Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Achille Bonito Oliva.

Gianluigi Colin per “La Lettura – Corriere della Sera” il 20 giugno 2021. Dalla finestra aperta, il garrito stridulo e insolente dei gabbiani riempie lo studio. Achille Bonito Oliva li guarda volteggiare sopra i tetti della sua casa romana in via Giulia e accenna un sorriso: «Sa perché mi piacciono? Sono spietati». Il grande critico è così: diretto, fulmineo, provocatorio, in qualche modo sempre vero, senza tanti filtri di conformismo e ipocrisia, capace di essere dolce e crudele, ironico e cinico, anzi, talvolta proprio come i suoi gabbiani: spietato. Lo è stato in diverse occasioni, con le sue battute taglienti contro colleghi o artisti, ma oggi è felice e ne ha ragione: è pronto a festeggiare, da protagonista, la mostra A.B.O. THEATRON. L'arte o la vita, che il Museo di Rivoli gli dedica per il suo autorevole e potente ruolo di intellettuale e critico nell'arte contemporanea internazionale. E con due giorni di inaugurazioni (il 24 e 25 giugno) eccoci dunque a questo riconoscimento che corona una prodigiosa avventura: «Da curatore sono diventato curato; sono molto contento, lo ammetto». Certo, Bonito Oliva non sembra avere 81 anni. Con il suo parlare colto, lineare, acuto e sempre preciso, senza sbalzi di tono, gli occhi mobilissimi, la bocca socchiusa in una specie di smorfia in un perenne sorriso beffardo (che evoca il dipinto dell'Ignoto marinaio di Antonello da Messina) e poi quella frangia tagliata dritta sulla fronte: tutto gli conferisce un'aura speciale, qualcosa di mitologico, la stessa che ritroviamo nei busti degli imperatori romani. Pensando a un suo glorioso personaggio di riferimento, la mente va a Totò, imperatore di Capri. Così sembra di vedere l'iscrizione - Achilles Bonito Oliva: princeps Dei es artis criticae . D'altronde lui stesso, da irrefrenabile autore di «ABOrismi», ironizzando su se stesso, ha sempre sostenuto: «Ero un enfant prodige. Ora sono un prodige». E aggiunge: «Non sono un curatore, sono un guaritore». E ora, alla domanda su come vive l'idea di diventare tema di una mostra, anzi, di essere un «pezzo da museo», risponde: «L'effetto è quello di assistere. Di essere partecipe e serenamente rassegnato». Ma la verità è diversa: non ha per niente mollato il colpo e lui stesso ha scelto di essere anche curatore di se stesso, in un gioco di incroci palindromi con Andrea Viliani (che ha il coordinamento e lo sviluppo curatoriale) e Carolyn Christov-Bakargiev, con cui ha diviso l'idea e la struttura della rassegna. Già dalla scelta del titolo e della centralità della parola Théatron - «teatro», ovvero «luogo dello sguardo» - c'è la chiave della mostra, dove conta implicitamente il concetto della percezione condivisa, ma nel binomio indissolubile, arte e vita, che sono la reale verità di Bonito Oliva. Troveremo tre sezioni: la prima propone le opere più significative presenti nelle mostre internazionali; la seconda offre una parte teorica che proviene dall'archivio con libri, documenti, lettere; la terza affronta la dimensione comportamentale, l'attraversamento dei media, la televisione...È proprio in questa combinazione di passioni che si snoda la mostra, secondo capitolo di un progetto del Castello di Rivoli dedicato ai più autorevoli curatori d'arte contemporanea. Nel 2019, fu protagonista Harald Szeemann: «La cosa interessante è che la mostra c'è con me da vivo», sottolinea ABO con sguardo complice. Bonito Oliva accende l'immancabile toscano e comincia a parlare lentamente ma in un flusso ininterrotto, offrendo a ogni frase una forza speciale: parla di sé («Parlo sempre di me perché non voglio convincere nessuno, come diceva Tzara»), delle sue mostre, degli amici, anche dei nemici, ma soprattutto ripercorre le tappe della vita e il suo pensiero intorno a «La critica d'arte come arte della critica»: ovvero quel progetto utopico che vorrebbe trasformare il mondo attraverso l'arte. Già, perché se qualcosa caratterizza la figura di ABO è stato che mai s' è sottratto a un «corpo a corpo» con l'arte, suscitando rispetto ma anche ire, conflitti, invidie, irritazioni, polemiche, sconcerto, ironie: come quando, nel 1972, ha creato un'azione artistica provocatoria e surreale con un gigantesco manifesto in cui c'era una sua foto e sotto a caratteri cubitali: «Io sono un coglione». O quando ha voluto posare nudo per «Frigidaire» (lo ha fatto tre volte: nel 1981, 1989, 2011) denunciando la sua visione sul ruolo del critico, nudo come la nuda verità di fronte all'arte: «I miei nudi preoccupavano più gli altri critici che gli artisti. Non ce la facevano ad arrivare a questo. Argan mi disse: "Ormai sei famoso a livello internazionale, a che ti serve spogliarti?" Gli risposi: ho dato corpo alla figura del critico, l'ho sottratto alla lateralità che aveva abitato per anni, dandogli una visibilità, e diciamo anche uno sfacciato edonismo». Poi aggiunge: «Modestamente nudo riesco a portarmi bene». E ride. La natura di ABO è sempre stata caratterizzata da un'assoluta profondità di pensiero e un incontenibile bisogno di cazzeggio, insieme alla naturale capacità di governare i linguaggi dei media, consapevole, da filosofo (s' è anche laureato in Giurisprudenza a 21 anni) del pensiero di Jean Baudrillard sulla comunicazione nella postmodernità, sulla seduzione dei media, sul senso e il nonsense: «Il sistema dell'arte è basato sul principio della divisione del lavoro. L'artista crea, il critico riflette, il gallerista espone, il collezionista tesaurizza, il museo storicizza, i media moltiplicano, il pubblico contempla». ABO fa suo il pensiero di Roberto Longhi: «Critici si nasce, artisti si diventa»; e aggiunge: «Pubblico si muore». Ma qual è la sua visione sullo stato dell'arte oggi? Bonito Oliva guarda silenzioso il cielo e sospira per cercare le giuste parole. I gabbiani sono la colonna sonora di questo incontro: «Credo sia successo, con la nascita di un nuovo collezionismo e di fondazioni private, Prada per esempio, che sia emersa la figura del curatore. Prima c'era soltanto la figura del critico come interprete dell'arte. Oggi il curatore che fa? Solo manutenzione. È un voyeur. E questo cosa comporta? Una disaffezione. Oggi non vedo figure di critici. In termini generazionali gli ultimi critici siamo stati io e Germano Celant. Se vogliamo fare un riferimento agonistico eravamo come Bartali e Coppi. Però sempre con molto rispetto. Tra noi non c'è mai stato scontro, soltanto confronto». Una pausa. ABO si riaccende il sigaro: «La nostra relazione sul piano umano? Rispondo con una parola: sublimata. Ci si trovava spesso ospiti da Maria Gloria Bicocchi, in Toscana. Giocavamo a biliardo. C'era una comunità di critici e artisti, questa frequentazione scioglieva tutti i nodi possibili e non lasciava nulla in sospeso. Il confronto non poteva non esserci, visto che tutti e due avevamo una personalità decisa. Mentre intorno a noi c'era una generazione indecisa a tutto. E quella generazione si è moltiplicata attraverso i curatori. Non voglio fare l'apologia di un decisionismo culturale, ma sicuramente noi ci siamo assunti ruoli responsabili. Sì, ci siamo presi le nostre responsabilità». Viene da chiedersi se questo dipenda dalla singola qualità delle persone o da una questione generazionale: «Io credo che ci sia una ragione con figure come Giulio Carlo Argan, Roberto Longhi, Cesare Brandi, figure storiche che hanno segnato quell'epoca». Poi, come al solito ecco la zampata: «Argan non c'è più, sono rimasti gli arganauti». Achille Bonito Oliva continua: «Avevo un ottimo rapporto con Argan. Credo gli piacesse il mio modo di gestire il movimento della Transavanguardia, gli piacesse il mio protagonismo, il fatto che ho dato al critico un nuovo ruolo. Non ho avuto alcuna sottomissione nei suoi confronti, ero stato immunizzato dall'esperienza del Gruppo 63. Subito c'è stata da parte sua simpatia e stima, perché c'era autonomia: io non provenivo da quella scuola. Questo ha favorito la mia crescita. Non ho avuto un rapporto edipico con Argan. In realtà c'era invece qualcuno che aveva un problema: teorizzo la Transavanguardia, e scatta un'infantile imitazione. Calvesi fa Anacronismo, Filiberto Menna L'astrazione Primaria, Flavio Caroli Il Magico primario... Tutti cercavano, pensando fosse possibile, di ripetere quello che è stata la Transavanguardia, invece... La Transavanguardia è stata un movimento spontaneo. Ho semplicemente seguito un mio impulso e una strategia risultata vincente a livello internazionale. Basti pensare che ho cominciato con Emilio Mazzoli a Modena, e poi con Gian Enzo Sperone». Ha avuto pressioni? «Più che pressioni, aspettative; anche da parte di galleristi che si sentivano esclusi. Con Emilio ci fu un incontro nato con Schifano. Emilio mi colpì subito perché mi ricordava "il professor Unrat" (dell'omonimo romanzo di Heinrich Mann che il film L'angelo azzurro con Marlene Dietrich ha reso leggendario, ndr ). Era ed è una persona appassionata. Ci siamo piaciuti e abbiamo subito lavorato insieme. Ha un occhio per la qualità. Si avverte in lui un riserbo, confermato dall'avere conservato un legame con le sue radici. È un collezionista anche di libri, e questo è un feticismo fecondo: è il frutto di una curiosità onnivora, non sterile. Ha un rapporto sano con la vita, è un uomo di sani principi». Perché ha avuto successo la Transavanguardia? «C'era un'egemonia americana in cui prevaleva Duchamp rispetto a Picasso. In Chia, Paladino, Cucchi, Clemente e De Maria non c'era un'adesione artigianale a un passato patetico, ma un usare la ripresa della pittura fuori dagli schemi della mimesi narrativa, tanto è vero che prevaleva su tutto il principio dell'ironia. Ricordiamoci: come dice Goethe, l'ironia è la passione che si libera nel distacco». Questa mostra invita inevitabilmente a fare dei bilanci. Pentimenti? «No. Quando dovevo dire o scrivere su cose che non mi convincevano l'ho fatto... non ho contrattato nulla. E non ho neanche rimorsi, né nostalgie. Per usare una frase di Agnetti: io amo dimenticare a memoria. Vede, un critico progetta il passato, in quanto interviene come un pompiere quando l'incendio è scoppiato. Ma nello stesso tempo la sua lettura conferisce un tempo lungo all'opera. L'opera resiste nel tempo. È l'artista a essere un errore biologico rispetto all'opera. E questa resistenza è il frutto della stratificazione del tempo. L'arte è un respiro biologico dell'umanità. E questo crea oggettivamente una sintonia tra il respiro creativo e il respiro creatore. Mentre il critico è creativo, l'artista è creatore. Sono ruoli che messi in sintonia possono sviluppare un'apertura e una tentazione dell'arte di essere sempre più libera. In questo senso, sono contro le ideologie nell'arte. Il pericolo può essere un atteggiamento ortopedico. Si può evitare con facilità se il critico è libero da ogni prevenzione». Infine: «Il critico è un libertino: sono un Dongiovanni della conoscenza». Va detto che il nostro «libertino» ha fatto davvero alcune mostre epocali: «Ho sempre teorizzato la forza della scrittura espositiva: un critico scrive non soltanto nelle parole ma anche con la collocazione nello spazio, in una sequenza capace di produrre una riflessione». Lo confermano alcune rassegne, libri e interventi che ne hanno delineato l'indiscusso successo: a cominciare dal volume Made in mater (edizioni Sampietro, 1967), in cui Bonito Oliva esordisce come poeta ed entra nel Gruppo 63. E poi, la mostra Amore mio, 1970 («Un titolo da Sanremo quando intorno c'era solo politica»), Vitalità del negativo, 1970 («Citavo Nietzsche in anni in cui era un nome impronunciabile»), Contemporanea, 1973 («Non avevo salotti dove esporre e da napoletano mi sono arrangiato nel garage di Villa Borghese»); Opere fatte ad arte, 1979 («Qui nasce la Transavanguardia») e poi la Biennale di Venezia del 1993 («Una Biennale interdisciplinare, diffusa, multimediale, transnazionale») ma anche l'esperienza della metropolitana di Napoli («Ho creato un museo obbligatorio»). Ma c'è qualcuno che si salva nelle nuove generazioni? «Certo, non tutti sono catastali e notarili, anaffettivi o portatori di una frigidità dello sguardo. Vuole un nome? Vicente Todolí. Lo stimo. E tutto sommato, anche Massimiliano Gioni: è un giovane che è arrivato all'arte contemporanea, lo dice lui, vedendo la mia Biennale del 1993 e ne ha fatto tesoro». «Mi devo togliere qualche sassolino? Va bene. Credo di non avere interlocutori all'altezza. Intanto perché sono un basso napoletano. Negli anni Settanta, la cosa davvero triste fu questa: figure che mi avevano appoggiato hanno poi avuto un risentimento verso di me: non accettavano il mio successo. Lì ho potuto toccare con mano la pochezza morale anche di una figura come quella del critico. Erano morsi dall'invidia». ABO scuote la testa: «Ho dovuto combattere contro il pregiudizio. Non solo dei critici rimasti nelle retrovie ma anche degli artisti che non accettavano il protagonismo del critico». Su quali artisti punterebbe oggi? «Non c'è più il mito della soffitta, piuttosto del superattico. Oggi non indicherei nuovi nomi, rispetto ad Aperto '93, perché prima c'era un'idea di comunità, prevaleva il noi all'io, oggi gli artisti vanno avanti in fila indiana in maniera individuale e solitaria e non c'è più la possibilità di indicare aree nuove. La colpa è della postmodernità: ha cancellato visioni, ideologie, sogni comuni. C'è un procedere in prima persona singolare. Prima c'era un corpo a corpo con l'arte. Ora tutto si è sbriciolato. Sono crollati i rituali, la mostra, le inaugurazioni, le fiere. Sono spariti gli incontri». Caro ABO, è arrivato il momento di fare qualche gesto apotropaico. Sulla tomba di Duchamp c'è scritto: C'est tojours le autres qui meurent (Sono sempre gli altri che muoiono). Sulla sua cosa vorrebbe fosse scritto? Con aplomb anglosassone il critico non batte ciglio: «Non sono superstizioso. Ma se dovessi fare una dichiarazione postuma direi che sono stato una spina nell'occhio dell'arte e della critica». Silenzio. Poi aggiunge con un sogghigno: «Per adesso».

·        Ada Negri.

Ada Negri, la vergine rossa, la povertà e il riscatto. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 13 giugno 2021. “Ada Negri sta a Motta-Visconti. Questo lo si sa perché tutte le sue poesie portano ai piedi, a sinistra, questa indicazione. Ma chi è Ada Negri? […] Perché non esce fuori in piena luce e nessuno l’aiuta a uscir fuori? Io mi dibatto, maledico e piango, Ma passa il mondo e ride o non mi sente. Perché nessuno l’ascolta?” Queste parole, scritte nel dicembre del 1901, sono l’inizio di un articolo per il Corriere della sera della scrittrice e critica letteraria Sofia Bisi Albini. Sono anche, per Ada Negri, l’inizio di tutto, in particolare del successo poetico e letterario che la porterà a essere, ai principi del Novecento, una delle donne più note d’Italia. Il vero inizio di tutto, però, è in una stretta portineria scura, formata da due stanze sole, dove la madre, Vittoria, va a partorire la sua seconda figlia, cui mette nome Ada. La portineria è abitata dalla nonna, Peppina, dapprima domestica personale poi portinaia dei conti Barni. Vedova del marito alcolizzato, Vittoria rifiuta di sposare un altro uomo e decide, per mantenere la figlia, di impiegarsi in una fabbrica tessile dove lavora 13 ore al giorno, per una paga misera, che le permette però di far studiare Ada. La storia di Ada Negri è una storia di donne intrecciate in un minuscolo spazio vitale: donne che si prendono cura l’una dell’altra, si accolgono e si sostengono. L’inizio di Ada è ossessionato dalla povertà e dalla fame, dall’ansia di rivolta e l’anelito di riscatto, covato mentre compie, bambina, il suo compito: quello di aprire le cancellate e abbassare la testa al passaggio della carrozza del padrone. “Tutti, davanti alla poesia di Ada Negri, s’erano sentiti presi e scossi”, scrive Sofia Bisi Albini nell’articolo. Ada è poco più che ventenne, si è trasferita in quel piccolo paese della Bassa e fa da maestra a più di cento bambini provenienti dal suo stesso ceto, quello della plebe triste e dannata, con loro si sente a proprio agio, accolta come a casa: “Io non ho nome. —Io son la rozza figlia Dell’umida stamberga; Plebe triste e dannata è mia famiglia, Ma un’indomita fiamma in me s’alberga.” Sofia Bisi Albini va a cercarla lì dove vive, osserva la sua casa cadente, la stanza nella semioscurità di finestre chiuse con la carta. Vede nei suoi occhi il fuoco e nel suo atteggiamento l’umiliazione di chi sente di non appartenere alla vita che compie e non avere i mezzi per assomigliare a ciò che desidera. Bisi Albini scrive un articolo accorato e patetico, attira l’attenzione su Ada, sulla sua giovane età, la povertà estrema, il suo fervore che la consuma e la gioia dolorosa con cui si lascia divorare. Il resto lo fanno le poesie di Negri. La giovane poetessa di Lodi diviene un caso letterario. Grazie al successo di pubblico delle sue raccolte poetiche e ai miglioramenti della sua carriera e della sua situazione economica, Ada Negri può andare a vivere a Milano. È lì che scopre una città dai fermenti all’altezza di quelli suoi stessi. Scrive poesie di denuncia, di indignazione, sulla classe operaia, sulle condizioni di tessitrici, minatori, battellieri. La chiamano “la poetessa del quarto stato” o “la vergine rossa”. Entra nei circoli socialisti, conosce l’amore tormentato della sua vita, considera Anna Kuliscioff “sua sorella ideale”. È lì che incontra anche un giovane Benito Mussolini, all’epoca ancora socialista. Mussolini ritornerà nella sua vita, quando, anni dopo, la Negri deciderà di aderire senza riserve al regime fascista. Ci si è domandati se lo avesse fatto per convinzione, in segno di rivolta verso il socialismo che a suo parere aveva abbandonato gli ideali dei “poveri cristi”, lasciati alla deriva in un mare di “comizi, probiviri, propaganda, dimostrazioni e scioperi, il diavolo a quattro, un mare di gesti e di chiacchiere”; oppure se vi avesse aderito per convenienza, sempre spinta dal demone del riscatto dalla povertà, in quanto ottenne poi molti premi di Stato che le valsero cospicui vitalizi, come il Giannina Milli, che le assicurava una rendita per dieci anni, cui pure rinuncerà a favore di Sofia Bisi Albini, la donna cui doveva la su fortuna. Nel 1926 Ada Negri fu candidata al premio Nobel, vinto in quell’anno da Grazia Deledda. Non tutti sanno che Ada Negri, nota per la sua poesia, ha scritto, anche testi di prosa bellissimi, di una scrittura dura, cruda, intensa e levigata. Le solitarie, ma anche Sorelle, Finestre alte, Stella Mattutina, raccontano le donne come raramente era stato fatto fino ad allora: in una sorta di volontaria e tenace resistenza fisica e morale a un universo di fatica e abusi, in cui venivano sottopagate, sovrasfruttate, tradite, additate alla pubblica morale. Sono creature uscite dall’esperienza della prima giovinezza di Ada Negri, dall’osservazione silenziosa dei suoi occhi di “scarna adolescente, livida di superbia, impaziente di vivere”: “Vi è contenuta tanta parte di me, – scriverà poi – e posso dire che non una di quelle figure di donna che vi sono scolpite o sfumate mi è indifferente. Vissi con tutte, soffersi, amai, piansi con tutte.” In un posto molto lontano dalle sue adesioni politiche o dall’enfasi del suo stile poetico, queste prose raccontano con rabbia ma anche orgoglio e calore la presa di posizione delle donne che ha conosciuto in gioventù, la responsabilità delle proprie scelte, fortemente volute e sofferte, l’accettazione non passiva delle conseguenze delle costrizioni, a volte il riscatto della tenacia, a volte il cedimento sotto la pressione e della diseguaglianza sociale, e ricordano nei toni l’afflato che, in Libertà, le aveva fatto scrivere questi versi: “io non fui d’altri e non sarò mai tua,/ io sono di me.” Lo sguardo poetico di Ada Negri resta, fino alla sua fine nel 1945, quello della bambina infelice che era stata mentre osservava il mondo ingiusto dalle finestre delle due stanze buie della portineria, con una sensibilità sconfinata e una rabbia bruciante che si trasformava dentro di lei in “lampo di sfida” e poi in “impeto di audace speranza”. Quella stessa bambina che, di fronte allo sfruttamento che deteriorava la salute della madre, malediceva la fabbrica: “La derubano. Quello che dà è scandalosamente più grande di quello che riceve […] Processata, andrebbe, la fabbrica; e condannata. Paga il tuo debito, ladra!”; mentre, di fronte a se stessa, si perdeva in abissi fondi di incoscienza e di disperazione: “Io vedo – nel tempo – una bambina. Scarna, diritta, agile. Ma non posso dire come sia, veramente, il suo volto: perché nell’abitazione della bambina non v’è che un piccolo specchio di chi sa quant’anni, sparso di chiazze nere e verdognole; e la bambina non pensa mai a mettervi gli occhi; e non potrà, più tardi, aver memoria del proprio viso di allora.” Tutta la sua poesia, la sua “voce piena di vento”, non è che lo sforzo inesausto di ricostruzione e memoria di quel viso di allora.

·        Albert Camus.

Marco Cicala per “Il Venerdì – la Repubblica” il 14 novembre 2021. Lui 30, lei 21. Li separavano nove anni di età. Tutto il resto li univa. Nel marzo 1944 s'incontrano per la prima volta a Parigi in casa dello scrittore-etnologo Michel Leiris, dove si recita tra amici (Sartre, de Beauvoir, Lacan, Bataille, Queneau...) Il diavolo per la coda, pièce surrealisteggiante di Pablo Picasso. Il 6 giugno successivo - giorno dello sbarco alleato in Normandia. I due si ritrovano a una soirée tra gente di teatro e finiscono per conoscersi meno platonicamente. Albert è un franco-algerino un po' scapestrato in lotta con la Tbc; ha già all'attivo una mezza dozzina di testi - tra i quali la cosiddetta Trilogia dell'assurdo (il dramma Caligola, il saggio Il mito di Sisifo, il romanzo Lo straniero) - apprezzati, ma noti soltanto a una ristretta cerchia di connoisseur. Anche Maria è una sradicata: spagnola, figlia dell'ex leader e ministro repubblicano Santiago Casares Quiroga, è riparata a Parigi con famiglia mentre in patria i franchisti prendevano il sopravvento nella guerra civile. A dispetto di un avvio difficile - non è stata ammessa all'Accademia d'arte drammatica - diverrà una "divina" del palcoscenico e, seppur in misura minore, del cinema, diretta da Bresson, Carné, Cocteau. In quella primavera fatale, Albert Camus e Maria Casarès sono belli e quasi famosi. Lui aitante malgrado la malattia, impermeabili e sigaretta alla Bogart, il sorriso un filo equino alla Fernandel. Lei esile, ma ardente, stregonesca sotto le ciglia tragiche. Due cuori nella tormenta del secolo. L'infanzia del loro amour fou coincide con gli ultimi mesi dell'occupazione nazista, poi con l'euforia della Liberazione, con l'effimera stagione in cui tra attivismo politico, dancing, bicchierate fino all'alba, ci si illude di poter reinventare il mondo. Ma c'è un intoppo. Camus è sposato e, rimasta bloccata in Algeria dalla guerra, sua moglie Francine si prepara a raggiungerlo a Parigi. Non bastasse i coniugi faranno presto due figli, i gemelli Jean e Catherine. Relegata a comprimaria, l'impetuosa Maria non ci sta: molla Albert e tira dritto. Però da qualche parte sta scritto che le rispettive strade sono destinate a ricongiungersi su un unico viale: il Boulevard Saint-Germain, dove il 6 giugno del '48 - ancora un 6 giugno - Camus e Casarès s'incrociano per caso. Da quel momento non si lasceranno più. Ciascuno con i propri amori, flirt, viaggi, slanci, tormenti, successi, fallimenti, resteranno uniti ma liberi come animali selvaggi. "Mi sento sempre più animale e non del tutto addomesticata" scrive Maria ad Albert. Oppure: "Eccomi finalmente animale puro". O ancora: "Ti amo come un animale". E lui "Anch'io ho voglia di essere felice, in maniera cieca e animalesca... Il corpo ha una sua saggezza e una sua felicità. Quando penso al tuo, mi si secca la bocca... ma lasciamo perdere". Lettere,  biglietti, telegrammi spediti anche più volte al giorno... Sembrano ognuna la sequenza di un melò da cineteca le 865 carte che Camus e Casarès si scambiarono nell'arco di un quindicennio e che ora escono in italiano da Bompiani con il titolo Saremo leggeri. Corrispondenza 1944-1959. In Francia erano state pubblicate quattro anni fa per coraggiosa volontà di Catherine, la figlia dello scrittore, che al telefono da Lourmarin, il villaggio provenzale scelto da suo padre come buen retiro, racconta al Venerdì la storia del carteggio ritrovato. "Le lettere di Maria stavano in una sacca, nell'appartamento parigino di papà. Alla sua morte vennero subito recuperate dall'amico poeta René Char e consegnate a lei, per evitare che ferissero mia madre". In seguito Casarès le avrebbe affidate a Catherine insieme a quelle di Albert. Nel frattempo l'antica fiamma di Camus e sua figlia si erano incontrate. "Nei primi anni 80, dopo la morte di mia madre, Maria Casarès era in tournée a Nizza, dove vivevo all'epoca. Le lasciai un messaggio in teatro chiedendo se le andasse di vedermi. Dubitavo molto che avrebbe accettato. Non amava rievocare la storia con papà. Invece rispose subito dandomi appuntamento nel suo hotel. Mi presentai verso le due del pomeriggio. E parlammo per ore stese sul letto. Divorando tavolette di cioccolato come se ci conoscessimo da sempre. A un certo punto le dissi: 'Devo andare'. 'Ma perché?' chiese lei. 'Perché fa notte'. Maria sorrise: 'È proprio vero che la mela non cade mai lontano dall'albero'. Non so a che cosa alludesse citando quel proverbio. Forse pensava che come papà anch'io diventassi malinconica al calare della sera. Poco importa: da quel giorno ci rivedemmo spesso. Maria era la vita stessa". 

Fair play femminile

E Madame Camus? Figlia della borghesia di Orano, matematica e pianista, Francine Faure aveva sposato Albert nel 1940 a Lione, durante le traversie della guerra, gli andirivieni tra l'Algeria e la Francia, dove lui alternava le modeste collaborazioni con i giornali sorvegliati da Vichy ai ricoveri in sanatorio. La famiglia Faure non vedeva di buon occhio la liaison con Camus l'artistoide, l'intellettuale precario. Guardandolo in foto, la sorella di Francine commentò: "Sembra una scimmia". E la futura moglie: "Beh? Dopotutto la scimmia è l'animale più vicino all'uomo". In tempi di ristrettezze, la cerimonia di nozze fu grama: due testimoni, all'uscita dal municipio un bicchiere di vino al bistrot e un mazzo di violette per la sposa. Camus non divorzierà mai da Francine, ma la sua esuberanza extraconiugale metterà a durissima prova l'equilibrio nervoso della consorte precipitandola nella depressione. E tuttavia, dice Catherine, "in casa non ricordo una sola parola pronunciata da mia madre contro Maria". Come se, a lungo andare, la rivalità amorosa fosse sfumata in un seppur sofferto fair play, in un rispetto cavalleresco tra donne. Nelle lettere, Casarès si preoccupa della famiglia di Albert: "Abbi cura di te: è anche il modo migliore di avere cura di Francine e ci sono troppe persone che hanno bisogno di te perché tu venga a mancarci. In questo disordine inimmaginabile, come stanno i bambini? Che combinano?". Ma se il libertario Camus ritiene il matrimonio un'asfissiante gabbia borghese perché si sposa? - chiedo a Catherine. "Perché lo aveva promesso a mia madre. Per rispetto della parola data". 

Anarchia sessuale

Cresciuto nei bassi di Algeri, il futuro premio Nobel è sessualmente anarchico. Da ragazzo ha coabitato con una coppia di lesbiche comuniste, Jeanne Sicard e Marguerite Dobrenn, in una specie di comune allestita nella Maison Fichu, una povera casa dalla vista magnifica sulle alture della città. "La maison davanti al mondo", la battezzerà lui. Nel ritrovo si va e viene, si provano pièce teatrali, si discute di arte e politica, ci si divide le spese d'affitto, le mansioni domestiche - pulizie, cucina - e si pratica il libero amore. Camus ci porta le sue compagne più o meno occasionali. È reduce da un primo matrimonio disastroso. Nel 1934, ha impalmato avventatamente Simone Hié, una vamp anticonformista fino all'autodistruzione, una che va in giro senza reggiseno né mutandine, porta tacchi alti e cappelli incredibili, fuma da un lungo bocchino come Rita Hayworth, ma è tossicomane. Un giorno Albert intercetta una lettera indirizzata a Simone e scopre che la moglie se la fa col medico che le passa la morfina. Ustionato nell'orgoglio virile, Camus chiede il divorzio. Ha sempre vissuto il sesso come dimensione solare, ma anche come una sorta di sfrenata alienazione. A 17 anni gli hanno diagnosticato una tubercolosi di quelle che non lasciano scampo. Per lui amorazzi e amori diventano così l'impulso resistenziale di chi si aggrappa alla vita. Finché dura. Però il piacere è dispersivo, nuoce alla concentrazione, alla scrittura: "La vita sessuale è stata data all'uomo per distoglierlo dalla sua vera strada. È il suo oppio" annoterà Albert nei taccuini. "La sessualità non porta a niente. Non è immorale, ma improduttiva". Sarà. Ma lui non riesce a imbrigliarla. Anni fa Olivier Todd, tra i maggiori biografi di Camus, mi raccontò un aneddoto: "Un giorno, a Parigi, sedevo con mia moglie in un caffè di Place Saint-Sulpice. A un certo punto compare Albert Camus, che non avevo mai visto prima, e si piazza al bancone fissando mia moglie come se la spogliasse con gli occhi. Mi inalbero: 'Ma per chi si prende 'sto sbruffone?'. E mia moglie: 'Si prende per Albert Camus'". Molto si è divagato e scritto sul machismo mediterraneo, sul dongiovannismo camusiano. Ma il carteggio con Casarès ci svela tutt'altro personaggio, agli antipodi del predatore.  Un uomo che si espone nella propria fragilità: "Si dice, a volte, che uno sceglie questa o quella persona. Io non ti ho scelta. Sei entrata per caso in una vita di cui non andavo fiero, e da quel giorno qualcosa ha cominciato a cambiare... Ho respirato meglio, ho detestato meno cose, ho ammirato liberamente ciò che meritava di esserlo. Prima di te, fuori di te, non aderivo a nulla... Con te ho accettato più cose. Ho imparato a vivere... È così che si cresce davvero e si diventa un uomo. Con te mi sento un uomo. Per questo forse il mio amore è sempre stato pervaso da una gratitudine immensa". E Maria: "Mi sono sorpresa a dire che eri l'uomo più degno di ammirazione e di amore del mondo". 

Mon amour, mon chéri

Certo, avanzando in oltre 1.500 pagine di Mon amour e Mon chéri, si può accusare qualche colpo di sonno, ma perché la corrispondenza è il documento démodé, per non dire ormai quasi archeologico, di una lingua perduta: quella dei carteggi amorosi, dei sentimenti che per lettera esondano oltre ogni convenzione, contegno, codice sociale. La scrittura è elevata, mai sciatta, torrenziale, dirompente di enfasi (elemento dissonante, questo, rispetto allo stile prosciugato del Camus romanziere), ma forse proprio per questo liberatoria. Nell'epoca di WhatsApp fa un effetto spiazzante riscoprire fino a che punto gli esseri umani si lasciassero andare, si denudassero per iscritto. Non essendo costantemente "connessi", ogni separazione, ogni distanza erano vissute come uno strazio lancinante, e ritrovarsi era un evento, sempre atteso con trepidazione folle. Lui ha una visione pagana della vita, lei religiosa, ma quello tra Camus e Casarès è un legame di corpi, menti, anime - ci si perdoni il termine antiquato - saldate dalla reciproca ammirazione. Ammirazione tra uomo e donna ancora prima che tra artisti. Besoin, bisogno, è fra i vocaboli più ricorrenti nel carteggio. 

Lui: "Il bisogno che ho di te altro non è che il bisogno che ho di me stesso. È il bisogno di essere e di non morire senza essere stato". "Ho bisogno di te, come si ha bisogno del sole e della terra, per non perdersi". Lei: "Amore mio bello... Non ho mai sentito questo bisogno insopportabile della presenza di qualcuno, questo bisogno continuo". "Dimmi anche che mi ami, e come mi ami, e che mi amerai fino alla fine. Ne ho bisogno, è come acqua nel deserto". "Se finora nelle mie lettere ti ho spesso parlato di amicizia è perché muoio dal bisogno di fraternità". Camus, che da parte di madre ha ascendenze spagnole, idealizza Casarès, riconosce in lei il mito della Spagna eterna, tragica e fiera. Senza nulla perdere in lirismo, Maria è invece più concreta: in Albert trova un amante, un padre, un fratello. Poco prima di morire nel 1996, lo ricordava così: "Con lui ci si sentiva liberi da molte scorie, aveva il dono di spingerti verso il meglio di te o comunque verso ciò che in te c'è di più vero".

"Niente da rimproverargli"

Come Casarès, anche Camus si divise tra altri amori - dall'attrice Catherine Sellers all'ex modella e illustratrice Mette Ivers - ma sempre curandoli con premura. "Ho incontrato altre donne che furono legate a papà" dice Catherine. "Nel ricordo, nessuna aveva nulla da rimproverargli. A suo modo, lui era stato fedele a tutte". Il 30 dicembre del '59, Camus scrive a Casarès da Lourmarin, dove ha trascorso in famiglia le festività natalizie: "Ecco. L'ultima lettera. Solo per dirti che arrivo martedì in auto... Ti telefono quando arrivo, ma magari potremmo già stabilire di cenare insieme martedì. Diciamo in linea di massima, salvo imprevisti lungo la strada". Il 4 gennaio, mentre sta per raggiungere Maria, Albert si schianta in auto sulla Nazionale 5, in località Villeblevin, a novanta chilometri da Parigi. 

Mirella Serri per “La Stampa” il 24 agosto 2021. È un vero esempio di «gangsterismo», incarna l'orrenda e deliberata istigazione alla bassezza intellettuale e morale e il suo libro, Santo Genet, commediante e martire, è una specie di Mein Kampf. Di chi si tratta? Nientemeno che di Jean-Paul Sartre. Proprio così: la più nota icona dell'intellighenzia antifascista, il celebre pensatore dell'Essere e il Nulla, viene preso di mira. Queste accuse furono formulate dal filosofo e politico Nicola Chiaromonte nella lettera che inviò il 18 settembre 1952 ad Albert Camus.  Il pensatore, nato in provincia di Potenza ed emigrato in America in quanto oppositore di Mussolini, era stato a partire dal 1945 uno dei più grandi estimatori di Sartre. Camus aveva avuto con il padre dell'esistenzialismo un legame che appariva indistruttibile. Da dove allora traeva la sua linfa tanta acrimonia? A raccontarci la storia della profonda intesa tra Chiaromonte e Camus, e quella della loro altrettanto profonda avversione nei confronti del celebre autore della Nausea, è l'epistolario finora inedito in Italia tra Albert Camus e Nicola Chiaromonte, In lotta contro il destino. 1945-1959 (a cura di Samantha Novello, ed. Neri Pozza, pp. 224, 18). Questo scambio di missive - che prende avvio al termine della guerra e si interrompe circa due mesi prima della tragica morte di Camus nel gennaio del 1960 - ci illumina anche sul nostro presente: nel complesso intreccio delle relazioni tra Camus, Chiaromonte e Sartre si riflettono gli orientamenti politico-culturali della nostra modernità sui temi della violenza e delle libertà. In una delle sue appassionate epistole Chiaromonte ricorda che incontrò per la prima volta Camus ad Algeri all'inizio degli anni 40, quando era in procinto di trasferirsi negli States. Ebbe l'immediata percezione di un comune destino: antifascisti e socialisti libertari, Albert e Nicolas - come Camus chiamava affettuosamente Chiaromonte - erano avversi a ogni tipo di coazione e di soprusi nei confronti della volontà degli individui, anche se a scopi rivoluzionari, giustificati invece da Sartre. Entrambi si collocheranno agli antipodi degli schieramenti che si fronteggiavano in epoca di guerra fredda, non condivideranno l'anticomunismo dei sostenitori del capitalismo statunitense e saranno critici feroci del comunismo stalinista. Saranno a fianco dei grandi padri del federalismo europeo, da Ernesto Rossi ad Altiero Spinelli, Hannah Arendt, Raymond Aron, Arthur Koestler, George Orwell e Bertrand Russell. Nel 1936 Chiaromonte in Spagna aveva combattuto nelle file repubblicane contro le armate franchiste. Divenne poi una figura di spicco dei cosiddetti New York Intellectuals: si attivò per far conoscere oltreoceano il pensiero e l'opera di Camus attraverso la rivista Politics, diretta da Dwight Macdonald. Fu Nicolas a organizzare nel 1946 l'approdo trionfale del suo amico negli Stati Uniti: fu accolto alla Columbia University da una folta platea di professori e di ragazzi appena rientrati dal fronte che si commossero sentendolo parlare di The Human Crisis. Il pensatore lucano - fu anche critico teatrale del Mondo di Mario Pannunzio - rientrato in Italia si sentì esule in patria. Pure Camus si sentì estraneo in Francia dove aveva combattuto il nazismo: il futuro premio Nobel pubblicò, nell'autunno del 1951, L'uomo in rivolta, nel quale esprimeva il disagio nei confronti del bolscevismo e del nazionalsocialismo. Sartre lo lesse con grande disappunto: per lui era possibile ottenere giustizia e libertà solo con l'avvento del comunismo. A sua volta Chiaromonte attaccò il filosofo francese in un paio di saggi in cui se la prendeva con l'«assolutismo» delle ideologie e con il trionfo dell'«Ego» nella filosofia sartriana. Albert e Nicolas erano stati turbati dalle notizie che venivano dall'Unione Sovietica e in particolare da quelle riguardanti la violazione dei diritti individuali. Ma Sartre ribatteva che era necessario violarli per costruire una società più giusta ed egualitaria e dalle colonne della rivista Les temps modernes bersagliava il «doppiogiochista» Camus raffigurato con la sigaretta all'angolo della bocca e con il suo scettico sorriso alla Humphrey Bogart. Dopo questo scontro, le tirature dell'Uomo in rivolta triplicarono. La polemica però strinse in una morsa Nicolas e Albert, li rese come due naufraghi aggrappati all'isolotto del loro socialismo liberale, pensatori isolati all'interno della cultura a cui più tenevano, quella di sinistra, di cui Sartre continuava a rimanere l'esponente più autorevole. «Scelgo la libertà», obiettava Camus ai suoi denigratori. «Perché anche se la giustizia non è compiuta, la libertà mantiene un potere di protesta contro l'ingiustizia e mantiene aperta la possibilità di esprimersi». Lo scrittore della Peste, che era cresciuto in Algeria in una modesta famiglia di pieds-noirs, cioè di coloni francesi, si trovò a vivere ancora una volta nell'emarginazione in cui era vissuto da ragazzo. Il narratore morì in un incidente stradale in cui perse la vita anche il suo editore, Michel Gallimard, che era alla guida dell'auto: poco prima del tragico impatto aveva confessato a Nicolas di trovarsi di fronte a uno stallo della sua ispirazione artistica e di essere assai distante dagli intellettuali europei che approvavano il trattamento riservato a Boris Pasternak (a cui i sovietici avevano impedito di ritirare il Nobel). Camus, con i suoi libri, e Chiaromonte, con la rivista Tempo presente fondata con Ignazio Silone (e finanziata dagli americani), tracciavano una strada e lasciavano una fattiva eredità culturale che è continuata a lievitare ed è cresciuta nel tempo. Oggi sono i ventenni e i trentenni a riscoprire i libri di Camus e anche gli scritti di Chiaromonte così attenti alle ragioni degli «ultimi», dei lavoratori sfruttati ed emarginati, insieme al rifiuto della violenza e ai compromessi delle ideologie totalitarie.

·        Alberto Arbasino.

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 24 settembre 2021. Il romanzo Fratelli d'Italia (edizione definitiva Adelphi, 1993) di Alberto Arbasino è uno dei più citati e forse meno letti. Peccato, è di una bellezza travolgente, e si può senz' altro seguire il consiglio di Michele Masneri: aprire a caso e iniziare a leggere. C'è tutto il nostro Paese ma anche molto di più. C'è un modo di intendere l'arte (e la vita) radicalmente diverso da quello al quale siamo abituati. C'è uno stile inimitabile. Ce lo racconta appunto Michele Masneri in Stile Alberto (Quodlibet, pagg. 155, euro 14,50). Un libro delizioso, in cui Masneri parla di Arbasino anche per dire della propria educazione sentimentale, e in cui Arbasino assume il ruolo di involontario maestro, senza insegnare nulla, che è la cosa migliore. Basta l'esempio. Ecco qualche esempio di stile Arbasino. Fate voi il paragone con molti altri scrittori, che non hanno un'opera vera, neppure un'operina, perché mancano completamente di stile, sulla pagina e non solo. 

SPREZZATURA. Trattare con serietà le cose leggere e con leggerezza le cose serie. Essere pesanti dovrebbe essere un reato. Se lo fosse, metà degli scrittori arruolati dai giornali sarebbe oggi in carcere. Il giusto atteggiamento verso un problema personale: never complain, never explain, mai lamentarsi, mai spiegare. Al punto che quando muore l'amato fratello, Arbasino si alza da tavola senza dire una parola ai commensali e sparisce. Da non dimenticare la frase di Marcel Proust: «La frivolezza è uno stato violento». 

VAFFA. L'importanza di un bel «vaffa» senza rimorsi davanti all'invadenza altrui e soprattutto alla richiesta di prestazioni professionali da elargirsi gratuitamente. Impensabile oggi che c'è la fila per partecipare anche alla sagra della patata dolce, anzi: qualcuno probabilmente sborserebbe pur di esserci. 

MAI VIVERE INSIEME. Garanzia di un amore duraturo: non dormire mai nello stesso letto, meglio ancora, non abitare sotto lo stesso tetto. «Altrimenti uno dei due si trasforma in maggiordomo». Per questo Arbasino condivise la vita con «l'amico Stefano» ma non la casa. Un romanziere da quattro soldi ci farebbe subito un romanzo da tinelli. 

OMOSESSUALITÀ. Negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta, Duemila, Arbasino se ne è fregato dei gusti sessuali propri e altrui: l'erotismo, comunque fosse declinato, era un tema come gli altri, non c'era niente da drammatizzare. Regola generale, legata a una visione insieme arcaica e aristocratica della faccenda: don't ask, don't tell, non chiedere, non raccontare. E ricordarsi di non rinchiudersi in un ghetto a causa di battaglie che, iniziate con le migliori intenzioni, finiscono con mettere un'etichetta limitante su tutto. Un romanziere da quattro soldi farebbe subito un romanzo arcobaleno. 

VESTITI. Oggi si va ai festival in infradito, camicia hawaiana e occhialoni con spessa montatura nera. Arbasino invece andava in giacca (senza spaccature) e cravatta. Meglio evitare i completi, ma se proprio si deve, che sia una tonalità di grigio. La giacca blu con i bottoni dorati. La cravatta regimental o con i disegnini Hermès. Calze da abbinare all'abito e non alla cravatta («errore imperdonabile»). Camicie bianche o azzurro slavato. «La mattina però stanno bene anche quelle a righine azzurre sottili». Calzino corto da fucilazione immediata, sempre lungo, se necessario con ricorso alle ghette. Scarpe inglesi. In Fratelli d'Italia si arriva anche alla scelta degli accessori. Chi avrebbe mai detto che due pagine di buone maniere applicate al guardaroba potessero contenere più suspense di un thriller con detective depresso incorporato? Eppure è così. Arbasino ti tiene sulla corda con un paio di guanti. Questione di stile, più che mai.

ORIGINI. «Cosmopolita ma feudale», bella definizione di Masneri. In una parte (ben nascosta) dell'anima, Arbasino sapeva di essere un «anonimo lombardo», come si firmerà in uno dei suoi libri più belli. «Dimenticare Voghera? Non è umanamente possibile» diceva scherzando all'amico Giovanni Testori. Tuttavia si può pensare alla Bassa pavese anche frequentando i corsi estivi di Stanford e Harvard, luoghi dai quali il giovane Arbasino si portò dietro qualche amico, in particolare Henry Kissinger, al quale servire «una bibita» (gin and tonic) osservando Roma dall'alto. 

RIVALITÀ. Di fronte a un rivale detestato, si può tornare all'infanzia e al vecchio scherzo telefonico. Quando Truman Capote era ospite di qualche amico, Arbasino prendeva accordi per solleticare l'ego di Truman. Driiin. Il padrone di casa, complice di Arbasino, andava a rispondere. «Truman, c'è Marella Agnelli per te» e Truman correva a rispondere. «Hallo Marella». E Arbasino, dall'altra parte del filo, buttava giù la cornetta. Ci si divertiva con poco. 

MAESTRI. «Nipotino» dell'ingegner Carlo Emilio Gadda, in compagnia di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori. La definizione auto-imposta, nota Masneri, significa saltare un'intera generazione della letteratura italiana, quella di Alberto Moravia, per intenderci. Arbasino era chiamato spesso maestro o professore. Lui sogghignava ricordando la risposta di Giorgio De Chirico alla domanda: «Come la dobbiamo chiamare?». De Chirico: «Chiamami Peroni, sarò la tua birra».

SAGGI. Si giudicano a colpo d'occhio dalla bibliografia. Se è fatta male, vuol dire che ci sono poche speranze. Quella «confidenziale» di Masneri è compilata bene. 

NOBILI. Un albero genealogico è bello come una bibliografia. 

POLITICA. Negli anni Ottanta fece una rapida legislatura come indipendente eletto nelle liste del Partito repubblicano. Ricordi micidiali, odio, disgusto. Aveva legato solo con qualche peones e con Nilde Iotti («Una vera preside»). Fu tra i pochi a superare l'esame del presidente dandy, Sandro Pertini, che passava in rassegna, al Quirinale, i papillon degli ospiti per verificare che fossero veri e non pre-annodati. 

·        Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Carmen Llera: «Alberto Moravia ha avuto ragione, mi ha amata più di tutti e io non l’ho mai ingannato». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2021. La scrittrice: «Ho dato un passaggio in motorino a Bob Dylan. Mi sento più figlia che madre, con il mio ragazzo siamo come fratelli». Da quando l’ho cercata per intervistarla, tutte le mattine, fra le sei e le sette, Carmen Llera Moravia mi manda una foto di Roma. Può essere piazza Navona, possono essere i Fori Imperiali. Lei è lì che cammina, perché la città, che definisce amatissima dopo averla detestata all’inizio, solo a quell’ora è vuota e neanche tanto luminosa. Lei non ama la luce. Racconta di avere una tela di Capogrossi in casa, gliel’avevano rubata, la polizia l’ha ritrovata: «Il nipote mi ha detto che non ne ha mai vista una così ben conservata. È perché la stanza è sempre in penombra». Le chiedi il primo ricordo da bambina e risponde «la paura della luna piena, grande e luminosa. Mi nascondevo così bene che papà non mi trovava». Era difficile sospettare l’avversione per la luce quando Carmen irruppe nelle cronache, nell’anno 1981: per tutti, era la spagnola giovanissima, caliente per cliché, che aveva travolto e fatto innamorare Alberto Moravia, quasi il triplo dei suoi anni: 26 lei, 73 lui. «Ma io sono del Nord, della Navarra, non il tipo alla Penélope Cruz», dice adesso, «da noi, anche il mare, il Cantabrico, è freddo. Alberto diceva sempre che non conosco sentimentalismo, che sono dura».

Oggi, si sente più spagnola o italiana?

«Penso in italiano, scrivo in italiano. Sono venuta qui per starci un anno, ero Lettrice all’Università di Palermo, non sono più andata via».

La sua vita, i romanzi che ha scritto, raccontano uno spirito libero. «Libero ma non ribelle. Sono cresciuta in un collegio di suore a Pamplona, come tutte le ragazze per le quali si cercava la migliore educazione, e ci stavo benissimo. Mi sembrava, attraverso lo studio, di coltivare la mia libertà. Non amo le imposizioni e la mancanza di libertà mi terrorizza, ma se mi autoimpongo regole sono un orologio svizzero. Mi sveglio sempre alle cinque e mezzo, esco presto, cammino a lungo. Vado al cinema tutti i pomeriggi alle tre. Non esco mai a cena, vado a letto dopo il tg. Alberto usciva tutte le sere e io restavo a casa. Nessuno riesce a farmi fare una cosa che non mi piace».

Diego Abatantuono: «Le notti con Fo e Jannacci valevano un mese a scuola»

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Primo matrimonio a 18 anni, col suo prof. di Filosofia. Era libertà o ribellione?

«Era una grandissima infatuazione. Mio padre era contrario. Gli promisi che avrei continuato gli studi e non avrei avuto figli prima della laurea. A luglio, ero incinta. Avendo due fratelli molto più grandi, non sapevo niente di bambini e, al momento, mi parve una cosa bella, ma non consiglierei mai di avere figli così presto. Io ho scoperto che non ho senso materno. Sono più figlia che madre. Alla fine, con mio figlio siamo più come due fratelli, abbiamo avuto momenti di complicità quando sentivamo la stessa musica o leggevamo gli stessi libri».

Lo lasciò ai nonni e venne in Italia. Suo marito disse che scappò con un ex gesuita.

«Davvero? A chi l’ha detto?».

Al settimanale «Oggi», nel 1986.

«Ma pensi... Ho avuto due prof. gesuiti, ma non sono scappata con nessuno».

Perché attira sempre leggende scabrose?

«Avviene a mia insaputa».

In «Finalmente ti scrivo» ha raccontato che, la mattina, Moravia s’affacciava nella sua stanza. Diceva: «Volevo vedere se c’eri ancora». E che le scriveva: «Tu fuggi, fuggi...». Davvero rischiava sempre di non trovarla più?

«Era come quando diceva: io morirò e tu sposerai un altro. Invece non ho sposato nessuno e non sposerò nessuno. Non so che effetto gli facesse vedere una donna con 46 anni meno di lui, così inquieta, un po’ errante, che andava veniva, stava tanto in Libano, nel Maghreb, a Gerusalemme. Non era gelosia e non ha senso parlarne ora che è morto da 31 anni. So che ha sempre rispettato la mia natura, io non ho mai voluto possedere nessuno e non voglio essere posseduta».

Nei vostri dieci anni d’amore si è molto favoleggiato di suoi presunti amanti.

«Ho fatto la mia vita senza occuparmi di quello che scrivevano. Io Alberto non l’ho mai ingannato. Anche lui era sempre circondato da donne, bellissime, famose. Amanti, non amanti? Che conta? Io ho sempre vissuto nel presente mai guardato al futuro. Invidiavo Alberto perché aveva una vocazione, la scrittura, io so solo quello che non mi va di fare e che non farò mai».

Che cosa non farà mai?

«Non vivrò con qualcuno perché ho bisogno di solitudine. Ho potuto farlo solo con Alberto. Io se entro in casa e sento che c’è qualcuno posso impazzire. Posso amare una persona, ma per me amare dei corpi è più facile che amare delle persone. Ho avuto molti corpi, ma ho amato pochi uomini. Ho sempre separato sesso e amore: sono due cose che a volte accadono insieme e tante volte no».

Quante volte si sono uniti sesso e amore?

«Forse, tre. Non farò i nomi».

Ho letto che, a metà anni ’80, il suo ufficio in Bompiani era tappezzato di foto di Klaus Kinski con dedica «a Carmen con amore».

«Ma non è vero. Mai avuto sue foto».

E il leader druso Walid Jumblatt?

«Era una cosa diversa da Kinski, francamente. Lo vedevo sempre in Libano, ho conosciuto sua madre, i suoi figli».

Non era lui l’amante druso di Georgette, il suo primo romanzo?

«Questo giochino alla francese dei roman à clé dove tutti cercano di identificare i personaggi non mi è mai piaciuto».

Hanno appiccicato nomi celebri a tutti gli uomini dei suoi libri: ai cinque di «Amori incompiuti»; all’«Ultimo amante», sposato e amante della protagonista per sette anni; a quello del «Diario dell’assenza», sposato pure lui...

«Mi succede anche nella vita. Mi fotografano con un uomo, anche gay, e scrivono “Carmen col suo compagno”. Una volta, sono andata dal compagno del compagno e gli ho detto: è meglio che sia il tuo compagno e non il mio».

Dovette pure scrivere una lettera al «Corriere» per chiedere a tutti di smetterla di associare Dominique Strauss-Kahn all’amante francese descritto nel suo «Gaston».

«L’ho fatto quando fu accusato di stupro. Conoscendolo, non mi sembra uno che ha bisogno di usare la violenza per conquistare una donna».

Dunque non era crudele, sadico, manipolatore come nel romanzo?

«Non mi rileggo: non ricordo “Gaston”».

Fu scritto anche di un flirt con Fiorello tornato single dopo Anna Falchi. «Passava in motorino, si è fermato ed eravamo sui giornali».

In motorino andò anche con Bob Dylan.

«Quello è stato un caso: ero in piscina all’Hotel Aldrovandi, l’ho visto. Mi ha chiesto come andare in piazza del Popolo e ce l’ho portato. Da ragazzina, ascoltavo sempre Blowin’ in the Wind».

La sentenza di Moravia, «nessuno ti amerà come me», è diventata una profezia avverata?

«Ci sto pensando e mi viene da ridere. Secondo me, non sono facile da amare. Ci vuole coraggio per amare una donna libera come me. Ma credo di essere stata più amata di quanto ho amato io. Probabilmente sì, Alberto è la persona che mi ha amato di più. Si è esposto di più».

Ora, ha qualcuno?

«In che senso?».

Nel senso che non ha senso chiederle se è innamorata, ma al massimo se ha qualcuno che la ama e da cui fugge.

«Ho persone con cui ho complicità diverse. Innamorata non lo so. Se per innamorata s’intende fare gesti passionali o perdere la ragione, allora, forse, non lo sono mai stata».

Moravia diceva che lei viveva per il piacere e spesso era in collera perché la vita le negava il piacere che riteneva le spettasse di diritto. Cos’è questa incapacità di felicità?

«Non è incapacità di felicità. La parola felicità non è nel mio vocabolario. Come la parola serenità. Potrei aggiungere anche: normalità. Di Hollande che si definiva “normal”, scrissi: sei presidente, sei normale, sei mediocre. Io ho sempre cercato armonia, non felicità. Infatti, sono per l’eutanasia: non potrei vivere, per esempio, se perdessi l’uso delle gambe o della vista».

Ha preso informazioni sull’eutanasia?

«Mia sorella lavora in un’associazione che se ne occupa, a Madrid, ma io penso che il suicidio si possa fare anche da soli. Chiedo a tutti gli amici medici che succede se metti un po’ di questo o di quello. Ho capito che l’ingrediente chiave è il potassio e, sempre se sei ancora lucido e non devi andare in Svizzera e affidarti a qualcuno, ho capito come si fa, ma preferirei non dirlo».

Ride pure quando parla del suo suicidio.

«Ciò che non potrei mai fare è morire disarmonicamente, tipo buttandomi dalla terrazza».

Che cosa amava di lei Moravia?

«Anche lui era molto razionale. Avevamo tante affinità. Anche lui andava sempre al cinema di pomeriggio. E, da autodidatta per i noti problemi di salute giovanile, amava presentarmi come “mia moglie, la professoressa Carmen Llera”».

Davvero distrusse le lettere che le scriveva?

«Io distruggo tutto. Ho tenuto solo le foto dei nostri viaggi. Mi piace il vuoto, detesto accumulare. E non voglio ritrovarmi che, dopo, hanno usato le lettere chi sa come. Mi scriveva sempre, anche quando eravamo in casa».

Lei come ha iniziato a scrivere?

«È stato Alberto a spingermi, io non l’avrei mai fatto. L’ ultimo libro è del 2011. Preferisco leggere, non scrivere».

Ha scritto spesso libri brevissimi. Anche solo di 43 pagine.

«Sono per la brevità. Sintetica di natura».

Essenziale è anche la casa in cui vive.

«Ho poche cose, ma armoniose. Nessuno può venire a mangiare, perché il tavolo è solo per due e non ho pentole, mangio solo cose crude».

Se ripensa a Moravia, che cosa vede?

«Tutto. Le mani, gli occhi, la fronte. Mi piace vederlo in foto, ma non posso sentire la sua voce registrata. A uno spettacolo di Vittorio Sgarbi su Caravaggio, di colpo, si sente Alberto dire: “Hanno ucciso un poeta”. Parla di Pasolini. Mi sono sentita male. Proprio piangevo. Piangevo». 

Maurizio Caverzan per “La Verità” il 27 settembre 2021. 

Cominciamo?

«Cominciamo. Però vorrei fare una premessa». 

Prego.

«Siccome trattiamo argomenti sui quali le strumentalizzazioni e le mistificazioni si sprecano, voglio dire che parlo da donna occidentale, cresciuta in una famiglia in cui non c'è mai stata alcuna differenza tra uomini e donne. Una famiglia che mi ha inculcato l'idea che lo studio era la strada per l'autonomia. Sono una persona fortunata. Non ho mai sofferto mancanze di libertà o forme di violenza. In collegio dalle suore ho appreso una disciplina positiva. Sono arrivata in Italia a 24 anni con un contratto con l'università di Palermo, imparando presto cosa vuol dire muoversi da sola nel mondo».

L'accento franco-spagnolo, che le deriva dalle origini pirenaiche, spezia di sensualità la voce di Carmen Llera Moravia, scrittrice, autrice, giornalista, vedova di Alberto Moravia, conosciuto a Sabaudia, in occasione di un'intervista su Luis Buñuel. Il loro legame è durato un decennio, dal 1986 fino alla morte di lui, avvenuta nel settembre 1990, sono stati sposati. Nel maggio scorso, Bompiani ha ripubblicato Diario dell'assenza, il libro più intimo di Carmen Llera. Qualche giorno fa, invece, lei ha scritto a Dagospia una lettera di solidarietà a Barbara Palombelli: «Dire che ha giustificato con le sue parole i femminicidi è falso». Per questa intervista non ha posto condizioni, non ha chiesto riletture, non ha fatto le bizze. 

Pur di difendere Barbara Palombelli è uscita dal suo guscio?

«Non sto in un guscio, chi vive a Roma m' incontra di continuo, anche se non faccio vita mondana. Non frequento i social, non vado in televisione, Barbara è un'amica. Non avevo visto Forum, guardo appena un tg al giorno, anzi due, uno italiano e uno internazionale. Ma avevo letto gli articoli di Michela Murgia e Selvaggia Lucarelli Ho scritto, senza dirglielo, perché ho trovato ingiusto che l'abbiano accusata d'indulgenza verso i femminicidi. La sua vita dimostra quanto sia sensibile nei confronti delle persone che subiscono violenze».

Come sono le sue giornate?

«Fin da piccola ho imparato una certa disciplina. Vado a letto alle 21, non esco a cena, se m' invitano ci vediamo a colazione. Mi alzo alle 5 ed esco alle 6 e mezza. Cammino molto, compro i giornali, leggo, mi occupo della Fondazione Moravia, i miei libri sono l'ultimo pensiero. Ogni pomeriggio, vedo un film rigorosamente al cinema».

Ha detto che conduce una vita frugale come i monaci: dobbiamo crederle?

«Diciamo che sono una persona disciplinata. Ho una casa minimalista, con le poche cose che piacciono a me, e tanti spazi liberi perché sono claustrofobica. Forse posso risultare frugale agli occhi degli altri. Detesto i tavolini all'aperto, con persone che mangiano, bevono e urlano a tutte le ore. Roma non ha più un centimetro libero». 

Ha detto che la ricerca dei piaceri della carne la annoia: dobbiamo credere anche a questo?

«Non ho mai cercato i piaceri della carne. Se succede, succede. Disapprovo le dipendenze, sia dalle persone che dagli oggetti. Non bevo, non fumo, non mi sono mai drogata. Sono un po' rigida nei confronti di chi ha delle dipendenze. Le mie sono dai libri, dal cinema e dall'aria aperta. Poi ho molti amici scrittori, registi, persone comuni». 

Che frequenta in salotti diurni.

«M' invitano specialmente a colazione. Con Enrico Mentana e Luca Barbareschi facciamo lunghe chiacchierate...». 

Cinema, letteratura e niente tv?

«Mi annoia. I talk show non li ho mai guardati, non per questo sono fuori dall'informazione». 

Le serie, parenti strette del cinema?

«Non fanno per me perché sono impaziente. Meglio una storia che inizia e finisce in due ore. Amo il rito del cinema, la sala, il grande schermo, le bustine di Haribo, le caramelle gommose. Per questo i bambini vengono volentieri con me. La tv non mi diverte e preferisco dedicarmi a ciò che lo fa». 

Per esempio?

«Viaggiare, anche se da un anno e mezzo non mi muovo. Prima della pandemia vivevo tra Roma e Parigi, ora no. M' impegna molto e anche mi gratifica la fondazione. Domenica saranno 31 anni che è mancato Alberto: non è facile gestire i diritti e le traduzioni delle sue opere». 

Una persona di buon senso come può immaginare che la Palombelli volesse giustificare i femminicidi?

«Sembra che sui social, che conosco poco, alcune persone vivano in attesa di cogliere qualcuno in fallo, per scagliarsi contro di loro. Poi c'è il conformismo di quelli che si mettono sempre dalla parte giusta». 

Se l'argomento è sensibile bisogna usare parole molto controllate?

«Non c'è comportamento esasperante che giustifichi la morte di qualcuno». 

Come giudica il fatto che gli attacchi più feroci siano arrivati da donne?

«Ringraziamo la solidarietà femminile. Personalmente, non divido il mondo in uomini e donne né in categorie sessuali». 

Si trova in splendida solitudine?

«Per me esistono persone più o meno sensibili e più o meno intelligenti. Moravia diceva: "Mia moglie è molto dura, non è sentimentale". Sì, in Italia vedo molto sentimentalismo. Ma non sono dura, uso la ragione per interpretare la vita. Non mi sono mai trovata in un mondo nel quale essere donna è un handicap. Anche in Sicilia, a Palermo, dove ha avuto inizio la mia vita da adulta, ho trovato gentilezza e dolcezza». 

Dopo la riprovazione della Lucarelli e della Murgia è arrivata quella di Lilli Gruber.

«È vero, ci sono i carnefici e le vittime, come dice lei. Ci sono anche le situazioni tragiche delle donne afghane, del Medio oriente, dello Yemen... Ma una donna occidentale ha gli strumenti per difendersi prima di diventare vittima. Nelle coppie, in famiglia. Se sto con una persona che mi tira i capelli, dopo mezz' ora me ne vado. Si può trovare aiuto in sé stessi e anche da fuori».

