomo introverso e mal consigliato, che non seppe amministrare con oculatezza i propri beni cospicui. L' arresto per la bancarotta, il sequestro delle proprietà, la morte per infarto del padre, il suicidio della sorella, rivelarono i tratti di una tragedia che nessuno avrebbe potuto immaginare per quello che era stato il padrone del primo gruppo editoriale del paese.

Silvia Nucini per VanityFair.it il 25 ottobre 2021. Si parla sempre del mestiere di genitori e mai abbastanza di quello di figli, una professione che, come l’altra, si impara facendola. Con lo svantaggio, però, che la cazzuola te la mettono in mano a tre anni: trattasi quindi di lavoro minorile. «Ci si abitua a essere le figlie di Scalfari», dicono a un certo punto quasi all’unisono (non è vero, ma la sensazione è spesso questa), Enrica (fotografa) e Donata (giornalista) Scalfari, figlie di Eugenio, in una scena di Scalfari, a Sentimental Journey, documentario scritto con Anna Migotto e dedicato all’illustre genitore, già molto raccontato (dagli altri e da sé stesso), ma mai con lo sguardo amoroso e anche spietato che solo un figlio può avere. Giornalista, scrittore, direttore de L’Espresso e fondatore (e direttore per 20 anni) de la Repubblica, Scalfari ha ora 97 anni e, come raccontano le figlie, un’indole da divoratore della vita che solo da poco sta cedendo il passo a una fragilità prevedibile, ma che nessuno si aspettava. «Solo 10 anni fa questo documentario non avremmo potuto farlo, avrebbe deciso tutto lui. Invece adesso si è affidato. E quando lo ha visto si è sorpreso, e commosso», dice Donata. Nel viaggio sentimentale ci sono anche le testimonianze degli amici e dei colleghi (spesso coincidono). Da Natalia Aspesi, che ricorda la sua indignazione femminista per le rose rosse che lui era solito mandarle ogni volta che scriveva un pezzo, a Roberto Benigni, che dice che andare a cena da Scalfari «è come andare a cena da Kant. E si parla di tutto, dall’Illuminismo al basilico», a Massimo Recalcati, cui Scalfari confidò di essere andato una sola volta da uno psicanalista e che questo gli disse di non tornare più perché in fondo un equilibrio lui l’aveva già trovato. Un equilibrio da funambolo, almeno nel privato: sposato (nel 1950) con Simonetta de Benedetti, dagli anni Settanta ha una relazione alla luce del sole con Serena Rossetti, diventata sua moglie dopo la morte di Simonetta. Tutti sapevano, «Tutti hanno sofferto», dice Enrica. 

Che esperienza è stata fare questo viaggio sentimentale con vostro padre?

Enrica: «È stato un po’ un percorso psicologico. Volevamo evitare certe cose, ma Anna Migotto ci ha spinte a raccontarle. E alla fine ci ha messo in pace con certi pezzi di vita».

Donata: «Io stavo in pace pure prima. Però ho fatto anni di analisi, lei no».

È stato difficile abituarsi a essere le figlie di Scalfari?

D: «È stato difficile sul lavoro, di me tutti pensavano: “Sta qua perché è la figlia di Scalfari”, e questo ha fatto sì che io, nella mia carriera, sia stata sempre un passo indietro, senza mai oltrepassare una linea».

E: «Chiamarsi Scalfari ha avuto anche i suoi lati positivi. Tornavi a casa da scuola e a pranzo c’era Enrico Berlinguer. Ma sul lavoro – ho fatto quello di mia madre, non di mio padre – è vero che abbiamo dovuto fare il triplo per ottenere la metà».

Se pensate a vostro padre, quale immagine vi viene in mente?

E: «Lui che ride, allegro. L’ho fotografato tanto, ma davanti all’obiettivo non ride mai, come ogni grande narciso è sempre attento a fare l’espressione migliore».

D: «Nel lettone che ci racconta favole assurde inventate, i cui personaggi sono rimasti nel nostro lessico famigliare. Le mie password sono ancora i nomi di quei personaggi».

Vostro padre ha lavorato come un pazzo per tutta la vita. Avete sentito la sua mancanza?

E: «Veniva a pranzo a casa quasi tutti i giorni. No, non l’abbiamo mai sentita». 

Vi siete mai ribellate al suo ingombro?

D: «Non abbiamo avuto la classica rottura adolescenziale con i genitori. Sia io sia Enrica siamo rimaste a casa fino ai nostri rispettivi 28 anni. Ci hanno dovuto dare loro un calcio in culo per uscire. È stato un uomo ingombrante, ma anche una coperta».

E: «La cosa più difficile, adesso, è che la sua coperta siamo diventate noi. Mi fa molta nostalgia pensare a come era».

Si lascia coprire?

D: «A questo punto sì. Però delle volte quando si arrabbia ci zittisce ancora». 

C’è stato qualcosa del documentario sul quale non è stato d’accordo? 

E: «La sua unica preoccupazione era che parlassimo di Serena, sua moglie, in modo appropriato e affettuoso. Pacificato. Cosa che è avvenuta. Certamente Serena in passato ha pesato tantissimo sul nostro rapporto, è stata la contraddizione che abbiamo vissuto in maniera più dolorosa, soprattutto per mia madre. Sicuramente tutte e due hanno sofferto molto, ma fino a un certo punto la sofferenza di Serena non è stato un mio problema».

Qualcuno vi ha mai chiesto qualcosa della vostra sofferenza per quello che succedeva? 

D: «Io non ho mai parlato in casa di questa cosa. Nessuna di noi due sapeva che l’altra sapeva e così non ne parlavamo nemmeno tra di noi. Abbiamo iniziato a farlo quando papà ce l’ha detto apertamente. Ma non è mai diventato un argomento di conversazione. Era così e basta».

E: «Con mia madre io ne ho parlato, mi chiedeva aiuto, complicità. Non sono mai riuscita però ad avere questo ruolo. Avevo 40 anni, anche 45. Ma non avevo comunque gli strumenti per aiutarla». 

Da donne come giudicate quei rapporti incrociati?

D: «Da donna non l’avrei mai accettato. Detto questo, non sento di dover perdonare nessuno, perché erano tre persone adulte che hanno scelto. E i miei genitori non ci hanno mai fatto sentire la mancanza di una famiglia».

E: «Mamma ha sofferto come un cane, ma non ce l’ha mai fatto pesare. I miei genitori stavano bene insieme, erano marito e moglie sotto tutti i punti di vista, padre e madre per noi». 

Com’è adesso il vostro rapporto con Serena?

E: «Quando è morta mamma, nel 2006, un po’ di difficoltà le ho avute, ma dopo un paio d’anni si è appianato tutto. Ora mio padre non può vivere un secondo senza di lei. In tutta la sua vita non è mai stato cinque minuti da solo: prima c’era sua madre, poi Nadia, la fidanzata che rubò a Federico Fellini, poi mia madre, infine Serena».

D: «Adesso siamo ben contente che ci sia». 

È un nonno diverso da come è stato padre?

D: «Il nipote, Simone, mio figlio, è maschio e questo per lui fa la differenza. Qualche tempo fa gli ha detto una cosa bellissima: “Se io potessi ti regalerei le facciate delle chiese”. Ma l’attitudine che ha come nonno è la stessa che aveva come padre».

È curioso vedere un uomo che, con i suoi giornali ha fatto battaglie per l’aborto e il divorzio, che – raccontate – vi spingeva ad andare alle manifestazioni femministe, a un certo punto vi abbia fatto seguire il corso da dattilografe perché siete donne.

D: «Nella concezione piccola, famigliare, per lui la donna era donna. È un uomo nato quasi 100 anni fa». 

E: «È stato molto progressista anche rispetto alla nostra educazione, ma è sempre stato un maschilista e su questo non ci sono dubbi. Io ho potuto fare la fotografa perché l’aspettativa su di me non era prepotente. Se fossi stato un maschio non avrei mai potuto».

Che padre è stato?

E: «Un padre che ha cercato di non fare pesare il suo ruolo pubblico, che ci ha insegnato a superare le ansie attraverso la curiosità e l’allegria. Il suo insegnamento è che la vita è complicata, ma va vissuta con leggerezza».

D: «A me ha dato una grande sicurezza in me stessa, nonostante, fino a quando è stato il leone che è stato, sentivo un pizzico e pensavo: “Che lo faccio a fare, tanto…”. Ora però, a 60 anni, posso dire che mi ha dato gli strumenti per vivere la vita, e una solidità caratteriale». 

Lui chiama la morte «la regina», e dice che non la teme. È vero secondo voi?

E: «Forse non la teme razionalmente, ma nel profondo sì: ama troppo la vita per non avere paura che finisca».

D: «Da sempre ha l’ansia che accadesse qualcosa agli altri. Chiamava mia madre ogni due ore per sapere se continuavamo a godere di buona salute».

"Se questo è giornalismo": Salvini contro La Stampa. L'affondo di Riccardo Barenghi, alias Jena, ha scatenato reazioni sui social. Ecco cosa ha scritto. Federico Garau - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale. "Ogni mattina, quando sorge il sole, Salvini si sveglia e sa che dovrà dire una cazzata": arriva da "La Stampa" l'ennesimo attacco nei confronti del leader del Carroccio, passato di recente in Parlamento dall'opposizione al gruppo di partiti che hanno deciso di dare supporto incondizionato al governo presieduto dall'ex presidente della Banca centrale europea Mario Draghi. La frase è firmata "Jena", vale a dire lo pseudonimo con cui è altresì noto il giornalista romano classe 1957 Riccardo Barenghi. L'ex ministro dell'Interno ha replicato direttamente sulla propria pagina personale Facebook e su Twitter: "Se questo è “giornalismo”...", esordisce il segretario della Lega sui social network. "Grazie al direttore della Stampa e alla “simpatica” Jena per la gentilezza, la profondità di pensiero ed il rispetto per i suoi lettori. Bacioni", conclude. Un affondo ed una replica che hanno portato il popolo del web a dividersi tra sostenitori dell'ex vicepremier e suoi oppositori, in un periodo particolarmente delicato proprio a causa delle scelte effettuate in seguito alla caduta del governo Conte II. "Beh ma in fondo non ha tutti i torti...", attacca un internauta, a cui fa subito eco un altro commento sferzante :"Non è così? Smentisca". "Dai, raccontaci di quella volta che abolisti le accise, capitano". Che il clima sia particolarmente teso e delicato, soprattutto a causa della pandemia e della pesantissima crisi economica in cui è piombato il nostro Paese è decisamente evidente: "A dirla tutta non dici cazzate però dici delle cose che non accadranno e sembra che fai sempre propaganda politica. Alla frase "riapertura da marzo" non ci crede nessuno: stiamo chiudendo oggi per riaprire domani da ottobre", commenta una donna sotto il post del segretario del Carroccio. Numerosi i messaggi a sostegno dell'ex titolare del dicastero del Viminale: "Si è scordato delle cazzate che dice Giannini", attacca uno dei follower riferendosi al direttore della testata giornalistica. "Ogni giorno un cittadino si sveglia e sa che per pulirsi le scarpe potrà usare La Stampa!", ironizza invece un altro utente riferendosi proprio al messaggio utilizzato per attaccare Salvini. "Salvini e la Lega non appartengono ai miei riferimenti politici, ma alcuni giornalisti hanno la capacità di farmelo diventare simpatico e di farmi tifare per lui", commenta infine con amarezza un altro internauta.

Pietro Mancini per “Libero Quotidiano” il 27 febbraio 2021. Ieri, su La Stampa, la Iena ha così attaccato Matteo Salvini, tra le "vittime" più frequenti dei graffi del corsivista del quotidiano torinese, Riccardo Barenghi, ex Il Manifesto: «Ogni mattina, quando sorge il sole, Salvini si sveglia e sa che dovrà dire una cazzata». Questa la risposta del leader della Lega: «Se questo è "giornalismo"... Grazie al direttore della Stampa, Giannini, ex commentatore de La Repubblica e alla "simpatica" Iena per la gentilezza, la profondità di pensiero ed il rispetto per i suoi lettori». Da un ex comunista e da un ex del quotidiano romano, da sempre anti-Lega, che lavorano nello stesso giornale, Salvini non può attendere, certo, pezzi meno livorosi. Spero che Walter Veltroni deplori questo contributo alle campagne di demonizzazione degli avversari, che ha denunciato, di recente, sul Corriere della Sera. Un pugno in faccia, quel corsivo, ai lettori de La Stampa, giornale con una storia e tradizioni moderate e liberali. E diretto, in passato, da grandi giornalisti, come Arrigo Levi, il cui vicedirettore, Carlo Casalegno, fu il primo giornalista italiano ucciso dai terroristi durante gli Anni di piombo. Il 16 novembre del '77, Casalegno fu vittima di un agguato da parte di un gruppo di fuoco della colonna torinese delle Br, formato da Raffaele Fiore, Patrizio Peci, Piero Panciarelli, Cristoforo Piancone e Vincenzo Acella. All'epoca, Barenghi, il corsivista anti-Salvini, lavorava al Manifesto, vicino alle posizioni della sinistra extraparlamentare, che considerava i brigatisti "compagni che sbagliano" e fece suo, con Lotta Continua (responsabile del delitto del commissario di polizia, Luigi Calabresi, a Milano, nel 1972), questo slogan: «Né con lo Stato né con le Brigate rosse»

"Con la d'Urso la voce della politica è vicina alle persone". Zingaretti finisce nella bufera. Ha destato clamore il post Twitter di Nicola Zingaretti in favore di Barbara d'Urso: dopo l'attacco ai radical chic l'endorsement al nazional popolare. Luca Romano - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. Nicola Zingaretti è al centro delle polemiche per un tweet scritto in favore di Barbara d'Urso. "In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n'è bisogno", ha scritto il segretario del Partito democratico, che pochi giorni fa era stato ospite di Live - Non è la d'Urso, programma che secondo alcune voci di corridoio potrebbe essere chiuso. Un endorsement che gli elettori del Pd non si sarebbero aspettati da parte del loro leader, che fa seguito all'attacco di qualche settimana fa da parte di Zingaretti a Concita De Gregorio, ospite di Fabio Fazio per commentare un suo articolo scritto per La Repubblica. La svolta nazional popolare di Nicola Zingaretti ha spiazzato gli elettori del Pd, già scossi dal post social del presidente della Regione Lazio risalente a circa tre settimane fa. Il segretario nazionale del Pd si era mostrato risentito dopo un articolo al fulmicotone di Concita De Gregorio, in cui la giornalista lo aveva attaccato. Una stilettata affilata al leader del Pd da parte di una delle più coriacee sostenitrici della sinistra, che il presidente della Regione Lazio aveva bollato come "l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic che vuole sempre dare lezioni a tutti ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo". Parole inaspettate da parte di Nicola Zingaretti, accusato dai suoi stessi sostenitori di utilizzare termini tipicamente di destra. Tra le tante accuse mosse in quell'occasione a Zingaretti, anche quella di sessismo. Proseguendo sulla linea tracciata con il post contro Concita De Gregorio, Nicola Zingaretti ha tessuto le lodi di Barbara d'Urso. La conduttrice pop per eccellenza è agli antipodi rispetto alla firma de La Repubblica. Se per Concita De Gregorio, infatti, Zingaretti parla di sinistra elitaria, della conduttrice di Canale5 il leader del Partito democratico elogia la capacità di portare "la voce della politica vicino alle persone". Anche in questo caso, il segretario del Pd non è stato esente da critiche e da polemiche, che si sono sviluppate principalmente sui social. In molti l'hanno accusato di non restare attenzione alla disastrosa situazione italiana ma di spendersi per un programma televisivo. Ora i rossi sono disorientati e lo si capisce dai loro tweet. "Cosa dobbiamo espiare noi di sinistra in questa vita è un mistero ancora irrisolto", si legge in uno dei tanti tweet. E poi ancora: "Zingaretti ha deciso di perdere anche quel poco di consenso che gli era rimasto". C'è chi fa dell'ironia: "Era ora che il segretario del Partito democratico prendesse posizione su una questione cruciale per il futuro del Paese. Finalmente!". Ma le critiche sono tantissime: "I politici che parlano in tv farebbero bene a non parlare della tv, qualunque cosa dicano". E sono tanti quelli che ora scrivono: "Il Pd riparta dalla d'Urso".

Quel tweet di Zinga pro Barbara D’urso che scatena i militanti. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 24 Feb 2021. «In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n’è bisogno!», ha twittato il presidente del Lazio taggando Barbara D’Urso. Si tratta del secondo scivolone in 48 ore…Non dev’essere un periodo facile per il segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, alle prese con le spinte interne sulla richiesta di un congresso, accolte poi dallo stesso vertice con la convocazione dell’assemblea nazionale per metà marzo, e alcuni scivoloni comunicativi che l’hanno messo al centro del dibattito pubblico. In ordine di tempo, una prima, piccola, gaffe è andata in onda a Radio Immagina, durante un’intervista allo stesso segretario. «Saremo i garanti e i più gelosi custodi dell’attuazione del programma del governo Draghi – ha detto Zingaretti – e accanto a questo noi ora dobbiamo promuovere, concentrandoci sul rilancio del Pci, il nostro punto di vista critico». Un lapsus che ha fatto tornare in mente la fine degli anni ’80, quelli della militanza giovanile nelle file della galassia romana della Federazione giovanile comunista italiana, della quale segretario, e della metà degli anni ’90, quando fu prima segretario della Sinistra giovanile e poi vicepresidente dell’Internazionale socialista. Spostatosi via via su posizioni più moderate, fino a diventare presidente della Regione Lazio e segretario del Partito democratico, la gaffe è stata anche l’occasione per pensare alle differenze tra quello che fu il Partito comunista italiano di Togliatti e Berlinguer e quella che è ora la sinistra in Italia, divisa in mille rivoli. Che poi la gaffe di Zingaretti arrivi nel centenario della scissione di Livorno e la nascita del Pci, fa ancora più riflettere. «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza». Lo scriveva Antonio Gramsci nel primo numero de L’Ordine Nuovo nel maggio del 1919. Dopo più di un secolo ecco che il segretario dem ha dimostrato sì entusiasmo, ma con un tweet che ha lasciato perplessi gran parte degli osservatori. E qui veniamo al secondo scivolone nel giro di 48 ore. «In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n’è bisogno!», ha twittato il presidente del Lazio taggando Barbara D’Urso e il suo programma Non è la D’Urso. Unanimamente riconosciuto come il programma televisivo nazional-popolare per eccellenza (Sanremo a parte, of course), la trasmissione ha ospitato nel tempo politici di ogni colore, ma lo stile, la maniera e il modo in cui “Barbarella vostra” affronta questioni di politica e attualità ha fatto spesso ricondurre il format al cosiddetto “trash televisivo”, con una punta di populismo nostrano nel quale l’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, tanto bene navigava prima della conversione europeista. Ecco perché, soprattutto nella galassia social dei follower di Zingaretti, il tweet ha fatto alzare più di un sopracciglio, anche se di certo le ospitate dei leader nei programmi televisivi, anche quelle più stravaganti, non sono mancate nemmeno in passato. Indimenticabile, a proposito, la presenza di Matteo Renzi, allora ancora sindaco rottamatore di Firenze, ad Amici di Maria De Filippi nel 2013. Con tanto di giubbotto di pelle stile Fonzie, e giù ilarità. Ma il clima nel quale arriva il tweet di Zingaretti è diverso, perché il segretario dem è alle prese con la questione femminile nel partito dopo la scelta dei tre ministri uomini, parzialmente rientrata con la nomina ieri di quattro sottosegretarie donne su sei. Qualche settimana fa il titolare del Nazareno, sempre su twitter, aveva battibeccato anche con Concita De Gregorio, che ne aveva fatto un ritratto al vetriolo su Repubblica in piene consultazioni. «Purtroppo ho visto solo l’eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo», aveva scritto in quell’occasione Zingaretti. Avesse riproposto il tema della sinistra elitaria e radical chic nel salotto di Barbara D’Urso, non avrebbe fatto una piega.

Da bubinoblog.altervista.org il 24 febbraio 2021. La notizia della chiusura anticipata di Live – Non è la d’Urso ha dominato la giornata tv e social di ieri. Non cancellazione ma chiusura stagionale anticipata, così hanno sottolineato molti organi di informazione. Oggi, a sorpresa, scende in campo per Barbara d’Urso il Partito Democratico per voce del suo segretario Nicola Zingaretti. Così Zingaretti su Twitter. Una presa di posizione inusuale, non per il programma e la conduttrice ma è raro che un politico pubblicamente lodi un programma tv. Non è invece nuova la stima e l’amicizia che intercorre tra il leader del PD e la stakanovista di Cologno. Domenica a Live era stato Casalino a tesserne le lodi e la potenza di spostare voti.

Dal profilo Facebook di Selvaggia Lucarelli il 24 febbraio 2021. Chiudono un programma (che va male) alla D’Urso. Chiunque abbia a cuore il bene del paese dovrebbe rallegrarsi del fatto che qualcosa di così profondamente diseducativo sparisca dal palinsesto. Chi accorre in aiuto di Barbarella? Il segretario del pd. Ribadisco, il segretario del pd. Della serie: la famiglia Berlusconi mi ridimensiona? Il pd mi sostiene! E passo pure per epurata. E quel furbone di Zingaretti non capisce in che gioco si è infilato. E poi Imma Battaglia, storica attivista lgbt, su cui stenderei un velo pietosissimo per la strumentalizzazione del tema sessismo. Cioè, ad una che ha 172772 programmi da anni chiudono un programma che va MALE ed è questione di sessismo? Poi non vi stupite se a destra vi asfaltano eh.

UN LETTORE CI SCRIVE: NELLO STAFF DI ZINGARETTI C’E’ CHI E’ MOLTO VICINO A "BARBARIE" D’URSO. SI CHIAMA CARLO GUARINO. Dagospia il 24 febbraio 2021.  Riceviamo e pubblichiamo: Nello staff di Zingaretti c'è chi è molto vicino a Barbara D'Urso. Si chiama Carlo Guarino. Sul sito della Regione Lazio si scopre che il il social media manager di Zingaretti guadagna 90mila euro (pagati dai cittadini n.d.a.). Ma bisogna anche dire che a Guarino lo stipendio  non lo dà il Pd ma noi poveri abitanti della regione Lazio, con tutte le imposte addizionali regionali che Zingaretti infligge a chi abita qui. Però Guarino è conosciuto come il social media manager del segretario del Pd.

GUARINO CARLO Da Regione.lazio.it/organigrammaRegionale.

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Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2021. La base del Pd perplessa, molti elettori sorpresi, un fiume di battute. L' uscita social di Nicola Zingaretti ha tenuto acceso per tutto il giorno il faro sul segretario del Pd per la scelta - a sorpresa - di scendere in campo a favore di Barbara D' Urso il cui programma ( Live-Non è la D' Urso ) dovrebbe essere chiuso in anticipo (causa bassi ascolti). «In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro hai portato la voce della politica vicino alle persone. Ce n' è bisogno!», twitta Zingaretti pro domo Barbara. E i commenti, caustici e sconfortati, sotto il profilo del segretario non si contano. C' è l' italianista: «Questo tweet è peggio dei congiuntivi di Di Maio». C' è l' esorcista: «Salvini esci da questo corpo!». C' è l' informatico: «Ma ti hanno hackerato il profilo?». C' è l' ecologista: «Elogiare chi fa tv spazzatura. Ma non si vergogna?». C' è il nostalgico: «Immagina se Berlinguer avesse detto la tua stessa frase nei confronti di un personaggetto di quegli anni, che so un Alvaro Vitali qualsiasi. Immagini la reazione degli iscritti?». E poi c' è chi come Luca Bizzarri fa il comico di mestiere e ne stende due in un colpo solo: «Alle volte, nell' uso dei social, rivaluto Carlo Calenda». Insomma sembra avverarsi la profezia di Nanni Moretti, alla disperata ricerca di un segretario che dicesse qualcosa di sinistra. O dicesse almeno qualcosa... Il tweet viene commentato per tutta la giornata, primo in tendenza per parecchie ore, compare anche una foto di Carlo Guarino, il social media manager di Zingaretti, sorridente al mare con un gruppo di persone in compagnia di Barbara D' Urso. Che sia lui l' ispiratore o meno, la faccia (persa) è quella di Zingaretti che firma il profilo. L' intervento del segretario del Pd non è arrivato per caso, ma nasce dopo la notizia di Dagospia che aveva prefigurato la chiusura anticipata di Live-Non è la D' Urso , il programma della domenica sera di Canale 5: «La notizia non passerà di certo inosservata: il discusso talk show alle prese con i bassi ascolti, tra il 10-12% fino a notte fonda, dovrebbe salutare il pubblico di Canale 5 addirittura tra fine marzo e inizio aprile: dalle parti di Cologno Monzese il vento sembra essere molto cambiato da qualche tempo. Si starebbe studiando una soluzione per evitare di far passare la chiusura come una sonora bocciatura per Carmelita. Promoveatur ut amoveatur ?». La scelta, insomma, sarebbe meramente numerica: da troppo tempo il talk è sempre sotto la media di rete (che è intorno al 15% in prima serata) e in molti addetti ai lavori si chiedevano da tempo piuttosto come mai continuasse ad andare in onda nonostante il basso riscontro Auditel. Uscita la notizia della probabile chiusura, la stessa conduttrice ha voluto smentire in diretta a Pomeriggio 5 le ricostruzioni rimbalzate sui social: «I siti dicono e scrivono cose che non sono vere, delle stupidaggini, ma non raccontano la vera verità giusto per scrivere un po' di cattiveria». I numeri però sono quelli e il tweet di Zingaretti sembra essere la conferma che il programma chiuderà in anticipo. A difendere la conduttrice scende in campo anche Imma Battaglia con argomenti però fuori strada parlando di «sessismo». Un tema (in generale sacrosanto) ma che in questo caso fa alzare gli occhi al cielo per una conduttrice in onda sei giorni su sette con tre programmi ormai da anni, ai primi posti tra le conduttrici che passano più tempo in tv.

Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 26 febbraio 2021. Il mondo della sinistra chic è in subbuglio perché Nicola Zingaretti, leader del Pd, ha osato parlare bene di Barbara D' Urso e dei suoi programmi pop e si è detto dispiaciuto («ha portato la voce della politica vicino alla gente») per l' annuncio della chiusura anticipata a fine marzo della prima serata domenicale Live non è la D' Urso. Non entro nel merito delle decisioni di Mediaset, non sono affari miei. Ma nel merito della scomposta reazione alle parole di Zingaretti qualche cosa si può dire, anche perché a dare fiato alle trombe non è stata la solita partita di giro di femministe rancorose con le donne e invidiose di quelle che ce l' hanno fatta, ma sono scesi in campo pezzi da novanta degli opinionisti, a partire da Massimo Gramellini che ogni mattina delizia i suoi lettori con un buon Caffè sulla prima pagina del Corriere, ma che come tutti gli intellettuali di sinistra ritiene la cultura cosa solo loro, perdendo così smalto e originalità. Ora spiegatemi perché uno di sinistra non dovrebbe poter ammirare Barbara D' Urso (ovviamente non è obbligatorio), che per altro non è artista né di destra né di sinistra, ma semplicemente pop. «Pop abbreviazione del termine inglese popular («popolare»), con cui sono state qualificate produzioni e manifestazioni artistiche di vario tipo che hanno avuto diffusione di massa nella seconda metà del Novecento», si legge sul dizionario Treccani. Ma rimaniamo sul piano della politica. Barbara D' Urso è stata il prototipo dell' emancipazione femminile, una carriera mai chiacchierata che ha prodotto quell' indipendenza economica e sociale che tanto piace alle compagne. Ma c' è di più: Barbara D' Urso nella sue trasmissioni ha sdoganato gay, lesbiche, trans, coppie omo e bisessuali, insomma l' assoluta libertà di genere (che a volte sì, è un po' trash) ben prima e con più coraggio di quanto il Pd abbia fatto in parlamento e nella società. E lo stesso vale per i colori della pelle e le fedi religiose. Le sue trasmissioni sono una sana babele di umanità, ha fatto persino uscire facce da botox e seni rifatti dai salotti bene della sinistra, dove sono nati e vissuti per anni in clandestinità. E poi le storie di disperazione che non trovano più spazio su giornaloni e talk, lo svago popolare che una volta era esclusiva delle feste dell' Unità, tra un dibattito e una salamella a rutto libero e canotta di ordinanza. Di Barbara D' Urso mi fa paura solo un invito a cena: bene che ti vada ti ritrovi a mangiare non al Principe di Savoia ma, purtroppo, su un tavolone comune in qualche balera (sì, esistono ancora) con anziani sconosciuti che la adorano e con i quali balla come una matta e almeno tre gay che le fanno da guardia del corpo. Per me in effetti è un po' troppo, ma per Gramellini dovrebbe essere pane quotidiano, altrimenti prendiamo atto che la D' Urso è di sinistra e che quello di destra è lui.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2021. Qualcuno ci aiuti a capire. Se Zingaretti inciampa sulle consonanti e dice alla radio che bisogna rilanciare il Pci, anziché il Pd, gli danno del nostalgico dell' Armata Rossa, tirando in ballo Stalin o quantomeno Freud. Se però il giorno dopo esalta in un tweet Barbara D' Urso invece di Che Guevara, fioccano subito i richiami indignati a Berlinguer. Che cosa deve fare quel pover' uomo nella sua eroica presa di distanza dai cosiddetti intellettuali di sinistra, che schifano gli avversari e arricciano il naso di fronte a qualsiasi cosa che incontri il gradimento di più di tre persone? Eppure, a voler essere proprio pignoli, appoggiare la popolare conduttrice delle tv di Berlusconi non era ieri l' unico modo per schierarsi al fianco delle masse. Si poteva aggiungere un riferimento alla bazzecola denunciata dal procuratore capo di Milano: sessantamila fattorini che da un anno portano cibi e oggetti nelle nostre case senza alcuna tutela contrattuale. «Sono cittadini, non schiavi», ha tuonato il dottor Greco (non Zingaretti, eh, sia chiaro). Un tempo, ai partiti di sinistra i lavoratori sfruttati interessavano parecchio. Non dico quanto i presentatori televisivi, ma quasi. Accennare al loro destino nel tweet in difesa della D' Urso, o addirittura in un tweet apposito, è una di quelle classiche cose che ci si aspetterebbe da un segretario del Pci, del Pd, di qualunque P. Altrimenti, nel dubbio se parlare prima della D' Urso o dei fattorini, esiste sempre il lodo Draghi. Stare zitti.

L'endorsement su Twitter dopo il lapsus in radio. Zingaretti in stato confusionale: vuole rilanciare il PCI e loda la D’Urso. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. Sarà stato sicuramente un lapsus. Anche perché nei restanti minuti di trasmissione, riferimenti al comunismo non ce ne sono stati e anzi si è subito tornati a parlare di Partito democratico come se nulla fosse successo. Però lo ha pronunciato forte e chiaro, e chissà se forse lo stava addirittura pensando, Nicola Zingaretti: “Ora dobbiamo concentrarci sul rilancio del Pci”, si è fatto scappare ieri durante un’intervista a Radio Immagina, la web radio dei dem. Oggi, il secondo atto dello Zingaretti confuso. Stavolta senza scusanti dovute alla fretta della diretta o all’impossibilità di cancellare quanto detto: no, oggi nero su bianco il leader del Pd ha scritto un tweet di elogio al lavoro giornalistico del programma televisivo “Non è la D’Urso”. Non Report, non Piazza Pulita, non Cartabianca: la trasmissione glitterata di Canale 5, quella che tra le sue ospitate ha vantato Angela da Mondello, la creatrice del tormentone “Non ce n’è coviddi”, o che ha prestato il fianco agli inseguimenti in elicottero a chiunque si facesse trovare all’aperto durante il primo lockdown. La D’Urso, nonostante “tratti argomenti molto diversi” (parole di Zingaretti), è riuscita a “portare la voce della politica vicino alle persone”. Già, ma quale voce? Quella semplificata e priva di approfondimento che scolorisce dietro i fortissimi riflettori puntati sui divanetti di pelle? Quella che va avanti senza contraddittorio e punta a strappare l’applauso di pancia o la lacrima facile? Non è un problema che lo stesso Zingaretti sia stato diverse volte ospite in quel salotto, così come non stupisce la decisione di Mediaset di chiudere in anticipo la trasmissione visto il calo di ascolti. Il problema è prendere a modello un certo modo di comunicare. “Ce n’è bisogno”, scrive Zingaretti riferendosi al “portare la voce della politica vicino alle persone”, dimenticandosi che per farlo davvero bisognerebbe portare proprio la politica, vicino alle persone. Sentire le esigenze della gente, spiegare la complessità agganciandola al reale. Quella sì, sarebbe una cosa di cui si sente il bisogno. E sarebbe d’accordo anche il Pci.

"Sono sempre stata comunista". Barbara D’Urso è comunista e rivendica una appartenenza di cui si ha paura. Fulvio Abbate su Il Riformista il 16 Dicembre 2020. Barbara D’Urso è una di noi, che, sempre come noi, desidera che la terra non abbia più “dannati”, sfruttati e sfruttatori, per citare Frantz Fanon, un classico della rivolta terzomondista, cose, appunto, da noi “comunisti”. Cose, almeno all’apparenza, antiche, passate di moda. Fortuna però che esattamente Barbara D’Urso adesso ne riporta il sentimento in vita. In che modo? Con le sue parole. Precise, nette, inequivocabili. Barbara infatti è “comunista”, come il filosofo Marx crede che il mondo debba essere cambiato, non soltanto interpretato. Ho detto “comunista”, non altro. Parola che mette ancora adesso paura, molto più che “socialista” o “socialdemocratico”, suggerendo perfino astio e riprovazione verso chi dovesse, e ancora, dichiararsi tale. Anche noi, lo si sappia, siamo usciti dal “Grande Fratello Vip” nuovamente “comunisti”, così come abbiamo raccontato proprio su queste pagine, adesso però è della signora D’Urso che si ragiona e si canta, come direbbero Dario Fo e Franca Rame, altri “comunisti”. Leggo infatti che, intervistata da un prestigioso, già rotocalco, Barbara, si associa dapprima a Lapo Elkann che aveva ricordato su Twitter una storica partigiana: «Mi addolora la scomparsa di Lidia Menapace, partigiana che ha contributo alla Libertà del nostro Paese. Numerose le Donne che dalla sconfitta del nazifascismo alla nascita della Repubblica hanno reso l’Italia un posto migliore. Non dimentichiamole». E ancora, sempre Lapo, «È tempo di sciogliere tutte le organizzazioni fasciste ed estremiste subito. Vergogna». Ecco che Barbara, nella medesima pagina confessa: «Votavo per il Partito comunista quando c’era, ero di sinistra. Ancora oggi continuo a essere dalla parte del popolo. Mi hanno chiesto mille volte di scendere in politica, prima o poi lo farò». Più “comunista” di così, avrebbe detto il saggio Petrolini, si muore. Molti hanno avvertito una fitta al cuore di fronte a un simile appello; va da sé che Barbara D’Urso ha citato anche Enrico Berlinguer, il suo “santino”. Il dibattito sui social si è subito aperto con vigore e forsennatezza, ma di questo ci deve importare poco, zero, l’unica cosa che adesso conta, almeno agli occhi di coloro che attendevano questo endorsement, è la confessione che giunge dalla figura più paradigmatica e luminescente, talvolta in senso crudelmente pop, della programmazione emozionale, sì, non c’è altro modo per definirla, di Canale 5, dominio di Mediaset, Cologno, Berlusconi. I fascisti del terzo millennio del “Primato Nazionale”, a firma Davide Romano, di fronte a Barbara ormai irrimediabilmente “comunista” non si danno requie, e chiosano nella convinzione di assistere a un baratro, lei come cavallo di Troia d’ogni dissoluzione ideale: «I compagni si mettano l’anima in pace: la regina del salotto tivvù berlusconiano, il simbolo dei sentimenti e del dolore un tanto al chilo, colei che insieme a Salvini ha recitato il rosario in diretta, è roba loro». Poi, proseguendo: «Eppure recentemente qualche segnale la conduttrice di Domenica Live l’aveva inviato: l’appello pro Lgbt rifilato in diretta alla Meloni parla chiaro». Infine: «Come si coniuga dunque il passato comunista di Barbarella con il rapporto “speciale” tra lei e Berlusconi? Chissà che la discesa in campo della D’Urso non sarà nell’ottica di un nuovo patto del Nazareno, visti anche i recenti ammiccamenti dell’ex Cav al Pd. Riassumendo, Barbara “pontiera”, Barbara che, sempre “col cuore”, fa del proprio lavoro un laboratorio politico, come già, metti, il milazzismo in Sicilia negli anni Cinquanta. E, su tutto, Berlusconi – oh, ce l’hanno proprio con questo sant’uomo – anche lui, sotto sotto, trasfigurato in “comunista”, conversioni al tempo del coronavirus. Intanto su Twitter, un vero signore che si firma ‘O Strunz, si esprime così: «Barbara D’Urso: “Da giovane ero Comunista”. Barbara D’URSS…” Oh, sciocca pretesa di associare certo genere di convincimenti profondi, ossia voler lottare per “il socialismo e la libertà”, come recita il canto, “Bandiera rossa”, con l’orrore dei sistemi concentrazionari, il sovietico di Lenin, Stalin, Breznev, perfino Gorbaciov, su tutti». E un altro: «Barbara D’Urso essendo di sinistra (comunista) già me la immagino nel Pd insieme alla Boldrini, Lorenzin, Serracchiani, non vedo l’ora di farmi quattro grasse risate». Chiude un’ultima sentenza: «Barbara D’Urso dichiara di essere stata comunista, ma ora non più. Più o meno da quando Berlusconi le paga lo stipendio». Oh, ma proprio con Berlusconi ce l’hanno! Voglio vedere quando anche lui, insieme a Barbara andrà a friggere le braciole nelle risorte feste de l’Unità!  Se ci fosse ancora, non dico il Pci, ma il suo rotocalco storico, Vie Nuove, sorta di Domenica del Corriere già diretto da Maria Antonietta Macciocchi, Pasolini tra le sue firme, è certo che a lei, “Barbarella”, ne andrebbe affidata la cura; si sappia infatti che perfino un severo latinista, Concetto Marchesi, ebbe a dire: «Noi dobbiamo combattere l’idea diffusa che tutto nel nostro mondo comunista sia uggia, pesantezza, musoneria. E lo sa bene il compagno Luigi Longo, che su Vie Nuove ha aperto le colonne alle belle figliole. Mondanità? Sia pure». È proprio fatta! Dopo Rosa Luxemburg, c’è soltanto Barbara Carmelita D’Urso.

Il sondaggio. Barbara D’Urso eletta personaggio tv più influente del decennio. Redazione su Il Riformista il 27 Dicembre 2019. Barbara d’Urso è il personaggio televisivo più significativo del decennio. E’ il risultato del sondaggio del Corriere della Sera che chiedeva ai lettori di dare una preferenza tra venticinque volti in tv. “È assurdo, incredibile”, commenta la conduttrice. In una settimana hanno votato quasi 300mila persone. La D’Urso ha vinto con il 47,8%. Pensava di vincere? “Assolutamente no – dichiara in un’intervista al quotidiano -. Per me era impossibile, giuro impossibile. Avevo letto gli altri nomi e ce ne erano di molto forti: sono onoratissima del risultato. Il fatto che siano arrivati tanti voti, poi, è segno che la televisione, in particolare quella generalista, interessa ancora molto. Ne sono felice visto che voglio lavorarci ancora un altro po’”. Il contributo del suo fan club senza dubbio è stato importante, afferma, raccontando che “nei giorni scorsi ho ripostato sul mio profilo il loro invito a partecipare al sondaggio: mi pareva una cosa gentile, visto che si sono sperticati. Ne approfitto per ringraziarli tutti quanti. Li amo”.