Servono più donne in politica?

«Ho declinato più volte l'invito a candidarmi al Parlamento europeo. È un problema mio perché non ho predisposizione per i compromessi e in politica sono necessari. Non è questione di destra o sinistra, voglio essere libera di esprimere quello che penso in ogni momento. Per questo non ho mai preso tessere di partito. Anche le quote rosa Quel segretario non ha messo donne in lista Luoghi comuni. Suggerirei di scegliere persone competenti, prescindendo dal genere». 

Appena si affacciano, Maria Elena Boschi e Giorgia Meloni sono maltrattate.

«Vengono massacrate per l'abbigliamento o perché hanno un chilo di troppo».

Come giudica il fatto che non ci sia ancora la parità nelle professioni?

«Forse non sono la persona più adatta per parlare di questi temi perché sono molto fortunata. Però mi risulta che ci siano anche donne, non solo uomini, che esercitano violenze su altre donne, nelle università, nel mondo dello spettacolo». 

Nella narrazione corrente le donne appaiono immacolate?

«In Francia si dice intouchables. Io non uso nemmeno la parola femminicidio. Certo, le donne sono più fragili. Ma la violenza è tutta da condannare, anche quella sugli uomini o sulle vittime della pedofilia, di cui si parla meno». 

Lei che rapporto ha con le donne?

«Molto complice. La bambina del mio portiere viene al cinema con me. Sono felice amica di Lia Levi che presto compirà 90 anni. Non sono competitiva. Con Dacia Maraini mantengo un eccellente rapporto. Lei è una femminista io no, ma per tutto ciò che riguarda Alberto andiamo totalmente d'accordo». 

Come ha vissuto la stagione del metoo?

«Perché, è finita? Continuo a sentire persone che raccontano di esser state violentate 30 o 40 anni fa. Forse sono una delle poche a cui non è capitato. Non dico molestata: c'è differenza. Alcuni anni fa, tra le rovine di Palmira, scappai da un pastore che m' insidiava. Quella sarebbe stata violenza. Non lo è quando qualcuno che m' invita nella sua stanza d'albergo mi apre la porta in accappatoio. Se entri conosci rischi e pericoli. Sbaglierò, ma le rivelazioni 20 o 30 anni dopo mi convincono poco. Nei rapporti tra adulti, con il regista o il produttore, credo ci sia sempre la possibilità di difendersi e negarsi». 

Per il pensiero mainstream anche il principe azzurro che bacia Biancaneve è un molestatore.

«Stupidaggini». 

Come cambierà la letteratura quando si dovrà sostituire il genere maschile e femminile con l'asterisco?

«La prego, è una forma di conformismo che mi preoccupa molto». 

Dovremo cambiare le tastiere per introdurre i caratteri schwa?

«Io non cambio niente». 

Il femminismo

«Che io non ho vissuto». 

Con la festa delle donne e il tempo delle donne si è trasformato in donnismo?

«Forse ho un animo maschile, ma detesto le mimose e non festeggio l'8 marzo».

Che cosa pensa dell'ideologia gender?

«Non ho certezze. Se avessi un figlio fluido non so come reagirei». 

Fosse in Parlamento voterebbe in favore del ddl Zan?

«Forse sì, ma vorrei documentarmi meglio». 

Ultimo libro letto?

«Blu cobalto di Céline Menghi, una psicanalista lacaniana». 

Ultimo film amato?

«Supernova con Stanley Tucci e Colin Firth, due attori giganteschi che affrontano temi importanti come l'Alzheimer e l'eutanasia, una soluzione che, da persona razionale, mi trova favorevole. Anche Qui rido io di Mario Martone mi è piaciuto».

Il suo rifiuto di social e televisione è critica della contemporaneità?

«Non è una critica, ma disinteresse. Intrattengo rapporti con persone che scelgo io e sono molte, anche all'estero. Non posso avere rapporti veri con il mondo intero». 

Che cosa le ha lasciato il collegio di suore dove ha trascorso l'adolescenza?

«Un senso di ordine che mi è servito a vivere da sola. Penso che la famiglia italiana sia troppo protettiva e non sia un bene rimanere a lungo in casa con i genitori. Ho visto La mala educacion di Pedro Almodóvar e so che ci esistono perversioni e pedofilia. A me non è capitato, per questo dico che sono stata fortunata. Uno dei miei ricordi del collegio è che quando ci passava davanti il Tour de France uscivo in strada a tifare Poulidor, il mio eroe».

Che cosa le manca di più di Alberto Moravia?

«La sua intelligenza, il suo non conformismo e la complicità che c'era tra noi». 

Cosa direbbe del politicamente corretto?

«Non parlo per altri». 

C'è qualcosa o qualcuno che le trasmette speranza?

«Sono totalmente fatalista. Il futuro non so cosa sia. Vivo il presente, senza speranza». 

Ma non si sta bene.

«È così. Ho vissuto e vivo intensamente, ma l'umanità generalizzata e la globalizzazione non mi piacciono. Che devo farci?». 

·        Alberto e Piero Angela.

Silvia Fumarola per "Il Venerdì di Repubblica" l'11 marzo 2021. Alberto Angela non trova parcheggio, avvisa che ha qualche minuto di ritardo. Il perfezionista è umano. Arriva trafelato, dolcevita cammello, giacca di tweed. Modi impeccabili, cordiale ma riservatissimo, il ricercatore prestato alla tv, così ama definirsi, festeggia trent'anni di divulgazione. Da piccolo non catturava le lucertole, sognava gli squali. Anni avventurosi (l'Africa, le sparatorie in Etiopia, il sequestro in Niger, l'incontro con un cannibale, un ippopotamo non proprio amichevole), poi la carriera in Rai. Lo dice subito, a scanso di equivoci: "Non lo avrei mai immaginato, il successo non esiste, esiste il lavoro: sono una persona normale". Non se la può cavare così: i fan club si moltiplicano, c'è chi lo elegge sex symbol e chi, in piena crisi di governo, nei meme lo aveva già immortalato salvatore della patria accanto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il padre, Piero Angela, che lui chiama Piero, ha fatto la storia della tv. Parlando con Alberto, 58 anni, si capisce che è legatissimo alla madre Margherita, signora riservata dai grandi occhi azzurri. "In questo periodo li vedo poco, per il Covid, ma ci sentiamo sempre". Sta lavorando a Ostia Antica per la nuova edizione di Ulisse-Il piacere della scoperta. E nel secondo libro che fa parte della trilogia su Nerone (uscirà a primavera con HarperCollins), si concentra sul grande incendio, le nove giornate che hanno sconvolto Roma.

Trent'anni da divulgatore, che impressione le fa?

"Non avrei mai immaginato di fare questo mestiere e di arrivare a questo punto. Nella vita ho fatto tante cose. Sognavo di fare l'oceanografo, volevo studiare gli squali".

Perché gli squali?

"Non saprei, è un animale preistorico e ha personalità rispetto agli altri che vivono nell'acqua. Il mio mito era Jacques Cousteau, ero attratto dall'esplorazione. Poi a Napoli vedo un ricercatore giapponese chino su un microscopio ottico che guardava le alghe. Ho capito che fare l'oceanografo non voleva dire solo fare immersioni. Da ragazzino disegnavo uomini preistorici e dinosauri, mi sono laureato in Scienze naturali alla Sapienza e ho indirizzato gli studi alla Paleontologia umana. Gli amici andavano a divertirsi, io partivo volontario nelle spedizioni".

Mai pensato di fare il giornalista?

"Mai. Mi considero un ricercatore prestato alla televisione, ho avuto la fortuna di fare gli scavi con i più grandi archeologi, sono andato in Africa, mi ero iscritto a un'associazione che forniva volontari. In Congo ho volato sui vulcani in eruzione, ho convissuto con le formiche legionarie. Ti trovi in luoghi dove l'orologio non ha senso, devi solo stare attento: tutto punge morde o taglia".

Cosa le hanno insegnato quelle spedizioni?

"Lo spirito di gruppo, la psicologia, come sono importanti i dettagli, le battute per smorzare la tensione. Le persone con cui lavori diventano una famiglia, vedevo più loro che i miei".

Più che Cousteau voleva diventare Indiana Jones?

"Esiste il paleontologo da laboratorio e quello da campo, Indiana Jones ha il suo fascino. Devi saper estrarre, imparare a trovare le cose. Io non vedo mai l'insieme ma i dettagli: se cade qualcosa di minuscolo sotto il tavolo, la trovo".

La svolta?

"La definirei la chiamata del destino. Facendo gli scavi trovo un osso, la tempia di un ominide: tutti a festeggiare. Mi offrono il PhD a Berkeley, come fare un gol. Di fronte a un tramonto, era il 1988, seduto su un bidone, comincio a pensare che il mio futuro non può essere lontano dall'Italia. Poi si scopre che si erano sbagliati a analizzare il reperto: l'osso trovato non era di un ominide, apparteneva a un babbuino gigante. C'era stato il gol, ma poi il Var: anche una cosa brutta ti indica la via".

Vuol dire la via per la tv?

"Grazie al centro studi Ligabue comincio a lavorare, scrivo un programma che si chiamava Albatros, roba da pionieri, prendevo le foto dalle enciclopedie. Tv del Canton Ticino, poi Andrea Melodia l'ha comprato e l'ha messo a Telemontecarlo".

Ha avuto dubbi quando ha iniziato a lavorare con suo padre?

"Ma certo, sai che sei visto malissimo. Anche Piero non era convinto. Al primo grande programma sul corpo umano non mi ha voluto. Poi lo convinse proprio Melodia, che era a Rai 1. Devi dimostrare sul campo di essere bravo, un po' come Maldini. Mi sono detto: "È un problema nella testa degli altri. Hai un cognome e adesso ti fai un nome"".

Il segreto del divulgatore?

"Le parole. Non devi seguire uno spartito ma fare una jam session, utilizzare il movimento: io cammino, non mi fermo mai. E parlo".

La popolarità cambia la vita?

"La televisione non mi ha cambiato, cerco di mantenermi normale. Sono come Ulisse che si mette la cera nelle orecchie. Lavoro, studio, il resto è un mondo di plastica. Ma siamo animali sociali, ci pettiniamo la mattina per essere accolti nel gruppo, le dinamiche di gruppo sono fortissime".

Le sue quali sono?

"Non sono mondano, sento la falsità di certe situazioni. Apparire non mi piace, si basa tutto su cosa diranno gli altri di te. Il mio ideale sarebbe fare questo lavoro e avere l'anonimato quando cammino per strada".

Sono nati i fan club, è stato promosso sex symbol: da ragazzo la corteggiavano?

(ride) "Scherza? No, nessuno diceva che ero bello. Nella comunicazione vale l'insieme, l'aspetto fisico non è fondamentale. Conta la lunghezza d'onda che crei, la parola chiave è empatia".

Va bene, ma i complimenti le faranno piacere.

"Non devi cadere nella trappola "ora cavalco l'onda". Molta gente è cambiata. Sì, alcune cose mi fanno piacere, oggi i social amplificano tutto. Nella mia vita, però, più passi indietro che avanti. E silenzio. Parla il lavoro con la mia squadra formidabile".

Come si definirebbe?

"Una persona normale. Se sono sulla Terra non posso pensare di stare sulla Luna, sono nato in una famiglia normale. Mi sento bene così".

Normale e speciale. Dei suoi figli parla poco, li protegge?

"Altri decidono di fare le foto con i figli, io no. I miei genitori sono stati un esempio, l'atmosfera che ho respirato a casa... Preferisco una carbonara alla nouvelle cuisine".

Quanto ha contato sua madre? 

"Potrei dire che sono molto più figlio di mamma. Piero mi ha guidato nel mondo del pensiero, lei in quello dell'arte e dell'armonia. Si sono sposati giovanissimi, si sono trovati a vivere a Parigi, anni difficili. Credo che questo li abbia uniti ancora di più".

Ha detto che suo padre è stato il suo Salgari: lei lo è per i suoi figli?

"Per farli addormentare raccontavo loro le cose che avevo visto. I miei tre ragazzi hanno un'apertura mentale che è un po' il marchio di famiglia. Sono dotati di creatività e distacco, vedono le cose in modo riflessivo, hanno anche loro un approccio alla vita esplorativo. Edoardo studia Nanotecnologie all'Imperial College a Londra, da lui imparo. Riccardo è laureato in Biologia, ha già due master, stesso entusiasmo del sapere. Il piccoletto, Alessandro, ha diciassette anni. Anche lui è pieno di curiosità".

Diamo un po' di merito anche a sua moglie Monica?

"Certo, merito diviso in due".

Che padre è?

"Mai stato severo. Un padre non deve dire le cose, deve comportarsi bene. Fine. Ho sempre applicato questa idea nella vita: "Le persone che sono accanto a te, sei tu"".

La più grande lezione ricevuta?

"Quando un sopravvissuto di Hiroshima e Nagasaki, con la benda nera sull'occhio, il viso pieno di cicatrici, mi ha detto: 'Prendersi carico della sofferenza altrui, questa è la pace'. Poteva odiare il mondo, invece no".

È ottimista?

"Quando guardo i ragazzi sì".

Elvira Serra per il "Corriere della Sera" il 18 marzo 2021.

Dov' era la sera del 18 marzo di quarant' anni fa?

«Eh, be', lo ricordo molto bene... Eravamo andati tutti insieme a vedere il programma a casa di uno degli autori, intrecciando le dita perché era una novità per l' epoca. Però andò molto bene: avevamo fatto 9 milioni di spettatori».

Ed era una seconda serata!

«Sì, prima di noi c'era Dallas. La televisione allora era molto diversa, anche le prime serate con i grandi spettacoli di varietà duravano un' ora. La terza serata cominciava alle 22.30».

"Una galassia di persone refrattarie alla scienza. Ma i virologi siano cauti". Marco Leardi il 4 Dicembre 2021 su Il Giornale. La divulgazione scientifica ai tempi del Covid e i no vax. I paradossi della cancel culture. Ma anche i pensieri sull'aldilà. Piero Angela senza filtri e con tanto da insegnare. La razionalità del divulgatore scientifico non l'abbandona mai. Nemmeno quando è a casa propria, lontano dalle telecamere. Piero Angela pronuncia ogni parola selezionandola con cura, con il tono pacato ma vivace di chi ha molte cose da raccontare. E sa perfettamente come farlo. "Bisogna essere molto precisi, soprattutto quando si parla di argomenti delicati", osserva il popolare giornalista, premurandosi del fatto che le sue affermazioni risultino chiare e non vengano fraintese. Dall'alto dei suoi 93 anni, il decano della divulgazione in tv ha uno sguardo attento su tutto ciò che lo circonda, dall'attualità ai temi sociali più dibattuti. Pure sulla sessualità e sui rapporti di coppia ha voce in capitolo, lui che da oltre 60 anni è sposato con la stessa donna, la sua amata Margherita. Ma la nostra conversazione non poteva che iniziare dall'argomento che più sta impegnando la comunità scientifica.

Ormai tutti dicono la loro sul Covid, ma chi fa divulgazione è sempre stato all'altezza del suo compito?

"Diciamo subito che per avere una certezza su qualsiasi scoperta scientifica, bisogna averla verificata con una serie di controlli. Il pubblico deve capire che un conto sono le cose accertate, sulle quali tutti sono d'accordo, ma quando si chiede di prevedere cosa accadrà per un determinato fenomeno nessuno è in grado di dirlo con sicurezza. Per cui si esprimono delle opinioni, che vanno però divise dai fatti. Quello che si sa, lo si può dimostrare in modo preciso, il resto sono soltanto ipotesi"

In tempi non sospetti, lei aveva anche parlato di "virologi oracoli". In che senso?

"Gli scienziati nei dibattiti sono spesso provocati dalle domande dei giornalisti. Ma bisogna far capire, appunto, che ci sono due livelli diversi: quello delle cose che si conoscono e quello delle cose ancora ignote. Molti scienziati giustamente dicono: 'Questo non lo so, però secondo me…'. Dovrebbe essere sempre così. A volte però capita anche che ci siano opinioni legittimamente diverse, che potranno essere validate o meno da quello che si scoprirà in seguito"

Ma in questo caso non si rischia di generare confusione nel pubblico meno attrezzato?

"Sì, capisco. Ma allora bisognerebbe evitare di chiedere agli esperti la loro opinione"

Cosa pensa di chi ancora oggi si dichiara no-vax?

"Quello è un universo fatto di personaggi diversi tra loro. Ci sono alcuni che semplicemente hanno paura del vaccino e non si lasciano convincere dai risultati scientifici. Questo credo sia il nucleo forte dei no-vax e penso che la loro sia una reazione simile a quella di chi ha paura dell'aereo: è un sentimento che prevale sulle dimostrazioni logiche. Poi ci sono anche persone che si riconoscono nei fenomeni paranormali, e nella mia attività in giro per il mondo ne ho conosciute diverse. Il problema è che questi individui si lasciano convincere specialmente sulla rete, dove circolano messaggi di tutti i tipi. Il trucco è che, sempre, questi messaggi vogliono far credere che ci sia qualcosa di nascosto da svelare. 'Non ve l’avevano detto…'. Infine ci sono persone che si infiltrano nelle manifestazioni solo per portare violenza. In Francia si chiamano casseur, guastatori".

A fronte di questo scenario, secondo lei, occorre l'obbligo vaccinale?

"Più che altro mi chiedo: se qualcuno non vuole essere vaccinato perché ha paura, si va con i carabinieri a imporglielo? Come si fa?"

Si paragona spesso la pandemia, con le conseguenti restrizioni, a una guerra. Lei la guerra l’ha vissuta davvero: si riconosce in questo accostamento?

"Quando si era in guerra le condizioni erano molto più dure. Io ho sofferto una fame che avrei persino mangiato i tavoli. Il coprifuoco era continuo, non si poteva uscire, e poi c'erano le bombe. I soldati erano al fronte, non si poteva ballare. Oggi per la pandemia ci sono delle cose limitate, però la situazione è completamente diversa"

Un altro tema attuale e altrettanto discusso è quello dei cambiamenti climatici. Siamo davvero in una fase di emergenza?

"Il discorso è complesso. Quello che emerge da tutte le conferenze sul tema, a cominciare dall'ultima di Glasgow, è che le cose si predicano ma si fanno solo in parte e molto lentamente. Molti si chiedono se ormai non sia già troppo tardi, perché in realtà non c'è una vera mobilitazione per attuare le cose proposte. La Cina stessa, poi, ha detto che continuerà a usare il carbone. Forse, invece di prevenirli, è ormai il caso di far fronte ai cambiamenti, che sarebbero comunque inevitabili"

Nella storia, quante altre volte il pianeta ha assistito a dei cambiamenti climatici?

"Ci sono stati diversi fenomeni naturali, veri e propri traumi dovuti anche ai vulcani o a ragioni astronomiche. La Terra ha attraversato periodi in cui il 90% delle specie viventi era scomparso. Ma l'uomo in quell'epoca non c'era ancora. L’uomo ha conosciuto glaciazioni molto leggere rispetto ad altre precedenti"

Come giudica il fenomeno della "cancel culture" e dei libri messi al bando in nome del politicamente corretto?

"Nella storia siamo stati tutti dominati e dominatori. A questo punto dovremmo tirare giù tutto, anche le statue degli antichi romani, degli imperatori, di Giulio Cesare… (ride, ndr). Queste cose non credo possano avere una grande estensione"

Si domanda mai cosa ci sarà nell'aldilà?

"Io ci sono vicino: ho 93 anni, quanto mi rimane? Ma ho avuto una vita molto gratificante, va bene così. La scienza però non cerca mai di rispondere a cose delle quali non si sa niente. Scienza e religione sono cose diverse, non bisogna mescolarle. Qui siamo nel campo dei pareri, delle convinzioni personali"

Ma quando si estinguerà il pianeta, possiamo immaginare che fine farà l'uomo?

"No, dipenderà troppo dalle circostanze. Per noi il problema è quello di vivere bene adesso, ma nessuno può prevedere con certezza quel tipo di futuro. Ci sono troppe variabili"

Ha dei rimpianti?

"No, in generale non ho mai lasciato cadere le opportunità che erano alla mia portata e raggiungibili con l'impegno. Le ho colte tutte. Ci sono persone che rinunciano per pigrizia o per mancanza di iniziativa. Ma questo no, io non l'ho mai fatto".

A proposito di opportunità: nei mesi scorsi l'ex aviatrice 83enne Wally Funk è andata in orbita per la prima volta. Se ci fosse l'occasione, lo farebbe anche lei?

"Io ho trascorso un anno negli Stati Uniti per seguire il progetto spaziale Apollo. A uno studioso chiesi se un giorno anche le persone comuni sarebbero potute andare nello spazio; alla sua risposta affermativa domandai se potevo iscrivermi. Già all’epoca mi ero messo in lista d’attesa! Ma era una cosa scherzosa, non succederà mai che mi chiamino. Però mi sarebbe piaciuto"

Intanto, su RaiPlay, si è dedicato a spiegare l’amore e il sesso soprattutto ai giovani. Pensa che ne abbiano bisogno?

"Questo programma aveva lo scopo di raccontare cosa la scienza ha scoperto sui vari aspetti dell'amore, psicologici e biologici. Altri aspetti importanti da affrontare erano il rapporto di coppia, perché oggi le coppie si disfano più facilmente, e come cercare il partner. Molte coppie oggi si sono formate su Internet, che è anche uno strumento per incontri usa e getta. Sono argomenti che riguardano in particolare i giovani"

La sessualità per molti è ancora un tabù. Diciamo che lei ha provato a superarlo…

"Le racconto un episodio spiritoso. Quando ho registrato in studio le 10 puntate, la donna delle pulizie che lavorava nello staff alla fine si è avvicinata a me e ha detto: la prossima volta, invece di andare dal ginecologo, vengo da lei. Aveva seguito tutto il programma"

Lei è sposato da 60 anni. Qual è il segreto di un rapporto così longevo?

"Il rispetto reciproco. Se uno inizia a insultare l'altro, finisce tutto. E poi la comprensione. Gli uomini spesso non ascoltano le donne e parlano in prima persona di sé. Le donne invece hanno bisogno di qualcuno che le ascolti. Quindi ascoltare e rispettare: questa è la formula"

Oggi però qualcuno vorrebbe negare che vi siano differenze strutturali tra uomo e donna. Si parla di fluidità di genere…

"La differenza è dovuta al fatto che la donna può fare figli e l'uomo no. Però la superiorità del maschio, che esiste in tutti i mammiferi e è data anche dal dimorfismo, dalla muscolatura più potente, oggi non ha più un valore. Oggi conta il cervello. Le donne in passato erano in una posizione succube, oggi hanno dimostrato di avere risultati migliori anche negli studi e giustamente ambiscono a entrare in carriera. Ma abbiamo anche un problema, che un po' il mio pallino: ormai non si fanno più figli. Questo è molto grave e porterà a una società completamente squilibrata, con conseguenze sociali ed economiche"

Lei di figli ne ha due. Che rapporto ha con Alberto? Di fatto, è già diventato il suo erede anche in tv…

"È stata una cosa casuale. Lui si era laureato in scienze naturali e non pensava di fare questo mestiere. Ma già da piccolo raccontava le sue cose molto bene, in modo efficace, convincente. Mentre lavorava su altro, la tv svizzera lo chiamò per una rubrica che si chiamava Albatros, che poi fu acquistata anche da Telemontecarlo. Solo successivamente iniziò a lavorare in Rai, sebbene io fossi dubbioso perché sapevo che qualcuno avrebbe parlato di nepotismo. Ma in realtà né lui né io siamo assunti in Rai. Siamo dei collaboratori e il nostro contratto viene rinnovato se i programmi vanno bene. Sennò, arrivederci e grazie"

Ogni tanto gli dà ancora dei consigli?

"Lui è molto bravo, credo che ormai non ne abbia bisogno".

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.

Elvira Serra il 18 marzo 2021 su Il Corriere della Sera. Piero Angela, 92 anni, «nonno», ormai, della divulgazione scientifica in Italia, risponde al telefono con la stessa generosità e gentilezza con cui frequenta le nostre case da quasi 70 anni, prima con il Giornale Radio, poi le corrispondenze da Parigi e Bruxelles, il Tg delle 13.30, i documentari e, nel 1981, la rivoluzione copernicana: 55 minuti di approfondimento scientifico introdotti dall' Aria sulla quarta corda di Bach e un nome che era già una dichiarazione di intento. Quark : la minuscola particella che si trova nel nucleo degli atomi. Con Lorenzo Pinna, Giangi Poli e Marco Visalberghi avrebbe cambiato la televisione per sempre.

Di cosa è più orgoglioso?

«La cosa che mi gratifica di più è avere inciso nella formazione dei ragazzi. Quando ancora giravo per le scuole, in tantissimi mi dicevano: "Sono cresciuto a pane e Quark", "Ho scelto la facoltà scientifica dopo aver letto un suo libro", "Mi sono appassionato alla materia guardando il programma". Con il pubblico si è creato un rapporto speciale».

Seguaci illustri?

«Una volta mi scrisse due righe affettuose un italiano che era a capo di un gruppo di ricerca all' Università di Harvard. "Devo a lei se sono qui"».

Le avevano chiesto di creare il programma o fu una sua idea?

«Lo proposi io e con un po' di scetticismo mi dissero di farlo: temevano che non avrebbe fatto grandi ascolti. Ma io, che da qualche anno facevo documentari, avevo voglia di misurarmi in un progetto di respiro più ampio».

Scenografia essenziale, nessun fronzolo, eppure Quark e i suoi «figli» furono venduti in 40 Paesi.

«Sì, ho ricevuto diverse cassette in cui parlo perfettamente giapponese o arabo! Lì mi aiutò il fatto che avevo registrato le puntate sia in francese che in inglese: alla fine di ogni seguenza, la rifacevo in entrambe le lingue, altrimenti nessuno le avrebbe guardate all' estero».

Imprevisti memorabili?

«Più che imprevisti, difficoltà tecniche: tante. Perché erano cose nuove che ci inventavamo ogni volta».

Mi faccia un esempio.

«Abbiamo fatto sette puntate del Viaggio nel cosmo , dove la scenografia era doppia perché io mi sdoppiavo sempre: da una parte ero in studio e dall' altra ero a bordo di un' astronave immaginaria che si muoveva alla velocità del pensiero e per questo si chiamava Noos , in greco pensiero. Lì il problema era simulare l' assenza di gravità come nelle stazioni spaziali».

E come risolveste?

«Con una serie di trucchi, venuti benissimo! Il segreto era il chroma key , la chiave di colore, grazie a una serie di soprapposizioni. Un altro trucco bellissimo era quando scrivevo con la penna, poi la lasciavo per un attimo, si alzava in aria e la riacchiappavo».

Festeggerà Quark, oggi?

«No, però stiamo già pensando a una nuova serie di Superquark+, che è ancora tutta da registrare: dieci puntate sull' amore, dall' innamoramento alla gelosia al tradimento alla sessualità».

L'amore, visti i tempi che stiamo vivendo, ci salverà? O ci salverà la scienza?

«Diciamo tutte e due. Il nostro problema attuale è quello dell' energia, che fa girare tutto quello che vediamo, ma al tempo stesso avvelena l' atmosfera. L' amore, invece, scende dall' atmosfera e tiene in vita le persone. Mica solo l' innamoramento, anche la solidità dei rapporti».

Da "ilmattino.it" il 18 ottobre 2021. Ospite a Domenica In, Miriam Leone presenta il suo ultimo film e ripercorre le tappe più significative della sua brillante carriera. Tra i racconti, uno in particolare sembra sorprendere i telespettatori, quello del suo innamoramento nei confronti di Piero Angela. Miriam Leone nel salotto di Domenica In rivela il suo amore per il divulgatore scientifico Piero Angela. «Ma è vero che eri innamorata di Piero Angela?», le chiede Mara Venier in studio. «Lo adoravo perchè mi aiutava a conoscere dimezzando il tempo dello studio. A scuola arrivavo sempre più o meno preparata», risponde divertita l'attrice. L'ex Miss Italia racconta a Mara Venier di aver poi incontrato, durante un evento, il divulgatore scientifico e di avergli dichiarato in quell'occasione il suo amore: «Sono andata e gli ho detto di essere innamorata e lui mi ha detto "bene"».

La risposta di Piero Angela: «Sono rimasto molto sorpreso»

Ma a sorprendere Miriam Leone è poi un videomessaggio proiettato in studio inviato dallo stesso Angela: «Sono rimasto molto sorpreso e lusingato dal sapere che sia interessata me» dice Angela, che aggiunge: «Io ho compiuto 66 anni di matrimonio ma so che anche Miriam si è sposata da poco e quindi gli auguro 66 anni di matrimonio felice». L'attrice, a Domenica In per presentare il suo ultimo film "Marilyn ha gli occhi neri" con Stefano Accorsi, ha sposato Paolo Carullo, musicista e imprenditore, lo scorso 18 settembre a Scicli, nel Santuario di Santa Maria La Nova dopo circa due anni di fidanzamento.

·        Alessandro Barbero.

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 22 ottobre 2021. Il noto storico e divulgatore francese Michel Platini ebbe a sostenere una volta che persino Einstein, intervistato tutti i giorni, avrebbe finito col dire una cretinata. Il professor Barbero non sarà Einstein, ma resta uno dei miei idoli, non foss'altro perché le sue lezioni sulla zarina di tutte le Russie mi hanno accompagnato in cuffia durante i tentativi fallimentari di perdere peso con la cyclette. Per questo ci sono rimasto male nel leggere sulla Stampa la sua esternazione a proposito di presunte «differenze strutturali tra uomo e donna» che renderebbero quest'ultima «meno aggressiva, spavalda e sicura di sé». Mi sono chiesto: perché un uomo tanto sicuro di sé, dopo l'intemerata sui vaccini, ha sentito il bisogno aggressivo di uscirsene con un'altra spavalderia? Nel suo mondo fitto di differenze strutturali non esisterà qualcuno, uomo o donna che sia, in grado di attenuarne la smania dichiaratoria suggerendogli nell'amato dialetto piemontese: «Prof, pìsa pi curt»? (Traduzione per i non sabaudi: Professore, accorci il raggio della sua minzione). Non pensa, Barbero, che il titolare di una cattedra universitaria farebbe meglio a non frequentare il Bar Sport della battuta a tema libero, dove nell'ultimo anno è andato a infrangersi il prestigio di tanti scienziati, e che da domani una sua studentessa potrebbe giustificare la scena muta all'esame affermando di sentirsi strutturalmente insicura? Forse ci ha pensato, ma è talmente uomo che proprio non riesce a tenere a freno la sua spavalderia.

Luigi Mascheroni per "il Giornale" il 22 ottobre 2021. Dura, durissima la vita dell'intellettuale. Basta un niente e da maître à penser precipiti alla categoria, senza appello, di «cretino». Guarda cosa è successo a Massimo Cacciari, uno che peraltro legge Heidegger in lingua, o a Giorgio Agamben... Hanno dubbi sul Green pass? Anche un Gramellini qualsiasi o una studentessa fuori corso può irriderli. Del resto basta pensare al caso Carlo Freccero. Per trent'anni ci hanno detto che era un genio, un guru, il migliore di tutti, mago assoluto della comunicazione, il filosofo della televisione, uno dal quale si può solo imparare quando parla di giornalismo. Poi è bastato manifestasse una perplessità su come è stata gestita l'informazione sul Covid, ed è diventato un cialtrone, un vecchio rimbambito da invitare nei talk show nella parte dello zio scemo. E ora tocca ad Alessandro Barbero, fino a ieri il più grande comunicatore - sbarra - divulgatore del Paese, il «prof» che tutti gli studenti vorrebbero avere, il nipote intelligente di Piero Angela, un campione della scuola, salvatore dei nostri figli che studiano sui suoi podcast. Poi ha inopinatamente ventilato un leggerissimo dubbio sull'imposizione del Green pass in Università, ed è scivolato dall'Empireo degli intellettuali al Purgatorio: «Vade retro, Barbero!», «Ma cosa sta dicendo!?». «Scandalo!». «Una persona così a modo...». «Da lui non ce lo saremmo mai aspettato». «Si è rimbecillito!». «Peggio: è diventato di destra...». Neanche il tempo di tornare da trionfatore dal Salone del Libro di Torino, seguitissimo e applauditissimo dal pubblico, ed è precipitato all'Inferno. Ieri, sulla Stampa, ha rilasciato un'intervista in cui, provando a spiegare il perché le donne restano più indietro degli uomini nella corsa al potere e nel fare carriera, si domandava se non fosse possibile che, in media, «le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?». «Vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest' ultima più difficile avere successo in certi campi». Oh my God! Non serve leggere tutto l'articolo, è sufficiente un post sui social con la frase incriminata per scatenare l'indignazione digitale e le peggiori accuse di sessismo. Conseguenze: linciaggio mediatico (!), richiesta di pubbliche scuse (!!), ingiunzione alla Rai di sospendere immediatamente ogni collaborazione con il colpevole (!!!). Peccato. Era il migliore, l'intellettuale più amato dall'intellighenzia, un modello di democrazia e progressismo. Poi ha buttato lì due opinioni, ma di quelle fuori dal mainstream, che non piacciono soprattutto a Sinistra - area peraltro dove il fascismo culturale abbonda - ed eccolo lì, il «prof» Barbero. Cacciato nell'angolo dei ripetenti. Che vergogna (e non sappiamo se più per lui o per gli altri).

Mirella Serri per “La Stampa” il 22 ottobre 2021. L'economista Achille Loria sosteneva che le donne non in grado di eccellere nelle arti o professioni - ad esempio non geniali coi pennelli o nell'anamnesi medica - era meglio si dedicassero solo a fare le mogli. Gramsci coniò la riprovevole categoria di «lorianesimo»: vi rientravano gli intellettuali che davano voce alle pulsioni «più irrazionali del Paese». Oggi lo storico Alessandro Barbero merita l'appellativo di nipotino di Loria. Su La Stampa di ieri ha pontificato a proposito di donne «lontane da un'effettiva parità in campo professionale». E si è chiesto se non vi «siano differenze strutturali fra uomo e donna». Con analoghi presupposti il Duce ha schiacciato le donne sotto il tacco dei suoi stivali e ha loro impedito di accedere a molte professioni. Per Lui erano gli «orinatoi» degli uomini. Come Loria, Barbero sposa le «posizioni più irrazionali» e parla alla pancia del Paese. 

Barbero e le donne, perché stupirsi della gaffe? L'ultima uscita di Alessandro Barbero sulle donne che faticano a trovare il giusto spazio nel mondo del lavoro a causa di «differenze strutturali» con gli uomini sembrano uscite da un rotocalco paternalista degli anni 50. Ma la domanda è: perché chiedergli opinioni su temi di cui non ha competenza? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 ottobre 2021. Diciamocelo chiaramente: le parole di Alessandro Barbero sulle donne che faticano a trovare il giusto spazio nel mondo del lavoro a causa di «differenze strutturali» con gli uomini, ovvero per quella «mancanza di aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi» sembrano uscite da un rotocalco paternalista degli anni 50 o da una freddura della Settimana Enigmistica, considerazioni non proprio all’altezza di un uomo colto e spiritoso come il professore torinese. Un divulgatore dal grande talento (e narcisismo) che molto spesso si esprime su temi di attualità come il ad esempio il green pass su cui ha espresso una posizione molto critica. L’intervista rilasciata alla Stampa ha generato la prevedibile cagnara di insulti e ma anche molto stupore tra i fan di Barbero, disorientati e avviliti dalla sua infelice uscita. Poi però uno si chiede perché mai un brillante docente di storia medievale (non il ministro delle pari opportunità), dovrebbe illuminarci sui problemi della società contemporanea, perché chiedergli opinioni su temi di cui non ha gran competenza? È un po’ come domandare a Cristiano Ronaldo pareri sulla crisi in Yemen o a Dacia Maraini una scheda tecnica sul campionato di calcio turco. E poi sorprendersi della risposta. In questo caso il parere di Barbero vale come quello di chiunque altro, dimostrandoci che anche le persone molto intelligenti sanno dire cose molto stupide.

Silvia Francia per "La Stampa" il 21 ottobre 2021. Il potere declinato al femminile. Nella storia i casi sono rari ma, forse anche per questo, eclatanti. Su queste significative «emergenze» - che affiorano da un canone tutto al maschile - si concentra Alessandro Barbero per la nuova serie delle sue lezioni al grattacielo Intesa Sanpaolo di Torino. «Donne nella storia: il coraggio di rompere le regole» è il titolo delle tre lezioni, centrate su tre figure emblematiche, ciascuna a suo modo detentrice di potere o, comunque, carismatica e influente come madre Teresa di Calcutta, protagonista della seconda tappa di un percorso che si inaugura (oggi alle 18) con Caterina «la grande» di Russia e si chiude con Nilde Iotti.

Caterina, invece, chi era?

«È un caso eccezionale che coniuga ambizione e capacità di affermarsi. Era una principessa prussiana di 15 anni quando partì per la Russia per sposare lo zar e riuscì a detenere il potere per una trentina d'anni, con un governo da autocrate, pur dichiarandosi repubblicana ed essendo amatissima dagli Illuministi». 

Barbero, arrivando a oggi, come mai, secondo lei, le donne faticano tanto non solo ad arrivare al potere, ma anche ad avere pari retribuzione o fare carriera?

«Premesso che io sono uno storico e quindi il mio compito è quello di indagare il passato e non presente o futuro, posso rispondere da cittadino che si interroga sul tema. Di fronte all'enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant'anni, viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via citando, ma a livello generale, siamo lontani da un'effettiva parità in campo professionale.

Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest'ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. 

Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi. E c'è chi dice: "Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore". Ecco, secondo me, proprio per questa diversità fra i due generi».

Non pensa che un mondo storicamente dominato dai maschi - con le caratteristiche di cui lei parla - opponga resistenza all'ascesa delle donne e tenda ancora a escluderle dai ruoli di comando, a ostacolarle in modo più o meno esplicito?

«Se così è, allora è solo questione di tempo. Basterà allevare ancora qualche generazione di giovani consapevoli e la situazione cambierà».

A proposito di «cose impopolari», sulla questione Green Pass, lei si è espresso - a sfavore - e si attirato non poche critiche. Ha cambiato idea?

«Le critiche ho evitato di leggerle e di ascoltarle. A volte qualcuno mi riferisce cosa è stato detto, ma direi che non mi turbano. In merito alla questione, resto della mia idea, ovvero che non mi piace l'obbligo di Green Pass per accedere ai mezzi pubblici o, peggio, per poter lavorare e ancor meno mi piace che i datori di lavoro debbano diventare controllori.

Ciò detto, io mi sono vaccinato, sia pure con qualche timore, e il Pass ce l'ho. Trovo che sia molto pericoloso questa idea che esistano due fazioni schierate su fronti opposti, una contro l'altra armata. La realtà è più complessa. Io stesso, su certi temi mi trovo d'accordo con il governo e altre con l'opposizione».

Si parlava di destra e sinistra, come vede l'esito del voto a Torino?

«Mi ha molto stupito, ero straconvinto che avrebbe vinto Damilano. Per quanto mi riguarda, ho sostenuto Angelo d'Orsi perché rappresentava l'autentica candidatura della sinistra. Gli altri sono entrambi dei moderati».

Alessandro Chetta per corriere.it il 6 settembre 2021. Centinaia di docenti universitari contro il Green pass. L’appello è stato divulgato lo scorso venerdì e firmato da non pochi professori, vaccinati e non, per dire «No al Green pass». Tra questi anche lo storico torinese, noto divulgatore televisivo, Alessandro Barbero, che insegna all’Università del Piemonte orientale a Vercelli. 

Al convegno Fiom. Il 4 settembre, in un convegno Fiom-Cgil organizzato a Firenze, Barbero si era espresso così in merito al provvedimento di governo: «Un conto è dire “Signori abbiamo deciso che il vaccino è obbligatorio perché è necessario e di conseguenza adesso introduciamo l’obbligo”, io non avrei niente da dire su questo. Un altro conto è però dire ‘no, non c’è nessun obbligo, per carità...semplicemente non puoi più vivere, non puoi più prendere treni, non puoi più andare all’università. Però - sottolinea con ironia - non c’è l’obbligo nel modo più assoluto...e il green pass serve per questo, non per indurre la gente a vaccinarsi col sotterfugio...’». E poi conclude: “Credo che Dante il girone degli ipocriti avrebbe trovato modo di riempirlo fino a farlo traboccare, scegliendo tra i nostri politici di oggi». 

Le firme online. Nell’arco delle ultime ore si è più che raddoppiato il numero dei sottoscrittori della petizione online raggiungendo quasi la soglia delle 300 adesioni, che proseguono e sono visibili sul sito dei docenti critici sull’obbligo di presentare il certificato verde.

Il ministro. «Bisogna pensare agli altri in questo momento e non a se stessi - commenta il ministro dell’Università e della Ricerca, Maria Cristina Messa, a Radio 24 - Esiste una libertà collettiva che ha prevalenza e il mondo dell’università è quello dove la dialettica è forse al suo massimo. Gli studiosi sono persone, hanno le loro opinioni e convinzioni: io li ascolto assolutamente perché credo serva sempre ascoltare, ma poi bisogna tenere ferma la barra e andare avanti».

I promotori. «L’appello - spiegano i promotori - intende ribadire il ruolo inclusivo dell’università, sottolineare quanto il green pass rappresenti uno strumento discriminatorio, dai complessi contorni applicativi e un pericoloso precedente di penalizzazione per studenti, docenti e personale tecnico-amministrativo. L’auspicio - concludono - è che tanti altri colleghi continuino a sottoscrivere l’appello per garantire il più ampio dibattito nell’accademia e per dire no a ogni tipo di discriminazione». 

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" l'8 settembre 2021.  

Professore (Alessandro Barbero nda) , facciamo chiarezza?

«A me sembra che l’appello che ho firmato sia chiaro». 

Parliamo dell’appello sottoscritto da centinaia di docenti universitari per dire no al green pass obbligatorio negli atenei. Ma la sua scelta ha acceso polemiche durissime.

«Qualcuno mi presenta come una specie di superstizioso fanatico contrario ai vaccini. Ma nell’appello che ho firmato non si parla affatto dell’utilità dei vaccini, anzi si dice chiaramente che molti dei firmatari sono vaccinati, me compreso. Il problema che mi preoccupa è l’obbligo del green pass per gli studenti che dopo aver pagato fior di tasse universitarie sono esclusi dalle lezioni se non hanno il certificato. Anche se in verità una preoccupazione più generale nel manifesto c’è, posso dirla?».

Prego.

«C’è nel testo un accenno anche al mondo del lavoro in generale: non si tratta di essere indifferenti alla sicurezza di chi lavora, ma ci sono misure umilianti di cui è impossibile vedere l’utilità: penso a quegli operai o poliziotti che non possono mangiare in mensa seduti accanto ai colleghi, con i quali, però, hanno lavorato fianco a fianco fino a un minuto prima». 

Che cosa temono i firmatari?

«La frase più importante dell’appello è la prima: siamo preoccupati perché la disposizione vigente “estende, di fatto, l’obbligo di vaccinazione in forma surrettizia per accedere anche ai diritti fondamentali allo studio e al lavoro, senza che vi sia la piena assunzione di responsabilità da parte del decisore politico”». 

È questo il punto, professore?

«Ma certo. Il governo ritiene di poter togliere alla gente diritti fondamentali, neppure civili o politici, ma umani, come quello di accedere a un ospedale o a una lezione universitaria, e considera la cosa irrilevante, tanto da non far sentire una parola per dire almeno che è preoccupato e dispiaciuto di doverlo fare, e senza prendersi la responsabilità di rendere obbligatorio per legge il vaccino, misura con cui io, sia pure non senza dubbi, alla fine sarei d’accordo».

Carenza di dibattito serio?

«Vivere in un Paese in cui non si può salire su un treno o entrare in un ufficio pubblico o andare all’università se non si possiede un pezzo di carta che però — per carità! — non è assolutamente obbligatorio, è surreale e inquietante. Chi si preoccupa di questa violazione dei diritti magari esagera, e io sarei ben contento di discutere con chi pensa che nella situazione che stiamo vivendo si tratti di preoccupazioni troppo astratte. Invece tutto questo avviene senza un dibattito pubblico equilibrato, e in mezzo alla canea degli insulti da una parte e dall’altra, e questo è addirittura terrificante». 

La sua resta una posizione forte.

«Io sono un professore universitario e i miei datori di lavoro sono i miei studenti. Se io vedo che fra i miei studenti c’è preoccupazione e indignazione per l’obbligo del green pass per entrare all’università, io ho il dovere morale di esprimere la mia posizione. Tanti colleghi hanno una posizione diversa, compreso il rettore della mia Università, e fanno bene a esprimerla pubblicamente: l’Università è appunto il posto in cui si cerca la verità senza pretendere di averla già in tasca, e si affrontano i dubbi, anziché tacitarli».

Quanti insulti ha ricevuto?

«Pochissimi. Lettere di gente che si dice delusa e non capisce, parecchie. E tante di persone che mi ringraziano, e non di barbari superstiziosi, ma di persone di tutti i generi, compresi colleghi specialisti di Medicina e di Giurisprudenza».

Quanto è ampio il fronte delle Università contro il green pass. Sara Dellabella su L'Espresso il 7 settembre 2021. L’appello firmato dal professore Alessandro Barbero e dagli altri studiosi è solo una delle tante forme di protesta. Che si alimentano anche con gruppi di studenti organizzati in Rete, movimenti no vax, complottisti e avvocati che fiutano l’affare. E non solo. Mentre il Green Pass diventa legge dello Stato, monta la protesta degli Studenti no vax contro quella che definiscono una politica discriminatoria che tende ad escludere dalla vita pubblica chi non è in grado di esibire il certificato vaccinale. Gli universitari raccolti in numerosi gruppi Telegram, da settimane sono sul piede di guerra e hanno messo in campo diverse iniziative, finite presto nel dimenticatoio. L'ultima riguarda l'appello contro l'obbligo di Green Pass sottoscritto da 400 studiosi, ricercatori e dal professore Alessandro Barbero, docente e volto della storia raccontata in tv, che definisce il certificato verde un “sotterfugio” per costringere gli studenti alla vaccinazione. Ma uno degli accademici che più si sta spendendo è Paolo Gibilisco, matematico di Tor Vergata, che rifiuta la definizione di no vax, ma assume quella di “dubbioso”. Per comunicare sceglie Twitter, dove è seguito da 10 mila persone. Ma da nord a sud, le iniziative si moltiplicano di ora in ora. Lettere ai Rettori, appelli, diffide legali, manifestazioni in piazza e fuori gli Atenei. Una parte di studenti, seppure minoritaria, rigetta la logica che senza green pass si venga esclusi dalla vita universitaria, fatta di esami, ma anche di laboratori e lezioni in aula. Tra i contestatori ci sono i no vax convinti, ma anche chi ne fa una questione di diritto. «Se non esiste un obbligo vaccinale, non possono esserci limitazioni al mio partecipare alla vita pubblica e nel caso dell'Università. Se pago le tasse perché non ho gli stessi diritti di un vaccinato?» racconta Marco, studente di Giurisprudenza de La Sapienza. Ma nelle chat Telegram, sono molti quelli che credono che il Covid non sia altro che un complotto mondiale. Graziella scrive: «Sento parlare di un piano del transumanesimo da almeno 30 anni, ci vogliono trasformare in robottini e non mi vaccinerò». Le fa eco Kris: «Lo scopo del vaccino è avere il controllo su tutti gli esseri umani, creando una classe privilegiata di potenti e una massa senza diritti, se non elargiti su concessione». Poi nel gruppo “Sapienza contro il green pass” c'è Marco che insieme al fratello Andrea ha depositato presso la questura di Mesagne (Brindisi) una querela nei confronti del Presidente della Repubblica chiedendo alle autorità di verificare l'intervento all'Università di Pavia, in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico. Sotto accusa è finita la dura presa di posizione di Mattarella contro chi: «Invoca la libertà per non vaccinarsi, perché quell'invocazione corrisponde a mettere a rischio la salute altrui e in qualche caso la vita altrui» e poi riferendosi ai no vax, il Presidente ha condannato le espressioni di violenza e minacce che affiorano in questo periodo contro medici, scienziati e giornalisti, che «sono fenomeni allarmanti e gravi. Vanno contrastati con fermezza e sanzionati con doveroso rigore». I due fratelli pugliesi sono diventati degli esempi e molti si dicono pronti a presentare denunce simili contro il capo dello Stato e il presidente del Consiglio Mario Draghi. Nelle settimane scorse altre querele sono partite all'indirizzo di Roberto Burioni e il presidente dell'Ordine dei Medici, tutti accusati di alimentare un clima d'odio verso i no vax. Con l'obbligo di Green Pass scattato il primo settembre, il prossimo rischia di diventare un autunno caldo per quella fronda resistente al siero vaccinale. Dopo un anno e mezzo di pandemia, che ha tenuto tutti lontani dalle aule, c'è voglia di tornare negli atenei, ma non a qualunque prezzo. È quello che emerge da ogni iniziativa che sta nascendo in giro per l'Italia. A Bergamo, la città che ha pagato il prezzo più caro al Covid, il Rettore ha ricevuto una lunghissima lettera anonima che inizia così: “Non ci qualifichiamo, non ci quantifichiamo. Potremmo essere 10, 100, 1000, 10.000. Ma anche se fossimo solo in due, dovrete fare i conti con la nostra presenza” e che prosegue “Esattamente novant’anni fa, nel 1931, venne imposto a tutti i professori universitari l'obbligo di giurare fedeltà al regime fascista, pena la destituzione dalla cattedra di cui erano titolari. Come ben sappiamo, solo 12 professori su 1.225 rifiutarono. Oggi il personale docente e non docente presente negli istituti universitari italiani ammonta a circa 125.600 persone: quanti di questi si rassegneranno ad accettare l'inaccettabile?”. Questo è uno dei passaggi più contestati della lettera, fulcro di tutte le teorie no vax che vedono dietro alla vaccinazione di massa l'imposizione di un nuovo ordine mondiale. Un complotto per annichilire la popolazione mondiale a una nuova dittatura, quella sanitaria. Ovviamente dalla lettera anonima, la Consulta degli Studenti ha preso immediatamente le distanze. Ma sono molte le iniziative in giro. Il gruppo “Studenti contro il Green Pass – Venezia” ha inviato una diffida a tutti i rettorati delle Università veneziane affinché sia garantito il libero esercizio del diritto allo studio: dalla frequentazione delle lezioni alla possibilità di usufruire della biblioteca. A dare supporto legale a tutti è l'avvocato Alessandro Fusillo, attivissimo nel sostegno alle ragioni del mondo no vax e no green pass. Sul suo sito è possibile scaricare una bozza di diffida ad adempiere (articolo 1454 del codice civile) che poggia sul presupposto legislativo che di fronte ad una regolare iscrizione all'università, vedersi impedito l'accesso, rappresenterebbe una violazione contrattuale e quindi le Università potrebbero essere chiamate a risarcire il danno. Sempre sul sito del legale è possibile partecipare ad azioni collettive dietro versamento di 100 euro sul conto corrente bancario belga del legale. E così via, da nord a sud, gli studenti promettono di non lasciare intentato nulla per vedersi garantito il diritto allo studio e rivendicare la libertà di scelta e autodeterminazione. Certo è che tra ragioni giuridiche e svarioni complottisti, la fronda “no green” si dà appuntamento, come sempre da due mesi a questa parte, sabato pomeriggio nelle piazze italiane contro il sistema, il transumanesimo, la dittatura sanitaria e per rivendicare il diritto di essere liberi contro un virus che ha ucciso più di 4,5 milioni di persone in tutto il mondo, di cui 129 mila solo in Italia.

Da “la Repubblica” l'8 settembre 2021. Caro Merlo, mi ha lasciato molto perplesso la firma del professor Alessandro Barbero all'appello, firmato da altri 400 professori, che definisce discriminatorio e anticostituzionale il Green Pass per studenti e docenti universitari. Lo stimo e, da convinto Sì Vax e Sì Green Pass, mi chiedo cosa lo abbia spinto. Anche perché, bando alle ipocrisie, è chiaro che non siamo più di fronte a una discussione tra pareri diversi. Ma a un confronto tra pareri ragionati, che tengono conto di dati scientifici, e pareri che si basano su paure, sensazioni o peggio strumentalizzazioni. Resta il tarlo di questa firma che non sono in grado di spiegare, se non con le debolezze e le incoerenze della natura umana. Tiziano Peres - Verona 

Risposta di Francesco Merlo

Anche Barbero, dopo Cacciari, Agamben e Vattimo, nobili intellettuali della Vieux Gauche, dà dignità e dunque - malgrado lui, malgrado loro - legittimità a una battaglia che in piazza degenera nella fascisteria della Nouvelle Droite. Non scomoderei Leopardi e la Natura per un'inadeguatezza travestita da impertinenza. E non c'entrano nulla Laocoonte, Spartaco, la Rivoluzione francese, l'illuminismo, Cromwell e Lincoln con una banalissima patente di vaccinazione in piena epidemia. Quando in banca chiedono un documento di identità, nessuno si appella a Rousseau e a Voltaire. Tra le malinconie d'epoca si segnala, in modo forte e serio, la fine della grande illusione italiana del professore di politica, dell'intellettuale addestratore di statisti, dei grandi accademici architetti del pensiero e sacerdoti della libertà.

Lodovico Poletto per "la Stampa" il 17 settembre 2021. La bordata era scontata. Lui, che aveva firmato l'appello dei 600 docenti contro il Green Pass. Che aveva definito «ipocrita» l'idea dell'obbligatorietà. Lui, comunicatore da migliaia di followers sul web, docente di Storia medievale all'università del Piemonte Orientale, Alessandro Barbero, diventato suo malgrado (e per via di quella firma) bandiera di un mondo nel quale non si identifica per nulla, nel giorno in cui il governo rende il certificato verde obbligatorio per tutti i lavoratori, punta dritto sulla sinistra. Rea di aver consegnato - con il provvedimento varato ieri dal Consiglio dei ministri - «il controllo dei dipendenti al datore di lavoro». Lo dice un attimo prima dell'appuntamento elettorale di un altro monumento del mondo accademico non soltanto piemontese, Angelo D'Orsi, storico come Barbero, candidato sindaco a Torino per la colazione a sinistra del Pd e che raggruppa Potere al Popolo, Partito Comunista Italiano e Sinistra in Comune. Prima Barbero puntualizza: «Non voglio più dare interviste sul Green Pass». Ma poi si ferma, parla e risponde a tutte le domande che gli vengono fatte.

Professor Barbero, allora che cosa ne pensa delle decisioni del governo?

«Che non è assolutamente quello che mi sarei aspettato che venisse approvato quest' oggi».

Ma era nell'aria. Perché tanto stupito?

«Perché devo dire che da sinistra l'idea di affidare alle aziende un compito di controllo dei loro lavoratori è una cosa rischiosa. Che va contro tutta una tradizione che la sinistra ha cercato di evitare. E cioè che gli imprenditori avessero troppo potere di controllo su quello che fanno i loro dipendenti. Quindi, personalmente, questa cosa mi preoccupa un po'. E non è certamente quello che avrei voluto».

Avrebbe voluto l'obbligatorietà del vaccino?

«Era un provvedimento più coraggioso. E giusto».

Ma non sono la stessa cosa Green Pass o vaccino obbligatorio?

«Beh, la risposta datevela da soli. Mi sembra chiaro come stanno le cose».

Però, qui, oggi, qualcuno ha detto che sono la stessa cosa: non è d'accordo?

«Non voglio più fare interviste su questo tema: ho detto molto chiaramente quel poco che penso. Sono cose sofferte e piene di dubbi». 

Ancora una domanda: c'è una resa della sinistra?

«Si stanno facendo delle cose che è legittimo che la sinistra consideri con qualche preoccupazione. E sulle quali si dovrebbero chiedere chiarimenti».

Preoccupato?

«Viviamo in un'epoca in cui ci preoccupiamo del fatto che i governi possano esigere una sorta di fedeltà da parte dei cittadini senza assumersi fino in fondo le loro responsabilità» 

Si aspettava una reazione così forte alle cose che ha detto sul green pass?

«Non me lo aspettavo. E questo dimostra quanto poco conosco l'epoca in cui stiamo vivendo».

Però da intellettuale ha sollecitato una riflessione e aperto un dibattito. Non è vero?

«Gli intellettuali sono quelli che provano a metter in fila i pensieri, a dare una collocazione logica agli stessi. Poi, però, capita come con Cacciari, che dice una cosa particolare e apriti cielo».

Professore lei ha detto recentemente che la classe politica di oggi trabocca di ipocriti. Sempre della stessa idea?

«Ogni epoca si ha un po' quel tipo di percezione. Mi colpisce che questa classe politica non si assuma responsabilità».

È sempre di sinistra?

«No ho mai nascosto di esserlo. Anzi, sono molto di sinistra».

Salviamo il soldato Barbero dalle purghe e la pubblica gogna. Dopo la gaffe del professore sulle donne, Michele Anzaldi, onorevole di Italia Viva, segretario della Commissione di Vigilanza Rai, arriva a chiedere l'interruzione di «tutte le collaborazioni presenti e future con il professor Barbero». Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 22 ottobre 2021. Va bene, definendo le donne strutturalmente «meno spavalde e sicure di sé degli uomini», Alessandro Barbero ha detto una sciocchezza d’altri tempi. A 24 ore di distanza dall’intervista incriminata su La Stampa è probabile che lui stesso si sia accorto della gaffe e pentito di aver pronunciato quelle parole. Le regole della comunicazione sono diverse da quelle della divulgazione e del racconto storico, e Barbero sta imparando a sue spese quanto sia pericoloso uscire dalla propria confort zone. Si rischia, come è effettivamente successo, di perdere il controllo del discorso e di finire in pasto ai branchi di lupi affamati che scorrazzano sul web. Con l’automatismo del cane di Pavlov schiere di ex ammiratori sono ora costretti a riposizionarsi e, con la tipica rabbia degli amanti traditi, stanno ricoprendo di insulti e contumelie il povero professore; alcuni annunciano anche il boicottaggio. «Misogino», «maschilista», «sessista», «una grande delusione», «non seguirò mai più c’è poi un suo corso», «con me ha chiuso». La senatrice Monica Cirrinà, femminista con tutte tranne che con la sua cameriera, mette in guardia: «Sono parole molto pericolose», mentre sul Fatto Quotidiano, sempre sul pezzo, sempre all’avanguardia quando si tratta di spargere guano, viene addirittura accusato di volerci «propinare un medioevo 2.0». In questa sguaiata gogna pubblica c’è poi chi riesce a distinguersi per meschinità e sciacallaggio. Stiamo parlando di Michele Anzaldi, onorevole di Italia Viva, segretario della Commissione di Vigilanza Rai, il quale ha chiesto alla presidente Marinella Soldi di interrompere «tutte le collaborazioni presenti e future con il professor Barbero». Pura follia. E non è detto che il Cda non gli dia ragione.

Alessandro Barbero è un intellettuale. E chi non ne tiene conto è in malafede. Luca Bottura su L'Espresso il 14 settembre 2021. Sui social intellettuali e accademici sono inseguiti dalle bugie infamanti solo perché non si piegano alla vulgata maldestra di chi per sovrammercato è politicamente irrilevante. Il vostro scriba non è un intellettuale. Pigia i tasti in un italiano forse plausibile, talvolta con presunta sagacia, più spesso in modo goffo, ma non ha studiato abbastanza. O forse è questione di hardware, va’ a sapere. In ogni caso, si applica a questioni semplici con argomentazioni semplici. Ad esempio, sul Green Pass, si contenta. Ossia: sarebbe a favore dell’obbligo vaccinale, certo. E sa bene che il codice Qr è un apostrofo verde tra le parole “con la Lega al Governo” e “non si poteva”. Però si occupa, come viene, anche di comunicazione. E sa bene che l’obbligo (sacrosanto, necessario, coperto dalla Costituzione in modo esemplare) avrebbe portato i soliti liberali alle vongole a strillare contro lo Stato di Polizia. Dunque, che il Signore o un suo superiore, tipo il generale Figliuolo, protegga e diffonda il Green Pass. Alessandro Barbero, il professor Alessandro Barbero, la rockstar della divulgazione Alessandro Barbero, è invece un intellettuale. Colto. Profondo. Sfaccettato. Perciò in grado di approcciare il tema da una posizione laterale eppure diretta. Dice, Barbero, che il Green Pass è ipocrita e che avrebbe voluto l’obbligo. Per questo ne contesta la diffusione negli atenei. Mai creduto alla sciocchezza (apocrifa) di Voltaire secondo cui si dovrebbe dare la vita perché un altro esprima la sua opinione, e non la darei neppure per quella di Barbero. Che non condivido. Ma lui gioca un altro campionato. E tarare le sue opinioni su quelle di chiunque, ad esempio il sottoscritto, sarebbe sbagliato. A meno che non si sia in malafede. A meno che non si voglia punire Barbero, l’amato Barbero, l’ecumenico (fin lì) Barbero, perché nei giorni precedenti aveva appoggiato, e non poteva essere altrimenti, la posizione del professor Tomaso Montanari sulle foibe: una corretta contestualizzazione storica - prima c’era stato il protettorato di Lubiana, dove i fascisti avevano usato i civili come piattelli - che non negava il dramma cagionato dai comunisti titini ma mirava a restituirgli una prospettiva storica. Solo che Montanari è un nemico della polizia politica che agisce sui social, ma ormai anche nei giornali, e la squadretta di lotta e sottogoverno gliel’ha fatta pagare in tutti i luoghi e in tutti i laghi appiccicandogli l’etichetta del revisionista. Sul tema, il revisionismo vero è quello di chi insiste con la favola degli “italiani brava gente”. Ma, soprattutto, la vicenda era stata sventolata in modo del tutto strumentale, a freddo, per far scontare allo stesso Montanari la sua ostilità a certe nomine pubbliche che non condivideva. A questo siamo: il dissenso annichilito, le vendette mafiose per interposto tweet, intellettuali e accademici inseguiti dalle bugie infamanti solo perché non si piegano alla vulgata maldestra di chi per sovrammercato è politicamente irrilevante. Ma mena. Sarebbe ora che qualcuno se ne accorgesse anche nelle redazioni dei giornali, che corrono dietro al web e alle polemiche create dai troll dei social su mandato degli uffici stampa pagati da noi. Perché intossicare il dibattito in questo modo non è degno di un Paese democratico. E comunque il green pass fatelo. Serve. Dopo essere scese in piazza per manifestare a favore dei diritti civili, le donne afghane hanno lanciato sui social una campagna contro le restrizioni del nuovo regime talebano che impone rigide regole anche sul codice di abbigliamento. L'hashtag è #DoNotTouchMyClothes ("Non toccare i miei vestiti"). Le donne hanno postato foto e video con abiti dai colori vivaci, caratteristici della tradizione afghana, in segno di opposizione al burqa. Un gesto di rivendicazione della propria cultura e della libertà. La campagna è nata da un'idea di Bahar Jalali, ex docente di storia all'Università americana di Kabul, che per prima ha condiviso una foto indossando un tradizionale abito verde. "Questa è la cultura afghana", ha scritto. In tante hanno accolto la proposta e hanno deciso di seguire Jalali nell'iniziativa. In poco tempo, #DoNotTouchMyClothes è diventato virale sul web.

LE BUGIE PARTIGIANE DI BARBERO AL FESTIVAL DELLA MENTE. Paolo Asti (Portavoce Nazionale CulturaIdentità) il 5 Settembre 2021 su culturaidentita.it su Il Giornale. Non ne possiamo più di storici come Barbero, invitati negli anni al Festival della Mente per raccontare tutta la storia del mondo, da quella medievale fino a quella contemporanea, quasi che nel mondo scientifico non esistessero delle competenze specialistiche tali da rendere impossibile agli storici di occuparsi di tutto lo scibile vissuto dall’uomo. Ormai Barbero è l’appuntamento che il pubblico attende come lo Spritz della sera, buono bianco, con il campari o aperol, a seconda dei gusti, ma sempre con l’orgoglio di avere la tessera del partito comunista con la firma di Berlinguer. Niente di male per carità, perché ognuno ha il diritto di essere orgoglioso per quel che gli pare, ma quello che ci attendiamo da anni è che il Festival della Mente faccia cultura grazie al confronto, invece, qualsiasi sia il tema, la visione è sempre a senso unico. Ho molto apprezzato come il sindaco di Sarzana Cristina Ponzanelli ha gestito nei giorni scorsi il centesimo anniversario dei Fatti del 21 luglio del ’21, partecipando e garantendo, nei vari appuntamenti, la pluralità del dibattito, andando anche per alcuni aspetti contro parte della sua maggioranza. E’ questo lo stile che vorremmo da un’istituzione pubblica e da chi si occupa della direzione artistica di un festival. Invece, nel momento in cui si cerca di compiere un revisionismo o del riduzionismo vergognoso, alla Montanari, ecco che Barbero ci racconta sulla stampa nazionale che: “il Giorno del Ricordo è una tappa di una falsificazione storica”. Consiglio a Barbero e a tutti quelli che lo seguono di riascoltare il discorso del Presidente Mattarella di due anni fa nella giornata dedicata alle vittime di quelle barbarie e in particolare un passo: “Non si trattò come afferma qualche storico revisionista o riduzionista di una ritorsione ai torti subiti dai fascisti perché tra le vittime ci furono uomini, impiegati, operai e prelati quanto più lontani dal fascismo e fino anche militanti comunisti, verso cui si riversò un odio intollerabile etico e sociale…” Uno storico che afferma: “i partigiani titini stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata.” non afferma una convinzione frutto della ricerca e della libertà di pensiero ma un falso con cui un qualsiasi studente verrebbe invitato a tornare un’altra volta a ridare l’esame di storia contemporanea. L’auspicio per la prossima edizione è quello di invitare, se non un contradditorio che capisco non rientri nello stile del Festival , almeno qualche storico che, come scrive Maurizio Crippa vice direttore del Foglio, riferendosi alle risposte all’intervista di Barbero a Il Fatto quotidiano come “ .. ubriacatura ideologica. Un’intervista al barolo, si sarebbe detto un tempo, oggi più banalmente un’intervista al Barbero.”

L’altra storia del Sud. Caro professor Barbero, su Garibaldi e l’unità diciamola tutta…di Michele Eugenio Di Carlo su nuovarivistastorica.it. Pubblicato il 4 marzo 2020 su «Il Sud on line».

Professor Alessandro Barbero, essendo lei uno degli storici medievisti più accreditati, perché non lascia la storia del nostro processo unitario a specialisti già in evidente difficoltà? In un suo famoso intervento divulgato dal canale YouTube dal titolo “La verità su Garibaldi”, lei tentando di riproporre la figura dell’“Eroe dei due mondi” dice molte verità. Ma da quelle stesse verità che lei racconta, omettendone altre che le dirò, il personaggio Garibaldi al vaglio attento dello studioso e dello storico, al di là delle “leggende truffaldine”, non esce affatto fortificato come repubblicano, come patriota, come politico. Lasci allora che un modesto studioso non accademico, non “educato” a frequentare studi televisivi importanti e spesso definito impropriamente “neoborbonico”, spieghi cosa Lei non ha vagliato, forse intenzionalmente, della figura di Garibaldi. Il Giuseppe Garibaldi, ricordato in tutta Italia con statue, intitolazioni di vie e di piazze, godeva di uno stretto legame che lo vincolava alla Gran Bretagna, potenza coloniale che aveva forti interessi politici e commerciali da difendere nel Mediterraneo e che non si era mai fidata di Ferdinando II scatenandogli contro una spietata campagna denigratoria, i cui effetti persistono ancora oggi nei testi di storici assurdamente ancorati ad una storiografia ufficiale liberale sabauda. L’idea di preparare una invasione militare in Sicilia non era stata di Garibaldi. In una lettera del 5 maggio ad Agostino Bertani, pubblicata l’8 maggio 1860 sul “Pungolo”, è lo stesso Garibaldi a renderlo noto. Anche per Camillo Benso Conte di Cavour, non era il momento propizio per sostenere i moti siciliani e impegnarsi nell’organizzazione di una spedizione militare in Sicilia, per le ragioni che lei stesso ha esposto. Infatti, il suo collega Pietro Pastorelli, professore emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Roma “La Sapienza” e presidente della Commissione del Ministero degli Esteri per la pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani, dopo aver consultato l’ultima edizione completa dei Carteggi di Cavour e i documenti editi dagli archivi inglesi, francesi, e prussiani, non ha lasciato alcun dubbio sul fatto che sia stato il Regno Unito ad incoraggiare e sostenere l’azione militare in Sicilia. Gentile professor Barbero, il ruolo della Gran Bretagna non è un elemento irrilevante nella ricostruzione storica della figura di Garibaldi. Le critiche della Gran Bretagna al trattato franco-sardo del 24 marzo erano note, l’annessione della Savoia e di Nizza alla Francia aveva raggelato i rapporti tra Londra e Parigi e indotto il Governo inglese ad emettere un giudizio di totale inaffidabilità sul Conte di Cavour. Il pericolo che si potessero riaprire le porte d’Oriente alla Russia a cui il Regno delle Due Sicilie era particolarmente legato e che la Francia potesse allargare la sua influenza anche in Italia meridionale, mettevano in discussione l’egemonia economica e commerciale della Gran Bretagna nel Mediterraneo. Già il 5 aprile Cavour, sospettando l’azione inglese nell’insurrezione di Palermo, contattava telegraficamente d’Azeglio, ambasciatore a Londra, affinché indagasse su un’eventualità del genere. Qualche giorno dopo d’Azeglio, sempre in contatto con il Primo Ministro inglese Palmerston, riferiva al Conte che l’atteggiamento di sfiducia nei suoi riguardi non era affatto mutato e che ulteriori altre annessioni italiane favorite dalla Francia non sarebbero state accettate dall’Inghilterra. Pastorelli deduce dai comportamenti la linea seguita dagli inglesi; una linea che si risolse nel sostenere con un accordo segreto l’operazione militare di Garibaldi nel sud Italia senza nemmeno contattare il Primo Ministro sabaudo di cui Palmerston non si fidava. Naturalmente, il sostegno a Garibaldi doveva essere negato anche di fronte all’evidenza per evitare reazioni di Francia, Austria, Russia e Prussia. Il 30 aprile, il ministro degli Esteri inglese Russel trasmetteva all’ambasciatore Hudson le istruzioni sulla linea politica che il Governo torinese avrebbe dovuto seguire per andare incontro agli interessi inglesi. Londra desiderava il non intervento di Torino nelle questioni riguardanti il Regno delle Due Sicilie, perché convinta che un intervento diretto del Piemonte avrebbe comportato l’intervento armato dell’Austria e per reazione quello della Francia a difesa di Torino. Un’eventualità del genere avrebbe comportato l’ulteriore cessione di territori italiani alla Francia (Liguria o Sardegna) e uno squilibrio nella prevalenza inglese del Mediterraneo. Questa la ragione precisa per cui l’Inghilterra si apprestava a sostenere l’impresa azzardata e “piratesca” di Garibaldi. Ed era questo anche il motivo per cui Garibaldi cambiava diplomaticamente atteggiamento nei riguardi di Cavour, dopo la frattura dei loro rapporti seguita alla cessione di Nizza. Finanche lo storico Giuseppe Galasso ha apprezzato il comportamento opportunistico di Garibaldi in quel frangente, scrivendo che aveva «lucidamente inteso le condizioni» che potevano agevolare la sua impresa, mantenendo a ogni costo «il rapporto con Torino, per averne l’appoggio diplomatico e militare». A questo punto professor Barbero, il Garibaldi socialista, repubblicano di cui lei parla già appare come una figura sfumata e dai contorni ambigui. Non solo perché tradisce i suoi ideali, ma perché come scrive il suo compianto collega Galasso è costretto a dimostrare «di non procedere nel Mezzogiorno ad alcuna sovversione dell’ordine sociale, garantendo insieme l’opinione pubblica europea e la borghesia meridionale». Garibaldi, temendo impedimenti e ostacoli, vince la forte inimicizia e scrive a Cavour un messaggio per coinvolgerlo nell’impresa. Convocato il 2 maggio a Bologna, incontra Vittorio Emanuele II e Cavour, illustra i piani dell’impresa, conferma l’appoggio inglese, riceve l’approvazione sotto copertura del Re e del Primo Ministro. Professor Barbero, l’altro suo collega Eugenio Di Rienzo, accademico esperto, direttore della “Nuova Rivista Storica”, noto docente di Storia Moderna presso l’Università “La Sapienza” di Roma, riprendendo una lettera di Massimo d’Azeglio all’ammiraglio Carlo Pellion, conte di Persano, riporta alla luce che il vero piano affidato da Cavour all’ammiraglio era quello di condurre «una guerra non dichiarata, sotto neutralità apparente, contro Francesco II». Da quanto riportato si evince chiaramente che il Conte sosteneva un’azione illegale, contro il diritto internazionale, temendone le ripercussioni a livello europeo. Quindi, il compito di Persano non era quello dichiarato di avversare il progetto, ma di fornire assistenza a Garibaldi e a tutte le spedizioni successive di uomini e di mezzi, ponendo tutti gli impedimenti possibili alla reazione della flotta borbonica, anche al costo di continuare a corrompere gli ufficiali napoletani favorendone il trasferimento sotto le insegne della Marina dei Savoia. Professor Barbero, come Lei riferisce, i Mille non erano Mille, ma è bene chiarire che Garibaldi è uno strumento in mano alla Gran Bretagna, affiancata da un Regno di Sardegna che agisce in maniera indegna. Professor Barbero, il tanto vituperato legittimista Giacinto de’ Sivo si sbaglia forse quando, parlando di Cavour, afferma che era un «ipocrita istigatore di guerra civile cui fingeva di deplorare, accennava a italianità, quasi non fossero italiani i combattenti pel diritto. Per esso erano italiani e compatrioti i ribelli, i traditori e i codardi che gli vendevano la patria […] »? Prof. Barbero, Garibaldi nelle sue “Memorie” così descrive l’approdo a Marsala dell’11 maggio 1860: «… la presenza di due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci; e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera d’Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto». Professor Barbero, non la colpisce profondamente constatare che «l’eroe dei due mondi», il rivoluzionario Garibaldi, si riteneva «beniamino» di coloro i quali avevano issato in mezzo mondo la bandiera di quella Gran Bretagna che era ritenuta la più grande potenza coloniale e imperialistica al mondo, che solo da qualche anno aveva abolito lo schiavismo e il traffico di carne umana, che non esitava a passare per le armi i suoi nemici interni e esterni, che manteneva in condizioni di estrema povertà le classi proletarie, che permetteva che milioni di suoi sudditi emigrassero per la fame, che aveva un sistema carcerario tra i peggiori al mondo? Professor Barbero, non desta in Lei nessuna impressione il fatto che chi progettava di unificare l’Italia dal gioco straniero si affidava pienamente alla Gran Bretagna nel tentativo di sopraffare una legittima monarchia perfettamente italiana? Un Garibaldi non poteva andare oltre le semplici dichiarazioni di affezione, amicizia, simpatia e rivelare chiaramente quale fosse stato il ruolo degli inglesi nella spedizione anche se, come spiega ancora il suo collega Di Rienzo, la presenza della flotta inglese non solo nel mare di Sicilia era vista come una minaccia concreta sia dagli ufficiali della Marina napoletana sia da Francesco II e quasi sicuramente la decisione di approdare a Marsala era stata concordata da Garibaldi con i referenti del Governo inglese. E a proposito dei soldi necessari all’impresa bisogna anche qui chiarire meglio il ruolo della Gran Bretagna e della Massoneria. Infatti il 4 marzo 1861, quando l’Italia stava per essere unificata, il deputato John Pope Hennessy riaccendeva la discussione e contestava al Governo inglese di aver interferito nella vittoriosa impresa garibaldina, sostenendola militarmente, finanziariamente e diplomaticamente, mentre ufficialmente caldeggiava ipocritamente la linea del non intervento negli affari italiani. Secondo Pope le due navi della flotta inglese erano presenti nella rada del porto di Marsala col preciso compito di fornire il supporto necessario ad assicurare lo sbarco a Marsala degli uomini in camicia rossa. Pochi erano i dubbi sul coinvolgimento inglese nella conquista militare del Regno delle Due Sicilie; dubbi che si affievolirono del tutto quando lo stesso Pope rese nota la lettera con cui Vittorio Emanuele II aveva ringraziato il Governo inglese. Professor Barbero, come Lei afferma, Garibaldi “socialista” non piaceva a Karl Marx. Marx ed Engels seguirono con attenzione l’azione di Garibaldi, ma solo inizialmente, anche perché sono noti i loro giudizi negativi sull’evoluzione politica italiana. E d’altronde, come poteva piacere a Marx il Garibaldi che supportato da ambienti finanziari e politici inglesi finiva per consegnare il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e alla casta politico-militare dei Savoia, che trattarono il sud Italia come fosse una colonia, instaurandovi un feroce regime repressivo? Professor Barbero, anche sul fatto che la figura di Garibaldi è stata proposta più volte nella storia dalla sinistra come icona positiva – da ultimi i comunisti svizzeri – ha totalmente ragione, ma non c’è da esserne soddisfatti. Pensi quanto sia stata potente la macchina della propaganda agiografica messa in piedi dai governi liberali dopo il processo unitario, se anche la sinistra non è riuscita a distinguere il Garibaldi “socialista” da quello che consegna la conquista militare a Vittorio Emanuele II. Professor Barbero, non si può, d’altro canto, non registrare l’utilizzo strumentale che ne fece anche il fascismo. Fulvio Orsitto, docente accademico esperto di cinema, senza mezzi termini, considera la seconda fase della cinematografia, quella definita «fascista», un periodo storico in cui «la ricostruzione della storia patria si svolge in modo funzionale agli interessi di un regime che intende essere considerato la logica conclusione del processo risorgimentale». Un Risorgimento manipolato strumentalmente al fine di nazionalizzare le masse, dato che non poteva sfuggire all’intellettualità fascista come il cinema fosse un potente mezzo di comunicazione, piegabile ad uso propagandistico, e che il potere poteva efficacemente utilizzare per indottrinare e ideologizzare le masse. Emblematica di questa maniera romantica e fantastica di rappresentare il Risorgimento è il film “1860”, diretto da Alessandro Blasetti nel 1934. Daniele Fioretti, peraltro, docente alla Miami University, non nutre alcun dubbio sulla circostanza che Blasetti non si era affatto proposto di fornire un quadro storico verosimile del Risorgimento, ma una banale celebrazione agiografica dell’epopea garibaldina con un intento smaccatamente propagandistico. Il pericolo concreto fu allora persino avvertito dal filosofo tedesco Walter Benjamin: la storia e le tradizioni erano diventate lo strumento della classe dominante, mentre compito dello storico era proprio quello di sottrarre la storia a questo tipo di manipolazione. Egregio professor Barbero, non Le sembra un ammonimento più che mai attuale. Per finire professor Barbero, – mi riferisco ai suoi giudizi sulle “leggende truffaldine” della sua ultima visita a Napoli – si convinca anche Lei relativamente a quanto ha affermato il suo collega specialista della materia Eugenio Di Rienzo: il lavoro di ricerca degli studiosi revisionisti non accademici del Risorgimento è prezioso. Infatti, tornando a Garibaldi, su una delle questioni centrali della “avventura” in Sicilia, Di Rienzo ha affermato che la longa manus del ministero whig ha «potentemente contribuito (soprattutto ma non soltanto con un supporto economico) al successo della ‘liberazione del Mezzogiorno’», aggiungendo lucidamente «che la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza» un’ipotesi «che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filoborbonica».

Lamberto Duranti - Alessandro Barbero: la Storia. Facebook il 14 giugno 2021.

STORIA E CRITICA STORICA. Si nota, purtroppo, che troppi commenti sono solo insulti o affermazioni senza documentazione, questo va contro ogni logica storica e contro il senso civico. Nel caso di Giuseppe Garibaldi c'è un particolare accanimento, forse perché i grandi personaggi fanno ombra o forse perché Garibaldi ha di fatto unito l'Italia o per qualche altro motivo? Chi insulta dovrebbe invece spiegare le sue ragioni e farlo con documentazioni o semplicemente affermare che è contrario all'unità della penisola italiana o spiegare altre ragioni. Sempre restando su Garibaldi ricordiamo che a Parigi c'è una via importante intitolata "Boulevard Garibaldi", una Piazza Garibaldi con statua e anche una stazione del Metro Garibaldi, perché Garibaldi fu l'unico a vincere una battaglia contro l'Esercito Prussiano, che aveva sbaragliato quello francese. Per concludere chi fa affermazioni senza fonti e/o insulta, andrebbe immediatamente allontanato da qualsiasi gruppo, perché agisce contro lo studio della storia, che si fonda su fatti dimostrati e dimostrabili e che dà il giudizio sulla base della globalità dei fatti, le opinioni personali non sono storia. Termino affermando che le stesse regole valgono per personaggi come Ferdinando II o Francesco II, sì alla critica storica documentata, ma assolutamente no agli insulti, chiunque sia il personaggio in questione.

Michele Eugenio Di Carlo. Facebook il 14 giugno 2021. Carissimi, lasciamo perdere retorica e agiografica. Su Garibaldi ci sono tanti documenti che attestano chi sia stato in realtà e cosa abbia voluto e fatto per davvero. Lasciamo stare i romanzi e le poesie alla Dumas, Abba, Mercantini e andiamo al Carteggio Cavour, ai documenti diplomatici in particolare inglesi, peraltro riportati da storici della Sapienza come Pastorelli e Di Rienzo. Partiamo dall'incontro di Bologna del 2 maggio 1860, quando Garibaldi incontra Cavour con cui aveva rotto i rapporti per la cessione di Nizza. Perché incontra Cavour? Lo fa per non essere ostacolato nella spedizione dei Mille e per confermare a un riluttante Cavour che ha dietro di sé la Gran Bretagna. Non che Cavour non lo sapesse: Palmerton non voleva più avere a che fare con Cavour dopo della cessione di Nizza e della Savoia e temeva che Cavour cedesse ulteriori territori ai francesi con la conquista militare del Sud. In altre parole a muovere Garibaldi, contro la volontà dei Savoia che obtorto collo devono accettare l'interferenza inglese, sono gli interessi della Gran Bretagna nel Mediterraneo. Da quel momento i preparativi da Quarto non vengono ostacolati e l'ordine dato all'ammiraglio sabaudo Persano di fermare Garibaldi è solo finto. Nei fatti, pienamente documentati, Garibaldi sarà sostenuto dagli inglesi e anche dai riluttanti Savoia. È questo, il 2 maggio 1860, il momento in cui Garibaldi rinuncia ai suoi ideali repubblicani e rivoluzionari in favore della monarchia sabauda. E persino la regina Vittoria e il marito, che avevano una pessima considerazione di Garibaldi, né risultano rinfrancati. 

Fake Sud, la verità sui pregiudizi verso il Mezzogiorno. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina. Pietro De Sarlo il 19 Ottobre 2020 su basilicata24.it. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina.

Modus operandi. Il modus operandi del killer è spietato. Si insinua nelle menti delle persone e le annichilisce portandole a dire stupidaggini prive di senso e sganciate dalla realtà. Non parliamo di persone qualunque ma del gotha del pensatoio nostrano. Ad aiutare l’autore nelle indagini ci sono i numeri, che impietosamente smontano uno dopo l’altro ogni pregiudizio e che con la loro disarmante forza e attitudine alla verità inchiodano ogni menzogna e sono in aggiunta disponibili in copiosa quantità: archivio ISTAT e i CPT (Conti Pubblici Territoriali). Archivi che, insieme ad EUROSTAT, ho saccheggiato anche io infinite volte. Le evidenze sono talmente forti che ci si chiede se il nostro killer, il pregiudizio, non abbia trovato terreno già fertile in persone già predisposte alla disonestà intellettuale e privi di anticorpi.

Un lungo elenco di maître a penser. Cominciamo da Luca Ricolfi, della cui disonestà intellettuale insieme a quella della Fondazione Hume avevo già sospettato. Di lui ricorderete il ponderoso saggio Il sacco del Nord. Sacco ad opera del Sud parassita, ovviamente. La cronaca di una telefonata tra l’autore del libro e il prode Ricolfi è esilarante. Basta una domanda, una sola, dell’autore, basata su fatti e numeri incontestabili per smontare prologo, tesi, postulati e tutti gli ammennicoli del saggio dell’illustre sedicente neo illuminista. La tesi del Nord saccheggiato dal Sud frana in un amen e Ricolfi balbetta tra un “non ricordo cosa ho scritto” e un penoso distinguo tra “finali” e “conclusive”. Poco ci manca che Ricolfi dica che il libro sia stato scritto a sua insaputa. Non tocca sorte migliore a Tito Boeri, che ci ha spesso deliziato con fantasiose analisi economiche e previdenziali. Boeri propone le gabbie salariali al Sud. E che fa il nostro autore? Gli sfila una carta dal traballante castello spiegando all’iconico Tito del “sinistro” pensiero come si leggono i dati ISTAT. L’arrampicata sugli specchi del gagliardo Boeri ricorda le scenette di Willy il Coyote, che inseguendo Beep Beep sbatte su una parete rocciosa e senza appigli per scivolare a terra con le stellette che gli roteano intorno alla testa. E che dire di Salvatore Rossi, uomo con un curriculum stratosferico, che per qualche suo singolare tormento interiore non ritiene di prendere in considerazione né dati certificati né l’impatto di infrastrutture essenziali, come le ferrovie, per elaborare le sue “innovative” tesi sul Sud assistito? L’elenco è ancora lungo. Leggete, stupite e chiedetevi come sia possibile per un Paese sollevarsi quando questa è la qualità della classe intellettuale e dirigente.

E i politici? Le cose non vanno meglio. C’è però una differenza tra i politici settentrionali e quelli meridionali. I primi fanno squadra per aumentare le risorse al Nord. Nelle commissioni e in parlamento quando si decide sull’autonomia differenziata si passano la palla. Giorgetti, Lega (Nord), la passa a Buffagni, MoVimento 5S, questi a Zanoni, PD, e via così. Occupano le posizioni in cui si decide dell’autonomia all’ANCE e in parlamento. I politici meridionali non sanno, non capiscono e non si interessano della trama a danno del Sud che si va tessendo con l’autonomia differenziata e sono assenti ovunque si parli del tema. Zaia imperversa, i governatori del Sud balbettano infastiditi. Marco Esposito scrive un libro verità e mai smentito, Zero al Sud, che scopre gli altarini e i misfatti criminali che si consumano dietro all’autonomia differenziata. Non sono un giornalista né un parlamentare e quindi, a parte quelli di cittadino, non ho altri obblighi sociali eppure la mistificazione sulla autonomia differenziata è talmente evidente, brutale e volgare che mi sento in obbligo, utilizzando anche i dati dei CPT, di urlare al mondo la mia indignazione su tante misere falsità in tre interventi ( uno , due e tre ). Intanto le discussioni in stanze segrete, grazie a Marco Esposito, diventano pubbliche. Lo scippo ai danni del Sud è talmente evidente che Giorgetti in commissione chiede di secretare i numeri e si arriva al punto di violare la costituzione e introdurre coefficienti riduttivi della perequazione completamente inventati. Coefficienti correttivi non calcolati ma gettati lì ad mentula canis con l’unica finalità di spostare risorse dal Sud a Nord. I politici del Sud, di tutti i partititi, hanno altro di più importante da fare: non si capisce cosa.

La democraticità del Covid – 19. Questo orribile virus, che sta bruciando le nostre esistenze, ha però un pregio. Colpisce in egual misura gli imbecilli, Trump, Johnson, Zingaretti, le persone per bene e gli umarell. Non fa sconti a nessuno e si diffonde subito prevalentemente e in modo violento al Nord. Questo perché contagia chi incontra e per primi incontra chi ha più scambi con il resto del pianeta, non certo per una fatwa lanciata da noi terroncelli invidiosi verso il Nord. Inoltre sembra volersi accanire in modo particolare con chi lo sottovaluta: #Milanononsiferma, #Bergamoisrunning e Zingaretti, che lo sfida a suon di mojito.

La sanità lombarda collassa e a Bergamo i camion dell’esercito portano via i cadaveri. Il Paese è sconvolto e al Sud ci si chiede: se la migliore sanità che abbiamo in Italia, a Milano, non tiene botta cosa succederebbe se il virus colpisse con uguale forza il Sud? I genitori e i nonni pregano figli e nipoti di rimanere a Milano e non tornare a casa. Il ragionamento è semplice: “Se ti ammali hai più probabilità di essere curato a Milano che non a casa tua al Sud. In più se ci contagi moriamo anche noi e poi chi tira la cinghia per mantenerti agli studi alla Bocconi o alla Cattolica?” Logico, no? Si chiude quindi quel che si può. Questo è il ragionamento che fanno tutte le persone per bene: al Nord come al Sud e lo fanno nell’interesse generale. A proposito, se volete sapere perché la sanità al Sud non funzioni leggete il libro. Un atteggiamento responsabile e normale dovrebbe spingere a chiedersi cosa non abbia funzionato nel modello della sanità lombarda e emendarlo. Invece al Nord gli opinion leader prendono cappello. Il killer, il pregiudizio, ha azzerato le sinapsi dei giornalisti del Corrierone e del ceto intellettuale e politico milanese. Questa palpabile angoscia che si è vissuta al Sud viene tradotta in un florilegio di scempiaggini, puntualmente ricordato da Marco Esposito, su cui fanno a gara a chi spara la minchiata più grossa Galli Della Loggia, Polito, Bassetti, Imariso, Sala e persino il normalmente pacato De Bortoli, sollevando una polemica inesistente e completamente inventata sul Sud che gode delle disgrazie del Nord.

Il razzismo fa parte del panorama. Il killer maledetto, il pregiudizio, è stato nutrito amorevolmente negli ultimi 160 anni. Nel 1870, numeri alla mano e carta canta, la Campania era la regione più ricca d’Italia. Dal 1860 ad oggi le fake nei confronti del Sud hanno prodotto uno strisciante razzismo a cui ci si è abituati. Fa ormai parte del panorama, né più né meno come un edificio crollato le cui macerie nessuno rimuove e che nessuno ricostruisce. La conseguenza è che sulle principali testate televisive, a volte anche sulla TV pubblica, si agitano dei personaggi di infimo livello che si permettono di arrivare a dire: io non credo ai complessi di inferiorità. Credo che in molti casi i meridionali siano inferiori. Si tratta di Feltri intervistato da un gongolante Giordano. Reazioni? Misere. “De stercore Feltrii” nessuno ne parla e indossa non dico una maglietta rossa ma almeno rosa venata di bianco. Nella trappola del killer cadono, con sfumature diverse, anche Mentana, Merlino e Letta, che neanche si rendono conto del perché le loro uscite siano sbagliate e offensive. In sintesi: “Io razzista? È lui che è nero!” Nel mentre, come ci ricorda il libro, l’insulto più diffuso su twitter è terrone, seguito a ruota da zingaro, e a distanza da negro e muso giallo. Ma, inopinatamente, tra i razzismi da battere individuati dalla commissione parlamentare Jo Cox, e presieduta da Laura Boldrin, quello nei confronti dei meridionali non merita neanche due righe.

Conclusioni. Alessandro Barbero, che firma la prefazione del libro, che conclusioni ne trae? Con una disarmante parsimonia intellettuale si limita a promettere un libro che smonti i primati delle Due Sicilie. È questa la principale e meschina preoccupazione del neo sabaudo Barbero? Ma Barbero lo conosciamo già ! E che dire di Augias, stigmatizzato anche da me , che propone di mettere tutto nel dimenticatoio?

Le mie conclusioni invece sono diverse. Dovrei gioire e essere grato per le verità che smontano tanti pregiudizi. Invece sono angosciato. Perché la montagna da scalare dei pregiudizi è talmente grande che è difficile ipotizzare un percorso di salvezza del Paese. Se il ceto dirigente e intellettuale è così ottuso come si può sperare in una sana progettualità di rinascita? Anche perché alle fake news sul Sud se ne aggiungono altre sull’Europa  e altre ancora sempre sul Sud e su tutto quello che è fuori dal pensiero unico del liberismo imperante. E anche perché l’atteggiamento del ceto intellettuale italiano sull’Unione Europea è troppo simile all’atteggiamento del ceto intellettuale duosiciliano che portò alla Unità d’Italia e alla conseguente questione meridionale. Loro uccisero il Sud, questi stanno uccidendo l’Italia intera. Se non si sgombra il campo dal pregiudizio le ricette saranno sempre le stesse: quelle che non hanno mai funzionato ma che si continuano a proporre. Come la fiscalità di vantaggio o le gabbie salariali, come gli incentivi o l’autonomia differenziata.

Eppure il potenziale di sviluppo del Sud è enorme. Forse è arrivato il momento che Marco Esposito e altri si uniscano per una proposta di sviluppo organica e di visione del Sud e quindi del Paese. Questo perché anche se avremo smascherato tutte le fake sul Sud, sull’Europa e sui benefici effetti del liberismo, e anche se avremo ristabilito tutte le verità sul Risorgimento e sui primati delle Due Sicilie non avremo risolto comunque nulla se questo liberarsi dai pregiudizi e dalle fake non avrà generato un piano di visione e al contempo operativo per una diversa prospettiva del futuro del Paese. Piano magari da proporre in un prossimo libro. Pietro De Sarlo

La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale. Libro di Antonino De Francesco. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia.

Foibe, Aldo Grasso incenerisce Barbero sul “Corriere”: “Mi è caduto un mito”. Gabriele Alberti sabato 11 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Mi è caduto un mito”. Il “mito” infranto è il professor  Alessandro Barbero. A leggere le prime parole dell’articolo di Aldo  Grasso, Tommaso Montanari ha avuto uno sturbo. Il critico del Corriere della sera  non perdona allo studioso e volto di Rai Storia la posizione  in materia di foibe e  Giorno del Ricordo con la quale si è adagiato sulle posizioni negazioniste dell’incasato rettore di Siena. “Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente- scrive l’editorialista- . Mi è caduto un mito, quando, intervistato dal Fatto quotidiano , il prof. Barbero ha avallato le teorie di Tomaso Montanari sulla «falsificazione storica» delle foibe” . Grasso aveva già demolito le tesi negazioniste di Montanari in un articolo feroce. Alla firma del Corriere non è affatto piaciuto che il professor Barbero si sia attestato sulla posizione di Montanari su un capitolo di storia italiana così drammatico. Con toni molto pacati ma irrevocabili concede allo storico (“un divo di Rai Storia”) il dono della simpatia e della capacità del divulgatore. Ma sulla storia non si può scherzare: è il pensiero di Grasso. Subito risponde insultando Montanari, con toni da odiatore seriale. L’invasato rettore – che ha promesso che il suo impegno antifascista aumenterà – ‘scrive e offende. ‘Oggi Aldo #Grasso si scatena contro Alessandro #Barbero , naturalmente sempre per le #Foibe (e per l’odio viscerale e invidioso contro i professori universitari). Penso che il giornale della classe digerente italica non sia mai sceso così in basso come con questo figuro”. Così in un tweet lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena  inveisce in maniera scomposta.  A sinistra è vietato dissentire e chi lo fa è un “figuro invidioso”. Che non a caso aveva definito Montanari un “agit prop”. Alla  triste vicenda Aldo Grasso dedica solo altre due righe: Barbero “ha scritto un pezzo in cui ha preso le distanze dalla scivolata, con onestà; lo seguirò sempre ma l’amaro in bocca è rimasto”. Il professore sul Fatto aveva avallato la definizione di Montanari sul giorno del Ricordo  come «tentativo neofascista di falsificare la storia». Intervistato su La Stampa è scomparso il neofascismo ed è apparso lo “Stato”. Giochetti che non sono piaciuti ad Aldo Grasso e non solo a lui.

Intervista ad Alessandro Barbero. “Le foibe furono un orrore, ma ricordare quei morti e non altri è una scelta solo politica. Il Giorno del Ricordo? E’ una tappa di una falsificazione storica”. Foibe, verità e menzogne dietro la canea delle destre. Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano l'1 settembre 2021. Tomaso Montanari, storico dell’Arte e Rettore eletto dell’Università per Stranieri di Siena, ha scritto su questo giornale che la legge del 2004 che istituisce la Giornata del ricordo delle foibe “a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo” di una falsificazione storica di parte neofascista. Ne sono seguite accuse di negazionismo (anche da giornali “liberali”) e richieste di dimissioni da parte di esponenti politici di destra (FdI, Lega, Iv). Interpelliamo sul tema Alessandro Barbero, storico e docente.

Professore, è d’accordo con Montanari?

Sono d’accordo, ma bisogna capirsi. Montanari non ha affatto detto che le foibe sono un’invenzione e che non è vero che migliaia di italiani sono stati uccisi lì. Nessuno si sogna di dirlo: la fuga e le stragi degli italiani hanno accompagnato l’avanzata dei partigiani jugoslavi sul confine orientale, e questo è un fatto. La falsificazione della storia da parte neofascista, di cui l’istituzione della Giornata del ricordo costituisce senza dubbio una tappa, consiste nell’alimentare l’idea che nella Seconda guerra mondiale non si combattesse uno scontro fra la civiltà e la barbarie, in cui le Nazioni Unite e tutti quelli che stavano con loro (ad esempio i partigiani titini, per quanto poco ci possano piacere!) stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata; ma che siccome tutti, da una parte e dall’altra, hanno commesso violenze ingiustificate, eccidi e orrori, allora i due schieramenti si equivalevano e oggi è legittimo dichiararsi sentimentalmente legati all’una o all’altra parte senza che questo debba destare scandalo.

Perché l’istituzione della Giornata del ricordo rappresenterebbe una parte di questa falsificazione, se i fatti in sé sono veri?

Ma proprio perché quando di fatti del genere se ne sono verificati, purtroppo, continuamente, da entrambe le parti (ma le atrocità più vaste e più sistematiche, anzi programmatiche, le hanno compiute i nazisti, questo non dimentichiamolo), scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto. Intendiamoci, se io dico che la Seconda guerra mondiale è costata la vita a quasi mezzo milione di italiani, fra militari e civili, e che la responsabilità di quelle morti è del regime fascista che ha trascinato il Paese in una guerra criminale, qualcuno potrebbe rispondermi che però le foibe rappresentano l’unico caso in cui un esercito straniero ha invaso quello che allora era il territorio nazionale, determinando un esodo biblico di civili e compiendo stragi indiscriminate; e questo è vero. Ma rimane il fatto che se io decido che quei morti debbono essere ricordati in modo speciale, diversamente, ad esempio, dagli alpini mandati a morire in Russia, dai civili delle città bombardate, dalle vittime degli eccidi nazifascisti – che non hanno un giorno specifico dedicato al loro ricordo: il 25 Aprile è un’altra cosa – il messaggio, inevitabilmente, è che di quella guerra ciò che merita di essere ricordato non è che l’Italia fascista era dalla parte del torto, era alleata col regime che ha creato le camere a gas, e aveva invaso e occupato la Jugoslavia e compiuto atrocità sul suo territorio: tutto questo non vale la pena di ricordarlo, invece le atrocità di cui gli italiani sono stati le vittime, quelle sì, e solo quelle, vanno ricordate. E questa è appunto la falsificazione della storia.

Ritiene ci siano fascisti, nostalgici, persone che mal sopportano il 25 Aprile nelle Istituzioni?

Parliamo di sensazioni. Io ho la sensazione che come gran parte d’Italia era stata più o meno convintamente fascista, così in tante famiglie si sia conservato un ricordo non negativo del fascismo, e un pregiudizio istintivo verso quei ribelli rompiscatole e magari perfino comunisti che erano i partigiani. E le famiglie che la pensavano così hanno insegnato queste cose ai loro figli. Per tanto tempo erano idee che rimanevano, appunto, in famiglia, e non trovavano una legittimazione esplicita dall’alto, nella politica o nel giornalismo: oggi invece la trovano, e quindi emergono alla luce del sole.

Appartiene alla normale dialettica politica l’auspicio dell’on. Meloni, lanciato dalle pagine del Giornale, di “fermare” il professor Montanari? Si vuole costituire un precedente in democrazia di intimidazione del mondo accademico?

Non solo non appartiene alla normale dialettica politica, ma è inconcepibile in una Repubblica antifascista. E tuttavia va pur detto che non sono solo le destre ad aver creato un mondo in cui si reclamano le scuse, le dimissioni e i licenziamenti non per qualcosa che si è fatto, ma per qualcosa che si è detto. Il nostro Paese vieta l’apologia di fascismo, sia pure con tante limitazioni e distinguo da rendere il divieto inoperante, e questo divieto ha buonissime ragioni storiche, ma io forse preferirei vivere in un Paese dove chiunque, anche un fascista, può esprimere qualunque opinione senza rischiare per questo di essere cacciato dal posto di lavoro.

La sinistra, proclamando la fine delle ideologie, ha aperto la strada alla minimizzazione, alla riabilitazione e infine alla riaffermazione dell’ideologia fascista?

Il problema è che non sono finite le ideologie, è finita la sinistra. Il sogno che gli operai potessero diventare la parte più avanzata, più consapevole della società, e prendere il potere nelle loro mani, è fallito; il risultato è che nei Paesi occidentali non c’è più nessun partito che si presenti alle elezioni dicendo “noi rappresentiamo gli operai e vogliamo portarli al potere”. Ma la sinistra era quello, nient’altro. Invece la destra, cioè la rappresentanza politica di chi vuole legge e ordine, rispetto dell’autorità e libertà d’azione per i ricchi, e non si sente offeso dalle disuguaglianze sociali ed economiche, è ben viva. E in un mondo dove la destra è molto più vitale della sinistra è inevitabile che la lettura del passato vada di conseguenza, e che si possano diffondere enormità come quella per cui il comunismo sarebbe stato ben peggio del fascismo.

Alessandro Barbero, da «Superquark» a star del web: il Premio Strega, i meme e altri 6 segreti su di lui.  Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 agosto 2021. Una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sul professore e storico, tra i protagonisti del programma condotto da Piero Angela (in onda mercoledì 11 agosto su Rai1 alle 21.25)

Gli studi. I suoi video su YouTube ottengono migliaia di visualizzazioni, i suoi podcast finiscono spesso nella classifica dei più ascoltati e ogni volta che appare in tv stuoli di fan adoranti non aspettano altro che i suoi racconti: non parliamo dell’ennesimo rapper ma di Alessandro Barbero, lo storico di «Superquark» - programma in onda questa sera su Rai1 alle 21.25 -, che nel giro di qualche anno è diventato una vera e propria star del web (anche se, come vedremo, non è sui social). Nato a Torino il 30 aprile 1959 ha studiato al Liceo classico Cavour e si è poi laureato in Lettere nel 1981 con una tesi in storia medievale presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito ha conseguito il dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha vinto il concorso per un posto di ricercatore in storia medievale all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Dal 1998 è prima professore associato e dal 2002 ordinario di storia medievale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Ma queste non sono le uniche curiosità (poco note) su di lui...

Quando è approdato a «Superquark». Dicevamo di «Superquark»: ha iniziato a collaborare con il programma condotto da Piero Angela nel 2007. Con il divulgatore scientifico ha pubblicato nel 2012 il libro «Dietro le quinte della Storia».

Non ha i social. Il professor Barbero è completamente assente dai social. Esistono pagine Facebook che portano il suo nome (come «Alessandro Barbero guidaci verso il Socialismo» o «Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli») e gruppi («Alessandro Barbero: la Storia», «Le invasioni Barberiche: fan di Alessandro Barbero»), ma tutto è gestito da altre persone.

Ha vinto il Premio Strega. Nel 1996, a 37 anni, ha vinto il Premio Strega con il suo primo romanzo «Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo», pubblicato grazie all’interesse di Aldo Busi. Il volume, ambientato all’epoca delle guerre napoleoniche, è stato tradotto in sette lingue.

Vita privata. Pochissimo si sa della vita privata se non che il professor Barbero è sposato.

La tessera del PCI firmata da Berlinguer. Intervistato da Daria Bignardi a L’Assedio lo storico ha raccontato di essere stato iscritto al Partito Comunista Italiano: «Da qualche parte devo avere la tessera firmata da Enrico Berlinguer. Ne sono felice perché in quel partito c’era la gente migliore che facesse politica in quel momento in Italia. Ora quel partito non c’è più, come non ci sono più partiti come li intendevamo noi da giovani».

Il Festival della Mente di Sarzana. Dal 2007 Barbero partecipa al Festival della Mente di Sarzana con cicli di tre lezioni (da qualche anno sempre sold out, come i migliori concerti rock).

I Longobardi fenomeno virale. La puntata di «Superquark» in cui il professor Barbero ha parlato dei Longobardi è diventata virale grazie ai numerosi video-parodia incentrati sulle parole della lingua italiana che (come spiegato) derivano dalla lingua longobarda come «zuffa», «spranga» e «pizza». 

I neoborbonici querelano Barbero. Ma a processo dovrebbero andarci loro. Giuseppe Ripano il 24/10/2020 su ilcaffetorinese.it. “Il Movimento Neoborbonico ha querelato Alessandro Barbero dopo alcuni recenti articoli sul Mattino e alcune recenti prefazioni (ultima quella del nuovo libro del giornalista Marco Esposito)”. Il post facebook di una nota pagina di revisionismo storico che tra i propri curatori non annovera neanche uno storico di formazione e professione è ben più lungo del breve estratto riportato. Ma il senso è chiaro: il celebre storico Alessandro Barbero viene querelato – di nuovo – dall’autoproclamato movimento neoborbonico. Per capire le ragioni di una ostilità vecchia di un decennio, è utile fare un passo indietro. È il 22 ottobre 2012, i festeggiamenti per il centocinquantenario dell’Unita si sono da poco conclusi, e su La Stampa appare un articolo firmato da un volto ben noto della cultura torinese e nazionale, lo storico Alessandro Barbero. Il pezzo trae le mosse da un documento esposto in una delle tante mostre allestite per la ricorrenza: un processo celebrato nel 1862 dal Tribunale militare di Torino contro alcuni soldati, di origine meridionale, che si trovavano in punizione al forte di Fenestrelle. Lì avevano estorto il pizzo ai loro commilitoni che giocavano d’azzardo, esigendolo «per diritto di camorra». Come riportato dallo stesso Barbero, “In una brevissima chiacchierata televisiva sulla storia della camorra, dopo aver accennato a Masaniello - descritto nei documenti dell’epoca in termini che fanno irresistibilmente pensare a un camorrista - avevo raccontato la vicenda dei soldati di Fenestrelle. La trasmissione andò in onda l’11 agosto; nel giro di pochi giorni ricevetti una valanga di e-mail di protesta, o meglio di insulti: ero «l’ennesimo falso profeta della storia», un «giovane erede di Lombroso», un «professore improvvisato», «prezzolato» e al servizio dei potenti; esprimevo «volgari tesi» e «teorie razziste», avevo detto «inaccettabili bugie», facevo «propaganda» e «grossa disinformazione», non ero serio e non mi ero documentato, citavo semmai «documenti fittizi»; il mio intervento aveva provocato «disgusto» e «delusione»; probabilmente ero massone, e la trasmissione in cui avevo parlato non bisognava più guardarla, anzi bisognava restituire l’abbonamento Rai”. Per quanto all’epoca il vocabolario riportato non fosse d’uso corrente, oltre che essere spaventosamente simile ai ben noti rigurgiti di bile dei soliti frustrati urlatori social, era comune all’interno dei cosiddetti ambienti “neoborbonici”. Ci perdoni, il lettore, la colpa di pedanteria che commettiamo fornendo una definizione scolastica di neoborbonismo. La comprensione dei successivi paragrafi potrebbe altrimenti risultare ostica ai meno navigati della materia. Il termine neoborbonismo, apparso per la prima volta nel 1960, definisce una visione nostalgica enfatizzante il regno borbonico delle Due Sicilie, sopita per decenni dopo l'Unità d'Italia, ridestatasi con la nascita dei movimenti autonomisti in Italia verso gli anni '90 del secolo XX. Prosegue Barbero: “Superato lo shock pensai che l’unica cosa da fare era rispondere individualmente a tutti, ma proprio a tutti, e vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Molti, com’era da aspettarsi, non si sono più fatti vivi; ma qualcuno ha risposto, magari anche scusandosi per i toni iniziali, e tuttavia insistendo nella certezza che quello sterminio fosse davvero accaduto, e costituisse una macchia incancellabile sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia. Del resto, i corrispondenti erano convinti, e me lo dicevano in tono sincero e accorato, che il Sud fino all’Unità d’Italia fosse stato un paese felice, molto più progredito del Nord, addirittura in pieno sviluppo industriale, e che l’unificazione - ma per loro la conquista piemontese - fosse stata una violenza senza nome, imposta dall’esterno a un paese ignaro e ostile. È un fatto che mistificazioni di questo genere hanno presa su moltissime persone in buona fede, esasperate dalle denigrazioni sprezzanti di cui il Sud è stato oggetto; e che la leggenda di una Borbonia felix, ricca, prospera e industrializzata, messa a sacco dalla conquista piemontese, serve anche a ridare orgoglio e identità a tanta gente del Sud. Peccato che attraverso queste leggende consolatorie passi un messaggio di odio e di razzismo, come ho toccato con mano sulla mia pelle quando i messaggi che ricevevo mi davano del piemontese come se fosse un insulto. Ma quella corrispondenza prolungata mi ha anche fatto venire dei dubbi. Che il governo e l’esercito italiano, fra 1860 e 1861, avessero deliberatamente sterminato migliaia di italiani in Lager allestiti in Piemonte, nel totale silenzio dell’opinione pubblica, della stampa di opposizione e della Chiesa, mi pareva inconcepibile. Ma come facevo a esserne sicuro fino in fondo? Avevo davvero la certezza che Fenestrelle non fosse stato un campo di sterminio, e Cavour un precursore di Himmler e Pol Pot? Ero in grado di dimostrarlo, quando mi fossi trovato a discutere con quegli interlocutori in buona fede? Perché proprio con loro è indispensabile confrontarsi: con chi crede ai Lager dei Savoia e allo sterminio dei soldati borbonici perché è giustamente orgoglioso d’essere del Sud, e non si è reso conto che chi gli racconta queste favole sinistre lo sta prendendo in giro”. Cosa fa uno storico, a questo punto? Va a visionare i documenti, setacciare le fonti, vagliare le pezze d’appoggio citate nei libri e nei siti che parlano dei morti di Fenestrelle, e una volta constatato che di pezze d’appoggio non ce n’è nemmeno una, cerca di capire cosa sia davvero accaduto ai soldati delle Due Sicilie fatti prigionieri fra la battaglia del Volturno e la resa di Messina. Fa, in buona sostanza, quello che i giornalisti responsabili di questo tentativo di revisionismo storico non hanno fatto: cerca di trarre conclusioni adattando le teorie ai fatti, piuttosto che distorcere (o addirittura inventare) i fatti pur di adattarli alle proprie teorie. Nasce così, grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio di Stato di Torino e in quello dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma, il libro I prigionieri dei Savoia: che contiene più nomi e racconta più storie individuali e collettive di soldati napoletani, di quante siano mai state portate alla luce fino a quel momento. A quel punto si scatena sul sito dell’editore Laterza una valanga di violentissime proteste, per lo più postate da persone che non hanno letto il libro (da parte nostra, dubitiamo siano in possesso dei requisiti minimi per poterlo fare) e invitano a non comprarlo; proteste in cui, in aggiunta ai soliti insulti razzisti contro i piemontesi, il dottor Barbero viene “graziosamente paragonato al dottor Goebbels”. E arriva la querela, indirizzata in questo caso all’autore della recensione per il Corriere della Sera del testo di Barbero e alla stessa testata. La polemica monta, da parte neoborb capeggiata da giornalisti e blogger i cui titoli accademici restano – in larghissima parte dei casi – un mistero: Pino Aprile, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore tra i più noti, sostenuti e amplificati da portali social come I Nuovi Vespri e Terroni. Già, Terroni. Titolo del libro best-seller firmato proprio da Pino Aprile un decennio fa, Antico Testamento del neoborbonismo, dal quale è nata l’omonima pagina Facebook e al quale ha fatto seguito Carnefici (2016). Proprio con quest’ultimo il buon Aprile tenta di ampliare il discorso revisionista nato con Terroni, tentando di elevarne la dignità da giornalistica a storiografica. Ma in base a quali meriti Aprile tenta di inserirsi nel dibattito storiografico? Il curriculum parla da sé: perito industriale, dopo il diploma fa gavetta ne La Gazzetta del Mezzogiorno. Entra poi nel circuito accademico rivestendo incarichi in prestigiose facoltà e firmando pubblicazioni destinate a cambiare i canoni di studio della Storia? No, diventa vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, firmando rotocalchi in cui appaiono soubrette, conduttrici tv e donne di successo, sempre il meno vestite possibili. Ci sono poi giornalisti come Angelo Del Boca, ex partigiano novarese (autore di una torrenziale produzione dedicata principalmente ai presunti crimini di guerra del Regio Esercito, punteggiata da un notevole numero di errori storici e una selezione faziosa delle fonti, ma anche di testi nei quali viene data per certa l’idea – lo ribadiamo: smentita in toto dalla storiografia – di Fenestrelle antesignano di Auschwitz), e il giornalista Gigi Di Fiore, che ne I vinti del Risorgimento per primo ha inaugurato il falso mito di Fenestrelle lager. Proprio Barbero ha smontato, nel testo sopracitato, tutte le teorie complottiste (e quando scriviamo tutte, intendiamo esattamente ciascuna di esse) partorite da Di Fiore e rapidamente divenute mistificazione. Come? Fondando lo scritto sui documenti d’archivio, sull’esame incrociato di una valanga di fonti (non soltanto custodite presso l’Archivio di Stato di Torino) e sulla ponderazione storiografica delle stesse (non tutte le fonti hanno pari dignità: nessuno studierebbe, ad esempio, la storia romana post augustea basandosi sugli scritti di Svetonio, notoriamente poco attendibili). Altra eminenza del movimento neoborb è Gennaro De Crescenzo, anch’egli giornalista. I testi di De Crescenzo tentano, ben più dei trattati di propaganda di Aprile, di fornire documentazione su cui fondare e reggere le teorie del movimento, pur di presentarle come verità storiografiche all’uditorio più analfabeta dell’abc storiografico. Ma che, in realtà, quando non riportano vere e proprie fake news distorcono i fatti pur di adattarli a un fine propagandistico tutto politico (l’articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno in data 6 giugno 2019 reca un titolo in questo senso emblematico: “La carica dei neoborbonici. «Nostre liste alle Regionali. Ci vorrebbe uno come Zaia»”). Persino ottimi trattati circa la condizione del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dell’unità (ne citiamo uno: Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo di Renata De Lorenzo, direttrice dell’Archivio storico per le province napoletane, membro del corpo docente del Dottorato in Storia della Società europea dell’Università Federico II, del Centro interdipartimentale di Studi di Storia comparata delle società rurali in età contemporanea del medesimo ateneo, del comitato scientifico della Rivista italiana di studi napoleonici e del comitato di redazione di Napoli nobilissima, del consiglio di presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano e dal 2007 della giunta del Dipartimento di Discipline storiche, socia dell’Accademia pontaniana di Napoli e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli) sono stati oggetti del tentato revisionismo di De Crescenzo (ammesso sia in grado di revisionare alcunché). Come osservato da Marco Vigna, “il grosso delle obiezioni di questo signore è viziato alla base da un errore radicale: De Crescenzo replica a ciò che De Lorenzo non ha scritto”. Il testo di De Crescenzo, edito – ironia della sorte – a Milano, non lo menzioneremo nemmeno: non siamo inclini alla pubblicità gratuita. Ciò che accomuna i due autori, nonché gli adepti di quella che nel tempo si è strutturata come una vera e propria religione antistorica (e passeremo a spiegare il motivo), è una forma di retorica del primato. A sentir loro la felix Borbonia era, prima dell’Unità Nazionale, paradiso perduto in Terra: “terza” potenza mondiale (come da più parti invocato, e non sappiamo in base a quali parametri) e all’avanguardia nei progressi tecnologici, legislativi e culturali (come mai un reame tanto avanguardistico si è fatto sconfiggere da un manipolo di garibaldini, accolti a braccia aperte da una popolazione evidentemente ignara della bontà dei suoi sovrani?). E proprio con il fine di dimostrare la fondatezza di queste tesi vengono invocate vere e proprie bufale storiche. Non le enunceremo: non è questa la sede. Ma la redazione de L’Indygesto ha fornito un compendiato ed efficace contributo al web, del tutto adatto anche a coloro che di storia s’intendono poco o nulla, che invitiamo a consultare. Ma, per coloro che volessero approfondire la materia senza addentrarsi nella più complessa letteratura accademica, il libro di Tanio Romano (messinese: dovrebbe essere superfluo, ma onde evitare accuse di negazionismo poiché del Nord lo specifichiamo) La grande bugia borbonica, edito a Lecce nel 2019, può essere d’aiuto. Come sapientemente ha scritto lo storico Lorenzo Terzi, gli scritti neoborb impiegano, più che il vocabolario della storiografia, toni e figure retoriche caratteristiche del linguaggio propagandistico e pubblicitario: “Tanto Aprile quanto De Crescenzo, infatti, conferiscono alle loro dissertazioni un carattere aggressivo e polemico del tutto immotivato – per giunta, condito da un’ironia alquanto greve – sicuramente incompatibile con un discorso storiografico di natura scientifica. Gli stessi avversari cui di volta in volta indirizzano i loro strali hanno contorni indefiniti: non si capisce se gli autori se la prendano con un generico Nord, con non meglio identificati politici meridionali oppure con altrettanto indistinti accademici. Ciò che importa a entrambi, infatti, non è tanto argomentare, ma suscitare un’intensa eco emotiva in un lettore già predisposto ad ascoltare i contenuti da loro veicolati. Il neoborbonismo quindi – pur richiamandosi ideologicamente, per definizione, all’antico – dimostra tuttavia di saper fare leva con indubbia abilità su dinamiche cognitivo-relazionali in tutto e per tutto contemporanee, caratteristiche dello spazio del web, come quelle che i sociologi della comunicazione hanno definito echo chambers. Nella rete, per come oggi è strutturata, si creano delle sfere ideologiche abbastanza impermeabili, dove rimbalzano idee tra loro simili che si fanno eco reciprocamente: «Il risultato è un progressivo rafforzamento di tali sfere, sempre più estranee al dissenso e sempre più consolidate nelle proprie convinzioni». Non c’è spazio, in questa strana forma di balcanizzazione del pensiero, per le logiche rassicuranti del dibattito pubblico, basate sul confronto, sul dissenso, sul dialogo e, in definitiva, sulla partecipazione. D’altra parte, l’uso di artifici retorici volti a sollecitare l’emozione, e non il ragionamento, di un ipotetico lettore, è presente sin dal titolo della pubblicazione seriale comprendente il saggio di De Crescenzo. «Altre fonti», «altre storie», «altro che “meridionali analfabeti”»: l’iterazione dà più forza all’aggettivo magico «altro». I sottintesi emergono con chiarezza: vi sarebbero, dunque, risorse inedite di conoscenza che, una volta riportate alla luce, permetterebbero di ricostruire una storia, per l’appunto, altra (e, va da sé, vera) veicolo di riscatto e di orgoglio nel presente. Da questa impostazione paralogica emerge un corollario alquanto preoccupante: chi non accetta il discorso neoborbonico e rivendicazionista è, perciò stesso, degno di riprovazione civile e morale. È un ascaro, un venduto e peggio”. Altro tratto che accomuna i due autori citati è l’impiego bizzarro e disinvolto delle fonti indirette, la cui attendibilità storiografica è sempre (non solo nel caso dei neoborb) da verificare. Perché? Perché le fonti indirette altro non sono che citazioni di passi reperibili su altri testi o addirittura nel mare magnum del web. E, nella bibliografia dei saggi di Aprile e De Crescenzo, compaiono quasi esclusivamente fonti indirette, che spesso e volentieri rimandano a loro stessi libri editi precedentemente. Un terzo ma non ultimo trait d’union dei due è il rigetto in chiave propagandistica di quanto sfornato dal mondo accademico. Il motivo va ricercato nel pubblico a cui il movimento neoborb si rivolge: un pubblico di cultura media, non specialistica, in grado di capire le coordinate storico-cronologiche del discorso, ma non di verificarne e, magari, contestarne assunti e conclusioni. Sempre Lorenzo Terzi osserva: “il fatto che l’ambiente definito con grossolana approssimazione accademico non sia disposto a riconoscere la fondatezza della narrazione dei neoborbonici non rappresenta per questi ultimi un problema. Anzi: ciò, semmai, costituisce per i simpatizzanti una riprova del loro essere controcorrente, anticonformisti, fuori dai giri di potere. Tutto questo poi si traduce, presso lo stesso pubblico, in una crescita esponenziale di credibilità: i neoborbonici sono coloro i quali raccontano, attraverso altre fonti, un’altra storia, mistificata, travisata o addirittura celata dalla cultura ufficiale. Qui la strategia neosudista gioca la carta della untold history, tipica di certo revisionismo: «non ci hanno mai detto che», «ci hanno nascosto che», «non sapevamo che»”. Ma torniamo a Barbero. La ragione della querela sta nella prefazione che lo storico torinese ha scritto per Fake Sud, libro di Marco Esposito recentemente edito. Barbero avrebbe la colpa di considerare “scellerate fantasie” le dichiarazioni dei neoborbonici, che avrebbero “reinventato, con informazioni false, la storia del Sud e dell’Italia influenzando la mentalità italiana e accendendo con mezzi immondi passioni violente”. A sentire l’ufficio legale da cui è partita la citazione in giudizio, e al quale De Crescenzo si appoggia, le affermazioni sarebbero calunniose non soltanto verso iscritti e simpatizzanti neoborbonici, ma anche verso i drammi vissuti da migliaia di soldati meridionali nella “fortezza-lager sabauda”. Negli ambienti “barberiani” del web si è paventata la possibilità di una controquerela per lite temeraria da parte del professore. Noi, nell’ambito giuridico, non ci addentriamo: Barbero farà ciò che reputerà più utile. Ma un’ultima considerazione ci permettiamo di fornirla. Altro che Barbero, a processo dovrebbero andarci i neoborbonici: per malafede, circonvenzione d’ignoranti e vilipendio alla Storia. Nonché alle vittime dell'Olocausto, puntualmente asservite alle voluttà di vanagloria di qualche scarto della cultura che conta in cerca di fama. 

Il razzismo, Gramellini, Barbero e altre questioni (meridionali).  Da parlamentoduesicilie.it. Su “La Stampa”, in pochi giorni, una serie di interventi significativi. Gramellini ha definito “borbonico” quel prefetto che rimproverava un sacerdote per un “vizio di forma”. Dopo l’episodio increscioso del giornalista piemontese della Rai che “assecondava” il razzismo contro i napoletani “che puzzano” e in risposta a Saviano che aveva ricordato l’antichità del bidet “borbonico” (sconosciuto in Piemonte), lo stesso Gramellini sottolineava la mancanza di fogne a Napoli con il popolo costretto a vivere “nella melma” a quei tempi. Qualche giorno prima, invece, Alessandro Barbero, autore di un libro in cui si sarebbe ricostruita la verità sul carcere di Fenestrelle e sui soldati napoletani deportati durante l’unificazione, continuava a definire “mistificatori”, “inventori ai limiti dell’impudicizia” e “strumentalizzatori con fini immondi ” coloro che ricordavano quei caduti meridionali o quella che lui definisce la “leggenda della Borbonia felix”.  Come premessa e ricordando anche la storia, bisognerebbe sempre verificare e distinguere chi attacca da chi si difende (i Piemontesi che ieri invasero il Sud e oggi gridano sugli stadi e i meridionali che reagirono e reagiscono per difendersi).  Secondo Barbero non si può “impunemente stravolgere il passato, reinventarlo a proprio piacimento per seminare odio e sfasciare il Paese”. Premesso che grazie a studi sempre più documentati e diffusi quelle relative ai primati borbonici sono tutt’altro che leggende (cfr. i dati archivistici a nostra disposizione o gli ultimi studi del CNR, della Banca d’Italia, dell’Istat o della belga S. Collet in merito ai livelli di industrializzazione, del Pil o delle finanze del Sud pre-unitario, pari o superiori a quelli del resto d’Italia); premesso che i Borbone furono tra i primi in Europa a costruire un sistema fognario o un sistema idrico urbano e agricolo e che Napoli fin dal  Quattrocento era “pavimentata” (altro che “melma”) a differenza delle altre città italiane, qualche domanda potrebbe essere utile. Si è proprio sicuri che commemorare i soldati napoletani deportati e caduti (1, 100 o 1000 che siano e Barbero, dati archivistici alla mano, nel suo libro non risolve affatto la questione) sia più pericoloso di quei cori razzisti e impuniti degli juventini o degli stessi cori che spesso ascoltiamo da decenni ai raduni della Lega (vera fucina di “invenzioni” come la “padania”) o di certe scelte che da 150 anni penalizzano il Sud con questioni sempre più drammatiche e irrisolte? Si è proprio sicuri che 150 anni di retorica risorgimentalista che ha cancellato i saccheggi e i massacri subiti dalle popolazioni meridionali (senza l’intervento “chiarificatore” di alcun prof. Barbero di turno) abbiano reso un buon contributo alla costruzione dell’identità italiana? Sconcertanti, del resto,  i passi del suo libro in cui si riportano (senza alcuna “pietas” e con uno stile presumibilmente somigliante a quello di un funzionario sabaudo) numerosi episodi di razzismo contro i nostri soldati reduci da migliaia di chilometri di viaggio tra offese e insulti terribilmente somiglianti a quelli degli stadi di oggi (“sporchi”, “luridi”, “puzzolenti”)… E se il Sud si fosse finalmente e veramente stancato di quei cori, di offese e di umiliazioni che durano da un secolo e mezzo, partono da quei soldati, passano per le curve, arrivano nelle redazioni di tv e giornali e, troppo spesso, fino alle stanze di parlamenti e ministeri? E se fosse naturale e ovvia una reazione di fronte a chi ci definisce “borbonici” con disprezzo o che scrive che eravamo “nella melma”, “puzziamo” e abbiamo dei “fini immondi”? E se i “terroni”, i “neoborbonici” o i “meridionali” stessero davvero ritrovando il loro orgoglio perduto per troppo tempo?