LE DICHIARAZIONI –  A chi non perde occasione per criticarla pubblicamente, “che c’è spazio per tutti nel mondo – ribatte -. Preferisco ringraziare chi mi ha sostenuta. So che me la sono battuta con Lilli Gruber“, arrivata seconda. “La stimo molto – dice Barbara d’Urso -. Certo, siamo diverse. In questo sondaggio lei ha avuto il sostegno di grandi giornalisti. Ecco, io no. Ma non mi è mancato quello della gente semplice, per me conta quello”. Il terzo posto è andato a Maria De Filippi, dopo un duello con Alberto Angela. “Come me e Lilli Gruber, si tratta di due persone diverse – prosegue la presentatrice -. Ma la televisione è bella per questo: ci sono tante figure che vanno a occupare tasselli molti distanti tra loro. Credo sia la forza della generalista”. Gli ultimi dieci anni sono stati “di gran lavoro, in cui ho sempre cercato di migliorare, arrivando alla pancia della gente, emozionando e informando, ma anche regalando dei momenti di leggerezza”. Non è solo la televisione ad essere molto cambiata dal 2009 al 2019. “Sono cambiata anche io – ammette Barbara d’Urso – Per me è stato necessario stare al passo con i tempi, cercando di informare nel modo più completo ma anche veloce e social possibile. Essere veloce nel fare informazione è una mia particolarità”. Tanto da aver “intuito il loro potenziale immediatamente, appena sono nati ho cominciato a usarli: per me sono fondamentali. Da qualche tempo ho scoperto anche Tik-Tok”. E conclude: “Ormai fanno parte della mia normale routine: faccio due post al giorno su Instagram. Su Twitter mi diverto moltissimo: dopo Non è la d’Urso vado a dormire alle 4 perché mi perdo a leggere tra i 60mila tweet che commentano la trasmissione”.

Giada Oricchio per iltempo.it il 26 febbraio 2021. A “Piazzapulita”, il programma di Corrado Formigli su LA7, giovedì 25 febbraio, Rocco Casalino “dimentica” il collegamento di Giuseppe Conte con il programma Mediaset “Live – Non è la D’Urso”: “Non è mai andato” esclama. Ma non è vero. Rocco Casalino, ex portavoce del M5S e del premier Giuseppe Conte, è stato ospite di Corrado Formigli che gli ha ricordato tutti i no ad avere nella sua trasmissione esponenti del Movimento per una serie di scoop che danneggiavano l’immagine edulcorata del partito fondato da Beppe Grillo. Quasi al termine di un’intervista in cui è stato messo più volte in difficoltà da Formigli, Casalino ha commentato il tweet del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, a favore di Barbara D’Urso poiché la trasmissione “Live – Non è la D’Urso” sarà chiusa in anticipo. “C’è stata una polemica terribile, hanno sbranato Zingaretti fuori e dentro il partito, voglio il parere del comunicatore Casalino, fossi stato tu il portavoce lo avresti consigliato così? Tu li hai mandati tutti dalla D’Urso, Di Maio, Di Battista, da noi no, mai, da lei sì, tutti…” è stata la freccia tirata con tutto l’arco da Formiglie e Casalino ha risposto clamorosamente: “Conte non è mai andato… credo che ci sia un atteggiamento snob verso alcuni programmi, alcuni sono considerati di serie A e altri di serie B. Non lo so se lo avrei fatto, onestamente non lo so, ma l’attacco a Zingaretti per un tweet mi sembra ingiusto”. Giuseppe Conte è stato ospite di “Live Non è la D’Urso” esattamente un anno fa, il 23 febbraio 2020, quando iniziò la pandemia. L’allora presidente del Consiglio si collegò dalla sala operativa della Protezione Civile e alla D’Urso che annunciò che gli avrebbe dato del tu, rispose: “Faccia pure, faccia pure”.

La conduttrice nel mirino di Mediaset. Barbara D’Urso non si tocca, è la regina del pop. Fulvio Abbate su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Giù le mani da Barbara D’Urso. La nostra vera, perfetta e insostituibile Sceicca Bianca della televisione-rotocalco! Nessuno tocchi Carmelita. Davvero non si comprende in nome di quale costrutto etico spettacolare, se non per ragioni di semplice potere egemonico aziendale da parte dei cari “colleghi”, il suo teatro della domenica, l’ormai leggendario serale e insieme notturno Live, luce pop di Canale 5, debba cessare, precipitare nella galleria delle cose trascorse; se ciò accadesse, sarebbe un po’ come se improvvisamente fossero obliterati i sogni di chi ancora adesso attende, appunto, l’arrivo dello Sceicco Bianco, come appare lassù in cima alla sua altalena dei sogni nel capolavoro di Fellini al tempo dei fotoromanzi. Si direbbe, insomma, che occupare, conquistare, violare quel suo spazio corrisponda al sapore della vendetta da parte di coloro che, nel medesimo condominio fatato di Cologno, almeno ai nostri occhi, non sembrano avere particolari titoli edificanti per offrire lezioni di stile, eleganza e galateo a lei, esatto, per sostituirsi a Barbara nostra. A lei, eterna adolescente che, “col cuore”, a dispetto di tutto, perfino conquistando il riso sarcastico talvolta più che giustificato di noi “anime belle” intellettualmente spietate, è riuscita, con la forza del talento e di una inarrivabile faccia tosta, a trasformarsi, trasfigurarsi, l’ho già detto, nell’unica vera e inarrivabile Sceicca Bianca del regno spettacolare nazionale. Che resti Barbara ora e sempre lassù, in cima all’altalena, accarezzata dalla luce, straordinaria nella sua perfidia da consumata attrice, diva di ciò che un tempo sarebbe stato il cinema dei “telefoni bianchi”, da lei trasfigurati televisivamente in telefonini cellulari non meno candidi pronti ai selfie, a una polluzione di mille emoticon; vuoi mettere la sua unicità? E nessuno adesso dica che nel menu di Live c’è soltanto oscena paccottiglia pop, che so, il pianto e il riso posticci di una Maria Teresa Ruta di Calcutta o il tinello spettrale di Angela da Mondello. Barbara infatti può vantare perfino il merito di rivolgersi con quel suo sfacciato “tu” a ogni politico ospite in studio o collegato da remoto, in modo assolutamente informale, quasi che li conosca tutti, quasi che li streghi tutti. C’è da immaginare che dalle parti di Mediaset qualcuno reputi che solo in certe fasce orarie ci si possa occupare di politica e di cronaca? Alla fine, appare davvero un paradosso, sembra quasi che, al di là degli ascolti che nel suo caso, per dirla con Valeria Marini, sempre “stellari”, si voglia sottrarle lo spazio per pura egemonia da palinsesto, magari in nome poi di chissà quale riconquistata verginità. Che resti Barbara nel suo castelluccio talvolta perfino magicamente ributtante, un po’ Cronaca vera e un po’ Stop, rotocalchi del sublime orrore, immobile nel suo trono circonfuso di luce, come figura mariana, lei, la D’Urso, l’unica, che sappia davvero essere se stessa. Mefistofelica, cinica, talvolta oscena nel senso che Carmelo Bene dava a questa parola, meravigliosa Barbarella, la nostra Sceicca Bianca. No pasaran!

Dagonews il 26 febbraio 2021. C'è chi la descrive come furente e incollata al telefono, c'è chi fa sapere che in realtà è tranquilla e certa della sua forza. Isolata, verrebbe da dire, nella sua azienda. Ufficialmente nessuno apre bocca ma che Barbarella D'Urso non sia amata da Signorini, De Filippi, Presta, Bonolis non è di certo un mistero. La Blasi l'ha presa in giro sui social, la Marcuzzi ricorda ancora alcuni episodi durante L'Isola dei Famosi (e gli attacchi di Striscia la notizia), la Toffanin è lontana anni luce. Caschetto nemmeno si sporca le mani. E al netto delle dichiarazioni di rito, Piersilvio Berlusconi avrebbe voluto agire da molto tempo, sempre ostacolato da qualcosa o da qualcuno. Federica Panicucci mai vista così sorridente, forse inconsapevole che anche per lei non stia tirando una bella arietta. Isolata, dicevamo, nel fortino con Mauro Crippa. Direttore Generale dell'Informazione che tanto l'ha protetta e sostenuta, ha combattuto per lei ma anche per i suoi interessi. Perché la chiusura di Live-Non è la D'Urso per Crippa significa l'addio all'unica prima serata su Canale 5 di sua gestione. Chiude la D'Urso, perde una casella. Isolata. Sostenuta dal suo manager Marco Durante, capo di LaPresse, ma le guerre con Presta, che pure godrà per la caduta della nemica, come già detto, non sono la soluzione del caso D'Urso. Una pratica che va avanti da anni, con guerre interne che somigliano a quelle di un condominio incazzato. Isolata ma con il suo fedelissimo badante Ivan Roncalli, autore tuttofare, artefice dell'invasione di contenuti trash e discutibili nelle sue trasmissioni. La notizia di Dagospia sulla chiusura anticipata di Live-Non è la D'Urso per bassi ascolti ha fatto esplodere un vero e proprio caso mediatico con tanto di scivolone twittarolo di Nicola Zingaretti. Deriso e preso in giro da suoi e massacrato sui quotidiani di oggi. La giornalista del Fatto Quotidiano Gisella Ruccia ha tirato fuori lo scatto in cui Barbarella è in compagnia della giornalista portaborsette Annalia Venezia ma soprattutto con Carlo Guarino social media manager, web content manager e coordinatore della newsletter del Presidente della Regione Lazio. E da qui è partito il 2+2 più facile del mondo. Non solo, nella stessa foto compare anche il marchese Andrea La Spina della Cimarra dei Sacconi di Montalto, sembra una supercazzola, ma si tratta di un'altra persona vicina al leader del Pd. Nel 2009 suscitò numerose polemiche la sua nomina come consulente alla Provincia di Roma come consigliere al bon ton per 30 mila euro: "Sono l'unico precario dell'ufficio del cerimoniale di Palazzo Valentini, marchese co.co.co per 1300 euro al mese", si difese il marchesino. Siti e giornali amici, seppur costretti a confermare lo scoop di Dagospia, hanno cercato di fornire motivazioni differenti (differenti anche tra loro). Certo, dovrà cambiare studio, pare già da questa settimana, ma non si chiude in anticipo un programma per questo motivo. Se è un successo, certo, altrimenti qualcuno può usarlo come pretesto. E come scritto da Dagospia si cercherà una formula per evitare una bocciatura mediatica ufficiale da parte dei vertici Mediaset, qualcosa si inventeranno. "Nuovi progetti", lo si dice sempre in questi casi. E l'annuncite in tv è diffusa: si annunciano cose che non partiranno mai. Non partirà il Grande Fratello Nip, non ci sarà una nuova stagione della fiction trash La Dottoressa Giò. E molto probabilmente Barbarella dovrà salutare anche la domenica pomeriggio.

DAGOREPORT il 25 febbraio 2021. La chiusura per bassi ascolti di "Live - Non è la D'Urso", con due mesi di anticipo (stop a fine febbraio e non a maggio, come previsto), ha innescato il moto di solidarietà dei "tele-sorcini" della D'Urso e di quel merluzzone di Nicola Zingaretti, che ormai da segretario (uscente) del Pd non ne imbrocca più una. Per i fan di "Barbarie", però, c'è un'altra brutta notizia: la trasmissione non ripartirà neanche a settembre. A dimostrazione che la decisione del Comitato esecutivo di Mediaset, in cui troneggia il "big boss" Pier Silvio Berlusconi, è ben ponderata e fa parte di una strategia più ampia che punta a rinfrescare la proposta editoriale, riducendo le ammuine da trash-pollaio. "Barbarie" D'Urso, elevata da Zingaretti a nuova martire del tubo catodico, invece di guardarsi allo specchio e fare autocritica per certi tele-polpettoni rifilati al pubblico, si guarda intorno cercando sostegno. E se il segretario del Pd si è prestato alla richiesta di aiuto, Matteo Salvini - altro prezzemolino degli show della D'Urso - si è ben guardato dall'abboccare. Ha lasciato che fosse il suo guru social, Luca Morisi, ad "applaudire" al tweet di Zingaretti in chiave pro-Barbarella. Poca roba, in ogni caso. Nessun altro ha speso mezza dichiarazione o un post social per difendere la conduttrice (ma difendere poi da cosa? Se una trasmissione non funziona, si chiude e amen). Tra i corridoi del "Biscione", la D'Urso non è amata. E se tra i suoi alleati non possono essere certo annoverati Lucio Presta e Paolo Bonolis (che potrebbe prendere il suo posto con una versione serale di "Avanti un altro"), non è vero - come scrive oggi "la Stampa" (che ha difficoltà a citare Dagospia per lo scoop) - che ci sia lo zampone dell'agente dei vip dietro la chiusura del programma. Certo, rimane la rivalità tra Presta e Marco Durante (che ha sfilato a "Brucio" la cura degli interessi di Belen, della stessa Barbarella e di Rita Dalla Chiesa). La vera spina nel fianco di Barbara D'Urso in Mediaset si chiama Maria De Filippi. Ma da dove nasce la rivalità tra le due? Tutto è iniziato quando Maria "la Sanguinaria" ha chiesto e ottenuto dal "Biscione" una clausola nel suo contratto che proibisse alla D'Urso di trattare i temi dei suoi programmi e di sfruttare i personaggi delle sue trasmissioni. Una separazione netta. Per la serie: resta pure nel tuo trash-salotto ma non mettere le mani sulla mia "roba". Questa clausola non è presente nel contratto di Alfonso Signorini e infatti "Barbarie" ha saccheggiato le storie legate al "Grande Fratello vip", come nel caso Zenga-Termali. A "Live - Non è la D'Urso" è andata ospite la prima moglie dell'ex portiere dell'Inter, Elvira Carfagna, che ha sparato a zero contro Roberta Termali. E poi le ospitate polemiche al figlio e al fratello di Walter Zenga. Insomma un intreccio di veleni e retroscena al fiele che hanno fanno imbufalire la Termali che poi si "vendicata" evitando l'invito di Signorini al "GF Vip". Dunque, Barbara impasta la polemica, Alfonsina la pazza ne paga il fio. E' facile capire perché Maria De Filippi abbia voluto impedire alla D'Urso di montare la panna sulle sue storie: prima o poi scoppia un papocchio che porta guai, musi lunghi, vendette incrociate...

F.C. per "la Stampa" il 25 febbraio 2021. Chi è il più potente tra i potenti? L'agente dei potenti. Soprattutto se si parla di comunicazione, di politica, di showbiz. Soprattutto se questi agenti hanno la capacità di chiudere e aprire programmi, spostare star, variare palinsesti, trasversali a tutto e su tutte le reti. La rivoluzione per uno sgarbo, per tenere il punto. E stavolta ad andarci di mezzo pare proprio sia lei: la notizia sottaciuta prima e poi esplosa sui social, dunque ovunque, vuole la mitica Barbara D'Urso soccombere al dio auditel: scarsi ascolti per "Live non è la D' Urso" perciò si chiude in anticipo a fine marzo, un modo morbido per far ingoiare la triste novella alla stakanovista della televisione. In ballo c' è una vetrina niente male anche se ben controprogrammata. Fino ad oggi sembrava inamovibile lo show domenicale di prima, seconda e terza serata in onda su Canale 5 che sposa, in un matrimonio misto e improbabile, le corna dei gieffini vip e i figli ritrovati, urla, amori, liti furibonde, lacrime, riappacificazioni e politica. Bonaria quest' ultima, per carità, mai urticante. Perciò i nostri politici vanno ospiti stravolentieri e si mettono in fila. Si sentono al sicuro in un bozzolo di coccole che portano consensi. Immortale resta l' intervista di D' Urso in paillettes a Berlusconi che ancora non aveva ufficializzato Francesca Pascale: «Presidente, che fa, mi si fidanza?». Ma anche questo apparentamento con la politica dei papaveri non la salva dal suo destino, deciso molto più in alto, deciso dagli agenti. Il gossip superficiale non scende a tali profondità ma pare ci sia un legame trasversale che unisce gli artisti delle tv non solo generaliste e gli agenti che li rappresentano. Artefici di fortune o di repentine scomparse, la prima cosa che un personaggio deve fare è scegliere con estrema oculatezza il giusto agente sperando di piacergli sempre. Dunque le malelingue e gli amanti del retroscenismo vedono proprio una faida tra agenti dietro la possibile interruzione anticipata a fine marzo di "Live". Altro che scarso ritorno di pubblico. Ad aver scatenato il gioco di ripicche e di vendette è stata Belen Rodriguez. Sì perché la show girl ha avuto l' improvvida idea di abbandonare la scuderia del suo agente, il pluriblasonato Lucio Presta, tra i più conosciuti professionisti del suo settore, per Marco Durante, fotografo stimatissimo, fondatore e presidente de LaPresse. Una decisione, quella di Belen, presa non più di dieci giorni fa. Da lì il via al Sudoku. Guardando il palinsesto, subito è saltata agli occhi la posizione privilegiata di un programma che ha sempre stentato a decollare. Meglio chiuderlo a fine marzo e al suo posto, porte aperte al navigato Paolo Bonolis con "Avanti un altro". Sono solo voci ma del cambio si parla con sempre maggiore forza e il buon Bonolis, che invece il suo agente, Lucio Presta, non ci pensa proprio ad abbandonarlo, potrebbe salire in sella della domenica sera. Tutta una strategia d'agenti? Sarà il pettegolezzo a decretarlo.

Da vigilanzatv.it il 15 febbraio 2021. Casalino ospite da Lilli Gruber con Scanzi e Severgnini. Rimpatriata fra M5s, Cairo e Fatto Quotidiano. Questa sera, lunedì 15 febbraio 2021, alle 20.30 su La7, Lilli Gruber accoglierà a 8 e 1/2 come ospite speciale Rocco Casalino, ex portavoce dell'ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, e ora - dopo l'insediamento del governo di Mario Draghi - tornato semplice "attivista del M5s", per usare le sue parole. Da Lilli, Casalino presenterà il suo libro Il portavoce - La mia storia, e avrà modo di raccontare i due anni trascorsi a Palazzo Chigi in qualità di influentissima eminenza grigia di Conte. Gli altri ospiti della puntata di questa sera sono Andrea Scanzi, prezzemolino televisivo firma del Fatto Quotidiano, e il giornalista del Corriere della Sera Beppe Severgnini. Una rimpatriata, quella nel salotto di Lilli, che - come Dagospia aveva già segnalato in varie occasioni - riunisce ancora una volta sotto lo stesso tetto M5s, Fatto Quotidiano, La7 e Corriere della Sera (gli ultimi due di proprietà di Urbano Cairo, artefice qualche settimana fa di un endorsement all'ex Presidente del Consiglio pentastellato, auspicando un Conte Ter).

Da liberoquotidiano.it il 15 febbraio 2021. Giuseppe Conte e Rocco Casalino sono ufficialmente fuori da Palazzo Chigi, dove ieri si è insediato Mario Draghi, eppure per il momento nulla è cambiato a livello di informazione sulla Rai. La denuncia arriva da Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e membro della commissione di vigilanza Rai, che ha fatto notare l’asservimento ancora esistente nei confronti dell’ormai ex presidente del Consiglio. “Se avessi il numero del portavoce del neopresidente Draghi - ha scritto su Facebook - gli manderei questo messaggio: ‘Caro collega, il tuo prestigioso incarico dovrà fare i conti con molte situazioni critiche. In particolare dovrai rapportarti con una Rai che in questi mesi ha toccato il fondo, raggiungendo livelli di faziosità e partigianeria mai visti”. Poi Anzaldi è entrato nello specifico, limitandosi a portare gli esempi delle ultime ore: “Il Tg1 che interrompe la diretta sull’insediamento del nuovo governo Draghi dimenticando e ignorando completamente il passaggio della campanella; una conduttrice Rai come Luisella Costamagna, chiamata addirittura dall’esterno, che ad Agorà su Rai3 esprime giudizi contro il nuovo governo credendo di essere ancora uno dei tanti opinionisti del Fatto Quotidiano che occupano tutte le trasmissioni Rai (“alla faccia della discontinuità”, ha detto commentando la lista dei nuovi ministri)”. Ma non è finita qui perché l’elenco del deputato renziano è ancora lungo: “I tg Rai, in particolare il Tg1 delle 13.30 di ieri, che hanno dato più spazio all’applauso dei dipendenti di Palazzo Chigi a Conte (una consuetudine che ha accomunato tutti gli ultimi presidenti del Consiglio Letta, Renzi, Gentiloni, ma il tg non lo ha ricordato) che al picchetto d’onore per il nuovo presidente Draghi. Una situazione grave - ha chiosato Anzaldi - che merita al più presto l’attenzione del nuovo governo”.

Dagospia. Trascrizione del video “Mario Draghi e i talk”, di Aldo Grasso per corriere.it il 12 febbraio 2021. L’incarico conferito a Mario Draghi, nella speranza che abbia buon esito e l’ex presidente della BCE ci aiuti a uscire dalle secche dell’economia e dall’angoscia della pandemia soprattutto, ebbene, questo incarico crea un problema di riposizionamento dei talk. Eh sì, perché quelli di Rete 4 per esempio, erano molto schierati a favore della Lega, ma ora che la Lega è diventata quasi europeista cosa faranno? Dovranno per forza trovare nuovi equilibri. Per dire Salvini e la Meloni non andranno più considerati dalla stessa parte. E Marco Travaglio? Marco Travaglio in quanto ideologo dei grillini avrà ancora tutto lo spazio di cui ha goduto finora? In Rai pare che siano in angoscia perché? Perché non sanno come comunicare, come trovare il modo di comunicare direttamente con Draghi. Ma come succede sempre da anni in Viale Mazzini, sapranno certamente trovare, è il caso di dirlo, i canali giusti per parlare con Draghi. Insomma lo schema, il programma di Mario Draghi agita i talk, li agita profondamente. Speriamo li renda, paradossalmente, meno verbosi.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it l'8 marzo 2021. Valter Mainetti è un imprenditore che ha costruito le sue fortune e sfortune in silenzio. A differenza di tanti uomini di potere, non ama apparire. È un saturnino, non cerca la ribalta a tutti i costi, tutt’altro, men che meno le copertine patinate. Dalla sua roccaforte inespugnabile situata nel cuore capitolino, a poche decine di metri dall’altro simbolo romano, il Messaggero, il fondatore della Sorgente Group – holding attiva nei settori in editoria, immobiliare e finanza – racconta, in una galoppata verbale, secca e pragmatica, i tratti salienti della sua vita. E, superate da qualche anno le 70 primavere, la voglia di investire e rischiare non sembra essersi sopita, anzi. Cresciuto dai gesuiti e, successivamente, nella scuola più formativa e immanente di Aldo Moro, vero deus ex machina della sua gioventù, Valter Mainetti ha saputo muoversi con grande abilità nei gangli dello Stato e nella giungla romana e, osiamo dire, mondiale, visti i legami con gli Stati Uniti, sua seconda patria. Fondamentali, oltreché dolorosi, sono stati gli anni Settanta.  Messe da parte le conoscenze universitarie nella Sapienza barricadera che fu, e dimenticati ben presto i vent’anni di un’esistenza dorata, ben più utili sono state l’aver appreso l’arte della diplomazia e della pazienza e dell’attesa. Alla Scuola morotea deve molto e, a distanza di decenni ormai, quei ricordi non si sono di certo affievoliti nella sua mente. In un lustro, o giù di lì, di frequentazione assidua e proficua con il martire della Democrazia Cristiana, Mainetti, infatti, ha conosciuto e assorbito tutte le regole che servono per saper stare nei palcoscenici più importanti. A differenza di tanti suoi coetanei, che stupidamente credevano al mito della rivoluzione a tutti i costi, magari in cachemire e con la villa ai Parioli, con i piedi ben piantati per terra, ha lavorato, piuttosto, a tessere relazioni e a sviluppare, sempre sottotraccia, l’esercizio del passo felpato. D’altronde – come la storia insegna – solo così si costruiscono imperi o, in misura minore, realtà imprenditoriali di un certo peso.

Professore, vorrei collocare l’inizio di questa nostra Confessione, partendo dagli anni della sua giovinezza. Chi erano i suoi genitori? In quale contesto è cresciuto?

«Mio padre, nato poco prima della Grande Guerra, era un imprenditore nel campo metalmeccanico; anche mia madre, di quasi dieci anni più giovane, era legata al mondo dell’imprenditoria; lei si trasferì quasi subito in America proprio perché mio nonno aveva grossi interessi economici negli States. Rientrò in Italia praticamente poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale. I miei genitori si fidanzarono nel ’38, ma nel Quaranta, con l’ingresso dell’Italia nel conflitto bellico, diventarono “nemici”.  Inevitabilmente, la mia formazione, con due genitori così impegnati nel mondo imprenditoriale, non poteva che risentirne».

Quali sono stati i suoi studi, negli anni della sua vitalità?

«Guardi che sono vitale anche ora! Detto ciò, essendo stato influenzato, come le ho già detto, dai miei genitori, e da mio padre in particolare, intrapresi la facoltà d’ingegneria, ma capii ben presto che non ero portato per quel tipo di studi, e scelsi, e con grande dispiacere soprattutto di mio padre, la facoltà di Scienze Politiche, che amavo molto, invece».

A differenza di tanti romani, adusi alla confidenza non richiesta e ad un continuo embrassons-nous, lei sembra sempre così riservato, chiuso, poco sorridente. Da dove nasce questo suo atteggiamento così poco mediterraneo?

«Forse dipende dal fatto di aver studiato dai gesuiti. Ma non penso, sa, di essere introverso, anzi. Sicuramente ho molto rispetto degli altri, e cerco di non risultare invadente, a differenza dei romani, abituati, magari, a prendersi un po’ troppo spazio. Questo mio atteggiamento, forse, può sembrare di chiusura».

La sua vita, nei nefasti anni Settanta, è stata segnata, forse in maniera indelebile, dall’aver conosciuto Aldo Moro. Ci racconti un po’ il suo primo incontro con lui… Chi, e cosa, l’ha messa in contatto con il politico pugliese?

«Conobbi Aldo Moro nel febbraio del 1971; un giorno incontrai un amico, studente di Scienze Politiche, e mi disse che stava andando a seguire una lezione del Ministro degli Esteri (all’epoca Moro rivestiva quell’incarico). L’incontro stuzzicava la mia curiosità. E da quel giorno nacque un bellissimo legame che durò fino a quando venne ucciso. Mi sembra doveroso dire che Moro fosse abituato ad avere rapporti molto umani con gli studenti. Si fermava spesso a parlare con noi nei corridoi alla fine delle lezioni e si dedicava moltissimo alla sua attività di professore, nonostante i suoi impegni».

L’arte del silenzio l’ha appresa da lui?

«Beh, sì, indubbiamente; Moro era un docente in tutti i sensi, e non solo di Diritto e di Procedura penale: ci dava dei consigli, amava trasmettere degli insegnamenti di vita».

Cosa non le piaceva di Moro?

«Direi nulla; sicuramente il suo pensiero e i suoi discorsi erano molto articolati e complessi. Quindi, soprattutto agli inizi della nostra conoscenza, non era facile comprenderlo. Occorreva molta attenzione e concentrazione».

Aveste un rapporto anche extra universitario?

«Sì, il nostro andava oltre la sfera accademica: le nostre frequentazioni erano soprattutto politiche».

È stato più determinante, nella sua formazione, suo padre o Moro?

«Questo interrogativo me lo sono posto spesso. Diciamo entrambi, anche perché mio padre è stata una presenza molto importante negli anni della mia prima giovinezza. Moro, sicuramente, ha saputo completare, con il suo magistero e il suo esempio, il mio percorso di crescita».

Come ha vissuto il periodo della sua prigionia? Ha avuto paura?

«Sono stato molto male in quei 55 giorni. Ci sono stati dei momenti in cui sembrava che le Br volessero usarci come postini per portare determinati messaggi alla Dc. La paura, non era tanto per noi, ma più che altro per il trattamento che avrebbero riservato al Presidente. Purtroppo, la paura, per come sono andate le cose, era più che fondata».

Anche lei pensava che lo Stato non dovesse trattare con le Br?

«Uno Stato democratico, governato da un partito cristiano, che mette sempre l’uomo al centro di ogni cosa, avrebbe dovuto trattare con i terroristi. Il Partito Comunista, purtroppo, non volle scendere a compromessi, anche per loro logiche interne, e la Democrazia Cristiana, in virtù del Compromesso storico da preservare, gli andò dietro. Solo Craxi e Fanfani si dimostrarono aperti ad una trattativa.

Dov’era quando si seppe del rapimento? Se lo ricorda?

«Sì, me lo ricordo perfettamente. Stavo andando alle Acciaierie di Terni. Mi telefonarono sia dalla segreteria politica del partito che dalle Acciaierie, per comunicarmi quanto avvenuto. I sindacati, ricordo, invitarono gli operai a lasciare la fabbrica e a scendere in piazza».

Dopo la sua barbara morte, cosa ha pensato di fare? Si sentiva spaesato?

«Mi sentii male e, allo stesso tempo, sorpreso, anche perché sembrava che la trattativa tra lo Stato e le Br potesse portare alla liberazione di Moro».

Chi fu il politico che, secondo lei, osteggiò, all’interno della Dc, Moro?

«Tutti dicevano Andreotti. Io non lo penso, anzi, tutte le volte che ne abbiamo discusso non faceva altro che parlare bene di Moro».

Che legami ha saputo intrecciare con il mondo esterno grazie anche all’attività intrapresa con Moro?

«L’attività politica di quegli anni è stata, per me, molto formativa da un punto di vista mentale».

Dagli studi umanistico-giuridici all’attività immobiliare. Come ce lo spiega questo salto? Sembrano due mondi agli antipodi…

«Non direi. Dopo aver fatto per diversi anni edilizia sociale, ho cominciato a lavorare in America proprio perché, grazie anche a mia madre, i legami con gli Stati Uniti non si erano mai interrotti. Non appena in Italia è stato possibile creare fondi di investimento immobiliare, che negli USA esistevano già da tempo sotto forma di REIT, ho intrapreso la strada della finanza immobiliare. Con il Gruppo abbiamo acquisito immobili iconici cercando di sposare questa attività, senza perdere di vista la passione per l’arte, e per l’architettura in particolar modo».

Pensa di esserci riuscito?

«Direi di sì, anche perché attraverso l’azienda abbiamo potuto finanziare una Fondazione; questo connubio ci ha permesso di valorizzare l’architettura – anch’essa Arte – e le opere».

Quali sono state le sue più grandi delusioni in ambito immobiliare?

«Ne ho avute tante, di delusioni».

Ce ne dica tre, le più  simboliche?

«La vendita – direi obbligata per via di una proposta esageratamente alta di un fondo arabo – del Chrysler Building; il rapporto con Enasarco, che ha portato ad incomprensioni e contenziosi legali tuttora in corso e che, spero, vengano risolti».

E il terzo?

«Il terzo è il commissariamento della SGR, legato, come mi dicono gli avvocati, ai contenziosi con Enasarco. Ed è un dispiacere molto grande».

In una Paese così ambiguo, losco, avido, furbo, non ha paura di fare affari, stringere continuamente mani?

«In tutta onestà, non ho mai avuto problemi, economici e sociali, a fare affari nel nostro Paese, tutt’altro. L’Italia è come una nave che va per traverso ma, avendo motori molto potenti, alla fine riesce a stare sempre al passo con navi molto più potenti».

Giulio Anselmi ha detto che gli imprenditori, quando entrano nell’editoria, non è di certo per amore della libertà. Da dove nasce il suo interesse per la carta stampata?

«Attraverso la Fondazione abbiamo finanziato la pubblicazione di libri d’arte. E Il Foglio, che è un giornale molto particolare, ci ha permesso di ampliare questo progetto. Diciamo che l’acquisizione del giornale è nata grazie anche a delle chiacchierate avute con Giuliano Ferrara. E, quando si è prospettata la possibilità di acquistarlo, non mi sono tirato indietro».

Pensa di essere un editore liberale?

«Penso proprio di sì, pure troppo…»

Se i suoi giornalisti facessero delle serie inchieste sul suo Gruppo, e trovassero delle cose poco trasparenti, lei come reagirebbe?

«Le nostre società sono super controllate e vigilate, mi sembra difficile…»

Qualora dovessero farle le pulci?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».

Pensa che un giornale come Il Foglio incida nel dibattito pubblico?

«Penso di sì. È un giornale che si rivolge ad una cerchia intellettuale importante del nostro Paese; è fatto bene, curato, ben diretto da Cerasa e sempre ispirato dal suo fondatore, Ferrara».

C’è un giornalista che porterebbe subito al Foglio?

«Non lo voglio dire.

Quali sono le condizioni dell’editoria quotidiana?

«Molto difficili direi».

Perché?

«Perché i giornali non vengono letti dai giovani».

Non sono d’accordo. I giornali italiani non sono letti perché sempre, o quasi, sono fatti male e noiosi.

«Non penso. È un fenomeno diffusissimo anche all’estero.

Per lei, è stata più una perdita di quattrini o di guadagno?

«Siamo stati bravi e fortunati: il Foglio è in utile».

Balzac sosteneva che dietro un grande patrimonio, ci sia sempre un crimine commesso. Pensa anche lei che sia impossibile diventare miliardari e restare con le mani immacolate?

«Probabilmente accadeva negli anni di Balzac, o agli inizi del primo Novecento, quando gli affari e la speculazione, senza controlli, s’ingrossavano a vista d’occhio. Oggi, onestamente, penso sia molto difficile che ciò possa accadere».

Nella sua vita, quali sono stati i suoi grandi tormenti?

«Più che tormenti, dolori, tanti; le morti dei miei genitori, e del presidente Moro».

Che ha rapporto ha con il denaro?

«Un po’ distaccato, e me lo rimproverano, perché nel mondo degli affari avere un rapporto stretto con il denaro rappresenta un po’ il metro».

Le piace maneggiare ed esercitare il potere?

«Assolutamente sì».

Cosa le provoca?

«Il potere del denaro dà molte possibilità sia come soddisfazione personale sia per il fatto di veder concretizzate delle idee di lavoro altrimenti impensabili e irrealizzabili. Il potere, se usato con intelligenza, può fare solo bene».

Spesso il potere porta, con sé, molta solitudine. L’avverte questo tipo di sensazione, il peso delle decisioni da prendere? Il sapere che tante persone dipendono da lei, dal suo equilibrio, dal suo buon umore…

«In realtà non mi sento solo: sono riuscito, nonostante gli impegni lavorativi, a costruire una bella famiglia, grazie al supporto costante di mia moglie Paola. Anche in azienda ho tanti collaboratori sinceri e fedeli e sapere che il lavoro di molte persone dipende dalle mie scelte e dalla mia volontà è solo fonte di coraggio e di entusiasmo».

Amando il potere, come lo esercita, in maniera autocratica o democratica?

«Essendo stato l’allievo di un maestro di democrazia, un martire della democrazia, come appunto Aldo Moro, cerco di esercitarlo sempre in maniera democratica».

Dove nasce il suo amore o interesse per l’arte? È un modo per manifestare grandezza, megalomania?

«Il mio amore per l’arte da un lato nasce perché mio padre era un importante collezionista; dall’altro, lavorando molto in America, è consuetudine che chi fa impresa investa parte del proprio patrimonio nell’arte».

Di quale opera va più fiero?

«È la testa di Marcello, nipote di Augusto».

Quanto la pagò?

«Quattrocentomila euro».

Lei lavora tutti i giorni, con la sua borsa sembra non fermarsi mai. Trova il tempo per sé stesso?

«Sì, la notte. Leggo molto di storia e “navigo”».

Quante ore dorme la notte?

«Quattro-cinque ore al massimo».

I pensieri l’attanagliano?

«Non saprei dirle, in realtà. Forse è anche l’età che procura insonnia».

Crede in Dio?

«Essendo stato a scuola dai gesuiti, mi è impossibile non credere in Dio».

Da “Libero quotidiano” il 6 ottobre 2021. Vanno via gli ultimi fra "senatori" e "senatrici" che avevano lavorato a Repubblica con Eugenio Scalfari. È partita, infatti, la nuova ondata di prepensionamenti che sarà preceduta, come vuole la legge, da tre mesi di cassa integrazione a mille euro al mese.  A uscire saranno in 54 che entro il 31 ottobre dell'anno prossimo avranno raggiunto i requisiti di età (62 anni) e contributi (25 anni). Vanno via alcuni nomi storici della testata. Non ci sono più i fondatori che erano in redazione il 13 gennaio del 1976 preparando l'esordio del giorno dopo. Quelli sono andati via da tempo. Molti non solo dal quotidiano. Si tratta degli ex ragazzi della seconda ondata che Scalfari chiamava personalmente uno per uno incantandoli. La generazione che, a partire dagli anni '80 aveva lavorato al successo del quotidiano insidiando il primato del Corriere della Sera. A quei tempi era una corsa a chi arrivava più in fretta sul tetto delle vendite. Oggi invece la gara si fa in frenata per vedere chi scende più piano. Va in pensione Piero Colaprico, cronista ma, soprattutto gran narratore nei suoi libri delle storie della "mala" milanese. Potrebbe essere recuperato con un contratto di collaborazione (vietato ai prepensionati) come accadrà, probabilmente, con altre grandi firme come Federico Rampini, Ernesto Assante, Ettore Livini. Con pensione anticipata vanno via Roberto Mania, responsabile del sindacale, Roberto Petrini e Paola Iadeluca dall'economia. E inviati di esteri come Marco Ansaldo, Pietro Del Re, Giampaolo Cadalanu.

Qual piume al vento. La giravolta dei giornaloni: Corriere, Repubblica e Stampa scaricano Conte e diventano zerbini di Draghi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Stavo facendo uno sforzo di memoria per provare a ricostruire quale fosse lo schieramento politico dei giornali, delle Tv, dei partiti, all’inizio della settimana scorsa. Già, la settimana scorsa, dico: non il secolo scorso. Ho le idee un po’ confuse, però mi pare che fosse piuttosto netto. In Parlamento, se non sbaglio, la destra si opponeva a Conte e chiedeva elezioni; tutti gli altri – sinistra, centro e grillini – come una testuggine a difesa del premier. Addirittura si iniziava ad aprire qualche breccia filo-Conte, o persino filo-Di Maio, persino nella destra storica. Qualcuno sussurrava che Di Maio fosse uno statista. Il Pd era il partito più granitico. Conte o Morte, diceva. È lui – sostenevano i suoi leader – l’unico punto di equilibrio. È lui che salverà l’Italia. Lo dicevano sostenuti da un bel dispiegamento di cannoni da parte dei mass media. La7, naturalmente, guidata da Lilli Gruber e da Travaglio. E poi quotidiani di massa o di elite, storicamente anche molto distanti tra loro, come Corriere – schieratissimo – Repubblica, Stampa, e in sinergia l’ex quotidiano berlusconiano Il Foglio e il comunistissimo il manifesto. Il manifesto, addirittura, fece inorridire molti suoi ex pubblicando un appello a favore del governo e contro gli intellettuali disfattisti. I quali intellettuali disfattisti non si sa bene chi fossero. A parte quelli di destra, non molti, credo che ci fossero solo quelli che scrivono su questo giornale. I quali, isolatissimi, osservavano che tre anni di governo a Cinque stelle aveva prodotto essenzialmente tre risultati: la scomparsa dello Stato di diritto; la trasformazione del welfare in un centro confusionario di clientele e di distribuzione di mance e di favori elettorali; il passaggio dal metodo di governo democratico e parlamentare a quello degli editti e dei pieni poteri al premier. Timidamente facemmo notare che dal 1943 in poi nessun presidente del Consiglio aveva goduto di poteri così pieni come questo avvocato pugliese, fino a poco tempo fa sconosciuto e titolare, a occhio, di doti politiche modeste. Ci sentivamo molto soli in questa denuncia. Lontani dal Pd, lontani dalla sinistra radicale, lontani dai giornali che consideravamo i più simili a noi per impostazione politica. Cominciavamo anche a pensare di avere sbagliato tutto. Quando in qualche trasmissione Tv provavamo a fare il nome di Draghi, venivamo sommersi dalle contumelie o dall’ironia. Ci dicevano – anche con molta gentilezza mista a disprezzo – che noi non capivamo niente di politica, che la politica è un’altra cosa, che Draghi tutto può fare ma non il premier e anche che – oltretutto – aveva confidato ai suoi amici – moltissimi – che lui neanche ci pensava a Palazzo Chigi. Poi c’è stato il miracolo. L’impressione è che il miracolo lo abbia fatto Matteo Renzi, ma questa cosa è meglio tenerla riservata, perché se dici una cosa su Renzi che non sia una buona insolenza, ti prendono a schiaffi e dicono che sei un vassallo del bullo, dell’impostore, del manigoldo, dell’innominabile, del narciso. Perciò non lo diciamo. Shhhh. Però il miracolo c’è stato. Conte è caduto. C’è chi dice che sia caduto sulla giustizia, chi dice che sia caduto sui servizi segreti, chi dice che sia caduto perché era diventato evidente che mai e poi mai sarebbe stato in grado di organizzare l’operazione vaccini. Comunque è caduto. Mattarella ha chiamato quel bravissimo ragazzo che ora fa il presidente della Camera – al posto di Pertini e Ingrao – parlo di Roberto Fico, il quale doveva mettere insieme una operazione di acquisto senatori a destra per realizzare il Conte ter. Tutti dicevano che solo il Conte ter era la soluzione. E che meglio di Conte, in Italia, non c’è nessuno. Ok. Fico, che probabilmente è una persona assai onesta, tornò da Mattarella e gli disse che comprare parlamentari non era il suo mestiere e che una maggioranza per Conte non si vedeva neanche col cannocchiale. E oplà. Mattarella chiamò Draghi. E noi pensammo: poveretto, ora si troverà sommerso dalla furia dei contisti, solo noi lo difenderemo. Lo bastoneranno. Macché. Saranno trascorsi sette o otto minuti, e tutte le majorette di Conte erano passate con Draghi. Possibile? Sì, sì. Non solo, ma tra loro – come gli asini di Collodi – si prendevano in giro: che orecchie lunghe che hai…, si dicevano. Cioè si dicevano l’un l’altro – Gruber, Travaglio, Il Foglio, i giornalisti del Corriere, della Stampa, di Repubblica – ma tu stavi con Conte, perché ora sostieni Draghi? Per carità, rispondeva l’altro: fingevo. E così tutti giù a prendere in giro il povero Casalino, messo alla gogna immediatamente, lui che i grandi giornali non avevano mai neppure sfiorato per tre anni, e poi tutti a sbeffeggiare Conte, e Di Maio, e Bonafede, e l’intera compagnia. In primis Travaglio, naturalmente, che da deus ex machina del giornalismo italiano, in dieci minuti è stato trasformato in zimbello, e lui ha subito reagito prendendosela col Pd: ma come – ha detto al Pd – sei capace di accettare un governo con la Lega, cioè con il partito che aveva combattuto le Ong? Indignato, Travaglio. Caspita, ma non era Travaglio quello dei taxi del mare, che difendeva a petto nudo Di Maio e il procuratore di Catania che aveva scacciato tutte le navi di soccorso dal Mediterraneo? Lo spettacolo più singolare e inedito, comunque, è stato proprio quello offerto dal Pd. Pare che abbia presentato a Draghi, molto impettito, il suo programma di governo. Dice che bisogna smontare le leggi sulla sicurezza, e la Bossi Fini, e bisogna riformare il carcere, ristabilire la prescrizione, ridurre la carcerazione preventiva… Insomma, bisogna fare tutte le cose che il governo col Pd non ha fatto, anzi ha fatto al contrario. Il Pd ha detto tutto questo con l’aria molto seria. Come quella che spesso assumono le persone che tengono poco ai giochetti in cortile e fanno cosa sacra dei principi. Intangibili.

Altro che pluralità dell'informazione. Scanzi a libro paga della Rai, è l’unico giornalista stipendiato da Cartabianca. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Andrea Scanzi è l’unico giornalista stipendiato come opinionista da Rai3 per partecipare a Cartabianca, la trasmissione di approfondimento politico condotta da Bianca Berlinguer. Il suo compenso? Ignoto. È quanto emerge dalla risposta della tv di Stato all’interrogazione presentata da Michele Anzaldi, segretario della Commissione di Vigilanza Rai, che il deputato di Italia Viva considera “il trionfo dell’opacità, ai limiti dell’omertà: roba da restare allibiti”. La questione è ormai nota: da tempo infatti Anzaldi si sta battendo per garantire la pluralità di opinione nei talk politici della televisione pubblica, dove lo spazio per Italia Viva è sempre meno mentre i giornalisti del Fatto Quotidiano, praticamente l’house organ del Movimento 5 Stelle e del premier dimissionario Giuseppe Conte, sono al contrario enormi. Uno spazio, quello che la Rai garantisce al Fatto Quotidiano, ovviamente pagato. Ma alla domanda sul compenso, la tv di Stato spiega che soltanto che “è in linea quello percepito da giornalisti che svolgono analoga attività professionale”. “Perché questa opacità? Perché questa mancata trasparenza? Che ne pensano Beppe Grillo, Fico, Di Maio, Di Battista? Visto che la Rai si rifiuta, sia direttamente Scanzi a fare trasparenza e dire quanto viene pagata ogni sua ospitata, come fece Mauro Corona quando rivelò di prendere 500 euro a puntata (20-22mila euro a stagione)”, ricorda dunque Anzaldi. La Rai rivela che Scanzi è l’unico giornalista a venire retribuito come opinionista a “Cartabianca”. E questo sarebbe rispetto del pluralismo? E’ normale che l’unico opinionista pagato sia un giornalista fortemente schierato, di certo non un campione di equilibrio e imparzialità? Ma non è finita qui. Nella risposta al segretario della Vigilanza, la Rai ammette che Scanzi è l’unico giornalista a venire retribuito come giornalista da Cartabianca, visto che l’altro opinionista contrattualizzato è Massimo Cacciari, docente di Filosofia presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Una scelta che per Anzaldi non rispetta il pluralismo: “E’ normale che l’unico opinionista pagato sia un giornalista fortemente schierato, di certo non un campione di equilibrio e imparzialità?”. Un ritorno al pluralismo e all’imparzialità che secondo il segretario della Vigilanza “sarà una delle missioni più difficili per il nuovo governo Draghi, una sfida quasi impossibile per chi avrà le deleghe alle Telecomunicazioni e all’Editoria”. 

Marco Antonellis per affaritaliani.it il 30 gennaio 2021.  "Nessuna programmazione speciale su Rai1 Rai2 Rai3 sulle consultazioni del presidente Fico con i partiti. Telespettatori costretti a seguire le tv commerciali. A che serve allora pagare il canone? Questo è servizio pubblico? Incredibile violazione del Contratto di Servizio". Lo scrive su twitter il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi. Ma le polemiche sono destinate ad aumentare perchè a quanto siamo in grado di rivelare da Italia Viva avevano chiesto al Tg1, ben 15 minuti prima che Renzi parlasse dalla Camera dei deputati, di trasmettere in diretta l'intervento del leader. Ebbene, il Tg dell'ammiraglia Rai sempre così solerte quando si tratta di "Giuseppi" Conte, stavolta, a differenza del Tg La7 e del Tg5 ha risposto picche. Inutile dire come l'abbiano presa dalle parti di Italia Viva.

Il Tg1 non trasmette in diretta l'intervento di Matteo Renzi: furia Iv. Sono ancora scintille tra Iv e Palazzo Chigi: Affaritaliani.it rivela che Matteo Renzi sarebbe su tutte le furie per la mancata trasmissione del suo intervento in diretta al Tg1. Francesca Galici, Sabato 30/01/2021 su Il Giornale. C'è un nuovo sospetto che aleggia dalle parti di Italia viva. Il clima all'interno della maggioranza è tutt'altro che rilassato e sicuramente non è funzionale all'obiettivo che si è posto Roberto Fico di costruire una nuova maggioranza. L'ultima crepa potrebbe essersi aperta per il mancato passaggio in diretta dell'intervento di Matteo Renzi dopo le consultazioni con l'esploratore nominato da Sergio Mattarella. Italia viva ora è in fermento, come riferisce Marco Antonellis su Affaritaliani.it, anche perché pare che nel partito di Matteo Renzi questo venga percepito come un altro sgarbo subito da parte di Palazzo Chigi. "Nessuna programmazione speciale su Rai1 Rai2 Rai3 sulle consultazioni del presidente Fico con i partiti. Telespettatori costretti a seguire le tv commerciali. A che serve allora pagare il canone? Questo è servizio pubblico? Incredibile violazione del Contratto di Servizio", scrive Michele Anzaldi su Twitter. Il deputato di Italia viva, nonché giornalista e segretario della commissione di Vigilanza Rai, è per il momento l'unico del partito a esporsi contro la Rai ma il retroscena rivelato da Maarco Antonellis racconta una storia ancora più complessa e destinata a creare ulteriori polemiche nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Infatti, pare che l'entourage di Matteo Renzi abbia chiesto al Tg1 con largo anticipo, circa 15 minuti prima di iniziare a parlare alla Camera, che l'intervento del leader di Italia viva venisse trasmesso in diretta. Tuttavia, come si suol dire in gergo, il telegiornale di Rai1 ha completamente "bucato" il commento di Matteo Renzi subito dopo l'incontro con Roberto Fico e questo avrebbe fatto saltare i nervi a Italia viva e al suo leader. Marco Antonellis riferisce che a dar maggiormente fastidio dalle parti di Iv sia il trattamento dispari offerto dal telegiornale del primo canale della tv pubblica, che è sempre solerte nel trasmettere gli interventi e le notizie che riguardano il presidente del Consiglio dimissionario, Giuseppe Conte. "Inutile dire come l'abbiano presa dalle parti di Italia Viva", conclude Antonellis. Solo poche settimane fa è stato discusso il caso del video preconfezionato da parte di Palazzo Chigi del premier Conte, una clip di chiaro stampo propagandistico che è stata trasmessa da marzo in poi per tutti i servizi relativi a Giuseppe Conte. Una pratica non comune, soprattutto da parte della televisione pubblica, che è stata oggetto anche di interrogazioni parlamentari.

Rocco Casalino, su Rai Uno l'ex portavoce di Giuseppe Conte è il più presente dopo Mario Draghi. Libero Quotidiano il 14 aprile 2021. Michele Anzaldi, deputato di Italia viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, ha reso noti i dati del monitoraggo AgCom sulla presenza in tv dei politici. "Da quando si è insediato il governo Draghi (13 febbraio), l’esponente politico più presente su Rai1, subito dopo lo stesso premier, è stato Rocco Casalino: 1h35minuti di tempo di parola", spiega Anzaldi parlando di Rocco Casalino, che al momento non ricopre nessun ruolo politico o rappresentativo di rilievo. A guidare la classifica c'è il presidente del Consiglio Mario Draghi con 1 ora e 45 minuti, solo 10 minuti in più rispetto a Casalino. Il premier, sul totale delle ore dedicate alla politica, ha avuto a disposizione il 7,74% mentre Rocco Casalino il 7,02%. Al terzo posto Pierpaolo Sileri, sottosegretario alla Salute con  58 minuti e il 4,25% del tempo politico della rete ammiraglia di Viale Mazzini. Anzaldi polemizza con  la tv di Stato e sottoline "come il tempo sia più del doppio e del triplo dei leader di partito, addirittura 7 volte il tempo dato al presidente della Repubblica Mattarella". Il primo leader politico in classifica è Matteo Salvini con 42 minuti di parlato, subito dopo Giorgia Meloni con 41 minuti. Ecco lo scandalo di questa Rai mostrato dai dati Agcom presentati in Vigilanza: possibile che nessuno tra Cda, Cdr, Usigrai, Fnsi, Ordine dei Giornalisti, presidenza della Vigilanza abbia avuto nulla da dire?", rilancia Anzaldi sulla sua pagina Facebook. Tra poche settimane inoltre dovrebbero esserci anche le nuove nomine per il Cda Rai. In tal senso, il segretario della comissione di Vigilanza Rai ha chiesto maggiore celerità al presidente del Consiglio: "Ecco perché Draghi deve accelerare sul rinnovo del Cda e chiudere al più presto questa stagione della Rai peggiore di sempre", ha spiegato Anzaldi.

Niccolò Carratelli per “la Stampa” l'1 marzo 2021. Non ce ne voglia Rocco Casalino, ma sembra di essere tornati ai tempi del primo Grande Fratello. Accendi la tv e lo trovi sempre lì, a suo agio davanti alla telecamera, ospite di qualunque trasmissione per presentare il suo libro (di cui, almeno qui, non citeremo il titolo). «Ha venduto più copie di quello di Obama, sono il più alto in classifica», ha detto, senza falsa modestia, il buon Rocco. A forza di rilasciare interviste su interviste, però, può capitare di lasciarsi prendere la mano. E dire di essere pronto a fare il portavoce di Silvio Berlusconi: «Per due milioni di euro ci vado, perché la sua immagine pubblica si può recuperare», ha spiegato. Altro che "psiconano", insomma, eventualmente il leader di Forza Italia può andargli bene anche come "marito". Va detto che le alternative proposte erano Vittorio Sgarbi e Fabrizio Corona. Comunque, Rocco chiama Silvio. Immaginarli insieme è già poesia, il contrappasso perfetto per l' ex Cavaliere: dalle Olgettine a Casalino.

Che ne pensa l’AgCom? Casalino show, il fedelissimo di Conte a reti unificate e senza contraddittorio per lodare l’ex premier. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Onnipresente Rocco Casalino. L’ex portavoce dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte è ormai ospite fisso nei più importanti talk show televisivi, da quelli più leggeri a quelli più ‘impegnati’, dallo show “Ciao Maschio” di Nunzia De Girolamo a “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber. Il motivo, sulla carta, è quello di promuovere il suo libro-autobiografia, “Il portavoce”, ma di fatto la presenza ossessiva di Casalino nel piccolo schermo pare essere quella di promuovere più il vecchio governo guidato dall’avvocato del popolo, non mancando mai infatti di ricordare i “grandi successi” dell’ex premier e del governo giallo-rosso. La presenza in tv di Casalino in tv pone quindi un interrogativo di natura politica ben rappresentato da Michele Anzaldi, deputato di Italia Viva e segretario della Commissione di Vigilanza Rai. Come vengono conteggiate dall’Osservatorio di Pavia e dall’Agcom le ospitate di Casalino nelle trasmissioni Rai di informazione? “A che titolo – si chiede Anzaldi – Casalino va in tv, senza contraddittorio? Come esponente del Movimento 5 stelle? Come esponente del nuovo partito di Giuseppe Conte? O semplicemente come autore di un libro? In questo caso, a tutti gli autori di libri viene riservato lo spazio abnorme che in questi giorni il servizio pubblico sta dando a Casalino?”. Un problema non di poco conto: se infatti Casalino è ospita in tv come esponente politico, in questo caso come rappresentate del Movimento 5 Stelle, “perché gli viene garantito il monologo senza confronti con altri esponenti politici?”, è l’affondo di Anzaldi. Il deputato renziano ricorda anche come Casalino approfitti di ogni occasione per attaccare Renzi e Italia Viva, “anche inventando sonore e conclamate balle, come quando ad Agorà ha detto che il Recovery Plan sarebbe un’invenzione di Conte”.

Da vigilanzatv.it il 25 febbraio 2021. Rocco Casalino, ex portavoce dell'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, è egemone in Tv. Non passa giorno nel quale egli non sia ospite in qualche talk show televisivo, spesso anche in due-tre diverse trasmissioni. Sabato prossimo sarà perfino a Ciao Maschio di Nunzia De Girolamo. Praticamente ovunque, insomma, dai programmi più leggeri a quelli più impegnati, con un'esposizione mediatica mai vista prima. La giustificazione è la presentazione del suo libro Il portavoce, ma neanche Bruno Vespa nei suoi proverbiali e capillari tour editoriali televisivi è mai stato così assiduo come Casalino. Per giunta, a differenza del conduttore di Porta a Porta, con l'ex concorrente del Grande Fratello, sorge un interrogativo di natura politica. Ed è il Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi (Iv) a porselo. "Le ospitate a ripetizione di Rocco Casalino a reti unificate" scrive l'On. Anzaldi su Facebook, "in particolare in tutte le trasmissioni Rai di informazione, come vengono conteggiate dall’Osservatorio di Pavia e dall’Agcom? A che titolo Casalino va in tv, senza contraddittorio? Come esponente del Movimento 5 stelle? Come esponente del nuovo partito di Giuseppe Conte? O semplicemente come autore di un libro? In questo caso, a tutti gli autori di libri viene riservato lo spazio abnorme che in questi giorni il servizio pubblico sta dando a Casalino?". E ancora: "Se invece va come esponente politico, ad esempio in rappresentanza del Movimento 5 stelle, perché gli viene garantito il monologo senza confronti con altri esponenti politici? Peraltro in tutte le sue ospitate Casalino attacca Matteo Renzi e Italia Viva, anche inventando sonore e conclamate balle, come quando ad Agorà ha detto che il Recovery Plan sarebbe un’invenzione di Conte. Ma come si fa a consentire un simile sproloquio di fake news? Mi auguro che l’Agcom risponda con urgenza pubblicamente a queste domande, anche con un comunicato alle agenzie di stampa, perché questo ennesimo abuso del Governo Conte, ora che Conte non è più a Palazzo Chigi, è davvero vergognoso. E’ la conferma che siamo di fronte alla Rai peggiore di sempre".

Piazzapulita, Rocco Casalino e i sondaggi segreti su Giuseppe Conte leader del M5s: "Molto sopra il 20%". Libero Quotidiano il 26 febbraio 2021. Giuseppe Conte come l'unico possibile salvatore del Movimento 5 Stelle: ne è convinto l'ex portavoce del premier Rocco Casalino. Ospite di PiazzaPulita su La7, Casalino ha spiegato che solo con una figura come quella di Conte i grillini possono sperare di raggiungere il centrodestra nei sondaggi. "È evidente che ci mancano 8 punti col centrodestra e dobbiamo recuperarli. La mia idea è che, siccome c’è un’ampia percentuale di astensionismo, che attualmente guarda magari al M5s ma non al punto tale da votarlo, probabilmente una figura come Conte può attrarre voti", ha detto l'ex portavoce. "Io ho sondaggi che danno Conte col M5S molto al di sopra del 20%, anche il 25 o 28%, dipende da come fai la domanda", ha continuato Casalino. Che poi ha rilanciato: "Con Conte che cambia il Movimento, che lo rende diverso da com’è attualmente, una sorta di upgrade o aggiornamento del Movimento, i sondaggi sono anche al 28-30%". Cifre da capogiro, insomma. Rocco Casalino, però, ha avuto modo - nello studio di Corrado Formigli - di ammettere anche i numerosi errori comunicativi compiuti nel corso della carriera da portavoce. A partire dalle parole dell'ex capo politico dei grillini, Luigi Di Maio, che esultò per il reddito di cittadinanza, misura cara ai pentastellati, parlando addirittura di "abolizione della povertà". "Fu un errore di comunicazione, la frase andava detta meglio. Ci credevamo molto", ha spiegato Casalino.

Stefania Campitelli per secoloditalia.it il 27 febbraio 2021. Giuseppe Conte è magico, indimenticabile. E gli avversari tutti crudeli e omofobi. Questo in sintesi il messaggio di Rocco Casalino, ospite questa sera a Ciao Maschio condotto da Nunzia De Girolamo. L’ex portavoce di Conte torna a mettersi a nudo. Dal giorno della caduta del governo dell’avvocato del popolo l’ex del Grande Fratello è tra gli ospiti televisivi più gettonati. Non poteva mancare l’intervista dal salotto dell’ultimo talk sfornato da Rai1 in seconda serata. “Conte è una persona unica, ha una dote per cui ti arriva al cuore. A volte mi fa uno sguardo e mi arriva al cuore. È uscito da palazzo Chigi con dignità ed applausi”. Sono le prime parole, un po’ scontate, dell’ennesima confessione di Rocco. Alla domanda sulle ormai famose lacrime in occasione del congedo dell’ex premier da Palazzo Chigi, Casalino non si sottrae. “Sì, certamente, piangevo per Conte e per l’ingiustizia che ha subito. Lavorare con lui è crescere ed imparare sempre qualcosa”. Poi è tornato a fare la vittima, difendendosi da presunti attacchi omofobi da parte del centrodestra. E dei giornali. L’uomo della comunicazione di Conte, maestro di gaffe e indimenticabili "ritardi", si sfoga. Complice il fascino suadente della De Girolamo. “Anche a Palazzo Chigi le opposizioni, Meloni e Salvini, ma anche Renzi, hanno sempre cercato di denigrarmi ed insultarmi“. Nel calderone dei denigratori Casalino mette un po’ tutti. Alla rinfusa. Oltre ai pericolosi sovranisti anche il leader traditore di Italia Viva. “Così come, alcuni giornali mi hanno preso in giro solo per alcuni miei atteggiamenti o comportamenti. Che in verità sono tali solo perché sono gay. Venivano mascherate come prese in giro – dice con aria sconcertata – ma in verità sono atteggiamenti omofobici”. Poi denuncia tante falsità. Cattiverie vero o presunte sulla sua omosessualità. Un outing "prezioso", per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica. Per far parlare di sé a tutti i costi. Soprattutto per vendere il suo libro, dal titolo inequivocabile, Il portavoce. “Su Luigi Di Maio e Giuseppe Conte alcuni giornali hanno fatto uscire retroscena e pettegolezzi strani. Nonché totalmente falsi, solo perché io ero gay ed ero il loro portavoce. Anche quella è omofobia”.

Casalino e la balla omofobia "Insultato da Salvini e Meloni". L'ex portavoce di Conte va in tv e spara a zero sui suoi "nemici". Il delirio choc: "Denigrato perché gay..." Francesca Galici - Sab, 27/02/2021 - su Il Giornale.  Continua il tour promozionale di Rocco Casalino, "disoccupato" (come lui stesso si è definito) eccellente della politica. Finito il governo Conte bis e senza il Conte ter, al portavoce dell'ex presidente del Consiglio non resta che riciclarsi come presenzialista televisivo. È stato in Rai, Mediaset e La7, non c'è programma in cui non sia stato ospite o nel quale non è previsto un suo intervento nei prossimi giorni per promuovere il suo libro. Seguendo l'ordine cronologico delle sue apparizioni, oggi in seconda serata sarà su Rai 1 nel programma Ciao Maschio di Nunzia De Girolamo e domani sarà a Domenica In da Mara Venier. Il late show della prima rete della tv pubblica non è in diretta, pertando Rocco Casalino ha già registrato il suo intervento di cui si conoscono alcuni passaggi. Con Nunzia De Girolamo ha parlato a lungo e ha affrontato numerosi temi, tra i quali ovviamente anche quelli legati al suo rapporto con Giuseppe Conte. Il portavoce ne parla con grande affetto, facendo emergere quella che ha tutte le sembianze di una forma di amore nei confronti dell'ex premier: "Conte è una persona unica, ha una dote per cui ti arriva al cuore. A volte mi fa uno sguardo e mi arriva al cuore. È uscito da Palazzo Chigi con dignità e applausi". Per amore di cronaca, è necessario specificare che da oltre 10 anni a questa parte tutti i presidenti del Consiglio uscenti ricevono l'applauso dei lavoratori di Palazzo Chigi. Ma a Rocco Casalino quel momento dev'essere particolarmente piaciuto, tanto da commuoversi: "Certamente piangevo per Conte e per l'ingiustizia che ha subito. Lavorare con lui è crescere ed imparare sempre qualcosa". Durante la lunga intervista non manca un passaggio sulla sua omosessualità, che Rocco Casalino in quest'occasione considera la causa di alcuni attacchi diretti a Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Il portavoce non nasconde una punta di vittimismo: "Su Luigi Di Maio e Giuseppe Conte alcuni giornali hanno fatto uscire retroscena e pettegolezzi strani, nonché totalmente falsi, solo perché io ero gay ed ero il loro portavoce. Anche quella è omofobia". Su questo tema si è soffermato a lungo e ha imputato al suo orientamento sessuale anche alcune critiche ricevute dall'ex opposizione e dai media: "Anche a Palazzo Chigi le opposizioni, Meloni e Salvini, ma anche Renzi, hanno sempre cercato di denigrarmi ed insultarmi. Così come, alcuni giornali mi hanno preso in giro solo per alcuni miei atteggiamenti o comportamenti che in verità sono tali solo perché sono gay. Venivano mascherate come prese in giro, ma sono in verità atteggiamenti omofobici".

Da vigilanzatv.it il 27 febbraio 2021. Questa sera, sabato 27 febbraio 2021, Rocco Casalino sarà presente in Tv per la miliardesima in pochi giorni, questa volta a Ciao Maschio, trasmissione di Nunzia De Girolamo, moglie dell’ex ministro delle Autonomie Regionali Francesco Boccia (Pd) in onda in seconda serata su Rai1. E alcune anticipazioni relative alle dichiarazioni di Casalino nel programma di questa sera hanno già infiammato un altrimenti sonnacchioso sabato di fine febbraio. “A Palazzo Chigi le opposizioni” avrebbe dichiarato Casalino a Ciao Maschio, “Meloni e Salvini, ma anche Renzi, hanno sempre cercato di denigrarmi ed insultarmi. Così come, alcuni giornali mi hanno preso in giro solo per alcuni miei atteggiamenti o comportamenti che in verità sono tali solo perché sono gay. Venivano mascherate come prese in giro, ma sono in verità atteggiamenti omofobici“. Tali parole hanno suscitato la reazione del Segretario della Vigilanza Rai Michele Anzaldi che, su Facebook, ha commentato: “Se le anticipazioni della trasmissione di Nunzia De Girolamo su Rai1 rispondono al vero, se davvero il portavoce di Conte Rocco Casalino stasera potrà senza contraddittorio e senza alcun ruolo ufficiale attaccare e addirittura diffamare Renzi, Salvini e Meloni da una trasmissione del servizio pubblico, dopo due settimane di monologhi a reti unificate contro leader cui non è stata data nessuna possibilità di difendersi in diretta, l’amministratore delegato Salini dovrebbe dimettersi subito“. E ancora: “Che c’entra questa propaganda con una trasmissione che, per le evidenti implicazioni di potenziali conflitti di interessi, di tutto si dovrebbe occupare ad eccezione della politica e in particolare della sorte del Governo Conte? A che titolo a Casalino, che non riveste alcun ruolo ufficiale, viene consentito di calunniare segretari di partito da una rete del servizio pubblico?”. 

Elena Del Mastro per ilriformista.it il 28 febbraio 2021. Ieri il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, aveva protestato in maniera vibrante perché, stando alle anticipazioni, Rocco Casalino avrebbe attaccato Renzi, Salvini e Meloni durante la trasmissione “Ciao Maschio”, in onda su Rai1 a mezzanotte, dicendo che era stato denigrato da loro anche per ragioni sessiste. Anzaldi aveva chiesto le dimissioni di Salini, se le anticipazioni si fossero rivelate vere. Nella messa in onda, però, i riferimenti diretti ai tre leader non c’erano. Nella puntata della trasmissione di Nunzia De Girolamo il portavoce di Conte ha attaccato genericamente “l’opposizione” ma senza chiamare direttamente in causa nessuno. Onorevole Anzaldi, cosa è successo con gli attacchi di Casalino ai leader dei partiti a “Ciao Maschio”? Ciò che è andato in onda è risultato ben diverso dalle anticipazioni. “Non so se fossero errate le anticipazioni, se abbiano commesso eventuali errori le agenzie di stampa o se, più semplicemente, la trasmissione di Nunzia De Girolamo abbia poi deciso di tagliare le dichiarazioni di carattere diffamatorio di Casalino contro Renzi, Salvini e Meloni. Di certo non aver mandato in onda quelle accuse gravi e non provate è stato un bene. Fortunatamente, come avevo chiesto, le anticipazioni non si sono rivelate vere. Sarebbe stato inaccettabile se il servizio pubblico si fosse fatto megafono di un tale abuso”.

Perché parla di abuso?

“Le critiche che Renzi e Italia Viva hanno mosso in questi mesi a Conte per come ha inteso la comunicazione istituzionale, e quindi di conseguenza all’uso che ne ha fatto il suo portavoce Casalino, sono state tutte circostanziate e ampiamente motivate con questioni di merito. Lanciare spericolate accuse di sessismo, senza alcun fondamento, significa diffamare”.

Lei ha criticato anche l’onnipresenza del portavoce di Conte in questi giorni nelle trasmissioni tv per presentare il suo libro. Perché?

“Ho posto una semplice domanda all’Agcom, alla Rai, agli organi di controllo: a che titolo Casalino sta occupando tutte le tv? Se è un semplice autore di libro, viene da chiedersi perché abbia questo incredibile trattamento di favore, che non viene riservato a nessun altro autore. Se invece va in tv come esponente politico, ovvero come rappresentante del Movimento 5 stelle o del partito di Conte, ho chiesto perché vada sempre senza contraddittorio e come venga conteggiato il suo spazio. Casalino non va semplicemente a presentare il suo libro, ma in ogni occasione attacca Renzi e Italia Viva, attacca altri partiti, anche raccontando palesi fake news come quella secondo cui il Recovery Fund se lo sia inventato Conte o che i 209 miliardi siano una sua invenzione e non una decisione innanzitutto di carattere europeo. Perché gli vengono consentiti simili monologhi, nel silenzio per giunta dei conduttori?”.

Oggi Casalino sarà anche a “Domenica In” su Rai1…

“L’ennesima ospitata del tour televisivo di Casalino in un programma Rai è il segnale del totale sbandamento di questo servizio pubblico: dopo Cartabianca, Agorà, Ciao Maschio, anche Domenica In. C’è un ordine aziendale per garantire massima visibilità al portavoce di Conte?”.

(DIRE il 28 febbraio 2021) "I grillini, cacciati dal governo per la loro palese incapacità, stanno occupando lo spazio della televisione pubblica. Casalino ovunque, monopolizza spazi sulla principale rete della Rai, Spadafora altrove. Dimostratisi degli inadeguati lottizzatori dei posti di governo e condizionatori della televisione pubblica, continuano ad avere un audience spropositato. Non c'è più il governo Conte-Casalino, ma la Rai lenta nei riflessi continua a essere in troppi settori megafono di questi soggetti. Quando finirà il Casalino show? E quando capiranno che Spadafora non è più il decisore di ruoli e nomine all'interno della Rai? Lo ha capito perfino Pinuccio di Strisicia". Lo dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri membro della vigilanza Rai.

Da liberoquotidiano.it il 28 febbraio 2021. Tra i vari argomenti su cui Rocco Casalino si è speso a Ciao Maschio, il programma condotto da Nunzia De Girolamo su Rai 1, anche Vittorio Sgarbi. E contro il critico d'arte, l'ex portavoce di Giuseppe Conte impegnato in un serratissimo tour televisivo per promuovere il suo libro, si è lasciato andare a pareri che flirtano con l'insulto: "Vittorio Sgarbi lo trovo fastidioso e brutto", spara ad  alzo zero. E ancora, Casalino aggiunge: "Dicono che abbia un grande successo con le donne, io lo trovo brutto, non capisco perché piaccia". Nell'intervista alla De Girolamo, Casalino si è speso anche in una battuta sulla sua partecipazione alla primissima edizione al Grande Fratello, per lui croce e delizia: "Non la supererò mai finché verrà usata nei modi in cui l’hanno usata nei miei confronti - ha premesso -. Se si usa in maniera denigratoria è chiaro che diventi un problema. Io credo di aver dimostrato di essere nella comunicazione uno bravo. Non si capisce perché creino sempre una connessione tra le mie capacità comunicative e il Grande Fratello. Lì diventa un problema, dal punto di vista professionale è brutto. Do anche un messaggio sbagliato. Sembra che si possa arrivare nel posto dove sono arrivato, a Chigi, non per meriti o perché ho studiato, ma perché ho fatto il Grande Fratello. È sbagliato tutto ‘sto corto circuito", si è lamentato Casalino.

Da leggo.it il 28 febbraio 2021.

Nelle prime due puntate il salotto di “Ciao Maschio” condotto da Nunzia De Girolamo ci ha abituati a simpatiche provocazioni. Nella puntata andata in onda ieri sera su Rai1, ai tre uomini in studio è toccato mettersi nei panni di una donna e scegliere un ipotetico marito tra Vittorio Sgarbi, Fabrizio Corona e Silvio Berlusconi. A questo domanda Rocco Casalino ha risposto con convinzione: «Sicuramente non vorrei mai come marito Vittorio Sgarbi. Mai. Lo trovo fastidioso e riprovevole, e sgradevole anche esteticamente. Sicuramente Berlusconi tutta la vita, anche Corona niente malè». «Quindi Berlusconi marito e Fabrizio Corona amante?» ha sintetizzato la De Girolamo. Casalino ha risposto: «Esatto». 

Da iltempo.it il 28 febbraio 2021. "Conte è una persona unica, ha una dote per cui ti arriva al cuore. A volte mi fa uno sguardo e mi arriva al cuore. È uscito da palazzo Chigi con dignità ed applausi". Così Rocco Casalino ospite del salotto televisivo di Ciao Maschio, in onda stasera in seconda serata su Rai1.  Alla domanda diretta della conduttrice Nunzia De Girolamo, rispetto alle lacrime dell’ex portavoce alla cerimonia di congedo da Palazzo Chigi, Casalino ha confessato "certamente piangevo per Conte e per l’ingiustizia che ha subito. Lavorare con lui è crescere ed imparare sempre qualcosa". E poi aggiunge: "Su Luigi Di Maio e Giuseppe Conte alcuni giornali hanno fatto uscire retroscena e pettegolezzi strani, nonché totalmente falsi, solo perché io ero gay ed ero il loro portavoce. Anche quella è omofobia". Poi arriva anche lo sfogo sui leader delle opposizioni. "Anche a Palazzo Chigi le opposizioni, Meloni e Salvini, ma anche Renzi, hanno sempre cercato di denigrarmi ed insultarmi" denuncia Casalino. "Così come, alcuni giornali mi hanno preso in giro solo per alcuni miei atteggiamenti o comportamenti che in verità sono tali solo perché sono gay. Venivano mascherate come prese in giro, ma sono in verità atteggiamenti omofobici".

Le parole di Casalino in Rai ora scatenano la bufera. Caos in Rai dopo le anticipazioni delle dichiarazioni di Rocco Casalino a "Ciao, Maschio", assenti poi nella messa in onda. Iv aveva chiesto la testa dell'ad Rai. Francesca Galici - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Rocco Casalino, come si suol dire, sta facendo "il giro delle sette chiese" per promuovere il suo libro Il portavoce. Prima di approdare quest'oggi a Domenica In da Mara Venier è stato ospite di Nunzia De Girolamo nel suo late show del primo canale. Ciao, Maschio è il programma che l'ex deputata conduce da qualche settimana nel sabato notte di Rai 1 e che ieri, tra gli altri, ha dato voce anche al portavoce dell'ex presidente del Consiglio. In mattinata erano iniziate a circolare alcune delle dichiarazioni rilasciate da Rocco Casalino nel suo intervento registrato, parole che hanno causato uno scossone poderoso ai piani alti di viale Mazzini. Nelle anticipazioni di agenzia divulgate ieri mattina, infatti, si leggeva: "Anche a Palazzo Chigi le opposizioni, Meloni e Salvini, ma anche Renzi, hanno sempre cercato di denigrarmi ed insultarmi". Marco Antonellis, nel suo articolo per Tpi.it, rivela che queste affermazioni hanno infastidito molte persone, tra le quali Michele Anzaldi, deputato in forza Iv ma anche segretario della commissione di Vigilanza Rai. L'esponente di Italia viva aveva chiesto la testa dell'amministratore delegato Fabrizio Salini nel caso in cui quanto riportato dalle agenzie prima della messa in onda si fosse rivelato vero: "Se davvero il portavoce di Conte, Rocco Casalino. staserà potrà, senza contraddittorio e senza alcun ruolo ufficiale, attaccare e addirittura diffamare Renzi, Salvini e Meloni da una trasmissione del servizio pubblico, dopo due settimane di monologhi a reti unificate contro leader cui non è stata data nessuna possibilità di difendersi in diretta, l'amministratore delegato Salini dovrebbe dimettersi subito". La rimostranza di Anzaldi aveva trovato già ieri la pronta risposta di Nunzia De Girolamo: "A "Ciao, Maschio", come ho detto anche in altre occasioni, non si parla di politica. Piuttosto il filo rosso, relativo alla presenza dei politici nel programma, è scoprire il lato più umano e privato di quest'ultimi. È evidente che, se ad un ospite viene posta una domanda personale come nel caso di specie legata alla sua omosessualità, io non posso censurare la risposta". Nunzia De Girolamo, quindi, ha difeso il suo prodotto appellandosi ai principi democratici: "Sono le regole della democrazia, anche quando si dicono cose che potremmo non condividere. Sono queste le regole del gioco democratico che, per fortuna, determinano il nostro Paese". Come spiega Antonellis nel suo articolo "nella messa in onda, però, i riferimenti diretti ai tre leader non c’erano. Nella puntata della trasmissione di Nunzia De Girolamo il portavoce di Conte ha parlato genericamente di 'opposizione' ma senza chiamare direttamente in causa nessuno". La domanda che si fa Antonellis e che si fanno in molti ora è una: le agenzie di stampa hanno riportato dei virgolettati poco precisi o è successo altro prima della messa in onda? Oppure, il caos generato potrebbe aver spinto l'azienda a smussare alcune parti in fase di montaggio?

Dagospia il 28 febbraio 2021. Comunicato Stampa. Lunedì 1° marzo, “Rai Scoglio 24” (il canale di Striscia la notizia “dedicato” alla Rai) inaugura il nuovo format di approfondimenti "Che scoglio che fa" con l’intervista “esclusivissima” a Rocco Casalino, ex portavoce dell’ex premier Giuseppe Conte. Nel faccia a faccia, l’inviato Pinuccio chiede a Casalino se andrebbe mai a fare il  portavoce di Silvio Berlusconi. “No”. Per un milione di euro? “No”. Per 2? “Per 2 ci vado, perché l’immagine pubblica di Berlusconi si può recuperare. Ma non lo farei mai per Matteo Renzi, per nessuna cifra. Non mi sentirei moralmente di prendere i soldi, perché la sua immagine pubblica è irrecuperabile. Renzi dopo quello che ha fatto dovrebbe sparire dalla vita politica per l’eternità”. L’ex concorrente del Grande Fratello coglie pure l'occasione per presentare il suo libro autobiografico, il Portavoce (Piemme), “che ha venduto più di Obama. Sono più in alto in classifica” e si lascia andare a commenti sull'esperienza a "Chigi" oltre che a qualche giudizio politico. Definisce Maria Elena Boschi “co-responsabile di una delle più grosse immoralità del nostro Paese, di aver aperto una crisi di governo al buio in un momento di pandemia. Mi dici una parola in barese peggio di immorale?”, chiede. Mentre su Giorgia Meloni: “Un po’ la stimo. È meglio di come la dipingono, ma non mi piacciono le sue idee”. Pinuccio fa i complimenti al grillino per il suo coming out, e gli domanda come mai nella compagine del passato governo molti, invece, pur essendo gay, non lo hanno fatto. “Quello della politica è un ambiente maschilista, conformista e su alcune tematiche è ancora chiuso. Ognuno deve fare outing quando è opportuno. Chi lo fa tardissimo, chi presto”. Ma non sono poco sinceri? "In effetti per un politico nascondere la propria sessualità e difendere magari tematiche della famiglia tradizionale, potrebbe essere un problema", aggiunge Casalino, che sottolinea però di non avere intenzione di sposarsi con il fidanzato di lungo corso. L'ex spin doctor vorrebbe proseguire la carriera politica: «Credo sempre nell’attivismo, troverò il modo». Ma non è l’unico desiderio: «Quanto vorrei che Di Battista tornasse con noi. Secondo me torna, prova lo stesso amore che ho io per il Movimento 5 Stelle». Prima di lanciare in tedesco il nuovo spot dello sponsor della trasmissione Sugo Besugo, Casalino svela che Conte è un talento del pianoforte, e invita in diretta, con un vocale WhatsApp, proprio l'ex presidente a “Rai Scoglio 24”. Potrebbe essere lui il prossimo ospite di “Che Scoglio che fa”? L’intervista andrà in onda su Striscia la notizia (ore 20.35, Canale 5) e sarà disponibile in versione più lunga sul sito web del tg satirico al termine della messa in onda del programma.