Prof. Gennaro De Crescenzo - Commissione Cultura - "Parlamento delle Due Sicilie"

Aprile: Hanno paura della memoria. L’autore di “Terroni” contro gli storici. Un gruppo di docenti aveva promosso una petizione per fermare l’iniziativa della Regione che vuole istituire la giornata in ricordo delle vittime meridionali dell’Unità. Pino Aprile 26 luglio 2017 su Il Corriere del Mezzogiorno. Altro che Lea Durante, roba da dilettanti, siamo all’uso «proprietario» e politico della storia, teorizzato da Alessandro Barbero, sull’onda degli storici «sabaudisti»: scegliere cosa narrare e farne miti fondanti, per formare patrioti. Quindi è pedagogia, politica; nessuna meraviglia, che la storia «non scelta», la raccontino altri. Il popolo vota (bene, male, come gli pare: è il difetto della democrazia, pur così malmessa); i rappresentanti eletti votano (bene, male, eccetera); sul Giorno della Memoria delle vittime dimenticate (e diffamate: guai ai vinti!) dell’unificazione d’Italia con saccheggi, stupri e genocidio, gli eletti dicono sì, all’unanimità o quasi, in Basilicata, Puglia, una mezza dozzina di Comuni, e la Campania stanzia 1,5 milioni di euro in manifestazioni, studi, approfondimenti. Al che, altri eletti (nessuno li ha votati, forse si ritengono tali) ordinano al presidente della Puglia di ignorare il voto a loro sgradito; non «finanziare alcun momento pubblico» (clandestino, invece sì?) dell’iniziativa voluta dal parlamento regionale; non consentire che di storia si parli nelle scuole (da «non coinvolgere in alcun modo»), se non come deliberato da lorsignori. Scusate, le orecchiette con le cime di rape: l’alice sì o no? Metti che uno si sbagli e parta una petizione... «Diremo agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione italiana?», scrivono i firmatari della petizione. No, perché, scusate, voi ancora raccontate che il Regno delle Due Sicilie era arretrato e sono arrivati i civilizzatori a dirozzarli, distruggendo le fabbriche o mandandole in rovina dirottando gli appalti al Nord, rubando l’oro delle banche e sterminando centinaia di migliaia di «arretrati», quindi poco male...? Leggete cosa scrive il ministro Giovanni Manna al re, rapporto sul censimento 1861, sul fatto che mancano 458mila persone, per la «guerra», rispetto al totale atteso; leggete, archivio Istat, con tabelle, i padri della demografia unitaria, Pietro Maestri e Cesare Correnti, sul fatto che, appena arrivati i piemontesi, al Sud, la popolazione, che cresceva più che nel resto d’Italia, smette di farlo e diminuisce di 120mila unità in un anno; o Luigi Bodio, capo della statistica, archivio Istat, sui 110mila giovani, quasi tutti terroni, renitenti alla leva, tutti morti, o «clandestinamente» emigrati (peccato che non si trovino...); o dei 105mila terroni, tutti maschi, scomparsi («emigrati» pure loro?). Leggete dei 600mila incarcerati nel ‘61, dei 400mila ancora nel ‘71, riferisce il di Rudinì, in Parlamento, della mortalità nelle carceri che arrivò al 20 per cento; dei deportati, almeno 100mila, di cui 20mila, denunciò il Maddaloni, nel solo 1861. E dopo aver tacciato quali «fantasiose ricostruzioni», «leggende», «fole» le ricostruzioni degli eccidi sabaudi al Sud, ora che non si riesce più a negarli, ci è offerta come «onestà intellettuale» l’ammissione che «gli storici devono fare di più per portare alla luce e spiegare e stigmatizzare i numerosi episodi di violenza a carico delle popolazioni meridionali». E già, in 156 anni è mancato il tempo... Han dovuto dircelo gli storici stranieri, come Denis Mac Smith, che ci furono più mort’ammazzati (per il loro bene, si capisce) per annettere l’ex Regno borbonico che in 11 anni di guerre di indipendenza contro l’Austria. Ed è ancora uno straniero (temibile neoborbonico?), il professor John Anthony Davis («Napoli e Napoleone»), università del Connecticut, fra i maggiori studiosi della nostra storia di quegli anni, a dirci che la favola dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie fu «inventata» da Bendetto Croce, per giustificare le condizioni sempre peggiori in cui precipitò l’ex Regno divenuto «Sud», dopo le amorevoli cure unitarie. Lo dimostrano gli studi dei prof Paolo Malanima e Vittorio Daniele, del Consiglio nazionale delle ricerche, di Stephanie Collet dell’università di Bruxelles, dell’Ufficio studi della Banca d’Italia (Carlo Ciccarell e Stefano Fenoaltea), di Vito Tanzi (Fondo monetario internazionale). Ma bastavano Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, unitarista deluso, quando scoprì che «questi sono più porci dei peggiori porci nostri», Gramsci che parla del Sud «colonia». Inutile l’ottimo ciclo di studi ricordati, su queste pagine, dal professor Saverio Russo (che ne fu un protagonista), sull’inconsistenza della vulgata «miseri e arretrati», o del professor Luigi De Matteo («Noi della meridionale Italia»), dell’Orientale di Napoli; eccetera. Il Regno delle Due Sicilie non era più povero del Nord (più o meno stesso reddito) né arretrato (il doppio degli studenti universitari del resto d’Italia messo insieme; le fabbriche più grandi della Penisola; addetti all’industria più numerosi di oggi). Ma fosse stato economicamente indietro del 15-20 per cento, come arditamente sostenuto di recente (con riaggiustamenti successivi, però...) da un poi fortunato titolare di cattedra in «Tutta colpa del Sud»: quale affare avremmo fatto, se in 156 anni siamo precipitati al 56 per cento del reddito medio del Nord, 3-4 volte peggio? Ci vuole coraggio a spacciare questo per unità (ma non prendono treni lorsignori, non hanno figli in partenza per altrove, mentre Milano forse si fotte l’ennesima mammella, un’Authority europea, dopo l’Expo-mafia, Human Technopole eccetera sempre con soldi pubblici?); a pensare di liquidare tutto come «propaggini estreme di un meridionalismo “piagnone” e rivendicazionista» (e ci trovate pure qualcosa da ridere?) o nominando tutti «neoborbonici» sul campo, «sanfedisti», faccia buia della luminosa medaglia di quei giacobini che presero a cannonate i loro concittadini, per consegnare il Paese a un esercito straniero, che lo spogliò di tutto, massacrando (il solo generale Thiebault) 60mila persone. Discutiamo delle idee, ma pure del prezzo di vite altrui che si è disposti a pagare per imporle a chi non si riesce a convincere. Ma che paura fa il Giorno della Memoria? Saranno convegni, dibattiti, manifestazioni... E cosa impedisce a chiunque, in civile confronto (sempre che non sia proprio questo che inquieta), di esporre dati e opinioni cui si attribuisce maggior fondatezza? Dovreste esser lieti di una possibilità così succulenta di sbugiardare il branco di...? di...? «Neoborbonici»! Evvai (ma che palle!). Invece di virare sulla paura che si alimenti «l’inconsapevole sentimento antiunitario contro il leghismo del Nord». Mentre non fa paura il consapevole (dimostrato e gridato) sentimento antiunitario della Lega Nord contro il Sud. Se no una petizione l’avreste fatta. Mi sbaglio? Lea Durante ha mai promosso petizioni per adeguare la rete ferroviaria (tutto a Nord, nulla a Sud) con o senza alta velocità (o è revanscismo neoborbonico?). O contro l’esclusione, da parte del ministero dell’Istruzione, di poeti e scrittori meridionali, pur se premi Nobel, dai programmi di Letteratura del Novecento per i nostri licei? No? Eppure son 7 anni che si fanno raccolte firme, proteste di istituti scolastici, interrogazioni parlamentari. O contro la normativa che «premia il merito» degli atenei che sorgono nelle regioni più ricche e condanna a morte prossima quelli meridionali?

O contro i criteri in base ai quali la salute di un terrone vale meno di quella di un settentrionale? (A meno che i firmatari, non abbiano taciuto per non parer «piagnoni» e «revanscisti»). La cultura faccia ponti non fossati, professoressa. Il Giorno della Memoria serve a discutere. Chi ne ha paura, teme di non aver da dire o quel che può esser da altri detto. Ma quanne ‘na cose niscune te la vo’ di’, allore la terre se crepe, se apre, e parla.

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020 su Il Nuovo Sud.it.  

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). UNA SCELTA DOLOROSA MA NECESSARIA (E MOTIVATA). “Non ci interessano strategie, giochini o compromessi: la nostra storia va rispettata. Punto”. I motivi per cui non consiglierò ai miei amici di comprare FAKE SUD di Marco Esposito si legano alla prefazione di Alessandro di Barbero e anche a tanti contenuti del libro stesso. In premessa dobbiamo ringraziare gli autori di libro e prefazione perché concedono molto spazio ai neoborbonici, evidentemente preoccupati o stimolati dal successo delle loro tesi (se qualcosa non ci preoccupa, non ci interessa o la si ritiene inutile, non se ne parla o almeno non se ne parla con questa frequenza o con certi toni). Ognuno è libero di scegliersi i firmatari della sua prefazione (e anche di pubblicizzarli con le fascette sui libri) ma forse è meno libero di consentire offese e insulti anche personali nelle stesse prefazioni. Si tratta, in realtà, delle solite offese rivolte da Barbero ai neoborbonici (non solo nostri simpatizzanti o collaboratori ma migliaia di persone e tutto il mondo che ruota intorno al seguitissimo “neo-meridionalismo”) fin dalla uscita del suo libro che cercava di negare o ridimensionare i drammi vissuti dai soldati delle Due Sicilie a Fenestrelle (e confermati da diverse domande “archivistiche” che posi a Barbero anni fa e alle quali non ha mai risposto e che saranno confermati in pieno da un libro di un coraggioso accademico e in uscita nel prossimo inverno). Non ho mai offeso personalmente Barbero e nell’unico confronto che ho avuto con lui, di fronte alle sue risatine mentre io parlavo di quei poveri soldati morti di freddo e stenti, oltre a tante osservazioni sul piano storico-archivistico, mi limitai ad osservare che forse le distanze tra noi non erano solo storiografiche. Dalla quantità degli insulti che ci ha rivolto in questi anni (mai ricambiato) e anche in questa prefazione, devo pensare che forse quella mia osservazione dovette colpirlo, anche se ricordo la cortesia dei saluti e addirittura l’idea che qualcuno gli aveva proposto (quella di scrivere un libro insieme). Evidentemente, visto che è stata quella l’unica occasione di incontro, avrà ripensato a quella serata, ne avrà rivisto il video e il ricordo non deve essere positivo (al contrario di quanto posso dire io). Detto questo, da anni abbiamo rinunciato a incarichi, a guadagni facili e a seggi elettorali e stiamo perdendo (altro che “mezzi” o fini “immondi”) tempo e denaro nelle nostre vite sottraendolo a noi e alle nostre famiglie e non possiamo consentire a nessuno insulti gratuiti personali o alle migliaia di persone che da anni ci seguono con rispetto e affetto. Non ci interessano le reazioni “infuriate” (esistono degli ottimi rimedi anche naturali) e non ci interessano neanche le strategie politiche o pubblicitarie e, anche se si tratta di famosi docenti onnipresenti in tv, ci tuteleremo e tuteleremo i nostri tanti iscritti e simpatizzanti in ogni modo e con ogni mezzo (legale, democratico e civile). Detto questo, è opportuna un’analisi per illustrare i (tanti) motivi per cui questo libro non ci convince. In premessa devo ammettere una mia mancanza: non ho mai letto una premessa così carica di astio e rancore in un libro che per giunta parla di “pendoli” e di necessità di moderare i termini dei confronti. E se la scelta di Barbero (dopo le tante e innumerevoli offese rivolte ai suoi “oppositori”) poteva essere un’idea pubblicitaria (al netto delle ovvie critiche nel nostro “mondo”, lo stesso contro il quale si rivolge spesso Barbero e che magari poteva acquistare il libro di Esposito), quando l’autore e l’editore hanno letto il testo forse avrebbero potuto avere qualche dubbio… Ve lo riportiamo. “Prefazione di Alessandro Barbero. Si tratta dell’insieme di scellerate fantasie che il movimento neoborbonico ha messo in circolo dalla fine del secolo scorso reinventando da cima a fondo la storia del Mezzogiorno d’Italia e dell’Unità d’Italia […], qui si tratta di influenzare la mentalità collettiva del nostro paese e si accendere passioni violente sulla base di informazioni false […]. Altrove ho scritto di un fine immondo e mi correggo: sono i mezzi che sono immondi” […]. Marco Esposito è stato troppo rispettoso di persone come Pino Aprile o Gennaro De Crescenzo (anche se io per primo, avendoli incontrati entrambi, riconosco che fra i due c’è una bella differenza di statura umana […]; c’è da provare ripugnanza […]; si tratta di primati tragicomici e di buffonate dei neoborbonici”. E se Esposito scrive a Pino Aprile che le sue (presunte) fake danneggiano la parte buona del resto dei suoi libri, potremmo dire lo stesso di Esposito di fronte a queste parole. Ma andiamo avanti con il resto dei contenuti. Solo una nota a cui tengo: Barbero, forse sbagliando parola, parla di “statura umana” e io, con tutto il rispetto e pur nei miei limiti, con il mio 1.78 credo di essere più alto sia di Barbero che di Pino Aprile…

La base del libro è “l’errore del pendolo” e cioè gli eccessi antimeridionali e gli eccessi meridionali anche se per contestare i secondi Esposito contesta le tesi dei neoborbonici. La motivazione in sostanza è “dobbiamo essere infallibili se vogliamo essere credibili”. Bene chiarire, forse, che non esistono ricerche e tesi infallibili. Facciamo qualche esempio. Tra i primi che mi vengono in mente c’è la proposta secessionista di Marco Esposito che (Barbero lo sa?) qualche anno fa il giornalista del Mattino sintetizzò nel libro “Separiamoci”, un progetto forse anche estremistico sul piano del diritto italiano e nel quale mai nessun neoborbonico si era mai avventurato. Qualche anno prima, sempre per fare un esempio, il successo relativo del suo progetto di moneta alternativa come assessore a Napoli (nome non molto felice: il “Napo”) o il suo progetto elettorale con percentuali non superiori allo “zerovirgola”. Nessuno, però, a differenza di quanto Esposito fa nel libro lamentandosi per la mancata autocritica di Pino Aprile o per la mancanza della dichiarazione di qualche correzione (e neanche delle correzioni) magari nell’elenco dei primati, ha mai pensato di chiedere a Esposito autocritiche o “dichiarazioni di omessa dichiarazione di integrazione di un primato”… Nel libro una serie di dati puntuali che conosciamo bene anche per i numerosi articoli e per gli altri libri che Esposito ha scritto sulle sottrazioni di fondi a danno del Sud e anche su diverse bugie che circolano in merito a sprechi e inefficienze da queste parti.

Quello che però più sorprende è il fatto che Esposito metta sullo stesso piano l’eventuale errore del “terzo posto industriale” (neanche del sottoscritto ma di diversi altri autori o semplicemente di tante persone su facebook) e oltre un secolo e mezzo di fake, di cancellazioni, di mistificazioni e umiliazioni contro il Sud. Da un lato, allora, una storia ufficiale che in maniera monopolistica, con tv, giornali, università e case editrici e anche libri di scuola di ogni ordine e grado ci racconta le (vere) fake di Garibaldi&Garibaldini o di un Sud arretrato e inferiore con le conseguenze culturali e anche politiche ed economiche che il libro stesso evidenzia, dall’altro un gruppo di storici volontari e autofinanziati che ha tirato fuori storie cancellate con le conseguenze (positive) che hanno e potranno avere. Ma per Esposito siamo tutti uguali e il pendolo vale per loro e per noi. È grave per lui, allora, che qualcuno abbia tirato fuori la storia del “terzo posto” (secondo i suoi dati forse era sesto o settimo) ma non che qualcun altro non abbia mai parlato delle industrie del Sud pre-unitario. Ci convince poco anche la motivazione di tutto questo (la potremmo pure condividere ma il rischio della retorica e della pre-sunzione è troppo alto): “potremmo tornare ad essere un modello armonico di esistenza”. E allora la sensazione è che “l’errore del pendolo” non sia dei neoborbonici o dei neomeridionalisti ma di… Esposito che non si è accorto che quel pendolo era spostato tutto da una parte da oltre 150 anni.

“Se quei primati vengono esaltati oltremodo l’operazione di riscatto della memoria dei neoborbonici da necessaria diventa perniciosa”: peccato che quei primati siano oltre 150, che quelli “integrati” e aggiornati” nel libro siano solo sette e che per 150 anni di quei primati non si conosceva l’esistenza e non ricordiamo libri di Esposito che ne abbiano mai parlato e neanche libri nei quali abbia difeso il Sud dalle umiliazioni di tutta la storiografia italiana. Notiamo oggi (anzi) un Esposito tutto intento a calcolare i metri cubi della Reggia di Caserta per dimostrare che non è la reggia più grande (ed è costretto a riconoscere che il primato è riportato anche dal sito della Reggia) o con il vocabolario di tedesco per dimostrare che la prima cattedra di economia era in Germania e non a Napoli (eppure bastava dare un occhio alla Treccani) o a confrontare gli elenchi di primati sul sito dei neoborbonici (2005) con il mio libro del 2019. Tante le pagine dedicate ai moti del 1820 e al “primo parlamento a suffragio universale” (omettendo le critiche che i Nitti o i Croce rivolsero contro quei moti carbonari-massonici ed etero-diretti), uno dei pochi primati borbonici anti-borbonici (il Borbone, per accordi internazionali e, resosi conto delle reali intenzioni dei rivoluzionari, bloccò tutto). Esposito insiste anche con una vecchia tesi della storiografia ufficiale a proposito della implosione del Regno ma Esposito non cita altre fonti: fu sempre Croce, come riportato da un recente libro di Gigi Di Fiore, ad evidenziare che si trattò di una caduta “per urto esterno” e libri recenti e documentatissimi dimostrano che si trattò anche in quel caso di una operazione etero-diretta.

Per Esposito, poi, è “vomitevole” (aggettivo non proprio moderato e tendente a quella armonia vagheggiata in altre pagine) la storia divulgata (sul web e sui social!) dei “10 o 15 anni di chiusura delle scuole del Sud dopo il 1860”. A questo proposito cita anche il sottoscritto quando riporto i dati del più alto numero di iscritti all’università. Qui cita il mio (“bel”) libro sui primati ma forse non lo avrà letto tutto perché in quel libro e in altre mie pubblicazioni il dato degli iscritti è solo uno dei tanti elementi portati come “prove” (archivistiche) relative alla falsità dei dati del censimento del 1861 (in testa quelli del Fondo Ministero Istruzione a Napoli e quelle successive degli Annuari). Sono quelle le fonti che dimostrano la chiusura di un numero enorme da un notevole numero (oltre 6000) di scuole presenti nelle Due Sicilie fino alla nefasta applicazione della legge Casati (che Esposito cita senza analizzarne le conseguenze). In questo caso Esposito dimentica anche di completare la lettura del libro di Daniele che pure cita in più passaggi: in particolare non riporta i dati relativi al numero di scuole presenti nelle Due Sicilie (in media con quelle del resto dell’Italia).

Surreale il capitolo relativo alla deportazione dei meridionali in Patagonia progettata dallo stato italiano: nel corso dell’intervista inserita nel libro Barbero in un primo momento nega questa possibilità ritenendola una “leggenda neoborbonica” e di fronte a diversi documenti accetta in parte la tesi ma con un suo strano distinguo che applicò anche ai prigionieri di Fenestrelle: quei progetti “per atterrire le nostre impressionabili popolazioni” non erano pensati per i meridionali ma per tutti gli “italiani” perché dal 17 marzo 1861 eravamo tutti italiani… Per Barbero, allora, le decine di migliaia di meridionali deportati con la legge Pica e ritrovati (nomi e cognomi) negli archivi dell’Italia centrale e settentrionale sono una fake news (peccato che Esposito non l’abbia inserita nel libro)…

Schema simile sempre a quello seguito da Barbero anche quando “Fake Sud” affronta il tema di Fenestrelle usando “la parte per il tutto”: per Esposito Di Fiore “ha scritto prima ‘in tanti morirono in quelle prigioni’ per poi correggersi (già negli Ultimi giorni di Gaeta) dicendo che ‘per loro il ritorno a casa non fu semplice’ e poi riconoscendo che non fu persecuzione scientifica”. In realtà, leggendo bene e conoscendo bene i libri di Di Fiore, non risulta affatto questo “climax” suggerito in maniera quasi subliminale da Esposito: in Nazione Napoletana (successivo agli “Ultimi giorni”), a proposito dei campi di prigionia sabaudi, Di Fiore scrive di “migliaia di militari rinchiusi” e anche “a centinaia non fecero più ritorno”. Stesso schema quando cita il prof. Gangemi e i suoi documentatissimi studi di prossima pubblicazione: si parla solo dell’errore di Barbero sui 1200 soldati (forse erano 1300) e non delle pluriennali ricerche archivistiche con le quali Gangemi dimostra la morte a Fenestrelle e altrove di diverse migliaia di soldati. Proprio su Fenestrelle i passaggi forse più (in negativo) significativi: abbracciando in pieno le tesi barberiane, Esposito sostiene che non era un lager, che non c’era la volontà di sterminare i soldati napoletani ma (giuriamo che la frase è proprio questa) “semmai l’ingenua pretesa di inquadrarli rapidamente nel nuovo esercito nazionale”. Non possiamo non evidenziare l’aggettivo “ingenua” riferito a quella scelta che, pure ammesso che la volontà iniziale non fosse lo sterminio, stride con le condizioni di quei viaggi e di quelle prigioni ritenute infernali per decenni. A parte il fatto, poi, che l’idea della “rieducazione” rievoca spettri impronunciabili, a parte il fatto che avrebbero potuto anche evitare de-portazioni a oltre 1000 km e a oltre 1200 metri di altezza (magari “rieducandoli” nelle loro zone di origine), a parte il fatto che dal numero di ospedalizzati, di morti, di fughe e di rivolte avrebbero potuto dedurre che forse non era il caso di insistere per tanti anni (e ben oltre quel 1862-data semi/fake usata da Barbero per chiudere le sue ricerche con lacune che saranno presto evidenti nel libro di cui sopra), a parte il fatto che Esposito avrebbe potuto chiedere lumi a Barbero in merito ai misteri di quei 40.000 soldati attestati a Fenestrelle non dai neoborbonici ma dai Carabinieri nel loro museo in epoca fascista, Esposito si risponde da solo quando, nella stessa pagina, scrive che “la maggior parte di quei soldati rifiutò [di essere inquadrata nel nuovo esercito] avendo giurato fedeltà a Francesco II”. Qui Esposito, però, non si chiede e non chiede neanche a Barbero quale fosse la sorte di quei soldati visto che non volevano essere rieducati e inquadrati e i sabaudi volevano “solo” rieducarli e inquadrarli. Forse, allora, a Fenestrelle non c’era un cartello con la scritta “campo di sterminio” ma quel forte lo diventò e non fu neanche l’unico caso.

Da notare anche qualche “distrazione” come quando riferisce ai neoborbonici la tesi “con 7 secoli di storia potevamo dirci neogreci, neoangioini o neoaragonesi” ma (senza leggere il testo riportato da circa 20 anni sul sito dei neoborbonici e limitandosi a cercare la notizia dal web) ci ricorda che i secoli, “partendo dai Greci sarebbero 28” (io ho scritto 3 libri sulla storia di Napoli e non ho mai parlato di “7 secoli”).

Nel libro contro le fake anche un’altra mezza fake: quella secondo la quale in Italia nessuno emigrava fino al 1860. Esposito forse non ha letto i testi che attestano emigrazioni consistenti (tra gli altri) di Comaschi, Genovesi e Parmigiani con cronisti che arrivarono a parlare di “fanatismo migratorio” (G. Goyau, M. Porcella, F. Bellazzi, G, Calzolari, tra gli altri).

Non è affatto vero, poi, che Aprile “peraltro non ha fatto alcuna ricerca diretta ma ha riassunto con toni vivaci quanto è stato scritto sul tema dal 1993 in poi” (Aprile non inserisce note ma riporta nei testi le sue tante fonti frutto anche di ricerche complesse) e non è vero che Terroni “riassume gli errori e le inesattezze della storiografia fai-da-te” e che “Pino Aprile cade in fallo” perché sottovaluterebbe il fatto che “anche un solo scivolone rischia di inquinare il resto” (e fa l’esempio –sbagliato- di Fenestrelle che non era un luogo di sterminio) e non è accettabile neanche l’altra tesi su Aprile: da un lato, infatti, Esposito scrive che con il suo Terroni “sempre più meridionali si sono liberati del senso di minorità”, dall’altro, però, in virtù della sua mancata “autocritica”, “chi legge quel libro prende per buone tutte le affermazioni e qualcuno anzi, come in un gioco al rialzo, si attiva in rete e magari aggiunge altro di suo e il rischio è che l’informazione inesatta o esagerata abbia l’effetto della mela marcia e spinga a buttare l’intera cesta”. Ovvio che Aprile non possa rispondere di quello che fanno i suoi lettori (se scrivo che Mertens non ha giocato bene non sarà colpa mia se qualcuno gli buca le ruote del motorino) così come… scagli la prima pietra uno scrittore infallibile.

Surreale la denuncia della fake news relativa alla frase di Bombrini (“I meridionali non dovranno più essere in grado di intraprendere”) perché, premesso che io nei miei libri non l’ho mai usata (amo le fonti da quando mi specializzai in archivistica), se è vero che (finora) non c’è una fonte che la documenti, è altrettanto vero (e lo specifica poche righe dopo) che Bombrini fece una lunga e articolata serie di scelte che potrebbero essere sintetizzate in maniera esemplare in quella frase, come attestano le eccezionali ricerche del grande Nicola Zitara. Dopo oltre un secolo e mezzo di silenzi omertosi e colpevoli (e dannosi) sulle politiche antimeridionali uno slogan e una locandina su facebook possono essere più efficaci di 100 libri soprattutto se sintetizzano una loro intrinseca e profonda verità.

Surreale anche un’altra delle tesi del libro: “non siamo ancora in un tempo pacificato”. Esatto. Ma per il motivo contrario: qui al Sud, nell’opera di ricostruzione di identità e di liberazione dal senso di minorità, siamo ancora all’anno zero e semplificazioni o anche e addirittura esagerazioni (legittime dopo 150 anni di umiliazioni) sono più che mai preziose. E forse abbiamo ancora più bisogno di orgoglio che di “maestrine con le penne rosse” pronte a bacchettare questo o quel passaggio (è un lusso che, forse, ci potremo permettere tra qualche anno). A meno che qualcuno non pensi che questo processo sia già concluso (e non è concluso affatto, come dimostrano le politiche antimeridionali di questi anni e che nel libro sono anche sintetizzate). A meno che qualcuno non pensi che questo processo non serva (e allora, forse, non ama davvero il Sud e non vuole davvero risolvere le questioni meridionali) e non ci meraviglieremmo molto se questo libro (soprattutto per le parti nelle quali in fondo sostiene che “è tutta colpa del Sud”) avrà molti spazi televisivi e giornalistici e venderà le sue brave copie… E magari in questo tipo di discorso rientrano anche certi titoli (quello più adatto, in questo caso, forse, era un più equilibrato e coerente con i contenuti “Fake Sud e Nord”, così come all’epoca “I prigionieri dei Savoia” di Barbero poteva far pensare ad una denuncia delle malefatte sabaude).

In conclusione (evitiamo di ripetere la formula usata da Barbero per iniziare la sua prefazione perché non riusciamo a capirla bene: “Nella conclusione a questo libro Esposito racconta…”), non possiamo non rilevare che Esposito forse per la prima volta parla del passato in un suo libro e ha scelto una strada (secondo il nostro parere personale) non del tutto felice, sia per la scelta della prefazione (e dei toni) che per diverse notizie riportate nel testo. Di fronte a oltre 150 anni di bugie (quelle sì tutte contro il Sud), di fronte a quei “400 gruppi facebook antimeridionali” (quelli sì carichi di un razzismo pericoloso), di fronte all’avanzare di una Lega (sempre) Nord (quella che condiziona non la “mentalità” ma la politica da decenni, quella che porta in giro odio vero e simboli di personaggi storici medioevali inventati sui quali, però, non ci risultano, ad esempio libri, articoli e premesse “infuriate” di Barbero che tra l’altro è anche medioevalista), di fronte all’avanzare di quel “partito unico del Nord” (che non si è mai messo e non si metterà mai a cavillare sui suoi aderenti e a cercare vie politicamente corrette), pur lusingati dallo spazio e dall’importanza attribuitaci in questo libro, ci auguriamo che il prossimo libro di Esposito e Barbero possa evitare di offendere o andare a cavillare tra libri e siti neoborbonici rivolgendo le loro attenzioni altrove (un altrove molto vasto a partire magari da tante storie-fake risorgimentali).

Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020

·        Andrea Camilleri.

LO SCRITTORE SICILIANO. Camilleri, le figlie: «Foto e scritti inediti nella cantina di casa». Andreina e Mariolina raccontano a Rai News 24: «C’è anche il suo primo tentativo di racconto: confluirà tutto nel «Fondo Camilleri» che aprirà al pubblico in primavera».  Redazione online su il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2021. Garage e cantina restituiscono le carte intatte di Andrea Camilleri. Faldoni originali, foto di scena, privato. Una scoperta per le figlie del «papà» del commissario Montalbano, l’amatissimo scrittore siciliano scomparso due anni fa: «Abbiamo ritrovato un uomo affascinante e intelligente» dicono in esclusiva a RaiNews24. «Papà ci aveva chiesto di recuperare il suo materiale, ma la cosa che ci ha dato grande gioia è stato trovare tanti documenti, tanti scritti e di riuscire a raccontarglielo perché lui era ancora in vita quando abbiamo cominciato a trovare veramente un tesoro», dicono Andreina e Mariolina. Un tesoro in cui rientrano anche tanti inediti: «Un giorno gli abbiamo detto Papà abbiamo trovato Sweet Giorgia Brown - raccontano le figlie di Camilleri - e lui ci disse mamma mia avete trovato il mio primo tentativo di racconto, quindi lui era felice e questa cosa per noi è una gioia immensa ma anche una responsabilità grande».

Il Fondo Camilleri aprirà in primavera

Andreina e Mariolina raccontano che tutto il tesoro ritrovato confluirà nel «Fondo Camilleri» in costruzione, disegnato dall’architetto Simone di Benedetto, ma già riconosciuto dalle istituzioni di interesse storico. Aprirà al pubblico in primavera per studiosi, appassionati e per le scuole. In anteprima e in esclusiva a RaiNews24 sono stati mostrati i taccuini di un Andrea Camilleri adolescente, rilegati da lui stesso, sugli stati d’animo e le agende con gli impegni - leggeva un libro ogni due giorni - e ancora le prime poesie definite «assai buone» da Elio Vittorini e tra le tante cose il documento originale di una vera richiesta per la concessione di una linea telefonica che diventerà la storia di un romanzo di documenti. A RaiNew24 sono stati raccontati anche aneddoti che rivelano un po’ dell’animo di Camilleri, come la storia di «Giudizio a mezzanotte», commedia che ha sempre raccontato di aver lanciato giù dal finestrino mentre rientrava a casa da un viaggio a Firenze per un premio: le figlie però hanno trovato in cantina cinque copie del romanzo, smentendo di fatto il racconto del papà.

I racconti giovanili

Quattro racconti giovanili di Andrea Camilleri sono stati invece ritrovati non molto tempo fa nell’archivio de «L’Ora». Si tratta du storie di mare e di ritorni, che Camilleri scrisse a 24 anni e che con sua stessa sorpresa, qualche tempo dopo averli spediti in redazione, lesse sulla terza pagina del quotidiano palermitano. Era il 1949. Pubblicati una volta e poi mai più. Fino a finire tra i suoi testi considerati sparsi, perduti. Per poi tornare alla luce, dopo più di mezzo secolo e venire ripubblicati la scorsa estate sulla pagina Facebook «L’Ora. Edizione straordinaria».

Le figlie di Camilleri scoprono “inediti” del padre Andrea. Redazione tfnews.it il Dicembre 6, 2021. E venne il giorno in cui, Andreina e Mariolina Camilleri,  le figlie del “papà”  del Commissario  Montalbano, il protagonista degli episodi di una delle fiction più amate e seguite dai telespettatori, fanno una straordinaria, inattesa e preziosa scoperta. ”Abbiamo ritrovato un uomo affascinante e intelligente” – dicono in esclusiva a RaiNews24 – Papà ci aveva chiesto di recuperare il suo materiale, ma la cosa che ci ha dato grande gioia è stato trovare tanti documenti, tanti scritti e di riuscire a raccontarglielo perché lui era ancora in vita quando abbiamo cominciato a trovare veramente un tesoro“, rivelano Andreina e Mariolina. Un tesoro in cui rientrano anche tanti inediti: “Un giorno gli abbiamo detto ‘papà abbiamo trovato Sweet Giorgia Brown’ – raccontano le figlie di Camilleri – e lui ci disse ‘mamma mia, avete trovato il mio primo tentativo di racconto…quindi lui era felice e questa cosa per noi è una gioia immensa, ma anche una responsabilità grande”. Andreina e Mariolina raccontano che tutto il tesoro ritrovato confluirà nel “Fondo Camilleri” in costruzione, disegnato dall’architetto Simone di Benedetto, ma già riconosciuto dalle istituzioni di interesse storico. Aprirà al pubblico in primavera per studiosi, appassionati e per le scuole. In anteprima e in esclusiva a RaiNews24 sono stati mostrati i taccuini di un Andrea adolescente, alla fine degli anni ‘930, rilegati da lui stesso sugli stati d’animo e le agende con gli impegni: leggeva un libro ogni due giorni e ancora le prime poesie definite “assai buone” da Elio Vittorini e anche il documento originale di una vera richiesta per la concessione di una linea telefonica che diventerà la storia di un romanzo di documenti.

A RaiNew24 sono stati raccontati anche aneddoti che rivelano un po’ dell’animo di Camilleri, come la storia di “Giudizio a mezzanotte“, commedia che Andrea Camilleri ha sempre raccontato di aver lanciato giù dal finestrino mentre rientrava a casa da un viaggio a Firenze per un premio, ma le figlie hanno trovato in cantina cinque copie del romanzo, smentendo di fatto il racconto del papà.

·        Andy Warhol.

"L'uomo è una macchina sessuale": così spararono a Andy Warhol. Angela Leucci il 3 Giugno 2021 su Il Giornale. Valerie Solanas sparò a Andy Warhol il 3 giugno 1968: il movente, lungi dall'essere ideologico, è apparso da sempre di tipo personale. L’ultimo piano del Museo di Capodimonte a Napoli si apre con un’immortale opera della pop art dedicata a un simbolo italiano e partenopeo: il Vesuvio. L’ha realizzata Andy Warhol, padre appunto della pop art e genio creativo della Factory in cui confluirono in maniera assidua oppure occasionale personaggi come Nico (Christa Paffgen) e i Velvet Underground, i Rolling Stones, Bob Dylan, Allen Ginsberg, Salvador Dalì e Amanda Lear, Truman Capote. Warhol dipinse il Vesuvius (anzi un Vesuvius, dato che ne esistono diverse versioni) conservato a Capodimonte nel 1985, ma potrebbe non averlo realizzato. Non lo avrebbe fatto se nel 1968 fosse morto a causa di un attentato alla sua vita organizzato dalla femminista Valerie Solanas. Attentato che fallì, sebbene l’artista rimase sempre scioccato dall’avvenimento e alcuni ex giovani della Factory avrebbero sempre pensato a Solanas con risentimento.

Chi era Valerie Solanas. Valerie Solanas è stata una scrittrice e una femminista vissuta tra il 1936 e il 1988. La sua storia precedente al 1966 è un po’ fumosa, perché il grosso che si sa su di lei si ha a partire dai suoi primi scritti. Sopravvissuta a numerosi abusi sessuali da parte del padre, andò via di casa adolescente e visse attraverso gli Stati Uniti con mezzi di fortuna, fino a che nel 1966 giunse a New York, nel cuore del Greenwich Village.

Lo Scum Manifesto. “In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l'automazione globale e distruggere il sesso maschile”. È l’incipit di quella che è forse l’opera più celebre di Valerie Solanas, lo “Scum Manifesto”. Si tratta di un pamphlet femminista, espresso attraverso ironia e iperboli che in realtà è spesso stato frainteso dagli intellettuali a lei contemporanei. È difficile dire se l’inversione dei generi di cui parla Solanas e la violenza contro l’uomo faccia parte integrante del femminismo della seconda ondata oppure sia solo un divertissement letterario per suscitare una reazione forte nel lettore. “Scum Manifesto” contiene per esempio degli elementi lungimiranti di critica sociale, ma fu appiattito sulla violenza che scaturì da un episodio della vita di Solanas. In altre parole, quando Solanas sparò a Warhol, Solanas divenne solo quella che sparò a Warhol, quella che voleva eliminare il genere maschile. D’altra parte gli aforismi di Solanas, presi in sé per sé, non raccontavano favole con coniglietti e farfalline allegri in mezzo ai prati: “Definire un uomo come un animale è fargli un complimento - scriveva in Scum - L’uomo è una macchina, un vibratore ambulante”.

L’attentato a Warhol. La domanda che ci si deve porre nell’attentato di Solanas a Warhol è: qual era il movente della femminista? Secondo la vulgata principale, non ci fu niente di davvero ideologico in ciò che accadde - e che riporta lo “Scum Manifesto” in un’ottica meramente letteraria. D’altra parte qual era il seguito effettivo di Solanas, che trascorse la sua vita in solitudine o in carcere dopo quell’avvenimento? L’avvenimento in questione risale al 3 giugno 1968. Solanas giunse al quarto piano della Factory, così almeno racconta una canzone di Lou Reed, e sparò all’artista e al compagno dell’epoca, Mario Amaya. Warhol, ferito gravemente, lottò tra la vita e la morte, ma riuscì a sopravvivere anche grazie agli sforzi medici, anche se l’evento lo scosse profondamente. Tanto più che successivamente Solanas fu autrice di ulteriori episodi di stalking ai suoi danni. Solanas, all’atto dell’arresto dopo l'attentato, affermò che Warhol avesse “troppo controllo” su di lei. Il rapporto tra Solanas e Warhol era nato l’anno prima nel 1967: i due si erano incontrati e a prima vista, provando stima reciproca, pensarono di poter collaborare tra loro. Solanas diede all’artista un suo testo teatrale, che però poi Warhol affermò di aver perduto, ingaggiando, a titolo di risarcimento, la femminista a sua volta per un ruolo in una propria opera teatrale. Solanas è stata celebre per ben più di un quarto d’ora, utilizzando un’espressione cara a Warhol, eppure la sua figura è ancora inafferrabile. “La funzione della femmina è quella di stabilire rapporti, godere, amare ed essere se stessa, e questo la rende insostituibile. La funzione del maschio è produrre sperma, e oggi abbiamo banche di sperma”, scriveva Solanas sempre all’interno di “Scum Manifesto”. Ma, senza l’attentato a Warhol, la sua sarebbe rimasta una provocazione su carta, tramandata ai posteri come accade per qualunque altro libro del passato.

Nell’immaginario collettivo e pop. Dopo la morte di Warhol nel 1987, Lou Reed e John Cale, le due anime dei Velvet Underground che si erano sciolti da anni, tornarono a collaborare su un concept album dedicato a quello che per loro fu in un certo senso un maestro, una guida. Il risultato fu “Songs for Drella”, all’interno del quale c’è il brano “I Believe” che ripercorre appunto l’attentato di Solanas. “Credo ci sia qualcosa di sbagliato se lei è viva ora”, scriveva Reed di Solanas, che morì nel 1988, un anno dopo Warhol. Nel 1996, Mary Harron girò un biopic sull’argomento, “Ho sparato a Andy Warhol”, con Lily Taylor e Jared Harris nel ruolo di protagonisti. Non proprio un biopic ma molto interessante è l’esperimento di Ryan Murphy con un episodio di “American Horror Story: Cult”. Qui Solanas è interpretata da Lena Dunham, mentre Warhol è l’attore feticcio di Murphy Evan Peters. Solanas viene ritratta accanto al suo manipolo di femministe, più due uomini omosessuali, uno dei quali la tradisce pagandone il prezzo: la teoria fantasiosa ventilata nell’episodio della serie è che in realtà Solanas con le sue accolite fosse il killer Zodiac. E che Solanas fosse stata tradita fino alla fine dalla cultura patriarcale: i delitti di Zodiac, ancora insoluti, sono infatti attribuiti a un uomo.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Giuseppe Videtti per “il Venerdì di Repubblica” il 9 aprile 2021. Colto, egoista, motivato, instancabile, determinato, frivolo, pettegolo, egocentrico, manipolatore. Spietato? Naturalmente. Non c'è cultura più spietata di quella che Andy Warhol (1928-1987) ha messo in moto. La nuova Arte. "Una volta che "entri" nel pop, non puoi più guardare un cartellone pubblicitario nello stesso modo di prima. Una volta che cominciavi a pensare pop, non potevi più guardare l'America nello stesso modo di prima. Ne eravamo sicuri, stavamo contemplando il futuro. Vedevamo gente che ci camminava dentro senza saperlo perché i loro pensieri erano ancora nel passato. Il mistero era scomparso, ma la meraviglia era appena cominciata". Così scrive Warhol con Pat Hackett in POPISM (pubblicato per la prima volta nel 1980 e oggi riedito da Feltrinelli), il più interessante dei suoi tre libri (gli altri: The Philosophy of Andy Warhol e The Andy Warhol Diaries), perché è quello che meglio fa intuire la sua (vera?) natura; intelligenza acuta a caccia frenetica di uomini e cose per foraggiare le sue idee. Il quarto d'ora di celebrità era lo specchietto per le allodole, la strizzatina d'occhio a quelli che intuiva avessero i numeri per ridefinire - come sensali, mai come protagonisti - il concetto di arte, che dopo di lui sarebbe diventato "altro". Warhol se ne sbatteva di quel quarto d'ora, puntava all'eternità. Nessuno riesce in un'impresa del genere senza guardare dritto davanti a sé, usando il meglio di quel che gli si para intorno, noncurante delle reazioni, delle fragilità, delle conseguenze. Marketing, comunicazione, linguaggio, vita sociale, musiche, film, progetti grafici, impaginazione, fotografia, lettering, arredamento; le discoteche, i ristoranti, le boutique, le vetrine e persino le confezioni degli alimenti hanno ancora la sua firma (anche senza copyright). S'intuisce che l'aveva giurata anche al potentissimo gallerista Leo Castelli che, all'alba dei Sessanta, gli aveva preferito Roy Lichtenstein. In realtà la sua rabbia nessuno l'ha mai documentata; la vendetta la serviva a base di indifferenza, che fa ancora più male (come si sentiva Valerie Solanas quando in quel cruciale 1968 gli sparò, senza ferirlo a morte, nell'atrio della Factory?). La pop art era troppo giovane e ai galleristi non era ancora chiaro il concetto "you know your culture from your trash", la tua cultura si vede dai rifiuti, per dirla col Peter Gabriel di Steam. Dice bene Alessandro Carrera nella prefazione: "Da POPISM i lettori non verranno a sapere la 'verità' ma leggeranno come Warhol l'ha voluta raccontare, come ha voluto giustificarsi e anche, tra le righe, come ha voluto tacerla. Mai fidarsi di Andy Warhol. Criticatelo finché volete, ma non c'era altro modo di sopravvivere al tritacarne dei meravigliosi, crudeli anni Sessanta. O mentivi, o morivi". Non è Warhol a sublimare la grande bugia e santificare la grande illusione, a costo di martirizzare il popolo della Factory (cantanti, musicisti, registi, scrittori, socialites, fotografi, giornalisti: Interview è un mensile tuttora in edicola, ancora molto bello), fulminati e schiavizzati dalla sua personalità? "Non mi imbarazzava chiedere: 'Che cosa dovrei dipingere?'. Perché il pop viene dal mondo esterno, e dove sta la differenza nel chiedere idee a qualcuno invece che cercarle in una rivista? C'era gente che ostentava disprezzo se gli chiedevi una dritta; non volevano sapere niente di come lavoravi, volevano che tu mantenessi la tua mystique cosicché ti potessero adorare senza essere imbarazzati dai dettagli" scrive. Detto così sembra altruista e democratico. Ma alla Factory non regnava la fratellanza della Beat Generation. Andy era a caccia di talenti e idee, ne aveva bisogno come un tossico della dose; nessuno l'ha mai visto al capezzale dei suoi divi malati, distrutti dalla droga, schizoidi, spiantati o dissociati. Che fosse la sua musa Edie Sedgwick o Lou Reed e Nico dei Velvet Underground, schiavi dell'eroina. Pietas e Pop hanno in comune solo le P. Nel 1961 già si fregava le mani sbirciando nei fenomeni di massa - all'epoca era la febbre del twist: "Andavamo alla Peppermint Lounge sulla 45th Street. Come titolava Variety, nuova "mossa" nella café society - gli adulti adesso vanno pazzi per il nuovo beat dei giovani". Ne aveva macinate di risorse umane quando vent'anni più tardi entrava da trionfatore allo Studio 54, più riverito e accreditato di Truman Capote. Il pop è un'arte che non ha segreti. Tutto in piazza. Se la riderebbe oggi di certe degenerazioni, social e reality. Lui che ha scritto un voluminoso diario in cui invece di raccontarsi ci mette al corrente della sua economia domestica - ricevute di taxi comprese. Più enigmatico del testo della canzone che David Bowie gli ha dedicato nell'album Hunky Dory. Alla sua mystique ci teneva, eccome!

·        Antonio Canova.

Estratto della relazione di Pierluigi Panza pubblicata da Dagospia l'11 novembre 2021. Nel 2022 si celebra l’anniversario del più grande scultore italiano dell’Ottocento, Antonio Canova, colui che nel 1815 riportò in Italia le opere d’arte sottratte da Napoleone. La Biblioteca di Bassano del Grappa conserva la più grande raccolta al mondo di documenti manoscritti di Antonio Canova, composta dal suo epistolario (6.658 lettere), dai quaderni di appunti e da altri scritti. Nella relazione di presentazione alla digitalizzazione presentata ai Musei civici di Bassano del Grappa da Pierluigi Panza, un capitolo è stato dedicato anche al rapporto tra il grande scultore e le donne. Ecco questa parte della relazione. “Omo senza lettere” si definiva Canova che, in realtà, ha scritto molto. Dalle lettere si definiva anche omo senza donne. Ma è proprio vero? L’argomento emerge soprattutto da lettere che si conservano presso altri archivi. “Moglie spero di non prenderla più, o almeno se lo dovessi fare la prenderei avanzata, per poter vivere sempre quieto ed attendere alla mia arte, che tanto a me che esige tutto l'uomo senza perdere un momento” scrive in una lettera a Giuseppe Falier il 20 dicembre 1794. Una donna in età avanzata (anziana), per non disturbarlo. E ancora: “Mi sembra impossibile che Lei si mantenghi ancora nella credenza ch'io sia amogliato, non lo sono, non faccio l’amore con ragazze nubili, e nemeno con maritate, anzi mi avanzo a dirgli che pocchi celibi viverano lontani dalle done come fo io”, scrive sempre al Falier il 2 marzo 1782, quando ha 25 anni! Ma è proprio così? No, ha avuto storie con donne. Una è la delusione amorosa di fine Settecento con Domenica Volpato, figlia dell’artista suo amico, una donna “che è una bellezza”, scrive. La quale, però, si dichiarò innamorata dell'incisore collega napoletano Raffaello Morgen. Poi c’è una tale Lauretta, lasciata prima della partenza a Roma nel 1779. Vi furono poi Delphine de Custine, nobildonna francese con la quale lo scultore intrattenne un carteggio densissimo, oggi diremmo una chat a sfondo sessuale e Juliette Récamier, considerata dal Canova bella “comme une statue grecque que la France rendait au Musée Vaticain”, ma la Récamier, alal fine, concesse la propria mano a Benjamin Constant. Su questo tema, l’archivio digitalizzato di Bassano del Grappa presenta anche tre lettere di Bianca Milesi a Canova (BCB, Epistolario Canova, VI.665.3929, 14/6/ 1816). Il salotto della Milesi era popolato da carbonari. Dalla Milesi Canova riceveva informazioni su Minette d’Armendariz, la sua donna più ricordata, alla quale era stato sentimentalmente legato nel 1812. Nella primavera del 1812, trovandosi a Firenze, Canova conobbe Minette Alavoine de Bergue, giovane di origine franco-tedesca: ci fu subito una tale corrispondenza di sentimenti che il barone spagnolo generale Armendariz si dichiarò disposto allo scioglimento della promessa matrimoniale. Ma Canova, al solito, tergiversò troppo e abbandonò i progetti matrimoniali. Lei si sposò e seguì il marito in Spagna. Canova, tuttavia, continuò a chiedere notizie di lei alla Milesi, che faceva da “tramite”, un po’ come quelli che oggi seguono sui social networks le storie delle loro ex.

Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 17 Dicembre 2021. Antonio Canova non era peccaminoso. In una lettera all'amico Giuseppe Falier del 2 marzo 1782 (quando aveva 25 anni!) scrive: «Mi sembra impossibile che Lei si mantenghi ancora nella credenza ch' io sia amogliato; non lo sono, non faccio l'amore con ragazze nubili, e nemeno con maritate, anzi mi avanzo a dirgli che pocchi celibi viverano lontani dalle done come fo io». Una tesi ribadita allo stesso dodici anni dopo (20 dicembre 1794): «Moglie spero di non prenderla più, o almeno se lo dovessi fare la prenderei avanzata, per poter vivere sempre quieto ed attendere alla mia arte, che tanto a me che esige tutto l'uomo senza perdere un momento». Dunque, il «peccato» al quale fa riferimento la mostra Canova tra innocenza e peccato al Mart di Rovereto (presieduto da Vittorio Sgarbi) da oggi fino al 18 aprile non sta nell'artista, ma negli occhi di chi guarda le sue opere, mentre la bellezza, potremmo affermare, è scolpita nel marmo. Non che Canova mai amò donna (ci sono Domenica Volpato, Delphine de Custine, Juliette Récamier), ma maggiormente amò plasmare creta e gesso con armonia, equilibrio e grazia e dunque in lui vive l'innocenza mentre il peccato va cercato nei posteri, che trasfigurarono quei nudi e quelle carni spogliandole della mediazione estetica che la sua mano aveva impresso. Ciò avvenne in maniera radicale nelle declinazioni dei linguaggi contemporanei, in particolare con lo strumento della fotografia. Osservando Canova (questo poteva essere anche il titolo della mostra) gli atei dietro l'obiettivo spogliarono le statue del religioso artista di Possagno, al massimo ispirate a un paganesimo antico depurato da orge e baccanali. Alcune delle quattordici opere di Canova esposte sotto la grande cupola del museo progettato da Mario Botta sono dei notevoli gessi, come l'Endimione dormiente (1819), Amore e Psiche stanti (1800), la Danzatrice con mani sui fianchi (1810), la Venere Italica (1811) e la Maddalena penitente (1796) tutti provenienti dalla Gypsotheca di Possagno (presieduta da Vittorio Sgarbi). Più alcuni busti in marmo e tempere su carta. Ma il senso dell'esposizione non sta in queste ma nel dopo, ovvero nella ricerca di quali scultori e fotografi del Novecento hanno creato opere che si possono connettere - non direi ispirare - alla vasta produzione di Canova. Qui si spazia molto, dall'esplicitamente correlato all'accostamento di fantasia per similitudine o amicizia come nel campo vasto delle tassonomie secentesche. Il Tondo CanOvAuroborus di Luigi Ontani del 2017, per esempio, è un diretto omaggio allo scultore; l'Herma di Man Ray del 1971 può essere una evoluzione; gli Ecce homo di Ducrot del 2014 sono una connessione da costruire; le terrecotte di Ettore Greco sono esplicite riproduzioni di personaggi veneti scolpiti da Canova mentre delle copie postmoderne con inserti sono quelle di Fabio Viale, Fabio Novembre, Aurelio Amendola. La Venus Vertical Erosion di Massimiliano Pelletti sembra uscita dal galeone sommerso di Damien Hirst. Inoltrarsi nelle foto di nudo per vederci il «peccato» originato da Canova, come se in lui ci fosse un celato peccato originale, è facile come puro regarder ma più fragile dal punto di vista storico-critico. Qui la mostra si fa narrazione per episodi e dichiarati tradimenti. Le stampe di Luigi Spina sono dei Canova di scorcio che cercano «l'imperfezione» mentre quelle di Paolo Marton dei Canova neoallestiti. Se ci addentriamo nell'erotica d'autore troviamo Caino di Wilhelm von Gloeden, le stampe alla gelatina di Robert Mapplethorpe, quelle a getto d'inchiostro di Helmut Newton, il pre-porno anni Sessanta di Miroslav Tichy - che non credo abbia «riscritto il codice del corpo» - sino ai nudi di Roberto Bolle fotografato da Douglas Kirkland. Di certo, dopo Marinetti Canova è fatto prigioniero e alla sua ricerca del divino si è opposta una ricerca del terreno, dell'immaginario erotico. E così, travestiti, malformati, prostitute, mutilati, reietti, nani e storpi diventano il repertorio da film dell'orrore di Joel Peter Witkin, che ha vertice nel suo Portrait as a Vanite , un caravaggesco anticanova. Con le sue The Graces , tre transessuali mascherati con in mano il cranio di una scimmia, il viaggio intorno a Canova ci ha ormai portati nell'emisfero opposto a Possagno, dove ad attenderci ci sono il ceco Jan Saudek e Ilona Staller con l'amerikano Jeff Koons sul set di Made in Heaven . Il principe perpetuo dell'Accademia di San Luca non entrerebbe mai nella loro stanza da motel, ma l'Arte è sempre un «diventare arte» grazie a nuovi discorsi e quindi un Canova impertinente, vivo e scatenato forse c'è anche qui. Ciò significa che il «nuovo Fidia» fu un grande represso? Freud non c'era ancora e, quindi, ringraziamolo per i capolavori riportati in Italia nel 1815 e lasciamolo stare. Intanto, grazie alla vittoria di 784 mila euro dal bando del ministero della Cultura, alle soglie del duecentesimo anniversario della morte di Canova il Comune di Possagno, in collaborazione con il Museo Canova, si è aggiudicato le risorse per realizzare il progetto di «Restauro e digitalizzazione del complesso architettonico canoviano» sull'Ala Ottocentesca, fatta edificare dal fratellastro dello scultore, il bassanese Giovanni Battista Sartori, per ospitare le opere canoviane appositamente trasportate da Roma, sede di lavoro dell'artista.

·        Antonio De Curtis detto Totò.

Pasquale Chessa per “il Messaggero” il 12 aprile 2021. Che il principe di Costantinopoli Antonio de Curtis di Bisanzio, nato col solo cognome della madre 28 anni prima, avesse comprato la sua paternità dal nobile spiantato Giuseppe De Curtis più che come una diceria, «soffocata ma diffusa», funziona come un lampo al magnesio che illumina di verità la vicenda esistenziale di Totò. Sia stato un grande attore o invece una macchietta, un genio dell'interpretazione o invece una maschera inconsapevole, nella sua biografia Paolo Isotta lo eleva agli altari con un icastico San Totò.

SOPRANNATURALE. Succede, quando la cronaca attinge al sovrannaturale per sfidare la storia: nella canzone che lo consacrò grande e sublime, addirittura Lucio Dalla osa ricorrere a un paragone al limite della blasfemia: «... mi chiamo Gesubambino». Oltre alla fede sincera mescolata alla immaginazione visionaria, l'attrazione per il sacro, spingeva Dalla a cercare la verità delle sue origini nella santità: faceva credere, e forse nell'inconscio lo credeva, che il vero padre non fosse il signor Dalla andato a nozze con la madre a pochi giorni dalla sua nascita, quasi per aggiustare un qualche guaio indicibile, ma fosse nientemeno che Padre Pio. In subordine, però, si accontentava della paternità del sindaco di San Giovanni Rotondo, amico della famiglia di «mamma Jole», dopo che tutta la sua parentela si era trasferita nelle Puglie. Devotissima a padre Pio, lei lo voleva frate. Ma per i primi anni Lucio, che già a tre faceva il fenomeno con la fisarmonica, riuscì a diventare solo un discreto clarinettista jazz. Pieno di istinto, però poco dotato per lo studio della musica, con le mani troppo corte per suonare il piano, ci voleva un miracolo per farlo diventare una star. Facendo leva su quell'evento soprannaturale due cronisti di rango, Assante e Castaldo, consapevoli del posto che le canzonette occupano nella storia del presente, hanno ricostruito la biografia di Dalla individuando nella «bolognesità» un tratto peculiare del carattere italiano. Se sia stato padre Pio non si sa! Fatto sta che un giorno del 1963, l'anno di Sapore di sale quel jazzista un po' nano, troppo peloso, con una voce che non si poteva sentire, attirò l'attenzione di Gino Paoli che decise di farne una star a sua immagine e somiglianza. Non fu un miracolo semplice.

LA CENSURA. Ci volle appunto Gesubambino, nonostante quel titolo fosse stato censurato per partecipare al Sanremo del 1971. Con la sua data di nascita nel nuovo titolo, 4 marzo 1943, Dalla fa la magia: diventa un cantautore, come De Gregori o Battisti, De André o Tenco, sul filo di suggestioni che rimandano a Dylan...Così la bolognesità di Dalla, molto più della napoletanità di Totò, riesce ad aggiungere una tessera cruciale alla storia del carattere italiano. Alla prosa barocca e dionisiaca di Paolo Isotta non riesce la trasfigurazione della comicitità di Totò ridotta a una funzione consolatoria: «... aiuta la gente prendere la vita come viene e gliela rende più accettabile». Gli sfugge il miracolo di Pier Paolo Pasolini con Uccellacci e uccellini e ancora meglio nel piccolo capolavoro, Che cosa sono le nuvole, con Jago marionetta interpretato da un metafisico Totò. Il quale si troverà pure sulla lunghezza d'onda dei grandi classici della commedia greca e romana, da Aristofane a Plauto, sarà pure riuscito a trasmutare la Commedia dell'arte nella Rivista napoletana, ma non è mai riuscito a incidere nella storia del suo tempo al pari di Charlie Chaplin, dei tre Marx e Buster Keaton e nemmeno di Dario Fo.

Dal "Fatto quotidiano" il 7 marzo 2021. Quello di Paolo Isotta – il grande e “irregolare” critico musicale prima del “Giornale” e del “Corriere della Sera” e poi collaboratore del “Fatto Quotidiano” scomparso lo scorso 12 febbraio – per Totò è stato un innamoramento. E questo suo ultimo “San Totò” – in libreria per Marsilio da oggi – ne è la dimostrazione. Qui ne anticipiamo un brano. Il 15 aprile 1967, verso le tre del pomeriggio, scendevo a via Roma dal Corso Vittorio Emanuele attraversando i vicoli dei "Quartieri". Avevo sedici anni. Dai "bassi" uscivano donne in lacrime. Singhiozzavano. "È mmuorto Totò!". E s' abbracciavano per condoglianza, come quando un congiunto entra nel regno donde non si torna. Di quel pianto l' aria vibrava, come d' una nota musicale. In pochi minuti Napoli ne fu pervasa. Si estendeva dal Vesuvio a Posillipo ai Campi Flegrei. Appresi così che il mio idolo non c' era più. Come l' avevano saputo, quelle donne? Nei "bassi", sul comò, accanto al San Giuseppe o alla Madonna sotto la campana di vetro, c' era la radiolina a transistors dalla quale gli uomini, la domenica, seguivano la partita di calcio. Avvenne forse così. Di bocca in bocca si trasmisero il lutto. Era scomparso più che un congiunto. Era morto un Santo. Federico Fellini, restato col rimpianto di non aver mai girato un film con lui (ma la prima colpa era sua), l' aveva ribattezzato "San Totò" per la felicità da lui donata a tutti con la risata che imperiosamente suscitava. E anche quelli che si recano a venerarlo alla tomba di Santa Maria del Pianto a Napoli lo chiamano Santo Totò, gli rivolgono preghiere, gli chiedono grazie. Un' altra particolare testimonianza di devozione viene da un sommo artista, il direttore d' orchestra Giuseppe (Pippo) Patanè: il quale, una volta, in anni non sospetti, mi disse: "I più grandi italiani del Novecento sono stati Guglielmo Marconi, Luigi Pirandello e Totò" Due giorni dopo, il carro contenente la bara giunse da Roma prima delle cinque. I funerali si svolsero al Carmine. Dall' uscita dell' autostrada, per diversi chilometri, due ali di folla lo salutavano, gl' inviavano baci e fiori. Un tempo la basilica confinava colla spiaggia, l' acqua la lambiva. Posseggo un olio di Silvestr Scedrin, morto a Sorrento nel 1830, che la ritrae così. La facciata dà sulla piazza del Mercato. Lì, il 29 ottobre 1268, Corradino di Svevia e Federico d' Austria vennero decapitati per ordine di Carlo d' Angiò. Attendevano l' esecuzione giuocando a scacchi. Quindi, oltre ch' esser intrepidi, avranno avuto la capacità di ridere. Colla sapienza dei morti, oggi sanno la natura anche tragica, oltre che sommamente comica, dell' arte di Totò; e hanno provato piacere che venisse loro unito per esequie. Dico natura tragica: ma non quando i registi gl' impongono parti apparentemente tragiche. La natura tragica è della maschera. L' orazione funebre pronunciata da Nino Taranto all' interno della basilica del Carmine può ascoltarsi "in rete". Lapidaria, commovente. Il grande Nino, del quale riuscii anche a esser amico, era in compagnia di Dolores Palumbo: una straordinaria attrice di prosa che Totò faceva lavorare soprattutto nella Rivista ed è poi immortalata in un ingrato, difficillimo ruolo di Miseria e nobiltà, oltre a esser stata fra le migliori scarpettiste del Novecento: vedere 'O scarfalietto per averne un' idea. Con un compagno di scuola, Fabrizio Perrone Capano, mi ci recai. In chiesa c' erano tremila persone, in piazza centoventimila. Fu il primo spontaneo convegno di massa del dopoguerra. Prima, c' erano le "adunate oceaniche". Esequie siffatte avevano ottenuto solo, avanti la Guerra, Enrico Caruso e Eduardo Scarpetta: quanto a partecipazione in percentuale, non forse quanto a numero di presenti. Dopo il 1945, i comizi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana. Ma quel giorno il popolo convenne da sé. La folla, che ondeggiava, si serrava e ci serrava, ci spaventò. Ci sentivamo soffocare e travolgere. Ebbi l' idea di entrare in uno dei moderni palazzi prospicienti il sagrato. Il portone era aperto. Bussai a un secondo piano e chiesi ospitalità. La padrona ci accolse con un sorriso della cortesia napoletana di un tempo. Il balcone era gremito: ci offrirono anche la sedia e il caffè. Dall'alto la folla pareva il mare quando soffia il libeccio. A un certo momento la cassa esce, portata a spalla, sormontata dalla sua bombetta, che Franca aveva già posta sul feretro per la camera ardente, ai Parioli. La infilano nel carro. Riescono a chiudere lo sportello: con molta fatica, ché tutti volevano baciare o toccare 'o tabuto, il feretro. Il carro è assalito. Prende la fuga. La folla lo insegue. Il finale di Totò a colori si ripetette da sé. Colla sua ultima recita Totò volle anche ribadire una verità estetica affermata, tra l' altro, da due eccelsi poeti, pur essi napoletani, Tasso e Marino: che la Natura imita l' Arte. Non possiamo che chiudere queste parole con una sentenza delle Metamorfosi ( III , 158-9) di Ovidio, origine di quelle barocche: la natura col suo ingegno aveva simulato l' arte. Ch' è una delle insegne del Barocco, stile al quale Totò, come Bernini, appartiene, e stile che incarna. Un Barocco funebre e inquietante, surrealista e marionettistico, come sovente è, col suo ossessivo culto della Morte e della Vita fra le quali non sempre distingui i confini.