Rocco Casalino, venti ospitate in due settimane. La metamorfosi dell’ex portavoce "fantasma". Massimo Falcioni per tvblog.it il 28 febbraio 2021. “Sono ubriaco di libertà”, confidò Rocco Casalino a Propaganda Live. Gli effetti della sbornia però la stanno patendo i telespettatori che da due settimane incrociano l’ex portavoce del presidente del Consiglio in qualsiasi programma, a qualsiasi ora. Le dichiarazioni rilasciate a Diego Bianchi risalgono al 12 febbraio. Eppure sembra sia passato un secolo, perché in mezzo c’è stato di tutto. Un di tutto che equivale ad altre diciannove ospitate, finalizzate alla promozione della sua autobiografia. Quando Zoro intercettò Rocco nel pieno della crisi di governo ci parve un vero colpaccio. In effetti lo era. Casalino non parlava da anni, la sua voce veniva a malapena intercettata in qualche audio riservato, la sua figura – discussa e contestata – generava ovvia curiosità. Ma dallo scoop si è rapidamente passati ad uno scoraggiante effetto déjà vu che, col passare del tempo, ha ridotto l’appeal delle sue apparizioni. Propaganda a parte, il tour di Casalino comincia lunedì 15 febbraio a Otto e mezzo. Un evento confermato dai risultati eccellenti: 2,7 milioni e 10% di share. Poco dopo Rocco è pure a Quarta Repubblica, dove tiene botta alle domande a raffica di Nicola Porro. Martedì 16 altra doppietta: Di Martedì su La7 e Porta a porta in seconda sera su Rai 1, a cui seguono il giorno seguente L’intervista a Maria Latella per Sky Tg24 e la partecipazione – forse la più soft – ad Accordi e Disaccordi sul Nove. L’ex gieffino tira il fiato per settantadue ore e si riappalesa sabato 20 a Verissimo. Domenica 21 è la volta di Live-Non è la D’Urso dove, inevitabilmente, è costretto a rispolverare i ricordi dei 93 giorni vissuti nella casa di Cinecittà. Lunedì 22 Casalino è da Myrta Merlino a L’Aria che tira, mentre alle 19 sbarca al Tg4 per rispondere alle domande di Giuseppe Brindisi. Il 23 Rocco si supera e occupa la prima serata timbrando il cartellino a Le Iene, a Fuori dal coro e a Cartabianca. Dalla Berlinguer si trova di fronte ad un Bruno Vespa particolarmente agguerrito. Mercoledì a Stasera Italia Speciale viene accolto da Barbara Palombelli, poi nanna e sveglia presto perché giovedì mattina è il turno di Agorà. La giornata si conclude a Piazzapulita, con un faccia a faccia senza esclusione di colpi con Corrado Formigli. Decisamente la performance più azzeccata, almeno sotto il profilo televisivo. Finita qua? Manco per sogno, dal momento che Rocco venerdì 26 è a Mattino Cinque, per riapprodare in Rai nel weekend tra un Ciao Maschio (il 27) e Domenica In (il 28). Il calcolo ha un punto di partenza ma non un epilogo, visto che le tappe di Casalino ad oggi non conoscono conclusione. Il traguardo è stato pertanto fissato alla fine di febbraio, escludendo così dalla lista Striscia la Notizia. Sì, Rocco approderà alla corte di Antonio Ricci lunedì 1° marzo. Se volete divertirvi a proseguire col conteggio siete i benvenuti. Noi una mano ve l’abbiamo data.

È L'ANSA O LA PRAVDA DI CASALINO?  (ANSA il 28 gennaio 2021) Quasi duecentomila "like" e decine di migliaia di commenti, in gran parte positivi, "invadono" la pagina facebook del premier dimissionario Giuseppe Conte a meno di un'ora dal post con cui spiega le motivazioni del suo passo di lato. "Grazie presidente, un esempio per noi e i nostri figli", scrive Annalisa. "Presidente non molli, non faccia l'errore di riprendere in mano Renzi", aggiunge Giovanni. "Sei un signore, forse anche troppo per questo Paese scontato", incalza Francesco. "Il miglior presidente degli ultimi quarant'anni", chiosa Rosanna, tanto per fare alcuni esempi. Diversi anche i parlamentari, soprattutto di area M5S, che commentano sulla bacheca di Conte. "Caro Giuseppe, sono orgoglioso di averti dato la fiducia ad ogni provvedimento utile in Parlamento. Ti vogliono fare fuori, ma l'Italia onesta e' con te", scrive il deputato Michele Sodano. "Forza Presidente", aggiunge il senatore Andrea Cioffi. E da Antonio Lombardo a Davide Serrittella, sono numerosi i parlamentari 5 Stelle che danno il proprio sostegno a Conte.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 28 gennaio 2021. Cala il sipario a Palazzo Chigi. E Conte si appella al Paese. Torna alla comunicazione populista, adotta il format casaliniano in purezza, anche se l' idea originaria era quella di fare un video-appello alla nazione ma poi dev' essere sembrato troppo. E' parsa un' esagerazione che non sarebbe stata presa bene nelle alte sfere istituzionali, a cominciare dal Colle che è quello che dovrebbe ridare l' incarico all' Avvocato. Di nuovo Avvocato del Popolo. Nel post su Facebook, per appellarsi al Parlamento in cerca d' aiuto, per sollecitare in extremis quei voti in Senato che ancora non ci sono, ma di fatto bypassando la comunicazione tradizionale per mostrarsi alla «gente» come la vittima delle manovre politicanti, come il puro, laborioso e infaticabile in un mondo politico che ha paura dei migliori. Parla al Palazzo ma in realtà parla al popolo il premier dimissionato. Riscopre quella sua natura da Conte in gialloverde, quando diceva che «se rivolgersi al popolo è da populisti, ebbene io sono populista». Ora è in format salvatore della patria. I social come rifugio e come balsamo. Ma anche come ricominciamento. Ovvero: rivolgersi alla «gente» è il primo passo, per Conte per testare la propria popolarità e per vedere l' effetto che fa, nei like, il comune cittadini che si carica sulle spalle i destini della nazione ma viene azzoppato dalla politica più infida e irresponsabile. Il partito di Conte che ci sarà, oppure no, ha provato l' antipasto di ciò che potrebbe essere e si è proposto via post, pur non essendoci ancora in natura, per verificare in prospettiva le proprie potenzialità. Si è proposto come il San Sebastiano trafitto dalle frecce l' Avvocato del Popolo di ritorno. Ma sempre lui, non nel posto ma nel consiglio dei ministri ieri mattina, ha sfoggiato invece un format da politico consumato e da inquilino di Palazzo, come gli altri intento a litigare, a offendersi, a colpire, quando ha detto ai colleghi nell' ultima riunione a Palazzo Chigi per «un arrivederci che non è un addio»: «Renzi mi voleva buttare giù già un anno fa, prima della pandemia», avverte Conte rivolto a Franceschini, a Di Maio e agli altri. «E questo - aggiunge - dobbiamo tenerlo presente». Ovvero: attenti che se vi mettete con Renzi, lo scorpione prima o poi punge a morte anche voi e pensateci bene prima di passare da me a lui. Un Conte double face, dunque, nel giorno del congedo. Salvatore della patria nel post per i social e velenoso giocatore politico nel chiuso del Palazzo. Il Conte social vuole dire alla nazione che la sua partita è appena cominciata e chi mi ama mi segua. E più che un social-saluto è una social chiamata alle armi. Un po' da ultima spiaggia. L' amarezza e il rimpianto - «Abbiamo fatto cose inimmaginabili» - ma anche, appena sceso dal Colle, le iniezioni di coraggio e di combattività. Ed ecco il premier che, dopo aver visto la Casellati e Fico, s' immerge a Palazzo Chigi nel balsamo dei dispacci d' agenzia che gli dicono questo: «Swg, la popolarità di Conte non è stata scalfita dalla crisi». Un sorriso, sempre amaro, ma sorriso. Dunque facciamo il video-appello al popolo e sobilliamo le piazze, ammesso che esistano? No, la tentazione viene frenata. Anche perché è in corso una girandola di telefonate, in questo ultimo giorno che lui non intende come tramonto ma come possibile o improbabile nuova alba, ma tutto dipende dal responso dei responsabili che non sta proprio arrivando. «Allora ci sono? E quando escono allo scoperto questi volenterosi?», chiede Conte ripetutamente, fino a tarda notte. Con ansia crescente. Ma ha evitato, in una giornata così particolare, quei mini bagni di folla che si concede di solito, perché lo potrebbero inebriare e deconcentrare. Meglio il post populista. Accarezzando nella tasca la pistola del partito personale, quell' arma da fine del mondo ma a rischio cilecca.

Paolo Landi per ilsaltodellaquaglia.com il 2 febbraio 2021. Tra le tante anomalie italiane ce n’è una che fa almeno sorridere: nei così detti “talk show” politici di approfondimento ci sono giornalisti che intervistano giornalisti. Giornalisti cioè che si intervistano tra di loro. Se si guarda, per esempio, Envoyé Special su France 2 c’è un giornalista che intervista un politico, oppure un attore, o uno scrittore, di questi tempi spesso un medico. Daily Politics su BBC, per esempio, ha seguito il dibattito nazionale sulla Brexit intervistando economisti, industriali, esperti di import-export. Perfino nel frivolo The Talk sull’americana CBS c’è un giornalista che intervista un panel di cinque donne sulle storie del giorno, prendendole tra celebrity, personaggi televisivi, esperte di qualcosa. In Italia invece c’ è sempre un giornalista che si collega con un altro giornalista o che ha in studio un giornalista. E’ una pena, sintonizzarsi la sera su la 7 alle otto e mezzo, perché in quel talk in particolare, l’aggravante è che sono sempre gli stessi giornalisti ad essere intervistati. La stessa giornalista che intervista gli stessi giornalisti che ripetono le stesse opinioni, sulla stessa rete, tutte le sere: una specie di incubo, amplificato dalla conduttrice che ripete continuamente che “le spettatrici e gli spettatori non hanno capito”, “non so quanto le spettatrici e gli spettatori possano aver capito”, “vuole spiegare alle spettatrici e agli spettatori che forse non hanno capito…”. E via i microfoni aperti a certi Premi Pulitzer prevalentemente romani (la trasmissione viene registrata a Roma) ma anche qualche milanese, collegato dal tinello di casa sua. Se per caso o per errore c’è un politico di passaggio non gli si fanno domande che potrebbero far capire “alle spettatrici e agli spettatori” (che in genere capiscono poco, secondo quella conduttrice) che cosa pensa su determinate questioni. No, l’artificio retorico è quello di metterlo in condizioni di doversi difendere (da qualunque cosa o non si sa da che) perché questo è considerato il modo di fare giornalismo “incalzante” in quel provincialissimo contesto. Come mai questo proliferare di giornalisti intervistati da giornalisti? Hanno più tempo libero? Chiudono il giornale alle otto e mezzo proprio quando inizia quel talk? Costano meno? Non si capisce. Perché se proprio si volesse fare un servizio alle spettatrici e agli spettatori sarebbe meglio scegliere un argomento diverso ogni sera cercando di approfondirlo con esperti del settore sempre diversi, ogni sera. Certo, questo presupporrebbe una redazione che lavora, autori del programma curiosi di quello che succede nel mondo, una conduttrice meno presa da se stessa. Perché quello a cui si assiste è lo spettacolo, spesso isterico, che mette in scena giornalisti le cui opinioni si possono, volendo farsi del male, leggere tutti i giorni sui quotidiani sui quali scrivono. Forse i loro giornali vendono poco? E allora hanno bisogno di questo teatrino per esprimersi? Può darsi, ma noi spettatrici e spettatori che c’entriamo? Qui davvero non capiamo. Si può sempre cambiare canale ma, purtroppo, i giornalisti sembrano l’unica categoria (per altro rispettabilissima e alla quale anche io appartengo), disponibile a intervenire nei talk di approfondimento, su tutte le reti, commerciali e a canone pagato. Non si sfugge. Un’altra cosa che fa molto ridere i giornalisti stranieri sono le interviste fatte di corsa, inseguendo il malcapitato preso di mira, che spesso è un politico, ma altre volte è, per esempio, un truffatore o un mafioso. E qui le spettatrici e gli spettatori che non capiscono niente o poco, si ritrovano a operare una deduzione sincretica raffinatissima: politici, truffatori, mafiosi sono tutti uguali, tutti inseguiti dai giornalisti che vogliono estorcergli almeno una frase o un vaffanculo. Se un giornalista cerca di braccarti per strada o sei un politico, o un truffatore o un mafioso, che differenza fa? Per questo sarebbe meglio che almeno i politici adottassero il “metodo Cuccia”, procedendo dritti a testa bassa e affrettando il passo, per raggiungere al più presto il portone, senza dire una parola. Se i politici cominciassero a rilasciare dichiarazioni seduti al loro tavolo, avendo concordato l’intervista, si distinguerebbero subito dalle altre categorie che non possiedono uffici stampa e ai quali bisogna suonare al citofono, aspettarli al cancello, rincorrerli, per ottenere qualche volta un pugno sul naso ma quasi mai una dichiarazione utile a qualsivoglia inchiesta. Ecco i talk show italiani sono questo caravanserraglio, dove trovano posto scrittori montanari e scrittrici cittadine, topi di campagna e topi di città, per alimentare favole (o storytelling, come preferite) come quelle di una volta, mentre il mondo dell’ informazione corre verso il futuro, dove anche l’obsoleta televisione si svecchia e anche le scenografie degli studi si fanno digitali, e non sembrano più gelaterie di Riccione, ma soprattutto viene invasa da facce nuove, giovani, con begli sguardi limpidi, possibilmente con le sneacker ai piedi invece di un tacco dodici.

Otto e Mezzo, Vittorio Feltri demolisce Lilli Gruber: "Trasmissione penosa. Vai al posto di Zingaretti, così..." Libero Quotidiano il 29 gennaio 2021. Una puntata indigesta di Otto e Mezzo. Forse, ancor più indigesta delle altre. Insomma una puntata di record, quella condotta da Lilli Gruber su La7 ieri, giovedì 28 gennaio. In studio l'onnipresente Marco Travaglio, ormai in costante crisi di nervi poiché il suo cocco, Giuseppe Conte, sta finalmente per sloggiare da Palazzo Chigi. Dunque, il piddino Andrea Orlando. Infine, ovviamente, la Gruber, che nelle ultime settimane, quelle della crisi aperta da Matteo Renzi, si è svelata in versione "ultrà di Conte", insomma appiattita sulla linea-Travaglio. Dunque, per transazione, quasi più grillina che "compagna". Ed è proprio contro questa imprevedibile e indigeribile trasformazione di Lilli la rossa che punta il metaforico dito Vittorio Feltri. Il direttore dice la sua su Twitter durante l'indigesta puntata di Otto e Mezzo. E si spende in un consiglio al curaro per la conduttrice: "Propongo la Gruber segretaria al posto di Nicola Zingaretti - premette il direttore di Libero -. Così almeno la smette di fare la grillina. E di condurre una trasmissione penosa", conclude Feltri sparando ad alzo zero. Insomma, Lilli Gruber leader del Pd, due piccioni con una fava: ci si libera televisivamente di lei e la si fa tornare all'ovile, quello della sinistra. In settimana, ha fatto scalpore la "lista degli ospiti" della Gruber, ossia la graduatoria relativa alle presenza a Otto e Mezzo da settembre 2016 a gennaio 2020: in testa proprio Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano , che conta ben 184 presenze. A seguirlo, con 129 apparizioni, Beppe Severgnini del Corriere della Sera. Poco più dietro un'altra firma del Fatto, nonché altro strenuo sostenitore del governo giallorosso: Andrea Scanzi, copia sbiadita di Travaglio che conta 127 serate. Penserete voi che con Il Fatto Quotidiano è finita qui. E invece niente affatto. Al quarto posto (118 puntate) il fondatore del quotidiano, Antonio Padellaro. Insomma, un programma a senso unico.

PiazzaPulita, Augusto Minzolini durissimo contro Corrado Formigli: "Parodia, comico, telekabul. Sarebbe informazione?" Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. “Tutti i talk show della sera su La7 è roba tipo telekabul”. Augusto Minzolini non le manda di certo a dire ad alcuni colleghi della televisione. Stavolta nel suo mirino ci finisce PiazzaPulita, andato in onda nella serata di giovedì 4 febbraio: “Vedi la trasmissione di Corrado Formigli e trovi poche idee e confuse. Per cui alla fine più che programmi di informazione sembrano una parodia. Divertente come oggi le comiche”. Qualche giorno fa l’ex direttore del Tg1 se l’era invece presa con Lilli Gruber, sostenitrice neanche tanto velata di Giuseppe Conte e del Pd. “Vedi Otto e Mezzo e pensi di essere sbarcato su Marte”, aveva scritto in un tweet: “E chi ha paura di volare - aveva aggiunto - per avere le stesse sensazioni può prendere la macchina del tempo e tornare a 100 anni fa al tempo dei bolscevichi. Ormai rasenta la parodia”. Tornando a PiazzaPulita, ieri sera un Formigli non in formissima - ai social non sono infatti sfuggite le gaffe con Carofiglio, chiamato “Gianrica”, e con Mario Monti, confuso col professor Draghi - ha incentrato gran parte della puntata ovviamente sul nuovo esecutivo che sta per prendere forma. E lo ha fatto avvalendosi dell’opinione di Monti, secondo cui il governo Draghi sarà diverso dal suo: “È anche nell’interesse dei partiti sostenere questo governo perché, con le possibilità finanziarie che ha, dovrà segnare una rinascita dell’Italia. E chi ne rimane fuori non pensi di trarne un vantaggio politico. Chi è Draghi? Cerco di essere coinciso come lui: risoluto e risolutivo”. 

Da vigilanzatv.it il 27 gennaio 2021. Grazie ai dati pubblicati su Twitter dall'economista Riccardo Puglisi e raccolti dall'economista Tommaso Anastasia, abbiamo avuto conferma che, nel  periodo compreso fra il 2016 al  gennaio 2021,  le firme del Fatto Quotidiano risultano egemoni  rispetto a quelle delle altre testate. Tuttavia, dai dati pubblicati evinciamo un altro elemento. Fra i primi dieci ospiti, non è presente neppure una donna. Per trovarla bisogna scendere all'undicesimo posto con Marianna Aprile. E fra i primi ventisei, le ospiti sono solo cinque: la già citata Aprile, Annalisa Cuzzocrea, Lina Palmerini, Evelina Christillin, Antonella Viola. Un po' pochino per una conduttrice che insiste a ogni piè sospinto sull'importanza della rappresentanza Femminile nella società civile. Tanto da scriverci pure un libro al riguardo, dal titolo Basta! Il  potere delle donne contro la  politica del testosterone. Per il suo programma ad alto contenuto testosteronico questo assunto non vale?

Da vigilanzatv.it il 10 febbraio 2021. Anche dalla Berlinguer regna il Fatto Quotidiano, e le donne sono ben poche. Dopo aver analizzato la ricorrenza degli ospiti a Otto e mezzo su La7 riscontrando una preponderanza delle firme del Fatto Quotidiano, con Marco Travaglio in testa, e ben poche donne come segnalava anche Dagospia, gli economisti Riccardo Puglisi e Tommaso Anastasia si sono dedicati a #Cartabianca. E anche nel programma condotto da Bianca Berlinguer su Rai3 il martedì sera, il Fatto Quotidiano è risultato egemone nelle 105 puntate andate in onda dal settembre 2018, con ospite più ricorrente la sua firma di punta Andrea Scanzi - che la Rai ha definito "unico giornalista pagato nel programma" ma senza rivelarne i compensi al Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi che ne chiedeva conto in un'interrogazione. Da notare come i primi tre nomi, ovvero Scanzi, Maurizio Belpietro e Paolo Mieli, siano tutti rappresentati dall'agenzia Visverbi Visfacti legata alla Casaleggio & Associati, come abbiamo disquisito qui. La Visverbi Visfacti è legata anche come ufficio stampa al quotidiano La Verità, di cui Belpietro è direttore e Mario Giordano (altro ospite fra i più ricorrenti a #Cartabianca) è una firma. Elemento degno di nota: nelle prime diciotto posizioni le donne sono soltanto tre, Lucia Borgonzoni, Lucia Annunziata e Giorgia Meloni. Il politico più invitato risulta invece essere Manlio di Stefano del M5s. 

 

OSPITE

GIORNALE

PRESENZE

Andrea Scanzi

Il Fatto Quotidiano

64

Maurizio Belpietro

La Verità

43

Paolo Mieli

Il Corriere della Sera

21

Massimo Galli

Medico

20

Manlio Di Stefano

Movimento 5 Stelle

18

Mario Giordano

La Verità

17

Massimo Giannini

La Stampa

17

Massimo Cacciari

Filosofo

14

Lucia Borgonzoni

Lega

13

Matteo Salvini

Lega

12

Ferruccio De Bortoli

Il Corriere della Sera

12

Pierpaolo Sileri

Movimento 5 Stelle

11

 

 (Adnkronos il 27 gennaio 2021) - "Il caso degli opinionisti a pagamento nelle trasmissioni di informazione, rivelato dalla Rai sul compenso ad Andrea Scanzi ospite fisso a “Cartabianca” su Rai3, si allarga anche alle altre emittenti, come a La7. L'Agcom valuti se non sia opportuno un suo intervento per imporre trasparenza alle trasmissioni: rendere pubblico ai telespettatori, nei titoli di coda o in altre forme, chi sono gli ospiti a pagamento. Se un opinionista riceve un compenso, se va in trasmissione a seguito di un contratto e non semplicemente perché chiamato ad esprimere la sua opinione, è giusto che i telespettatori lo sappiano. Vista la reticenza del servizio pubblico e delle emittenti commerciali a fare chiarezza, intervenga l'Authority. Il presidente Lasorella e i commissari valutino di coinvolgere l'Ordine dei Giornalisti, chiedano un parere al Consiglio Nazionale". Lo scrive su Facebook il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi. "I dati pubblicati - prosegue Anzaldi- dall'economista Riccardo Puglisi (Lavoce.info) a proposito della trasmissione 'Otto e mezzo' su La7 mostrano che in 4 anni c'è stata un'assoluta predominanza di giornalisti del Fatto Quotidiano in trasmissione, con spazi addirittura doppi rispetto al Corriere della Sera (testata il cui editore Cairo è lo stesso de La7). Per i giornalisti del Fatto tra il 2016 e il 2020 ci sono state 474 presenze, per il Corriere 360, segue Il Giornale con 171, la Stampa con 114, la Verità con 110, Repubblica 109. Alla trasmissione di Lilli Gruber, tra i primi 5 giornalisti più presenti 3 sono del Fatto (Travaglio, Scanzi e Padellaro). Sono stati chiamati in base a contratti economici? C'è un accordo de La7 con il Fatto, oppure con i suoi singoli giornalisti. Sarebbe opportuno saperlo, anche perché in certi casi si fa fatica a distinguere tra opinionisti e supporter politici". (Clt/Adnkronos)

TALK SHOW ITALIA La crisi in diretta tv di salotto in salotto: tanti e specialmente inutili. Il balletto delle chiacchiere, delle rotture insanabili ma poi rimediabili al centro della Tv italiana. L’apice di questa follia editoriale consolidata delle apparenze è “Otto e mezzo”. Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 27 gennaio 2021. Il fondo monetario prevede crescita per tutti i Paesi salvo che per l’Italia che rischia di finire tra i Paesi spazzatura che non riusciranno neanche a incassare i famosi miliardi del Recovery Fund per la cui gestione tutti si accapigliano simulando il balletto delle crisi e dei rimbrotti e delle rotture insanabili ma poi rimediabili, con i gossip, le chiacchiere, il dietro le quinte e tutta quella spazzatura che sembra cronaca rosa che poi si canalizza nei raccoglitori di acqua piovana dei talkshow a cascata in cui si simula che accadano gli eventi, si dibatte sul nulla ma – questa la cosa più impressionante – tutto ciò avviene con l’uso di un tono mondano, da upper class fatua e vanitosa, in genere gestiti – i talk – da donne eleganti e attraenti che studiano ciò che preparano le redazioni alle loro spalle, e che poi passano da un ospite all’altro quasi sempre senza ascoltare o scovare le notizie, passando da un tipo di deferenza all’altro, in mille sfumature di sostanziale fatuità. Vorrei pregare i lettori di fare ciò che io come tanti faccio ogni giorno, basta avere una parabola: lo confesso e non datemi dello snob, oppure datemelo, non importa. Io dedico il poco tempo che dedico alla televisione davanti ai notiziari americani, inglesi, francesi – il tedesco purtroppo non lo so – e quando poi per dovere ricado sulle reti acchiappafarfalle italiane vengo preso da una insana allegria da teatro dell’assurdo, venata di vergogna. Ieri è stata certamente una giornata spettacolare anche perché, malgrado le tumultuose apparenze, non è successo assolutamente niente. Niente, malgrado le convulse cronache che seguiamo da giorni e che – potete giurarci– finiranno più o meno in nulla. Il Gattopardo non scherzava: che tutto cambi affinché tutto resti come prima è un comandamento serio. E le agenzie di rating hanno letto il testo di Tomasi di Lampedusa: nessuno si sta facendo incantare in questo momento in Europa e neanche nel mondo dallo spettacolo di una convulsione da parto isterico all’italiana, al termine dalla quale nascerà soltanto un fiotto di gas maleodorante. Ho fatto anch’io il giro di telefonate che fa ogni modesto cronista e mi sono reso conto che con grande probabilità tutta l’agitazione messa in moto dal carosello di Matteo Renzi finirà in un polverone. E che quando il polverone si sarà posato, tutto sarà più o meno come prima, ma più impolverato: quel che resta è l’Italia delle apparenze che è prima di tutto uno show: un talk show, un intrattenimento dapprima mattutino, da caffellatte e da fette biscottate, ora che la sosta al bar è sconsigliata con ospiti che si interrompono stimolati da conduttori che pensano ad altro e che si danno sulla voce e poi mandano in onda formano il corpo di una sarabanda che va avanti con scrupoloso senso della noia sfornando dei rotocalchi di robetta leggera e inutile, ma espressa con tono furbo. L’apice di questa follia editoriale consolidata o forse “Otto e mezzo” in cui ormai si vede Marco Travaglio che comanda, che indossa gli stivaloni, che dà e toglie la battuta alla Gruber la quale riassume, condensa e ripete l’ultima frase udita aggiungendo di suo un punto interrogativo finale per poi rilanciarla al prossimo cui tocca, il quale la riprende e bofonchia, e se è Massimo Cacciari spesso si vede che è stralunato e non sa più bene di che cosa stiano parlando. I salotti sono tanti Specialmente inutili. Anche i talk show. Eviterò di fare i nomi per pudore e anche rispetto. In fondo, i colleghi che guidano questo gioco di società lavorano per vivere e forse anche per la gloria, ma siamo sicuri che lo facciano come appare visibile speriamo anche per la carriera perché alcuni davvero la meritano. Tuttavia non posso evitare di dichiararmi attonito di fronte alla bravura di Myrta Merlino che affronta la politica come una sfilata di oggetti da presentare ed esprime opinioni, riassume opinioni, le rilancia come palle e le riprende e ride con Bersani, il quale mi fa personalmente ridere molto ma in modo tristissimo e tutta questa commedia dell’arte va avanti con gli stacchi pubblicitari, con i notiziari che si intervallano e poi ti accorgi che è passata la mano e che adesso c’è Tiziana Panella che è sempre molto elegante e di bella presenza ma si vede che anche lei ci ha preso giusto a trattare la politica come si può trattare una questione di vicinato, di casa, di famiglia e questo, devo dire con sconcertata ammirazione, avviene soltanto in Italia perché soltanto da noi abbiamo queste compagnie di giro con un gruppetto di direttori di carta stampata che invece sono su tutti gli schermi e si succedono, si aggrovigliano, si salutano e ammiccano, e tutti in fondo stanno attenti a non darsi sulla voce o almeno di non spiacersi, a meno che non siano degli assenti, oppure ospiti fissi di altre trasmissioni e in ogni caso si va sempre per vie gerarchiche, per autorevolezze, con quegli inviati bagnati fuori per le strade di Roma che praticano questo wrestling che simula il giornalismo e che consiste nel correre dietro il politico che finge di non vederti e quello o quella correre parla e dice parole inutili e cerca di strappare qualsiasi cosa e mostra devozione e irritazione e il politico se gli gira si gira e dice qualcosa come gli capita e nessuno sente bene quel che dice e tutti lo riprendono letteralmente da ogni postazione e risponde a studio con un immancabile “assolutamente sì”, che è come uno sissignore e tutto va avanti in caciara. Ma quel che colpisce e schiaffeggia è il tono amichevole, leggero e confidenziale che emerge e dai talk fin dal primo mattino in studio. Toni fatui, salottieri, ai limiti del flirt. I retroscena e le ipotesi sono banali e fatti di chiacchiericcio un tanto al pezzo. Come ho detto all’inizio, dopo aver vissuto a lungo negli Stati Uniti ho contratto il vizio delle News, cioè dei telegiornali fatti l’uno in concorrenza dell’altro, per contendersi il pubblico. Ho scaricato anche una applicazione, molto diffusa, che si chiama “Ground News”, che non si limita a dare le notizie, ma ti informa anche quali e quanti giornali e telegiornali fanno le notizie con le percentuali delle testate di destra o di sinistra, non solo in America ma anche in Australia, Francia, Inghilterra, Germania. In ogni Paese ci sono giornali e telegiornali e le “Breaking News” che sarebbero le edizioni straordinarie ma che anche da noi sono diventate le notizie qualsiasi. Chiedo scusa, sono affranto. So che cosa è successo e che cosa succederà: niente. E che cosa vi hanno fatto capire: niente. Riavrete, riavremo lo stesso governo o uno simile e il che poteva essere fatto prima, ma era importante che questa pagliacciata si facesse per dar modo a tutti di fare piccolo gruppo, piccolo salotto, piccolo mondo antico, un apericena, una chiacchierata a viso vuoto  e a occhi spenti, a parole inutili mentre la trattativa va avanti senza incontrare altri ostacoli che il Paese che sta per essere declassificato a spazzatura pura, mentre finora avevamo un discreto rango di spazzatura rivedibile, con qualche pepita. Fine di un’illusione, il talk continua. 

Liberoquotidiano.it il 23 gennaio 2021. «La crisi non ci voleva e Conte fa bene a cercare i responsabili». Se leggendo il Corriere della Sera qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi su quale sia la sua posizione, Urbano Cairo, presidente di Rcs, La7 (e del Torino), ha messo le cose in chiaro a Un giorno da pecora, su Rai Radio1. «Non era il momento in cui fare una crisi di governo», ha spiegato Cairo. «Non capisco Renzi che aveva anche ottenuto delle cose. Per esempio, se la crisi era generata dal fatto che il Recovery Plan non distribuiva le risorse in modo giusto, nel momento in cui le cose cambiano non vedo perché fare la crisi». A questo punto, secondo l'editore alessandrino Conte fa bene a cercare di puntellare il suo esecutivo: «La stabilità è un bene importante in questo momento. Io andrei avanti fino a fine legislatura. Credo che potrebbero rinforzare la squadra di governo per potenziarsi e essere pronti nella fase della rinascita e dell'utilizzo dei fondi», ha concluso Cairo.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 17 gennaio 2021. Venerdì sera, Matteo Salvini è stato ospite in collegamento a Titolo V, il programma di approfondimento politico di Rai3. In studio, oltre alla conduttrice, era presente Simona Sala, direttrice del Giornale Radio Rai 1, che con il leader della Lega si è scontrata sul tema delle manifestazioni pacifiche dei ristoratori, che proprio venerdì hanno sollevato le loro saracinesche in protesta con i provvedimenti di Giuseppe Conte. Una rimostranza civile, contraria alla legge, che si è però conclusa entro le 21.45, in modo tale da rispettare le indicazioni fornite sul coprifuoco. Matteo Salvini ha appoggiato la protesta dei ristoratori, che non ha causato alcun disordine ma questo è stato oggetto di discussione con Simona Sala, che nella sua critica ha menzionato anche Donald Trump e i fatti di Capitol Hill. "In questo momento in cui le persone sono davvero disperate, forse appoggiarle nella decisione di non rispettare la legge è un cavalcare una rabbia giusta. Sappiamo che cavalcare la rabbia può portare a delle cose, come abbiamo visto a Capitol Hill. Senza arrivare a quello, però le persone sono d'accordo con lei, sono disperate", ha detto Simona Sala, scomodando un quasi parallelismo eccessivo tra quanto accaduto in Italia e quanto accaduto a Washington. I ristoratori italiani hanno alzato le saracinesche delle loro attività per lavorare, in protesta con un governo che, pur avendo chiuso e bloccato di fatto la loro fonte di guadagno, non ha garanito loro il sostegno adeguato. La risposta di Matteo Salvini non è tardata: "Tirare in ballo quello che è successo al parlamento americano non le fa onore. Lei dirige la radio pubblica con il canone dei cittadini. Paragonare quello che accade in Italia alle scene vergognose che abbiamo visto negli Stati Uniti è una sciocchezza". Simona Sala ha proseguito ad accomunare la due realtà. In più di un'occasione la conduttrice è dovuta intervenire per richiamare all'ordine la direttrice, in modo tale da lasciare Matteo Salvini libero di concludere la sua argomentazione senza essere interrotto. "Questi lavoratori stasera hanno aperto perché il governo italiano, il governo Conte amico di Trump, perché io ricordo che il governo Conte è stato confermato con i voti di Renzi e gli applausi di Trump, a differenza della Merkel e di Macron, non ha dato i soldi che doveva agli imprenditori ai commercianti e agli artigiani. È questa la fondamentale differenza. Perché se voi chiedete a uno dei ristoratori che stasera ha aperto rischiando il suo: 'Se il governo italiano ti avesse dato l'80% del fatturato, come il governo tedesco, stasera avresti aperto o saresti rimasto a casa con la tua famiglia?'. Sarebbero rimasti a casa". Quindi, Matteo Salvini ha proseguito: "Milioni di piccoli imprenditori, artigiani, partite Iva e liberi professionisti, che grazie al centrodestra non pagheranno i contributi previdenziali nel 2021, sono costretti a scegliere se fallire e non avere più il pane da portare a casa ai loro figli, o lottare per lavorare". "Avete seguito su Rai Tre a #TitoloV? L’arroganza, i sorrisini e i comizietti faziosi di certi giornalisti della 'tivù pubblica' non finiscono mai di stupirmi. Salvini pericoloso, brutto e cattivo come Trump...!!! La pazienza è la virtù dei forti", ha scritto Matteo Salvini subito dopo la chiusura del collegamento con Titolo V, scatenando l'ira dei suoi sostenitori indignati per quanto visto. Il tweet del senatore, però, non è piaciuto all'Usigrai e alCdr del Giornale Radio Rai1, che si sono scagliati contro Matteo Salvini: "Esprimiamo sdegno per i messaggi di odio contro la direttrice, Simona Sala, pubblicati sul web a seguito del confronto televisivo di ieri con il leader della Lega, Matteo Salvini, e a seguito del tweet pubblicato dallo stesso Salvini in chiusura di trasmissione. Fare le domande è parte essenziale del lavoro di tutti noi giornaliste e giornalisti della Rai Servizio Pubblico. E, ci spiace per il leader della Lega Matteo Salvini, le domande continueremo a farle. E certo non intimidisce nessuno la "Bestia" scatenata ad arte con un tweet contro la direttrice del Giornale Radio e di Radio 1, Simona Sala, alla quale va la nostra solidarietà".

Mariano Sabatini per “Libero quotidiano” il 15 gennaio 2021. Ha imparato a leggere sui giornali, Vittorio Feltri. Già alle elementari comprava i quotidiani e si beveva la cronaca nera e sognava di vedere la sua firma sotto agli articoli. Per motivi di sopravvivenza da giovane fece diversi altri mestieri, tra cui «il fannullone in un ente pubblico dove avevo vinto un concorso senza merito. Ero di ruolo, ma a ventiquattro anni ho mollato tutto e sono diventato praticante alla Notte. Non avrei potuto campare a lungo fuori da una redazione».

Cominciò, pur di cominciare, con le recensioni dei film.

«Mi sono occupato anche di sport. Ma la mia vocazione era un' altra: raccontare i fatti della gente. Ci sono riuscito. E continuo anche se ho compiuto 77 anni. Vorrei morire alla macchina per scrivere giacché non uso il computer».

La sua prima redazione da interno?

«Mi sembrava una sacrestia, un silenzio opprimente. Seduto alla scrivania più grande, il capocronista con gli occhiali sulla fronte. Mi osserva e dice: "Perché sei venuto qui, non sai che questo mestiere è finito" "Sarà per questo che mi piace" gli risposi con un sorrisino imbarazzato. Scosse la testa e borbottò: "Allora non ti pentirai"».

Gli aspetti piacevoli e quelli sgradevoli del mestiere?

«Parlo per me: è piacevole che il lavoro coincida con l' hobby. Avere la responsabilità del lavoro altrui è un peso, e una seccatura. Ma la cosa che più mi scoccia è ascoltare le lagnanze dei colleghi frustrati, quasi tutti. Ne incontro ogni giorno. In ogni caso ho sofferto molto al Corriere della Sera, agli inizi: volevo fare l' inviato e invece mi toccava stare in redazione, una noia. Poi ce l' ho fatta ed è stato bello. Perfino esaltante».

Giornalisti "casta stampata"?

«I giornalisti non sono tutti uguali perché la natura non è democratica. Alcuni diventano famosi e fanno parte di una casta. La moltitudine consuma i propri giorni rodendosi l' anima e parlando male di chi ha sfondato».

Ha mai fatto una marchetta?

«Naturalmente, sì. Non sono un marziano, vivo da uomo in questo mondo e ho tutti i problemi dei miei simili. Nessuno è innocente. Nessuno è vergine».

Alcol, fumo, sregolatezze dei giornalisti al cinema?

«I giornalisti dei film sono macchiette o caricature. La realtà è un' altra cosa».

La sua giornata di lavoro?

«Mi alzo tardi perché mi corico presto, non è un errore. La mattina leggo un paio di giornali. Poi vado a Libero. Riunione. Telefonate. Pranzo. Rientro alle 15.30. Telefonate. Conversazioni coi collaboratori. Pianificazione della prima pagina. Nuova riunione. Ultimi ritocchi. Infine scrivo e do un' occhiata ai pezzi più importanti. Faccio tre o quattro titoli della prima. Cena. Divano. Letture varie. Un po' di tivù e nanna. Mi manca il saio per essere un frate».

La sua mazzetta di giornali?

«Ne sfoglio una decina e di solito mi rompo le palle. Arrivo in fondo a un pezzo non più di cinque volte al dì».

Dove le piace scrivere?

«Al mio tavolo. Ma scrivo ovunque. Anche in auto su un taccuino da stenografo, con la biro».

Cosa ha imparato da quelli che considera suoi maestri?

«A scrivere si impara leggendo, preferibilmente i fuoriclasse. Ma non si è mai imparato abbastanza. Nella confezione del giornale aiuta parecchio l' esperienza e aver lavorato accanto a colleghi bravi: Nino Nutrizio, Gino Palumbo, Franco Di Bella, Tino Neirotti. Ovviamente adesso ci metto del mio».

Gli errori più gravi agli esordi?

«Cercavo a ogni costo la bella scrittura e cadevo nella ampollosità. Sono guarito presto».

La prima soddisfazione?

«Riscuotere il primo stipendio, il doppio rispetto a quello di un impiego pubblico».

Scoop a ogni costo?

«Il nostro dovere è pubblicare le notizie. Va da sé che se sono inedite è meglio. Se nella routine capita lo scoop, la gioia è grande. Chi non cerca lo scoop è giornalista a metà».

Il suo scoop più grande?

«Sono direttore da oltre trent' anni. Il mio compito non è quello di scarpinare alla ricerca delle "bombe". Semmai sono fiero delle tirature dei giornali che ho diretto».

Chi stima tra i colleghi del passato?

«I morti erano tutti molto bravi. I vivi un po' meno. Apprezzo molto Scalfari e Pansa, due santoni. I santini non li cito per evitare di dimenticare i più meritevoli».

Diplomatico.

«Non disprezzo nessuno. Ogni bottiglia dà il vino che contiene, l' importante è che non sia aceto».

Come si diventa una firma?

«Conquistando la fiducia dei lettori. Occorre temperamento e un pizzico di talento. Il resto viene da sé».

Per scrivere il suo pezzo come procede?

«Lo scrivo e basta. Talvolta preparo una scaletta. Rileggo e taglio qualcosa, di solito aggettivi, avverbi e qualche relativa».

Quante volte rilegge prima di dare il "visto, si stampi"?

«Una volta subito. Poi una seconda. Chiedo sempre a un collega di passarlo. Non si sa mai. L' errore può sempre capitare».

Per le ricerche?

«Non so navigare su internet. Consulto dei libri in caso di vuoti di memoria».

Quella dell' inviato è ancora una figura mitica, bramata, ammirata?

«Non ho mai promosso alcuno a mito. Tra gli inviati ci sono sempre stati e ci saranno sempre degli ottimi giornalisti e dei fessi patentati. Come in qualsiasi altra categoria. Mi fanno tenerezza quelli che vorrebbero andare alla guerra e ignorano che le guerre ormai non si combattono in trincea o sul campo, ma coi missili e gli aerei supersonici, e se vai sul posto non vedi un accidenti».

Perché si fanno sempre meno inchieste?

«Questo è un luogo comune. Di inchieste se ne sono sempre fatte poche. Il giornalismo italiano è basato sulle idee più che sui fatti. Non siamo anglosassoni. Ogni Paese ha la sua tradizione: la nostra è questa».

I fatti sempre separati dalle opinioni?

«Chi scrive, come chi parla, è obbligato a filtrare le parole attraverso il proprio senso critico. Inoltre i giornalisti riferiscono cose sentite dire.

Insomma, la scelta stessa dei vocabolari usati per raccontare rivela un' opinione».

Come sceglie l' attacco giusto?

«Non ho mai avuto il problema dell' attacco. Scrivere è come telefonare. Si comincia da ciò che preme dire. Non c' è bisogno di costruire con effetti speciali quando si ha qualcosa da comunicare. Un buon attacco e una buona chiusa, se non c' è in mezzo un buon pezzo, non ha senso».

Giornalisti - cani da guardia del potere?

«Spesso sono soltanto cani».

Le doti caratteriali o psicologiche di un buon giornalista?

«Non credo alla psicologia d' accatto, non fa per me. La curiosità è fondamentale. Il talento conta il 10%. Per diventare grandi in ogni campo serve temperamento».

Fallaci o Capote, chi ha dato di più al giornalismo?

«Oriana Fallaci amava Truman Capote. Io amo entrambi. Non scelgo.

I suoi "ferri" del mestiere?

«Uso la macchina per scrivere, il taccuino dello stenografo è l' alternativa di fortuna. Di macchine ne ho una dozzina tutte restaurate. Il problema sono i nastri. Quando ne trovo faccio incetta».

Meglio saper scrivere o scovare le notizie?

«Trovare le notizie e non saperle scrivere è come non averle trovate».

Quando un articolo è perfetto?

«La perfezione non c' è. Mi sono rassegnato: un buon articolo che non annoi è già un ottimo risultato».

Un' intervista?

«È un genere che non amo. Ovvio, se suscita clamore perché contiene notizie e commenti non scontati, la pubblico volentieri».

L' italiano giornalistico?

«Lo stesso che usi quando parli al telefono con tua moglie».

Bisogna limitare gli aggettivi?

«L' aggettivo azzeccato non disturba, anzi aiuta. L' orgia degli aggettivi è disgustosa».

Internet rappresenta il futuro del giornalismo?

«Nel mio futuro c' è una tomba. Internet per ora è una discarica. I giornali finché l' uomo andrà al cesso saranno insostituibili».

In questo mestiere contano le raccomandazioni?

«Ho cominciato con una raccomandazione, avevo 18 anni. Un mio professore di italiano e latino telefonò all' Eco di Bergamo e mi fece avere una collaborazione: critico cinematografico di rincalzo. Non ero capace. Però cominciai a stare un po' in redazione e non ne sono più uscito. Quel professore era un prete. È per lui che sono l' unico ateo clericale del mondo».

Fare i giornalisti è sempre meglio che lavorare?

«È l' unico lavoro che faccio volentieri. Finché non mi mandano via, di qui non mi muovo».

Si smette mai di essere giornalisti?

«Io sono giornalista anche quando dormo. Nei miei sogni compare sempre un quotidiano, un titolo, una tipografia».

Nella storia del mestiere come si colloca?

«Questo mestiere mi ha permesso di avere più di quanto abbia dato. Ne sa qualcosa la mia famiglia. Credo possa bastare. A Bergamo dove sono nato non mi dedicheranno neanche un vicolo. Giustamente».

Bisogna «trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose gravi» sosteneva Camilla Cederna. È sbagliato?

«È un paradosso, come tutti i paradossi è una verità acrobatica. La condivido».

Consiglierebbe a un giovane di fare il giornalista?

«Non do mai consigli non richiesti. Anzi, non do consigli. Al massimo do una mano a chi ne ha bisogno».

Lei cosa dice ai giovani giornalisti che prendono servizio al giornale?

«Dico che li assumerò dopo aver maturato la certezza che non sono cretini».

Il suo motto professionale?

«Meglio guadagnare copie con un articolo così così che perderne una con un capolavoro».

DAGOSPIA il 21 gennaio 2021. PERCENTUALE DI AMERICANI CHE SI FIDANO DEI MEDIA TRADIZIONALI. Felix Salmon per axios.com il 21 gennaio 2021. La fiducia nei media tradizionali è scesa ai minimi storici, e molti professionisti del settore delle news sono determinati a fare qualcosa al riguardo. Perché è importante: La fede nelle istituzioni, specialmente nel governo e nei media, è il collante che tiene insieme la società. Quel collante si stava visibilmente dissolvendo già un decennio fa, e ora, per molti milioni di americani, è scomparso del tutto. Secondo i numeri: Per la prima volta in assoluto, meno della metà degli americani ha fiducia nei media tradizionali, secondo i dati del barometro annuale della fiducia di Edelman condivisi in esclusiva con Axios. La fiducia nei social media ha raggiunto il minimo storico del 27%. Il 56% degli americani è d'accordo con l'affermazione "I giornalisti e i reporter cercano di proposito di ingannare la gente dicendo cose che sanno essere false o grossolane esagerazioni". Il 58% pensa che "la maggior parte delle testate sia più interessata a sostenere un'ideologia o una posizione politica che a informare il pubblico". Quando Edelman ha sondato nuovamente gli americani dopo le elezioni, le cifre si sono ulteriormente deteriorate, con il 57% dei democratici e solo il 18% dei repubblicani  che si fidano dei media. Il quadro generale: Questi numeri hanno un'eco in tutto il resto del mondo: Non sono per lo più una funzione della guerra di Donald Trump alle "fake news". Come dice Heidi Larson (antropologa e fondatrice del Vaccine Confidence Project, ndD), "non abbiamo un problema di disinformazione, abbiamo un problema di fiducia". Le testate giornalistiche  si sono storicamente basate principalmente sulle entrate pubblicitarie, e mentre quei dollari confluiscono sempre più verso Google e Facebook, questo ha creato una debolezza istituzionale che si riverbera nei dati sulla fiducia. Invertire il declino è un compito mostruoso – un compito che alcuni giornalisti e testate stanno cercando di sobbarcarsi, ma avranno bisogno di aiuto - forse dagli amministratori delegati delle grandi società americane. Il problema: La sfiducia nei media è ormai parte centrale dell'identità personale di molti americani - un “articolo di fede” che non può essere messo in discussione. Cosa stanno dicendo: Secondo l'ex direttore del Financial Times Lionel Barber per riconquistare la fiducia del pubblico che legge serve un “factual reporting”, un’informazione legata ai fatti e alla concretezza. Axios ha la dichiarata missione di "aiutare a ripristinare la fiducia nelle notizie basate sui fatti". Margaret Sullivan, editorialista dei media del Washington Post, scrive che "il nostro obiettivo dovrebbe andare oltre il semplice mettere di fronte al pubblico un’informazione veritiera. Dovremmo anche fare del nostro meglio per assicurarci che sia ampiamente accettata". Come funziona: I media possono continuare a riportare fatti affidabili, ma questo da solo non cambierà la tendenza. Ciò che è necessario è che le istituzioni di cui le persone si fidano si stringano attorno ai media. E I CEO (che sono ormai il quarto ramo del governo americano) sono in cima alla lista delle istituzioni di cui le persone si fidano. Secondo i numeri: Il 61% degli elettori di Trump dice di fidarsi dei CEO. In confronto, solo il 28% si fida dei leader del governo e solo il 21% dei giornalisti. Morale della favola: Gli amministratori delegati si sono a lungo proposti come le persone in grado di aggiornare le infrastrutture fisiche dell'America. Ora è il momento per loro di usare la fiducia che hanno costruito per aiutare a ricostruire la nostra infrastruttura civica.

Sì, questa è la Bbc. Storia, gloria e qualche polemica sulla regina dell'informazione britannica ora messa al bando dalla Cina e da Hong Kong. Enrico Franceschini su La Repubblica il 12 febbraio 2021. “This is London”. Da quasi un secolo queste tre parolette evocano il migliore servizio di informazione radiotelevisivo al mondo: la British Broadcasting Corporation, più comunemente nota con l’acronimo Bbc, soprannominata dagli inglesi “auntie”, zietta, perché per loro è come una persona di famiglia. Ma per tutti gli altri, in ogni continente, è stata spesso l’unica voce imparziale di cui fidarsi per avere notizie locali o internazionali. Come ben ricordano corrispondenti esteri e inviati speciali che, prima dell’avvento di telefonini, internet e social media, cercavano su una radiolina a onde corte le sue trasmissioni, magari dal folto di una giungla o nel bel mezzo di un colpo di Stato, per sapere cosa stava succedendo nel resto del pianeta. Messa al bando questa settimana in Cina, come evidente ritorsione per lo scoop di uno dei suoi giornalisti sugli stupri subiti dalle donne degli uiguri, la minoranza islamica chiusa da Pechino in campi di concentramento e di “rieducazione” di massa, una censura che ha suscitato irate proteste nel governo britannico e pure a Washington, l’emittente pubblica britannica merita un posto a parte nella storia dei media globali. È stata la prima in assoluto a fare trasmissioni radiofoniche, a partire dal 1922. La prima in Europa a fare trasmissioni televisive, dal 1936. Il primo network televisivo ad avere un sito su internet, oggi uno dei più visitati della terra. E soprattutto era e rimane un punto di riferimento per l’eccellenza e l’obiettività dei suoi programmi giornalistici.

Radio Londra. Gli italiani l’hanno conosciuta durante la Seconda guerra mondiale, quando i notiziari nella nostra lingua di “Radio Londra”, letti dal famoso colonnello Harold Stevens, soprannominato “colonnello Buonasera”, e ascoltati clandestinamente dalla popolazione, smentivano la propaganda fascista, offrendo l’unico mezzo per apprendere come stava realmente procedendo il conflitto. Con un totale di 22 mila dipendenti, oltre che sul territorio del Regno Unito oggi la Bbc trasmette in 28 lingue, tra cui russo, arabo, persiano e – fino al divieto di questi giorni – cinese.

Finanziata dal canone. A differenza di altri servizi pubblici radiotelevisivi, come per esempio la Rai in Italia, la Bbc è finanziata esclusivamente dal canone, ovvero dall’abbonamento annuale che i cittadini britannici devono fare per poter guardare la tivù. Non ha dunque alcuna interruzione pubblicitaria, né nei suoi programmi di informazione né in quelli di intrattenimento, tranne che sul Bbc World Service, il canale televisivo internazionale, dove l’abbonamento è evidentemente impossibile, che si finanzia invece attraverso la pubblicità. Nel corso del tempo ha enormemente arricchito la sua programmazione: ora ha una decina di canali televisivi e mezza dozzina di canali radiofonici, tra cui canali dedicati esclusivamente alle news, alle cronache parlamentari, alla musica, allo sport, in aggiunta a una ricchissima e variamente articolata sezione web, a programmi interattivi e in streaming. Il suo costante rinnovamento e progresso tecnologico ha avuto grande influenza su altri media, indirettamente e perfino direttamente, in quest’ultimo caso quando dieci anni or sono il suo direttore generale Mark Thompson si è trasferito dall’altra parte dell’Atlantico come amministratore delegato del New York Times, completandone con successo la transizione al digitale.

Un simbolo di eccellenza. Film, serial, concerti quali i tradizionali e seguitissimi Prom estivi, talk-show e spettacoli della Bbc sono dei classici per il pubblico britannico, alcuni dei quali lo accompagnano da decenni. Ma in patria e pure nel resto del mondo è in particolare l’informazione giornalistica a rappresentare la Bbc al suo meglio, il simbolo di un’eccellenza senza rivali, perlomeno nell’ambito radiotelevisivo. Naturalmente non sono mancate le controversie. 

Le controversie. Durante la guerra in Iraq, all’epoca in mano a dirigenti di provata fede laburista nominati dal primo ministro e leader del Labour Tony Blair, la Bbc accusò il governo di avere “sexed up”, alla lettera “reso più sexy” ovvero gonfiato, il dossier dei servizi segreti britannici sulle armi di distruzione di massa di cui sarebbe stato in possesso Saddam Hussein, la ragione citata da Downing Street per partecipare al conflitto accanto agli Stati Uniti. Inchieste e processi smentirono l’accusa, assolvendo Blair e i suoi collaboratori, provocando dimissioni e licenziamenti alla Bbc dei giornalisti e dei dirigenti che avevano lanciato le accuse. Ma anche quella vicenda è in fondo una prova di imparzialità: in quale altro paese del mondo, una emittente pubblica diretta da persone legate al governo avrebbe mosso accuse così gravi al capo del governo? Oltretutto, poi risultò che le armi di distruzione di massa in Iraq non c’erano: ed è rimasta l’impressione che i consiglieri di Blair, nella fattispecie il suo “spin doctor” Alastair Campbell, avessero in qualche modo confezionato il dossier dei servizi segreti per farlo apparire più accusatorio nei confronti di Saddam, sebbene nessuno sia stato in grado di provarlo a livello giudiziario.

La Brexit. Polemiche più recenti sono scoppiate sulla Brexit, sul razzismo, sul terrorismo, sul cambiamento climatico, ma di tutt’altro genere: la Bbc è stata accusata di essere troppo politicamente corretta, ovvero di mantenere una equidistanza eccessiva fra due posizioni antitetiche, talvolta a dispetto di quella che appare come una verità inconfutabile. Durante la campagna per il referendum sulla Brexit, per esempio, ha finito per riportare cosa dicevano i brexitiani e cosa dicevano gli anti-brexitiani, senza sempre mettere in evidenza che una certa propaganda, per lo più da parte brexitiana, diffondeva affermazioni false o poco credibili. Un atteggiamento che ha pesato sull’esito della consultazione referendaria, aiutando la Brexit a prevalere. Posizione che, dopo avere ricevuto molte critiche, si è evoluta durante la parte finale dell’amministrazione di Donald Trump, quando i tweet menzogneri del presidente hanno cominciato a essere accompagnati da precisazioni della Bbc che lo smentivano.

Gli eccessi del politically correct. Anche questo eccesso di “politically correct”, tuttavia, è un sintomo dell’attaccamento quasi religioso della Bbc al presentare i fatti con "fairness" come si dice in inglese, con equità e correttezza. C’è pure, ironizzano alcuni commentatori, una punta di moralismo: durante la diretta del secondo impeachment di Trump, nei giorni scorsi, ogni volta che andava in onda un video in cui gli assalitori del Congresso dicono qualche parolaccia, a Londra veniva azzerato il volume. Non per nulla gli inglesi la chiamano “zietta”: è facile immaginarla come una parente un po’ anziana, molto onesta e integerrima, ma leggermente all’antica su certe cose. Per quanto sia al contrario molto spregiudicata, quando non si tratta di giornalismo: i suoi film e le sue serie descrivono senza complessi le situazioni più scabrose, calpestando ogni tipo di tabù. Tanto da scatenare lettere di protesta dei telespettatori più perbenisti, che la Bbc riporta, dando loro voce, ma senza cancellare il programma.

Troppo liberal o troppo di destra? Nella sua storia è stata più volte accusata di essere troppo liberal, cioè troppo di sinistra: Margaret Thatcher la considerava un infido avversario, lo stesso Boris Johnson ha tramato per metterci ora a capo un ex-conservatore come direttore generale, Tim Davies, che tra i suoi primi provvedimenti ha ordinato a tutto il personale di astenersi dal prendere posizioni politiche in pubblico. Ma altri, come Owen Jones, un columnist molto di sinistra del Guardian, la accusano viceversa di essere troppo di destra, citando il ruolo chiave che vi ha avuto per molti anni Andrew Neil, uno dei suoi giornalisti più noti e più popolari, adesso passato a dirigere una nuova tivù finanziata da Rupert Murdoch che ambisce a diventare la Fox News d’Inghilterra. Eppure, proprio questo è il giornalista da cui Boris Johnson si è rifiutato di farsi intervistare durante la campagna per le elezioni del dicembre 2019: perché aveva paura delle sue domande. Neil sarà anche indubbiamente un conservatore nell’animo, ma in un faccia a faccia con il premier dei Tories lo avrebbe torchiato senza pietà, come fa con chiunque. Perché questa è la Bbc. Perciò quelle tre parolette, “this is London”, fanno tremare la Cina al punto da metterle al bando. La British Broadcasting Corporation è insomma unanimemente giudicata uno dei pilastri della società britannica e il miglior volto del Regno Unito. Da qualche tempo circola il timore che tagli e manovre politiche tenteranno di limitarla, controllarla o perfino distruggerla. Per il bene degli inglesi e di tutti noi, parafrasando il motto riservato alla regina, bisogna davvero augurarsi che Dio salvi la Bbc.   

Tony Damascelli per “il Giornale” il 3 gennaio 2021. Non c'è più la Bbc di una volta. Lo scrive il Times ed è come l'ultima sentenza, quella della Cassazione. Finiti i tempi eroici, i favolosi anni Venti, quando i due primi bollettini informativi vennero trasmessi da casa Marconi nello Strand, essi includevano i dettagli dell'apertura delle sessioni del tribunale penale, un discorso del leader conservatore Bonar Law, le conseguenze di un «incontro turbolento» che coinvolgeva Winston Churchill, una rapina a un treno, la vendita di un primo opuscolo shakespeariano, nebbia a Londra - e «gli ultimi risultati del biliardo». In verità non è che sia cambiato molto sull'isola di Elisabetta, compresi i Windsor, la guida a destra e il Big Ben. Ma oggi l'informazione corre velocissima, i fogli boulevard di mister Murdoch e i siti internet insieme con tutti le altre forme di comunicazione hanno «delegittimato» la British Broadcasting Corporation che tale resta per una fetta minoritaria degli inglesi, anzi della capitale e ancora di più del centro di Londra, dunque il ceto più facoltoso, quello che nulla sa di Brixton ma molto di Eaton. Il Times ha accertato questa caduta dell'impero radiotelevisivo, già il Financial Times aveva denunciato la casta di dirigenti superpagati là dove il marchio di superiorità morale del network era venuta meno, il suo ruolo di bandiera della libertà durante la seconda guerra mondiale in un contesto politico e storico totalmente diverso dal resto d'Europa, l'isola e le sue caratteristiche, i Windsor, il Commonwealth, uno scenario quasi esclusivo come viene illustrato dai corrispondenti dei nostri network che riportano, da Londra, notizie esclusivamente legate a Londra e alla casa reale, come se il resto non esistesse. Così, per qualcuno, avrebbe dovuto essere, in eterno, la Bbc, voce unica, affidabile, credibile, incontestabile. Ma la nebbia sul canale avvolge anche Portland Place, esempio di stile Art Deco e il sondaggio effettuato dal Times conferma la tendenza degli utenti. Stando alle risposte fornite, sarebbe venuta a mancare la qualità dei programmi, i palinsesti si sarebbero piegati alle richieste di mercato commerciale, quasi temendo la concorrenza delle altre televisioni, lo stesso errore che viene addebitato alla Rai che, rispetto a Bbc, paga il dazio dell'asservimento ai partiti politici nella distribuzione di cariche e incarichi. La crisi è aperta da tempo, per motivi generazionali, accentuata dalla severe critiche di Boris Johnson per le posizioni contrarie alla Brexit che hanno puntualmente caratterizzato i talk show radiofonici e televisivi. Contestazioni già sollevate da Winston Churchill e poi Margareth Thatcher che aveva chiesto la privatizzazione dell'ente o dallo stesso Tony Blair che chiese e ottenne il licenziamento di Greg Dyke, direttore generale di Bbc. Le analisi di mercato confermano come i giovani preferiscano trascorrere il tempo e ricercare informazioni o interessi su Youtube o Netflix e riservino a Bbc al massimo venti minuti al giorno. È la penalità che riguarda tutti i grandi vettori mondiali di informazione ma quello della creatura di lord John Reith, barone scozzese che a partire dal Ventidue fu il pioniere della comunicazione radiofonica in Europa, con un marchio che poi sarebbe divenuto mondiale, portando la voce dell'indipendenza, della libertà e della liberazione durante il secondo conflitto. Tim Davie è ritornato ad occupare il ruolo di direttore generale dopo il settennato del barone Tony Hall. Alcune recenti gaffe hanno fatto traballare la televisione di Stato, Danny Baker, famoso conduttore televisivo, si era permesso, in un tweet, di giudicare il neonato di Meghan e Harry «un royal baby uno scimpanzé vestito con un cappottino e una bombetta», così irridendo alla madre di Meghan, Doria Ragland, afroamericana, nonna del baby Archie Harrison Mountbatten-Windosr. Ovviamente mister Baker è stato accompagnato alla porta, non di Buckhingham Palace. Questa è la Bbc.

Radio Padania diventa libera ma la sbobba è sempre la stessa. L'emittente della Lega sciacqua i panni nel Po, cambia nome e sembra fatta persino meglio. Come se fossero arrivati due soldi in più... Le recensioni senza inutili millanterie di Luca Bottura. Luca Bottura su L'Espresso l'11 gennaio 2021.

Radio versatile. Qualche anno fa, Radio Padania finì in una curiosa partita di giro che permise a un noto imprenditore calabrese di acquisirne frequenze analogiche ricambiando con quelle digitali di cui disponeva in abbondanza. Se ogni canale vecchio stile, infatti, “trasporta” una rete alla volta, i cosiddetti Mux possono sparare nell’etere un numero quasi infinito di emittenti. La rete della Lega, finanziata da soldi pubblici, vivacchiava perciò in un limbo di ascolti risibili, peraltro senza sapere esattamente cosa raccontare: separatisti non lo si era più, anzi, si era diventati sovranisti, quelli che prima chiamavano contro i terroni non sapevamo più che dire… Per fortuna c’erano sempre i neri e le canzoni dell’incolpevole Van De Sfross. Oggi però il Dab è diventato una realtà, tutte le autoradio ne dispongono, ed ecco che Radio Padania ha finalmente trovato la sua collocazione: ha cambiato nome e trasmette la stessa identica sbobba di prima, ma ha sciacquato in panni nel Po e nessuno si ricorda più di quando i napoletani erano i “colerosi” che puzzavano “come cani”. È anche fatta meglio, come se fossero arrivati due soldi in più. Diciamo che dalle bandierine della Rete 4 di Emilio Fede siamo passati alla fabbrica del dissenso della Rete 4 di oggi, dove l’odio viene distillato e confezionato con molta professionalità Come? Il nuovo nome? Occhio all’assonanza: Rpl. Che sta per Radio Padania Libera, ma assomiglia moltissimo a Rtl, l’impero radiofonico dell’imprenditore calabrese di cui sopra, proveniente dalla stessa regione in cui è stato eletto Salvini. Coincidenze e corrispondenze d’onda. Benvenuti al Sud. Giudizio: Very padan people 

Pasta la Molisana. Grano durissimo. Io non ho niente contro il Gambero Rosso, il cui canale guardo sempre con grande entusiasmo. Se fosse possibile, passerei la vita nell’orto di Giorgione, mi commuovo quando vedo Vito con i suoi e ho persino tollerato che il povero Jamie Oliver, il naked chef britannico presente dai primordi, venisse doppiato. Perché si sa: l’italiano non sa leggerlo, il sottotitolo. Però la difesa pelosa della pasta la Molisana, non tanto delle tripoline, pasta che esiste e non è legata al ventennio ma alle crinoline della regina Margherita, ma dello showreel che esaltava il sapore littorio, proprio non si regge. Non si regge che per la clamorosa leggerezza di tutti (una campagna del genere passa su ogni tavolo, non stiamo parlando della Microsoft) sia stata imputata la stampa, rea di aver scatenato l’odio social. Non si regge che a fronte di un errore clamoroso, sia esso stato di sottovalutazione o di sopravvalutazione (credere di fare gli spiritosi, male, abbinando cibo e colonie come se fosse un giochino) venga chiamato a risponderne chi l’ha raccontato. Immaginate anche solo per un attimo il würstel Hitlerino in Germania - peraltro un filo tautologico - e le conseguenze che avrebbe avuto: ritiro immediato, forse qualcuno in galera. Per questo le difese di categoria, quella del cibo, stanno a zero. Come hanno dimostrato i titolari del pastificio facendo la cosa migliore: chiedendo scusa, e con le parole giuste. Continueremo a mangiare pasta la Molisana sapendo che non va condita con l’olio di ricino. Ma la morale, per favore, no. Giudizio: Mandato di cottura

Il giornale omofobo che da 4 anni viene distribuito nelle cassette delle lettere a Milano. Si chiama "Informa Milano" e ricalca la grafica dei notiziari diffusi dalle amministrazioni comunali. Ma è pieno di invettive contro le persone Lgbt e diffonde fake news. Ecco chi c'è dietro. Simone Alliva il 05 gennaio 2021 su L'Espresso. Chi sarebbero i gay? "Diffusori di infezioni sessuali". Le donne favorevoli all'aborto? "Femmi-naziste". Lo sostiene Informa Milano, 16 pagine impregnate di omofobia e sessismo che da ben quattro anni viene distribuito gratuitamente nelle case milanesi. Infilato nelle cassette delle lettere dei cittadini con un sottotitolo: "Quello che gli altri non vi dicono". Si apre così questo 2021, come racconta S. studente milanese di 27 anni: «Abito a Corvetto. Ieri l'ho trovato tra la posta. Sono rimasto abbastanza allibito. Penso sia grave che sia stato diffuso un giornalino del genere, specialmente perché camuffato da pubblicazione giornalistica "ufficiale". Il nostro portiere pensava fossero del Comune. Ricorda i giornali dei vari municipi. Nel nostro condominio abitano per la maggior parte anziani che potrebbero prendere per buone molte delle "notizie" che non lo sono». Quali notizie? Le 16 pagine che alimentano vecchi stereotipi, come "gli omosessuali diffusori di Aids", e nuovi fantasmi cioè la "dittatura arcobaleno". La fermata di Porta Venezia con i colori della bandiera rainbow, simbolo dell'inclusività meneghina diventa "la metropolitana dedicata ai vizi sessuali delle persone" e il sindaco Sala che viene accusato di discriminare i cittadini eterosessuali. Di mira viene preso anche Pietro Turano, attivista lgbt e attore della pluripremiata serie tv Skam. Una foto di Turano testimonial per una campagna di Arcigay a favore del sesso sicuro viene photoshoppata mentre regge questo cartello: "Voglio fare il maiale come mi pare. Lo Stato mi deve dare gli strumenti per farlo senza ammalarmi". E ancora, la crociata contro la gratuità dei preservativi: "Vi diranno allora che castità e astinenza sono pretese "disumane". Altre colossali balle!". Si legge: "Lo stato non può promuovere i preservativi perché promuoverebbe il male". Il diritto all'aborto difeso dall'assessore Majorino, definito "squallido personaggio", così riportato: "Coronavirus: sospese attività sanitarie non urgenti. Tranne l'aborto uccidere i bambini è urgente". L'intera impaginazione ha buon gioco a ridurre le proposte culturali che vengono dalla realtà Lgbt e femminista al grado zero del pregiudizio. Né amore, né sguardi sul mondo, né sensibilità: solo corpi da divertimento. Tra drag queen e nudità. Ma chi c'è dietro? La nascita del quotidiano è fissata al 13 giugno 2016. Milano Post annunciava l'uscita del "giornale vero, tutto da leggere" di Angelo Mandelli dal titolo "InformaMilano": "Le malefatte dei centri sociali, supportate dall'amministrazione Pisapia e poi le limitazioni democratiche da parte di gruppi oltranzisti della sinistra come i Sentinelli, una Volante Rossa". Il giornale è scaricabile da un link "Samizdat Milano". La parola "samizdat" (самиздат) in russo significa "edito in proprio". Indica un fenomeno sociale, culturale e politico spontaneo, che esplose in Unione Sovietica e nei paesi sotto la sua influenza tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Copie ciclostilate veniva diffuse clandestinamente perché ritenute dal regime sovietico propagatrici di "odio" o in qualche modo ostili. Di odio tra queste pagine se ne legge parecchio. Oltre la diffusione di teorie complottiste secondo cui i gay portano epatite ed HIV e i Pride malattie e morti. Ce n'è anche contro i writers e il degrado urbano. Angelo Mandelli, che appare anche in un video di presentazione del "foglio clandestino", è membro dell'associazione "Ora et labora in difesa per la vita" nota per i picchetti anti-abortisti di fronte alla clinica ginecologica Mangiagalli del Policlinico di Milano, e attivista di "Pro-Vita Onlus", l'associazione capofila del Family Day. Gabriele Piazzoni, segretario generale di Arcigay, all'Espresso ha così commentato: "Arcigay ha appena raccolto la segnalazione e ha attivato il proprio ufficio legale per stigmatizzare l'atto e per difendere nelle opportune sedi la rispettabilità delle persone lgtbq+ e dell'associazione". Anche l'attore e attivista Pietro Turano che ha visto la sua immagine offesa ha sottolineato: "Da tanti anni mi occupo in Arcigay di salute sessuale, soprattutto fra i miei coetanei. Siamo totalmente privi di strumenti educativi nell'ambito di affettività e sessualità. Questo produce stigma, insicurezze e inconsapevolezza rispetto alle IST. So che espormi come personaggio pubblico significa anche essere potenziale bersaglio, è un prezzo che sono disposto ad affrontare. Non per questo resterò passivo di fronte ad un uso strumentale e dannoso della mia immagine. Se ne parlerà nelle sedi opportune e pagherà chi dovrà pagare".

Un giornale aperto, sì. Ma “fazioso” sui diritti. L’editoriale del direttore Davide Varì su Il Dubbio il 2 gennaio 2020. «Un giornale, è un giornale, è un giornale», scriveva Luigi Pintor – maestro del giornalismo italiano – citando i versi di Gertrude Stein.  Ma dietro quelle parole che invitano alla semplicità, all’idea di far parlare i fatti nudi e crudi, si nasconde un mondo articolato, contraddittorio, pieno di insidie come di bellissime sorprese. Perché quei fatti, le notizie, in realtà sono sempre filtrati dalle lenti di chi scrive. E Pintor lo sapeva bene. Il Dubbio, dunque, racconterà quel che accade con assoluta onestà e con la massima apertura. Ma sappiamo bene che la scelta di ogni singolo fatto e il modo di scriverlo non sarà mai del tutto neutra. Chiunque deciderà di sfogliare e leggere il nostro giornale si troverà di fronte a un racconto quotidiano il più possibile aperto e inclusivo – inclusivo anche nei confronti di chi dissente – ma che avrà una sua anima, un suo carattere. Non credete a chi vi racconta che i giornali devono essere neutrali né a chi parla di un inesistente giornalismo British. Ogni singola parola stampata da qualsiasi quotidiano del mondo è sempre schierata. E noi – lo dichiariamo subito, con la massima trasparenza e convinzione – saremo schierati sui diritti e le garanzie. Il primo compito del Dubbio sarà dunque quello di ristabilire la connessione sentimentale con chi, ogni giorno, frequenta le aule dei tribunali. In ogni toga di ogni singolo avvocato abita infatti un universo, un mondo di valori che noi intendiamo difendere e rappresentare, perché coincidono con i valori più profondi della nostra civiltà. In questi mesi durissimi e drammatici di pandemia il mondo dell’avvocatura è stato messo a dura prova e gli avvocati, forse più di ogni altra professione, hanno sentito sulla propria pelle il peso di un virus che ha sbarrato le aule dei tribunali travolgendo e mettendo in discussione la forma stessa del processo. Ma nel diritto la forma è sostanza e una giurisdizione debole e squilibrata rischia di far regredire la nostra intera comunità. La nostra, dunque, non sarà una difesa corporativa e di categoria, sarà invece un’attenzione costante nei confronti di chi ha un ruolo decisivo all’interno del fragile equilibrio dei poteri. Un avvocato non è una monade ma il rappresentate di un sistema complesso e delicatissimo nel quale si giocano i diritti e le libertà di noi tutti. Inutile ricordare che gli avvocati in questi anni hanno subito attacchi di ogni tipo. Il panpenalismo – ovvero l’idea secondo cui la repressione sia l’unica ricetta possibile – è uno dei prodotti più pericolosi del populismo. E così gli avvocati – identificati con i propri assistiti, che spesso dal ben rodato tribunale mediatico giudiziario sono giudicati colpevoli ben prima dell’inizio di un processo – sono diventati l’ostacolo di chi, con assurdo semplicismo, è convinto che il nostro Paese possa essere migliorato aumentando pene e reati. Per questo Il Dubbio sarà presente anche nei palazzi della politica e delle istituzioni, perché è lì che si giocano le partite decisive ed è lì che il panpenalismo rischia di creare danni irreversibili. Soprattutto in tempi di pandemia e di stati di emergenza. «Senza un miglioramento della cultura giuridica dei politici, del ceto colto e dei professionisti dei media scriveva appena qualche giorno fa il professor Giovanni Fiandaca – diventa ancora più difficile contrastare il giustizialismo diffuso in alcuni settori popolari e strumentalizzato dai politici populisti per ricavarne consenso elettorale». In questo senso il nostro giornale ha l’ambizione di divenire un punto di riferimento credibile nel mare magnum di una informazione giudiziaria spesso viziata e distorta da una visione ideologica e superficiale. Useremo ogni canale comunicativo per dire la nostra e raccontare i fatti. Il Dubbio sarà dunque un giornale con i piedi ben piantati nella tradizione ma con la testa proiettata nel futuro. Cercheremo di dare risposte, certo, ma soprattutto di porre nuove interrogativi, nuovi “dubbi” attraverso un confronto dialettico, costante e ostinato. Permettetemi, infine, di ringraziare la massima istituzione forense che mi ha dato fiducia in questa straordinaria avventura e chi mi ha preceduto: Carlo Fusi e Piero Sansonetti, amico fraterno e maestro. Un saluto caloroso alla redazione per la straordinaria professionalità e l’amore con cui ogni giorno manda in stampa questo giornale.

Cinque anni di Dubbio, cinque anni dalla parte “sbagliata”. C'è un racconto distorto sul ruolo dell'avvocato: abbiamo voluto rovesciarlo. E il vento comincia a cambiare. Davide Varì su Il Dubbio il 12 aprile 2021. Cinque anni di Dubbio, cinque anni dalla parte “sbagliata”. E sì, tanto vale ammetterlo: siamo dalla parte più scomoda in questo brandello di storia, eppure siamo a nostro agio e non potremmo essere altrove perché siamo dalla parte dei diritti, delle libertà e dello sguardo disincantato e severo sul grumo mediatico-giudiziario che in questo ventennio ha condizionato e infestato la politica, la giustizia e il giornalismo italiano. Siamo in direzione ostinata e contraria, potremmo dire in un eccesso di vanità. Ma permettetecelo almeno nel giorno del nostro compleanno. Del resto non esiste nulla di simile al Dubbio nel panorama editoriale italiano. Nato da una geniale intuizione di Piero Sansonetti e Andrea Mascherin, e grazie al coraggio visionario di ogni singolo consigliere del Cnf, il Dubbio è arrivato nelle edicole italiane per sfidare il racconto scorretto di un soggetto cardine del sistema democratico italiano: l’avvocato. E sì, l’avvocato è il simbolo di tutto ciò che il nostro giornale rappresenta.È lui, l’avvocato, il custode dei diritti e delle libertà fondamentali di ogni cittadino; è il san bernardo che corre in soccorso di chiunque finisca travolto dalla valanga, spesso spietata, della nostra giustizia. E corre in aiuto anche di chi fino al giorno prima lo aveva criticato, messo in croce. E lo fa perché è la sua missione. Proprio come un medico, l’avvocato non chiede carte di identità né atti di fede: è lì per far rispettare i diritti dell’imputato, che sono però i diritti di tutti noi. Per questo è volgare e fallace l’accusa ricorrente di “intelligenza col nemico” ed è scorretta la sovrapposizione tra avvocato e indagato: il legale difensore non è il complice di un presunto colpevole ma è colui che in ogni processo, in ogni singola udienza difende ciò che è scritto nella nostra Costituzione, il nostro Stato di diritto, le nostre libertà e tutto ciò che ogni imputato, anche quello accusato dei reati più gravi, rappresenta e incarna.Per questo è nato il Dubbio: per assestare e correggere questa parte del racconto che è deragliata. Ma non crediate che sia un caso. Chi in questi anni ha gettato legna nel fuoco del giustizialismo più duro, lo ha fatto per i propri interessi. Sitratta dei “professionisti del legalitarismo”, potremmo dire parafrasando Leonardo Sciascia, uno che ha vissuto sulla propria pelle la violenza di chi intendeva sacrificare il diritto sull’altare di quello che oggi, con una formula fortunata, chiamiamo panpenalismo. Ma dopo cinque anni è giusto fare anche qualche bilancio. E allora chiediamoci: abbiamo spostato qualcosa? I valori per i quali siamo in edicola hanno fatto qualche passo avanti? Noi siamo certi di sì.Oggi, anche grazie al lavoro quotidiano del Dubbio, i valori e gli interessi dell’avvocatura – che sono anche e soprattutto quelli di centinaia di giovani e di donne che spesso subiscono ingiustizie e pregiudizi – sono sul tavolo delle istituzioni e della politica; e i temi cari all’avvocatura, oggi più che mai, sono nell’agenda delle nostre istituzioni.Nelle ultime settimane abbiamo moltiplicato il nostro impegno e la nostra voce. Oggi, oltre al quotidiano, abbiamo due newsletter, un sito aggiornato h24 e un settimanale. Tutti strumenti che ci consentono di raggiungere i vari strati della popolazione e dell’informazione. Certo, c’è ancora molto da fare. Serviranno ancora molti anni di lavoro per riuscire a scalfire quel racconto sballato sull’avvocatura. Un’utopia?Forse. Ma su questo ci può soccorrere la bellissima frase di Eduardo Galeano: «L’utopia è là nell’orizzonte.Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi.Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve per questo: perché io non smetta mai di camminare…». E allora, chissà, forse anche qualcun altro si accorgerà che non siamo noi a camminare nella parte sbagliata della storia.