 Stenio Solinas per “il Giornale” il 14 marzo 2021. È un' allegria malinconica quella che accompagna la lettura di San Totò (Marsilio, pagg. 302, euro 19), l' ultimo libro di Paolo Isotta, rivisto e corretto per il «si stampi» un mese prima della sua improvvisa scomparsa, il 12 febbraio scorso, a settant' anni da poco compiuti. Parlo per chi lo ha conosciuto e gli è stato amico, ché per il comune lettore il piacere sarà totale, pieno com'è il testo di annotazioni spiritose, aneddoti e sottolineature ironiche, divagazioni simpaticamente erudite fatte con l'uso di mondo di chi si muoveva fra arte, musica, cinema e letteratura come se fosse a casa sua. E forse fa parte dei segni del destino che Isotta se ne sia andato sottobraccio a Totò, perché, come sottolineava il primo, «la grande arte è sempre tragica», e come sottolineava il secondo «non c'è niente che provochi singulti di ilarità, assai maltrattenuti di fourire quanto un funerale, che è lo spettacolo della morte». Erano entrambi consapevoli che «la vita non si sceglie, si accetta», ovvero che «la felicità è un fatto di dimenticanza» e ciascuno a suo modo nel corso della loro esistenza le hanno stoicamente fatto fronte. Nel titolo c' è la chiave di lettura di un libro tanto singolare, nell' essere cucito addosso al suo autore, quanto universale nel rifarsi a un principe della risata. «Io son un uomo all' antica - scrive Isotta -, e credo solo nei Santi: e nemmeno in tutti... Per me Totò è un Santo: per l' altezza della sua arte, per la gioia da lui per decenni donata a milioni di persone: gente del popolo, piccola borghesia, poi persino alta, ma anche autentici reietti. Per essere riuscito, con la risata che suscitava, a far per un attimo dimenticare a tutti, non solo ai reietti, le loro tragedie... La comicità aiuta la gente a prendere la vita come viene e gliela rende più accettabile. Che altro fanno i Santi?». Deriva da qui l' altro elemento religioso, di una religiosità arcaica e pagana, della comicità di Totò che è, al suo massimo, di natura eversiva, nel suo contestare non solo la società borghese e le sue convenzioni, ma, come spiega Isotta, lo stesso «principio d' identità personale, che la realtà sia percepibile, forse anche che la realtà esista». È quello di Totò un portato che attraversa i secoli, dai Saturnali ai lazzi dei jongleurs sul sagrato delle chiese medievali alla Festa di Piedigrotta, «erede cattolicizzata di settembrini riti dionisiaci e priapei» e che altro non è se non l' incanalamento e lo sfogo di un' energia eversiva la cui repressione sarebbe non solo impossibile, ma altresì dannosa. Ne deriva che «l' arcaicissima essenza rivoluzionaria di Totò si trasforma in una forza di coesione sociale: e solo proveniendovi sillogisticamente possiamo comprendere una verità non piacevole da ammettere. Anche perché l' avrebbe compresa un senatore del primo secolo avanti l' era volgare, non un cretino odierno». E infatti, «Totò è stato uno degli artisti più perseguitati dalla Censura: ma dopo, non prima, del Regime». Il libro si divide in due parti: della seconda diremo dopo, ma la prima, «Tentiamo un ritratto», qui ci interessa perché oltre a essere «una flânerie in quell' universo che si chiama Totò», è anche una flânerie nell' universo Isotta. Si prenda la puntuale analisi intorno al costume tipico di Totò, un tight surreale e comicamente deformato, con la bombetta al posto del cilindro, le stringhe delle scarpe annodate a mo' di papillon, buono semmai per il «dinner jacket, vulgo detto smoking», al posto della classica cravatta lunga argentata, nera solo se la indossi un maggiordomo. Ecco come Isotta ci flaneggia intorno: «I parvenus (o pezziente sagliute) definiscono così, convinti di essere nel giusto, il loro semplice cameriere, sovente shrilankese... Il dinner jacket non è un abito da cerimonia (i cretini e i parvenus lo mettono alla prima della Scala), ma, come dice il nome stesso, un abito sottotono, che andrebbe indossato per le cene in famiglia senza pretese E non dico che camicie questi parvenus indossano al Sant'Ambrogio!». Di fronte alla prevedibile critica che si sta parlando di etichette di un secolo fa, quando c'era ancora il frack, quando il tight non era fuori moda, Isotta non demorde: «Non nego. Il punto è che i coglioni che mettono lo smoking a Sant' Ambrogio credono di stare in alta etichetta. In così alta etichetta che se si mettessero la giacca a quadrillets, le scarpe bianche e la paglietta non farebbero differenza». Isotta, «nei protratti e non rimpianti Sant'Ambrogio» di quando era il critico musicale del Corsera, «indossava sempre un fumo di Londra o un abito blu scuro». Ahimè, niente frack: «Sarei stato preso per un orchestrale; e sarei stato solo e quindi ridicolo».

Notazione finale: «Tutte queste cose me le ha spiegate in sogno il principe de Curtis». Si prenda poi l' analisi intorno a Peppino de Filippo, deuteragonista più che spalla di Totò, ovvero «il miracolo di un adattamento reciproco che nasce dall' intelligenza, dalla pratica, dal genio». Peppino creava alla pari con Totò, non gli porgeva le battute. «Quando in Totò, Peppino e la... malafemmina Peppino cancella col fazzoletto i suoi errori di scrittura e poi, sudando copiosamente, si asciuga collo stesso fazzoletto e si copre la faccia d' inchiostro, ci si può solo inchinare reverenti come di fronte al Padre e allo Spirito Santo». Peppino, dunque, non Eduardo, «un Pirandello dei miserrimi. Mi pare che nel 1981 un retore che ricopriva la più alta carica dello Stato nominasse De Filippo Senatore a vita. E infatti Pertini è stato il più retore (Scalfaro il più surrettizio; Cossiga andava rinchiuso tra pareti piumate) fra i nostri Presidenti. Pertini, a sentire la parola arte avrebbe messo mano al suo moschetto di partigiano. Eduardo De Filippo lo conosceva in quanto comunista: e per lui era ragione sufficientissima». Infine, la lingua isottiana, che non sfigura rispetto alla fantasia verbale e neologistica di Totò: «la teterrima via Santa Maria Antesaecula», «l'ineunda autostrada», «sorge un'osservazione», «ogni regola soffre eccezione», «siccome documentato», «similla», «accorsato», «allocato», «il gag», sempre al maschile, i «films» sempre con la esse finale, come d'altronde gli sketches...La seconda parte del libro, la più lunga, 200 pagine, è una minuziosa schedatura di tutte le pellicole, dal 1937 al 1966, che ebbero Totò come protagonista o ne videro la partecipazione. A leggerla, si capisce quanto Isotta abbia preso gusto nello scriverla, visto che gli riservava lunghe ore notturne dove, soffrendo d'insonnia, poteva se non altro dimenticarla ridendoci intorno e, si capisce da come alcuni testi comici di Totò siano stati riportati per intero, ridendoci sopra a crepapelle, come del resto è capitato al sottoscritto, per quanto li avesse visti, rivisti, stravisti al cinema o in televisione. Perché poi, come egli spiega benissimo, e come a lungo non capirono i critici, molti dei quali continuano ancora a non capirlo, Totò non è tanto un attore, ovvero un interprete, bravo e financo bravissimo, ma è una maschera a sé, con tutta la poliedricità e il genio che le sta dietro, e noi nei films è proprio questa che andiamo cercando, pellicola dopo pellicola, indipendentemente dai soggetti, dalle trame, dalle situazioni. Una maschera, ennesimo paradosso, che è poi la sua stessa faccia... Come osserva Isotta, «il patetismo dà sempre fastidio, ma quando si tratta di Totò è un vero errore di grammatica». Sotto questo profilo, l'adorazione isottiana per Che fine ha fatto Totò Baby?, di converso alla scarsa considerazione per Uccellacci e uccellini, rientra in quella comicità metafisica che fa tutt'uno con il teatro della crudeltà, dove il concetto di maschera eccede la misura stessa del bene e del male, è tanto radicale quanto assoluta. In una scena, nemmeno fra le più sadiche, Totò rompe a martellate la gamba rimasta sana di Pietro De Vico perché il risarcimento prevede la rottura di entrambi gli arti inferiori; in un'altra strozza una ragazza con una calza, parodiando d' Annunzio: «La calza è bella! La calza è buona! Tutta di calza ti voglio vestire!». A Totò e alla sua filmografia, Isotta si accosta con la stessa attenzione filologica riservata alle partiture musicali. Si prenda i due fratelli Caponi di Totò, Peppino e la... malafemmina. In realtà, ma pochi se ne sono accorti, i due all' anagrafe fanno Capone, «ma per via delle continue violenze da loro fatte all'ortografia, alla grammatica, alla sintassi, essendo loro due pronunciano il cognome al plurale, Caponi». «Che siamo noi», appunto. Continueremmo all' infinito, ma non si può. San Totò è il bellissimo libro sul principe della risata scritto dal principe della critica musicale, e non solo. E, come avrebbe chiosato il primo, «ho detto tutto».

Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 18 marzo 2021. È tornato Paolino Isotta, il mio amico Isotta, ce l'ho sulla scrivania, bello corpulento come sempre, com' era in carne e com' è ancora in carta, me lo guardo e averlo qui mi rassicura e mi intimidisce: per giorni ho avuto pudore ad aprirne le pagine, e ne avevo ragioni, perché è un Paolino non musicologo e non polemico, è un Paolino dolce e filiale, figlio di Napoli amata come nessuno ama più la sua città, figlio di Totò. Il libro che mi ha restituito il mio amico è infatti San Totò ( Marsilio, 302 pagine, 19 euro). Il principe Antonio de Curtis, in arte Totò (1898-1967). A destra, la copertina del libro di Isotta In gioventù mi ero dedicato al pianoforte classico e per questo a volte mi sono sentito titolato ad avvicinarmi alla sapienza di Isotta, venendo respinto non per sua volontà, ma perché le sue conoscenze erano così tentacolari e connettive che, più che maneggiare le sue evoluzioni intellettuali, sovente mi sono trovato a correre loro dietro. Questo libro, invece, mi è vicino perché a Paolino somiglia: è quello bagnato nel sugo partenopeo dell'aneddoto e della scaramanzia, nella parte sotto la cintura della religione, dove si venerano più volentieri i santi che Dio; questo sentimento passa attraverso il suo più nobile interprete, Antonio de Curtis. Totò ha rappresentato per Isotta il terzo volto delle sue passioni vernacolari che con la finezza dei poeti rigirava in aristocratiche: le prime due erano l'utero metropolitano di Napoli (che ha messo dappertutto nei suoi scritti) e San Gennaro, il quale tanto quanto Paolino stesso, è l'incarnazione catto-pagana di una città che per i suoi pensatori è puro spirito, lasciando il santo nella teca a sanguinare (ma poco e non sempre). Ho raccontato e ricordo di nuovo, perché è il profilo più acconcio che ne potrei fare, una scorribanda su uno scooter cui Isotta mi costrinse negli anni Ottanta, un giorno in cui ero stato mandato a Napoli per un articolo: Isotta venne a prendermi in stazione con la Vespa, mi obbligò a togliere l'orologio e partì come un matto. A un incrocio si mise a litigare con un altro scooterista insultandolo in un dialetto acrobatico e forbito, dandogli del voi, fino a che, del tutto spazientito, passò al tu e lo ricoprì di contumelie di argomento sessuale. Tanto quanto Isotta, che si trovò spesso a peregrinare nei sottoscala dei giornali nonostante o forse proprio a causa delle sue altezze letterarie e il suo divincolarsi dalle 'ndrine dei pensatori certificati, anche Totò fino alla morte fu oggetto di discriminazione da parte dell'intellighenzia che storceva il naso guardando le sue gag. Ma l'intellighenzia di solito non capisce niente delle cose non conformi alle convinzioni degli "intellighenti", e per non subire scivoloni di autostima le cestina. Questo libro, quindi, mentre parla di Totò, parla anche di Isotta, ma in fondo tutti i libri di Paolino hanno una vena nascosta di autobiografia. Il libro per i due terzi conclusivi è la compilazione critica di tutte le trame dei 97 film girati dal Sommo (Isotta dixit) dal 1937 al 1967, ma la prima parte è una sontuosa analisi dell'eredità che l'attore ha lasciato al mondo, compendiando in sé la tradizione occidentale della risata che ci è giunta da Artistofane e da Plauto sulle due sponde del Mediterraneo, passando per il dramma liturgico medievale di cui Totò e Peppino De Filippo sono stati selvaggi cantori gregoriani, maestri dell'improvvisazione, devoti e sulfurei dall'anima "mercuriale, fallica, acrobatica, ingovernabile". Sono le radici della comicità ritualizzata già nella preistoria analizzata da Lucrezio (lo scopo è l'irrisione che neutralizza il potere e anche la stessa realtà), sfiorata da Virgilio; e anche della facezia, e quindi a capofitto su Boccaccio e Molière. Totò, che porta in sé anche la tradizione teatrale dell'avanspettacolo vissuto prima del cinema, non ha i limiti del "personaggio": è universale, metafisico, è una "maschera". Isotta è tumultuoso anche quando, innalzando Peppino, la spalla perfetta, alle altezze che merita, ridimensiona il più celebrato fratello Eduardo: lo descrive come conservatore, «piccolo borghese cantore dei buoni sentimenti e della coesione sociale», mentre Totò è «antiborghese, anarchico e dadaista». Due Napoli che esistono e convivono contrapposte. Non è un caso che sia stato apprezzato e capito da Ennio Flaiano e da Mario Soldati, e non da Alberto Moravia e da Elsa Morante. La risata mossa da Totò, dice Isotta, è surreale, contesta «che la realtà sia percepibile, forse addirittura che la realtà esista», è una risata omerica e shakespeariana per grandezza, molieriana e pirandelliana quanto a sottigliezza. I napoletani che ancora oggi vanno in pellegrinaggio sulla tomba di Totò lo chiamano santo, e Fellini anche lo chiamava così, rimpiangendo di non aver mai girato, per sua colpa, un film con lui. Che altro fanno i santi, spiega Isotta, se non quello che ripeteva Totò, di essere lieto di aver fatto il comico perché la comicità aiuta la gente a prendere vita come viene e gliela rende più accettabile? L'attore deve essere «come il medico, deve andare dove lo chiamano, dove c'è bisogno di lui». Ma l'uomo de Curtis oltre il palcoscenico aveva una consapevolezza dolente della condizione umana, che nascondeva: «La vita non si sceglie, si accetta». «La felicità per me non esiste. Ci possono solo essere momenti in cui si dimenticano le cose brutte. La felicità è un fatto di dimenticanza». «Sopporto le disgrazie facendomi guidare dal raziocinio () arrabbiarsi non serve. Sarebbe come inveire perché piove o perché c'è il sole o perché si muore. La morte esiste come la pioggia e bisogna accettarla». Leggete dunque questo libro e convertitevi, soprattutto se non conoscevate Isotta e se non vi piaceva Totò. Rimedierete a queste due bestemmie "bianche" e vi farete due amici di Là, che è prudente: il primo per deliziosa conversazione e ottime letture, il secondo, soprattutto se vi toccherà l'inferno, per imparare subito ad allargare le braccia, fare spallucce e prenderla com' è.

·        Antonio Dikele Distefano.

Lo scrittore 28enne. Chi è Antonio Dikele Distefano, lo scrittore dietro la serie “Zero” di Netflix. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Antonio Dikele Distefano è uno scrittore e ideatore della serie Zero, in streaming su Netflix a partire da oggi. Un prodotto che debutterà in 190 Paesi. Lui dice sia un’avventura. Anche una storia d’amore: tra un ragazzo nero di periferia e una ragazza bianca del centro. Protagonisti italiani di seconda o terza generazione. Zero è un ragazzo con il potere dell’invisibilità, interpretato da Giuseppe Dave Seke. Dikele Distefano, 28 anni, è scrittore e sceneggiatore. È nato in Italia da genitori Angolani. Ha scritto cinque romanzi, due trasmissioni musicali, una rivista online, Esse, collaborazioni con la televisione per la rete Effe, e la serie Netflix Zero, per l’appunto. Dikele è il cognome della madre, Distefano quello del padre. Sua madre e suo padre sono fuggiti dalla guerra civile in Angola negli anni Ottanta. Sono passati dalla Repubblica Democratica del Congo e quindi sono arrivati prima in Svizzera e infine in Italia. Il 28enne è nato a Busto Arsizio e cresciuto a Ravenna. Poi a Cerignola e a Prato. I genitori avevano un afrikan market, un negozio di generi alimentari, Stella d’Africa. Anni duri: la famiglia è stata più volte sfrattata. A scuola Antonio Dikele Distefano andava male. Si è diplomato a malapena. A 18 anni leggeva e scriveva però. A farlo innamorare della scrittura e della lettura una ragazza. Ha cominciato a scrivere per lei dei lunghi post sui social network. Il suo romanzo d’esordio, Fuori piove dentro pure, passo a prenderti? Ha venduto in un anno centomila copie. Mondadori ne ha comprati i diritti. Poi sono arrivati Prima o poi ci abbracceremo, Chi sta male non lo dice. A 21 anni ha preso e si è trasferito a Milano. Appassionato di rap, “mi ha salvato la vita” dice. Zero è l’adattamento del suo romanzo Non ho mai avuto la mia età. Gli attori principali sono Dave Seke, Dylan Magon, Virginia Diop, Daniela Scattolin, Madior Fall, Livio Kone, Haroun Fall. Tutti di origine africana. “Voglio che i miei nipoti e i ragazzi della loro età possano ispirarsi a una figura che somigli a loro, senza doverla cercare in un altro paese o in un altro continente come ho dovuto fare io”, ha detto al settimanale Sette. “Il mio più grande desiderio è che un protagonista nero italiano verrà presto considerato normale. Per riuscirci bisogna far saltare gli stereotipi. La mia è una generazione sommersa, definita sempre in modo sbagliato: con difficoltà a parlare l’italiano, a integrarsi. Ma si tratta di ragazzi che conoscono tre lingue. Una classe di figli di immigrati non è una classe di stranieri, come si dice, ma di italiani. Occorre cominciare a raccontare la realtà per come è: complessa. Zero non è una storia di criminalità, ma un’avventura”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Anthony Burgess.

Davide Brullo per “il Giornale” il 27 maggio 2021. Anthony Burgess (1917-93) dormiva «alla malese», su una stuoia, sul pavimento, «si alzava prestissimo e scriveva velocemente... mai un pentimento, correzioni rarissime, a penna». I capelli erano un tributo al caos, la posa cinica; conosceva l' arte della fuga. Vedovo, nel 1968 aveva sposato l' amante, Liana Macellari, italiana, che gli faceva da agente. Era già l' autore di Arancia meccanica e quell' anno scelse di mollare l' Inghilterra, che stritolava i suoi sudditi con una tassazione stratosferica. Si trasferì a Malta. Le sue audacie non furono gradite. Nel 1971 passò a Roma, mentre il governo maltese gli sequestrava casa e libri. Nel 1975 passò a Montecarlo. Lì, nel 1978, lo incontra Renato Besana, che da Burgess ottiene due cose: un contratto per pubblicare i suoi libri con Editoriale Nuova (impresa che andrebbe ricordata e magnificata: di Burgess stamparono L' uomo di Nazareth, 1984&1985, Malesia! e il profilo su Hemingway) e la promessa di un incontro con Indro Montanelli. «Montanelli e Burgess si scrutarono e piacquero: per indole e per la profonda, inguaribile malinconia che entrambi recavano in sé». Burgess diventò una firma d' eccellenza del Giornale: Il diavolo nella bottiglia (che inaugura la collana «Gli Aurei» per De Piante Editore, pagg. 38, euro 20) ne è una testimonianza «alcolica». Partendo da una mera recensione, Burgess s' invola a declamare il genio dell' ubriachezza, del bere «come piede di porco per forzare la facoltà creatrice» (in particolare, come spiega Luigi Mascheroni in calce al libro, redigendo un repertorio di scrittori dionisiaci, Burgess preferiva l' Hangman' s Blood, «un cocktail ideato negli anni Sessanta... gin, whisky, rum, porto e brandy»). La collaborazione col Giornale durò dal 1978 al 1981: Burgess, l' ho detto, eccelleva nella fuga. Il grande scrittore preferì i soldi del Corriere della sera; con corrosiva eleganza Montanelli ghignò: «Ti auguro, caro Anthony, tutta la fortuna che non meriti». Noi ci auguriamo, piuttosto, che questa piccola scheggia libraria abbia il merito di far rieditare Burgess come conviene. Sintetizzato in Arancia meccanica il romanzo più venduto, non il più bello , Burgess, poligrafo selvaggio, ha scritto autentici, lividi capolavori (Gli strumenti delle tenebre, Il seme inquieto, Abba Abba), ora introvabili; diversi libri sono ancora inediti in Italia (Byrne, ad esempio, l' ultimo). In Inghilterra l' opera del sommo antipatico è gestita dalla International Anthony Burgess Foundation; l' anno scorso Carcanet ha raccolto in un tomo di oltre cinquecento pagine i Collected Poems di Burgess, che fu romanziere, poeta, critico, scrittore per il cinema, compositore (ha messo in musica, tra l' altro, le poesie di Thomas S. Eliot e l' Ulisse di Joyce, il suo maestro). Semplicemente, Burgess è inafferrabile, non può stare nei placidi piani culturali dell' editoria nostrana. Nel 1989, invitato a Venezia dal Parlamento Europeo, se ne uscì così: «la lingua comune all' Europa non può essere l' inglese, né tanto meno l' esperanto: bisogna lavorare per un ritorno al latino». La presero per una battuta. Era serissimo. E se ne andò.

·        Antonio Pennacchi.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it l'8 giugno 2021.  “Ex praecordiis ecfero versum” lo traduce in “dalle budella tiro fuori i versi”. Parafrasando il poeta Lucilio, anche Antonio Pennacchi più che la ragione o il cuore – che comunque non mancano – nei suoi libri riversa soprattutto quella condanna che sente di dover scontare nel raccontare. Non si diverte, anzi, ne soffre. Più soffre e più ne scrive. È una fortuna per noi, che abbiamo il privilegio di leggerlo. E anche di incontrarlo, visto che nonostante sia uscito con un nuovo e bellissimo romanzo, La strada del mare (Mondadori), ha scelto di non esporsi. Non certo in tv, perché «mi rifiuto di andare in quei teatrini, mi hanno rotto i coglioni» e quindi è sempre più appartato nella sua Latina, città di cui è il cantore attraverso le gesta dei Terruzzi, che in larga parte è la storia della sua famiglia, che l’hanno fondata strappandola alla palude malarica dopo l’emigrazione degli anni ‘30. Per questo ci confida, a margine dell’intervista, «in fin dei conti sono il più grande scrittore veneto vivente. Invece al Campiello se ne scordano sempre». Pennacchi, 71 anni, già vincitore del Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini, a pochi giorni dall’annuncio della cinquina del prestigioso premio letterario confessa: «Io ci sarei andato, ma non mi ci hanno voluto» e così il suo voto andrà a Donatella Di Pietrantonio. Ma con lo scrittore è stata anche l’occasione per ripercorrere tutta la sua vita. Partendo dall’ultima fatica letteraria «che è un romanzo storico, più che di formazione» alla perdita del senso del dovere «illudendoci, sbagliando, di perdere anche il dolore», ma è certo che da questa crisi ne usciremo come sempre: «Già Cicerone ad Attico scriveva che “non sono più i tempi di una volta”». Dopo 35 anni di fabbrica ancora sogna che lo richiamino a lavorare: «Ci avrà fatto pure ammalare, però ci ha dato da campare a noi e alle nostre famiglie» e rivede in parte la classe operaia nei rider e nei facchini della logistica: «Ma devono unirsi, perché ci sarebbe da incazzarsi sul serio». Passata la pandemia vuole re-iscriversi alla quarta ginnasio «per studiare il greco e la storia dell’arte», intanto combatte con l’ennesimo acciacco dopo la pubblicazione di un libro: «Appena consegnato ho cominciato ad avere cali di pressione, vertigini e poi mi è esplosa una ragade anale che mi fa patire le pene dell’inferno». D’altronde, la sua scrittura viene dalle budella, quindi «non esce dalla bocca, ma da sotto…». Nonostante tutto, politicamente continua a considerare la sua casa il PD: «Ah regà, io sono classe operaia! Ma che, scherzi davvero?», ma il vero problema, semmai, per lui parte dalla base, cioè dalla Costituzione: «Sarà la più bella del mondo, ma è datata, ha ormai fatto il suo tempo». E se musicalmente è fermo al ’79 («sono ancora in lutto per lo scioglimento dell’Equipe84») e continua a sperare nel Nobel («candidatemi voi di Rolling Stone») su una cosa non intende arretrare di un millimetro, e cioè smettere di fumare: «Pure quello devo fà? Abbiate pazienza, andatevene un po’ affanculo!».  

Pennacchi, innanzitutto com’è il suo umore? 

Non me lo chiedere, guarda, già quando sono nato ero di “umore rovescio”. Immagina se posso mai essere di buonumore adesso. Anche perché sono dolorante. 

Sugli acciacchi che le vengono dopo ogni sua pubblicazione ci torneremo. Intanto le lancio una provocazione: come va il “romanzo di formazione” La strada del mare?

Chi lo dice che è un romanzo di formazione?

I critici.

Io sono uno dei pochi marxisti ancora in circolazione, per cui sull’estetica sono crociano. Quindi contrario alla critica dei generi. Non esistono i generi letterari, esistono i libri belli o i libri brutti.  

E quindi come dobbiamo considerare il suo nuovo romanzo?

Se proprio lo vogliamo inserire per “utilità pratica” in una classificazione mi sembra riduttivo definirlo “romanzo di formazione”. Fa parte del ciclo dei Teruzzi, per cui è un romanzo storico. Contiene diversi temi. Una componente del romanzo di formazione, visto che parla di ragazzi che nascono e crescono, ma soprattutto di formazione di una città, di una comunità che trae le sue origini nel 1904 a Copparo, in Emilia, raccontate in Canale Mussolini, poi l’esodo nell’Agro Pontino e la trasformazione di un territorio da parte di un crogiolo di razze che prima non esisteva. 

È l’origine della sua famiglia? 

La storia dei Teruzzi è la storia di Latina e dell’Agro Pontino, che fino al 1930 era un deserto paludoso malarico con continui flussi migratori, prima dei veneti, dei ferraresi e dei friulani e poi di tutti gli altri, che si mischiano e diventano un popolo che costruisce la città e poi si lancia nella crescita verso l’espansione del boom economico. 

Cosa ha rappresentato quel periodo? 

La ricostruzione dopo la guerra e l’esplosione del miracolo economico ha significato un passaggio di civiltà in fatto di condizioni di vita materiali, sociali e culturali. Prima eravamo poveri, ma poveri poveri… Si stava attenti a quello che si mangiava. Poi siamo diventati ricchi. Tutto questo nasce in quegli anni e io lo racconto. Poi scusa, se vogliamo giocare con i generi si può spaziare. 

In che modo?

Allora si può ritrovare pure un romanzo di avventura, con echi dickensiani e i rimandi ai bambini poveri e alle loro sofferenze, ma per me rimane sostanzialmente un romanzo storico. Poi fate come vi pare, l’importante è che vi piaccia. 

È anche una storia di grande dedizione per il lavoro, in particolare nella narrazione della costruzione della strada che finalmente unirà la città al mare. 

Era la dedizione di tutto il popolo italiano per uscire dalla guerra, dai suoi disastri e dalla povertà e arrivare al benessere. Mio fratello Otello a Latina partecipò alla costruzione della strada del mare, ma parallelamente mio zio Torello in Belgio lavorava nelle miniere e gli altri parenti nelle fabbriche di Torino della Fiat. È tutto legato.  

Senza dimenticare i dolori familiari, che lei descrive però in secondo piano rispetto al senso del dovere. 

Ecco, c’è anche il romanzo familiare. Le grandi famiglie di una volta che ti davano sicurezze e protezioni in certi casi, ma in altri ti opprimevano pure. C’è sia il dramma di crescere che la gioia dell’esistenza. 

Si è perso oggi quel senso del dovere?

Ipse dixisti… lo hai detto tu. Sì, forse quello si è perso illudendosi che insieme a quello si può perdere il senso del dolore. Invece no, non è che non si soffre più. Non è che l’infanzia di oggi sia più felice, perché i bambini soffrono sempre. La crescita è sofferenza, perché legata all’esistenza stessa. Siamo gettati in un mondo di dolore, fin da quando usciamo dal ventre materno. La vita è dolore, per tutti.  

Non le sembra una visione troppo pessimistica?

No, perché la vita di ognuno di noi è costellata più dai dolori che dalle gioie. Per cui, l’unica cosa che può salvarci è il senso del dovere. Non abbandonarci al dolore ma lottando per cercare di uscirne, io per esempio sublimandolo nella letteratura. Per fare questo provo a giocare anche con l’ironia, senza prendermi troppo sul serio e soprattutto considerando che il destino tragico dell’esistenza non riguarda solo noi stessi, ma è destino comune dell’essere umano. Quindi l’unica cosa che possiamo fare è riconoscerci completamente negli altri. Non c’è scampo fuori dall’empatia.  

C’è chi oggi prospetta dopo la pandemia una grande crisi, mentre altri si aspettano un nuovo boom economico. Lei che futuro vede davanti a noi?

L’uomo è sempre lo stesso, siamo sempre gli stessi. Passiamo queste fasi cicliche, dove a un certo punto ci sembra di essere preda della crisi. Ma lo dice la parola stessa in greco, nella crisi sono insiti anche gli elementi per uscirne. Se va a leggere le lettere le epistole che Cicerone inviò ad Attico, già allora si lamentavano “che non sono più i tempi di una volta”, “che le rape non hanno più lo stesso sapore” e che “non ci sono più le stesse stagioni”.  

E quindi su cosa dovremmo concentrare i nostri sforzi? 

Dopo la Seconda guerra mondiale e i totalitarismi, abbiamo sviluppato l’individuo e i suoi diritti mettendoli al primo posto, ma ci siamo dimenticati i diritti delle collettività, delle masse, dei popoli. E non ci sono solo i diritti degli individui, ma anche i doveri di riconoscersi negli altri, di lavorare insieme, di darsi fiducia e darsi da fare. Usciremo anche da questa crisi, come ne siamo usciti dalle altre. Però con tutto il dramma che ha portato il coronavirus, sia per le condizioni materiali che culturali e sociali, non possiamo dire di essere nelle stesse condizioni di 40-50 anni fa. Non c’è paragone. 

Qui la trovo più ottimista. 

Poi bisogna capire che il dover morire fa parte della vita. Oggi forse si è persa questa consapevolezza. Se uno muore a 90 anni i parenti fanno causa alla sanità perché è colpa loro. Ma prima o poi devi morì, c’è poco da fare, inutile che fai tante storie…  

Ha sempre detto che lei non scrive per piacere, ma è una condanna. Quando finirà?

Finirà quando me ne andrò. O quando con la testa e non sarò più in grado di lavorare. Anche se mi sono stufato, avrei tanta voglia di smettere… Non è un piacere scrivere, ma dolore. Il piacere viene dopo aver assolto il mio dovere. Anzi, a metà, perché come diceva mia madre quando facevo le cose fatte per bene: «Bravo, ma hai fatto metà del tuo dovere».  

E quindi dopo ogni romanzo un acciacco. Questa volta cosa le è successo? 

Non me ne parlare! Ho finito il libro consegnando le ultime bozze e il giorno dopo ho cominciato a sentirmi male. Cali di pressione, vertigini e soprattutto l’insorgere di una ragade anale che poi è esplosa e ora sono mesi che sto patendo le pene dell’inferno. Non sono a rischio di vita, certo, però finora non mi sono potuto operare a causa del Covid. Io cito sempre Lucilio: «Dalle viscere tiro fuori i miei versi». Dalle budella, quindi non escono dalla bocca, ma escono da sotto… 

Sogna ancora che la chiamino a lavorare in fabbrica?

Oh mamma mia! Non hai idea… In continuazione … sogno mio padre e i miei compagni di fabbrica. Anche perché io non sono quello che si può definire un intellò, cioè uno di quegli intellettuali che stanno nei giri romani. Io sono fuori da tutto, sono a Latina. Sono un narratore, ma prima di tutto un operaio che si è fatto scrittore. La mia pensione di 1500 euro l’ho maturata con 35 anni di contributi in fabbrica, compresi 20 anni di esposizione all’amianto. Io resto quello.  

Eppure, da dieci anni è uno degli scrittori più famosi e venduti in Italia. 

Eh però io rimpiango la fabbrica, ne ho nostalgia. Sogno i miei compagni, soprattutto quelli che non ci sono più. Mi ricordo Palude, al quale avevo dedicato un libro omonimo. La sera prima di andarsene, perché era malato, a un certo punto mi disse: «La fabbrica ci avrà fatto pure ammalare, però ci ha dato da campare a noi e alle nostre famiglie».  

Quando si trovò in cassa integrazione si iscrisse all’università. Quanti crede che oggi farebbero una scelta simile?

Dovrebbero farla tutti! Anzi, appena passa questa emergenza ho l’intenzione di andare dalla preside del liceo classico di Latina a chiederle di istituire dei corsi serali perché vorrei re-iscrivermi alla quarta Ginnasio. Io frequentai l’istituto per geometri, ho studiato il latino però mi mancano il greco e la storia dell’arte. Vorrei tornare a studiare. Ahò, c’ho 71 anni, però anche Beniamino Placido in pensione si mise a imparare l’aramaico.  

Per caso rivede la sua classe operaia di allora nei rider che portano nelle case il cibo e nei facchini della logistica di oggi? 

Il lavoro in fabbrica era diverso. Questi, poverini, lavorano ognuno per conto proprio. Per noi invece il lavoro era strettamente legato dall’uno all’altro. Però sì, qualche elemento comune lo vedo, così come in chi ha quei contratti interinali. Ci trovo un arretramento della classe operaia e del movimento dei lavoratori in generale. Prima o poi sarà necessario che loro si organizzino e che il sindacato riscopra le sue vere funzioni. Ma negli impianti fissi il lavoro resterò fondamentale. 

A cosa si riferisce?

Quelli sono servizi non produzione di ricchezza, che si fa trasformando la materia. L’industria manifatturiera deve restare e resterà fondamentale nel nostro Paese. Le fabbriche sembrano più pulite, ma manca la consapevolezza che tu sei solo un pezzo di tutto il sistema e che il tuo lavoro deve essere collegato a quello che viene prima e che viene dopo. Si è persa questa socialità. Poi, porca puttana quando li vedo girare con quelle biciclette… ci sarebbe da incazzarsi sul serio! 

In questa sua forza di indignarsi nonostante tutto e di rimanere fuori dai “salotti buoni” mi ricorda uno scrittore come Giovannino Guareschi. Si ritrova nel papà di Peppone e don Camillo? 

Ho una grande stima di Guareschi come costruttore di storie. Ma è nel cinema che mi sembra abbia dato il meglio di sé. Alle sceneggiature partecipava anche lui. Nei libri invece è più frammentario, non ci trovo un’opera corale. Mentre nelle pellicole che vuoi dire, a distanza di 60 anni ancora lo danno in tv e fa sempre il pieno. Il motivo è che sono di valore. Le nostre storie individuali sono diverse, perché lui era un intellettuale, non aveva fatto l’operaio ed era sostanzialmente un uomo della destra liberale. Però, effettivamente, trovo simile a me quell’ansia di unità popolare, di empatia, la facilità di mettersi nei panni degli altri, anche quelli di che consideri diverso da te, dei tuoi “nemici”. Come me metteva al primo posto quello che unisce rispetto a quello che divide. E poi abbiamo in comune la capacità di perdonare.

Visto che ha la capacità di perdonare, ha perdonato chi non l’ha chiamata al Premio Strega quest’anno? 

Se fosse per me ci sarei andato, ma non mi ci hanno voluto.  

Non mi dirà anche lei che il Premio Strega è combinato? 

Lei chiede a uno che ha vinto lo Strega di parlare male dello Strega. Non sarebbe delicato. Tenga presente che la mia vittoria nel 2010 con Canale Mussolini dovrebbe smentire quelle accuse. Quando partecipai la Mondadori mi avvisò: «Non lo vinciamo perché l’abbiamo già vinto da tre anni consecutivi» e invece ho sovvertito il pronostico. E c’erano libri di valore, di Matteo Nucci, di Alessandro Pavolini, di Silvia Avallone.  

“La strada del mare” non meritava di essere almeno fra i 12 candidati?

I premi sono così… La storia della letteratura e la costruzione del canone non possono fare a meno dei premi letterari. Era già così nell’antica Grecia. Scrivevano, poi andavano a teatro e c’era la competizione con il pubblico che applaudiva e se non lo faceva erano fuori. Ma già allora c’era qualcuno che si organizzava le claque. C’è l’opera letteraria e poi c’è l’industria culturale che ci gira intorno. Pensi che quando Benvenuto Cellini scrisse “Vita” lo sottopose a quelli che allora erano gli intellettuali del tempo e gli dissero: «Lascia perdere che è una schifezza». Solo duecento anni dopo è stato riscoperto da Giuseppe Baretti. Quel libro è un grande capolavoro, ma nell’industria culturale a volte funziona così.  

Dei candidati 2021 chi apprezza? 

Trovo bellissimi i libri di Donatella Di Pietrantonio, compreso quello candidato Borgo sud che avrà il mio voto. Non la conosco di persona, ma è bravissima. E ho molta stima di Emanuele Trevi. 

Politicamente vota ancora a sinistra? 

Oddio, gli ultimi anni sono stati tosti nel PD. Voterò a sinistra, certo. Vedremo quale sarà l’offerta. 

La sua casa è ancora nel PD?

Ah regà, io sono classe operaia! Ma che, scherzi davvero? Certo che quella è la mia casa, sarebbe bene se lo ricordassero pure loro. L’ultima volta ho votato Liberi e Uguali, ma insomma la casa è quella. Vengo dal movimento dei lavoratori, non me lo posso scordare.  

Tanti della classe operaia oggi votano Lega o Fratelli d’Italia.

Questo è un problema che si dovrebbe porre il PD. Perché non si sentono più rappresentati? Non è sufficiente dare la colpa alla gente e dire che non capisce un cazzo. Forse sono loro che si sono staccati dal popolo, anche con il tradimento degli intellettuali e dei ceti dirigenti.  

Lei ha mai avuto la tentazione di votare Lega o Fratelli d’Italia?

No, no, no, questa tentazione non c’è. Resto amico di tante persone che conosco e a cui ho voluto bene, ho stima personale di alcuni e anche di Giorgia Meloni ma io voto “classe operaia”. Il massimo che posso fare a Latina, se alle prossime amministrative mi candidano qualcuno che non mi piace, è non andare a votare. Mai voterò per quegli altri. Ma vuoi sapere la verità?

Mi dica.

Il problema vero è che la crisi dopo questa pandemia si è innestata su una crisi che già c’era del sistema politico e rappresentativo in Italia. L’ha esasperata. È il modo di stare insieme in questa democrazia che andrebbe riformato. La Costituzione che abbiamo sarà la più bella del mondo ma è datata, ha ormai fatto il suo tempo. Finché ha retto la Guerra fredda e c’erano i grandi partiti di massa aveva un senso, poi non ha retto più. Non è vero che siamo nella terza Repubblica, siamo ancora nella prima.  

Cosa l’ha più indignata durante questa pandemia? 

Quello che mi fa incazzare sono tutti quei talk show in tv, con i virologi e i politici che fanno un gran chiacchiericcio, chi racconta una cosa e chi un’altra. Non li sopporto più. Infatti, sono più di due anni che mi rifiuto di andare in quei teatrini. Mi hanno rotto i coglioni! E poi sul fumo…  

Sul proibizionismo delle sigarette? Effettivamente, da quando abbiamo iniziato l’intervista ne ha fumata una dopo l’altra.

Questa cosa mi fa incazzare come una bestia, come a Milano che proibiscono di fumare anche per strada. Quando è intervenuto il mio amico Antonio Scurati volevo farlo anch’io, poi mi sono trattenuto. A morì bisogna morì prima o poi o no? Non è che chi non fuma non muore, sbaglio? Quindi non state a rompe li coglioni! Quando moriranno quelli che non fumano, vorrei essere lì a dirgli: hai visto? Che cazzo hai campato a fare? Manco hai fumato! Però non mi ha chiesto una cosa che mi aspettavo…

Cosa?

Che io sono ancora in lutto per lo scioglimento dell’Equipe84.  

Dal 1979 non se ne è ancora fatto una ragione? 

No, era la mia band preferita. Resto legato a quella musica lì degli anni ’60 e mi arrabbio quando cambiano gli arrangiamenti. Non solo, devo ancora riprendermi dal dolore per la separazione tra Gianni Morandi e Laura Efrikian. Sono un nostalgico, come nel calcio. Un romanista che più di Totti porta nel cuore Falcão. Al Nobel ci pensa ancora?

Sì, ma non mi vogliono più allo Strega figuriamoci al Nobel. Candidatemi voi di Rolling Stone!  

L’ho trovata particolarmente moderato in questa chiacchierata.

È che ho 71 anni, le energie vengono a mancare. Fino a dieci anni fa mettevo le sedie in piazza a fare i miei comizi volanti con il megafono, a chiedere questo o quello, però non mi ascolta nessuno manco a Latina. Alla fine, uno si stufa. E allora sai cosa vi dico? Fate un po’ come ve pare… io scrivo i libri. Ma le cose che mi fanno incazzare sono tantissime, non ne ha un’idea.  

Come le piacerebbe morire? 

A volte penso nel sonno. E soprattutto senza lasciare conti in sospeso. Andarmene sereno. Possibilmente senza soffrire troppo. Non mi mette paura la morte. Parte del mio dovere l’ho fatta. Mi considero nella fase finale della mia vita e se la parte migliore di me se ne è andata, anche la peggiore è alle spalle. Perché non sono sempre stato una persona perbene, da ragazzo non ero un bravo ragazzo, non sono stato un bravo figlio e neanche un bravo padre. Ora sono un bravo nonno. E ho reso testimonianza e onore ai miei morti, così mi sono riconciliato con mio padre e mia madre. 

E si accende un’altra sigaretta. A smettere di fumare non ci pensa?

Eh vabbè, pure quello devo fà? Abbiate pazienza, andatevene un po’ affanculo!

·        Arnoldo Mosca Mondadori.

Stefano Lorenzetto per il “Corriere della sera” il 22 novembre 2021. È venuto al mondo nello stesso anno, il 1971, in cui il suo celebre bisnonno se ne andò, nove giorni a separare nascita e morte. Si chiama Arnoldo Mondadori, come l’editore scomparso mezzo secolo fa, solo che fra nome e cognome reca scritto anche Mosca. Perché lui, a differenza dell’Incantabiss di Poggio Rusco figlio di un calzolaio analfabeta, ha avuto per padre un noto giornalista, Paolo Mosca, che diresse un’infinità di riviste, da Playboy alla Domenica del Corriere, da Novella 2000 a Eva Express, condusse programmi tv, pubblicò libri, scrisse commedie, portò in teatro da regista Il petto e la coscia di Indro Montanelli e Hai mai provato nell’acqua calda? con Walter Chiari. Arnoldo Mosca Mondadori, filosofo, scrittore e poeta, aveva la strada spalancata nell’editoria, magari con Il Saggiatore, la casa fondata dal nonno materno Alberto Mondadori, o nel giornalismo, sotto l’ala del nonno paterno Giovanni Mosca, la firma del Corriere della Sera che aveva diretto il Bertoldo e fondato il Candido con Giovannino Guareschi. Invece ha rinunciato a tutto per dedicarsi alla Casa dello spirito e delle arti. E a un progetto sbalorditivo, «Il senso del Pane»: dal 2016 produce ostie per la messa e le regala a 500 fra diocesi, parrocchie e monasteri. Finora ne ha già distribuite oltre 4 milioni. Non particole qualsiasi: «A confezionarle artigianalmente, a una a una, sono assassini pentiti talvolta condannati all’ergastolo, nei quali io ed Ennio Doris, il patron di Mediolanum che mi sostiene in quest’avventura, vediamo il volto di Cristo». I primi li ha reclutati nel carcere di Opera. Oggi vi sono laboratori in 16 Paesi, l’ultimo sta per aprire nella prigione di Itaúna, in Brasile. Mosca Mondadori vive per l’Eucaristia. Dall’età di 9 anni, va a messa e si comunica tutti i giorni. Spesso la moglie Caterina Roggero, docente di cultura araba alla Statale di Milano, e i tre figli di 14, 12 e 9 anni si sentono dire da lui: «Scusate, devo andare a parlare con Gesù».

Credo che l’unico contatto religioso di suo bisnonno fosse il baccalà dei frati del Barana, che il fattorino delle Officine grafiche di Verona gli portava il venerdì.

«Però mia madre Nicoletta ricorda che i suoi nonni Arnoldo e Andreina aiutavano l’orfanotrofio di Meina, vicino alla villa sul lago Maggiore dove ospitavano Thomas Mann ed Ernest Hemingway».

E Giovanni Mosca era credente?

«Sì, molto. La madre Norma era morta dandolo alla luce. Prima di uscire di casa, il nonno mandava con la mano un bacio all’immagine della Madonna, cui era molto devoto. Aveva una grazia e una signorilità innate. Andavo spesso a pranzo da lui. Mi leggeva Ricordi di scuola, il suo libro più bello. Viveva al numero 5 di via Galilei, a Milano, dove abitavano anche Dino Buzzati e Gaetano Afeltra. Agli esordi come fumettista, Federico Fellini andava lì a consegnargli i propri disegni». 

Ha mai rimproverato a suo padre Paolo la stagione di «Playboy»?

«No. Parlavamo solo del senso della vita. Lo portai da Giovanni Paolo II. Riscoprì la dimensione spirituale. Scrisse Lettera al Papa, in cui dava del tu a Wojtyla. È la dichiarazione d’amore di un figlio».

Si esibì persino al Cantagiro.

«La sua era un’inquietudine creativa». 

Dello zio Maurizio Mosca che mi dice?

«L’onestà fatta persona. In tv aveva un’audience da star, ma si accontentava dell’equivalente in lire di 2.500 euro». 

La descrivono come un mistico.

«Gesù è la persona che conosco meglio e che mi conosce meglio di ogni altra. L’ho messo al primo posto. Se questo è misticismo, allora sono mistico».

Ma passa per santo o per picchiatello?

«Qualcuno mi prende per matto, specie a causa delle ostie fatte in galera. Ma io guardo ai frutti: danno lavoro a 70 reclusi e sfamano 200 loro familiari». 

A 9 anni che cosa le è accaduto?

«Frequentavo la scuola cattolica Vittoria Colonna. Per la seconda comunione ci portarono sul prato dell’abbazia di Viboldone. Suor Ignazia Angelini, che sta ancora lì, lo rammenta. Appena ricevuta l’ostia, avvertii una ferita nel cuore, come se una freccia lo avesse trapassato, e una gioia di cui non capivo l’0rigine. La coscienza mi diceva: questo alimento viene dal Cielo, è il pane del futuro. Tutti i giorni provo ancora una tale beatitudine...».

Della prima comunione cosa ricorda?

«Nulla. Alla prima confessione svenni per l’emozione. Finii in infermeria». 

Che peccati poteva accusare a 9 anni?

«Non lo so. Non proferii parola». 

Da piccolo faceva il chierichetto?

«No, anzi scappavo dal catechismo: a Milano 3 saltai giù dal balcone del primo piano durante la lezione. Non ne potevo più, mi annoiavo. Ero attratto solo dal tabernacolo. Tutto ciò che suonava canonico, obbligatorio, mi dava fastidio». 

Perché non è diventato sacerdote?

«Lo faccio da laico. Non mi sarebbe dispiaciuto essere un prete di strada, come don Tonino Bello e don Oreste Benzi». 

Don Benzi mi disse: «Per stare in piedi, bisogna mettersi in ginocchio».

«Stupendo! Amavo don Oreste perché era goloso come me. Mi fece conoscere una trattoria di Rimini dove servono una crema paradisiaca. Anche papa Wojtyla era goloso, sa? E pure san Francesco: prima di morire, chiese a una dama di Perugia dei biscotti alla mandorla, li assaggiò e spirò. A Gerusalemme alloggiò all’Austrian hospice solo per la Sachertorte».

Quand’è che lei si mette in ginocchio?

«Mi alzo alle 6 e prego santa Teresina di Lisieux. Recito la sua novena delle rose: 24 Gloria Patri, quanti furono gli anni della sua vita. Alle 8.30 vado a messa a Santa Maria delle Grazie al Naviglio o a San Gottardo o a Sant’Alessandro». 

Prega tanto durante il giorno?

«La preghiera è come il respiro». 

E prega ad alta voce prima dei pasti?

«Sì. Al ristorante lo faccio mentalmente. Non voglio imbarazzare nessuno».

«Il senso del Pane» com’è nato?

«Davanti al Santissimo. Gli ho chiesto: come posso testimoniarti? La risposta è stata immediata: va’ a Opera, produci ostie con chi si è macchiato di crimini e falle consacrare al Papa. Giacinto Siciliano, oggi direttore del carcere di San Vittore, ha capito e mi ha aiutato». 

Quali materie prime adoperate?

«Farina di grano doppio zero, acqua filtrata, amido di frumento».

Fa concorrenza alle carmelitane.

«No, alle ostie “made in China”». 

Non mi dica.

«Altroché. Invece i nostri detenuti sono in regola, sono assunti da una cooperativa sociale. Fra loro abbiamo anche non battezzati e musulmani. Questo pane è per tutti. Quando Gesù lo moltiplicò sul mare di Galilea non si mise a distinguere fra ebrei e non ebrei». 

Lei crede davvero che l’ostia consacrata si trasformi nel corpo di Cristo o pensa che sia solo una simbologia?

«Non ci credo perché mi è stato insegnato. Ho la certezza che sia così».

Un tempo per comunicarsi era vietato mangiare e bere dalla mezzanotte.

«Sono contrario. Gesù e gli apostoli nell’Ultima Cena desinarono e subito dopo il Maestro istituì l’Eucaristia». 

Lei si definisce «di passaggio su questa terra». Lo scopo del viaggio qual è?

«Mettere a frutto i talenti ricevuti». 

Per suo padre il viaggio fu un calvario.

«Un ictus lo colpì nel 2008. Non poté più né parlare né scrivere. Gli sono rimasto accanto per sei anni, sino all’ultimo respiro. E lì ho scoperto che la morte è una nascita. L’anima ci sopravvive». 

È stato vicino anche ad Alda Merini.

«Per lei dovevo tenermi pronto a qualsiasi ora. Telefonava in piena notte: “Scrivi!”. E mi dettava i versi, perché non sarebbe stata in grado di riconoscere i propri appunti. Era devotissima a Rita da Cascia, andavamo a messa insieme nella chiesa della Barona intitolata alla santa. Pregando nella basilica di Assisi, mi venne un’ispirazione: proporle un’opera sul Poverello. Buttò giù di getto Francesco, che poi fu musicata da Lucio Dalla».

Un giorno la poetessa fermò per strada Enrico Cuccia, stendendo la mano. «Ho fame», gli disse. «Buon segno», rispose il banchiere, e tirò dritto. L’Eucaristia nutre l’anima però non sfama.

«Precipitò nell’indigenza al ritorno da Taranto, dopo che era finito il matrimonio con Michele Pierri. Barattava i pasti in trattoria con i librini che gli stampava Alberto Casiraghy di Pulcinoelefante».

Lei ha presieduto il Conservatorio di Milano. Che cosa cercava nella musica?

«È l’arte più vicina al Cielo. Una definizione di Alda che ha sempre trovato d’accordo il mio amico Ennio Morricone. Formai un’orchestra con 24 ragazzi rom che suonavano violini e fisarmoniche. Chiesi a Franco Battiato e Roberto Cacciapaglia di tenerli a battesimo. E affidai i pc degli uffici a Luigi Celeste, detenuto a Bollate per omicidio. È diventato uno dei migliori informatici d’Italia». 

Perché commissionò «La Porta» di Lampedusa a Mimmo Paladino?

«Nel 2005 andai sull’isola e mi riconobbi negli occhi dei migranti».

Molti ritengono che sia in corso un’invasione e lei invece spalanca l’uscio.

«L’Europa rischia di atrofizzarsi. Ha bisogno degli stranieri». 

Dev’esserci un limite agli sbarchi?

«Siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre. Chi lascia i fratelli fuori di casa?». 

Gesù si trattenne: ne resuscitò tre e ne guarì 23, secondo l’evangelista Luca.

«Ma continua a salvarli da 2.000 anni». 

Se fosse nato in una remota foresta del Borneo, non farebbe la comunione.

«Il bisogno di Dio è inscritto nel nostro genoma. Ci ha creati a sua immagine. Troverei lo stesso il contatto con il mistero. Lo Spirito Santo è dovunque». 

Fosse prete, chi non assolverebbe?

«I tirchi e coloro che non si pentono». 

Come s’immagina l’aldilà?

«Non ho bisogno di prefigurarmelo. Con l’Eucaristia lo vedo nell’aldiquà». 

·        Attilio Bertolucci.

Chi era Attilio Bertolucci: storia del poeta italiano. Scopriamo la storia di Attilio Bertolucci, un intellettuale e grande poeta italiano padre dei registi Bernardo e Giuseppe. Scritto da Alessandra Coman su Donnemagazine.it il 14/06/2021. Con un modo di raccontare la vita che vede la compresenza di semplicità e complessità, Attilio Bertolucci ha emozionato attraverso poesie intense che fanno di lui un grande nome della letteratura italiana del XX secolo.

Chi era Attilio Bertolucci. Attilio Bertolucci (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000) è stato un poeta italiano. Cresce vicino Parma in una famiglia borghese e frequenta la scuola elementare con grande piacere, iniziando a scrivere poesie fin da bambino. Crescendo si appassiona alla musica, specialmente quella classica di Verdi, che approfondisce durante gli anni al convitto nazionale Maria Luigia. Qui conosce anche personaggi illustri come Cesare Zavattini e Pietro Bianchi con cui rimane in rapporti anche successivamente. Si iscrive poi a Giurisprudenza presso l’Università di Parma per poi capire che di essere più portato per le materie letterarie. Si traferisce quindi a Bologna e si iscrive alla Facoltà di Lettere dove conosce Giorgio Bassani durante i corsi. 

Attilio Bertolucci e l’inizio della carriera. Conclusa l’università viene assunto come insegnante di italiano e arte nello stesso convitto che lo ha visto crescere e nel frattempo si dedica alla produzione poetica. Nel 1929 pubblica “Sirio” e diversi anni dopo “Fuochi in novembre” che vengono sostenuti dai numerosi letterati conosciuti in quegli anni a Parma. L’attività letteraria ha modo di proseguire solo conclusa la seconda guerra mondiale. Inizia a lavorare per la Gazzetta di Parma trattando tematiche legate al mondo dell’arte e del cinema. Nel 1951 si trasferisce a Roma e qui si dedica alla pubblicazione di liriche come “La capanna indiana” e inizia a lavorare nel mondo della televisione. Realizza sceneggiati per la Rai, nel frattempo collabora con riviste diverse e continua a lavorare come insegnante. In questi anni romani stringe anche rapporti importanti con Pier Paolo Pasolini e Carlo Emilio Gadda. Per via di alcuni problemi di salute è costretto a passare alcuni momenti a Parma dove ha modo di recuperare le forze. Nel frattempo pubblica nel 1971 la raccolta “Viaggi d’inverno” e numerosi anni dopo esce il suo poema “La camera da letto”. L’ultima opera che realizza è “La lucertola di Casarola” nel 1997 prima di morire a Roma nel 2000 circondato dalla sua famiglia. 

Poetica di Attilio Bertolucci. La poetica di Bertolucci si può inserire in quella che viene definita linea antinovecentesca e che include grandi penne come Saba, Caproni o Giudici e riprende da un lato lo stile crepuscolare di Pascoli e dall’altro l’ermetica di Ungaretti. Tra i temi che tratta all’interno delle sue poesie non mancano il richiamo alla città natale e il paessaggio di campagna che lo ha visto crescere. I luoghi d’infanzia vengono descritti sia secondo una linea realista che attraverso una dimensione simbolica. Le metriche variano molto alternandosi tra liriche lunghe o bravi, con versi liberi o intrecciati. Tende inoltre ad utilizzare molto gli ossimori e rivolgersi direttamente al lettore attraverso un linguaggio che crea empatia. L’autore ha inoltre la grande capacità di riuscire a cogliere la bellezza di delle piccole cose e di raccontarle con grande semplicità. Ne è esempio il seguente verso:

“Assenza,

più acuta presenza.

Vago pensier di te

vaghi ricordi

turbano l’ora calma

e il dolce sole.

Dolente il petto

ti porta,

come una pietra

leggera.”

Scritto da Alessandra Coman

·        Aurelio Picca.

Barbara Tomasino per “Libero Quotidiano” il 16 giugno 2021. Nelle ultime settimane il grande escluso dai "prestigiosi" premi letterari è stato Aurelio Picca, nonostante il suo ultimo romanzo, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (ed. Bompiani, pp. 256, euro 17) sia stato considerato da critica e lettori un libro potente, intenso, profondamente esistenzialista. Eppure Picca, autore con svariati successi alle spalle, resta indigesto allo Strega e simili, con quel suo profilo iconoclasta che non si piega alle mode del momento e che rifugge ogni forma di conformismo. Ama definirsi un uomo libero, ma si sa che spesso in Italia la libertà si paga.

Picca, niente Strega, Campiello o Comisso, eppure il suo è un libro unanimemente riconosciuto come importante....

«Io non sapevo manco di essere stato chiamato al Campiello, né agogno al Premio Strega, non intendo certo fare la parte della vittima. Diciamo che l'avrei sicuramente vinto ai tempi di Elsa Morante e Raffaele La Capria. Oggi noto un cinismo che è espressione del mondo. La letteratura è un gioco di carriera. Nessuno ha un mestiere, credono tutti che fare lo scrittore sia il mestiere e così si innesca una competizione senza esclusione di colpi per guadagnare quel poco che c' è sul piatto». 

Cosa sono i premi quindi oggi?

«La cacca delle rondini dell'arte e specchio del mondo come è messo». 

Vuole dire che prima era diverso?

«Forse un tempo i premi erano espressione di una società letteraria, non che non ci fossero i magheggi, ma erano tradimenti "alti". Ora siamo allo scarto, ad una condizione palese di combine...

Ad esempio: chi seleziona i giurati dei premi? E perché ci sono quelle persone e non altre?

Ogni anno c' è questa ridda dove i carrieristi si intrufolano, sono come macchine truccate che dovrebbero gareggiare nella categoria dilettanti, ma stanno in Formula Uno». 

Questa gara "truccata" coinvolge tutto il mondo letterario?

«Premi, istituzioni, editori, autori, per libri che hanno vita sempre più breve votati all' inseguimento di un orrendo politicamente corretto, che ti porta a mettere forzatamente tutti gli ingredienti del momento: un omosessuale, un migrante, e così via. In questo sono d' accordo con Walter Siti (autore del pamphlet Contro l'impegno, ed. Rizzoli, n.d.a.). Ho scritto un libro ambientato negli anni '70, non potevo rivolgermi ad un personaggio chiamandolo "gay", sarei sembrato ridicolo, all' epoca si diceva froci. Un migrante nel mio libro lo metto se è funzionale al racconto, non ce lo ficco a forza per stare al passo con le mode». 

Insomma, non è allineato con i tempi...

«Non mi ritrovo in un'ideologia conformistica post ideologica, post perché è come tutta la melma del tardissimo sventurato impero. Uno scrittore come me quando scrive lo fa per necessità, è un'urgenza. Sono un uomo antico: non dico per chi voto, non dico con chi vado a letto, e per la mia cultura dico sono un eterosessuale, non dico che sono "fluido" come si usa oggi. I miei libri parlano della vita e della morte, questi sono i poli con i quali si destreggia l'arte».

Sente un appiattimento nella narrativa italiana?

«Noto soprattutto con gli esordienti un lavoro di editing pazzesco, molti testi si somigliano e anche all' interno di uno stesso libro a volte ci si trova davanti a due stili completamente differenti. I miei libri, sin dagli esordi, erano complicatissimi da toccare perché ho sempre avuto un mio stile riconoscibile... Hanno provato a sostituire puzza con cattivo odore, ma non funziona. Una volta scrivere un libro significava inventare il mondo. Moravia diceva: i politici lavorano per il relativo, gli artisti lavorano per l'assoluto». 

È sparita l'arte che tende all' assoluto?

«Viviamo nell' attualismo, nell' usa e getta per vendere due copie in più lo scrittore deve scrivere una roba che è già nella te stadi tutti, invece dovrebbe consegnare un linguaggio, una cultura, provocare dei sentimenti. È testa, cuore, ventre. L' arte non cambia il mondo, ma deve "incidere". Oggi si parla so lodi "ripartenza", una retorica stucchevole, il mondo era già a pezzi prima della pandemia, altro che ricostruire, bisogna rialfabetizzarlo il mondo». 

I suoi libri scontano un giudizio sulla persona?

«Sono andato diverse volte in finale al Viareggio, senza vincerlo, nel 2012 ero in gara con Un addio e qualcuno dalla giuria si alzò e disse che ero un fascista. Mi sono stancato di questo giochetto di etichette destra/sinistra, io vengo da una famiglia mazziniana rivoluzionaria, cresciuto da un patrigno togliattiano, sono un conservatore rivoluzionario. Rimando al mittente l'etichetta di destra che mi viene affibbiata da un finto mondo progressista...ecco cosa intendo per disonestà intellettuale».

Perché si arrabbia se le dico che è un outisder?

«Perché è un termine abusato, io sono un pilota da Formula Uno. La Capria una volta scrisse "Picca è uno scrittore estremo, il più estremo di tutti, solo lui è così". Forse questa mia singolarità, che dovrebbe essere un valore aggiunto, viene vista come eccessiva. Anche la mia persona può apparire eccessiva, anche se io sono estremamente semplice e al contempo, come tutti i contadini, estremamente sofisticato». 

Non è mai stato intrigato dai salotti buoni della letteratura?

«Sono un vero scrittore, e nessun vero scrittore cavalca le ondine conformistiche. Ho sensibilità aristocratiche in un mondo dove imperversa una piccola borghesia orrenda che vuole fare arte, quando dovrebbe trovarsi un mestiere. Non mi interessano i circoletti dove quello conosce quell' altro che sta al tal premio, non ce la faccio per cultura, antropologia, orgoglio e destino». 

Emanuele Trevi è nella cinquina dello Strega e a proposito della sua esclusione dice: "È un errore grossolano, brutale e ingiustificabile". Che ne pensa?

«È stato onesto intellettualmente, cosa molto rara oggi in Italia».