Cinque anni di battaglie per traghettare i valori dell’avvocatura fuori dalla clandestinità. L'intervento della presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, in occasione dei cinque anni de Il Dubbio. Maria Masi su Il Dubbio il 12 aprile 2021. Il Cnf nel 2016 si è proposto di diventare protagonista di una battaglia culturale che invertisse la tendenza di considerare i diritti la “cenerentola della modernità” e la pena da scontare come la massima espressione della moralità. Riportare il garantismo fuori dalla clandestinità con un quotidiano nazionale: Il Dubbio, la voce dell’Avvocatura o meglio lo strumento per esprimere e diffondere le idee, la cultura e i valori dell’Avvocatura italiana. Questo lo spirito che ha informato l’iniziativa editoriale del Cnf realizzata attraverso la FAI grazie ad un’intuizione del presidente Andrea Mascherin. Più di un Collega Avvocato ricorderà la difficile stagione inaugurata dal Decreto Bersani nel 2006, allor quando il Governo cominciò a smantellare l’ordinamento professionale forense, abolendo il sistema tariffario, negando il diritto a compensi minimi garantiti, permettendo la pubblicità senza regole, con la giustificazione di dover liberalizzare il mercato per offrire maggiori chances ai giovani professionisti e favorire l’accesso alla giustizia ai cittadini. I mass media plaudivano a provvedimenti che squalificavano la funzione del difensore, ridotto a mero prestatore di un servizio come tanti altri, senza accorgersi che i beneficiari di queste nuove disposizioni erano i grossi attori del settore finanziario mentre i giovani venivano fagocitati da un mercato pronto a farne i precari delle libere professioni. Fu in quegli anni in particolare che l’Avvocatura si trovò nella necessità di imparare a comunicare se stessa, i propri valori ma anche le proprie necessità sia professionali quanto personali, ad interlocutori speciali ma distratti – Governo, Parlamento, Imprese, Cittadini – i quali troppo spesso avevano trascurato il ruolo sociale svolto dagli avvocati impegnati in prima fila nella difesa, trascurando fin troppo spesso gli aspetti economici e per altro verso comunque costretti a doversi tutelare come professionisti. Purtroppo le strategie di comunicazione dell’epoca non si erano rivelate molto efficaci: né le pagine a pagamento sui maggiori quotidiani nazionali fitte di comunicazioni in “legalese”, né le campagne pubblicitarie con immagini e slogan tutt’altro che empatiche, né – va detto per onestà intellettuale – le interviste rilasciate ai media, dalle quali troppo facilmente l’Avvocatura risulta(va) una categoria arroccata nella difesa di atavici privilegi e rendite di posizione. La campagna denigratoria delle ultime settimane sul tema dei vaccini costituisce l’ennesimo triste esempio.Il Dubbio nasce dall’intuizione di comunicare alla società civile i principi del diritto, della tutela dei diritti di ciascuno, della difesa dei più deboli, dei valori giuridici che sono anche valori sociali, utilizzando lo strumento dell’informazione a mezzo stampa fornita da giornalisti professionisti che si sono fatti portatori della voce dell’Avvocatura e offrono una lettura dei fatti di politica e di cronaca con la lente dell’Avvocato. Nel contempo, supportano le battaglie sociali e professionali del mondo forense, per coinvolgere interlocutori istituzionali, politica, magistratura oltre ad imprese e cittadini nei cambiamenti auspicati. A cinque anni di distanza dalla nascita della testata occorre interrogarsi sugli obiettivi raggiunti e su quelli mancati. Positiva la reputazione come punto di riferimento dell’informazione in ambito di diritto e giustizia, attestata dalla massiccia presenza quotidiana nelle rassegne stampa di Camera e Senato, del Consiglio Superiore della Magistratura, nelle trasmissioni televisive e radiofoniche. Molti cambiamenti sono avvenuti grazie a battaglie sostenute dal giornale per offrire l’immagine pubblica dell’Avvocato come sentinella dei diritti, delle garanzie e delle libertà. Le campagne di informazione per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle legittime rivendicazioni per la tutela dei diritti umani, per la tutela delle pari opportunità contro ogni forma di discriminazione, l’attenzione costante al deplorevole fenomeno della violenza di genere in tutte le sue tristi declinazioni, il focus permanente sul carcere e sulle condizioni dei detenuti in ambienti inadeguati per la condizione umana; ed ancora la legge sull’equo compenso, il legittimo impedimento dell’avvocata in gravidanza, i nuovi parametri che fissano un limite alla riduzione da parte del magistrato, ridando dignità alla prestazione difensiva. Ma anche la sensibilizzazione degli stessi avvocati a partecipare alla discussione, ad intervenire con autorevolezza nel dibattito politico legato al mondo giudiziario e extragiudiziario, il coinvolgimento nelle Istituzioni dell’avvocatura giovane e di quella femminile. Meno fortunate alcune campagne legate alle riforme processuali, a partire da quella sulla prescrizione anche se sull’argomento non è ancora detta l’ultima parola, così come è in corso la battaglia sul tema delle intercettazioni dei colloqui con l’assistito. La vicenda dei vaccini, come accennato, in questo caso ha visto il giornale impegnato a ripristinare la verità storica e a battersi per difendere ancora una volta l’Avvocatura da gratuiti e ingiustificati oltre che ingiustificabili riferimenti a privilegi di casta.Moltissimi sono gli spazi di intervento dei prossimi mesi, uno per ogni battaglia che veda l’Avvocatura in prima fila. Come la riforma del sistema dell’accesso che partendo dal percorso universitario offra un percorso professionalizzante che smitizzi l’esame di Stato. Come l’avvio del sistema delle specializzazioni e la opportunità di sempre maggiori ambiti di qualificazione. Come la valorizzazione dell’avvocato risolutore di conflitti dentro e fuori dal processo assegnandogli nuovi ruoli a fronte delle competenze che costituiscono parte del suo bagaglio formativo. Senza dimenticare l’ultimo miglio da percorrere per vedere finalmente approvata la legge di riforma della Costituzione che preveda l’avvocato quale figura imprescindibile nell’esercizio della giurisdizione, riconoscendogli appieno il ruolo che la funzione pubblica gli assegna.Sarà più che utile poter contare su una Voce autorevole e rispettata che sostenga la necessità di questi cambiamenti perché, come scriveva Joseph Pulitzer, un giornale che è fedele al suo scopo si occupa non solo di come stanno le cose, ma di come dovrebbero essere. A proposito di come dovrebbero essere le cose, rinnoviamo l’auspicio di coinvolgere sempre più ogni componente dell’avvocatura per rendere più efficace il progetto editoriale ancora giovane ma non acerbo.

Lettere dal carcere: le nostre inchieste e le denunce quotidiane al fianco degli ultimi. In questi 5 anni con la pagina quotidiana di "Lettere dal carcere" abbiamo dato voce a detenuti e agenti che vivono e lavorano in condizioni spesso critiche. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 aprile 2021. Nel corso di questi cinque anni, cinque giorni su sette, abbiamo parlato del carcere e di tutto ciò che ruota intorno alla privazione della libertà. Abbiamo attraversato quattro governi diversi e quindi ben quattro approcci differenti, da parte delle istituzioni, di affrontare le annose problematiche che riguardano il sistema penitenziario che inevitabilmente si legano a quello giudiziario. Il lavoro giornalistico è quello di cane da guardia della democrazia. Il luogo carcerario, così come le altre istituzioni totali, ha un elemento evidente: la chiarezza nel rapporto fra chi ha il potere e chi non lo ha. E riguarda tutti, anche i colletti bianchi. Una volta varcato le soglie del carcere, il loro potere decade e subisce le stesse storture e arbitri di tutti gli altri. Non a caso questo giornale si è occupato di un Marcello Dell’Utri che era gravemente malato in carcere, così come l’ultimo migrante senza difesa alcuna.

Tanti i casi di malati e privi di cure e di internati. Per quanto riguarda il carcere, per la prima volta abbiamo dato voce a numerosi avvocati penalisti che hanno come assistiti diversi profili di detenuti: da quelli comuni, passando per l’alta sicurezza, fino ai 41 bis. Grazie alle loro istanze, abbiamo portato a conoscenza dei lettori come si vive in galera. Ma anche a chi, in carcere, non ci poteva proprio stare. Tanti i casi di malati e privi di cure, gli internati senza però poter fare attività lavorative come è previsto , sulla carta,in una casa lavoro. Abbiamo portato alla luce i casi di chi è trattenuto illegalmente dentro il carcere in attesa che si liberi un posto in una Rems. Tante le violazioni che riguardano il 41 bis. Abbiamo dato notizia dell’incredibile caso del 73 enne Nicola Antonio Simonetta che era al carcere duro nonostante le sentenze lo indicassero estraneo alla ‘ndrangheta. Carcerazione revocata dopo la nostra denuncia. Come giornale, siamo stati i primi (e forse gli unici) a parlare del “super” 41 bis. La cosiddetta area riservata che rende il 41 bis ulteriormente più duro. Seguimmo passo dopo passo l’iter della riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’ex guardasigilli Andrea Orlando. Abbiamo sostenuto in particolare Rita Bernardini del Partito Radicale che con i suoi lunghi scioperi della fame cercava dialogo con il governo. Una riforma che però si è realizzata a metà. Abbiamo affrontato il discorso dell’ergastolo ostativo seguendo anche i ricorsi alla Corte Europea, dando notizia di quando fu accolto quello presentato dall’ergastolano Marcello Viola. Solo dopo, molto dopo, i giornali che amano creare indignazione facile, se ne accorsero per remare contro le decisioni delle Alte Corti contro l’illegittimità dell’ostatività. Nel corso di questi ultimi anni, ci siamo occupati anche dei presunti pestaggi all’interno delle carceri italiane.

I presunti pestaggi da Ivrea, a Viterbo a San Gimignano. Per la prima volta abbiamo parlato del caso del carcere di Ivrea, di quello di Viterbo nei confronti di un ragazzo che sarebbe stato pestato da 10 agenti, poi quello di San Gimignano andando in fondo e reperendo la certificazione medica che attestava dei lividi. Caso che recentemente si è concluso con una condanna di primo grado. Ma anche di tante altri vicende, poi archiviate. Non sono mancate polemiche, anche attacchi da parte di qualche sindacato di polizia penitenziaria o direttori stessi come quando denunciammo dell’utilizzo dell’idrante al carcere di Tolmezzo. Come giornale, però non ci siamo dimenticati nemmeno degli agenti penitenziari stessi, i quali lavorano in condizioni difficili. Sempre Il Dubbio, con il sito on line, ha seguito 24 ore su 24 l’evolversi delle questioni.

Siamo riusciti a non far estradare in Russia Anastasia Chekaeva. Abbiamo dato esclusive, denunce, abbiamo perso delle battaglie, ma vinte tante altre come il caso di Anastasia Chekaeva che rischiava l’estradizione in Russia. Siamo stati intervistati e citati dal servizio di Report sulle carceri a cura di Bernardo Iovene. Dato in anteprima i primi detenuti morti per Covid , anche quando il virus è entrato al 41 bis di Opera e poi di Parma.L’estate scorsa, quasi a suggellare la nostra attività giornalistica sul tema, il nostro amministratore Roberto Sensi ha affrontato un lungo viaggio in bicicletta “Sulle ali della libertà”. Circa 2000 km intervallati da visite negli istituti penitenziari italiani e chiacchierate con chi vive il carcere. I nostri punti di riferimento sono state le associazioni come Antigone, Nessuno Tocchi Caino, L’Altro Diritto, Yairaiha, Ristretti orizzonti, l’Osservatorio carceri delle Camere penali italiane. Non da ultimo il Garante nazionale delle persone private della libertà.

Travaglio come Fassino, si dà alle profezie: “Draghi? Non è disponibile a fare il premier”. Vito Califano su Il Riformista il 4 Febbraio 2021. Il Governo Draghi non esiste. Un po’ come il concetto di Dio: ci credi o non ci credi. E Marco Travaglio non ci credeva a tal punto da sbandierarlo senza troppi giri di parole, soltanto qualche settimana fa, in televisione. A Otto e Mezzo, ospite di Lilly Gruber, su La7. L’eventualità non era nemmeno in considerazione, “non è disponibile”, esisteva solo Conte, e il Movimento 5 Stelle e Rocco Casalino e Conte, sempre Conte, ancora Conte. Era il 17 dicembre 2020. In studio, insieme con il direttore de Il Fatto Quotidano, il leader di Azione ed ex ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda. Lo stesso Calenda ha riproposto il simpatico siparietto sulla sua pagina Facebook. “Ci vuole tanta pazienza”, ha scritto nel suo post Calenda. Un po’ come la profezia al contrario di Piero Fassino che nel 2009 aveva sentenziato: “Se Grillo vuol fare politica fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende”. Ecco. Si agitava, il direttore del Fatto. Visibilmente spazientito. La crisi politica si sarebbe aperta meno di un mese dopo, il 13 gennaio, con il ritiro dalla delegazione di governo delle ministre di Italia Viva Teresa Bellanova ed Elena Bonetti e del sottosegretario Ivan Scalfarotto. Una crisi già ampiamente annunciata dagli attriti espressi dal partito di Matteo Renzi a dicembre, in particolare sulle bozze del cosiddetto piano Next Generation EU che in Italia ci ostiniamo a chiamare Recovery Fund. Ebbene, Travaglio la piazzava lì, la sua non-profezia, senza troppi complimenti: “Se qualcuno vuole fare il governo Draghi lo lanci, chiamano Draghi così scopriranno subito che non è disponibile, e la piantano visto che è un anno che parlano di una cosa che non esiste”. E di Draghi infatti si parlava sempre più spesso dall’esplosione della pandemia da coronavirus, da quell’editoriale sul Financial Times che tutti hanno citato e ripreso in questi giorni. Per Travaglio non c’era altra via e credo che Giuseppe Conte, sempre Conte, incommensurabilmente Conte. Martedì la convocazione in Quirinale del Presidente Sergio Mattarella, l’incarico accettato con riserva da Mario Draghi e, infine, il punto stampa dall’esterno di Palazzo Chigi del compianto premier Conte. L’“avvocato del popolo”, Conte, proprio quel conte, non Paolo Conte o Antonio Conte, quello caro a Travaglio: il premier uscente che ha aperto e lanciato un appello ed esortato tutta la vecchia maggioranza a sostenere l’ex Presidente della Banca Centrale Europea. Che doccia fredda.

TRAVAGLIO? MA MI FACCIA IL PIACERE!  Dagospia il 4 febbraio 2021. BREVE SELEZIONE DELLE PROFEZIE DEL RASPUTIN DI CONTE COLTE SUL “FATTO QUOTIDIANO” SUL TEMA MARIO DRAGHI:

MA MI FACCIA IL PIACERE – 2 NOVEMBRE 2020. Il Covid alla testa. “Appena guarito ho sognato un governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Tra i suoi ministri, oltre ai capi dei partiti di maggioranza e opposizione, le più autorevoli e prestigiose personalità politiche e ‘tecniche’ di cui questo Paese dispone” (Massimo Giannini, Stampa, 1.11). Non bastava il Covid: pure gli incubi.

SCI-MUNITI – 24 NOVEMBRE 2020. Il Covid-19 ci ha regalato due ondate e, se tutto va male, a gennaio arriva la terza. Invece la cosiddetta informazione sforna un’ondata alla settimana. Ma non di virus: di cazzate. C’è la settimana del governo Draghi (la prima di ogni mese), quella del Mes (la seconda), quella del rimpasto, quella delle troppe scarcerazioni (colpa di Bonafede), quella delle troppe carcerazioni (colpa di Bonafede), quella del governo senza “anima”, quella di Conte che decide sempre tutto da solo, quella di Conte che non decide mai niente neanche in compagnia.

STORMIR DI FRONDE – 4 DICEMBRE 2020. La riforma del Mes, secondo alcuni addirittura peggiorativa di quel prestito-capestro per gli Stati in bancarotta, passerà comunque: FI o chi per essa, viste le pressioni europee, nel voto del 9 dicembre rimpiazzerà i dissidenti 5Stelle. Che così avranno ottenuto questo triplice risultato: screditare vieppiù il M5S, proprio mentre i poteri marci vogliono buttarli fuori da Palazzo Chigi e i giornaloni fanno a gara a demolire le loro conquiste (vedi le fake news del Corriere sul Reddito di cittadinanza); indebolire il governo Conte (di cui il M5S è l’azionista n.1 e che per questo è così inviso ai padroni del vapore); rafforzare il partito delle larghe intese e del governo Draghi all’insaputa di Draghi.

DRAGON BALL – 17 DICEMBRE 2020. Siccome se ne sentiva la mancanza, si riparla di governo Draghi, sempre all’insaputa di Draghi. È bastato che dicesse le solite frasi alla Catalano: guai ad aiutare “aree dove il mercato sta fallendo”, meglio “progetti utili”, “la sostenibilità del debito sarà giudicata da come verrà impiegato il Recovery”. E subito s’è levato il solito coro dei provincialotti con la bocca a cul di gallina e l’aria tra il rapito e lo svenuto che doveva avere Mosè sul Sinai dinanzi al roveto ardente. “Ripartire da Draghi si può”, “il monumentale rapporto Draghi” (rag. Cerasa, Foglio). “Sempre bello leggere Draghi” (l’Innominabile). “Le sue analisi sono una traccia” (Gelmini, FI). “Se Conte non ce la fa, c’è Draghi” (Nannicini, Pd). “Governo Draghi senza Bonafede, Catalfo e Azzolina” (Richetti-Chi? l’altro calendiano oltre a Calenda). “Il monito di Draghi, la visione che serve” (Messaggero). “Il 55% degli italiani preferisce Draghi per il Recovery” (Libero). “Draghi, serve sguardo lungo” (Fubini, Corriere). “Draghi, i partiti e la realtà urgente” (Folli, Repubblica). Insomma, il governo Draghi è fatto. Il programma è il suo intervento al Gruppo dei Trenta, l’allegro simposio di finanzieri, accademici, banchieri centrali, banchieri sfusi, bancarottieri di nazioni intere come l’ex ministro argentino Cavallo e l’ex presidente messicano Zedillo, insomma controllori e controllati (si fa per dire) e altri samaritani, fondato nel 1978 da Rockefeller, che si riunisce due volte l’anno a porte chiuse come il Gran Consiglio dei Dieci Assenti di fantozziana memoria. E la maggioranza in Parlamento? Quella non c’è, ma per i sinceri democratici de noantri è un trascurabile dettaglio. Il Giornale informa che “il Professore da qualche settimana ha lasciato la casa di campagna e s’è trasferito nel suo appartamento romano”. Mecojoni. E “il suo ufficio di rappresentanza alla Banca d’Italia è diventato la sua base operativa”. Apperò. Già ci pare di vederlo destreggiarsi festoso fra un veto dell’Innominabile, un distinguo di Orlando, un emendamento di Marcucci, una bizza della Bellanova, un capriccetto della Boschi, un tweet di Faraone, un ultimatum dei dissidenti grillini, un rutto di Salvini, una supercazzola di Giorgetti, un appuntino di Letta su Mediaset e un pizzino di Ghedini sulla giustizia. Folli però è in ambasce: “Stupisce che qualche forza politica non abbia immediatamente fatto propria e rilanciato l’analisi di Draghi”. Giusto: che aspettano i partiti tutti a recarsi in processione nel suo appartamento romano o nella sua base operativa a baciargli la pantofola e incoronarlo re? Folli non sta più nella pelle, tant’è che ha fatto pure un fioretto: se lo ascoltano, si taglia il riportino.

PULIZIE DI FINE ANNO – 27 DICEMBRE 2020. E il rimpasto? Sparito. E il governo Draghi? Mai visto. E il Mes che Conte e il M5S fingevano di non volere ma sotto sotto erano pronti a prendere di corsa? Mai preso.

MA MI FACCIA IL PIACERE – 28 DICEMBRE 2020. Tu scendi dalle stelle. “Il governo galleggerà, ma meglio un governo Draghi. Si può fare” (Paolo Mieli, Foglio, 22.12). “Il premier è un pirata. Conte usurpa i poteri di ministri e governatori. Un governo Draghi? Avrebbe autorevolezza” (Sabino Cassese, Libero, 22.12). “Il “modello italiano” ha fatto vittime e danni. Draghi? Ci può salvare” (Luca Ricolfi, sociologo, il Giornale, 27.12). “Una intera generazione di politici dovrebbe saper ricorrere a uomini di esperienza come Prodi e Draghi” (Marco Damilano, Espresso, 27.12). Draghi, Draghi, Draghi, paraponziponzipò.

CIAONE – 29 DICEMBRE 2020. Resta da decidere il premier. Draghi risponde: “Fossi matto”. E parte la mattanza fra i pretendenti, che sommati insieme non fanno un terzo di Conte nei sondaggi. Poi iniziano le ricerche di una maggioranza: uno spasso, visto che i 5Stelle si fanno incredibilmente furbi e non prestano all’ammucchiata un solo voto. Passano le settimane e l’Ue, stufa di aspettare il Recovery Plan, ci cancella la prima rata. Così Mattarella manda tutti a votare, tranne i leader che han causato la crisi, barricati in casa per paura del linciaggio. Conte, visti i sondaggi bulgari, è costretto a tornare in pista. Ma, anziché farsi un partito, accetta l’offerta di guidare il nuovo direttorio dei 5Stelle. E li riporta al 30%, rubando voti a destra, FI e Pd e mandando Iv sottozero, con una campagna elettorale di un solo slogan: “Ciaone”.

VOCABOLARIO 2021 (31 DICEMBRE 2020). Governo Draghi. Perché esista, occorre che l’attuale governo cada, che in Parlamento si formi una maggioranza disposta a votarne uno guidato da Draghi e soprattutto che Draghi accetti di guidarlo. Chi dice di stimare Draghi dovrebbe almeno chiederglielo, anziché nominare il suo nome invano per darsi un tono e fingere di esistere sulle e alle sue spalle.

PERCHÉ LO FA? (6 GENNAIO 2021) A Messer Due Per Cento han detto che Draghi non vede l’ora di mettersi al suo servizio. E lui ci ha creduto.

CONTE ALLA ROVESCIA (12 GENNAIO 2021) Noi ci ciucceremo per qualche mese un’ammucchiata con Pd, FI, Iv, Calenda e frattaglie poltroniste di Lega e M5S guidata dai premier preferiti dai giornaloni (Cottarelli, Cartabia, Amato, Cassese, robe così: Draghi non è fesso). Una sbobba talmente immangiabile che molta gente urlerà: “Ridateci Conte”. E lo costringerà a tornare in pista, come capo dei 5Stelle o di una lista al loro fianco. Allora sì che ci sarà da divertirsi. Perché si voterà prima che gl’italiani si scordino chi ha fatto cosa.

HO VISTO COSE… (21 GENNAIO 2021) Quelli che arriva il governo Draghi, anzi Cottarelli, anzi Cartabia, anzi Franceschini, anzi Di Maio, anzi Guerini (tutti i giornali) e invece niente, un’altra volta. Quelli che “il governo è morto e al Colle farò il nome di Draghi” (Innominabile) e neanche li han fatti salire, al Colle.

SÌ MA È ANCORA LUNGA (2 FEBBRAIO 2021) Tutte le chiacchiere e i fiumi di inchiostro sui governi Draghi, Cottarelli, Cartabia, Severino, Giovannini, Panetta, Fico, Di Maio, Patuanelli, Franceschini sono sprecati: la scelta del premier spetta al partito di maggioranza relativa, cioè ai 5Stelle, che l’han detto e ripetuto: “O Conte o andiamo all’opposizione”.

UN NO GENTILE MA NETTO ( 3 FEBBRAIO 2021) (…)  E meno male che non era una faccenda di poltrone. Ora, perché le cose non finiscano male con governissimi o altri orrori, basta che M5S, Pd e LeU siano coerenti e dicano un garbato ma fermo no all’ammucchiata del Colle e di Draghi, per salvare l’unica coalizione che può competere con queste destre: la via maestra è il rinvio di Conte alle Camere; e, in caso di sfiducia, il voto al più presto possibile. Di regali a Salvini & C. ne ha già fatti troppi il loro cavallo di Troia.

Marco Travaglio, insulti a Silvio Berlusconi: "Psiconano amico dei mafiosi. Il M5s si suicida a governare con lui". Libero Quotidiano il 05 febbraio 2021. A Marco Travaglio sta "sfuggendo di mano" il M5s. Insomma, dopo l'addio di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, dopo la cacciata del suo "preferito", il direttore è disperato e furibondo. Si diceva: i grillini. Sin dal principio, mister Fatto Quotidiano aveva chiesto di non appoggiare Mario Draghi. Il M5s sembrava seguirlo poi, ieri, giovedì 4 febbraio, la retromarcia introdotta da Luigi Di Maio. Nel nome della poltrona, ovviamente. Dunque oggi ecco il fondo di Travaglio, talmente disperato da "scordare" (si fa per dire...) Matteo Renzi e tornare ad insultare il nemico di sempre, l'uomo che lo ha ossessionato per una vita intera e contro il quale torna a vomitare livore nel momento per lui più duro. Chi? Silvio Berlusconi, ovviamente, protagonista assoluto della prima pagina del Fatto, il cui titolo di apertura recita: "Governare con lo psiconano?". Domanda ovviamente retorica e altrettanto ovviamente rivolta ai grillini. Nel suo fondo, Travaglio, premette: "Ci sono vari modi per suicidarsi: l'aspide, la cicuta, il gas, il cappio, il balcone, la finestra, il ponte, la clinica svizzera, i barbiturici, le vene tagliate nella vasca da bagno, il topicida, la pasticca di cianuro. Tutti tragici, ma rispettabili. Il meno onorevole è consegnarsi volontariamente al carnefice pensando o raccontando che così lo si migliora e lo si controlla. Eppure è la strada che, secondo indiscrezioni, pare abbiano scelto Grillo e parte dei 5Stelle poche ore dopo che i gruppi parlamentari che avevano deciso (a maggioranza ampia al Senato e più risicata alla Camera) di non appoggiare il governo Draghi". Insomma, per il direttore e "leader" grillino, i grillini si stanno suicidando. Come detto in premessa, a Travaglio sta "sfuggendo" il M5s. Dunque Travaglio aggiunge che il carnefice non è Draghi, ma "i carnefici sono i compagni di strada che si ritroverebbero accanto i 5Stelle con l'insano gesto. Draghi non è un drago sceso dal cielo che ripulisce, con un colpo di coda e di spugna, le lordure di un Parlamento pieno di voltagabbana, sciacalli e squali". Il direttore passa poi in rassegna quelle che definisce "le 4 alternative di Draghi". Che sarebbero: "Governo giallorosa-bis. Includerebbe M5S , Pd e LeU, che si ritufferebbero nelle grinfie dell'Innominabile, di nuovo decisivo, come se questi 17 mesi di sevizie non fossero bastati. Ammetterebbero che il problema era Conte (non una grande idea per chi lo vuole candidato premier). E ricomincerebbero a litigare su Mes, giustizia, reddito, bonus, autostrade ecc. Governo Ursula. Terrebbe insieme M5S , Pd, LeU, FI , Iv, Bonino e Calenda. "Tutta gente col pelo sullo stomaco abituata da anni a inciuciare e a far digerire di tutto ai rispettivi elettori (reali o virtuali), con un'eccezione: i 5Stelle", tromboneggia Travaglio, come se negli ultimi anni i grillini non avessero fatto digerire ai loro ormai pochi elettori tutto e il contrario di tutto. E dopo questa risibile tromboneggiata, ecco che Travaglio si gioca il jolly-Berlusconi. I grillini, scrive, "con tutti possono governare, fuorché col pregiudicato amico dei mafiosi e con l'irresponsabile che ha rovesciato Conte per espellerli dal consorzio civile, cancellare le loro riforme, sputare sulle loro bandiere, radere al suolo ogni loro traccia e spargervi il sale misto al veleno dei Calenda & Bonino". Certo, c'è anche Matteo Renzi di mezzo. Ma nel momento della disperazione, et voilà, ecco il Cavaliere, lo "psiconano", "pregiudicato", "amico dei mafiosi". Che miseria...

Marco Travaglio l'ha presa bene: "Matteo Renzi? Crisi delinquenziale, invidioso allergico alla giustizia". Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Ciao ciao, Giuseppe Conte. Fatto fuori. A casa. Cacciato. Niente più Palazzo Chigi. Arriva (forse) Mario Draghi. E secondo voi come la ha presa Marco Travaglio? Ecco, maluccio, per usare un'eufemismo. Un travaso di bile, quello firmato dal direttore del Fatto Quotidiano in prima pagina oggi, mercoledì 3 febbraio, il primo giorno dell'Italia senza il "suo" Conte". Furia cieca contro Matteo Renzi, un profluvio di insulti. Insomma, per Travaglio una spettacolare, godibilissima, crisi di nervi. Di cui vi diamo un piccolo assaggio. Di seguito, l'attacco del pezzo di Travaglio: "Non è vero che l'esplorazione di Fico sia stata totalmente inutile. Non ci ha ridato un governo, ma almeno ha spiegato fino in fondo a chi ancora avesse dubbi cosa c'era dietro la crisi più demenziale e delinquenziale del mondo scatenata da Demolition Man: al netto delle ragioni psicopolitiche, dall'invidia per la popolarità di Conte alla frustrazione per l'unanime discredito che lo precede su scala mondiale (Arabia Saudita esclusa), ci sono l'inestinguibile bulimia di potere, l'acquolina in bocca per i 209 miliardi in arrivo, la fame atavica di poltrone del Giglio Magico e la congenita allergia per una giustizia efficiente e uguale per tutti", scrive il direttore. Dunque, in breve sintesi. Crisi "demenziale e delinquenziale", innescata da Renzi, al quale gli aggettivi devono essere evidentemente riferiti. Poi le ragioni "psicopolitiche", dell'"invidioso" e "frustrato" Demolition Man. E ancora, la "bulimia di potere", la "fame atavica di poltrone", e anche la "congenita allergia per una giustizia efficiente e uguale per tutti", la quale giustizia, stando al pensiero di Travaglio, sarebbe stata garantita da Alfonso Bonafede (il Bonafede che Renzi non avrebbe mai digerito). Insomma, grassissime risate. Il fondo di Travaglio ovviamente prosegue. Ma tanto basta per farvi capire come la abbia presa. Giornataccia, per il direttore...

Lo sfogo del leader di Italia viva. Renzi ai giornalisti: “Così liberi che ci siamo dimessi, voi mediocri avete insultato le nostre donne”. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. “Siamo così attaccati alle poltrone che ci dimettiamo”. E’ un Matteo Renzi che si scaglia contro i giornalisti nel corso della conferenza stampa alla Camera, durata oltre un’ora, nel corso della quale ha annunciato l’uscita del suo partito, Italia Viva, dalla maggioranza dell’attuale governo guidato dal premier Giuseppe Conte. Annunciate le dimissioni delle ministre Teresa Bellanova (politiche agricole alimentari e forestali) ed Elena Bonetti (politiche per la famiglia), nonché del sottosegretario al Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale Ivan Scalfarotto. “A tutti quelli che dicono ‘come si fa ad aprire una crisi durante la pandemia‘, noi rispondiamo che non vogliamo aprire la crisi, è siamo talmente liberi che dimettiamo” ha sottolineato Renzi prima di attaccare i media: “Ci avete detto per un mese ‘voglion le poltrone, non si dimetteranno mai’, avete fatto i titoli, avete preso in giro le nostre ministre”. “I particolar modo – ha aggiunto – prendete in giro, alcuni di voi, le donne del nostro partito perché vi viene più facile nella vostra mediocrità e perché siamo gli unici che mettono le donne in prima fila con incarichi di responsabilità”. Renzi rincara: “Le avete preso in giro sugli aspetti fisici, sui vestiti. Con Teresa Bellanova avete iniziato da subito, dal giorno del giuramento in Quirinale partendo dal suo vestito”. L’ex premier spiega ulteriormente le ragioni dell’addio all’attuale Esecutivo: “Chi in nome della pandemia pretende di fermare il gioco democratico non sta bloccando il virus, la pandemia, il contagio, ma sta bloccando la libertà, la democrazia, la politica. Volete risolvere la crisi? Date più soldi alla sanità, mettete in moto i cantieri e troverete Italia viva al vostro fianco”. Renzi contesta il mancato uso del Mes e rivendica i cambiamenti sul Recovery che in consiglio dei ministri “nessuno aveva letto”. Precisa che le elezioni ci saranno nel 2023 e che Italia viva “non ha nessuna pregiudiziale sui nomi”, compreso quello dello stesso Conte, ma “non darà vita a un governo con forze sovraniste e anti-europeiste che hanno dato vita al primo governo Conte“. Sul futuro prossimo: “Penso che l’appello del presidente della Repubblica sul tema “costruire” sia l’appello più bello degli ultimi mesi ma non si costruisce sulla sabbia, senza chiarezza. Se è chiaro dove si vuole arrivare si costruisce tutti insieme. Noi siamo orgogliosamente costruttori ma vogliamo vedere prima il progetto”.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 14 gennaio 2021. Ci sono cose che proprio non capisco. Colpa mia. Non capisco perché le immagini del presidente Giuseppe Conte che provengono da Palazzo Chigi non sono girate dal Servizio pubblico, ma da una struttura alle dipendenze di Rocco Casalino. Quando Silvio Berlusconi mandava ai tg le cassette registrate dei suoi interventi, tutti abbiamo gridato allo scandalo. Adesso è normale? È giusto che un premier usi il Covid come scusa per una simile forma di controllo? La Rai giustifica questa anomalia sostenendo di voler evitare che operatori dell’azienda possano «infettarsi» nelle stanze Palazzo Chigi. Non capisco perché la Rai dia così tanto spazio alla concorrenza, nella fattispecie a Maria De Filippi. Inviti al Festival di Sanremo, inviti in trasmissioni, inviti di lunga durata da Fabio Fazio. È normale? Maurizio Costanzo e Maria De Filippi godono di così tanti privilegi da poter praticare il crossover a loro piacimento? O vedremo presto Fazio ospite di Amici? O vedremo presto Maria De Filippi produrre per la Rai e condurre per Mediaset? Non capisco perché il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini abbia voluto creare una piattaforma streaming, ITsArt, «per valorizzare nel mondo l’offerta culturale italiana e in particolare gli spettacoli dal vivo». L’idea è stata subito battezzata, con sprezzo del ridicolo, la «Netflix della cultura» o la «Netflix di Stato». Al di là di ogni discorso sugli investimenti (soldi del Recovery Fund, della Cassa Depositi Prestiti o del Fondo unico dello spettacolo?), il ministro non ha fatto altro che svilire il già precario ruolo del Servizio pubblico. Non bastano Rai5 o Rai Storia? Salvo Nastasi pensaci tu. Non capisco perché la docu-serie SanPa, di cui tutti abbiamo scritto bene, abbia voluto infierire su Vincenzo Muccioli affidando la difesa del Fondatore e dei suoi metodi di recupero al «soldato di San Patrignano» Red Ronnie. Una vera perfidia.

Da adnkronos.com l'1 febbraio 2021. "Oggi Travaglio su RaiTre ha paragonato Matteo Renzi a Bin Laden. Giorni fa aveva invitato i lettori del suo "giornale" a sputare su una foto del leader di ItaliaViva. Io mi auguro che Renzi lo quereli. Perché questo signore, al servizio di Casalino, ha oltrepassato il segno". E' il tweet dell'esponente di Italia viva Anna Rita Leonardi che lo stesso Matteo Renzi ha rilanciato. Travaglio, analizzando la crisi di governo, è intervenuto a Mezz'ora in più. Negli ultimi giorni, Renzi è salito alla ribalta anche per il viaggio in Arabia Saudita e l'intervista al principe Mohammed bin Salman. "Su Rai3 Travaglio, invitato in qualità di sostenitore di Conte, paragona Renzi al terrorista Bin Laden, con un rancore che non dovrebbe avere nulla a che fare col servizio pubblico. Se non arrivano prese di distanza da Conte, per me andrebbe interrotta ogni trattativa di governo", scrive su Twitter il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi.

Travaglio nella ridotta del Conte-ter. Il suo “Fatto” sempre più partito e sempre meno giornale. Marzio Dalla Casta lunedì 1 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Ma quale Draghi, quale Cottarelli e quale Cartabia. Ma ci faccia il piacere: Giuseppe Conte è il solo premier e Roberto Fico è il suo profeta. Semina certezze di granito il Fatto di Marco Travaglio nel quotidiano reportage sulla crisi di governo. Oggi a campeggiare in prima pagina è la smentita del Quirinale sui magheggi in corso per portare SuperMario a Palazzo Chigi. Secondo Stampa e Repubblica, l’ex-presidente della Bce aveva avuto più d’un colloquio telefonico con Mattarella e stretto un mezzo accordo con l’Innominabile Matteo Renzi. Su quest’ultimo non v’è certezza, ma quanto ai primi la precisazione è arrivata più puntuale di una cambiale in scadenza: dal Colle nessun sondaggio su Draghi. Gongola il giornale di Travaglio che spara la smentita attaccando «il partito Stampubblica» (i due citati giornali appartengono al Gruppo Gedi della famiglia Elkann) catalogato nella categoria dei «poteri forti». A conferma che ha ragione chi dice che c’è un limite a tutto, tranne che al ridicolo. E certamente ridicola è la vulgata di Travaglio “uomo contro”. È vero semmai il contrario: non è mai stato un profeta disarmato. Persino nei tempi “eroici” degli «editti bulgari» godeva del soccorso rosso del mainstream editoriale, comprese le testate additate come “nemiche”. A maggior ragione oggi che è leader di fatto dei 5Stelle e, quindi, azionista di riferimento della maggioranza, per non parlare dei solidi (e soliti) ancoraggi con Csm, procure e tribunali. Il che fa del suo Fatto Quotidiano un giornale-partito a tutto tondo. Purtroppo per Conte e per Di Maio, tuttavia, Travaglio è tanto asso nel giornalismo quanto disastroso in politica. Il diario della crisi ne è una prova inconfutabile. Quando Matteo d’Arabia ha fatto saltare il governo, è stato lui a spingere Conte nel vicolo cieco dei “responsabili“. Non pago, ha poi titillato l’istinto anti-renziano dei Cinquestelle costringendo il povero Crimi a passare dal «mai più con lui» al «nessun veto». Una piroetta che ha raso al suolo quel che restava della credibilità grillina. Nel frattempo, lui si è asserragliato nella ridotta del Conte-ter e da lì spara contro chiunque proponga premier alternativi. Perché in fondo pensa che sia sempre meglio perdere elettori che lettori. Perisca pure il MoVimento, purché viva il giornale-partito. Chiamalo fesso.

Travaglio inguaia Conte e svela l’uso dei soldi pubblici per un sondaggio sul premier. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Gennaio 2021. La Presidenza del Consiglio avrebbe commissionato a pagamento un sondaggio sul gradimento di Giuseppe Conte rispetto agli altri leader del partito. A renderlo noto è il Fatto Quotidiano che ne pubblica i risultati: Giuseppe Conte in testa, Matteo Renzi ultimo. È questo che emerge da un sondaggio Ipsos sul gradimento dei leader. Se la notizia fosse fondata, Palazzo Chigi (l’articolo recita già dall’occhiello “La rilevazione per Chigi”) avrebbe destinato fondi pubblici a scopi di propaganda. La questione non è passata inosservata ed è stata denunciata da Michele Anzaldi, segretario della Commissione di Vigilanza Rai e deputato di Italia Viva. “Se fosse confermato quanto scrive Il Fatto Quotidiano, ovvero che la presidenza del Consiglio ha commissionato e pagato un sondaggio sul gradimento di Conte e il confronto con i leader dei partiti – scrive Anzaldi su Facebook – saremmo di fronte ad un gravissimo abuso che sconfina nel danno erariale. A che titolo Palazzo Chigi spende i soldi dei cittadini per testare il gradimento personale di Conte come leader politico?” “A che titolo Palazzo Chigi – continua nel post – a maggior ragione in piena crisi di governo da oltre due settimane e con il presidente del Consiglio dimissionario, rileva il consenso dei singoli partiti? Mai nella storia della presidenza del Consiglio si era assistito ad un tale uso personalistico di risorse pubbliche, è urgente che se ne occupino il presidente dell’Anac Busia e la Corte dei Conti, presenterò un esposto”. “Nel tentativo di suonare la grancassa a Conte, Il Fatto stavolta ha giocato un brutto scherzo a Palazzo Chigi perché ha rivelato che il sondaggio pro Conte che da ieri viene fatto girare nelle redazioni è stato commissionato direttamente da Conte. La presidenza del Consiglio, però, non può commissionare sondaggi politici e partitici ma solo sull’attività di governo. Qualcuno ora ne risponderà”, ha concluso Anzaldi.

L'iniziativa del Fatto Quotidiano. Travaglio ossessionato da Renzi, Salvini e Berlusconi: pubblica il calendario dei processi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Come sarà il 2021? Non chiediamolo a Nostradamus, meglio rivolgersi ai pubblici ministeri e ai giudici. Ce lo suggerisce il Fatto quotidiano, con quattro pagine e un folto gruppo di cronisti d’assalto a ricordarci che sul banco degli imputati ci saranno ancora Renzi e Salvini e Berlusconi. E poi Palamara e Descalzi. E questo è il vero e unico, per loro, calendario dell’anno in corso. All’inizio dell’anno si rinnova il calendario. In gran parte del mondo, come in Italia, si usa il calendario gregoriano, che si fonda sull’anno solare. Ma c’è poi il Calendario cinese, che è lunisolare, quindi alterna anni di dodici mesi con anni di tredici, proprio come il Calendario ebraico. Mentre il Calendario islamico è un calendario lunare e si basa sulla durata del mese lunare, mentre il Calendario indiano è di dodici mesi, cui si aggiunge un giorno quando l’anno è bisestile. Queste sono le tipologie di calendari che regolano la nostra vita. Ma arriva comunque per tutti, tra poco anche per i cinesi, un momento in cui si fanno i conti con il recente passato e si fa il punto sull’anno che verrà. Che governo avremo? Quali progetti per l’economia il lavoro la scuola l’ambiente la giustizia? E per la salute, a che punto saremo nella lotta al tremendo Coronavirus che sta distruggendo tante nostre speranze, oltre a molte vite umane? Ci vogliono veramente delle menti ossessionate e ossessive per proporre ai propri lettori (che immaginiamo non siano proprio tutti così paranoici) un calendario fatto tutto quanto solo di imputati. Il titolo è promettente: “Un 2021 di indagini e processi”, con un bel panorama, composto solo da “nemici”, politici o imprenditori, degli estensori e di chi li dirige. Il quale direttore, purtroppo per noi che siamo suoi affezionati estimatori, da quando si è autoproclamato come addetto stampa del signor Giuseppe Conte (che casualmente fa il presidente del consiglio) purtroppo non si occupa più di giustizia. Ma ogni giorno, dalla solita colonnina di destra della prima pagina, tira sciabolate a tutti i quotidiani e i giornalisti non allineati con lui e con l’Amor Suo. Ma i suoi cronisti d’assalto non gli sono da meno. I protagonisti politici sul banco degli imputati sono i soliti tre: Berlusconi, Salvini, Renzi. Solo quest’ultimo merita la prima pagina, con sua foto insieme a Maria Elena Boschi e una domanda ficcante, “Chi vuole piazzare 2 indagati al governo?”, che pare aprire il calendario processuale del 2021. Dal punto di vista dell’accusa, naturalmente, nel solito circo mediatico-giudiziario d’antan. Matteo Renzi è indagato a Firenze per una vicenda che si sta un po’ trascinando e che riguarda finanziamenti privati alla Fondazione Open, che un pubblico ministero definito dal segretario di Italia Viva come “ossessionato” dalla sua persona, ritiene essere la cassaforte del partito, che sarebbe stata riempita sotto banco per far confluire i soldi direttamente e fuori bilancio a Iv. La difesa non è riuscita a far spostare la competenza territoriale, sulla base dei luoghi dove erano avvenuti i primi versamenti. Niente da fare. Ma una qualche soddisfazione era arrivata nel settembre dell’anno scorso da un’ordinanza della sesta sezione della cassazione che annulla vari sequestri di computer e telefonini disposti nei confronti di tutti i componenti della famiglia che gestiva la multinazionale farmaceutica di Firenze Menarini. Naturalmente il Fatto non ne parla, ma nel testo del provvedimento si legge che «Il sequestro sulla Fondazione Open fu invasivo e sproporzionato», oltre che «onnivoro e invasivo». L’ordinanza della Suprema Corte dice esplicitamente che chi indagava per i finanziamenti alla Fondazione Open cercava di usare i sequestri per individuare altre notizie di reato. Se questo era lo stile, cioè individuare il “reo” prima di aver trovato il reato, forse non aveva tutti i torti Matteo Renzi quando diceva che un certo magistrato era “ossessionato” dalla sua persona. Ma non è il solo. Certe patologie riguardano anche la stampa, o almeno una sua parte. Se Renzi è il numero uno delle ossessioni travagliesche, sicuramente Salvini, con annessi e connessi della Lega, a partire dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, è il numero due. Sono quattro i servizi dedicati a lui e ai suoi amici. Il primo, “Salvini in aula per i sequestri degli immigrati” non teme il ridicolo. Non un’ombra di dubbio sfiora il cronista, mentre racconta, con il tono virtuoso del bravo cronista, la storia di Open Arms. Neanche un accenno alla testimonianza dell’ex ministro Toninelli e dei suoi 42 “non ricordo”. Neppure un dubbio sul fatto che per esempio anche quando ormai c’era il governo Conte due e il ministro dell’interno era già Luciana Lamorgese, un’altra nave fu tenuta a lungo ferma in porto con i suoi passeggeri “sequestrati”. Magari perché si era in campagna elettorale. Gli altri articoli su persone legate alla Lega servono solo a uno scopo: cercare di dimostrare – dimenticando il piccolo principio costituzionale che afferma essere la responsabilità penale personale – che tutto fa brodo e tutto va ricondotto al finanziamento illecito al Carroccio. Si rispolvera persino (un invito al magistrato?) l’episodio dell’hotel Metropol di Mosca, di cui non si sa più niente, forse perché non esiste il reato e l’inchiesta potrebbe essere finita su un binario morto, come si fa quando non si ha la forza di archiviare. Il terzo politico preso di mira non potrebbe che essere Silvio Berlusconi. Ci sono tre tronconi sparsi per l’Italia del processo “Ruby ter” in cui il leader di Forza Italia è a giudizio perché accusato di aver corrotto testimoni delle due precedenti cause. Anche qui una ruga di dubbio non solca mai la fronte del cronista. Questi testimoni dovrebbero dire la “verità” su quel che succedeva nelle cene di Arcore. Ma nulla dello svolgimento di quelle serate costituisce reato, come ha stabilito una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Che bisogno c’era quindi di corrompere testimoni che nulla avrebbero potuto dire oltre a quel che è stato sancito da una sentenza definitiva? Gli altri casi giudiziari che avranno sviluppi nel 2021 riguardano l’ex magistrato Palamara e il suo processo di Perugia e anche quello sul crollo del ponte di Genova dopo la perizia che ha appurato la mancanza di manutenzione nel corso degli anni. E infine la vicenda Eni e la presunta maxitangente nigeriana per la quale viene processato l’amministratore delegato Claudio Descalzi per corruzione. Come dimenticare l’arringa del pm milanese De Pasquale che ha chiesto otto anni di carcere il 20 luglio scorso, nella stessa data tragica del suicidio nel carcere di San Vittore nel 1993 di un altro presidente Eni, Gabriele Cagliari, da lui indagato e “imbrogliato” sulla concessione della libertà? E come dimenticare il fatto che in un’inchiesta gemella, ma che riguardava l’Algeria, lo stesso preside te Descalzi è stato assolto dalla corte d’appello di Milano? I cronisti del Fatto non ricordano. Ricordano solo che il loro calendario non è né lunisolare né lunare, ma giudiziario. Anzi giustizialista.

"I topi di fogna" di Travaglio e gli ultra-contiani rosiconi. Il direttore del "Fatto" insulta tutti, inclusi i giornalisti. Un post anti-Renzi sulla pagina Facebook di Giuseppi. Fabrizio Boschi, Venerdì 15/01/2021 su Il Giornale. È da sempre ossessionato da Renzi, Salvini e Berlusconi ma ciò che più lo manda fuori di testa sono gli affronti ai suoi prediletti, Conte e Grillo. Marco Travaglio sveste i panni da giornalista equilibrato, cane da guardia del potere, quale lui si crede di essere, e indossa quelli dell'odiatore seriale, arrogante e villano, che farcisce i suoi editoriali di insulti. La crisi di governo in corso trasforma il Fatto quotidiano nel foglio del premier per massacrare chi vuole fargli le scarpe. «Finalmente te ne vai», è il titolo rivolto a Matteo Renzi, o come lo definisce Travaglio, «l'Innominabile», indegno anche di un nome e cognome. «Ieri, ogni volta che mi mettevo a scrivere, dai laboratori di Italia Virus fuoriusciva una flatulenza opposta a quella di un minuto prima», l'incipit. «Il vero spettacolo non è l'Innominabile che parla tre ore senza dire nulla, se non che apre la crisi perché gli sta sulle palle Conte - scrive -. È che c'è ancora qualcuno che gli crede e lo prende sul serio. Mente da 10 anni ogni volta che respira. Ha tradito tutti quelli che han fatto patti con lui». Il livore riversato dal direttore del Fatto contro il leader di Italia Viva stilla da ogni riga: «traditore», «flagello di dio», «il nulla», l'«italomorente». Il veleno continua dall'inizio alla fine dove qualifica il senatore di Scandicci come «il sòla dell'avvenire». E se la prende pure coi colleghi giornalisti che se non la pensano come lui chiamandoli «topi di fogna»: «I giornaloni raccontano di un'inesistente lite o rissa o sceneggiata fra lui e Conte, che non ha mai detto una parola contro di lui, ingoiando insulti, calunnie e provocazioni. Topi di fogna da maratona tivù tornano o diventano renziani e persino salviniani, sparando su eventuali responsabili, transfughi, ribaltoni». Il consigliere del premier Travaglio ne ha anche per il Pd, «che più prende ceffoni, calci e pugni, più gode e strilla ancora! ancora»! Una scena sadomaso che mette tristezza e clinicamente si spiega soltanto con la variante italiana della sindrome di Stoccolma: la sindrome di Rignano». Nel suo rigurgito Travaglio continua a citare Renzi senza mai nominarlo come «noto ai tempi d'oro per portare fortuna a se stesso e sfiga all'Italia, ora porta sfiga a se stesso e fortuna all'Italia». Ma non è solo il «Conte quotidiano» e i suoi giornalisti, da Scanzi a Gomez, a perdere le staffe: anche tutto il mondo M5s, blog e militanze varie, si schierano dalla parte del premier e contro Renzi e Twitter diventa la cloaca di tutti. La giornalista Giulia Cortese twitta: «È un giocatore di poker, nonché un accoltellatore seriale». David Parenzo sintetizza da fine politologo: «Non ha calcolato il punto di caduta della sua trattativa e ora rischia di trovarsi con un pugno di mosche in mano». E Gad Lerner ci illumina: «Neanche il buon gusto, l'osservanza delle regole istituzionali o, se preferite, la cavalleria di lasciare che fossero le "sue" due ministre a comunicare le proprie dimissioni, ha avuto». Sullo sfondo un piccolo giallo. Ieri sera è comparsa sulla pagina ufficiale Facebook di Conte la storia che promuove il gruppo «Conte premier Renzi a Casa. Se vuoi mandare Renzi a casa e supporti Conte iscriviti nel gruppo. Scorri in alto», con uno scatto del premier sorridente e il viso di Renzi contratto in una smorfia e il link all'account ufficiale del M5s. La storia è stata rimossa dopo pochi minuti, con le giustificazioni dello staff del premier che parla di «hackeraggio per danneggiare l'immagine del presidente». Anche qui c'è lo zampino di Renzi?

E’ giornalismo, questo? Il tritacarne di Travaglio contro Oliverio: 15 prime pagine di accuse, una breve a pagina 13 per l’assoluzione…Redazione su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. L’assalto giudiziario del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri contro l’allora presidente della regione Mario Oliverio fu raccontato ed esaltato dal Fatto Quotidiano almeno 15 volte in prima pagina. Sapete – no? – come si chiama questa pratica, in gergo: è la gogna mediatica. Si prendono le accuse di un Pm, si trasformano in sentenze per magia, e si usano per demolire una persona. Molti articoli, molti titoli, molti editoriali di Marco Travaglio in persona. Poi un bel giorno succede che il Gup debba emettere una sentenza sulle accuse di Nicola Gratteri a Oliverio. E la sentenza è semplice, secca e veloce: il fatto non sussiste. Cosa sussiste? Solo il Fatto Quotidiano. Il quale ripara alla sua travolgente e sconsiderata campagna di stampa con un gesto molto onesto: dà notizia ai suoi lettori della assoluzione. In pagina 1? no. In pagina 2 ? No. In pagina tre, quattro, cinque, sei… no, no, no. In pagina 13. Proprio in fondo alla pagina. Una “breve” (si chiama così, sempre in gergo giornalistico, spesso viene usata per annunciare feste di paese, di piccolo paese, o lotterie, o riffe) di 18 righe esatte, con un titolo a una colonna. Nelle 18 righe non trova spazio la parola Gratteri. Cioè il nome del magistrato che ha collezionato il suo ennesimo flop, dopo aver terremotato la regione e spinto al cambio di maggioranza. E’ giornalismo, questo? Diciamo che se per giornalismo intendiamo l’attività di chi fa informazione, beh, no: non è giornalismo. Se invece ci riferiamo solo al giornalismo italiano, allora sì: è giornalismo di prim’ordine…

Dalla toga alla penna. Davigo entra nella squadra del Fatto Quotidiano, Travaglio esulta. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Gennaio 2021. Piercamillo Davigo trova spazio, e forse anche sfogo, consolazione, sicuramente voce sulle pagine dell’amico, e in certo senso discepolo, Marco Travaglio. Fresco fresco della bocciatura del Consiglio di Stato per il suo ricorso contro la delibera del Csm che lo aveva dichiarato decaduto come consigliere dopo il pensionamento, Davigo è ufficialmente diventato una firma de Il Fatto Quotidiano. Il mercato di gennaio si apre con un vero e proprio colpo, un top player del giustizialismo, per la squadra di Travaglio. Un’attività incompatibile, questa, come ha ricordato Libero, con la carica all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura – e questo qualcosa suggerisce. Lascia la toga per la penna, l’ex magistrato considerato il dottor Sottile del pool di Mani Pulite. Che quindi si darà all’editoriale e che potrà continuare a esternare le sue osservazioni contro la prescrizione, contro gli avvocati, contro il diritto di difesa dalle colonne dello stesso quotidiano. Un unico cambiamento: da firma e non più da toga. Poco male. L’esordio assoluto il 7 gennaio. Il primo articolo sul presunto sovraffollamento delle carceri italiane. Appena 92 detenuti ogni 100mila abitanti, ha scritto. A ogni detenuto è garantito lo spazio vitale di 9 metri quadrati che diventano 5 dal secondo ospite. “Lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni civili”, ha concluso l’ex pm. La cella come una casa – è il decreto ministeriale del 5 luglio 1975 a stabilire che la superficie delle celle singole non può essere inferiore a 9 metri quadrati, più 5 metri quadrati per ogni altro detenuto. Altro che “presunto” sovraffollamento: a dicembre 2020 in galera ci sono 53mila persone su 47mila posti, e, come faceva notare Rita Bernardini su questo giornale, “le stanze detentive inutilizzabili sono 1.755. A queste si aggiungono 999 posti indisponibili. Ed ecco che il tasso di sovraffollamento nazionale passa dal 105,5% al 114,5%”. Non una novità però, tutto questo: nel 2018, mentre su 50.615 posti c’erano 58.569 persone dietro le sbarre, Davigo affermava che “la storia del sovraffollamento delle carceri è una balla”. Una fake news insomma. L’intervista era per Il Fatto Quotidiano. L’intervistatore Marco Travaglio.

Gustavo Bialetti per "la Verità" il 13 gennaio 2021. Finalmente svelato che hanno visto Marco Travaglio e la redazione del Fatto Quotidiano in Giuseppe Conte: il Messia. Soltanto un'epifania poteva trasformare un foglio battagliero in una gazzetta che da mesi non solo perdona ogni nefandezza al governicchio giallorosso, ma lo difende dai nemici come fosse l'apostolo Paolo. Potenza di Matteo Renzi, verrebbe da dire, se il termine non fosse un po' esagerato per un tizio che a malapena sfiora il 3% nei sondaggi, nonostante berci da due mesi tutto il giorno a rete unificate.La santa agnizione è scattata ieri con un editoriale del cattolico Franco Monaco, ex deputato prodiano in quota tonache progressiste. Il Monaco (si chiama davvero così) ieri ha vergato un duro attacco al Bullo e al Pd di Nicola Zingaretti, «reo» di non difendere a dovere San Giuseppi, così titolato: «Barabba è in Italia viva e il Pd fa Ponzio Pilato». Il giurista di Volturara Appula come Gesù? Ecco, Monaco, da bravo avanzo di parrocchia, non ci è arrivato per non incorrere in accuse di blasfemia. E alla fine ha scritto: «In questa storia non c'è Gesù, c'è Barabba, ma c'è anche Ponzio Pilato». Ok, Barabba sarebbe Renzi e Pilato Zingaretti, ma per quattro colonne l'editorialista non fa altro che glorificare il premier. Conte viene definito come «un competitor (di Renzi, ndr) che gode di un cospicuo consenso», evidentemente rilevato da Monaco per illuminazione dello Spirito santo. E l'avvocato del popolo sarebbe «l'elemento di equilibrio non solo del governo di oggi, ma della sola prospettiva strategica suscettibile di allestire un'alleanza che possa competere con il centrodestra». Quindi giù le mani dal Messia con la pochette. Anche se preferiamo non sapere, nello speciale presepe del Fatto, che personaggi siano la fidanzata Olivia Paladino e il tutore Rocco Casalino.

DAGONOTA il 12 gennaio 2021. L’articolo più divertente del giorno, per la bile che sprizza da ogni virgola, è indubbiamente quello di Marco Travaglio. ‘’I retroscena del Giornale Unico, sempre più simili alle "bombe di Mosca" al processo di Biscardi, danno per certo uno sbocco "pilotato" della crisi di governo che più ridicolo non si può: Conte si dimette dopo l'approvazione del Recovery Plan, perché Bettini ha parlato con l'Innominabile, che gli ha garantito l' appoggio a un "Conte-ter", dunque c'è da fidarsi. E continua: “Dopodiché 5Stelle, Pd, LeU e Iv si siedono al tavolo per spartirsi i ministeri all' insegna di un "riequilibrio" in base a fantomatici "nuovi rapporti di forze". Magari con Orlando e Di Maio vicepremier, e/o Bettini sottosegretario a Palazzo Chigi, e ministri Iv al posto di due, compresi la Boschi, Rosato e magari pure l'Innominabile (sempreché vinca la naturale ritrosia alle "poltrone"). Finale: “In cambio di queste radiose prospettive, Conte cederebbe la responsabilità sui Servizi (che gli spetta per legge) e rinuncerebbe alla fondazione sulla cybersicurezza (e ai 2 miliardi che l'Ue ci mette a disposizione)”. Ovviamente Travaglio non poteva non sorvolare sul fatto che il piano del Recovery, senza l’azione di Renzi, sarebbe rimasto quello di ieri: una cabina di regia in mano al Conte Casalino, con 6 manager e un plotone di “esperti” e fuori dalle palle i ministri della maggioranza. La solita attitudine autoreferenziale di un premier senza partito ma così pieno di sé che potrebbe stare un mese senza mangiare. Dall’emergenza Covid ai servizi segreti, dagli Stati Generali al Recovery, giorno dopo giorno, il duplex Casalino-Travaglio è riuscito a trasformare l’arbitro-passacarte del governo Salvini-Di Maio nel bomber-capitano del governo Zinga-Di Maio. Bel colpo, riuscitissimo, grazie allo dissoluzione dei 5stelle e a un PD acefalo e spacchettato. Alla lunga il Contismo senza limitismo non poteva durare. Il troppo stroppia. Renzi Mister 2% ha potuto azzopparlo perché ha agito come ariete per conto terzi, vale a dire per gran parte delle correnti del Pd che non fa riferimento a Zinga-Bettini-Amendola-Gualtieri-Franceschini. Mentre il silente Di Maio non è mai intervenuto seriamente a difesa di colui che mise sulla prima poltrona di Palazzo Chigi: Luigino non è mai stato interpellato dal Conte Casalino nemmeno sull’acquisto della carta igienica di Palazzo Chigi. E ora aspetta sulla riva del fiume che passi il cadavere dell’usurpatore. Il Conte Casalino continua a vivere nel suo mondo delle meraviglie con Travaglio che continua a chiedere che Conte sia sfiduciato in aula, ma non ha capito che è proprio la pochette con le unghie a non voler mettere piede in Parlamento. Una volta sfiduciato diventa inutilizzabile e per ritornare a galla deve aspettare le elezioni politiche del 2023 (campa cavallo). Al punto 4 il direttore del "Fatto’’ si domanda: che senso ha far cadere un premier per tenere la stessa maggioranza? Ma glielo hanno spiegato tutti, da Mattarella fino al Pd: bisogna evitare strappi, occorre mediare, riuscire a rendere concreto il termine “collegialità”. Un premier solo al comando, grazie al Covid, che rifiuta di dimettersi per una “crisi pilotata” volta a rafforzare la squadra con due vicepremier e il cambio di alcuni ministri, avendo alle spalle solo il quotidiano di Travaglio, ha il destino segnato. Scrive Tommaso Ciriaco su "la Repubblica": “Inutile girarci attorno, di fronte al ritiro della delegazione renziana al premier restano solo due strade: dimettersi senza passare dal Parlamento, oppure affrontare l' Aula e scegliere se arrivare o meno a un voto. Deve farsi concavo e convesso, questo gli consigliano. Adattarsi”. Aggiunge Laura Cesaretti su "il Giornale": “In cambio, però, Giuseppe Conte dovrebbe assoggettarsi alla via crucis della crisi: dimissioni, consultazioni, reincarico, nuovo gabinetto e nuova fiducia. Il premier però non ne vuole sapere: «Le crisi si sa come si aprono ma non come si chiudono», dicono i suoi. Conte sa che tra lui e Renzi è una sorta di remake di Highlander: alla fine, «ne resterà soltanto uno». Quindi cerca di frenare la deriva, minacciando di andare a chiedere la fiducia in Parlamento per stanare i renziani. E intanto si aggrappa alla sua ancora di salvataggio: il virus”. Ma è il punto 6 dell’editoriale fattoide a scoperchiare tutte le cazzate della comitiva Conte-Travaglio-Casalino: la difesa a spada tratta della Lamorgese. I tre forse non sanno che è proprio lei la più quotata a prendere il posto dell’avvocato Pio tutto...

Da liberoquotidiano.it il 5 gennaio 2021. Maria Elena Boschi querela Marco Travaglio per l’editoriale del direttore pubblicato sul Fatto Quotidiano il 3 gennaio. Nell’articolo, dal titolo “I veri transfughi”, il giornalista - come molti utenti su Twitter hanno fatto notare – avrebbe esagerato con le parole nei confronti della capogruppo di Italia Viva alla Camera. “Il primo modo di dire del 2021 - si leggeva sulla prima pagina - è 'avere la faccia come la Boschi'. Sempreché la faccia ampiamente rielaborata che domina le 87 interviste rilasciate nell’ultimo mese appartenga davvero alla deputata renziana che nel 2016 annunciò solennemente il ritiro dalla politica in caso di sconfitta al referendum”. Parole forti che  - come riporta l’Huffpost - hanno spinto la Boschi a dare mandato ai propri legali di citare in giudizio Marco Travaglio.

Liberoquotidiano.it il 5 gennaio 2021. Marco Travaglio alza il tiro contro Italia Viva. Il direttore del Fatto Quotidiano, pur di difendere il governo dalle minacce renziane, arriva agli insulti. Questo almeno quanto notato su Twitter dove non è passato inosservato l'editoriale del 3 gennaio. "Il primo modo di dire del 2021 - si legge sulla prima pagina - è 'avere la faccia come la Boschi'. Sempreché la faccia ampiamente rielaborata che domina le 87 interviste rilasciate nell’ultimo mese appartenga davvero alla deputata renziana che nel 2016 annunciò solennemente il ritiro dalla politica in caso di sconfitta al referendum". A difendere Maria Elena Boschi colleghi e non. "Ma sugli insulti indegni e gravissimi rivolti ancora una volta contro la Boschi - commenta Luciano Nobili - , qualcuno ha notizie di una presa di posizione di Lilli Gruber? La paladina dei diritti delle donne, la fustigatrice dei commenti sessisti, non ha nulla da dire al suo ospite fisso Marco Travaglio?".

Dagonews il 24 dicembre 2020. Fiato ai tromboni! Oggi abbiamo l'onore di finire tra i ''pallisti'' di Natale nella rubrica di Marco Travaglio in prima pagina del ''Fatto Quotidiano''. Il nostro peccato è sempre lo stesso: criticare l'intoccabile e meravigliosissimo premier Conte, di cui Travaglio è principale consigliere e suffragetto - "Il Fatto" da giornale di protesta è finito a fare l'house-organ di Palazzo Chigi. Ma si sa, si nasce piromani e si finisce pompieri. Il 28 ottobre scorso, due mesi fa, abbiamo scritto:  ''Che figura da peracottaro per Conte: il direttore dell'Agenzia europea del farmaco smentisce che il vaccino arrivi a Natale''. Per Travaglio evidentemente questa frase è una balla. Eppure Natale è domani e non ci sembra, tra panettone e cotechino, di vedere il vaccino. Voi siete vaccinati? Forse Travaglio è vaccinato e non ce l'ha detto? Certo, tra qualche giorno sarà ''inoculata'' (occhio alle ''o'') un'infermiera dello Spallanzani e qualche dose sarà fornita a una manciata di operatori sanitari. Questo è ''avere il vaccino a Natale''? No, e infatti molti ospedali non sono neanche in grado di gestire le fiale. Per fortuna, proprio ieri 23 dicembre, è giunto in nostro soccorso il commissario Arcuri, con una frase lapidaria sulla prontezza italiana: ''Non possiamo avviare la più grande campagna di vaccinazione che al storia ricordi, nel pieno della recrudescenza della pandemia''. Perfetto. Quindi visto che arriverà la terza ondata, per i vaccini aspettiamo la quarta.

Da ilfattoquotidiano.it il 24 dicembre 2020. Andrea Scanzi intervista Marco Travaglio. Il direttore de Il Fatto Quotidiano è stato ospite dell’ultima puntata del nuovo format di interviste in diretta Facebook ideato dal giornalista e, tra i tanti temi trattati, ha parlato anche del suo rapporto con la televisione e le ospitate nei diversi programmi. “Ci vado perché serve per far conoscere le nostre idee e le battaglia che portiamo avanti come giornale ma io detesto andare in televisione“, ha detto Travaglio. Poi ha passato in rassegna le trasmissioni dedicate all’informazione, da “Otto e Mezzo” a “Porta a Porta” e “Cartabianca“, rivelando quali sono quelle in cui non andrebbe mai come ospite, se invitato.

Trascrizione del video di Andrea Scanzi il 22 febbraio 2021. Questa non è una malattia mortale, porca di una puttana troia ladra. Non è possibile che io veda la gente che non esce più di casa, perché ha il terrore del coronavirus. Leggevo in questi giorni i dati. L’influenza spesso fa più morti anche se fa meno notizia. L’influenza suina del 2009 fece molti più morti, aveva un’incidenza mortale molto superiore, però non frega un cazzo a nessuno, perché evidentemente si chiamava suina e faceva schifo, il nome.

Estratto dell’intervento di Marco Travaglio: “Detesto andare in tv ci vado perché serve, per far sapere che esiste il ‘Fatto quotidiano’. Ci vado a fatica e cerco di sviare quando penso ci possa essere una lite. Non andrei mai ospite a “Porta a porta”, a Piazzapulita o a Propaganda live, da Zoro che mi fa venire l’orticaria. Giletti? Una volta era simpatico ora è diventato TeleSalvini. Un ospite che mi ha messo in difficoltà? Discutere dei processi di Berlusconi con Ghedini, non vai sul liscio. È uno che conosce il diritto, è un osso duro. Un’altra che politicamente si informa, è secchiona, è la Meloni. E’ raro che deliri come fa Salvini che è poi la ragione per cui gli sta mangiando la pastasciutta in testa. Discutere con la Casellati è come picchiare un bambino sul vaso da notte con le mani legate dietro, non è che ti dia soddisfazione. Mario Giordano? Era un bravissimo divulgatore economico poi lo hanno rovinato Gad Lerner, che lo trasformò in un opinionista tv mandandolo in giro a fare il grillo parlante, e Vittorio Feltri, che lo promosse editorialista a “il Giornale”.

Dagospia il 21 dicembre 2020.Marco Zonetti per vigilanzatv.it. Andrea Scanzi (Fatto Quotidiano) ospite di Massimo Gramellini. Marco Travaglio (Direttore del Fatto Quotidiano) ospite di Fabio Fazio. Scanzi, Travaglio ma anche Peter Gomez e Antonio Padellaro (anch'essi del Fatto Quotidiano), tutti vicini al M5s e ospiti fissi nei programmi di La7. Pochi sanno che esiste un filo rosso a legare tutti questi elementi che si chiama Beppe Caschetto. Caschetto è il titolare della ITC 2000, agenzia di management per lo spettacolo che rappresenta anche molti giornalisti e conduttori televisivi di La7. Lilli Gruber, Giovanni Floris, Luca Telese (anch'egli vicino al M5s), Corrado Formigli sono di Caschetto. Nonché Fabio Fazio, Lucia Annunziata e Massimo Gramellini, in forza a Rai3, rete in quota M5s. Il Fatto Quotidiano ha una branca che si chiama Loft e che produce programmi televisivi fra cui "Accordi e Disaccordi" di Andrea Scanzi; "Belve" della fidanzata di Enrico Mentana (direttore informazione di La7), Francesca Fagnani; "La confessione" di Peter Gomez e così via. Programmi che poi Loft del Fatto Quotidiano rivende al canale Nove, del quale Beppe Caschetto è una sorta di ombra grigia. Ovviamente nulla di illecito, di irregolare, di illegale. Semplicemente, quelli che sembrano mondi paralleli che non si toccano mai, sono invece assolutamente compenetrati tramite la figura del potentissimo agente televisivo Beppe Caschetto. A "Quelli che il calcio", Caschetto rappresenta almeno otto membri del cast fisso. A "Che tempo che fa" ne rappresenta almeno cinque (Fazio, Littizzetto, il duo Ale & Franz, Enrico Brignano, Roberto Saviano) senza contare i vari ospiti di turno della stessa scuderia, come per esempio Sabrina Ferilli o Andrea Delogu (che ora è onnipresente in Rai e conduce un programma con Stefano Massini, ospite fisso di Piazza Pulita condotto dal caschettiano Formigli). Nulla di illegale, ribadisco. Ma è utile avere bene in mente questi passaggi per osservare con occhio critico e consapevole talune trasmissioni di approfondimento politico su taluni canali televisivi, per capire come mai sempre i soliti volti che propinano i soliti argomenti nei soliti salotti.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" l'8 gennaio 2021. Ho sempre avuto simpatia nei confronti di Marco Travaglio, che ho definito il miglior giornalista italiano non per quello che scrive, bensì per come lo scrive. Confermo tutto. Tuttavia devo aggiungere che ultimamente, a forza di tifare - legittimamente - per grillini e soci, ha smesso di fare il giornalista allo scopo di indossare i panni del maestrino, un mestiere diverso dal primo per mezzo del quale è diventato qualcuno, non Dio, però quasi. Si è messo a compilare le pagelle dei colleghi, compresi quelli a cui spetta un minimo di rispetto, se non altro perché hanno il merito di non rompergli le scatole più di tanto. Ormai i suoi fondi, alcuni divertenti, non dicono niente eppure riportano in modo maniacale i titoli dei giornali concorrenti. La sua operazione di finto sputtanamento è lecita. Marco dovrebbe sapere che i suddetti titoli sono la sintesi brutale degli articoli. E, se egli mi consente, i redattori che criticano il governo sulla questione della pandemia, e dei vaccini, se ne fottono di Giuseppe Conte e della sua corte dei miracoli, per cui vergano ciò che vedono, per esempio che le vaccinazioni procedono a velocità lumachesca, che le siringhe spedite nelle regioni sono sbagliate, che la chiusura totale degli esercizi non ha portato a una diminuzione dei contagi. Tu invece, caro Marco, dipingi questo cavolo di Paese come fosse un paradiso. Avrai qualche ragione, ma non tutte. Poi, scusa, non è carino tacciare di essere cogliona la massa dei tuoi concorrenti, ergendoti a giudice massimo dei miei stivali. Ti prego, datti una calmata, con l' abbondanza di stronzi in circolazione non puoi prendertela soltanto con gli sfigati che si guadagnano il pane - raffermo - riempiendo quotidiani sempre meno letti per effetto della rivoluzione tecnologica. Dai pure fin che vuoi del fesso a me (tanto più che non sono iscritto al disordine dei giornalisti, una cloaca), però lascia in pace chi lavora, magari pure male, pensandola in maniera differente da te che adori il premier. Sono d' accordo, l' Italia non è affatto peggiore di altre Nazioni in questi oscuri momenti dominati dal virus, ma se un organo di informazione critica il presidente del Consiglio non commette un crimine, figurati, esso si limita a esprimere una opinione non coincidente con la tua. Dove risiede il problema? Io, per esempio, non stimo Domenico Arcuri, il quale a mio giudizio procede a tentoni, però non lo voglio morto, semplicemente auspico le sue dimissioni. È forse vietato? Ciao Marco, non ti incazzare se non siamo uguali. Grazie a Dio.

(Adnkronos il 14 gennaio 2021) - Sulle immagini di Palazzo Chigi usate dalla Rai in questi mesi il presidente della Vigilanza, Alberto Barachini, vuole vederci chiaro e una lettera a sua firma è partita a questo scopo alla volta del settimo piano di Viale Mazzini e più precisamente dell'amministratore delegato Fabrizio Salini, a nome dell'intero Ufficio di Presidenza della bicamerale. Dopo l'interrogazione scritta dal segretario della Vigilanza, Michele Anzaldi, per capire l'origine delle immagini usate dal Servizio Pubblico e dopo la risposta della Rai che spiegava come tali immagini fossero fornite da Palazzo Chigi stesso e non dalla Rai per via del rischio pandemico, ecco sorgere l'esigenza di ulteriori chiarimenti. Esigenza che desta particolare attenzione proprio oggi, giornata in cui sulle storie della pagina del premier è spuntato per pochi minuti l'invito all'iscrizione al gruppo 'Conte premier - Renzi a casa!', poi spiegato come possibile hackeraggio. "Egregio Dottore, La informo che l'Ufficio di Presidenza integrato dai rappresentanti dei Gruppi, nella riunione odierna, mi ha conferito mandato per richiederLe ulteriori chiarimenti in merito alla risposta fornita ad Anzaldi - scrive Barachini a Salini nella missiva di cui l'Adnkronos è in possesso - Mi riferisco in particolare ad un passaggio della predetta risposta nel quale si afferma che 'a causa della pandemia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha disposto che, per motivi di sicurezza sanitaria, non sia opportuno che operatori esterni lavorino negli ambienti del Palazzo Chigi per produrre servizi televisivi e, pertanto, tutte le immagini del Presidente del Consiglio vengono realizzate direttamente dagli uffici della Presidenza stessa'".

(Adnkronos il 14 gennaio 2021) - "Rispetto alle considerazioni riportate nella risposta, nell'ottica della necessaria tutela della autonomia, dell'indipendenza ed autorevolezza delle stesse testate giornalistiche della Rai, Le chiedo cortesemente - esplicita Barachini - di fornire ulteriori elementi informativi sulle modalità e le procedure impiegate per la realizzazione delle menzionate immagini, oltre che una indicazione dell'orizzonte temporale entro il quale si prevede ragionevolmente di ripristinare un ordinario meccanismo di produzione delle riprese che riguardano il Presidente del Consiglio".

Paolo Bracalini per "Il Giornale" il 25 dicembre 2020. A quanto pare, le immagini che utilizzano nei servizi su Conte sono, spesso, proprio quelle che fornisce direttamente Palazzo Chigi. Informazione in stile Istituto Luce, insomma. Tanto che il deputato renziano e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, controllore inflessibile di quel che accade a Viale Mazzini, ha interrogato pubblicamente il presidente Rai, Marcello Foa, e l'amministratore delegato Fabrizio Salini. «Si chiede di sapere se risponda al vero che le immagini utilizzate quotidianamente nei servizi dei telegiornali Rai che riguardano il presidente del Consiglio Conte, anche a semplice copertura dei servizi e non per eventi specifici come conferenze stampa e dichiarazioni alla stampa, siano state realizzate dalla stessa presidenza del Consiglio, che ne deciderebbe così addirittura il taglio giornalistico. In particolare si segnala un vero e proprio abuso di queste immagini al Tg1» scrive il deputato. «Sarebbe la prima volta che si verifichi il caso di un esponente politico che si auto produca le immagini che dovranno rappresentarlo di fatto in tutti i servizi giornalistici quotidiani dell'informazione pubblica. Pur in tempi di Covid, questo non accade per nessun altro esponente politico o delle istituzioni. Non succede neanche per il presidente della Repubblica, le cui immagini sono realizzate dall'apposita struttura Rai Quirinale». Per questo Anzaldi si rivolge direttamente ai vertici della tv di Stato per chiedere «se le testate giornalistiche Rai non ritengano una violazione delle proprie prerogative di indipendenza e deontologia professionale trasmettere tutti i giorni immagini del presidente del Consiglio che sono state realizzate direttamente dagli uffici di Palazzo Chigi» e inoltre «se l'azienda non ritenga doveroso prendere provvedimenti per tutelare la propria indipendenza ed evitare che, approfittando delle restrizioni covid, si crei una vera e propria invasione di campo degli uffici governativi nei confronti dell'autonomia giornalistica del servizio pubblico». Si attendono spiegazioni dalla Rai, panettone permettendo.

Da adginforma.it l'8 gennaio 2021. “A causa della pandemia, la presidenza del Consiglio dei ministri ha disposto che, per motivi di sicurezza sanitaria, non sia opportuno che operatori esterni lavorino negli ambienti di Palazzo Chigi per produrre servizi televisivi e pertanto, tutte le immagini del presidente del Consiglio vengono realizzate direttamente dagli uffici della presidenza stessa”. Lo spiega Viale Mazzini – in risposta ad un’interrogazione del Segretario della Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, che su Facebook si chiede: “Perché la Rai, a differenza delle tv commerciali, ha accettato questa situazione? Perché in particolare il Tg1 ha accettato per mesi di trasmettere le immagini decise e vagliate direttamente dagli uffici del premier?”. Anzaldi parla inoltre di “messinscena orchestrata dai collaboratori di Conte, una situazione da Minculpop che non ha paragoni in nessuna democrazia occidentale. Come possono l’Ordine dei giornalisti, la Fnsi, l’Usigrai, l’Agcom non dire e fare nulla di fronte ad una tale lesione dell’autonomia giornalistica? Perché la Rai ha accettato da Conte, e solo da lui a differenza di tutti gli altri esponenti politici e istituzionali, questa imposizione? La Rai può contare su apparato produttivo di circa 6mila tecnici, ai quali si aggiungono innumerevoli appalti esterni per ulteriori 4mila tecnici: 10mila operatori che avrebbero potuto e dovuto occuparsi delle riprese anche di Conte sono stati umiliati, senza peraltro alcun risparmio – conclude Anzaldi – per il servizio pubblico”.

(DIRE l'8 gennaio 2021) - "Quello che era un sospetto ora diventa una grave e inquietante certezza: tutte le immagini di Conte che sono state trasmesse per mesi sui telegiornali della Rai e che abbiamo visto ossessivamente ogni sera, con Conte in posa 'indaffarato' per i corridoi di Palazzo Chigi e “al lavoro” nel suo ufficio modello Istituto Luce, sono state realizzate direttamente dagli uffici di Conte, autoprodotte dalla presidenza del Consiglio. Una messinscena orchestrata dai collaboratori di Conte, una situazione da Minculpop che non ha paragoni in nessuna democrazia occidentale. Come possono l'Ordine dei giornalisti, la Fnsi, l'Usigrai, l'Agcom non dire e fare nulla di fronte ad una tale lesione dell'autonomia giornalistica?". Lo scrive su Facebook il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, che pubblica il testo della sua interrogazione e la risposta arrivata dalla Rai. "Perchè la Rai - prosegue Anzaldi - ha accettato da Conte, e solo da lui a differenza di tutti gli altri esponenti politici e istituzionali, questa imposizione? La Rai può contare su apparato produttivo di circa 6mila tecnici, ai quali si aggiungono innumerevoli appalti esterni per ulteriori 4mila tecnici: 10mila operatori che avrebbero potuto e dovuto occuparsi delle riprese anche di Conte sono stati umiliati, senza peraltro alcun risparmio per il servizio pubblico. Rispondendo alla mia interrogazione, la Rai dichiara ufficialmente: "Tutte le immagini del Presidente del Consiglio vengono realizzate dagli uffici della Presidenza stessa". Quella che poteva essere una situazione eccezionale nelle prime settimane della pandemia, quando non c'erano mascherine e dispositivi di sicurezza, è diventata una distorsione permanente. Tutte le attività sono riprese, dopo il Lockdown di marzo e aprile, ma non la possibilità per le televisioni di riprendere il presidente del Consiglio, magari consentendo ad un operatore Rai di girare in autonomia volta per volta immagini da dare a tutte le tv. Perchè la Rai, a differenza delle tv commerciali, ha accettato questa situazione? Perchè- conclude Anzaldi- in particolare il Tg1 ha accettato per mesi di trasmettere le immagini decise e vagliate direttamente dagli uffici del premier?".