DAGOREPORT il 10 giugno 2021. Dopo lo Strega e il Campiello per un’altra volta Aurelio Picca, con “Il più grande criminale di Roma è stato mio amico” è il “primo degli esclusi” da un premio letterario. Questa volta è accaduto al Premio Comisso, l’importante riconoscimento che ogni anno viene dato a Treviso in ricordo dell’autore trevigiano, che fu anche protagonista dell’impresa fiumana. “Io l’ho sostenuto dall’inizio alla fine e con me Giancarlo Marinelli”, dice il presidente della giuria Pierluigi Panza, scrittore e critico d’arte al “Corriere della Sera” raggiunto al telefono. “Come ho dichiarato anche ai colleghi di giuria, due libri, quello di Picca e Italiana di Giuseppe Catozzella erano, secondo me, quelli che meglio riassumevano una pluralità di parametri: qualità nella scrittura, costruzione di una storia, mitopoiesi e, insieme, legami con la cronaca e forti sentimenti umani … Ma per la narrativa erano in concorso 140 opere: una testa un voto. La votazione era in diretta streaming come avete visto”. Invece i vincitori sono altri… “Anche i libri di Trevi, Belpoliti e Anedda hanno grande qualità letteraria, anche poetica e pure altri in concorso come quello di Calandrone. Se poi volete la mia valutazione, per me sono testi di autori che riflettono solo su se stessi, sui loro luoghi e amici, quasi dei Festschrift postumi. Sono egoriflessi, pensieri senza costruzioni di storie che rispondono a una propria urgenza sentimentale e testimoniale che gli altri sarebbero chiamati a condividere. La narrativa esiste, ovviamente, anche senza mitopoiesi, ibrida, al confine con la saggistica, il memoir, la periegesi e altro. Io stesso la frequento in prima persona e anche Picca e Catozzella. Ma un conto è tutto ciò, altro sono riflessioni, in parte già scritte, che segnano appartenenze o autoappartenenze. Su questo io sono più perplesso. Se sono Proust scrivo di me stesso a Balbec con la nonna, ma se non sono Proust, poi, che succede?”. I vincitori fanno parte dei soliti circolini… “Quello in altri premi. Al Comisso si vota al di fuori del benché minimo condizionamento che non sia l’idea narrativa del singolo giurato. Direi che alcuni libri fanno parte di un certo modo di intendere la letteratura nel quale, talvolta, prevale il senso di appartenenza all’ambiente letterario sul testo, un gusto per l’allusione colta, per quel modo di dire noi sì che ce ne intendiamo, siamo parte di un canone poetico”. Non è che il problema di Picca sia che vive isolato, a Velletri, e potrebbe essere di destra? “Non voglio crederlo”.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 13 maggio 2021. Sgomberiamo subito il campo dagli equivoci: chi dice che Aurelio Picca è l’Henry Miller dei Castelli Romani dice e racconta una palese sciocchezza! Chi lo dice fa un torto ad entrambi. Paragonare, equiparare, a cosa serve, in fondo? Ad alimentare un misero battage mediatico. Picca è Picca. Piaccia o meno. Me ne sono reso conto in una lunga giornata trascorsa con questo anomalo esemplare della letteratura italiana. Refrattario al caos capitolino, Aurelio mi dice che è pronto a questo match, ma a patto di raggiungerlo a casa sua, a qualche chilometro da Velletri. E così, dopo più di un’ora di viaggio e schivato, a fatica, l’orda barbarica che saliva, famelica, ai Castelli, arrivo nel suo eremo. Ad aprirmi la porta, una ragazza minuta, delicata, raffinata, una sorta d’allieva, la bambolina rock, come poi mi dirà Aurelio. Il Nostro, nel frattempo, era in qualche stanza labirintica a prepararsi. Più che una casa, mi è sembrata una masseria tipica della Valle d’Itria, immersa e nascosta tra centinaia di ulivi. La sua voce, forte, era addolcita solo dal cinguetto degli uccelli. “Arsenale di Roma distrutta” mi aveva colpito e aperto gli occhi su una città che, da levantino, conoscevo poco. E, quindi, mi ero ripromesso di stanarlo e provare a indagarlo, scrutarlo, per tirar fuori qualcosa di nuovo, di non detto, lontano dai soliti cliché dei giornali. I primi minuti, dopo i saluti di rito e convenevoli, sono stati, per certi versi, i più importanti, perché – almeno così mi è parso – Aurelio, prima di lasciarsi andare, voleva capire chi fossi, e se poteva, con me, giocare a carte scoperte, senza finzioni, bugie e scorrettezze. Da amante del mondo antico, d’altronde, guai a provare a fregarlo e pugnalarlo! Questo felino scuro, sfuggente, impertinente, allergico ai clan letterari e alla mondanità salottiera, e in continua dissidenza con sé stesso e con il mondo, non poteva che fare al caso nostro. Solleticato a dovere, Aurelio Picca è stato – ma su questo v’erano pochi dubbi – torrenziale, irrefrenabile, divertente e, quando sorrideva, fanciullesco. Sì, perché come tutti i selvaggi e ragazzacci di strada, incuranti del pericolo e della morte, anche Picca è rimasto, per certi versi, un bambino, timido e sfrontato, taciturno e rumoroso, monacale e voluttuoso. Un uomo fragile, un moschettiere senza durlindana, forte, malinconico, a tratti nostalgico, salvato dalla lingua, e dalla parola, sicuro di sé, sentimentale, e alla perenne ricerca di lealtà e onestà intellettuale, in primis, forse, con sé stesso.

Aurelio, dopo un lungo inseguimento, sono riuscito a braccarti: come hai passato questi mesi?

Tra vita e visioni di città moribonde, tachicardie, ma non ho comprato neanche un paio di pantaloni. Aspetto che la vitalità risalga su.

Premesso questo, voglio cominciare questa nostra Confessione partendo dagli anni della tua fanciullezza. Che bambino eri? Se non ricordo male, timido…

Sì, quando ero piccolo, ero timido, innocente e sensuale, ma anche ribelle e senza confini. Le persone che dicono che tutti i bambini sono innocenti, dicono una grande sciocchezza. E’ una favola che ci raccontano, ma che io non “bevo”. La timidezza l’ho avuta fino ai 40 anni e più. Forse anche adesso. Ero socievole ma non sociale. Mi capitava di non riuscire ad entrare nei bar, nei luoghi affollati e, in discoteca, rimanevo a guardare le persone senza spiccicare una parola. Le fissavo e basta. E però, ricordo, in una estate del 1980, andavo con due scudieri (amici) per il litorale laziale con la maschera di Zorro. Tutti si attaccavano alle pareti pensando che si trattasse di una rapina.

Non eri cattivo, quindi…

No, tutt’altro. A volte, da bambino, mi è capitato di essere preso a bastonate. Oppure dopo aver sottratto il legname di mio nonno per fare le spade, tutti se la costruivano e per me la spada che mi giuravano sarebbe stata bellissima, la vedevo col “binicolo”. Andava a finire che il giorno del mio compleanno, la mamma mi supplicava: “Dài, invitali per il cioccolato i tuoi amici… Dài, tu sei buono…” E io li perdonavo.

I tuoi genitori cosa facevano? Eravate poveri?

No, non eravamo poveri. Mio padre era un commerciante di grandi visioni. Mia madre era in perfetta sintonia con lui. Mio nonno era il nipote di un proprietario terriero medio che però aveva dilapidato la sua fortuna. Mio padre, morto giovanissimo, a soli ventotto anni, aveva già provveduto alla mia eredità. Dopo la sua morte molte cose si sono trasformate. Ho avuto altre due infanzie. Anzi, tre. Sono salito sulla giostra della vita.

Cosa è successo e cosa hai combinato? Raccontami un po’, Aurelio…

Mia madre si è risposata strappandomi dal mazziniano selvaggio di mio nonno Aurelio. Mi sono trovato davanti un patrigno togliattiano. Voleva imbrigliarmi nella disciplina. Ma era dura.

Essendo timido, come ti difendevi dalla spietatezza della strada?

Mi ci buttavo, non mi difendevo. Mi allenavo al combattimento. Un innocente che deve provare a diventare cattivo senza riuscirci. Ma c’erano anche le dolcezze delle gambe delle ballerine che spiavo dalla porta della scuola di danza… E comunque, alla fine, ero un signorino che provava  a conquistare le persone con l’ interiorità.

Cosa vuoi dire con interiorità? Fammi un esempio concreto!

Regalavo, donavo, mi consegnavo nudo. Ero pronto a trasformare i sogni in realtà. Soprattutto il contrario.

Ti piaceva stare sui libri di scuola?

No, per niente. Solo alla scuola elementare ho studiato tanto e bene. La maestra era un incanto. Io col fiocco come l’elica dell’aereoplanino che amavo tanto.

A che età avvenne il tuo sbarco a Roma?

Sono nato a Velletri, e cresciuto quasi da esule volontario. Roma l’ho vista in una luce d’alba. Avevo meno di due anni. Poi sul Gianicolo a guardare lo spettacolo dei burattini mentre mia madre curava il mio fratellastro nell’ospedale del Bambino Gesù.

Che impressione ti fece Roma?

Inizialmente, quello che mi colpì maggiormente fu la sua luminosità appunto. Tutto era immerso nella luce. Crescendo e frequentandola ho avuto la possibilità di conoscere e apprezzare figure che oggi non ci sono quasi più: i facchini, i “cavallari”, il popolo, quello vero. La plebe. Oggi, quando raggiungo la Capitale dai Castelli, mi sembra un’altra Roma, nosocomiale, finta, un corpo convalescente…

Ti piacciono i romani?

I romani sono i romani. Nel Dna hanno la ferocia dei fondatori. Sanno pugnalarti alle spalle. Roma è la città più complicata del mondo. Sa essere feroce sorridendo. Quelli di oggi sono minimo di prima generazione. Ecco perché hanno meno sangue veloce.

Perché quelli di ieri com’erano: santi?

No, per niente. No. Erano spietati, cinici e scialacquatori; eppure avevano una loro moralità, un loro codice d’onore.

Hai detto e scritto di aver fatto mille lavori, per campare; quali sono stati i più significativi?

Ho fatto il barista, il piastrellista, il cassiere; ho fatto il macellaio. Con mia madre, ho imparato a conoscere i gioielli e a venderli. Posso dire di essere un “gemmologo” senza diploma. Intorno ai 22-23, poi, mi sono buttato nell’immobiliare: compravo case da ristrutturare, in decadenza, e poi le rivendevo. Sono sempre stato in lotta tra la contemplazione e l’azione.

Cosa vuoi dire?

E’ un conflitto tra il guardare solo la realtà e buttartici per desiderio direi carnale.

Hai mai rubato in vita tua? Sincero…

Ho rubato la benzina dalle altre auto per metterla nel serbatoio di quelle che guidavo senza patente. Ma non ho rubato mai neppure cento lire.

Cosa ti hanno insegnato tutti questi lavori?

Ho avuto la possibilità di vedere il mondo antico, la vera umanità del mondo antico. Certi esseri antropologici che richiamavano un mondo ancora più antico. Sergio Citti mi diceva sempre che Roma ha smesso di essere Roma sul finire degli anni Cinquanta.

Sei un nostalgico, quindi…?

No, sono un uomo dilaniato dai rimpianti. Credo che un uomo senza rimpianti non abbia vissuto nulla.

Se non erro, la figura di tuo nonno Aurelio, è stata centrale nella tua esistenza: perché?

Mio nonno era potente, morale e, nello stesso tempo, contro il mondo. Bigamo per tutta la vita: viveva con mia nonna e, al contempo, con la serva. Era un uomo di grandissima ferocia, che mi ha insegnato a onorare il nome che ti impongono. Con lui ho sentito l’importanza di stare al mondo. E, per concludere, aveva la visione di ricostruire il patriarcato.

A te piace il patriarcato?

Io sono un Patriarca solo. Senza patriarcato.

A che età avvenne la tua prima masturbazione? Ti piacque?

Non me lo ricordo. Forse alle scuole medie. Da premettere che, negli anni della mia prima adolescenza, avvertivo anche una sorta di disagio per via della circoncisione. Poi il mio glande nudo è diventato un pianeta. Sono stato un bambino sensualissimo. Quello che mi ricordo con certezza e nitidezza è il primo contatto sessuale con una bambina, a 4 anni circa: il toccarsi, lo sfiorarsi, anche molto intimo… Le poggiavo il pisellino sulla patatina.

Per quale motivo, sei stato, parafrasando Pasolini, "ragazzo di vita"? Ti sei mai prostituito?

Prostituito? Ho un immenso pudore per il mio corpo. Mai. Invece, avendo avuto un’adolescenza poco borghese, molto selvatica, ho potuto conoscere, e apprezzare, le asperità, i pericoli, l’adrenalina, i rischi, della strada. Sono stato un ragazzo di strada, non di vita, nella accezione pasoliniana. Ma siccome sulla strada si conosce la vita… Peraltro a casa la vita non mancava. C’era una autostrada che portava a essa. A 20 anni, e lo dico senza arroganza, avevo visto e fatto tutto. Una postilla su Pasolini: non ho mai amato i suoi romanzi. Li ho trovati sempre manieristici. Invece ho amato il Pasolini regista e, spesso, il poeta.

Come mai, nonostante la fama, il denaro, hai deciso di vivere a Velletri? Recentemente hai definito i Castelli Romani un posto di merda…

Non l’ho mai detto. Velletri, come disse anche Amelia Rosselli, è una città drammatica. Vivo qui perché ho un territorio enorme come Los Angeles dove perdermi. Una selva di città e cittadelle che si aprono come quinte teatrali. La grande città è una grande prigione. Poi considera che io faccio poca vita mondana. Sono un monaco e pellegrino. Comunque, sì, detesto che i Castelli siano diventati una cartolina turistica da fine settimana.

Tu sei più drammatico o tragico?

Dalla terra al cielo. Verticale. Il dramma sfocia nella tragedia. In questo sono un pagano.

Quando non scrivi i tuoi libri, come passi le giornate? Cosa combini, Aurelio?

Sto a letto tutto il giorno. Immobile. Penso. In questo periodo, ad esempio, sono in fissa con gli assoli di Massimo Riva, il grande chitarrista di Vasco Rossi morto di overdose.

Ami i chitarristi?

Keith Richards lo adoro, anche se suona meravigliosamente male. Detesto, ad esempio, Eric Clapton perché è un purista del blues, e io il blues lo detesto.

Da qualche anno, per puro caso, ho scoperto il variegato mondo di Capocotta. Com’era, negli Settanta-Ottanta. Ci vai ancora?

Più che Capocotta, adoro Ostia. E penso che il lungomare di Ostia sia uno dei più belli d’Italia, se non il più bello.

Addirittura?

Sì, assolutamente! Ma tornando alla tua iniziale domanda, posso dire che io, avendo avuto la possibilità di conoscere il mondo antico di Roma, come ti ho già detto, non mi sono mai lasciato incantare dal folclore che si vede e respira a Capocotta, e non solo. E’ un macchiettismo esistenziale che non mi appartiene. Io sono ancora legato e innamorato del cinismo “belliano”.

Da dove nasce il tuo amore per il bel vestire? Hai bisogno di un’armatura estetica per piacere e incantare?

Nasce dallo stile di mio padre e mia madre. E’ qualcosa di genetico, che si eredita. Meglio: si nasce eleganti. Sin da bambino ho conosciuto e frequentato i sarti. Amo le stoffe. Adoro le asole fatte a mano. Se tocco un abito ti dico quanta lana o seta o cotone ha. Ma anche un acero da un frassino so riconoscere. Sono andato a scuola anche dai falegnami.

Come vivi la tua sessualità? In maniera fluida?

Sono un eterosessuale. E detesto la pornografia. Distrugge la fantasia. Preferisco avere nelle narici l’odore delle stalle. Sono un fan del toro. Il toro animale, non il toro squadra di calcio.

E i trans, ti hanno mai attratto?

So che esistono.

Hai mai pugnalato un amico per un tornaconto o, peggio ancora, per vigliaccheria?

Mai. Per me, l’amicizia, anche più dell’amore, è sacra.  Mi è amico solo chi ha onestà intellettuale e qualche talento. E, infatti, ho pochissimi amici, e tanti conoscenti.

Cosa non ti piace del tuo modo di essere?

Sono un uomo che non sa dire di no! Quando viene fuori la mia parte “a sangue caldo”, spesso ho difficoltà a dire di no. Ho il rimpianto di aver detto pochi no, e questo mi ha fatto perdere tempo. E non so ferire le donne.

“Il sacro è solo la morte” Da dove nasce il tuo essere così poco parsimonioso? Perché questo rapporto così labile con il denaro?

Non ho un rapporto labile, come dici tu: so fare i conti con il denaro. Ma, amando le cose belle, non mi sono mai fatto mancare nulla, e ho speso più di quello che ho guadagnato.

Sei schiavo della bellezza?

No, anzi. Sono molto contraddittorio: posso essere molto parsimonioso, ascetico, monacale e, al contempo, avere momenti o periodi in cui spendo chessò, trentamila euro… Credo più nel lusso che nella ricchezza.

Vale a dire?

La ricchezza è come la felicità: un’onda media. Il lusso come la gioia: onda altissima.

Sei più perverso o lussurioso?

Né perverso, né lussurioso. Piuttosto, sono spudorato come i bambini e i contadini.

All’inizio di questa intervista, mi hai detto di essere stato un bellissimo bambino. Pensi ancora di essere bello?

Con il tempo torno bambino.

Nel sesso, sei più fallocentrico o contemplativo?

Tutto il corpo è sessuato. Essere fallocentrico è roba da onanisti. Ma non di rado ho avuto momenti di assoluta castità.

Vivi la vita come se dovessi morire prima d’invecchiare?

No, ma ho il rammarico di aver perso troppo tempo nello scrivere. Come ti ho detto prima, a 20 anni potevo già morire perché avevo visto e fatto tutto: conosciuto l’amore, la miseria, il lusso, il mondo antico, i topi in casa… Gli altri anni sono stati di costruzione e di sfida al mondo. Mi sono considerato sempre, e nei confronti di chiunque, una sorta di ghepardo imprendibile.

Anche nei confronti delle donne?

Le donne mi hanno avuto. Anche da ghepardo.

Ti sei mai sentito incastrato in qualche gabbia mentale o fisica?

Nel massimo della mia forma sono andato in depressione.

C’è qualcosa, Aurelio, che ti fa paura?

La malattia, e la degenerazione del corpo.

Sei mai stato schiavo delle droghe?

No. Però, intorno ai 17 anni ho sperimentato il nepalese, l’afghano, il pachistano, montati con Lsd e mescalina. Ma, siccome tutto ciò mi procurò attacchi di panico e collassi neurovegetativi, smisi ben presto. Posso dirti, oggi, di essere assolutamente contrario alle droghe. La droga ce l’abbiamo nel cervello. Chi non ce l’ha, peggio per lui!

Cos’è, per te, la vergogna? La provi spesso?

No, non credo di avere questo problema, se di problema si tratti.

Perché, nei tuoi libri, compare così tanto la ferocia, la violenza, la criminalità? Da dove deriva questa fascinazione del male?

Perché sono elementi assoluti della vita; sono veri e, paradossalmente, hanno una loro innocenza. Il perverso no, la ferocia, sì.

Nel tuo precedente romanzo – “Arsenale di Roma distrutta” – hai dedicato il tuo libro ai vecchi pederasti: perché?

Perché in qualche modo erano dei mecenati della bellezza; questi froci erano una sorta di Luchino Visconti depotenziati. Uomini di charme, quasi asessuati. Ma c’era, inoltre, una spinta anche provocatoria nella dedica.

Provocatoria nei confronti di chi?

Dell’infame politicamente corretto…

Hai detto: io i romanzi li soffro, li pago con tutto il corpo. Cosa vuoi dire? Spiegati meglio… Lotti per scrivere?

No, non lotto per scrivere. Scrivo i libri sempre per una necessità, che magari vieni da molto lontano e che poi, all’improvviso, si concretizza. La parte più facile, paradossalmente, è proprio la scrittura. Però prima me li scrivo sul corpo.

Cosa rappresenta, per te, la scrittura? Ti serve a qualcosa?

Adesso, no, ormai, ma quando ho iniziato è stato il modo per stare al mondo, e avere la possibilità di costruire il mio nome.

Che rapporto hai con gli editori?

Non l’ho conflittuale; cerco, più che posso, di non farmi fregare e  cercare di fare  le cose che voglio io. Fare l’editing, ad esempio, ai miei libri è impossibile.

Li hai mai mandati affanculo?

No, ma con gli editor Rizzoli, una decina di anni fa, per una vicenda legata sempre allo Strega, ho avuto confronti duri ma leali.

Ti pesa non aver vinto il premio Strega?

Non lo vincerò mai.

Chi è stato quello che ti ha scoperto? Il tuo mentore?

Io!

Che rapporto hai con la critica? Servono, ai fini della vendita, i critici letterari? E chi stimi?

Hanno scritto di me tutti i grandi critici dell’ultimo secolo e i nuovi. I padri però cercavano un diverso successo; ora, i figli, hanno in molti un romanzo nel cassetto.

Manganelli diceva che ci sono scrittori in grado di farti cambiare umore. Per te vale a stessa cosa? Ce n’è qualcuno che ribalta il tuo stato d’animo?

“Mia Madre” di Bataille è stato il libro che, sì, mi faceva cambiare umore, stato d’animo. Ma è un libro letto a 18 anni. E poi, ovviamente, la poesia, tutta.

Qual è stato il libro più brutto che hai scritto?

Non ho mai scritto libri brutti, i miei sono solo capolavori.

Come mai Roma è centrale nella scrittura dei tuoi libri?

Non sempre, sai… A parte gli ultimi due, tutti gli altri li ho ambientati nel resto d’Italia o, addirittura, in Francia o a Urbino. O dentro il corpo dell’Italia.

Quali sono stati i sette-otto libri che stai partorendo?

Ne ho 10 in testa.

Quali sono stati gli autori fondamentali della tua vita?

Drieu La Rochelle, Maupassant, Klossowski, Léautaud, e Verga. E, in ordine sparso, la prima Ortese, La Capria di “Ferito a morte” e il “Padrone” di Goffredo Parise. E tutta la poesia italiana. L’Ortis è il romanzo che io ho riscritto ne “I mulatti”.

Qual è stato il momento in cui ti sei detto: ce l’ho fatta, cazzo!

Non c’è stato un momento in particolare. Non ho mai inteso scrivere come una professione. Ho scritto per vivere di più e di meno.

Aurelio, concludiamo, che comincio ad avere fame… Hai capito qualcosa della vita e di te stesso?

No. Ma ho vinto. Sono diventato lo scrittore che volevo essere. Mi è costata molta vita.

·        Banksy.

Da exibart.com il 12 novembre 2021. A Bristol, un addetto alle pulizie ha cancellato per sbaglio un’opera di Banksy: si tratta dello stencil di uno dei suoi iconici topi, con tanto di firma in rosso, che spiccava sulla parete di un centro comunitario abbandonato, già ricoperta da graffiti di ogni tipo. È tutto vero, anche se è un episodio di una serie tv e l’addetto si chiama Cristopher Walken. L’anonimo artista di strada – del quale si sa solo che è originario proprio di Bristol – ha realizzato l’opera e la firma per The Outlaws, serie comic crime della BBC in sei parti, creata e diretta da Stephen Merchant. La serie segue le storie di sette sconosciuti provenienti da diversi ceti sociali, costretti a svolgere insieme dei lavori di pubblica utilità a Bristol, per scontare le proprie sentenze. La loro sorte cambia improvvisamente, quando scoprono una borsa piena di soldi, ignari del fatto che alcune persone non proprio raccomandabili la stanno cercando. Piccolo spoiler: Christopher Walken interpreta Frank, il personaggio che, per completare il suo servizio, nell’ultimo episodio della stagione, ha il compito di ricoprire tutti i graffiti selvaggiamente lasciati sulle pareti di una struttura fatiscente. Dopo aver trovato l’opera di Banksy, Frank chiede al suo agente di sorveglianza se deve ricoprirla. La sorvegliante risponde distrattamente, non vedendo l’opera, che tutti i graffiti devono essere ricoperti. E così Frank esegue l’ordine, proprio come gli è stato detto, dando un colpo di rullo a una fortuna insperata. Al di là della fiction, per avere un’idea del valore di un Banksy, Game Changer, il lavoro esposto all’ospedale di Southampton in pieno lockdown, è stato venduto all’asta da Christie’s Londra, nel marzo 2021, per 23,2 milioni di sterline. «Possiamo confermare che l’opera d’arte alla fine di The Outlaws era un Banksy originale e che Christopher Walken ha dipinto su quell’opera d’arte durante le riprese di questa scena, distruggendola», ha dichiarato un portavoce di The Outlaw al Sun. Ormai raramente le opere di Banksy vengono cancellate, più spesso capita che vengano ricoperte da plexiglass per proteggerle oppure, nei casi peggiori, asportate dai muri per finire in qualche collezione privata o in giro per le centinaia di mostre in giro per il mondo, rigorosamente non autorizzate dallo street artist. Ma in questo caso la cancellazione è stata consensuale: è stato infatti spiegato che la distruzione dell’opera d’arte è stata concordata con lo street artist, che si dice sia un grande fan di Walken: «Le sue uniche condizioni erano che ci avessero davvero dipinto sopra e che sarebbe stato il suo eroe Christopher a tenere il rullo». Inoltre, Banksy è molto legato alla sua città natale e ha ammirato il lavoro di Merchant nel mostrarla come ambientazione della sua serie.

·        Barbara Alberti.

Anticipazione da “La Confessione - Nove” il 28 ottobre 2021. Nuova intervista senza filtri sul Nove a “LA CONFESSIONE” di Peter Gomez: venerdì 29 ottobre alle 22:45, come sempre dopo il live di Fratelli di Crozza, il direttore de ilfattoquotidiano.it incontra la scrittrice e giornalista Barbara Alberti. La Alberti racconta la sua relazione con Vittorio Sgarbi, con il quale ha viaggiato per quattro anni per portare a termine "Il promesso sposo" nel 1994, un ritratto dedicato proprio al critico d'arte e presentato sotto le spoglie di un'autobiografia “mancata”. "Io a volte l’ho criticato, perché non capivo, perché criticavo certe posizioni politiche - ha spiegato l'autrice di 'Vangelo secondo Maria' - E poi ho capito che lui è al di là del giudizio. Lui è un'opera d'arte". "Lei ha avuto una relazione, anche lunga, con Sgarbi?", ha chiesto il conduttore. "Non era il mio fidanzato, era l'oggetto della mia biografia e io ero la sua biografia. Ho viaggiato con lui per tre, quattro anni", ha ribattuto la scrittrice. "Ma che anni sono stati? Voi avevate anche rapporti d'amore, di sesso?", ha insistito Gomez. "Mai avuti… adesso scusi, queste cose si raccontano a letto, non si raccontano a tavola!", ha risposto divertita l'ex concorrente del quarto Gf Vip. "Sì, si raccontano a La Confessione", ha detto ancora il giornalista. "Io non ero l'amante di Sgarbi, ero la biografa di Sgarbi", ha proseguito l'autrice della celebre rubrica Parliamo d'amore su Amica.  "Però spesso appare come un gran maleducato", ha puntualizzato il conduttore. Tuttavia, per la Alberti: "Non si sa mai chi sia lui. Può essere squisito e può essere… Lui è un vero anarchico con se stesso. Secondo me, non sa neanche lui chi sia davvero, è un divenire". "Ma le chiedo: è realmente intelligente? Perché, per esempio, sul Covid sta dicendo grandi sciocchezze", ha detto ancora il direttore di Fq Millennium. "Mah, tutti gli intelligenti possono dire delle stupidaggini", ha concluso ironicamente la scrittrice umbra.  

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 12 luglio 2021. Scrittrice di romanzi e sceneggiature, poi anche volto noto della tv, raggiungiamo Barbara Alberti in Salento - «il buen retiro di mio marito», il produttore cinematografico Amedeo Pagani - mentre, classe 1943, attende l'arrivo dei figli perché la portino al mare, dalla campagna, «perché noi non guidiamo». Il suo romanzo più recente è Mio Signore (Marsilio). La storia di Maria, la sguattera del bar, che un giorno si accorge che il suo vicino di casa è Dio. Lo ravvisa nel garzone della lavanderia. Da questa storia di spiritualità e misticismo iniziamo a dialogare, con una delle ultime «pellerossa senza più terra» in un mondo che procede per «formalismi e poca sostanza», «in cerca di consensi».

Nella sua biografia si dice grata alla pessima educazione cattolica ricevuta, cui deve l'ispirazione fin dal primo romanzo. Sull' argomento religioso è tornata spesso.

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«L' arte è trasfigurazione, consente di essere salvati dal morbo di oggi, che è il materialismo. Se sei venuto al mondo solo per vivere, mangiare, morire beh, va a finire che ti spari». 

Lei ha fede?

«Sono atea, ma l'idea di un altro mondo oltre la bieca realtà è straordinaria. Di arte abbiamo più che mai bisogno, dopo che il Covid ci ha ridotto a corpi che hanno paura di toccarsi l'un l'altro, ci ha portato a una terribile moria dello spirito dell'uomo».

I dialoghi di Mio Signore sono in dialetto, una scelta alla quale lei ricorre più volte.

«I dialetti sono la vera lingua italiana: la Sardegna, ad esempio, ha cinque lingue straordinarie. A Napoli, ci sono dieci sinonimi per ogni parola. Pensi alla vastità mentale che consentono a un bambino che nasce lì. L' italiano è una lingua inventata, convenzionale, ed è una lingua che va violentata, sforzata, riportata alla sua potenza e libertà». 

Lo si fa abbastanza?

«In libreria sì: mi stupisce che in questa epoca che vede una tendenza terrificante sul linguaggio stia nascendo tanta letteratura di valore».

Ma?

«Ma le nuove forme di comunicazione a distanza hanno sfaldato il rapporto personale. Sconvolgente, poi, la ricerca totale del consenso. Un giovane che si forma, nei tempi, ha sempre desiderato essere originale, contro il mondo, non tanto per principio quanto per affermare la propria personalità, o per sfida. Come Majakovskij in Schiaffo al gusto del pubblico. Oggi invece è "l'era della suscettibilità", come ha scritto con lucidità e umorismo Guia Soncini: ci si sente vittime come di uno status». 

Oggi ci sono i follower.

«Da brividi. Proiettano tutti sul palcoscenico fin da piccoli: si aspira alla notorietà. E tutti utilizzano sempre le stesse parole. I giornalisti ne sono l'esempio. È in atto una specie di congiura per uccidere l'immaginazione, e la personalità. Quando invece al mondo ti ci mettono, ma solo tu scegli come essere, anche attraverso il modo di comunicare». 

Che c' entra il linguaggio?

«Il linguaggio consente di interpretare il mondo e se stessi, il riscatto dalla condizione umana: permette di capire la propria visione del mondo, e di vivere secondo quella. Oggi c' è una dittatura che per la prima volta non è imposta con le armi, ma appunto con il linguaggio, ed è accettata con entusiasmo. Se sono disperato e penso di suicidarmi, si dirà di me che sono un depresso, cancellando le emozioni umane. Che mi sia morta la moglie, o che mi sia stata rubata la macchina, si tenderà a dare una definizione sempre uguale». 

Un milione di italiani soffrono di disturbi psichiatrici dopo il Covid, riportano le cronache.

«Siamo oppressi, più che depressi. Ognuno dalla sua condizione, ognuno dai suoi problemi. È spaventevole azzerare la pluralità dei disagi umani, ingabbiandoli».

Bisogna stare attenti a parlare, e a scrivere, oggi? Come siamo arrivati a sostituire le desinenze maschili e femminili con un asterisco?

«Un vento di convenzionalità e infelicità percorre l'Italia e l'Occidente. Mi spaventa: quando sono venuta al mondo esistevano tante personalità. Anche modeste, intendiamoci: non occorre essere per forza Garcia Lorca, ma potrei descriverle i miei parenti tutti diversi l'uno dall' altro. Il conformismo c' è sempre stato, ma oggi sta diventando uno strumento di tortura».

Le hanno chiesto delle polemiche per il doppiaggio italiano del film Una donna promettente: la voce di un'attrice trans è stata affidata prima a un attore uomo e poi, con le scuse, a una donna. Lei in quell' intervista ha parlato di un «rincoglionimento totale del mondo».

«Perché è ridicolo, certo: l'unica misura dell'arte è l'arte. Recitare è trasfigurare, sempre. Se i grandi scrittori o pittori fossero stati attenti a non offendere nessuno, biblioteche e musei sarebbero vuoti. Così, anche nel cinema, esiste solo l'interpretazione e la bravura. E invece oggi a Hollywood funziona che se serve un bravo violoncellista per un film si sceglie quello afroamericano, o una donna, invece del talento. Una discriminazione della discriminazione, che mi sgomenta».

È in corso il Festival di Cannes. Il direttore artistico Thierry Frémaux ha detto che la Croisette non privilegerà le donne, ma che «tra due film di pari valore sceglieremo quello diretto da una donna».

«Non mi piace nemmeno questo, e per fortuna non mi è mai successo. Voglio essere scelta sempre e solo perché sono brava, mai favorita. Da scrittrice, non so nemmeno di che sesso sono: l'artista indossa altre vite, altre esperienze, altrimenti fa solo il diario della sua vita. Il mondo dello spettacolo sta tradendo un senso di colpa incolmabile». 

Sta cioè cercando di porre rimedio a discriminazioni del passato?

«Invece che un senso di colpa occorrerebbe un senso civile: ognuno è diverso. Risarcire gli artisti attraverso una stupida identificazione con il genere è il massimo dell'offesa». 

I festival del cinema di Berlino o San Sebastián hanno introdotto premi gender-neutral.

«Questa non la sapevo. Non so, c' è un calderone folle. Follia è anche per me esaltare "lo Strega delle donne", come fecero nel 2018: prima non ci premiavate perché siamo donne, ora perché lo siamo? A me interessano solo i libri. Il gioco di Carlo D' Amicis era l'evento grande di quell' edizione 2018, è stato oscurato da questa sottolineatura sulle donne. Parere personalissimo, naturalmente, ma è un libro di quelli che se ne scrivono ogni cento anni».

Allo scrittore Gabriel Matzneff in Francia non hanno voluto pubblicare l'ultimo libro dopo le accuse di pedofilia della sua ex amante. L' Italia lo ha fatto.

«A rigor di logica si dovrebbero eliminare allora Dostoevskij, Maupassant, Nabokov. Per non parlare di D' Annunzio. Tolstoj, soprattutto: si legga La sonata a Kreutzer, è un manuale per la necessaria soppressione della femmina, un inno a uccidere le donne perché rovinano il mondo». 

Alle donne qualcosa è dovuto?

«Dateci la possibilità di far figli, mettetevi in saccoccia gli omaggi formali e pure la politica dei bonus: ci occorre una vera possibilità economica per mettere su famiglia, quando la verità è che sottobanco ti licenziano se sei incinta». 

C' è una via d' uscita dal formalismo e dall' appiattimento del linguaggio?

«Bravi insegnanti e una vera educazione alla bellezza. Penso ad esempio ai migranti: prima di dirmi che non bisogna dire "negro", che capisco sia un termine che può sconcertare per la storia che ha, si inizi a dire che non bisogna dare del tu a filippini, africani e slavi come fan tutti nei negozi. Ma non so se ho fiducia nella scuola: è diventata come un'azienda. L' aver introdotto crediti e debiti è imperdonabile, perché in un luogo dove si formano esseri umani non bisogna parlare come se si fosse in banca».

La politica ha responsabilità?

«Certo: il disinteresse. Le pare si interessi della "polis"? Quando mio marito e io eravamo giovani c'era una sinistra illuminata, il senso di una conquista di una giustizia sociale. Un' idea elementare, molto bella. La sinistra ha fatto tanto, ma adesso - mi spiace - c' è solo lo spettacolo. Qualcuno in buona fede resiste. Dopotutto la politica è sempre stata una cosa violenta, perché è l'uomo al potere». 

Speranza ne ha sul futuro?

«I giovanissimi, sotto i 12 anni, mi lasciano spesso a bocca aperta. Ho visto uno di loro dire al padre di non pubblicare un video su Instagram perché avrebbe profanato un momento privato. Ho conosciuto un ragazzino che a 9 anni sta scrivendo un libro su una strage perfetta dopo che gli hanno spiegato di Hitler. Dopotutto c' è chi vive ancora nel vecchio mondo, nonostante le tendenze terribili di cui abbiamo dialogato finora».

Quindi tutto andrà bene?

«Nonostante io creda che il genere umano scomparirà per stupidità - siamo seduti sulla fine del pianeta e non modifichiamo di una virgola le nostre abitudini - sì, credo che buoni segnali si possano ancora scorgere. Ma io che sono tra gli ultimi pellerossa senza terra, penso non ci sia mai stato nella storia un salto così forte tra una generazione e l'altra. Osservo da un'altra dimensione, ormai». 

Parla della tecnologia?

«Meravigliosa, ma ha tolto il tempo dell'attesa, che è un privilegio. Ricordo l'immaginazione che scaturiva nei giorni in cui si attendeva la risposta di una lettera all' amato che viaggiava sul treno per corrispondenza. Mi lasciano anche ben sperare le decine di scrittori straordinari che si fanno strada. L' elenco è lungo, c' è in giro un sacco di gente libera. Per trovare una compagnia nella vita devi capire come sei tu, non puoi stare con uno sconosciuto. Se vuoi solo piacere ad altri sarai un ologramma, un fantasma, uno che non capirà né la vita né la morte. Purtroppo oggi c' è una gran voglia di perdersi».

Barbara Alberti, la nostra Virginia Woolf contro censura e idiozia. La scrittrice: "Saremo travolti dalla stupidità. Finirà che un bravo violoncellista non potrà suonare perché non è gay o nano..." Francesco Specchia Libero Quotidiano il 30 giugno 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

«Rinunciare alla libertà d’espressione è la peggiore delle epidemie». Uno chignon grigio d’un’eleganza sussurrata, il fisico gracile, le farfalle al posto delle dita, da un lato; e le saette nello sguardo e il pensiero tonante alla Virginia Woolf, dall’altro. È impressionante osservare il dentro e il fuori di Barbara Alberti intervistata dall’indomita Francesca Fagnani al feroce Belve programma di Raidue, mentre discute di sesso, di «amori inesplicabili» , di incantamenti del cuore e della mente, o di «diritti di qualcuno che non si possono difendere senza ledere i diritti di qualcun altro». Barbara Alberti ci delizia. È la voce ribelle della nostra coscienza oggi assediata dal politicamente corretto. Da templare dei diritti civili, la signora rappresenta l’ultimo baluardo contro il femminismo oltranzista e l’ipocritissima cancel culture. Ossia quella cultura della cancellazione tanto di moda che spinge, per esempio, ad abbattere la statua di Colombo; a vietare i libri di Mark Twain dove appare la parola “negro”; a far ridoppiare un film –Una donna promettente- perché la voce italiana era maschile e quella originale americana apparteneva a una trans. Sia a Belve dove ridimensiona i suoi passati amori saffici («le donne mi annoiano, perché sono gelose»), sia alla rivista mowmag.com, Barbara ci fa fare la ola. «Il mondo è vittima di un rincoglionimento totale, di stampo reazionario. Noi vecchi non pensavamo certo di lasciare un mondo ideale, ma morire travolti dalla stupidità è veramente spiacevole» afferma lei, stabilendo che un attore maschio bravo può tranquillamente interpretare una donna, perché la «recitazione dissolve l’identità» che, per inciso, è la stessa cosa che diceva Euripide. Barbara è una mitragliatrice gentile. Sulla stramberia supergender di Michela Murgia che usa lo “schwa” il segno illeggibile ad indicare il plurale neutro caro alle comunità transgender commenta: «Come può una persona con un tale istinto poetico incartarsi in questo barocchismo moderno? Se censuri Céline, e lo traduci in un linguaggio politicamente corretto, non solo diventa illeggibile, ma sciocco. È bello e vitale che ci siano gli uomini, le donne, i trans. Ma senza manuali di bon ton ipocrita». Sulla messa al bando delle parole, aggiunge: «Io voglio essere libera di dire tutte le parole che voglio, persino di bestemmiare. Ora dobbiamo rifare tutta la letteratura mondiale? Se non diciamo più “zoppo” la persona non è più zoppa, e sarà trattata con maggior rispetto? Riguardo alle minoranze etniche e sessuali, occorre educare i figli, all’intelligenza della diversità. Se i genitori ce l’hanno. Per la nostra cattiva coscienza razzista abbiamo trasformato in ingiuria la parola “negro”, che è diventato insulto, mentre “bianco” non lo è». Già. Barbara ha ragione. E, riguardo alle masse “suscettibili sui social”, afferma che «è spiacevole: tutto si fa per un like»; ed ecco che io, punto nell’orgoglio, corro da mio figlio a strappargli il tablet e oscurargli Youtube. Barbara si produce in puntuti commenti che in qualunque altro momento storico sarebbero finanche banali. Se le impongono l’idea forzosa della “quota rosa”, s’inalbera: «Annunci trionfali, “ci vuole una donna presidente della Repubblica!”, sono imbarazzanti. Una donna non vale l’altra e il fatto di essere donna non è una condizione sufficiente».  Se le dicono che urge «depurare il linguaggio», lei immagina un mondo mellifuemente totalitario, «che degrada la moralità a slogan e censura le parole, sostituendole con altre che sono a volte più offensive. Credono di creare un’uguaglianza teorica, verbale. Poi le domandano dell’autocensura di Victoria’s Secret verso le sue modelle. E lei osa l’inosabile: «Cosa verrà fuori ancora nell’arte? Che magari un bravo violoncellista non potrà suonare in un’orchestra perché non è gay o non è nano?». Domanda feroce. Se la facessimo noi, saremmo tacciati di hitlerismo, banditi da ogni consesso; ma intonata da Barbara Alberti, diventa un dito puntato verso l’ipocrisia. Chapeau...

Matteo Cassol per mowmag.com il 28 giugno 2021. “Il mondo è vittima di un rincoglionimento totale, di stampo reazionario. Noi vecchi non pensavamo certo di lasciare un mondo ideale, ma morire (facciamo le corna perché vorrei stare ancora un po’ qua) travolti dalla stupidità è veramente spiacevole. Non si riesce a difendere i diritti di qualcuno senza ledere i diritti di qualcun altro”: lo dice Barbara Alberti, scrittrice e sceneggiatrice, commentando per MOW la notizia del rifacimento coatto del doppiaggio di “Una donna promettente”, con tanto di scuse, dopo che era venuto fuori che a Roberto Pedicini (che dà la voce tra agli altri a Kevin Spacey e Javier Bardem) era stata fatta “erroneamente” doppiare un’attrice trans. Forse il primo caso italiano dopo quelli internazionali, soprattutto quelli dei Simpson, da parte della cui produzione è stato annunciato tra le altre cose che i bianchi potranno prestare la propria voce solo a personaggi bianchi (cioè, a ben guardare, a nessuno, visto che i Simpson al massimo sono gialli). 

Un discorso analogo vale per gli attori e per le polemiche riguardanti quali ruoli si “possano” interpretare o meno (gay, disabili, eccetera). Non le pare?

“Certo. È assurdo. Se io sono un attore bravo o bravissimo – si chiede Alberti – perché non potrei interpretare un ruolo piuttosto che un altro? La recitazione è trasfigurazione, dissolve l’identità, ogni rappresentazione di te che hai nel mondo. Altro che regolette fintoprogressiste. È la morte dell’arte”.

Anche perché il lavoro dell’attore e del doppiatore per definizione è quello di interpretare qualcun altro. O no?

“Recitare è inventare. Dunque è censura pura, idiozia al potere”. 

E sulle quote minime riservate alle minoranze per poter partecipare agli Oscar?

“Questa cosa distruggerà il cinema. Mio marito (Amedeo Pagani, ndr) è produttore di registi come Theo Angelopous, Marco Bechis, ha fatto film bellissimi, ha portato in Italia Wong-Kar Wai, Kitano. Ed è disperato. Come tutti quelli che vogliono fare il vero cinema, quello sentito, quello bello. È la negazione della libertà creativa. Un mondo morbidamente, mellifluamente totalitario di base, che cerca di salvarsi con la forma, degrada la moralità a slogan e censura le parole, sostituendole con altre che sono a volte più offensive dei nomignoli infami di una volta. Credono di creare un’uguaglianza teorica, verbale. Pensano che cambiando le parole si possa cambiare tutto. Perché non iniziare i giovani alla bellezza (in ogni senso), che quella sì educa a non essere dei bestioni razzisti. Cosa verrà fuori ancora nell’arte? Che magari un bravo violoncellista non potrà suonare in un’orchestra perché non è gay o non è nano? Puro nonsense. Penso che in futuro, se gli uomini si riprenderanno, di questa epoca si riderà molto. Forse ne nascerà una grande fioritura artistica satirica”.

Anche in quel settore, però, la situazione non è buona. Già molti comici sono stati vittima dell’“affetto” delle masse di suscettibili sui social.

“Un altro sintomo di dittatura. In ogni epoca, l’arte si è sempre fatta contro. Poemi, libri, film: le grandi opere sono sempre apparse scuotendo i lettori, spesso andando contro il gusto corrente. Adesso un algoritmo mi dovrebbe avvertire di qual è il gusto del pubblico, per indicarmi come dovrei scrivere, conformandomi a quello? Adesso l’unico padrone è il consenso. Comincia fin da piccoli questa alienazione: voler piacere a tutti, perenne nevrosi, incurabile. Bambini di 12 anni si chiedono fra loro «tu quanti like hai?» Generazioni che crescono per piacere agli altri, per conformarsi al conforme, perdendo sé stessi”.

Cosa pensa di chi, come Michela Murgia, ha iniziato a utilizzare lo schwa, il segno pressoché illeggibile che starebbe a indicare un presunto plurale neutro?

“Mi meraviglia. Michela Murgia è una persona semplicemente geniale, con una dialettica formidabile, e una scrittura che resta. E poeta. Giorni fa mi sono ricordata una frase bellissima: «Questo luogo dove la lingua più parlata è ancora il silenzio». L’ho attribuita a T.S. Eliot, invece era di Michela Murgia. Come può una persona con un tale istinto poetico incartarsi in questo formalismo, in questo barocchismo moderno? Se censuri Céline, e lo traduci in un linguaggio politicamente corretto, non solo diventa illeggibile, ma sciocco. È bello e vitale che ci siano gli uomini, le donne, i trans. Ma senza manuali di bon ton ipocrita. Io voglio essere libera di dire tutte le parole che voglio, persino di bestemmiare. Ora dobbiamo rifare tutta la letteratura mondiale? Se non diciamo più “zoppo” la persona non è più zoppa, e sarà trattata con maggior rispetto? Riguardo alle minoranze etniche e sessuali, occorre educare i figli, da subito, all’intelligenza della diversità. Se i genitori ce l’hanno. Per la nostra cattiva coscienza razzista abbiamo trasformato in ingiuria la parola «negro», che è diventato insulto, mentre «bianco» non lo è. Poi però, quando Willy Monteiro Duarte, pacifico gentile ragazzo, viene assassinato dal gruppo per il colore della pelle, nessuno osa pronunciare la parola “linciaggio”. E si crede di rimediare cambiando le parole? La censura non ha mai portato bene. E nelle grandi manifestazioni di piazza, le stesse parole adoperate come insulto sono poi state usate rivendicazione. Usare parole diverse per identificare le stesse persone, che siano neri, gay, trans o portatori di handicap, non fa automaticamente crescere il rispetto nei loro confronti, mentre fa sicuramente aumentare l’ipocrisia. È grottesco pensare di riformare una società attraverso un formalismo forzoso. Bisognerebbe educare i bambini e i ragazzi a rispettare tutti. Cominciando da sé. A coltivare la libertà. E se proprio si vuole fare qualcosa sul piano della lingua, si insegni a dare del lei agli extracomunitari. Appena hanno a che fare con un nero o un filippino tutti gli danno del tu. È una roba da Alabama”.

Come vede la condizione attuale della donna?

“Penso che sia un disastro, perché tutto questo formalismo non fa che nuocere alla donna. Ci fanno solo omaggi pubblici che mi disgustano. Annunci trionfali, «ci vuole una donna presidente della Repubblica!», sono imbarazzanti. Una donna non vale l’altra e il fatto di essere donna non è una condizione sufficiente: e se poi mi ritrovo la Meloni? Sono convinta che le donne siano migliori nel lavoro. Abbiamo un’energia repressa nei secoli, esplosiva, siamo nuove. Sono fissata con l’idea che la donna abbia una grande fortuna naturale, non dovendo sostenere la prova dell’erezione: per questo siamo meno narcisiste. Le donne hanno la scienza del concreto, che è anche quella del sogno. Ma non è che se una donna arriva ad un’alta carica pubblica ci basti. Si inizino a fare delle cose concrete: intanto continuiamo a essere pagate meno, i maschi continuano ad ammazzarci e ormai non fa più notizia, è una strage accettata, non ci aiutano a fare figli (oggi una donna che lavora e fa un figlio sfiora l’eroismo). La situazione è atroce e sentire che le uniche proposte riguardano la forma mi fa pena, penso che non faccia bene alle donne. Non servono bandierine, ma cose reali”.

Ha sentito del cambiamento di rotta di Victoria’s Secret, che ha abolito le modelle “angeli”?

“È la deriva della body positivity: non è «vogliamo essere liberi di essere come siamo, non vogliamo più essere discriminate!», no, a loro volta impongono un modello. E se a me piace pesare cinquanta chili? Mi ricordo quando hanno attaccato Diletta Leotta perché si era vestita da Barbie: ma come, tu ti puoi vestire da balena e io non posso vestirmi da Barbie? O da elfo? È un’altra forma di perverso razzismo sotterraneo che sta mettendo radici. Io penso che siamo perduti, ma mi piace sperare che duri poco e che vincano i poeti”.

Di recente Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice femminista nigeriana, ha preso posizione sulle traversie subite e sulle pesanti accuse ricevute anche e soprattutto per aver detto che “le donne trans sono donne trans” (sottinteso: non sono donne e basta). Cosa pensa di vicende come questa?

“Mi paiono questioni da sesso degli angeli. Mi perdo su queste sottigliezze. Mi pare però che il tutto rientri in un grande classico contemporaneo, quello della coltivazione di uno status di vittima in servizio permanente. Una cosa che non porta da nessuna parte. Da un lato sono questioni molto soggettive riguardo alle quali ognuno dovrebbe poter essere libero di esprimersi, dall’altro tutto ciò mi sembra molto, troppo barocco. Rimando al magnifico libro di Guia Soncini, “L’era della suscettibilità”, dove spiega magnificamente questa involuzione surreale e masochista, di un mondo dove tutti si ritengono offesi”. 

Che opinione ha sul ddl Zan?

“Non conosco a fondo i dettagli della proposta, ma ho fatto una ricerca sulle aggressioni omofobe e i delitti contro le persone omosessuali. Impressionante. Pur non sapendo bene com'è articolata la legge, credo sia indispensabile prendere provvedimenti contro una delinquenza di genere così estesa e violenta. Non ci vuole nessuna indulgenza. Chi tocca un gay, una lesbica, un trans deve sapere che non la passerà liscia. Le leggi servono a questo. Già le pene contro chi ammazza le donne sono quasi sempre inadeguate alla gravità del crimine. Quando si uccide o si fa violenza per categorie (come anche nel caso delle donne) ci vuole un deterrente forte”.

Da approfondire però ci sarebbe il tema della libertà di espressione e dell’uguaglianza di fronte alla legge. Un po’ quelle che, ce lo può confermare lei che l’ha vissuto, erano le rivendicazioni del Sessantotto. Come si è passati a quelle di oggi, che assomigliano molto a censura e settarismo?

“Siamo ormai dei dinosauri, noi, di un tempo in cui si aveva ancora il concetto di libertà. Oggi rinneghiamo il libero arbitrio. E nessun dittatore ce lo sta imponendo. Siamo noi i dittatori di noi stessi. Orwell è stato un grande ottimista: in 1984, delineando una dittatura con i mezzi antichi, imposta dall’alto col terrore, non immaginava che noi ci saremmo offerti alle catene. In 1984 ci sono i fili spinati, le torture. Adesso non ce n’è bisogno. Ci consegniamo spontaneamente. Non riusciamo a sostenere la nostra libertà. Siamo al culmine di questo rifiuto, che c’è sempre stato, ma la velocità della comunicazione contagia tutto. Quella è la peggiore delle epidemie. E – conclude Alberti – ci siamo dentro”.

Da "Un giorno da pecora" il 29 aprile 2021. “Trovo assolutamente ridicola la distinzione di sesso quando ci si innamora. Nella mia vita, se una persona ti fa innamorare ti pare che gli vai a chiedere il documento?” La pensa così Barbara Alberti, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice, che oggi si è raccontata a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. “Dico - ha proseguito la scrittrice - che se ti capita l'occasione straordinaria di innamorarmi te ne fotti di tutto, ti senti onnipotente”. E a lei è successo con entrambi i sessi? “A me è capitato sia con uomini che con donne e non ho mai fatto distinzione. Non ho mai pensato: oddio, sarò forse lesbica? Queste cose non le voglio nemmeno sentire, queste distinzioni sono ridicole”.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2021. Barbara Alberti, 78 anni, autrice di oltre trenta romanzi e di altrettante sceneggiature, ha appena fatto il vaccino e non sta nella pelle. Dice: «Sto come un fiore, è stato meraviglioso».

Che c'era di così meraviglioso?

«Quando sono uscita, ho fatto a piedi un'ora, con un'energia in corpo da pazza: il vaccino è stato un esorcismo. Una cosa che, prima, ti senti un miserabile, non sai che fine farai, e poi fai il vaccino, ti hanno battezzata, sei grata. Sei fra i salvati, anche se è un'illusione, ma chi se ne frega: io vivo di illusioni».

Prima del vaccino, la sua era paura di morire o paura della malattia?

«Era? È. La morte fa paura a tutti. Nessuno vuole morire, neanche i suicidi. Io mi devo solo rallegrare perché ci sono ancora. Mi viene pure da ridere perché sono clandestina, una che statisticamente non ci dovrebbe stare. Sono nell'età in cui vorresti vivere in eterno, ma sai bene che non ti conviene».

Ha confessato d'aver avuto, in gioventù, pensieri suicidi.

«Per me, la vecchiaia è stato un male della gioventù: fra i 20 e i 30 anni ne ero sconvolta. A 24 anni, un amico mi fa: come sei invecchiata. Da quel momento, ho progettato il suicidio a 28 anni, poi l'ho spostato a 38. Poi, ho scritto un libro apotropaico che si chiamava Delirio e che è la storia di due ragazzi in collegio dove, a metà, si scopre che hanno 80 anni. È stato il mio esorcismo contro la vecchiaia: dopo, non ne ho avuto più paura, ero come risanata».

Come avrebbe voluto suicidarsi?

«Mi trastullavo con l'idea di avere una via d'uscita, ma non l'ho mai pensato seriamente. Mi resta la convinzione che l'eutanasia sia una cosa civilissima. Vorrei morire nel sonno, ma se le cose si mettessero male credo che userei l'ultima lucidità per eliminare il male peggiore. Ma perché parlarne? La bella notizia della mia vecchiaia è che ci sono arrivata con un dono: ridere. Ridere della condizione umana e soprattutto di me. Se intuisci dentro di te il ridicolo, se vedi che sei irreparabile, sorridi, ti vuoi perfino bene e il tempo prende un senso mistico, magico. Questa tenerezza è stata una conquista, una cosa vista da piccola nei nonni anarchici».

Ha avuto, però, anche nonni borghesi. Nella sua biografia, si dice grata alla pessima educazione cattolica che ha ricevuto. Perché?

«Perché è un grande argomento letterario. E perché, quando percepisci la prigionia, se hai coraggio, fai in modo di diventare una persona libera e tutte le proibizioni, i castighi, diventano la geografia di quello che vorrai fare».

Quali erano le sue proibizioni?

«Il corpo era peccato, tutto era peccato. Una volta giocavo a travestirmi con mio fratello. Lui aveva tre anni, io sei, ci troviamo nudi, arriva mia nonna e fa una scenata di una violenza assurda. Eppure, era una personcina mite, diceva sempre il rosario, ma ha visto il peccato».

Sulla sua infanzia e i suoi avi ha scritto «Memorie malvage», lei che bimba è stata? «Un'educazione così restrittiva è un privilegio: diventi ribelle ed è una grande soddisfazione. In quelle condizioni, ti viene ansia di libertà e desideri vivere lietamente. Devi guadagnarti ogni cosa ed è un grande divertimento perché la vita diventa un'avventura».

Come ha trasmesso questo senso di libertà ai suoi due figli?

«Essendo. E sono stata una madre clown, li ho sempre fatti molto ridere, gli ho raccontato storie, e non mi sono mai trattenuta dal fare nulla mi piacesse. Poi, gli ho voluto bene, che a me pare sia tutto. Però, chi sa gli sbagli che ho fatto...Ogni tanto me ne rinfacciano qualcuno. Una volta ho scritto: figliare è errare. Adesso la ricerca della perfezione nel rapporto con i figli ha un sacerdote laico che è lo psicologo: senza, non sappiamo fare più niente. Quello, invece, era un tempo in cui si poteva coltivare il libero arbitrio, l'unica ricchezza che hai finché non sei rimbambito con l'Alzheimer».

Che tipo di giovane ribelle è stata?

«La ribellione è quando capisci cosa vuoi essere e vorresti che ti lasciassero diventare quello che vuoi in pace. Ci trovavo gusto a ribellarmi... Tornavi a casa tardi e ti pigliavano a schiaffi: eri un ribelle, era uno che veniva punito. Eravamo piccoli sbruffoni. Il '68 era fatto tutto di piccoli sbruffoni, in senso tenero».

Quando ha iniziato a scrivere?

«Subito. Appena mi hanno insegnato, a cinque anni, ho detto: è fatta, c'è una strada».

Ha scritto di peccatori come se fossero santi e di santi come se fossero peccatori. Che idea di mondo ha voluto raccontare?

«Ma che ne so. Tutto viene per grazia. Una cosa che m' interessa è l'epigrafe del mio Vangelo secondo Maria , c'è scritto: fuori dell'eresia non c'è santità. Già seguire il proprio cammino liberamente è un'eresia. Ho scritto di questo e poi libri e biografie umoristiche. Ridere è il riscatto della mia miseria umana».

Perché si attribuisce miseria umana?

«Perché so che morirò stupida, ho sviluppato il cinque per cento di ciò che mi è stato dato, perché sono un'edonista assoluta, sono una spensierata e mi piace la vita di casa. Pulire e riordinare, a me, pare una creazione».

Nei suoi libri, c'è la madonna che abortisce e ci sono anche undicenni che fanno sesso. Che gusto le dà rompere sempre i tabù?

«La mia madonna abortisce e non in nome del femminismo, ma del libero arbitrio. Per il resto anche, ho scritto cose impopolari, lo so. Non lo faccio apposta, mi arrivano».

Come arriva l'ispirazione?

«Se lo sapessi, sarei ispirata sempre. Invece no, aspetto questo riscatto ogni tanto. Sono scriteriata, non ho tenuta cara la mia vita, l'ho dispersa, la prova è la mia mancanza di memoria. Poi, però, vengono i libri e lì sono più intelligente, ho un senso delle cose, però devo aspettare: l'ispirazione, quando arriva arriva. E quando viene, ormai, il libro c'è e sarà scritto».

Ora sta scrivendo?

«Scrivo sempre, come un maniaco, ma ora non qualcosa a cui affezionarmi. Sono così incredula di esserci ancora che, ormai, scrivere o fare un minestrone mi dà uguale piacere: sono perfette, bellissime, cose della vita».

Partecipare al «Grande Fratello» è stata una delle bellissime cose della vita?

«Non può immaginare la pace e la bellezza di un posto dove nessuno ti raggiungerà, i problemi sono alle spalle, ti pagano per giocare, per non fare niente, solo per essere. E puoi stare in mezzo a un'umanità varia e a me il prossimo piace: le persone sono storie».

Convive ancora con il suo ex marito, lo sceneggiatore e produttore Amedeo Pagani?

«Certamente. Siamo come due gentiluomini che dividono una casa. A un certo punto, ci siamo separati ma non abbiamo mai visto un avvocato: abbiamo fatto le cose all'onesta, era padrone di venire quando gli girava. Le pare di dover dire ai figli: puoi vedere papà giovedì? E poi, è tornato, come un parente».

Che amore è stato il vostro?

«Un amore che ha preso tante forme, con molti momenti di assenza, con altri amori. Lui veniva da una famiglia alto borghese, io piccolo borghese. A casa sua, si sarebbero ammazzati pur di non farci sposare, ma mentre io ero un'insicura che vuole ribellarsi clamorosamente, lui dichiarava la sua volontà e la seguiva, sereno, determinato».

Sul perché vi siete lasciati ci sono due versioni: che lui se ne andò innamorato di un'altra e che lei lo lasciò perché si era innamorata di un omosessuale.

«Ma che ne so, boh, mica sono Belèn».

Entrambe le cose le ha raccontate lei, ricordando anche un periodo lesbico.

«Mi sarà scappato: ho un senso sacro dell'intimità».

Con Vittorio Sgarbi, sul quale ha scritto «Il promesso sposo», ha avuto una storia?

«Se intende di letto, no. Ma seguirlo per tre anni è stata una delle esperienze più deliziose della mia vita. Mi ha regalato di nuovo la prima infanzia: vita, poesia, inafferrabilità».

Per decenni, ha tenuto una posta del cuore, come sono messi gli italiani con l'amore?

«Fanno di tutto per essere infelici, per ostacolarsi e non seguire se stessi. Tre quarti del dolore amoroso è colpevole».

Lei, per amore, ha sofferto?

«Come si ama, già si soffre. Appena lo sguardo dell'amato ti sembra un po' spento, ti senti morire. Quando ami, dipendi da quello sguardo, però, in te, tutto vive».

Ha scritto tante sceneggiature, come «Il maestro e Margherita» di Alexander Petrovic, «Il portiere di notte» di Liliana Cavani, ma anche «Monella» di Tinto Brass. Spesso l'hanno chiamata a scrivere di sesso.

«Però Monella è la storia meno erotica che ho scritto, Brass è un esteta del sesso ma è il contrario del desiderio, ha una visione gioiosa, ma per noi il sesso si fonda sulla morbosità».

Ferzan Ozpetek l'ha voluta nella «Dea della Fortuna». Com' è stato recitare?

«Credo che lui ancora se ne penta: come attrice, sono una cagna». Nel 1998 ha scritto «La donna è un animale», 80 ritratti di donne viventi, molti al veleno. La cattiveria non la spaventa? «Ma io non sono stata cattiva. Anzi, sono stata buona: ti faccio il ritratto, ti fisso nella pagina, ti faccio un favore Non mi pento».

Al Grande Fratello, ha confessato di essere ricorsa alla chirurgia estetica, ma non ha detto per cosa. Può dire almeno perché?

«Mi sentivo disgraziata e ho capito il valore terapeutico di correggere il corpo. La faccia non la toccherei, ma ho rifatto il seno dopo l'allattamento».

Rimpianti ne ha?

«Tanti. Uno soprattutto: potrei capire il mondo mille volte meglio, se mi fossi coltivata, invece, ho danzato».

Nicola Mirenzi per huffingtonpost.it il 12 aprile 2021. Appena mi apre la porta di casa le ricordo che, per coincidenza, oggi è anche il giorno del suo compleanno: “Guardi che non c’è proprio niente da festeggiare. Le sembra il caso di brindare al fatto che non manca più molto alla mia morte?”. Non ho neanche il tempo di maledirmi per l’imprudenza che mi ha già trascinato giù in strada: “Mi accompagni a comprare una colomba”. Mentre andiamo a prenderla, Barbara Alberti sguinzaglia il suo cane bianco, un Golden Retriver di quaranta chili, nel Parco Nemorense, a Roma. “Hai già fatto il vaccino?” chiede a una signora che incontriamo. “Sì” risponde la signora. “Io, invece, devo restare viva altri dieci giorni: mi hanno prenotato il 20 aprile”. Ne è dispiaciuta. Però, appena la signora se ne va, trova subito un motivo d’allegria: “È una consolazione incontrare chi deve vaccinarsi prima di te. Ti fa provare ancora il brivido di essere più giovane di qualcun altro”. Barbara Alberti dice sì all’appuntamento solo dopo avermi fatto giurare che prima di arrivare andrò in farmacia a fare il tampone. Eppure, quando mi vede, anziché il certificato di negatività che ho in mano, mi chiede di abbassare la mascherina: “Voglio vedere in faccia con chi sto parlando”. Dice che, da ragazza, era convinta sarebbe arrivata all’età che ha oggi, settantotto anni, ben più stoica: “Invece, mi sono scoperta attaccata alla vita come un sorcio al legno”. Fin qui ha scritto trentasei libri, ventisette sceneggiature, ha tenuto rubriche sui giornali, condotto programmi alla radio, è un ospite adorato dalle trasmissioni televisive, e ha una storia che non riesce a mandare giù. “C’è stata una strage di vecchi. Non dico che sia stata una strage intenzionale. Che han fatto fuori i vecchi apposta, studiando un piano diabolico, sul modello nazista: questo no. Però è innegabile che grazie alla pandemia hanno trovato il modo di liberarsi di un bel po’ di anziani che, dal punto di vista di chi stila il bilancio pubblico, costituiscono da tempo una voce impegnativa della sezione ‘spese’. Di chi è la colpa? Di nessuno. O meglio: della disorganizzazione; e di uno stato che dalla parte della disorganizzazione pian piano si è messo. In questo senso, credo si possa parlare di una strage di stato, anche se non è stata una strage programmata, voluta”. Ci sono frasi di Barbara Alberti che sono diventate aforismi nazionali (“l’amore è per i coraggiosi. Tutto il resto è coppia”), manie di cui parla a ogni incontro (“pulire, mettere ordine in una stanza, è l’unico miracolo che si è sicuri di riuscire a realizzare ogni volta che lo si vuole”) e spettacolari anticipazioni dei costumi contemporanei (“donne, uomini: i generi sessuali sono degli schemi culturali, quello che ha contato per me è stata la persona che mi son trovata davanti, per questo credo che la fluidità sessuale sia una liberazione reale”). Si ha l’impressione che il suo privato sia senza segreti finché non si oltrepassa la soglia di casa sua e lei mette le cose in chiaro: “Non la autorizzo a scrivere neanche una parola sulla mia casa”.

Perché?

Perché gli sconosciuti non hanno diritto alla mia intimità. Casa mia la difendo.

Ci è sempre riuscita?

Una volta sono entrati i ladri e mi son sentita violata. Poi, a mente fredda, ho constatato che non avevano preso niente, e allora mi sono offesa.

Come offesa?

Se non prendi niente, significa che la casa ti ha fatto così schifo che non vedevi l’ora di andartene. E, se permette, questo è offensivo.

Ha risolto con un antifurto?

No. Tengo sempre dei soldi per i ladri in casa. Metta che s’incazzano perché non trovano niente e mi danno una botta in testa. Meglio avere a portata di mano un po’ di banconote. Una volta sono stata via per un po’ di tempo e ho lasciato sul tavolo seicento euro e un biglietto scritto a mano: ’Cari ladri, non troverete niente più di questo. Per favore, accontentatevi”.

Lei si è mai accontentata?

Direi che ho vissuto felicemente. Ho cercato di essere libera, per quanto difficile sia. Da giovane sono stata anche intransigente. Una scassacazzi micidiale, se ci penso. Insorgo ancora per la stupidità, la malagrazia, la sciatteria, perché in fondo sono una moralista. Però ho sempre riso. Oggi molto più di prima. L’umorismo riscatta dalla morte, dall’assurdità dell’esistenza. È una rivelazione.

Perché una parola così religiosa?

Perché ne ha parlato anche Papa Francesco. Ha detto che "l’umorismo è l’attitudine umana più vicina alla grazia di Dio".

E lei ci crede?

Io non credo. Il Papa sì. Ma su questo siamo perfettamente allineati.

Cioran, invece, diceva che “non c’è Dio che sopravviva al sorriso dello spirito”?

Ha ragione anche lui.

Ma come? È il contrario di quel che ha detto lei.

Non è vero. Io non sto parlando di ridere di Dio. Quello sì che lo diminuisce. Io parlo di ridere con Dio. L’ha insegnato San Francesco, andando oltre il Nuovo Testamento. Cristo non ride mai nei Vangeli. Le sembra verosimile? Francesco ha insegnato, invece, che la risata è un modo per ridimensionare le pretese dell’uomo, per dare a se stesso il giusto posto nel mondo, per non affogare nel proprio narcisismo.

Dove le ha imparate queste cose?

Da adulta ho scritto di San Francesco e anche di Santa Caterina, ma da bambina ho avuto un’educazione cattolica. Studiavo ad Assisi con le suore. Oggi so che il cattolicesimo mi ha dato il materiale più prezioso che c’è per una scrittrice: la mitologia. I demoni, i santi, la grazia, il peccato, la salvezza, la perdizione: come farei senza?

E prima?

Diciamo che, a lungo, ho sperimentato l’aspetto contundente della religione. Spesso le suore – e anche mia nonna – impugnavano il crocifisso per darmelo addosso. È una lunga tradizione, che risale alle Crociate.

Al cinema com’è arrivata?

Eravamo ragazzi, io e mio marito Amedeo. Leggevamo incantati I fiori blu di Raymond Queneau, tradotto in italiano da Italo Calvino, e fantasticavamo di fare un film. Avevamo scritto una sceneggiatura e, un giorno, spudoratamente, decidemmo di chiamare la sede di Gallimard, a Parigi, di cui Queneau era direttore.

E che successe?

Ci passarono Queneau e lui ci disse: ‘Vi aspetto a Parigi’. Era proprio un altro tempo, si respirava l’aria della rinascita del mondo. Ci ricevette nel suo studio, piccolo, senza altezzosità. Lesse la sceneggiatura e ci autorizzò a fare il film. Chiamò Calvino, che allora viveva a Parigi, e gli parlò di noi. Ci incoraggiò anche Calvino. E allora partimmo.

Da dove?

Si interessarono alla sceneggiatura sia Federico Fellini, sia Mario Monicelli, tanto che a un certo punto tirarono in ballo Marlon Brando. Eravamo in estasi.

E poi?

Non si fece niente, naturalmente. C’era troppa gente di mezzo e non si misero d’accordo. Noi però entrammo nel mondo del grande cinema italiano e cominciammo a lavorare.

Con chi?

Con Arrigo Colombo, che aveva prodotto "Per un pugno di dollari": ci pagava per insegnarci il mestiere. Lavoravamo con lui alle sceneggiature, la maggior parte delle quali andavano a finire nel cestino, ma nel frattempo imparavamo come si faceva. Lo stesso facevamo con Italo Zingarelli.

Due master pagati.

La verità è che la vita costava poco. Affittare una casa a Roma, andarsene in giro a cena, non era proibitivo come è oggi per un giovane. Ogni sera alle sette andavano all’Anac, l’Associazione nazionale autori cinematografici. C’erano tutti. Parlavi di un progetto con uno, un altro ti offriva un lavoro. Il cinema esisteva. C’era un pubblico. Ti pagavano. E tu non eri ricattabile.

Oggi non esiste più?

Ci sono degli ottimi registi in Italia, ma il pubblico si è ridotto, le regole sono cambiate. Con Amedeo, abbiamo scritto di recente una sceneggiatura. Sa cosa ci hanno risposto?

No.

Che secondo l’algoritmo mancano degli schemi che il pubblico ha mostrato ripetutamente di gradire.

E allora?

Ma lei s’immagina "Otto e mezzo", "Ultimo tango a Parigi", "Blow Up" sottoposti al giudizio dell’algoritmo. Secondo lei li avrebbero mai fatti?

Chi lo sa.

Siamo passati dall’epoca del possibile dissenso, quando si facevano i film che le certezze dello spettatore le potevano scuotere, all’epoca del consenso obbligatorio, in cui i film devono assecondare per forza i gusti dello spettatore.

Concretamente che significa?

Che si parte dicendo "a quale pubblico si rivolge?".

È per forza un male?

Ma io te meno se mi chiedi a quale pubblico mi rivolgo.

Lei non scrive per qualcuno che la legga?

Io scrivo per uscire da me stessa, scappare più lontano possibile dal mio io, la fonte di ogni infelicità. Ho capito abbastanza presto di possedere un talento per la scrittura. Questo non significa che non l’ho dovuto coltivare. Ho buttato sette otto libri prima di pubblicare il primo.

Natalia Aspesi ha scritto che lei è “una geniale scrittrice ingiustamente trascurata”.

Natalia è sempre stata generosa con me. Ma non mi sento così. Mi sarebbe sicuramente piaciuto scrivere dei bestseller ma non ci ho mai contato.

E avere più apprezzamenti della critica?

Di quelli non so che farmene. Se qualcuno mi deve giudicare pretendo sia Francesco De Sanctis. Non accetto niente di meno.

Ma De Sanctis è morto da più di cent’anni.

Peggio per i critici che sono ancora vivi. Vorrà dire che devo dirmelo da sola che sono una grande autrice.

Crede che il suo personaggio pubblico abbia danneggiato la scrittrice?

È vero che da quando ho cominciato ad andare in televisione i miei libri sono stati sempre meno venduti e considerati. Ho trovato qualche giorno fa le recensioni che uscirono per “Delirio”. Furono tantissime. I miei libri facevano chiasso.

Ma perché ha continuato ad andarci, in tv, allora?

Non certo per parlare dei libri. Mi vergogno ogni volta che devo farlo. È un lavoro. A volte, pagato molto bene.

Che uso fa dei soldi?

Un uso dissennato.

Mi spiega perché detesta la coppia?

Perché la coppia non è la forma che assume l’unione di due persone che si amano, la coppia è l’istituto che sancisce la nascita del legame tra due persone che hanno iniziato a mentire l’uno all’altra.

L’amore che cos’è, invece?

Ma non si può spiegare cos’è. Ogni definizione non può che mancare l’oggetto. Anche se i ciarlatani della classificazione, quelli che vogliono rinchiudere le esperienze umane dentro le loro salde categorie della normalità, non fanno altro che tentare di fissarlo in delle norme.

Cosa ha contro le classificazioni?

Le odio. Perché riducono la vastità dell’animo umano a un concetto astratto, schemi che rimpiccioliscono l’avventura della vita a un souvenir confortevole. Gli spaventati d’ogni genere li riconosci così: dal numero di definizioni che danno. Più ne hanno a disposizione, più significa che sono lontani dalla vita.

Mi faccia un esempio.

La depressione. Ti muore un figlio, sei depressa. Perdi il lavoro, sei depressa. L’uomo che ami ti tradisce, sei depressa. Invece no, non sei depressa.

E cosa sei?

Sei semplicemente cornuta.

Lei lo è stata?

Certo. E ho imparato che le corna fanno male solo la prima volta. Poi non ci fai più caso.

Mi racconti la sua prima volta?

Oddio, la confessione: che impudicizia.

Su.

E va bene. Mi è successo con un cane.

Mi prende per il culo?

No. È stato tremendo. Si chiamava la Bionda, ho ancora le sue ceneri di là nell’armadio. Di sotto abitava una ragazza, Margherita. Una notte, mi accorgo che la Bionda non c’era più e la vado a cercare. Scendo e mi accorgo che la porta della stanza di Margherita è chiusa, e che la Bionda non c’è. Capisco tutto.

Che capisce?

Al mattino vado da Margherita e le dico: “Guardi che la Bionda è mia moglie. Non la sua”. E lei mi rispose: “Guardi che è stata lei a venire da me, che vuole?”. Aveva ragione. La sera stessa, chiuse la porta della stanza e quando di notte tornai a cercarla trovai la Bionda che miagolava alla sua porta, straziata.

Ma veramente l’ha ferita?

Ma certo. Perché da un uomo o una donna te lo aspetti. Puoi capire che l’essere umano è complesso, fragile, instabile. Un cane no. A meno che non si consideri l’ipotesi, come faccio ormai io, che i cani si siano così antropomorfizzati che ormai tradiscono esattamente come noi donne e uomini.

È vero che si definisce "mistica senza Dio"?

Sì. Sento una forte tensione verso la trascendenza. Anche se non credo che esista nulla sopra di noi. O, comunque, io non ho bisogno di postulare l’esistenza di un creatore divino per sentirla. Credo che una delle ragioni dell’infelicità dell’uomo della nostra epoca risieda nella perdita di questa dimensione spirituale.

Dove la vede questa perdita?

La pandemia, ce ne fosse stato ancora bisogno, l’ha svelata ancora più chiaramente. Noi siamo stati ridotti a corpi. Non facciamo che parlare giorno e notte dei corpi contagiati, dei corpi che muoiono, dei corpi che guariscono.

E di cosa dovremmo parlare?

Ho trovato poetico Sgarbi il giorno in cui ha arringato i commercianti davanti al Parlamento. Da tempo, le parole di Sgarbi per me non hanno più nessun significato politico, né pratico: sono solo la forma con cui si esprime la sua arte. Dire alle persone respirate, ascoltate il suono del vento che vi attraversa, significa invitare a distaccarsi da sé, è un invito alla trasfigurazione.

Ma lei non era quella che aveva paura del Covid?

Ne ho una paura fottuta.

E allora?

Lei pensa che diventare vecchi significhi perdere la fame di vita? Non è così. La tragedia della vecchiaia è che la fame rimane la stessa di quando si è ragazzi: è il corpo, questa maledetta macchina di carne e di sangue, che non regge più.

E la intristisce?

No. Al contrario. Più si avvicina il giorno fatale e più avverto un’incrollabile voglia di scavare tra me e il giorno della mia morte la diga di un’altra risata, e un’altra ancora, e ancora un’altra, con la speranza che la lugubre signora venga a prendermi quando sarò seriamente impegnata a non prendermi in considerazione.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 15 febbraio 2021. Seguivo Barbara Alberti da anni. Nel panorama letterario italiano, quest’umbra anomala e per niente provinciale, si è sempre distinta per essere una scrittrice raffinata, mai banale. Gelosa di Majakovskij e il Vangelo secondo Maria, tanto per dire, si divorano per intensità. Sono parole vergate con il fuoco. È una delle poche, vere bohémien rimaste in circolazione; e, nonostante, i successi, gli agi, il denaro, divorato come la sua esistenza, la popolarità, cresciuta a dismisura grazie anche alla televisione, la sua vita, nonostante tutto, non è mai cambiata. Anzi. La sua storia, personale e professionale, è un libro aperto. Nella nostra lunga chiacchierata, avvenuta in un parco dalle parti del quartiere Trieste, in una giornata calda, primaverile, questa farfalla della parola, guardandomi dritta negli occhi, non si è persa in barocchismi, ghirigori, infingimenti, né, tantomeno, in perifrasi diplomatiche, stucchevoli e noiose. La sua dialettica, veloce, secca, tagliente arriva dritto al cuore. Non è, di certo, un personaggio pirandelliano. Barbara è proprio come la si legge o la si vede sul piccolo schermo. Non si sdoppia, al massimo si ritrae dinanzi alla volgarità o alla piccolezza dell’umanità televisiva. Alla maniera di Claudio Rinaldi, storico e grande direttore di settimanali oggi in coma – vedasi, per esempio, Panorama e l’Espresso – l’approccio albertiano alla vita è leggero e solenne allo stesso tempo. Alleggerisce, con la sua risata contagiosa, temi scottanti, delicati, pesanti; e, senza scomporsi, rende impegnativo e importante un capriccio, un divertissement. Ascoltarla, registrare i suoi mutevoli umori, tenerla inchiodata su una panca è stato un bellissimo esercizio intellettuale. Se uno vuole provare a riflettere, mettersi in discussione, provare a cambiare registro, è ora che la ascolti. Questa donna minuta ed elegante, sobria e raffinata. C’è da imparare, anche quando magari non si è d’accordo.

Barbara Alberti, cominciamo dalle tue origini: nasci in Umbria, ma appena puoi scappi dalla provincia, giusto?

«Non sono scappata. Assisi per me era il paradiso. Ma avevo 15 anni, i miei genitori si sono trasferiti, e li ho dovuti seguire. A Roma rimasi  sconvolta dalla freddezza della grande città. Quando ero al liceo, incontravi dei ragazzi a una festa, li rivedevi al mattino nei corridoi della scuola, e neanche ti salutavano. Al cinismo romano non mi sono mai abituata».

In quegli anni, che Roma era?

«Una Roma molto meno popolosa di oggi; mi sembrava un grande paesone, o una metropoli dell’Ottocento. Roma mi sconcertava. Stavo diventando donna, e i commenti sboccati della strada, per me erano una violenza. I complimenti sarebbero stati graditissimi ma non quelle aggressioni verbali, offensive. Andando a scuola facevo lunghi giri per evitare certi bar dove mi lanciavano frasi umilianti».

Che rapporto avevi con la tua famiglia, cattolica, se non erro?

«Non erri. Un rapporto di contrasto, di rivolta. Noi ragazzi di allora ci potevamo permettere il lusso della ribellione. Che battaglie! Che soddisfazione, fare il contrario dei nostri genitori!»

Ti sei sentita subito libera, libera di essere te stessa?

«Ma che vuol dire? Ancora oggi, con un piede nella fossa, come posso dire di essere veramente me stessa!? Chi è veramente consapevole di sé? Poi sogni, e sei un altro. Io scrivo, e sono un’altra persona. Scrivo cose di cui non saprei parlare. Ci penso pochissimo. Lascio che le parole vengano, la scrittura è una rivelazione.  Tu ti conosci? Io mi conosco un po’, ma di vista. Oggi è tutta una certezza, tutto logico, tutto risolvibile…ma esiste il mistero».

Dopo gli studi in Filosofia alla Sapienza, come campavi?

«No ho mai “campato”. Ho vissuto. Mi ero iscritta a Filosofia per equivoco. La scelsi per omaggio e devozione alla mia insegnante di Filosofia, che era una maestra di libertà. Le sue lezioni e il suo modo d’essere ci hanno insegnato la dignità nella libertà. Una volta venne il preside, un ometto autoritario e arrogante. Entrò in aula spalancando la porta, senza bussare. La professoressa gli disse: Preside, lei è entrato senza bussare. E lui : ho facoltà di farlo. Lei, calmissima: va bene, queste sono le disposizioni. Ma io sto facendo lezione, ed è un momento sacro. La prego di uscire e di bussare. Lei era Nora Giacobini, donna indimenticabile. Per diventare un po’ lei, mi ero iscritta alla facoltà di Filosofia. Seguìi un percorso tutto letterario, con una tesi sul concetto della libertà in Jean Paul Sartre».

La tua carriera ha preso mille forme: giornalista, scrittrice, sceneggiatrice, conduttrice, opinionista. Non si è fatta mancare nulla, a quanto pare. Ti senti una donna con talento o, come sovente accade a chi fa carriera, miracolata?

«Credo di avere talento per la scrittura e la radio, mezzo bellissimo che stimola l’immaginazione e il fiabesco. Il resto è avvenuto per caso. Ho scritto sui giornali ma non ho la professionalità del giornalista, mestiere difficilissimo. Quando vado in televisione ho sempre paura, perché lì vieni giudicato per il fisico, e anch’io mi giudico per quello, e se mi vedo sul monitor perdo sicurezza. Non condivido il mio aspetto, se avessi potuto disegnarmi da sola mi sarei fatta come la Valentina di Crepax.  Alla radio invece sei una voce, sei immateriale, e non c’è ostacolo fra te e chi ascolta, si è veri come in sogno».

Scrivevi per ispirazione o perché i morsi della fame, in una città spietata come Roma, si facevano sentire?

«I morsi della fame non li ho mai sentiti perché mi manteneva la mia famiglia. Vorrei poter vantare un’infanzia dickensiana, ma non è così. Ci ho messo anni per imparare a scrivere; se mi vado a rileggere quello che scrivevo a 16-17 anni mi faccio pena. Però, sapevo che quella era la mia strada. E a un certo punto la scrittura è “venuta”. E’ un dono, non dipende da te».

E la pagina bianca di cui tutti parlano?

«Fanno male a parlarne. E’ fatuo. E impudìco. Questa retorica della pagina bianca non la sopporto. Disprezzo gli scrittori che parlano del dramma della pagina bianca. In nessuna arte la si fa così lunga come nella scrittura. Mai sentito un pittore lamentarsi della tela bianca o un musicista col dramma del pentagramma vuoto. Ma va’ ! Se non ho l’ispirazione faccio una passeggiata, leggo, ascolto Tartini, spazzolo il cane…E aspetto».

Goethe diceva: la parola muore sotto la penna. Ti è mai capitato?

«Credo di più a Emily Dickinson: “Dicono che una parola muore/ quando la si pronunzia/ Io dico che annunzia/ la sua nascita allora” (trad. Ginevra Bompiani)».

Ti piacerebbe essere un best-seller?

«Certo che mi piacerebbe, così non vado più in televisione! Nel senso che, risolvendo la questione economica con i libri venduti, e non devo più farmi vedere in tv, specie ora che sono tanto vecchia».

Hai fatto e fai molta televisione; cosa ti spinge ad accettare inviti, programmi? Denaro, vanità, narcisismo, conferme del tuo spessore?

«È un lavoro che mi viene offerto, anche seducente, e lo accetto volentieri. Ti puoi esprimere, è una grande occasione pubblica, ma mi fa sempre un po’ spavento, perché te l’ho detto, il mio corpo mi imbarazza. Nella vita mi sta bene, ma sapere che ti vedono…E poi, se dici una stupidaggine in tv se accorgono tutti, è per sempre! Quello che mi piace è l’ambiente. Mi sento come Pinocchio tra i suoi fratelli burattini, da Mangiafoco. C’è l’atmosfera del teatro. Conduttori, autori, truccatori, tecnici, parrucchieri, c’è un entusiasmo nel fare spettacolo che di rado ho visto in altri mestieri, e finché non mi trovo davanti alla telecamera mi sento a casa. Credo che se i dirigenti della RAI fossero entusiasti e coscienziosi come le loro maestranze, farebbero una televisione meravigliosa».  

Negli anni hai scritto per tanti giornali. Qual è la stata l’esperienza giornalistica di cui va meno fiera?

«Nessuna. Ho sempre scritto con trasporto. Anche quando –  tanti anni fa – accettai di recensire i film porno per Playmen. Li proiettavano in cinemini pieni di fumo e di uomini-ombra, un inferno. Tutti maschi. Con queste facce infelici, sguardi sfuggenti, colpevoli, e scontentissimi della mia presenza, come un’invasione di campo in un rito esclusivamente maschile. Io, con taccuino e penna, prendevo appunti su film bruttissimi, così grossolani e ripetitivi da ammazzare qualsiasi forma di  erotismo. La morte del desiderio. Uscivo nauseata, raggelata, danneggiata, temevo di diventare un’invalida del sesso. Ci sono andata due volte, poi ho smesso, e me li sono inventati tutti. Recensivo film immaginari, introvabili - i film che avrei voluto vedere io. Tutti in bianco e nero, con un solo atto sessuale, il resto era allusione, atmosfera, attesa, erotismo e penombra».

Per oltre trentacinque anni, hai curato una sorta di posta del cuore. Cosa hai imparato dai lettori e, soprattutto, da quelli che ti scrivevano?

«Non “una sorta di posta del cuore”, proprio la posta del cuore, nel senso più tradizionale. Che avventura! Parlarsi fra sconosciute- con la busta, il francobollo… Quello che ho capito, attraverso migliaia e migliaia di lettere, è che in amore, la gente farebbe qualsiasi follia pur di essere infelice. Le persone, quando ti scrivono, non vogliono un consiglio, non credono che tu possa risolver loro la vita con una risposta, no, vogliono solo che tu stia loro vicino, che tu condivida e abbracci il loro dolore.  Come quando ti confidi con un amico. Vuoi solo calore».

Vale anche per te? Sei mai stata infelice in amore?

«In amore sei felice e infelice sempre, basta uno sguardo per farti temere la catastrofe, l’amore è costante timore della perdita. Non si soffre per amore. Si soffre dell’amore. Come dice la volpe al Piccolo Principe, “Si soffre, sai, quando ci si fa addomesticare”».

Quanto ha contato, nella tua carriera, la bellezza?

«Credo nulla! Non ero neanche così bella. Naso lungo, capelli arruffati…»  

Quali sono stati gli incontri determinanti nella tua vita?

«Mio padre. Mi ha insegnato che esiste il “maschio-madre”, quello che profondamente si compiace della tua esistenza, gioisce della tua vita, delle tue felicità, sente i tuoi dolori. Mio padre era così. E poi l’ho trovato in mio marito, Amedeo Pagani».

Cosa ti ha insegnato Amedeo?

«Tutto. Mi ha ispirata e guidata nella scrittura dei miei primi sette romanzi; mi ha insegnato a scrivere le sceneggiature, che sono un’ottima scuola di invenzione. E mi ha insegnato ad amare senza confini, senza risparmio. E il riso! Senza il riso, che è una forma di santità, non potrei vivere. Alla lettera. Morirei di paura, e di noia. Il riso è sempre una piccola trascendenza».

E oltre a tuo marito, quali sono stati altri incontri determinanti?

«Devo farti l’elenco di una vita, in un tempo di così grande fioritura in letteratura e nel cinema? Age, Scarpelli, Sonego, Scola, Antonioni, Fellini, Visconti, Monica Vitti, Claudia Cardinale, Calvino, Leonardo Sciascia, Vittorio Sereni, Vittorio Sgarbi, Luce D’Eramo, Raymond Queneau, Dario Bellezza, Elemire Zolla, Maria Antonietta Macciocchi, Ida Dominijanni, Natalia Aspesi, Vittorio Corona, basta, ho incontrato molte persone piene di ingegno e di coraggio fuor di misura».

Anni fa, lessi che hai un rapporto pessimo con la memoria, sostenendo che non ricordare aiuti a vivere meglio. La pensi ancora allo stesso modo?

«No, per niente. Mi pare una stupidaggine consolatoria. Non vorrei avere una memoria analitica, ricordare tutto- che peso! Ma vorrei ricordare l’infanzia dei miei figli. Non avere memoria è una colpa. Un peccato, in senso cattolico. Vuol dire che vivi distrattamente, che sei frivolo, che sei solo un edonista. Chi non ricorda non possiede la sua vita. Una volta mio marito, dopo uno dei miei “non ricordo” ha detto: Con te è come non aver vissuto».

Qual è stata la tua vera emancipazione? L’indipendenza economica o la comprensione della tua bisessualità?

«Nessuna delle due. L’indipendenza economica l’ho sempre avuta. Negli anni della mia giovinezza era così facile avere un lavoro, cambiarlo, siamo stati gli ultimi giovani col diritto di essere giovani, non ti chiedevano di chinare la testa. La scoperta di poter amare anche una donna è stata una gran gioia. L’eterosessualità come monoteismo è un’invenzione culturale. L’amore sfugge a ogni volontà. Quando ti innamori, mica ti metti a chiedere i documenti. Ti attira quella persona, e basta».

Eri sposata all’epoca, quando accadde?

«No».

Una volta hai detto che, in una relazione stabile e duratura, le donne sono più noiose degli uomini. Perché?

«Se l’ho detto, era una sciocchezza. Le donne hanno, come dice l’antropologo Lévy Strauss, la scienza del concreto, che è anche scienza del sogno. I maschi hanno sempre paura. La disgrazia del maschio è che deve sempre dimostrare di essere maschio. Cioè, dominatore. Poveretti. Lo dico con sincera compassione. Io sono molto gentile coi maschi, in ragione della loro disgrazia, l’erezione. Un meccanismo infido e disobbediente, che diventa la clessidra della loro vitalità, e li ossessiona. Meno male che sono nata senza, e mi è stata risparmiata questa prova umiliante. Orgogliosa come sono, ne avrei sofferto molto. Le donne hanno amore di vita e di verità. Vivono più profondamente. E più a lungo. E sono così spiritose! La peggiore calunnia sulle donne è che non hanno il senso dell’umorismo. Se non ce lo avessimo avuto ci saremmo estinte, con quello che abbiamo passato nei secoli».

Tu ce l’hai, questa sorta di amore?

«Sì. È un dono. Come la scrittura».

Qual è stato il vero motore della tua vita. L’amore o il sesso? Spesso, o quasi sempre, non complementari…

«La vera spinta della mia vita è stata la vita stessa. Io mi sveglio la mattina e mi rallegro infinitamente di essere ancora viva. L’amore, per fortuna, c’è sempre stato, e il sesso è solo un incantevole dettaglio. Se ci si ama, per forza lo è. Se la persona è quella con cui vuoi stare in quel momento, qualsiasi atto si compia, non può essere che bellissimo e perfetto».

Sei stata mai schiava del sesso o della sessualità che il partner del momento sprigionava?

«Né l’uno né l’altro».

Hai dissipato più denaro o amori?

«Denaro. Non ho la capacità di conservarlo, ed è una colpa. Un segno di superficialità e immoralità. Gli amori invece non sono dissipabili. Anche se durano due giorni, sono tutti eterni».

In un libro, intitolato Gelosa di Majakovskij, hai raccontato il tema della gelosia. Come nacque quel libro?

«Nacque perché mi innamorai di Majakovskij, il grande illuso. Il tema, più che la gelosia, riguardava in realtà il mondo in cui è vissuto il poeta russo; un mondo fatto di utopie, dove i grandi delle avanguardie raggiunsero la massima felicità artistica. Prima che arrivasse Stalin, vi fu un tempo di libertà e sperimentazione inebriante. Davanti a molti di loro, Pasternak mi sembra uno scrittore per signorine.Penso a Bulgakov, Platonov, Erhenburg, Pilnijak, Esenin, Cvetaeva, Berberova, Achmatova…e Majakovskij. L’intensità della loro esperienza noi ce la sogniamo».

Hai mai sofferto di gelosia? Se sì, quando?

«Beh, sì, molto. L’amore è gelosia. Appena ti innamori, diventi geloso.  Però, se mi tranquillizzano, mi passa subito. Il geloso vuole solo essere rassicurato. Il geloso maniacale, compulsivo, invece, vuole le corna. Guai se non gliele mettono. In lui il poliziotto supera l’amante, e l’amore diventa un giallo in cui sono tutti colpevoli da indagare».

Hai mai rubato un uomo a qualche tua amica?

«Rubato? Un uomo non è un ombrello, e né un furto avrà avuto sicuramente avuto una parte attiva. No, non credo. Me lo ricorderei. Ma chissà che non abbia civettato…»

Vittorio Sgarbi, se non sbaglio, è stato un tuo grande, folle amore. Cosa, e come, ti conquistò? Tu dicesti, testualmente, lui per me è stato il grande risarcimento della solitudine letteraria e artistica nella quale vivevo… Cosa volevi dire?

«Folle amore? Ma che dice? Così lo diminuisce. È stato un rapporto marziano, un viaggio nello spazio. Lo vidi, all’inizio degli anni 90, grazie ad una registrazione (non avevo all’epoca il televisore), al Costanzo Show. Pensavo fosse un dandy sprezzante, arrogante. Invece era un esile professore di Ferrara, timido, gentilissimo. Volevo fargli un’intervista. Mi disse: allora per qualche giorno deve vedere come vivo altrimenti non capirà niente! Mi ha portato in macchina a casa sua, dove ho conosciuto un immenso personaggio letterario, sua madre, la Rina, l’unica che gli stava a pari come memoria e velocità di pensiero, e ho continuato ad andare in giro con lui in quella che lui hemingweianamente chiamava la sua festa mobile. In viaggio con Sgarbi, ho passato tre anni di pura infanzia. Andavo a casa solo per cambiare le scarpe. In famiglia mi capivano, sono molto bambini anche loro. Sgarbi mi ha fatto capire che abitavo in Italia. Questo nomade geniale mi ha mostrato tutte le sue bellezze. Oggi si abusa della parola geniale. Sgarbi, con la sua memoria prodigiosa, è tecnicamente un genio».

Cosa non ti piaceva di Sgarbi?

«Nulla, allora. E col tempo ho capito che lui è un’opera d’arte. Ho smesso di dare una valenza politica a ciò che dice, i suoi interventi sono la rappresentazione della dissidenza permanente, seria o burlesca, da tutto, anche da sé stesso. In televisione è sempre in guerra. Nella vita è impeccabile, e spiritoso come un angelo».

Quanti amori clandestini ha coltivato nella tua vita?

«Per me l’amore deve essere sempre segreto. È un mistero, e va rispettato. Proprio per questo Il matrimonio, all’inizio, è stato uno shock. Ci eravamo sposati per far contenti i nostri genitori. Il primo mese, io e lui ci siamo guardati con sospetto perché temevamo di vederci d’un tratto trasformati in marito e moglie, non più amanti e compagni d’avventura. Ma non accadde».

Che madre sei stata con i tuoi due figli?

«Una madre clown. Li ho soprattutto fatti ridere. Per noi essere padre e madre è stato un grande gioco. Non so se sarei diventata magari una madre impicciona e molesta, ma i figli mi hanno educata alla discrezione, mi hanno insegnato presto a rispettare la loro intimità».

Li hai messi al mondo con consapevolezza o per caso?

«Per caso. Con stupore. Con un senso del miracolo. La mia grande fortuna è di non essere mai stata costretta ad abortire. L’aborto è il più paradossale dei suicidi, la madre uccide sé. Nessuna donna vorrebbe mai abortire, ma deve essere libera di poterlo fare. Nessuno può mettersi fra una donna e il figlio che ha concepito. Il diritto di aborto non è sindacabile. Già il prezzo che paghiamo è altissimo. Conosco donne che dopo anni e anni soffrono ancora terribilmente per aver dovuto rinunciare a un figlio. Non si guarisce dall’aborto. E la favola che le donne lo facciano con leggerezza è una calunnia inaccettabile. Solo Papa Francesco ha parlato della tragedia delle donne, a proposito dell’aborto».

Della tua scrittura, sovente si viene catturati per la crudezza e lucidità. In non poche tue opere viene fuori il tema della bassezza umana, di cui nessun essere umano è immune. Quali sono stati, ripensandoci, le peggiori bassezze della sua vita. Se te le ricordi?

«Ci saranno state delle piccole viltà che ho commesso, è inevitabile. Ma da piccola ho letto i romanzi cavallereschi, e non ne sono uscita più. Io mi voglio piacere. Voglio essere in pace, faccio di tutto per meritare il mio rispetto. Ho avuto la buona sorte di vivere in un’epoca più facile di questa.  Non sono mai stato nella condizione di dover fare una bassezza. Diciamo che l’egoismo mi costringe a permettermi il lusso della moralità. Ci provo».

Cosa intendi per essere morale?

«Riconoscere la verità. Tener conto dell’altro. Se fai del male, ripararlo, subito! Devo andare leggera. Pesi non ne voglio».

Tra tutti i libri scritti, qual è quello che, in realtà, non ti ha soddisfatta?

«Nessuno. Se non mi soddisfa, lo butto. Tutto quello che ho scritto mi ha reso felice. Con i tormenti che la felicità comporta. I miei libri sono pieni di dolore ma si ride tanto. Sono le mie altre esistenze, divento un altro o un’altra, e mi libero di me. Che sollievo».

I libri sono stati quelli che, forse, non ti hanno mai abbandonata. A quale sei legato in modo particolare? Hai un ricordo vivido di qualche pagina?

«Sicuramente Delirio. Narra la storia di un uomo, assolutamente ignobile, egoista, che pensa solo al sesso, tragicomico. comicissimo. Per due anni mi sono immedesimato nel maschio, e lì ho capito la tragedia dell’erezione. Dopo aver scritto questo libro, sono diventata molto più clemente con gli uomini, in considerazione della loro disgrazia».

Tu fai ancora sesso?

«Non parlo di sesso fuori dal letto. È osceno. È atroce tutto questo parlare di sesso che si fa oggi. Lo svilisce, lo profana».

Ti ha mai incuriosito lo scambismo?

«Non si è mai presentata l’occasione, ma non ho pregiudizi sul sesso. Certo se avessi letto da giovane Il gioco di Carlo D’amicis, un capolavoro assoluto sull’argomento, forse avrei voluto provare. Ma già è difficile in due…la moltiplicazione giova?»

Cosa pensi dei premi letterari? Li brami?

«Se me li danno sono contenta. Penso che tutto può aiutare l’artista. Nei grandi premi letterari, però, spesso non vincono gli autori, ma gli editori».

Qual è la donna più inutile e vanitosa che ha incontrato o frequentato? Ci faccia un nome…

«Credo mia madre. Inutile no, ma vanitosissima. Attraverso di lei, già a quattro anni capìi come fosse umiliante vantarsi. Quando mi portava a passeggio, e la sentivo vantarsi con tutti di tutto, avrei voluto sprofondare. Oggi, se ci ripenso, mi fa tenerezza».

In una intervista del 2000, rilasciata a Sabelli Fioretti, a proposito di Ida Magli, hai detto: “Perché crede di essere il Papa? Perché ha un “Io” oceanico? Perché dietro le sue asserzioni non c’è mai un’idea, un pensiero, una visione?” Cosa ti spinse a dare un giudizio così tranchant, quasi senza appello?

«Sono stata ingiusta, e mi dispiace. Non mi riconosco in questa dichiarazione ingenerosa ed estremista. Non è vero ciò che ho detto, Ida Magli ha lasciato invece una interessante eredità, un esempio di studio e di libero pensiero».

Il cinema è stato un suo grande amore spirituale, o mero salvagente dagli stenti?

«Scrivere sceneggiature per il cinema è stata una grande scuola, e poi si veniva pagati bene, ovvero si era liberi».

Quale regista, negli anni, hai ammirato di più?

«Pochi se lo ricordano, ma penso ad Italo Zingarelli, produttore regista e sceneggiature, che ci fu maestro, con una generosità rara. Ho di quell’epoca un ricordo angelicato».

Qual è stato, invece, lo sceneggiatore a cui ti sei ispirata di più?

«In Italia, i nostri sceneggiatori preferiti erano Age e Scarpelli, Sonego, Giorgio Arlorio, Flaiano…»

Casa tua è piena di libri. Ci sono autori che segnaleresti al pubblico?

«Michele Mari, Antonio Pennacchi, Carlo D’Amicis, Chiara Barzini, Isabella Santacroce, Massimilano Parente, Stefano Massini, Jonathan Bazzi, Viola di Grado, Ermanno Cavazzoni, Ginevra Bompiani, Chiara Valerio, Michela Murgia, Federica De Paolis, ma la lista sarebbe lunga, oggi c’è una letteratura in Italia di una bellezza stupefacente».

A cosa stai lavorando adesso?

«Proprio come il sesso; se te lo dico, svanisce».

La vita di un artista è, quasi sempre, sdoppiata da quella reale. Barbara, quante vite hai?

«Visibile, una. Sono vissuta da bohémienne, da giovane e da vecchia».

A bruciapelo, e facendo un po’ i conti con te stessa: sei stata più crudele o stronza nella tua vita?

«Nessuna delle due. Sono stata spensierata. Non ho la grandezza della crudeltà».

Che ruolo ha avuto la musica? Quali artisti ascoltavi?

«Eravamo molto canonici: quelli che ascoltavano tutti. Joan Baez, Bob Dylan, Beatles, Rolling Stones, i canti della guerra civile spagnola, gli chansonniers francesi, Brassens, Gainsbourg, Serge Reggiani, Yves Montand, Edith Piaf, i Gufi, Jannacci…»

Quante depressioni ha vissuto? E perché?

«Ho avuto drammi, dolori, ma la depressione mai; la depressione è un termine inventato oggi per azzerare tutte le passioni umane, riunirle sotto un solo termine e curarle con la chimica.  I protagonisti della tragedia greca non sono depressi, vivono le loro sventure, e ogni dolore ha un suo nome. La parola depressione medicalizza e anestetizza il dramma umano, nega la varietà e l’introspezione».

Qual è il dramma peggiore che hai sopportato?

«La paura della morte. La rabbia della morte. Con la quale vivi da quando ti hanno detto che esiste».

Emil Cioran sosteneva che l’idea del suicidio “era un toccasana perché il solo pensare di mettere fine alla propria vita dava sollievo nei momenti di grande buio”. Hai mai pensato al suicidio?

«Il pensiero del suicidio mi sta appollaiato sulla spalla, come il pappagallo al bucaniere. Mi fa compagnia. Mi allunga la vita. Mi rassicura».

Hai paura di morire senza affetti?

«Perché, tu no?»

·        Bill Traylor.

Dagotraduzione dal The Guardian il 17 aprile 2021. Bill Traylor aveva avuto una vita piena già prima di trasformarsi in un artista. Nato schiavo in una piantagione di cotone dell'Alabama nel 185, trascorse tutta la vita da agricoltore senza spostarsi mai. Verso la fine degli anni '80, solo e poverissimo, si piazzò a un incrocio del quartiere nero segregato di Montgomery, la capitale dello Stato, e qui cominciò a disegnare e a dipingere. Dipingeva su quel che trovava - pezzi di cartone, scatole di caramelle, manifesti pubblicitari -, alternando i suoi ricordi della piantagione al paesaggio urbano che mutava intorno a lui. Tra il 1939 e il 1942 produsse più di mille opere d'arte minimaliste, un patrimonio prezioso e unico, il solo esistente frutto di una persona ridotta in schiavitù fin dalla nascita. "Bill Traylor: Chasing Ghosts" celebra la storia e il talento di Bill Traylor, «il più grande artista di cui non hai mai sentito parlare» come dice la critica d'arte Roberta Smith nel film. Per realizzare il film ci sono voluti quasi dieci anni, e una delle sfide principali è stata la ricerca. «I registri non sono molto ben tenuti, soprattutto quando si parla di persone povere, nere e indigenti», ha detto Wolf. «Abbiamo davvero dovuto scavare in profondità». Non avendo mai imparato a leggere o scrivere, Traylor ha ideato il suo linguaggio visivo, scavando non solo nei suoi ricordi personali, ma attingendo anche ai modi folkloristici della cultura afroamericana dell'epoca: canto e narrazione, sopravvivenza e guarigione. «Ha scritto l'intera storia orale nella lingua a sua disposizione, che era la lingua delle immagini», dice nel film il curatore di arte popolare dello Smithsonian Leslie Umberger. Gran parte del suo lavoro è obliquo, forse perché doveva esserlo: era molto rischioso per gli afroamericani del Sud esprimere un punto di vista. Parte della prima generazione di neri che diventarono cittadini americani è cresciuto nella contea sanguinosa di Lowndes, famigerata per la violenza inflitta dai bianchi contro i neri. Ma utilizzando il simbolismo, l'allegoria e l'astrazione, Traylor poteva affrontare argomenti altrimenti impossibili, dall'alfabetizzazione al linciaggio. Lo stesso Traylor è una figura enigmatica - esistono poche fotografie di lui e nella sua biografia rimangono molte lacune - ma il film si sforza di raccontare pienamente l'uomo. Sposato tre volte e padre di circa 15 figli, Traylor era, nelle parole di Wolf, al tempo stesso «vigoroso, osceno, resiliente e pieno di risorse, con la capacità di inserire grandi idee in piccoli spazi». Chasing Ghosts colloca anche la vita e il lavoro di Traylor nel contesto della storia in quel momento e in quel luogo. «Montgomery è un posto che ha tanta storia, bella e brutta», dice Wolf, che ha trascorso 7 anni andando avanti e indietro tra il Sud e la sua casa a New York City per il film. «Il Sud è molto più complicato di quanto sembri. Ero questo nordico ebreo bianco, ma ho trovato molte cose in comune con tante persone interessanti». Il film mostra fotografie d'archivio, filmati, interviste ad artisti contemporanei, curatori, accademici e discendenti di Traylor. I temi della vita e del lavoro sono enfatizzati da momenti di danza, poesia e prosa, e la musica d'epoca accompagna le opere dell'artista. Il ballerino di tip tap Jason Samuels Smith, incaricato di tradurre l'arte di Traylor in danza. «Gli ho mostrato il lavoro di Traylor, e lui ha inventato le pose partendo dai disegni. Poi, in una notte molto calda e in un palco molto caldo, ha semplicemente ballato con il culo» Anche se Traylor è stato scoperto solo 30 anni dopo la sua morte, ora è considerato uno dei più grandi artisti autodidatti d'America. Nel 2018 si è svolta su Bill Traylor una grande mostra allo Smithsonian, la prima retrospettiva dedicata a un artista nato in schiavitù. L'anno scorso un'opera di Traylor, regalo di Steven Spielberg ad Alice Walker, è stata venduta all'asta per una cifra record. Ma l'ambiguità nel lavoro di Traylor persiste: il gatto dalla faccia bianca che appare nelle sue scene più violente è un testimone o un fantasma? Il cappello da stufa in cima a molte delle figure è un riferimento ad Abraham Lincoln, come suggerisce Pollard? E forse il mistero più grande è: perché prodigiosa produzione è esplosa nei suoi ultimi anni di vita. Wolf ammette di essere perplesso: «In un breve periodo di tempo riversa sui disegni i suoi ricordi, le sue radici ancestrali e la storia che sta vivendo. È una specie di fenomeno. È qualcosa che non abbiamo decifrato, ma questa è la magia per lui, ciò a cui si è aggrappato, tutti quei periodi di tempo».

·        Boris Pasternak.

Boris Pasternak, chi era lo scrittore russo autore de "Il dottor Zivago". Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. Boris Pasternak fu scrittore, poeta e romanziere tra i più influenti del Novecento. Tra i più rilevanti sia per la letteratura russa che per quella mondiale. Vinse il Premio Nobel, che però fu costretto a rifiutare. La sua fama è legata soprattutto al romanzo Il dottor Zivago, che venne pubblicato in Italia da Feltrinelli e in Unione Sovietica soltanto trent’anni dopo. Google gli ha dedicato il suo doodle in occasione del suo compleanno. Boris Leonidovič Pasternak nacque il 10 febbraio 1890 a Mosca. Entrò nella vita intellettuale russa con il cubofuturismo, e quindi l’avanguardia letteraria, anche se non fu mai parte dell’ala estrema di quell’avanguardia. Pasternak non dimenticò mai la tradizione della grande poesia e del grande romanzo russo. Il dottor Zivago, come riconosciuto dalla critica mondiale si inserisce nella scia dei grandi classici del romanzo russo, come ha scritto il Premio Nobel italiano Eugenio Montale, “per l’ampiezza del quadro e per la primordialità delle passioni nella tradizione tolstoiana”. Zivago fu scritto nella dacia di Peredelkino, presso Mosca, dove Pasternak si ritirò nel 1930 e dove morì il 30 maggio 1960. Attorno a lui, in Unione Sovietica, il gelo dell’ambiente letterario e la diffidenza della propaganda. Il 10 dicembre del 1958, a Stoccolma, erano presenti tutti i vincitori del Nobel tranne lo scrittore russo. “Loro maestà reali, signore e signori, il premio Nobel per la Letteratura quest’anno è stato assegnato allo scrittore sovietico Boris Pasternak, per il suo contributo significativo sia alla poesia contemporanea che alla grande tradizione della narrativa russa. Come sapete, il premiato ha comunicato che non desidera ricevere il premio. Questo rifiuto non comporta naturalmente nessuna modifica per quanto riguarda la validità della sua assegnazione. All’Accademia rimane soltanto da annotare con rammarico che l’assegnazione del premio non potrà avere luogo”, disse l’allora segretario dell’Accademia svedese Anders Osterling. Alla segreteria del Premio, lo scrittore aveva scritto un telegramma, sette parole: “Immensamente grato, commosso orgoglioso, meravigliato, confuso. Pasternak”. Da subito fu attaccato dalla stampa russa. Venne definito “traditore”. Pasternak scrisse infatti un secondo messaggio all’Accademia, prima della premiazione, giustificandosi per il rifiuto: “Per il significato che a questo premio è stato dato dalla società alla quale appartengo”. Non volle mai lasciare il suo Paese. Era figlio di un pittore impressionista e di una pianista. Entrambi amici di quello che da molti è considerato il più grande scrittore russo di tutti i tempi, Lev Tolstoj. Boris studiò composizione al conservatorio e filosofia. Le sue prime raccolte di poesie furono quasi completamente ignorate. Scrisse un solo romanzo, Il dottor Zivago, tra il 1946 e il 1956. Un romanzo che attraversa la Russia dalla Prima Guerra Mondiale alla Rivoluzione del 1917 sullo sfondo di un grande amore. La pubblicazione fu bloccata in patria. L’Italia il primo Paese a pubblicarlo, da Giangiacomo Feltrinelli, nonostante le pressioni dall’Urss per bloccarlo. Dall’opera venne tratto un celebre film con Omar Sharif, Julie Christie e Geraldine Chaplin.

·        Carmelo Bene.

Alla sorgente della selvaggia sconfinatezza di Carmelo Bene. Le poesie giovanili ci fanno ascoltare l’origine della inconfondibile voce di un genio del teatro. I versi ritrovati presentati da un grande ammiratore. Filippo Timi su L'Espresso il 3 marzo 2021. Come in un big bang primordiale, Carmelo Bene ad ogni parola creava un infinito. Le sue liriche giovanili, reperti di un’architettura sentimentale, ci fanno ascoltare l’origine dirompente della sua voce, forse l’unica che ha saputo incarnare la poesia. Siamo davanti a una sconfinatezza selvaggia, una foresta di costellazioni, nebulose e vie lattee, un universo in continua espansione. L’esistenza, l’amore, la vita, la morte, il disincanto, hanno qui un’omerica grazia di sguardo nel prendere coscienza di sé come «bersaglio appariscente», in cui «le passioni del fango / han fatto centro in una volta sola», divenendo consapevolezza nella sconfitta di essere nato uomo. Ma alla sconfitta il poeta contrappone una «febbre di vita» nell’affermare l’imperativo: «noi vivremo!» Comincia il viaggio, l’interrogarsi sul mondo, il perdersi ad «ammirare incantato / l’avvenire / stellato di sogni», per ricadere di nuovo col pensiero all’umano fango. Bassorilievi di una Grecia intima, età dell’oro di un giovane Apollo che scorge come un futuro ineluttabile la nascita di una divina tragica commedia. Assistiamo alla creazione e all’abbandono di quel mondo apollineo e sentiamo avvicinarsi l’eco dionisiaca in cui presto il poeta si immergerà. «Come chi torni / a luogo che non ha mai / lasciato, eccomi a te: / no! Non aprir le braccia!» È il sogno quel luogo, nel suo necessario abbandono. Il giovane uomo guarda il cielo e si confronta con esso, domandandosi come «cogliere senza sosta / i frutti del presente / per preparare ciò ch’è da venire». Diventare egli stesso opera d’arte. In una primavera senza ritorno, l’intimo sposa il sublime nello slancio dell’acerbo e il mondo resta nudo. Questi versi di Carmelo Bene sono perle custodite «in uno scrigno / di cui la chiave fu smarrita, / abbandonato in un mare / senza fondo». Quel mare è l’anima del poeta che canta per noi: «Nulla è rimasto. / E dissi: un dì accadrà». Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo l’introduzione di Filippo Timi a "Ho sognato di vivere!" di Carmelo  Bene (Bompiani) 

Teatro, quadri, poesie inedite: così Carmelo Bene sopravvive al tempo. Archivio e oggetti del grande attore e regista scomparso 19 anni fa saranno presto riuniti in un polo museale a Lecce. Un testo aspetta di andare in scena, un gruppo di sue tele in mostra, e la vita potrebbe diventare un film. Mentre si scoprono i versi giovanili. Francesca De Sanctis su L'Espresso il 3 marzo 2021. Sopravvivere al tempo, oltre la morte. Miracoli della letteratura e dell’arte. Ecco perché quando riemergono tasselli importanti della vita di un talento è come se uno scrigno magico si aprisse agli sguardi del mondo per condividere parole, storie, emozioni. Lo “scrigno” di Carmelo Bene - attore, regista, scrittore, poeta, o forse semplicemente genio, eretico e intuitivo - è ricco e prezioso, composto da poesie, testi teatrali, libri, arredi, costumi, nastri, fotografie, oggetti personali. Dopo anni di battaglie legali e ostacoli burocratici gran parte di quel materiale è pronto per essere esposto e riunito un’unica sede, il Convitto Palmieri di Lecce, dove entro l’estate sarà aperto al pubblico il Polo bibliomuseale Carmelo Bene. La data dell’inaugurazione verrà annunciata il prossimo 16 marzo, nel giorno del 19esimo anniversario della sua scomparsa. A comunicarla saranno la figlia Salomè Bene, con Raffaella Baracchi (seconda moglie di Carmelo e madre di Salomè), Regione Puglia, Provincia di Lecce, Soprintendenza archivistica della Puglia e Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per le province di Brindisi, Lecce e Taranto, che al momento costituiscono il Comitato scientifico nato dalle ceneri della Fondazione L’Immemoriale e che si occuperà di promuovere e valorizzare il patrimonio culturale e artistico del grande mattatore. Ma non tutta la documentazione confluirà nel Polo bibliomuseale. Certi ritrovamenti percorrono strade alternative. Le poesie, ad esempio, sono pubblicate nel volume “Ho sognato di vivere!”, dal 3 marzo in libreria per Bompiani, che raccoglie le poesie giovanili finora inedite di Carmelo Bene. Una antologia di versi composti fra il 1950 e il 1958 prevalentemente a Santa Cesarea Terme, lì dove i profumi e i colori sono così intensi da lasciarti stordito. Per anni sono rimasti custoditi fra le carte di famiglia. Carmelo, infatti, li donò a sua madre Amelia, come racconta nella sua nota Stefano De Mattia, figlio di Maria Luisa, sorella di Carmelo. E dopo essere passati di mano in mano fra i familiari più stretti, quei versi sono stati conservati dal nipote per oltre dieci anni, ma con un unico scopo e desiderio: divulgarli. Eccoli, dunque. Ed è emozionante scorgere fra quelle righe temi nei quali Bene si sarebbe imbattuto nella sua carriera (l’amore e il disincanto, la vita e la morte…) o quell’inclinazione verso il beffardo che lo ha sempre caratterizzato, e la sua perenne ricerca dell’ironia. Poesie che sono «una foresta di costellazioni, nebulose e vie lattee, un universo in continua espansione», come scrive Filippo Timi nella prefazione al libro (che anticipiamo a pagina 79). Versi pieni di di vita, di giochi di parole e perfino di punti esclamativi. «Riunire e pubblicare queste poesie era un progetto che io e mio cugino avevamo a cuore», racconta Salomè, che oggi ha 28 anni e svolge la professione di avvocato fra Roma e Torino: «Ci sono pezzi di vita che riaffiorano in contesti e momenti diversi. La nascita del Museo, per esempio, rappresenta un traguardo importante di cui sono molto fiera, perché sono anni che mi ci dedico, seguendo da avvocato tutti gli aspetti legali. Ma credo sia opportuno dare uno spazio adeguato ad ogni cosa». Questo significa che alcuni oggetti o documenti saranno oggetto di progetti autonomi: «Esiste un testo teatrale inedito che vorremmo pubblicare e che non verrà inserito nel percorso espositivo, come i suoi quadri, 6-7 tele, che speriamo di valorizzare in futuro allestendo una mostra», aggiunge. Intanto c’è il Polo bibliomuseale, un progetto culturale di ampio respiro, aperto alla città di Lecce, agli studiosi e a chi vorrà conoscere l’opera di Carmelo Bene. «Il patrimonio è costituito da circa 6mila volumi (romanzi, testi teatrali, enciclopedie, libri di poesie, prime edizioni, volumi con annotazioni a penna), che saranno a disposizione del pubblico, e poi da una ventina di costumi (tutti gli abiti di “Pinocchio”, più i campioni di altri spettacoli, da “Caligol” a “Salomè”, da “Lo Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” ad “Amleto”), oggetti e arredi personali (compreso il suo studio), un archivio contenente nastri, copioni, fotografie, materiale audio e video, recensioni», ricorda Salomè. «Ho sofferto molto per due angeli di scena in resina che avevamo in casa e che sono stati anche oggetto di restauro. So che sono in ottime mani, ma non è stato semplice separarsene. Come non lo è stato separarsi dal beauty case con i trucchi personali, un beauty case antico, con l’incisione delle iniziali C.B.. Sono stata molto indecisa, alla fine mi è sembrato giusto condividerlo. A casa è rimasto un secondo beauty case, meno particolare, ma di eguale valore affettivo». Un patrimonio preziosissimo, finora conservato in sedi diverse, dal monastero delle suore benedettine al Castello Carlo V di Lecce, dalla Casa del Teatro di Villa Pamphili a Roma alle abitazioni private di Otranto e Roma. «Non è stato facile gestire tutto questo patrimonio nel corso degli anni, ma ora che abbiamo raggiunto l’obiettivo spero che il Convitto Palmieri diventi un punto di riferimento anche per eventi, seminari, iniziative che erano già state previste per il 2020, ma che sono state rinviate per via della pandemia, compresi eventi musicali. Anche per questo speriamo di avere tra i soci del Comitato il direttore d’orchestra Marcello Panni». E altri ancora, magari intellettuali o scrittori, come si augura Massimo Bray, assessore alla Cultura della Regione Puglia: «Carmelo Bene era molto stimato anche da Pasolini, Bodini, Flaiano, Garboli, credo sia naturale aprire il Comitato ad altre personalità, anche per poter approfondire, per esempio, la soggettività nel linguaggio. Stiamo anche immaginando di realizzare un film su Carmelo Bene con Apulia Film Commission. Ne stiamo discutendo con Andrea Occhipinti (Lucky Red) e Franco Maresco». D’altronde proprio Maresco e Ciprì sono stati designati da Carmelo stesso suoi eredi per eccellenza in campo cinematografico, settore a cui il maestro salentino si dedicò per alcuni anni (basti ricordare il film d’esordio tratto dal suo omonimo romanzo, “Nostra Signora dei Turchi”, che gli valse il Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1968). Cosa ricorda di suo padre, invece, ce lo racconta Salomè: «La sua straordinarietà, la sua intelligenza, il suo essere diverso da tutti gli altri. Era fuori dall’ordinario, come padre e come artista. E mi ha insegnato tanto, se sono come sono - una persona attenta e sensibile - lo devo a lui. Il nostro non era un classico rapporto padre-figlia, ma non avrei voluto un genitore diverso da lui. Ricordo molto bene il giorno in cui è scomparso, io avevo 10 anni. Mi sono mancate tante cose da allora. Ma non dimenticherò mai la sua voce, le sue telefonate. Aveva molte mie fotografie in casa. E sono certa che oggi sarebbe felice di sapere che sono riuscita a portare avanti quello che era un suo progetto». Sui suoi percorsi artistici la bibliografia beniana è ricca di titoli, sostenuti da Carmelo stesso, che fu anche un divulgatore della sua poetica. Fra le pubblicazioni più recenti ricordiamo “Un femminile per Bene” di Vincenza Di Vita (Mimesis 2019) e “Il Sommo Bene”, a cura di Rino Maenza (Kurumuny 2019). Fra quelli da recuperare “Sono apparso alla Madonna”, l’autobiografia di Carmelo Bene ristampata da Bompiani nel 2014, e “Opere con l’autografia di un ritratto”, edito da Bompiani nel 1995 (uscito in ebook nel 2014). Ma com’era nella vita privata Carmelo Bene? I suoi ultimi anni di vita ce li racconta in un bellissimo libro Luisa Viglietti - costumista e sua compagna di vita dal 1994 al 2002 -, che riannoda i fili della memoria per rievocare aneddoti, spettacoli, progetti, amicizie, donne e anche un’eredità pesante fatta di tanti conflitti e qualche errore, ma soprattutto per restituire al pubblico quelle giornate condivise con lui, fra gioie e dolori, in poche parole una grande e unica storia d’amore? “Cominciò che era finita” (pp. 224, euro 16, Edizioni dell’Asino, con prefazione di Goffredo Fofi) ci racconta di un Carmelo diverso, ma pur sempre unico, così lontano dal personaggio che si era creato. A Luisa, e a tutti noi, resta la sua risata, come testimoniano quei versi giovanili che danno il titolo alla raccolta poetica: «Ho sognato di vivere: /era bello! / Seguì un risveglio brusco: / Pensai alla morte / e mi misi a ridere!».

Quando Carmelo Bene apparve a Stalin in Russia. Nella biografia di Luisa Viglietti c'è la quotidianità dell'attore. Autentico rivoluzionario dello spettacolo. Luca Ricci Venerdì 19/02/2021 su Il Giornale. Tra gli antiaccademici, gli irregolari, gli scavezzacolli, i matti del nostro Novecento artistico - da Antonio Ligabue a Dino Campana, passando per Alda Merini -, ce n'è stato uno più antiaccademico, più irregolare, più scavezzacollo, più matto di tutti, che ha sbaragliato l'agguerrita concorrenza. Carmelo Bene anche se era convinto di non esistere moriva esattamente diciannove anni fa. E pare di sentirlo ghignare da lassù (magari mentre appare alla Madonna), al cospetto delle numerose pubblicazioni che nel corso degli anni hanno tentato, più o meno felicemente, di ricordarlo. Si sfila dal coro ufficiale dei peana il volume Cominciò che era finita (edizioni dell'asino, pagg. 224, euro 16) di Luisa Viglietti, costumista teatrale e ultima compagna di Carmelo Bene, racconto capace di restituirci il quotidiano del grande artista e mai in senso agiografico. Scopriamo un Carmelo Bene non solo pieno di idiosincrasie - famosa la sua avversione per la luce diurna, da cui gli spessi tendaggi alle finestre di seta di moiré - ma anche afflitto da svariate coglionerie - la fissa sulla Fanta alternata a vini pregiati, perché il medico gli aveva detto di assumere la vitamina C. Originario del Salento, terra magica e cattolicissima, da bambino è uno strepitoso chierichetto. Arriva a servire anche quattro o cinque messe al giorno, forse scoprendo proprio all'altare la sua vocazione per il sacro. Dalla religione passa al teatro, in fondo soltanto un altro tipo di chiesa. Alla fine degli anni Cinquanta sbarca a Roma con spirito caravaggesco, frequentando l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica Silvio D'Amico. Ma in quei primi anni turbolenti del suo apprendistato contano più le bevute e le risse che non le lezioni di canto, ballo e dizione. Una notte in gattabuia è più istruttiva di una dispensa di drammaturgia: per l'arresto è sufficiente atteggiarsi a mendicante, smettere di radersi per qualche tempo. Prime infatuazioni teatrali: il Caligola di Camus e la poesia di Majakovskij. Ma non tollera che a dirigerlo siano altri, perciò si adopera per diventare regista di se stesso mettendo in piedi il malfamato Teatro Laboratorio in un locale di Trastevere. Mette in scena spettacoli osceni per minare le certezze dei nuovi borghesi nati col boom economico. Sputi e urina diventano gli elementi imprescindibili delle sue performance, ma per fortuna si ferma un attimo prima di venire retrocesso a macchietta. Tra i primi estimatori - quelli convinti che dietro la voglia di scandalizzare a ogni costo si nasconda un vero artista - ci sono anche Flaiano, Arbasino, Moravia. Carmelo Bene comincia a gettare le basi teoriche del suo lavoro attraverso la Salomè di Oscar Wilde e l'Amleto di William Shakespeare, insieme a Lydia Mancinelli, Sergio Citti, Leo de Berardinis e molti altri. L'intento è quello di decostruire il teatro inteso come spettacolo e rappresentazione di Stato, inanellare atti e non azioni sceniche, insomma porgere al pubblico una trascendenza sotto forma di liturgia atea. Nel 1967 si lascia dirigere da Pier Paolo Pasolini nel film tratto da Edipo Re e si apre a un'irripetibile stagione cinematografica, oltre e contro il cinema pattumiera di tutte le arti. I suoi lungometraggi, non meno radicali dell'esperienza teatrale, incarnano alla perfezione l'aria del tempo, restituiscono le smanie sperimentali di un'arte che non accetta nessun compromesso con il pubblico: non sono fruibili, ma sono decisivi. Un po' come era avvenuto con James Joyce per il linguaggio (l'Ulisse è un'altra delle sue ossessioni), Carmelo Bene fa esplodere le immagini trasformandole in pura visione. Sul finire degli anni Settanta torna a teatro e si trasforma in C.B. la Macchina Attoriale. Con l'aiuto dell'amplificazione può sottrarre la sua voce alla dittatura della recitazione tradizionale, dell'odiato birignao da grande mattatore. Si parla addosso, si parla dentro, si tramuta in semplice phoné, suono comprensibile a tutti perché non significa nulla. In questo modo nel 1981 può sussurrare Dante a oltre centomila persone, issato sulla cima della Torre degli Asinelli di Bologna. Nel frattempo diventa anche uno strepitoso personaggio televisivo, uno dei pochi che fin dalle prime ospitate non si lascia cambiare dal più diabolico degli elettrodomestici di massa. Passa indifferentemente dagli studi di Aldo Biscardi a quelli di Maurizio Costanzo. Per alcuni il suo pensiero è solo un revival dei grandi pessimisti (Arthur Schopenhauer, Giacomo Leopardi, Emil Cioran) e un calco degli strutturalisti e decostruzionisti francesi (Ferdinand de Saussure, Jacques Derrida, Gilles Deleuze). Col passare del tempo le contraddizioni si accentuano: il massacratore di commediografi e scrittori che ridusse sempre il testo a un pretesto fa inserire l'insieme delle sue opere nei classici Bompiani; l'attore delinquenziale che imbrattava le pellicce delle signore in prima fila comincia a tingersi i capelli. Ma poi trova sempre il riscatto nell'integralismo metafisica del nulla. A Mosca, in piena Perestroika, Luisa Viglietti ci racconta di quando interrompe una discussione a lui dedicata al teatro Majakovskij, irrompe in scena, comincia a dire con veemenza: «Bisogna dire agli spettatori che non c'è niente da capire! Che non possono capire. Uno solo avrebbe potuto capire quello che faccio, e l'avrei voluto qui, in sala, di fronte a me. Purtroppo non c'è. È Stalin! Perché lui faceva con voi, popolo russo, la stessa cosa che io sto facendo, ovvero condurvi dove meritate di andare: al nulla, al vuoto!». A quel punto gli interpreti russi tacquero e vennero spenti i microfoni. Se oggi fosse ancora vivo, probabilmente parlerebbe male dei social network bollandoli come strumenti che mettono in comunicazione larve d'uomini, zombie ridotti a battere tutto il santo giorno su uno smartphone per credersi ancora vivi. E magari farebbe un pensierino sull'eventualità di partecipare al Grande Fratello Vip. D'altronde anche nel suo teatro prima dell'inizio e dopo la fine si apriva e si chiudeva un mesto sipario consolatorio.