(Adnkronos l'8 gennaio 2021) - ''In risposta a un'interrogazione dell'onorevole Michele Anzaldi, la Rai fa sapere agli italiani che le immagini del premier Conte che "svolazza" come nel peggio dei cinegiornali Luce all'interno di Palazzo Chigi, sono state prodotte direttamente dalla presidenza del Consiglio. La Rai giustifica ciò con la pandemia e il rischio di evitare che operatori della Rai siano a Palazzo Chigi. È una giustificazione assolutamente ridicola perché non si capisce come operatori di una struttura diversa (e peraltro pagata con i soldi dei contribuenti) siano immuni dal Covid rispetto a operatori del Servizio Pubblico". Lo dichiara in una nota Giorgio Mule', capogruppo FI in commissione di Vigilanza Rai. "In sostanza par di capire che gli italiani hanno pagato una società esterna alla Rai (a meno che le immagini non siano state girate direttamente da Rocco Casalino o da altri suoi colleghi) per vedere immagini del Presidente del Consiglio: bello, operativo, senza giacca e in maniche di camicia tra gli uffici di Palazzo Chigi. Questa vicenda scandalosa - continua Mulè - oltre a gettare nel ridicolo la Rai e i telegiornali che si prestano a questo tipo di comunicazione, segnala un fatto al quale va posto subito rimedio. I Tg della Rai che mandano immagini preconfezionate del premier ad uso e consumo della sua propaganda e vanagloria d'ora in poi abbiano almeno la decenza di scrivere che si tratta di “immagini fornite dalla Presidenza del Consiglio” quando manderanno in onda i loro servizi'', conclude.

(askanews l'8 gennaio 2021) - "La vicenda delle immagini di Giuseppe Conte autoprodotte da Palazzo Chigi da diffondere nei notiziari Rai, come confermato da Viale Mazzini, desta preoccupazione e delinea un'attività di propaganda da parte dei collaboratori di Conte a favore del Presidente del Consiglio nei telegiornali del Servizio Pubblico, e soprattutto al Tg1". Lo dichiarano in una nota i parlamentari della Lega Alessandro Morelli, Giorgio Maria Bergesio, Massimiliano Capitanio, Dimitri Coin, Umberto Fusco, Elena Maccanti e Simona Pergreffi. "Immaginiamoci quale putiferio mediatico si sarebbe scatenato se, ai tempi in cui era Ministro dell'Interno, Matteo Salvini si fosse fatto realizzare delle immagini ad hoc da diffondere nei telegiornali Rai. Le immagini in questione, per giunta" proseguono i parlamentari, "sono create ad arte per veicolare l'immagine di un Presidente laborioso e solerte, in stile Minculpop nel Ventennio. Una vicenda scandalosa e inquietante" concludono, "che indigna ancor di più pensando a come il M5s, fino a qualche tempo fa, gridasse alla presunta propaganda altrui, guardando la pagliuzza negli occhi degli altri anziché la trave nei propri".

Tagli all'editoria, Il Manifesto nel baratro grazie a un governo di sinistra. Continua l'attacco M5S alla libertà di stampa: bocciato l’emendamento che avrebbe sospeso l'editto di Vito Crimi. La direttora Norma Rangeri: «Costava meno del bonus per il sifone delle docce». Carmine Fotia il 23 dicembre 2020 su L'Espresso. “Siamo l’unico quotidiano di sinistra, stiamo per compiere cinquant’anni, siamo più vecchi di Repubblica: ti confesso che mi sarei aspettata almeno il rispetto dovuto all’anzianità.” È un sorriso amaro quello di Norma Rangeri, direttora del manifesto, dove è entrata circa cinquant’anni fa, insieme a una generazione di donne forti, intelligenti e generose che si sono prese di cura del giornale nei momenti di più acuta difficoltà. Certo non avrebbe mai pensato che a spingere verso il baratro un giornale che, dice la direttora, è ormai “parte della storia di questo paese”, sarebbe stato un governo dove la sinistra è parte preponderante e dove addirittura la delega dell’editoria è in mano a un esponente del Pd, Andrea Martella. Eppure è andata esattamente cosi. Per fare chiarezza riassumo brevemente quanto accaduto. Il governo Conte-Salvini, sottosegretario all’editoria il grillino Vito Crimi, “Il Gerarca Minore” (definizione del geniale Massimo Bordin, anima di Radio Radicale) che conquistò con merito il soprannome in seguito all’impegno profuso nel “far passare i tagli che sono destinati a uccidere una voce di tutti come Radio Radicale e, più in là, a soffocare pesci piccoli della carta stampata, come se si trattasse di una battaglia di libertà, o addirittura un trionfo della democrazia”  come ha scritto Susanna Turco nel maggio 2019 , vara una norma amazzagiornali. Secondo l’editto del “Gerarca Minore” entro il 2022 sarebbero cessati i contributi diretti che riguardano solo testate con certe caratteristiche: 34 cooperative, 10 fondazioni o enti morali non profit e poi 3 giornali di minoranze linguistiche, altri dei consumatori, per non vedenti, italiani all’estero, 114 piccole testate non profit. Tutti questi editori messi insieme impiegano direttamente circa 900 persone: 677 giornalisti più 190 poligrafici e 8 tecnici (tutti a tempo indeterminato e con contratti nazionali). Le copie vendute in edicola sono 71 milioni e in digitale oltre 9 milioni (dati ufficiali Dipartimento Editoria riferiti al 2017). I contributi effettivamente erogati sono stati pari a 59 milioni di euro. Caduto il Conte-Salvini, il Conte-Zingaretti cambia anche il sottosegretario all’editoria che diventa il dem Andrea Martella: «Come primo atto ho ottenuto il rinvio di un anno del taglio, per lavorare a una riforma organica del settore», spiega all’Espresso il sottosegretario. Siccome però la riforma non arriva anche quest’anno si sarebbe dovuto rinviare il taglio di altri dodici mesi: «L’emendamento che rinviava il taglio l’ho proposto io, ma non è stato approvato per l’ostilità del M5S». Quindi il taglio sarà operativo dal 2022? «Sì, ma siccome il contributo i giornali li ricevono sul bilancio dell’anno precedente, nel 2022 non chiuderà nessuno perché il contributo 2021 è salvo ed inoltre nei decreti sulla pandemia sono stati inseriti ristori anche per questi settori e poi puntiamo a varare una riforma complessiva che elimini per sempre i tagli», risponde Martella. Obietto che, come nel caso del taglio dei parlamentari, prima si taglia e poi si promettono riforme, come quella elettorale, che non arrivano mai : “E chi le dice che non arriverà la riforma elettorale?”, replica l’esponente dem assicurando il suo impegno a salvaguardare “un quotidiano che rappresenta una storia importante, ma anche tutte le altre imprese del settore che, per altro, non hanno protestato”. Quanto accaduto è paradigmatico di una sinistra anemica e incapace di ingaggiare alcuna battaglia di principio nei confronti del populismo pentastellato: non sul garantismo, non sullo ius soli, non sul taglio ai parlamentari e neppure sulla libertà d’informazione: in una legge di bilancio che ha previsto risorse per ogni lobby e categoria, dai presepi alle bici elettriche, non si siano trovate le risorse per l’editoria. «L’emendamento costava meno del bonus per cambiare i soffioni delle docce», commenta Norma Rangeri. In ogni caso, malgrado le rassicurazioni del sottosegretario Martella, resta agli atti un attacco violento alla libertà d’informazione, guidato da un movimento che, dice la direttora «ha nel suo Dna, la disintermediazione. Per loro i giornali non sono affatto importanti. Da loro ce lo aspettavamo, ma ci aspettavano anche che Pd e Leu facessero una battaglia di principio, che non hanno fatto, per contrastare la filosofia populista che sta dietro ai tagli. Siamo molto delusi, ci rincuora che la nostra community stia reagendo con grande vigore, come sempre nei momenti di crisi e difficoltà”.

Mezzo secolo dalla parte del torto. I cinquant’anni del Manifesto. Lo scisma dal partito comunista diede vita alla rivista e poi al quotidiano. Doveva essere un movimento per cambiare la sinistra. E invece un gruppo straordinario inventò un nuovo modo di fare giornalismo. Carmine Fotia il 13 aprile 2021 su L’Espresso. Da mezzo secolo ogni mattina, contraddicendo le leggi della natura - come il calabrone le cui piccole ali non potrebbero reggere il peso del corpo eppure vola - un quotidiano senza padroni, una particolarissima forma della politica nelle vesti di un giornale, offre al mondo il suo punto di vista critico, programmaticamente «dalla parte del torto». Il prossimo 28 aprile "il manifesto compie 50 anni: «Avrei voluto fare una grande festa, ma in questo clima di tragica pandemia festeggiare è semplicemente impossibile. Tuttavia, cercheremo di offrire ai lettori una storia a puntate dei nostri 50 anni e altre belle sorprese da far vivere sul nostro sito, l'altra fondamentale costola della nostra impresa, insieme al giornale di carta. Naturalmente con il cuore e la testa rivolti ai prossimi 50», dice la direttora Norma Rangeri, con il suo bel caschetto di capelli neri a incorniciare un viso uguale a quello della ragazza che 50 anni fa per la prima volta varcò le porte del mitico Quinto Piano di via Tomacelli 146, dove aveva sede la redazione del giornale. «Ho incontrato "il manifesto" come gruppo politico tra il '71 e il '72, alla facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, a Roma. Per fare la tesi con Lucio Colletti avrei dovuto sapere il tedesco e per emanciparmi dalla famiglia avrei dovuto fare qualche lavoretto. Così capitò che una mia cara amica che lavorava alla segretaria di redazione del "manifesto", mi trovò un posticino nella postazione dei dimafoni dove arrivavano gli articoli dei corrispondenti, a braccio o registrati, che trascrivevo diligentemente a macchina con carta copiativa per i caporedattori. E presto il quinto piano di via Tomacelli diventò più importante dell'università, al punto che pur avendo finito gli esami rinunciai a fare la tesi e a laurearmi per la disperazione della mia famiglia. Era successo che avevo incontrato un'altra famiglia, quella di Luigi Pintor, Lucio Magri, Rossana Rossanda, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Aldo Natoli, Lidia Menapace». Nel primo numero del giornale, disegnato da Giulio Trevisani, allievo di Albe Steiner, con una grafica essenziale, tutte colonne di piombo, senza foto, ma elegante e sobria, si delineano già quelli che saranno i contenuti del giornale: attenzione alle lotte operaie, al movimento studentesco, grande apertura al mondo, molto interesse per tutto ciò che si muoveva fuori dall'orbita sovietica (da qui l'attenzione alla Cina e la disattenzione per l'aspetto oscuro e i crimini della rivoluzione culturale), poi, via via, nel corso dei mesi e degli anni successivi, l'incontro con il femminismo, l'ambientalismo, i diritti civili, i nuovi canali dell'immaginario collettivo. L'apertura era di Ninetta Zandegiacomi: «Dai 200.000 della Fiat riparte oggi la lotta operaia», e poi un reportage dalla Cina di un grande reporter che avrei in seguito conosciuto da vicino, K.S. Karol, compagno di Rossana Rossanda, egli stesso una leggenda vivente: polacco di nascita, un occhio di vetro e l‘altro di un azzurro vivo, capelli bianchi e impermeabile alla Philip Marlowe, da ragazzo era stato nell'Armata Rossa, un apolide ribelle che scriveva come un Dio, dietro il fumo delle sue Gitanes senza filtro.

Un giornale militante, com'è scritto nel suo atto di nascita e nelle biografie dei fondatori, un gruppo di dirigenti e intellettuali comunisti riuniti attorno al leader della sinistra Pietro Ingrao, dal quale furono costretti a separarsi nel 1969, quando furono radiati dal Pci dopo la pubblicazione della rivista "Il Manifesto", nata all'indomani dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Eccoli: Rossana Rossanda, bellezza diafana e intelligenza raffinata, responsabile della commissione culturale; Luigi Pintor (fratello di Giaime, precocissimo intellettuale morto mentre cercava di attraversare le linee tedesche per unirsi alla resistenza italiana), giovane partigiano dei gap romani, gigante del giornalismo comunista; Luciana Castellina, dirigente dell'Unione Donne Italiane, giornalista militante, bellezza mediterranea statuaria e conturbante; Lucio Magri (che diventerà il compagno di Luciana) ex-democristiano, una delle teste più raffinate del gruppo, bello come un divo del cinema, con i capelli precocemente imbiancati e gli occhi azzurrissimi. Poi c'è Valentino Parlato, giovane e brillante economista espulso dalla Libia dagli inglesi perché comunista, che lavora alla commissione economica con Giorgio Amendola. Ci sono anche leader meno giovani: Aldo Natoli, medico, leader dei comunisti romani, che denuncia gli scandali della capitale e ispira l'inchiesta dell'Espresso: "Capitale Corrotta, Nazione Infetta"; Massimo Caprara, napoletano, già segretario personale del Migliore, come nel Pci veniva chiamato Togliatti. Nel primo numero il direttore Pintor scrive: «È aperta nel nostro paese una partita dal cui esito può dipendere la sorte del movimento operaio…se non fosse questa la nostra convinzione, non ci saremmo impegnati in un lavoro e in una lotta che hanno per scopo ultimo la formazione di una nuova forza politica unitaria della sinistra di classe. E non faremmo ora, questo giornale». Tale, dunque, l'avevano pensato i suoi fondatori, ma le cose non andarono così e questo nodo si è spesso intricato producendo dolorose discussioni e divisioni, tra chi privilegiava la "forma giornale" e chi la "forma partito", ma il calabrone ha testardamente continuato a volare. «I cenacoli intellettuali finiscono tutti male - mi ha raccontato Luciana Castellina due anni fa, per i 50 anni della rivista - . Noi non volevamo fare gli intellettuali, volevamo fare una battaglia politica». «Un giornale - dice oggi la direttora Rangeri - per vivere ha bisogno di una ragione sociale, deve rappresentare idee, bisogni, persone, deve avere, come si dice oggi, una vera community. Questo Dna "il manifesto" ancora ce l'ha, altrimenti non avremmo superato la micidiale prova dell'amministrazione controllata dopo il drammatico fallimento della cooperativa, fondandone una nuova e in salute. Altri giornali, che in questo mezzo secolo hanno provato la titanica impresa di un quotidiano nazionale sono via via tutti morti della stessa malattia: l'improvvisazione verniciata di glamour, insomma sotto il vestito niente». Il manifesto, ha detto lo scrittore Erri De Luca, fu «uno Scisma» nella chiesa comunista e dunque fece subito paura all'apparato comunista che lanciò una scellerata campagna stalinista all'insegna del "Chi li paga?". Per sfortuna di quei grigi burocrati una straordinaria congiunzione astrale determinò l'incontro di quel gruppo di intellettuali con il movimento del '68 dal quale nacque il quotidiano. «Siamo stati anche chiamati cattivi maestri, ma non ci hanno fatto tacere. Sui figli degli anni '70, torti e ragioni e speranze e ferite e dolore di un decennio senza confronti, "il manifesto" ha potuto stendere l'esile mantello che da quel lontano '69 si era conquistato», ha raccontato Rossana Rossanda. Giunto quasi alla conclusione sarei insincero se non vi dicessi (per citare un famoso incipit di Pietro Ingrao) che io che vi sto raccontando questa storia ne ho fatto parte per 23 anni, prima come giovanissimo militante del gruppo politico, poi come giornalista. Dal 1970 al 1993 "il manifesto è stato la mia casa: vi sono entrato che ero un adolescente, ne sono uscito che ero diventato un giovane uomo. Lo dico per avvertirvi che la mia è una ricostruzione di parte, pur senza alterare nulla dei fatti che vi sto raccontando. Il mio primo approccio con il quotidiano comunista è del 28 aprile del 1971, quando uscì il primo numero che diffusi nella mia scuola. Avevo appena compiuto sedici anni. Allora non c'erano Internet, Wikipedia, non c'erano le news ventiquattr'ore su ventiquattro, si imparava sul campo. Appena arrivato in redazione, nel 1980, ero un po' presuntuosetto e Michelangelo Notarianni, allora condirettore, se non ricordo male, mi mise a scrivere le brevi. Dopo un po', alle mie prime inchieste, Valentino Parlato mi insegnò il metodo: «Raccogli le idee, fai una scaletta e, soprattutto, consuma la suola delle scarpe». Rossana stava nella sua stanza in fondo al corridoio a sinistra, avvolta in una penombra carismatica e circondata dai suoi libri, che t'intimidivi solo a entrarci. In fondo, a destra, invece, c'era la stanza di Luigi Pintor, inarrivabile maestro di scrittura. Non volle mai imparare a usare il computer, sedeva davanti alla sua vecchia Olivetti meccanica e batteva sui tasti con lentezza esasperante: tic…toc…tic…toc. Ne uscivano editoriali brevi e limpidi, acuminati come frecce. «In trenta righe si può raccontare la Divina Commedia», ci diceva. Era inoltre uno straordinario titolista: malgrado la sua idiosincrasia per le tecnologie era già perfetto per Twitter! Per tutti coloro che vi sono passati, dunque, pur se poi dispersi ovunque, "il manifesto" è stato un vero e proprio romanzo di formazione. Lavoravi in un giornale nel quale, cito alla rinfusa, scrivevano Umberto Eco, Federico Caffè, Stefano Rodotà, Manuel Vazquez Montalban, Dacia Maraini e che pubblicava interviste a Jane Fonda, Salvador Allende, Jean Paul Sartre, Otelo De Carvalho. La storia del "manifesto", sostiene Tommaso Di Francesco, condirettore, può anche essere narrata come una storia di rabdomanti, ovvero «instancabili cercatori d'acqua, in ogni luogo, nelle condizioni più avverse, senza strumenti o con mezzi di fortuna, se non magici!». Lo scrive in un libro di versi ("I Rabdomanti", edito dalla manifestolibri), dedicati ai fondatori, che qui appaiono al tempo stesso nell'aura del mito e nella loro profonda umanità, eroi inattuali e tragici. Come Lucio Magri, già compagno di Luciana Castellina, morto suicida nel 2011, assistito da Rossana Rossanda. A lui Di Francesco dedica questi versi: «Troppo tardi e troppo presto/facevi strada noncurante del buio/tuo, della perdizione la voragine». Ecco Pintor: «Non eri turista o cittadino, ma infiltrato/certo solo della condanna che attiene/dell'andare a capo e lasciare il bianco sprecato, tutto, come se davvero esistano/scrittura e misura a comandare calendari/quell'ostinato pudore, il volo necessario»; Rossanda, immortalata mentre affascina i giovani militari della rivoluzione dei garofani in Portogallo: «Sarà stato maggio, chiusura di stagione/e lei sulla scena simile ad un candido/elefante, sibilando contendeva al mondo/il barbuto drappello di guardie stanche», e Valentino Parlato, il tripolino, i suoi amori e figli: «Sei l'aviatore che vola da solo/radente di notte perdendo/dalla carlinga piccoli principi».

50 anni fa il primo numero. Il Manifesto compie 50 anni, auguri al quotidiano comunista diventato forcaiolo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Aprile 2021. C’era una volta il manifesto, quotidiano comunista e garantista. Buon compleanno al “quotidiano comunista” non più garantista. Il mio giornale per vent’anni, quello che infilavi nella tasca della giacca ben piegato perché si vedesse la testata e ne andavi fiera. La mia famiglia, per vent’anni. Con tutte le passioni, i sentimenti, le violenze della famiglia. Il luogo primario degli abbracci e dei conflitti. Ci sono arrivata per via politica, dall’università, quando il quotidiano non c’era ancora, e poi lo ha voluto Luigi Pintor e io da Milano, nello stanzone di Corso San Gottardo, al ticinese, scrivevo le mie trenta righe sugli scioperi delle commesse della Standa e poi il direttore era venuto a trovarci e mi aveva detto “sei una brava giornalista”. Il destino previsto da mio padre, quando gli rubavo dalla libreria testi non adeguati a una dodicenne di famiglia borghese e portavo a casa bei voti in italiano. Il manifesto ha schiacciato la mia timidezza e non ha mai ricambiato il mio amore. Di quel luogo pieno di fumo al quarto piano di via Tomacelli, a Roma, delle riunioni che parevano eterne e si saltavano i pasti e spesso anche il sonno, ricordo la barriera invalicabile tra i “vecchi” e noi ragazzi e ragazze. E le Tre Dee, Rossanda, Castellina e Menapace. Gli altri “vecchi” erano Pintor, Parlato, Magri, Natoli, Caprara. Il gruppo dei dirigenti comunisti radiati dal Pci dopo il famoso “Praga è sola”, l’editoriale scritto sulla rivista che affrontava un argomento che era quasi una bestemmia: l’isolamento dei comunisti cecoslovacchi, prima cancellati dai carri armati sovietici e poi abbandonati, dimenticati dai compagni. Nel mio rapporto con i “vecchi” non ho mai tenuto conto del fatto che, per quanto dissidenti, erano pur sempre antichi dirigenti di partito, di quel Pci che io non avevo mai votato allora e che mai voterò negli anni successivi. E avrei fatto meglio a tenerne conto, invece, così avrei avuto meno delusioni. Avrei potuto ricordare di quella volta in cui ero andata a sentire Rossanda alla Casa della cultura di Milano, quando parlava di Cuba e io ero rimasta inorridita dal suo moralismo, dal suo considerare normale che i castristi mettessero alla gogna i lavoratori che avevano raccolto poco tabacco, additandoli come sfruttatori della fatica altrui. I deboli puniti senza pietà. Noi giovani eravamo un gruppo di sessantottini scapigliati, sinceramente rivoluzionari. Io ero una vera libertaria, di cultura e di vita, ma cercavo anche famiglia e l’avevo trovata. All’interno del manifesto succedeva tutto, le amicizie, i litigi, gli amori, i tradimenti. I “vecchi” fingevano di lasciare spazio ai ragazzi e alle ragazze, Rossanda ogni tanto sospirava «ah, se esistessero dei giovani leoni ansiosi di prendere il nostro posto…», ma né lei né gli altri “vecchi” hanno mai mollato di un centimetro i propri posti di comando. Mi piaceva comunque un certo apparente egualitarismo, lo stesso stipendio per il direttore e il centralinista, anche se poi la sera non tutti e due andavano a dormire in una bella casa ai Parioli. Così come ero fiera ogni volta che Lucio Magri mi prendeva una sigaretta e non mi diceva mai grazie. Caspita, era Lucio! Sarà lo stesso che, vent’anni dopo, mi caccerà dal gruppo parlamentare di Rifondazione per insubordinazione. Ma i veri miti, coloro che ammiravamo e imitavamo, per noi ragazze sessantottine intrise di ideologia e minigonne, erano le Tre Dee, Rossana la gelida, Luciana la bellissima, Lidia la comprensiva. Le mie amiche-compagne-colleghe di quei giorni si chiamavano Grazia Gaspari, Lucia Annunziata, Ritanna Armeni, Rina Gagliardi, Elisabetta Castellani, Carla Casalini, Delfina Bonada, Roberta Pintor. E Norma Rangeri, non ancora giornalista. Non è un caso che sia stata proprio lei, alla fine, l’unica rimasta di tutte noi, quella che ha sviluppato il percorso più lineare, un passetto per volta, stenografa, poi segretaria di redazione, poi giornalista e infine direttrice. Brava Norma, eri la meno ribelle, la meno scalpitante e hai costruito con saggezza il tuo percorso. Noi invece volevamo sempre scappare. Lucia, con quel suo rapporto di amore e conflitto con Rossana, Grazia la prima a sbattere la porta quando le cattiverie e le invidie la emarginavano definendola “craxiana”, che al manifesto era un insulto mentre era molto strategico parlare bene di De Mita, e poi Ritanna la cui pelle bruciava ogni giorno per la competizione serrata dei concorrenti maschi che come lei si occupavano di lotte operaie e sindacato. Poi c’è la mia storia, la nipotina venuta dal nord che veniva rimessa al suo posto dalla perfidia dell’ adorata Rossana con l’insulto “di classe”: Tiziana è elegantissima. La ricordo con un sorriso, la Dea che io ammiravo, che vestiva un po’ come la mia mamma ai tornei di bridge, tween set di cachemire e filo di perle, che diceva con disprezzo a me che ero elegantissima, mentre io arrancavo sugli zatteroni di Elio Fiorucci indossando una minigonna inguinale. Ma andava così, allora, con il moralismo comunista che io non volevo vedere. Il moralismo come arma politica. In verità i “vecchi” non sopportavano il nostro estremismo. Che non era quello degli scontri di piazza, ma la critica radicale della vita quotidiana che doveva passare, inevitabilmente, attraverso l’uccisione del padre e della madre. Era questo che di noi faceva loro paura. E ce ne siamo andati tutti. Gianni Riotta, che aveva le qualità per essere un ottimo direttore, come lo sarebbero stati Ritanna o Lucia. Dopo i primi articoli sulle commesse della Standa, avevo capito che il sindacale non faceva per me. A me in realtà piaceva descrivere, ho capito da subito di essere una cronista. Andavo davanti alla Standa e mi facevo raccontare, poi descrivevo quello che avevo visto. I miei articoli non erano l’analisi della piattaforma di lotta, ma il racconto della vita dei protagonisti. Per questo ero piaciuta a Pintor (un po’ forse anche perché non disdegnava la vicinanza delle ragazze carine). Dalle commesse passai quindi a occuparmi di Pinelli e Valpreda, e della strage di piazza Fontana. Cronista giudiziaria per vent’anni. E il manifesto fu in quegli anni, su piazza Fontana e poi in seguito con la scelta di stare contro il “partito della fermezza” quando fu sequestrato dalle Brigate rosse il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, e il processo “7 aprile”, un grande giornale. Un quotidiano di battaglia. Come era stato fin dal suo primo numero, il 28 aprile del 1971, un giornale operaio: «Dai duecentomila della Fiat riparte oggi la lotta operaia», il primo titolo. E l’editoriale del direttore Pintor annunciava la nascita di un “giornale comunista”. Che si specchierà, tempo dopo, con un altro suo commento sui magistrati dal titolo «I mostri». L’impegno battagliero del manifesto sulla giustizia fu sincero e radicale. Le note stonate arrivarono dopo. Ma allora il ragionamento era elementare, con la dominante dei termini “lotta” e “repressione”. I buoni erano quelli che lottavano, gli operai, gli studenti, i “compagni”. I cattivi erano i padroni, ma anche i governi, a trazione sempre democristiana. E anche tutti coloro che reprimevano le lotte, quindi poliziotti e magistrati. La strage del 12 dicembre 1969 in piazza Fontana a Milano, su cui solo anni dopo Pintor mi confessò di essere arrivato alla conclusione che forse nessuno aveva voluto i morti, perché c’era stato un errore sugli orari della Banca dell’agricoltura, era sicuramente fascista, nella nostra mente. Ma anche “di Stato”, nella mia versione preferita.

Il manifesto fu eroico, soprattutto se confrontato con gli altri giornali di sinistra. Ricordo che l’Unità, organo del Pci, che noi odiavamo perché aveva pesantemente insinuato che il manifesto fosse finanziato dai petrolieri e aveva scritto “chi li paga?” in prima pagina fin dal giorno dopo quel 28 aprile 1971, aveva tagliato il pugno chiuso di Valpreda in una foto per non mostrarlo come uomo di sinistra. E aveva dato credito al famoso taxista Rolandi che era stato il suo unico teste a carico. Noi, Valpreda lo abbiamo sposato dal primo momento, anche perché, a partire da me che lo avevo conosciuto nel mondo anarchico negli anni precedenti, ci eravamo incollati alla sua famiglia, alla mitica zia Rachele, una vera guerriera, la quale sapeva per certo che il nipote era innocente in quanto, nel momento in cui qualcuno depositava la bomba nella banca, Pietro era a casa sua, a letto con la febbre. Il manifesto tentò anche di scarcerarlo presentandolo, nel 1972, alle elezioni politiche, purtroppo con modesti risultati. Mitico Luigi Pintor, che commentò: «Di sconfitta in sconfitta verso la vittoria». Ho passato le notti in questura quando furono fatte le prove con un manichino, fatto cadere e poi buttato per capire come l’anarchico Pino Pinelli fosse precipitato dall’ufficio al quarto piano del commissario Calabresi. Non si capì, e il giudice Gerardo D’Ambrosio finì con un verdetto arzigogolato e un po’ ridicolo: Pinelli sarebbe caduto in seguito a un “malore attivo”. E chissà che cosa volesse dire. Ho mantenuto le mie convinzioni su quella tragedia, fin da quando giravo con la mia Cinquecento decappotabile e un megafono per gridare “Pinelli-è stato -assassi-nato”. Il manifesto è stato sempre al fianco dei militanti politici arrestati e processati, fossero o meno “compagni che sbagliano”. Rossana Rossanda ha seguito personalmente il processo “7 aprile” del 1979, con gli arresti di Toni Negri, Oreste Scalzone e gli altri leader dell’Autonomia, considerati i grandi vecchi ispiratori non della protesta sociale ma del terrorismo delle Brigate rosse che aveva portato al rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. C’era un impazzimento generale, dominato da una parte da un “partito della fermezza” di Dc e Pci in connubio con le tesi più assurde e stupide della magistratura, dall’altra, oltre alle azioni delle Br, quelle sanguinose di Prima Linea che, con gli assassinii dei magistrati Galli e Alessandrini, mirava al cuore della parte più progressista della magistratura. Anch’io, in quei giorni, pagai con due giorni di carcere il fatto di aver partecipato a una cena cui erano presenti sia Alessandrini che Toni Negri. Nessuno si fece mai saltare i nervi, in quei giorni, grazie soprattutto, alla presenza di Rossana Rossanda, che aveva tacitato i comunisti con il famoso editoriale sull’“album di famiglia”, sfogliando il quale emergevano i padri e gli antenati dei brigatisti, i vecchi partigiani che non avevano consegnato le armi dopo la resistenza e gli uomini della Volante rossa. E anche nella difesa di Francesca Mambro e Giusva Fioravanti, ingiustamente condannati per la strage di Bologna. Ho sempre difeso i loro diritti e il giornale è stato con me. Sono stata insultata dai comunisti bolognesi, gli stessi che facevano comunella con i pubblici ministeri. Anche allora il manifesto fu grande, un vero giornale garantista. Persino nei confronti di ragazzi di destra e dei loro diritti. Io sono arrivata più o meno fino a lì, nella storia del manifesto, anche con qualche ammaccatura. C’è qualcosa che non riesco a dimenticare, che ogni tanto torna nei miei sogni. Il fatto che con grande cinismo proprio le Dee che io tanto ammiravo, mi abbiano coinvolto in una misteriosa spedizione in Portogallo per accompagnare un militante di un gruppo estremista condannato a morte dal regime (stiamo parlando di anni precedenti alla rivoluzione dei garofani del 1974) per ricongiungersi con i suoi compagni. Lui viaggiava con documenti falsi ed era ricercato, e non oso pensare oggi ai rischi che ho corso io con quel viaggio. L’ho abbandonato dopo che un altro di loro, appena uscito dal carcere, ha tentato di stuprarmi. Ho preso un aereo e sono tornata a Roma, dove non ho trovato nessuna solidarietà da parte delle Dee, con l’unica eccezione di Lidia Menapace, che si è almeno preoccupata del fatto che avessi saputo difendermi dalla violenza sessuale. Avevano prestato maggiore attenzione al fatto che loro mi avessero chiesto di riferire che avevano bisogno di armi. Di cui non credo proprio il manifesto disponesse. Forse con quel viaggio disastroso ho pagato una qualche mia civetteria (che c’era) nei confronti di una certa eversione sociale anche troppo estremistica. Ma, insieme a tanti bei ricordi (per esempio una bellissima vacanza in Spagna con Lucia, Ritanna e Rina), è il sapore del cinismo che mi rimane in bocca e in gola. Il perché io abbia fatto una sorta di obiezione di coscienza e mi sia rifiutata di seguire il processo a Sofri per l’omicidio Calabresi. Perché, dopo aver intervistato Sciascia, io non abbia mai potuto scrivere sui processi di mafia. Perché a quel punto i diritti non esistevano più, le garanzie nemmeno e i magistrati non erano più i cattivi che incarceravano i compagni. Così, pur da iscritta al Partito radicale (e consigliera comunale antiproibizionista a Milano), nel 1992 ho accettato una candidatura come indipendente dal Prc e me ne sono andata in Parlamento. Eletta con il proporzionale e la preferenza unica, un successo personale mai riconosciuto dal manifesto. Negli anni successivi non ho visto niente di bello, sul mio ex giornale. Ricordo il giorno in cui ho pianto, il 25 aprile del 1994, quando quello che era stato un quotidiano garantista ha organizzato a Milano una manifestazione contro l’elezione di Berlusconi del 28 marzo. Quella che avrebbe dovuto essere una festa di tutti, sporcata dall’odio e dal rancore di chi non aveva saputo perdere. E poi Norma Rangeri che dieci anni fa, nel quarantennale, difende Asor Rosa he aveva scritto «la democrazia si salva, forzando le regole» con l’aiuto della polizia e dei carabinieri. La ciliegina sulla torta, infine. Il quotidiano che nel primo numero aveva scritto dei duecentomila della Fiat e della lotta operaia, esibiva a grandi lettere la sua apertura il 20 luglio del 2019, in questo modo: «Addio a Borrelli, il pm che svelò gli affari sporchi della politica». Era morto il nuovo eroe di un ex quotidiano garantista.

Tiziana Maiolo.  Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Sì, sono un giornalista militante. Porre uno scopo alla scrittura. Così l’interpretazione dei fatti è garanzia di indipendenza. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 29 aprile 2021. Nel sottopancia quando sono ospite in televisione o nelle note biografiche che non controllo direttamente appare la descrizione: scrittore e giornalista. Non mi riconosco in questa doppia declinazione; al contempo mi imbarazza far correggere, troppe parole ci vorrebbero per darne la motivazione. Si crede che scrittore sia produttore di libri e giornalista di articoli, scrittore sia creatore di libri di fiction e giornalista di editoriali. Non è proprio così, anzi, sento d’esser sempre scrittore anche quando scrivo editoriali, di non rinunciare mai alla caratteristica dello scrivere slegato dal compito quotidiano del giornale, svincolato dall’ordine della cronaca, scrittore che liberamente sceglie il pezzo di realtà su cui vuole intervenire senza necessariamente misurare la realtà con la necessità di dover scoprire.

Un approccio diverso. Provo a fare un esempio per chiarire il diverso approccio. Lo scrittore, quando va nel luogo di un agguato mortale, può soffermarsi su dettagli, almanaccare, fare interviste a figure laterali; il giornalista deve portare invece a casa la notizia, cercare le informazioni principali che realizzino la cronaca, ambire allo scoop. Il compito dello scrittore e del giornalista dinanzi alla realtà sono diversi. Eppure, sia quando scelgo il percorso dello scrittore sia quello del giornalista mi riconosco nell’essere militante. Mi riconosco nella scrittura militante, io sono un giornalista militante, ed essere giornalista militante significa porre uno scopo al proprio scrivere.

Contrapposizione inesistente. Esiste altro tipo di giornalismo? Io non credo, eppure si tende a dividere i giornalisti in indipendenti e militanti, insinuando che esser militanti significhi esser compromessi dalla propria scelta e che il contrario della militanza sia l’indipendenza. Come se i primi fossero liberi e i secondi marionette mosse dai fili dell’idea. Tutt’altro. Giornalista militante vuol dire che milita in una scelta, cerca temi e argomenti, scrittura e strategia narrativa per incidere sul cambiamento della realtà in cui crede. Non esercita semplicemente la professione, il compito non si delinea entro i parametri del suo contratto e del ruolo di dipendente. Proprio per questo il giornalista militante spesso subisce il sarcasmo dell’essere ingenuo, naif, anima bella da parte di chi decide di rimanere entro il perimetro del suo compito.

Due illustri precedenti. Per trovare esempio del miglior giornalismo militante ci sono due giornali che in Europa fecero da riferimento: l’Avanti! dei primi anni della fondazione e L’Unità, non quella di Gramsci, ma di Gaetano Salvemini (1911-1920). Scrivevano con l’intento di fare inchiesta sociale, creare dibattito finalizzato a cambiare il mondo in cui vivevano con lo strumento della parola e del dubbio. Sceglievano sempre da che parte stare: è questa la caratteristica del giornalismo militante. Chi lascia parlare i fatti ha scelto di far parlare i fatti al suo posto. Il giornalista militante, per metodo, dichiara la sua posizione rispondendo con i fatti come prova della sua interpretazione. I giornali che ho appena citato vissero momenti di immenso travaglio, seppero cambiare posizione dinanzi alle evidenze, riuscirono a indagare sempre senza manipolare i dati, entrambi seguirono la rivoluzione bolscevica con entusiasmo per poi denunciare la tirannide leninista. Nel giornalismo non siamo dentro le reazioni chimiche, quindi l’oggettività delle vicende umane non è possibile averla, non per la tentazione debole dell’uomo d’esser sempre parziale o corruttibile, ma perché non esistono prove finali come una formula che possano davvero confermare un pensiero giusto o una formula oggettiva incontrovertibile. La pratica migliore è dichiarare subito e chiaramente il proprio punto di vista e il lavoro ultimo sarà tanto migliore quanto più riusciremo a descriverlo e affrontarlo non condizionandolo con il nostro punto di vista ma nutrendolo. Del resto quando qualcuno decide di leggere un giornale al posto di un altro lo fa perché vuole che il suo punto di vista sia nutrito, rafforzato o, al contrario, messo in crisi. Il giornale non realizza il suo obiettivo se tradisce questo compito, ossia se questa prospettiva inizia a modificarla per interesse, cialtroneria, incapacità. Quindi, quando si afferma che scegliere un giornale è già avere una versione parziale delle cose, si commette un errore: la qualità di un articolo non è determinata dalla posizione ma dal valore dell’argomentazione, del dato, della profondità. Se un giornale è fazioso, spesso è un problema di qualità scientifica e analitica, non di idee.

Il rischio faziosità. La versione scadente del giornalismo militante è quella ideologica, la versione marcia del giornalismo ideologico è il giornalismo fazioso. Essere di parte, cioè essere militanti, non significa essere faziosi, fazioso significa manipolare la realtà, rendere il proprio sguardo ottuso dalla propria posizione. Probabilmente tutti i giornalisti sono militanti ma bisogna comprendere in quale militanza si impegnano. Il carezzare i governi, la reazione, la radicalità. Classificare le categorie in cui inserire i giornalisti è impresa delirante. Esistono tante categorie quanti sono i giornalisti ed è più un gioco ironico che una descrizione sociologica. Ogni qual volta vado a tenere corsi all’università, accade che qualcuno tra le ragazze e i ragazzi mi confessi che vuole fare il giornalista. La mia prima reazione è sempre di imbarazzo, mi verrebbe d’istinto di dire: non lo fare, non rovinarti, non compromettere la tua vita. Il mio istinto non è guidato dal paternalistico tentativo di scoraggiarli perché ormai non c’è più guadagno in questa professione. Non voglio invitarli a una maggiore sicurezza di scelta, tutt’altro. Vorrei salvarli dallo svendersi, dal competere sino all’odio con i colleghi e far finta invece di stimarli, dall’ascoltare l’opinione pubblica e cavalcarla per ottenere mezzo contratto, una qualche visibilità. Poi mi placo e riesco ancora a vedere la possibilità, pur fra tutte le contraddizioni, di un giornalismo in grado di conoscere, scoprire, diffondere, illuminare. Ognuno di questi compiti è immerso in un oceano di mediazioni, ma è ancora possibile.

Le diverse categorie. Quante categorie di giornalisti esistono? Il giornalista equidistante, che cerca di porsi in una posizione terza tra il fatto e il lettore; il giornalista di costume, che racconta il dettaglio privato come simbolo culturale (purtroppo, spesso banale gossip ammantato da reportage); il giornalista d’apparato, che riceve informazioni ciclicamente dai Servizi e prova quindi a svelare col sapore della delazione. La sottocategoria di questo giornalista è il giornalista-magistrato, che si mette in fila fuori dall’ufficio del pm di turno «a prendere l’assegno», si dice al mio paese; ossia compila articoli direttamente derivati dalle ordinanze giudiziarie. Infine, c’è il giornalista anglosassone, il più insidioso, che non inserisce la sua opinione, che si pone nella giusta distanza, che elenca solo dati e descrizioni scomparendo dietro la realtà. Fa credere che possa esistere una realtà indipendentemente dal suo sguardo e così facendo compromette dietro questa bugia il valore del suo articolo. Questo ironico e giocoso elenco è solo un modo per mostrare che non esiste un giornalismo non militante, è solo diversa la militanza e la scelta. Il giornalismo militante non si considera un lavoro, crede che le parole possano mutare il mondo e ignora la risata che questa fiducia genera.