·        Charles Baudelaire.

200 anni dalla nascita del poeta. Charles Baudelaire, il poeta maledetto che ha immortalato la bellezza del male. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 27 Giugno 2021. Duecento anni fa nasceva Charles Baudelaire. Un genetliaco che condivide con un altro grande scrittore della modernità e padre della letteratura francese, Gustave Flaubert, anche lui nato nel 1821. Un destino comune che si ripeterà nel 1857: Baudelaire pubblica la raccolta di poesie Les Fleurs du mal e nello stesso anno Flaubert dà alle stampe il suo capolavoro Madame Bovary. Due opere inattuali che rompono violentemente con la tradizione e che descrivono con potenza inaudita l’avvento della modernità. E per questo subiscono lo stesso destino: i libri sono condannati per immoralità e i loro autori sono trascinati in tribunale, accusati di oscenità. Flaubert viene assolto; Baudelaire, invece, condannato al pagamento di una multa salata oltre che all’epurazione di sei poesie dalla raccolta. Ma a duecento anni di distanza non si è spento il fuoco di quei versi. La fiamma di Baudelaire illumina la vita moderna, il suo sentire malinconico e contraddittorio è speculare al nostro. Da allora, non c’è generazione che non sia sprofondata in quel turbamento inquieto. «La mia giovinezza – nei versi della poesia Il nemico – fu soltanto una tenebrosa bufera traversata qua e là da brillanti soli». «In fondo all’ignoto per trovare il nuovo»! Baudelaire è sceso nell’inferno delle strade della metropoli, ha raccontato i miti e i riti del nuovo spazio urbano, ha immortalato l’ultimo malinconico bagliore di un mondo che stava tramontando, alle soglie della nascita della società di massa. Spleen. Lo spaesamento del poeta è quello di chi si sente esiliato a casa propria, è l’umore nero e bilioso di chi si sente straniero in patria. Il malessere – causato da quel persistente senso di caducità e di morte che accompagna l’avventura del moderno – è l’unico capace di «estrarre la bellezza dal Male». Ne Il pittore della vita moderna – saggio del 1863 dedicato all’artista Constantin Guys de Sainte-Hélène – definisce la categoria a cui appartiene il suo stesso spirito: “l’uomo di mondo” in grado di interpretare l’esperienza della solitudine nella folla, di perdere la propria identità nella massa, ma anche capace di distaccarsi aristocraticamente dagli altri. Un’esigenza che sentiamo come autenticamente nostra: la spinta a fonderci e conformarci con le convenzioni della massa e, parimenti, l’esigenza di riaffermare la nostra unicità e originalità. «Pensare per lui vuol dire: alzare le vele!» ha meravigliosamente sintetizzato Walter Benjamin. Con lui, rivendichiamo il nostro diritto a contraddirci, in una ricerca continua di “corrispondenze” tra ciò che è simile e ciò che è diverso, in una fusione impossibile e desiderata con l’altro da sé. Con lui torniamo in quello stato di perenne ebrezza con cui il bambino guarda il mondo per la prima volta. Baudelaire, nostro contemporaneo. Finalmente hanno voce tutti gli aspetti della “vita moderna”, anche quelli apparentemente frivoli e superficiali; dall’arte sacra alle incisioni di moda, dagli abiti alle carrozze, dal trucco all’accessorio, dalla toilette alla parure, ogni dettaglio del quotidiano ha dignità estetica. «Osservatore, flâneur, filosofo, chiamatelo come vi pare», basta che capisca il mondo e sia capace di estrarre l’alto dal basso, la serietà dalla frivolezza, il poetico dallo storico, l’eterno dal transitorio. Ogni modernità, anche quella più artificiosa e artefatta, può essere degna di diventare antichità. «Tu mi hai dato Fango; / io ne ho fatto oro». «L’uso della cipria – scrive nel capitolo Elogio del trucco – contro cui alcuni filosofi candidi hanno stupidamente scagliato i loro anatemi ha come unico scopo il risultato di far scomparire dalla carnagione tutte le macchie che la natura vi ha oltraggiosamente disseminato». La nuova bellezza del moderno è quella che meglio corrisponde alla complessità del nostro mondo. La bellezza non è un assoluto, ma un “paradiso artificiale”: il bello non è più un canone aristocratico, ma assomiglia allo sfavillio transitorio della festa. Les Paradis artificiels, appunto, il titolo della raccolta di saggi pubblicata nel 1860 in cui Baudelaire riflette sugli effetti del vino, dell’oppio e dell’hashish sulla creatività dell’artista e sulla vita della metropoli. Riprende Le confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas de Quincey e racconta le esperienze paradisiache e demoniache causate del consumo di sostanze “moltiplicatrici dell’individualità”. Ma descrive le reazioni degli altri più che le sue: ironia della sorte, Baudelaire è un amante del vino, ma con moderazione; ha provato l’oppio e l’hashish, senza mai sfociare nell’abuso e nella dipendenza. Lo dimostrano tutte le testimonianze degli amici che giurano di non averlo mai visto ubriaco o alterato. Ma al di là della descrizione degli effetti del consumo e dell’abuso di queste sostanze, è nel saggio introduttivo – dal titolo Il gusto dell’infinito – che il poeta ci regala una verità che va ben oltre una riflessione letteraria sulle droghe. «La vera realtà è soltanto nei sogni». La ricerca di una felicità artificiale è parte integrante del nostro vivere, il desiderio di raggiungere una dimensione che ci innalzi al di sopra di noi stessi guida tutti gli sforzi umani. La ricerca di quello “stato paradisiaco”, di quell’autentica “grazia”, di una “specie di eccitazione angelica” che, per qualche ora, ci consente di sfuggire al nostro “abitacolo di fango” innalzandoci verso l’infinito. I “paradisi artificiali” sono l’Altrove, un altro mondo immaginato che amplifica e supera quello reale. La ricerca ossessiva di una via di scampo che faccia dimenticare la propria condizione, una gioia temporanea e un’effimera consolazione che seduce la nostra natura mortale. Nella dipendenza dalle droghe, però, è in gioco un problema “morale”: diventare ebbri è un peccato di cui Baudelaire si sente colpevole, ma che non si esime dal condannare. Un peccato di “angelismo”: un desiderio demoniaco di diventare come Dio, la tentazione luciferina di negare la condizione umana e, in ultima ratio, di negare la morte. Ma il ritorno nell’infernale temporalità terrestre è solo rimandato: «Orrore! Il Tempo ha ripreso la sua brutale dittatura». «Chi avrà fatto ricorso a un veleno per pensare ben presto non potrà più pensare senza veleno. Immaginate la sorte spaventosa di un uomo la cui immaginazione paralizzata non sa più funzionare senza l’aiuto dell’hashish o dell’oppio?» chiosa alla fine del Poema dell’hashish. Svaniti gli effetti di quella protesi dell’immaginazione che aiuta a dimenticare il tempo, svanisce anche il “paradiso d’occasione”. La ricerca di quel surrogato dell’Eden è inevitabilmente destinata a lasciare il posto a conseguenze indesiderate: l’uomo «ha voluto fare l’angelo, è diventato una bestia». Ma non è solo con la “farmacia” che l’uomo può accedere all’agognato “paradiso artificiale”, alla sospensione temporanea dello Spleen verso l’atteso Idéal. Baudelaire lo dimostra non solo attraverso la sua opera di poeta, ma anche nella sua attività di critico d’arte, con i suoi testi dedicati a Poe, a Delacroix, a Hugo, a Wagner: l’arte, la poesia e la musica sono vie d’accesso privilegiate a quell’Altrove che unisce l’eterno e il transeunte. Nel Richard Wagner, lo straordinario saggio che il poeta francese ha dedicato al compositore tedesco, Baudelaire scrive: «Sembra talvolta, ascoltando questa musica ardente e difficile, di veder tracciati al fondo delle tenebre, lacerati dall’allucinazione, i vertiginosi miraggi dell’oppio». Non è un caso che gli autori della colonna sonora degli ultimi decenni – da Jim Morrison a Ian Curtis, dai The Cure ai The Smiths, fino ai nostri Franco Battiato e Baustelle – abbiano trovato nel sentire individuale di quel flâneur di metà Ottocento l’afflato sempiterno dell’uomo e dell’artista contemporaneo desideroso di aprire «le porte della percezione». Proprio la musica, secondo il poeta, ha la capacità di liberare l’immaginazione, ha il potere eccitante di farci raggiungere territori inaccessibili alla coscienza. Ecco il paradiso artificiale che Baudelaire ci ha insegnato a riconoscere: la melodia e la parola sono i mezzi mistici privilegiati che “invitano al viaggio” in mondi meravigliosi e sconosciuti. «Là, tout n’est qu’ordre et beauté, luxe, calme et volupté». Lucrezia Ercoli

·        Dan Brown.

Anna Lombardi per "la Repubblica" il 31 luglio 2021. Il segreto meglio custodito di Dan Brown, che il signore dei bestseller potrebbe non svelarci mai. Sì, ben prima di raccontare l'amore tra Gesù e Maddalena ne "Il Codice da Vinci", affibbiare un figlio al Papa con l'inseminazione artificiale in "Angeli e Demoni", indagare i legami fra massoneria e potere ne "Il simbolo perduto" e perfino anticipare i rischi della pandemia con "Inferno", l'ex professore d'inglese (ed ex cantante pop) nel 1995 scrisse un libro di consigli sentimentali dedicato a donne sole.  Un tometto di 96 pagine firmato con lo pseudonimo Danielle Brown, intitolato "187 Men to Avoid: A Survival Guide for the Romantically Frustrated Women": cioè 187 uomini da evitare, guida alla sopravvivenza per donne romanticamente frustrate. Dove con ironia venivano descritti gli uomini da evitare: "amanti del decoupage", ad esempio. O "collezionisti di pietre". E pure "chi scambia il metodo Lamaze per una gara automobilistica francese". Almeno così si dice. Perché nonostante il libricino sia ancora in vendita online, parte del catalogo di Amazon e di numerosi altri librai della rete, è impossibile acquistarlo. Lo sa bene Chloe Gordon, regista 32enne californiana, fan dello scrittore al punto di averne letto tutti i romanzi. Incuriosita dalla voce di Wikipedia dove si cita l'opera, già un anno fa aveva provato a procurarsene una copia: ricevendo invece da Amazon il libro di fantascienza, "Heretics of Dune" di Frank Herbert. Convinta si trattasse di un errore, ha riprovato a comprarlo. Ricevendo, con suo gran stupore, ancora un altro libro sbagliato: "Elizabeth Takes Off", sulle diete di Elizabeth Taylor. Ha dunque provato con altri rivenditori e pure coi collezionisti di Ebay: arrivano sempre libri diversi, sì, ma con qualcosa in comune: l'epoca di pubblicazione, la casa editrice - G.P. Putnam' s Son - e un uguale codice a barre. Alla disperata ricerca Gordon ha dunque dedicato una serie di video postati online dove apre le scatole in diretta, già conscia della delusione imminente. La faccenda ha intrigato i fan: alcuni già a ipotizzare che a far sparire il libro «imbarazzante» è stato lo stesso Dan Brown, altri a sostenere che non è mai esistito. Il clamore ha infine spunto il New York Times a investigare. E se gli agenti dello scrittore non commentano, tracce di 187 Men non mancano. In un'intervista del 2000 citata in "Dan Brown: The Unauthorized Biography" di Lisa Rogak, sembra ammetterlo lo stesso autore: «Scrissi uno sciocco testo satirico prima di Crypto, il cui titolo non rivelerò. Per fortuna, è fuori stampa». Mentre Elonka Dunin, criptografa e attiva editor della voce Wikipedia a lui dedicata, dice di averlo inserito dopo averne visto citato il titolo nel catalogo della Biblioteca del Congresso (con 158 milioni di libri, una delle più grandi al mondo). A offrire una spiegazione ci prova Shirzad Zarei, direttore di ZBK Books, rivenditore di libri online: la colpa sarebbe, guarda un po', di un codice. Quello a barre, sbagliato, e incollato uguale su vari volumi. Forse un prototipo lasciato per errore, come già accaduto nei primi tempi in cui si usava il sistema. La soluzione sotto gli occhi di tutti, proprio come nel Codice da Vinci, però non convince i fan. Cosa c'è davvero in quel libro? Il segreto del signore dei misteri che potremmo non scoprire mai. 

·        Dario Arfelli.

La riscoperta. Chi era Dario Arfelli, lo scrittore brillante che cadde nell’oblio. Eraldo Affinati su Il Riformista il 2 Aprile 2021. Fra i grandi romanzi italiani del secondo Novecento dobbiamo inserire I superflui di Dante Arfelli, appena ristampato da un piccolo, meritevole e coraggioso editore (Rfb, prefazione di Gabriele Sabatini, pp. 313, 178 euro), dopo una troppo lunga, deplorevole assenza dalle nostre librerie. È la storia di Luca, giovane provinciale di scarse pretese, dallo sguardo tristemente lungimirante che, negli anni grigi e tuttavia carichi di energia ed entusiasmo del secondo dopoguerra, arriva alla Stazione Termini di Roma con un paio di raccomandazioni in tasca, alla ricerca di un lavoro qualsiasi e s’incaglia in una squallida relazione con Lidia, prostituta costretta ad arrangiarsi come può nella pensioncina dove abita ed esercita, ospite di una memorabile vecchia spilorcia. I due ragazzi, entrambi falliti in partenza, s’attraggono e si respingono, lei col patetico sogno di emigrare in Argentina, lui, che pure trova un impiego, mai davvero soddisfatto e sempre inquieto. Numerosi sono i personaggi coinvolti, dal terrorista all’arrivista, dal notabile all’ecclesiastico, dall’aristocratica benefattrice al misero borghesuccio, ma la visione resta monoculare: nello sfalsamento narrativo fra individualismo e coralità si nasconde il valore segreto dell’opera, il cui lirismo sembra rinserrato e trattenuto, specie nelle descrizioni urbane della capitale stracciona appena uscita dalla guerra che crescono come una vegetazione selvaggia intorno ai dialoghi pieni di ritmo. Potente è l’evocazione di una vecchia Italia in bianco e nero coi tram che vanno e vengono, le luci della sera frantumate sulle pareti dei palazzi spogli, le stanze sordide dove si brucia l’amore mercenario, quasi fosse una carta copiativa di quello vero, le vetrine dei negozi che accecano i passanti in un barbaglio artificiale. Alla fine Luca si chiede: «Che cosa sono al mondo a fare? Quando ero più ragazzo ci pensavo delle ore intere, fino a farmi male la testa. Diventando grande ci penso sempre di meno perché ci sono tante altre cose». Lidia, colpita nel profondo, lo prende sul serio: «E ancora non lo sai che cosa sei venuto a fare?». Lui risponde: «No. C’è chi dice che ognuno di noi ha da fare una parte: come uno in un paese fa il fornaio, un altro fa il falegname, e ci vogliono tutti i mestieri, così dicono che ci vogliono anche i poveri e gli stupidi». Ma lei non ci crede. E lo dimostrerà lasciando di stucco il lettore. Insomma coi Superflui, a metà strada fra l’eroe americano e quello russo, siamo oltre il capolinea degli inetti di Italo Svevo, degli indifferenti di Alberto Moravia. In una zona plumbea, desolata, nel disincanto più assoluto. Dove non ci si fanno illusioni: né politiche, né esistenziali, né religiose. La risata diventa sardonica. Si tira avanti la carretta e basta. L’autore di questo capolavoro, nato cent’anni fa, il 5 marzo 1921, a Bertinoro, in Romagna, e scomparso nel 1995 in una casa di riposo di Ravenna, è stato protagonista di una singolare vicenda umana e letteraria. Nel 1949 esordì proprio con quest’opera, pubblicata da Rizzoli, ottenendo un grande riscontro di pubblico e, seppure con qualche distinguo, anche di critica: la vittoria al Premio Venezia (antesignano del Campiello), ma soprattutto le numerose traduzioni all’estero, ne sancirono il successo. Quasi un milione di copie vendute negli Stati Uniti presso Scribner’s (che aveva in cartello Hemingway), dicono tutto. Non c’è bisogno di aggiungere altro. Anche perché non si trattò soltanto di un exploit commerciale. I lettori più accorti avevano segnalato nel romanzo una maturità sconcertante, la presenza di un sacro fuoco stilistico. Sembrava nato un grande scrittore. Dante Arfelli, a quel tempo ventottenne, che aveva frequentato il medesimo liceo riminese di Federico Fellini, in una classe di un solo anno precedente, ed era stato amico di Marino Moretti a Cesenatico, sembrava accingersi a prendere posto accanto a Vasco Pratolini, Giorgio Bassani, Cesare Pavese, Mario Soldati. Invece così non fu perché dopo il secondo romanzo, La quinta generazione (Rizzoli, 1951), di notevole valore sebbene inferiore al primo, calò il silenzio, rotto soltanto, molti anni più in là, dalla pubblicazione di pochi racconti, già usciti su alcuni quotidiani, raccolti in Quando c’era la pineta (1975, Edizioni del Girasole). Arfelli, afflitto da una nevrosi fobica e dal morbo di Parkinson, si ritirò nella solitudine profonda della provincia romagnola, cadde in miseria e per sopravvivere fu costretto a ricorrere alla legge Bacchelli. Seguirono, prima e dopo la sua morte, a cura della figlia Fiorangela, alcuni abbozzi, appunti e diari: Ahimé, povero me (1993); I cento volti della fortuna. Cronache dalla Casa di cura «San Francesco» (1996); La luce che non illumina e altri inediti dal carteggio e dalle liriche (2008). Anche soltanto scorrere queste pagine disperse, ricordi e pensieri estemporanei, composte in clinica, fa impressione perché, pur nella dimensione senile, è facile ritrovare, qua e là, certe scintille espressive di grande suggestione. Basti citare uno degli ultimi abbozzi del 1992, Visita del prefetto, in cui lo scrittore, un po’ allo sbando, eppure ancora capace di brillare, rammenta l’omaggio ricevuto, nel cronicario in cui viveva, dall’autorità pubblica, negli anni in cui Marsilio stava riproponendo i suoi risultati maggiori e quindi l’attenzione mediatica pareva sul punto di riaccendersi: «Mi ha regalato una medaglia semicircolare su cui è raffigurata una donna con in testa una specie di cappello a tuba, che suona la tromba, i piedi sopra un quarto di luna, con quattro nuvole. La medaglia è appesa a una catenella, forse d’argento, con un piccolo cartoncino in cui è scritto ‘Made in China’». Questo era tutto ciò che restava della gloria trascorsa. Una prosa d’ironia corrosiva degna di Franz Kafka. Ecco perché, dopo aver riletto I superflui, bisogna far festa.

·        Dario Fo.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 22 febbraio 2021. È più importante essere cacciati o andarsene di propria volontà? Sabato scorso, in un'intervista rilasciata al Corriere , Jacopo Fo ha ricordato il famoso episodio di censura che coinvolse i suoi genitori Franca Rame e Dario Fo: «Nel 1962, furono cacciati da "Canzonissima", perché denunciavano l'esistenza della mafia in Sicilia. Il ministro Giovanni Malagodi, che era nella vigilanza Rai, li definì due guitti che insultavano l'onore del popolo siciliano sostenendo l'esistenza di un'organizzazione criminale chiamata mafia». A volte la memoria fa brutti scherzi. Fo e Rame decisero di abbandonare la conduzione di «Canzonissima»: tecnicamente non furono allontanati, furono loro a ritirare il copione scritto con Chiosso e Molinari, e Fo mandò un telegramma alla Rai (dg era Ettore Bernabei), mettendosi a disposizione: «Ditemi ciò che devo fare». Per la cronaca, la puntata di «Canzonissima» del 29 novembre andò in onda con le sole canzoni registrate. Così per le puntate successive, salvo la finale del 6 gennaio condotta da Corrado. Lo sketch censurato non riguardava la mafia ma la sicurezza sul lavoro nei cantieri edili. Il trambusto che ne seguì fu tale che il premier Fanfani sostituì il ministro delle Comunicazioni Guido Corbellini con Carlo Russo. Perché queste precisazioni? Molti anni fa, rievocando l'episodio sul Corriere , scrissi anch' io «furono cacciati» e pochi giorni dopo ricevetti una lettera irata che minacciava querela. A scriverla era Franca Rame che ribadiva una cosa per lei fondamentale: non erano stati allontanati, ma avevano lasciato la Rai di loro spontanea volontà («il gran rifiuto», secondo la stampa dell'epoca). Impiegai giorni a spiegare al suo avvocato che sulla Storia della tv italiana avevo correttamente scritto che se n'erano andati e sul Corriere avevo fatto una sorta di sintesi. Con la promessa che non avrei più scritto «furono cacciati», la querela non ebbe seguito.

EMILIA COSTANTINI per il Corriere della Sera il 22 febbraio 2021. «Quella volta mia madre tornò a casa, dopo essere stata stuprata e malmenata, ricoperta di sangue, tagli di lamette, bruciature di sigarette ovunque. Mio padre restò fermo, dritto in piedi, senza dire una parola, apparentemente impassibile: ho sclerato e mi è venuto l'impulso di sferrargli un pugno. Poi ho capito che aveva ragione lui. Il suo atteggiamento era di chi dice: ok, è successo, lo sapevamo che poteva succedere, siamo comunisti, andiamo avanti stringendo i denti e basta».

Jacopo Fo, figlio di Dario Fo e Franca Rame: una storia di famiglia che parte da lontano, fra teatro e impegno civile.

«Dopo aver visto mia madre ridotta in quello stato, non ero più lo stesso. Il mio solo scopo era vendicarmi e ho rischiato di finire in un percorso sbagliato. Mi salvarono la serietà, la fermezza dei miei genitori e negli anni ho avuto solo una consolazione: pensare che quei bastardi vigliacchi vivessero a lungo una vita di m...».

Parafrasando il titolo di un suo libro: cosa vuol dire essere figlio di Fo e Rame?

«Da un lato ho avuto grandi vantaggi, perché erano due persone espansive, che esprimevano sentimenti forti, vivaci, mai formali. Dall'altro lato, mi hanno insegnato che il lavoro deve essere centrale nella vita: se hai da dimostrare qualcosa, lo devi fare attraverso il tuo lavoro e se ti comporti onestamente, qualcosa di buono ti torna indietro. Da parte loro, mai punizioni, ordini, disciplina, mi hanno trasmesso passione e non senso di sacrificio. Non esiste fatica se ami la tua professione: li ho visti recitare con la febbre a 39 anche 12-13 ore di seguito».

Franca era una bellissima donna, lo è stata fino agli ultimi suoi giorni. Dario non proprio un bell'uomo. Com' è nata la scintilla tra loro?

«Non bello, ma simpatico, sapeva far ridere... Erano stati scritturati per una rivista dalle sorelle Nava. Dario era rimasto subito folgorato dall'avvenenza di Franca, però faceva finta di non guardarla e non osava corteggiarla, anche perché lei aveva già uno stuolo di ammiratori anche molto facoltosi, potenti. Lei, con la coda dell'occhio, si era accorta dell'attenzione nascosta da parte di quel buffo collega, di cui però aveva già intravisto la genialità e prese una decisione: una sera, dietro le quinte, durante una pausa dello spettacolo, lo sbatte al muro e lo bacia. Siamo nel 1952 e, per una donna, comportarsi in quel modo, prendere una tale iniziativa era a dir poco azzardato, inaudito».

Franca figlia di attori girovaghi. Dario figlio di un capostazione e anche attore amatoriale. Un percorso segnato il loro?

«Quando Franca era ragazza, quelle che facevano le attrici erano considerate delle puttane, peggio ancora quelle che, come lei, appartenevano a piccole compagnie che andavano in giro per i paesi: li chiamavano zingari. Ma la sua è stata un'esperienza incredibile: la mattina andava a scuola, la sera recitava. Dario, sin da bambino, un folle scatenato, ne combinava di tutti i colori».

Ce lo racconti.

«Aveva 5 anni e, col fratello Fulvio di 3, si improvvisano paracadutisti, buttandosi giù dal balcone di casa aggrappati a un ombrello. Un'altra volta decidono di attraversare il Lago Maggiore, vicino a dove abitavano, a bordo di un catino dei panni di alluminio: ovviamente affondarono e per fortuna li salvò un pescatore. Poi si erano messi in testa di fare gli indiani: legano la sorella Bianca su un cumulo di fascine e danno fuoco... salvata dai vicini. Per non parlare di quando Dario, alla sua cresima, fece arrabbiare il vescovo».

Perché?

«Prima della cerimonia, lo interrogò chiedendogli chi era il papà di Gesù. Dario rispose: San Giuseppe... potete immaginare la reazione del prelato. Tuttavia, mia nonna, che ovviamente riempiva di botte questi figli scapestrati, poi se ne vantava con le amiche, convinta che fossero geniali. Sin da ragazza, prima di diventare madre, era sicura che uno dei suoi futuri pargoli sarebbe diventato famoso».

Aveva previsto il Premio Nobel?

«In un certo senso sì. Glielo aveva predetto un mago, leggendole la mano: per questo ha allevato i figli come predestinati, con un'educazione libertaria. Qualunque pazzia commettessero, per lei era la prova che non erano normali e li ha sempre incoraggiati. Certo, li menava col battipanni, perché faceva parte del contratto, ma mai una vera e propria censura».

Le censure, per la coppia Fo-Rame, vennero in seguito.

«Nel 1962, furono cacciati da Canzonissima, perché denunciavano l'esistenza della mafia in Sicilia. Il ministro Giovanni Malagodi, che era nella vigilanza Rai, li definì due guitti che insultavano l'onore del popolo siciliano sostenendo l'esistenza di un'organizzazione criminale chiamata mafia. Poi subirono molte altre aggressioni: dalla cassetta di escrementi scaraventata sul palcoscenico durante uno spettacolo, al ritrovare l'auto distrutta dai vandali. Nonché gravi minacce che riguardavano anche la mia incolumità. Gli fu recapitata una bara bianca e una lettera dove, con sangue umano, c'era scritto: vostro figlio è condannato a morte. Avevo 7 anni».

Intanto, però, loro avevano creato un modo completamente nuovo di fare teatro.

« Mistero buffo nasce dall'ammirazione che Dario nutriva per le storie degli affabulatori e dalla Commedia dell'arte. Lui ha riscoperto la tradizione del giullare, arricchita dall'esperienza di Franca che, avendo debuttato in fasce, era dotata di un orecchio teatrale pazzesco, capiva quello che funzionava e, se necessario, tagliava i testi di Dario».

Però lei, erede di tale esperienza, ha imboccato strade diverse.

«Sin da piccolo, quando venivano i fotografi, mi nascondevo, non volevo essere fotografato con loro. Poi, a 19 anni, intendevano coinvolgermi in una loro messinscena, rifiutai: mi proponevano il ruolo del figlio. Figuriamoci... lo ero già nella vita, a farlo anche in palcoscenico c'era da andare fuori di testa! Comunque, qualcosa in teatro l'ho fatto anche io».

Le davano consigli?

«Franca mi disse categorica: non fare mai il gigione. Dario, aggiunse: ricordati che in sala c'è gente che è uscita di casa per venire a vederti... Ho sempre cercato di differenziarmi da loro».

 Due figure troppo ingombranti?

«Sotto il profilo artistico sicuramente, ma non solo. Quando erano considerati due sovversivi pericolosi ne ho pagato lo scotto. Però ho avuto anche tante fortune, mi hanno trasmesso valori morali fondamentali».

Per differenziarsi, ha iniziato da vignettista.

 «E cambiai pure nome, mi firmavo con lo pseudonimo Giovanni Karen, per dimostrare di valere qualcosa senza che si sapesse che ero figlio di... Ho perfino fatto performance truccato da clown, in modo che nessuno potesse riconoscermi. Poi ho iniziato a scrivere su Tango, il supplemento satirico dell'Unità, dedicando alcuni articoli al piacere sessuale femminile e fece scalpore: venni pubblicamente processato a un festival dell'Unità e dovetti difendermi davanti a un pubblico di comunisti... erano indignati perché, sul loro giornale, avevo parlato di "passera" e fui cacciato».

Nel 1981, un cambiamento radicale: fonda sulle colline umbre, vicino a Gubbio, la Libera Università di Alcatraz. Un rifugio di creatività e di molto altro: formazione teatrale, ecologismo, yoga, artigianato...

«È nata da una delusione amorosa. Mi ero trasferito in campagna, da quelle parti, con una fanciulla di cui ero follemente innamorato. Lei però fuggì con un altro e io mi ritrovai da solo, sconsolato: ho trascorso otto mesi in una depressione profonda, a piangere notte e giorno, rifugiato in una casa diroccata. I miei genitori, preoccupati, vennero a cercarmi. Pian piano uscii dal tunnel e decisi che, proprio in quei luoghi, dovevo ricominciare da capo una nuova vita. Sono arrivato in questo posto per starci una settimana, ci vivo da 40 anni».

Perché scegliere il nome Alcatraz?

«Deriva dal nostro motto: la vita è una prigione, cerca un carcere da cui si possa fuggire, Alcatraz. All'inizio era una sorta di campeggio, poi una specie di comune con cucina rigorosamente vegetariana, che però è durata poco. Una volta, durante un pranzo tutto a base di verdure, si presenta Dario con una ventina di polli cucinati a dovere e li allinea sul tavolo: ci siamo gettati tutti sui polli...».

La pandemia ad Alcatraz come si vive?

«Da privilegiati. Siamo molto attenti, ma è difficile incontrare qualcuno che ti trasmetta il Covid, ti puoi incrociare giusto con cervi, volpi, istrici, cinghiali, scoiattoli. Comunque, durante la quarantena, abbiamo continuato a lavorare: è diventata un'università virtuale con seminari di teatro, scrittura creativa, public speaking e corsi di Zen occidentale».

Si sente un mistico?

«Rifiuto il misticismo, o roba affine che si definisce tale. Ho riprodotto certi finti miracoli, dimostrando dove sta il trucco e smascherando i truffatori. La mia è controinformazione, per aiutare le persone a capire che non esistono i superpoteri».

Nel 2106, nell'orazione funebre per suo padre, che morì tre anni dopo sua madre, ha detto: sono sicuro che ora sono lì insieme e si fanno delle grandi risate. Crede nell'aldilà?

«Chi ha fede ha le idee chiare, io no. È un mistero e non so spiegarmi come possa essere il dopo... Ma è difficile estirpare la vita, forse qualcosa di vitale poi resta».

·        Dino Campana.

Dagospia l'11 giugno 2021. Per gentile concessione dell'editore Tallone pubblichiamo stralci della prefazione di Davide Rondoni al volume "Canti Orfici" di Dino Campana. (Edizione composta a mano in 170 esemplari numerati in vendita su talloneeditoreshop.com). Il testo contiene tre lettere inedite del poeta indirizzate a Sibilla Aleramo e a Eleonora Tallone. 

DEVO PARTIRE

«Sono disposto a tutto.

Sono sciolto

da ogni impegno.

Un bacio a Sibilla.

Devo partire

per un lungo viaggio» 

NON VIVO SENZA TE

«Perdonami, perdona Sibillina

adorata, io non posso vivere

senza di te. Non voglio che

vederti… Sibilla. La mia

verità è questa: io sono libero

da ogni impegno, con onore» 

Davide Rondoni per “Libero quotidiano” l'11 giugno 2021. Dino Campana è un punto di febbre nella poesia italiana. Quarant' anni fa, un volume splendido come questo, veniva introdotto da Mario Luzi. Ancora folgora quella sua riflessione sul poeta che lo aveva avvinto, al pari di Rebora e di Betocchi, e che vedeva come suo riferimento più che i canonici e pur grandi Montale, Ungaretti, Saba. «E perché mai, Mario, gli chiesi un giorno a via Bellariva a Firenze, guardavi a questo strano poeta?» C'era qualcosa di urgente, mi raccontò, di primario. Qualcosa, ora lo so, di "fedele alla vita". Cosa aveva addosso questo ragazzo nato sui greppi tra Romagna e Toscana, zona bella e impervia, su vie secolari di comunicazioni? Troppo s' è scritto intorno al profilo psichico del poeta, ai suoi guai con la giustizia e la salute. La morte nel 1932 dopo lungo internamento in un manicomio a Castel De' Pulci ha dato pace alla sua anima ma non al suo fantasma, braccato da segugi di varia risma ed eleganza. Ma come vale per ogni vita segnata da sofferenze di questo genere, anche per quella di Dino Campana occorre rispettare cose che rimangono misteriose. E pensare di comprendere un poeta soffermandoci sulla sua biografia è errore tanto banale quanto ripetuto nelle scuole. Nessun poeta autentico scrive per esibizione della propria vicissitudine. Semmai perché quella materia biografica, che al poeta stesso pare misteriosa e "ingestibile" (non occorre avere disturbi psichici evidenti per essere ognuno, a proprio modo, indecifrabile) venga illuminata, elevata ma non in senso moralistico o esemplare, bensì posta al livello in cui la parola possa captarne il segnale e condividerlo, essendo lei, la parola, il nostro radar per conoscere un poco il mondo, gli altri e noi stessi, il mistero che ci agita. Cercò dunque questa captazione anche lui, inseguendo così, forse come tutti noi, una specie di riconoscimento. O quasi a strappare, anche fosse solo così, un brano del silenzio che avvolge e minaccia di insensatezza la nostra sperduta esistenza. Campana ragazzo romagnolo febbrile vive di questa tensione, ravvisabile in certi petti sudati anche ora in discoteca o lungo viali male illuminati sul mare, o in certe ombre sulla fronte nei bar in paesini arrampicati su quei greppi. Come se ci inseguisse qualcosa di primario, sì, ma non da intendersi riduttivamente come selvatico. È urgenza assoluta.(...) IN FUGA Un ragazzo sempre in fuga: da Marradi, dallo studio regolare, dalla università, dai gendarmi, dall' Italia bellica rinnegatrice dell' asse culturale con la Germania, e in fuga dalla norma, dalla solitudine, dalla oscurità... In un secolo, il Novecento, che come mai nella storia ha visto artisti e poeti preoccupati di motivare la esistenza della loro arte (secolo di manifesti, di poetiche) la voce di Campana arriva così attaccata al farsi e disfarsi della esistenza da parere quasi miracolosa. E pericolosa. Tra la realtà e la poesia non c' è di mezzo il tavolo dello scrittore. Questa sorta di "presa diretta" tra voce poetica e disfarsi e gloria dell'esistente fu potente e libera, al pari di poche altre. (...) Di quale sperdimento abitò Campana possiamo avere regesti medici e racconti, ma il nucleo ci è precluso, al pari di quello di Rebora. Di entrambi abbiamo il lampo, il diario poetico. Campana cercò in mezzo a disavventure note agli esperti di cose letterarie (un manoscritto disperso, epistolari, incontri, persino presunte frequentazioni con ambienti segreti) il riconoscimento di un'opera che non è certo quella di un poeta istintivo. Vi sono molte delle sonorità e delle movenze della grande poesia ottocentesca italiana e straniera nello stile di questo giovane inquieto. Ma Campana è la dimostrazione che anche attraverso l'assunzione di uno stile già presente nella letteratura, la forza di una vocazione sa farsi largo e mantenere inalterata la propria verve prodigiosa. Il fuoco brucia i reperti stanchi e riaccende materiali stilistici che il tempo impoverisce. Come se appunto la materia assunta dalla tradizione dovesse in lui avere i limiti mangiati dal fuoco, oltre che raggiungere una temperatura interna quasi insopportabile. (...) 

LUCI E OMBRE Campana appartiene a quella schiera piccola di uomini, anticipatori di una grande massa che siamo noi e i nostri figli, che eredita dall' Ottocento ubriaco della sua modernità la necessità di una lucidità quasi mostruosa, volta a sfregiarne il presunto volto perfetto, a vederne il lato oscuro, negato in nome di convenzioni e borghesia. La piccola schiera a cui appartengono molti grandi scrittori, da Rebora a Pirandello, passando per Rimbaud e Conrad, solo per fare alcuni nomi, a cui aggiungere i nomi dei premonitori Baudelaire Leopardi e Dostoevskij, fissa nel cuore trionfante della cosiddetta modernità il fiore oscuro della letteratura che indaga l'umano - irredimibile dalla società, dal progresso, dal buoncostume. Uomini e opere spesso votati a un sacro fallimento. Orfeo è il cantore che fallisce nella sua impresa, viaggiando nella Notte. Ma con la sua voce lascia un chiarore che interroga, inquieta. . (...) L' ampio spettro della migliore cultura italiana, facendo i conti con i fantasmi di una modernità e di suoi postumi che lasciano l'uomo più solo, segnato da una impostura di libertà, ha amato e reso onore al ragazzo geniale e agitato. Un' altra ragione della lettura continua di Campana sta nella compresenza tra barbarico e alto (...) La cultura italiana autentica è sempre segnata da tale compresenza e contrasto. Campana ne è il ragazzo vivace, lo sfortunato campione. Poeta anch' egli nomade, come lo era stato Rimbaud, come sarà il coevo Ungaretti (anticipatori del nomadismo odierno ma opposti alla sua vacuità) ha versi che nascono dall' andare. Tale poesia -cammino si oppone a qualsiasi tentazione della letteratura d' essere decorazione del mondo. Il poeta inquieto dell'alta Romagna offre la sua strana fiaccola perché chi ne incontra le parole possa vedere il proprio cammino come festa di rivelazioni, divisioni. E riconoscere la vita, anche nei suoi dirupi di ombre, come contemplazione.

·        Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Speciale Dante. Con Piero Dorfles e Franco Cardini su raiscuola.rai.it. Guelfi o ghibellini? Ossia: papa o imperatore? Potere religioso o potere civile? Questo il dilemma in cui si dibatteva il sistema feudale nel basso medioevo e che riguardava tanto i Comuni che i singoli cittadini. Un dilemma che nella Firenze dantesca, tuttavia, dato il sopravvento dell’influenza papale su quella imperiale, era tutto spostato in casa guelfa nella lotta fra bianchi e neri, e cioè fra sostenitori di un’alleanza più libera o più stretta con la chiesa. In quest’ambito si muoveva Dante, che ebbe sempre un rapporto difficile con la curia romana e che papa Bonifacio VIII trasformò infine in un fuorilegge conferendo ai neri il potere assoluto a Firenze. 

Piero Dorfles (giornalista e critico letterario) e Franco Cardini (storico) tracciano un quadro dell’epoca illustrando gli ideali religiosi e politici che emergono dalle opere e dalla vita di Dante. La Firenze a cavallo fra il Duecento e il Trecento era uno dei comuni più importanti e moderni d’Italia, una città di 100 mila abitanti in pieno boom demografico, economico e artistico, che vedeva la gestione del potere in mano non più all’aristocrazia ma alla borghesia. Un comune all’avanguardia in ogni settore, dotato di una costituzione che subordinava la possibilità di far parte della vita politica all’appartenenza a una delle gilde, ossia delle associazioni di arti e mestieri. Per questo Dante s’iscrisse alla corporazione dei medici e degli speziali – pur non appartenendo a nessuna delle due categorie – diventando uno dei guelfi bianchi più importanti e infine uno dei cinque priori che governavano la città. Legato a un ideale francescano di chiesa umile e povera e assertore della necessità di una pacifica convivenza e collaborazione fra il potere imperiale e quello spirituale (posizione che metteva in discussione il potere temporale della chiesa), all’apice della sua carriera politica Dante entrò tuttavia in attrito con la politica vaticana. Dopo l’epurazione dei bianchi operata a Firenze su incarico di Bonifacio VIII da Carlo D’Angiò, il poeta fu esiliato con accuse gravissime e condannato al rogo trascorrendo lontano dalla sua città natale l’ultima parentesi della sua esistenza, alla quale va tuttavia ascritta la creazione del suo capolavoro: la Divina Commedia. La grande riflessione dantesca ci dice che l'intellettuale può essere più importante del politico, anche se spesso ne subisce l'esilio.

Dante e la politica. Riflessioni tra passato e presente. Università degli studi di Torino 8 aprile. Da Giovanni Fighera il 27 Marzo 2021. Oltre che coinvolto nella vita militare, Dante partecipò anche all’attività politica, dopo che, mandato in esilio Giano della Bella, furono ammorbiditi gli Ordinamenti di Giustizia da lui emanati secondo i quali i nobili non potevano partecipare all’amministrazione della città. Anche gli esponenti della piccola nobiltà poterono così accedere alle cariche di Firenze, purché s’iscrivessero ad una corporazione. Dante scelse quella dei medici e degli speziali. Dante fu Priore di giustizia nel bimestre 15 giugno-15 agosto del 1300, l’anno in cui è ambientata la Commedia, l’anno del primo Giubileo indetto dal Papa Bonifacio VIII. Fu proprio sotto il suo priorato di giustizia che vennero mandati in esilio a Sarzana alcuni guelfi bianchi insieme a Guido Cavalcanti, coinvolti in azioni violente ai danni dei guelfi neri. L’amico Guido sarebbe morto nell’agosto del 1300, in seguito alla malaria contratta. Dante non poté collocarlo tra gli epicurei perché il viaggio è ambientato nel marzo o aprile di quell’anno. Pose in quel cerchio il padre Cavalcante de’ Cavalcanti. Secondo quanto scrive il Boccaccio nel Trattatello, Dante fungeva da capo-delegazione nell’ambasceria che avrebbe dovuto trattare con Bonifacio VIII perché desistesse dall’intromissione nella politica interna di Firenze. Mentre Dante era lontano, ancora a Roma secondo la testimonianza di Dino Compagni, avvenne un colpo di Stato ad opera dei guelfi neri, supportati da Carlo di Valois. Molti guelfi bianchi allora al potere, accusati di baratteria e di peculato, furono condannati a pagare una multa e a restituire il maltolto entro tre giorni. In caso contrario, i loro beni sarebbero stati confiscati e distrutti. Se, invece, avessero pagato, sarebbero comunque rimasti per due anni in esilio fuori dalla Toscana, interdetti per sempre da qualsiasi pubblico ufficio. Secondo una provvisione del 9 giugno del 1302 venivano coinvolti nell’esilio anche i figli maschi maggiori di quattordici anni e le mogli degli esiliati. Nonostante la prevista distruzione dei beni, in caso di mancato pagamento, nessuno dei condannati si presentò a pagare. Per Dante iniziò l’esilio che compare numerose volte all’interno della Commedia in forma di profezia rivelatagli dalle anime. Ne parleremo la prossima puntata. Non sappiamo quando e se la moglie riuscì a raggiungere Dante. Secondo la testimonianza di Boccaccio, Gemma non fu costretta a seguire il marito in esilio. I figli rividero, invece, il padre. 

PIETRO SENALDI per Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. «L'uomo non è cattivo; è egoista, ma può essere indotto albe ne se questo lo fa sentire migliore». Per questo Il posto degli uomini, seconda fatica letteraria di Aldo Cazzullo dedicata alla Commedia dantesca, è il Purgatorio, dove le anime dei morti scontano i loro peccati ma le sofferenze sono lenite dalla speranza e dall'attesa del Paradiso, luogo del bene assoluto. 

Uscito da meno di un mese, il libro arriva l'anno dopo A riveder le stelle, 250mila copie vendute, il romanzo nel quale l'inviato del Corriere della Sera racconta l'Inferno e, come prevedibile, è già un successo. «Perché Dante è il padre dell'Italia» spiega Cazzullo, «è l'unico nostro letterato conosciuto in ogni parte del mondo, il creatore della nostra lingua, il primo a definirci il "Bel Paese" e l'inventore di espressioni come "siamo a buon punto", "avere un piede nella fossa", "visione estatica" e di parole meravigliose come "antelucano" o di penitenza come "dieta"». «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincia ma bordello». Nel Purgatorio, VI canto, c'è una condanna inappellabile. Cosa penserebbe oggi Dante dell'Italia?

«Senza dubbio che in oltre settecento anni non è cambiato nulla. L'invettiva di Dante si scagliava contro un Paese diviso, feroce con gli sconfitti, dove solo i mediocri fanno politica, i capi cambiano di continuo senza che nulla cambi e una legge fatta a ottobre viene ritoccata a novembre. E non aveva ancora visto l'uno vale uno, i parlamentari nominati, la parabola di Renzi, i dpcm di Conte». 

Si arrabbierebbe?

«Certo perché era un passionale e un fervido innamorato dell'Italia; anche se era alquanto ironico e aveva una dote che oggi a molti uomini pubblici manca, quella del perdono».

Alla faccia del perdono, infliggeva pene piuttosto pesanti...

«In effetti Dante era molto severo nelle condanne. Quando incontra Filippo Argenti, che lo schiaffeggiò in piazza a Firenze, lo umilia senza pietà: "Con piangere e con tutto, spirito maledetto, ti rimani; ch' i ti conosco ancor sie lordo tutto...". 

Però riconosceva il valore del perdono edel pentimento: il destino di un uomo si gioca nel suo cuore. Dopo la battaglia di Montaperti, una sorta di Caporetto per Firenze, il senese Provenzano Salvani ordina di risparmiare i prigionieri tranne i nati nella città di Dante. E ciononostante lui non lo mette all'Inferno ma in Purgatorio, perché ebbe la forza di chiedere l'elemosina in piazza per riscattare un suo compagno d'armi, salvando così la sua anima».

L'Italia di Dante era spietata...

«Italiani brava gente è uno slogan che non ha riscontro nella realtà. Noi pensiamo di essere uomini di cuore, un po' melodrammatici, come nella sceneggiata napoletana, ma invece siamo un popolo tragico e feroce: non abbiamo un rapporto maturo con il potere, perché non crediamo nella politica e nello Stato. Il Palazzo di Giustizia diventa il Palazzaccio, il poliziotto lo sbirro...».

 Perché, il nostro Stato è credibile?

«Pare che si industri a confermare i pregiudizi che gli italiani nutrono nei suoi confronti. Pensa a Craxi: quando Scalfari lo paragonò a Ghino di Tacco, il bandito che chiedeva il pizzo a chiunque passasse da Radicofani, sulla Cassia, la via diretta per la Capitale prima che Fanfani facesse deviare l'autostrada del Sole costringendola a passare per Arezzo, il leader socialista anziché indignarsi iniziò a firmare i propri editoriali sull'Avanti con il nome del fuorilegge toscano». 

Ghino di Tacco è in Purgatorio, Craxi gli italiani l'hanno spedito all'inferno...

«È il destino di molti nostri leader: Mussolini appeso a testa in giù, Moro nel bagagliaio della Renault, Andreotti a processo per mafia, Mattei fatto esplodere in volo. Noi i leader li sappiamo blandire o abbattere, mai sostenere o criticare».

È quel che cercano, i signorsì...

«È il loro punto debole, ma noi li abbiamo abituati male: gli italiani al comando non vogliono una guida, un Virgilio, ma un padrone; da qui la girandola di innamoramenti e disillusioni». 

Che cosa cerca Dante invece?

«Lo dice: "Libertà va cercando ch' è sì cara. Per lui la libertà è il più grande dono che Dio ha fatto agli uomini. Però aveva una concezione diversa della libertà rispetto alla nostra: per lui libertà è far quel che si deve non quel che si vuole». 

Ma così non vale...

«In questo risiede la profonda, la più grande se non l'unica, differenza tra la società di Dante e la nostra: a quei tempi avevamo la certezza dell'aldilà, la paura della pena eterna, la speranza della salvezza. Questo possiamo invidiare al poeta e anche agli antenati: i miei nonni erano certi dell'esistenza di Inferno, Purgatorio e Paradiso come del fatto che il sole sorge e tramonta». 

Qual è il peccato che Dante non sopporta?

«Sprecare la propria vita. Dante non tollera gli ignavi, relegati all'Inferno, e gli accidiosi, in Purgatorio, quelli che stanno nella zona grigia senza schierarsi: sono condannati a correre a perdifiato urlandosi l'uno con l'altro di non perdere tempo». 

Quanto accaduto a Morisi, lo spin doctor di Salvini nei guai per un festino omo di droga e sesso è un contrappasso dantesco?

«Il male che hai fatto ricade su di te; questo è il contrappasso. Ma la punizione è diritto di Dio e non degli uomini per Dante, capace di pietà grande verso le anime punite: davanti a Paolo e Francesca sviene». 

"La gloria di colui che tutto move...". Dante amerebbe Draghi?

«Ma quel versetto apre il Paradiso, il libro tratta del Purgatorio». 

Solo i santi non passano per il Purgatorio: Dante metterebbe Draghi subito in Paradiso?

«Draghi ha già troppi laudatori e anche soltanto per questo Dante non s' accoderebbe agli elogi. Nel momento in cui accetti di far politica, metti in conto qualche secolo di Purgatorio. Dante manda in Purgatorio tutti i principi e i re d'Europa». 

 Anche Draghi, che ora ha il massimo consenso, è destinato a stancare in fretta?

«Ma lui non sta cercando di affermare la propria personalità». Dante ce l'aveva coi tedeschi... «"Oh Alberto tedesco ch' abbandoni costei... giusto giudicio da le stelle caggia sovra 'l tuo sangue...". L'invettiva contro l'imperatore che lasciava al suo destino l'Italia in preda a lotte intestine anziché "Inforcar li suoi arcioni" e occuparsene. Non ce l'aveva con i tedeschi, era per l'impero, una sorta di unità europea, ma era pure un geloso difensore delle libertà comunali e aveva una chiara idea dei valori italiani». 

Una sorta di leghista ante-litteram o di patriota meloniano?

«Le categorie politiche di allora sono troppo diverse da quelle di oggi. Se dovessi avvicinare la visione dantesca a quella di un politico moderno, evocherei Ciampi, che diceva di sentirsi livornese, toscano, italiano ed europeo».

Ma è un'utopia: perché non anche appartenente all'universo?

«Fino a un certo punto: Dante ha saputo rendere universali Firenze e l'Italia, per questo è ancora attuale e alcuni suoi personaggi sono ancora tremendamente vivi: pensa a Pia de' Tolomei, che resta in scena sei versi ma ha costretto perfino Marguerite Yourcenar a scrivere di lei». 

Dante era consapevole della propria grandezza letteraria?

«Si colloca tra i superbi, costretti a procedere sotto il peso di enormi macigni che li schiacciano. 

Aveva il desiderio di onori e gloria, che sentiva di meritare, e al contempo la consapevolezza della loro vacuità». In cosa lo abbiamo tradito?

«Non abbiamo fatto tesoro del suo insegnamento e siamo rimasti opportunisti, cattivi e divisi, scostanti ma costanti nella voglia di non cambiare. Sono difetti della natura umana, ma in Italia il bello è più bello e il brutto è più brutto». 

Se siamo rimasti così dopo settecento anni significa che è una questione di dna non di storia...

«Forse perché siamo un Paese misterioso e lungo». 

Come sono gli italiani oggi?

«Come Dante sulla montagna del Purgatorio: puri e disposti a salire alle stelle. La pandemia, con i suoi gravi errori, è stata la prova della vita e l'abbiamo superata». Cosa può fermarci? «Il narcisismo e un po' di sfiducia. I nostri padri, che hanno ricostruito l'Italia, credevano di più nel lavoro. Per Dante il narcisismo è l'amore inutile. Noi guardiamo solo il nostro ombelico: postiamo sui social quel che mangiamo e, quando constatiamo che agli altri non interessa nulla, ci sentiamo umiliati e insultiamo tutti, trasformando il nostro malessere in odio da social».

Modello no vax?

«Non vanno sopravvalutati, sono una minoranza. Dei no vax non mi piace l'aspetto individualista, non concepiscono che si possa fare qualcosa anche nell'interesse degli altri, non solo proprio e dei famigliari».

La divina arguzia. Il mito di Dante è stato costruito grazie agli aneddoti. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 27 Settembre 2021. Il poeta fiorentino ha cominciato subito, grazie alla sua celebrità, a diventare il protagonista di storielle, facezie e leggende. Un libro le raccoglie e dimostra come proprio da lì sia cominciata la sua monumentalizzazione. Non è vera gloria se non si finisce in mezzo ai pettegolezzi. Nel caso di Dante Alighieri, diventato famoso già in vita grazie alla “Commedia“, le dicerie si trasformano subito in aneddoti. Alcuni veri, alcuni falsi, alcuni a metà. Tutti però hanno contribuito a creare il suo mito, che si è propagato nei secoli fino a oggi. Luca Carlo Rossi li ha raccolti in “L’uovo di Dante” (Carocci, 2021), un’approfondita indagine su facezie, storielle, episodi di varia natura in cui appare la figura del poeta, più o meno distante dalla realtà storica. Si scopre allora che Dante non sapeva comportarsi negli ambienti di corte (almeno secondo Petrarca). Era altero, superbo e amava stare in disparte a riflettere. Aveva però una memoria prodigiosa, tanto da ricordarsi la domanda banale di un passante («Qual è il miglior boccone?», «L’uovo», risponde) anche quando viene continuata a distanza di anni («Con che?», «Col sale»). Era in grado di concentrarsi in modo profondissimo, tanto da non accorgersi per ore di una festa con dame e cavalieri lì accanto. Alle provocazioni, rispondeva sempre a tono. Non solo: era anche un mago, un necromante. Aveva un contatto diretto con il mondo dei morti, anzi: ci andava e veniva, almeno secondo l’opinione di alcune popolane veronesi. Soprattutto, aveva la barba. Quest’ultimo dettaglio è singolare: l’iconografia dantesca, che nei secoli è rimasta pressoché inalterata («a partire dalla più antica attestazione riconosciuta nell’affresco giottesco del Palazzo del Bargello di Firenze. Si sono anche realizzate simulazioni fisionomiche a partire dal teschio presente nella tomba di Ravenna») ha perlopiù rimosso questo particolare, che pure è presente nella descrizione fatta dal Boccaccio nel suo “Trattatello” e, cosa ancora più significativa, nelle indicazioni che lo stesso Dante dà nella “Divina Commedia”, quando incontra Beatrice alla fine del Purgatorio. Quello che ne scaturisce, in ogni caso, è un personaggio che, in nome della sua autorevolezza, viene manipolato di episodio in episodio per finalità differenti. A volte gli aneddoti sono riflessi e fioriture della sua opera, come la storia del suo svenimento di fronte a Beatrice o il colloquio con il falsario Capocchio, che aveva dipinto un ritratto della Passione sulle unghie per cancellarla all’arrivo di Dante (entrambi gli episodi sono raccolti da Benevenuto da Imola). A volte servono ad approfondire alcuni aspetti della personalità, come la leggenda del Dante mago, capace di entrare in contatto con gli spiriti e praticare stregonerie. In realtà si tratta di un aspetto documentato e, nonostante sia lontano dalla sensibilità attuale, ben presente nella formazione culturale del tempo. Se è vero che Dante era stato contattato per effettuare una sorta di rito voodoo, restava il fatto che la necromanzia fosse al limite dell’eresia e praticarla poteva rivelarsi pericoloso. Non è mancato, tra gli studiosi, chi abbia ipotizzato che la scomparsa degli autografi danteschi fosse da attribuire al timore di possedere le carte di uno stregone. A volte ancora servono a farlo scendere dal piedistallo, ad esempio – come fa Boccaccio – ricordando la passione, molto carnale, che Dante aveva per le donne. Benvenuto da Imola, addirittura, insinua che negli anni bolognesi (come del resto facevano i suoi studenti) il poeta avesse frequentato prostitute. Per lui era una pulsione irresistibile, soprattutto «per la voluttuosa terra fiorentina, talvolta ingannando donne». Questo tratto, se oggi stride con l’immagine monumentalizzata del poeta, era sopravvissuto per qualche secolo nella tradizione, tanto che in una raccolta del XVI secolo ricompare. Stavolta è ambientato a Ravenna, cioè nei suoi ultimi anni di vita, dove Dante continua a frequentare prostitute. Nella storiella, che si risolve in un bon mot, una di queste racconta come era andato l’incontro: «Signor mio, secondo me è un uomo scarso e fiacco: anche se dotato di una buona bestia, non ha cavalcato più di un miglio». Gli aneddoti danteschi sono tutto questo. Ognuno di loro impasta stereotipi a qualche lontana verità, spesso più che altro desunta dall’opera poetica. Il personaggio, ridotto a poco più di una maschera, si muove a suon di battute e facezie, obbedendo al dispositivo narrativo e staccandosi da qualsiasi contesto storico reale. Cercare allora il vero Dante (qualora qualcuno volesse farlo, qualora esistesse davvero) lungo la scia di questi echi che si sono avvicendati nel corso dei secoli sarebbe un’impresa vana. Il bello è trovarne, invece, tantissimi. Ognuno diverso, ognuno che risponde a esigenze nuove e distanti, ognuno da indagare. In un panorama più ricco dell’oleografia retorica dei centenari e delle celebrazioni.

La vera storia delle donne della Divina Commedia. Il Post il 23 settembre 2021. Perlopiù se ne sa quello che Dante scelse di raccontarne, ma una ricercatrice italiana sta separando i fatti dalla narrazione. Molti dei personaggi che compaiono nella Divina Commedia – persone reali che Dante aveva incontrato durante la sua vita o di cui aveva sentito parlare – vengono ricordati esclusivamente per ciò che il poeta fiorentino scelse di raccontarne: la loro storia, però, supera la Commedia, spesso se ne discosta, ha un valore dal punto di vista storico che va oltre la ricezione letteraria, e in molti casi merita pertanto di essere conosciuta e contestualizzata. Separare il personaggio della narrazione dalla realtà storica e raccontare autonomamente alcune delle figure citate da Dante è l’obiettivo di un progetto avviato in collaborazione con Wiki Education da Laura Ingallinella, dantista ed esperta di questioni di genere nella letteratura medievale, con le sue studentesse del Wellesley College, vicino a Boston. Grazie al loro lavoro – che è ancora in corso – nella versione inglese di Wikipedia le voci di alcuni personaggi danteschi sono state riviste e aggiornate. «La nostra ricerca», spiega Ingallinella al Post, «oltre ad avere un valore storico in sé si è trasformata anche in un’opportunità per confermare o smentire le opinioni personali di Dante». Per Ingallinella è stato particolarmente importante iniziare questo progetto dai personaggi femminili della Commedia, «e da quelli che, in senso più ampio, appartengono alla comunità LGBT+: abbiamo innanzitutto assunto una prospettiva di genere». Tra i 600 personaggi che compaiono nella Divina Commedia, le donne sono quelle di cui nella documentazione storica si trovano meno tracce: ci sono testamenti, atti di vendita in cui queste donne compaiono, e che di solito raccontano, però, solo un evento della loro vita. «La Divina Commedia è spesso l’unica fonte accessibile di informazioni su alcune figure, dove cioè queste donne vengono nominate come soggetti. Allo stesso tempo, il modo in cui Dante rappresenta le loro storie non è naturalmente esente da interpretazione, e diverse studiose hanno già dimostrato come lui amasse trasformare le donne in metafore». Sono figure femminili, però, che erano al centro di una rete di contatti politici, regionali o ecclesiastici che rendono storicamente rilevante capire, al di là della Commedia, quale sia stata la loro rilevanza. Ingallinella fa qualche esempio. Il migliore, dal punto di vista dei risultati raggiunti, è secondo lei quello di Gualdrada Berti, citata nel XVI canto dell’Inferno: «La voce di Wikipedia dava come storicamente avvenuta una storia che in realtà è un mito fiorentino riportato dal Boccaccio. La storia di lei che rifiutava un bacio dell’imperatore veniva presentata come un fatto biografico. È una storia bellissima, ma è una storia». Gualdrada aveva già una sua voce su Wikipedia, spiega Ingallinella: «Abbiamo quindi fatto un lavoro metodologico, separando il dato puramente storico – cioè quello che sappiamo di lei e quanto fosse stata importante nella vita fiorentina del Duecento – dalla sua ricezione letteraria», cioè da come Dante la raccontò nella Commedia e insieme a lui Boccaccio e altri autori del medioevo fiorentino. La figura che emerge da Dante e da questi autori infatti è influenzata dal loro stesso desiderio «di creare miti di donne virtuose fiorentine. Gualdrada come simbolo di virtù è insomma una creazione a posteriori, una storia propagandistica per celebrare la città di Firenze». Ci sono poi voci, spiega ancora Ingallinella, «per cui è stato necessario lavorare da zero», come quello di Alagia Fieschi, nipote di un papa, nominata nel XIX canto del Purgatorio come l’unica virtuosa della famiglia, capace di pregare per la salvezza della persona che la nomina. «Su questo personaggio erano scarse, anche in italiano, le notizie sul suo valore storico e sul significato che la sua esperienza ha avuto per Dante, tanto che la fece rientrare nella Commedia. In questo caso, il nostro lavoro è stato quello di recuperare ricerche già fatte, in una sorta di archeologia delle fonti: abbiamo così capovolto la prospettiva. Alagia è diventata il soggetto principale della sua storia con uno specifico paragrafo su Wikipedia, accanto a quello che racconta la sua presenza nell’opera dantesca». Sapia Salvani incontra Dante e Virgilio nel XIII canto del Purgatorio: Sapia era zia di Provenzano Salvani, a capo della fazione ghibellina di Siena. Nella Commedia si racconta che durante la battaglia di Colle, tra Siena e la guelfa Firenze (nella quale morì il nipote Provenzano Salvani), Sapia pregò Dio di far sconfiggere la sua stessa città, cosa che poi avvenne e di cui lei si rallegrò. La rappresentazione di Sapia nella Divina Commedia è ricca di implicazioni politiche, molte delle quali si riducono al fatto che Dante incolpava della violenza del suo tempo coloro che si rivoltavano contro la loro stessa comunità. Ma la vera Sapia, spiega Ingallinella, «era ben più interessante di quanto Dante volesse far credere. Fonti documentarie rivelano che era una filantropa: con il marito fondò l’ospizio di S. Maria per i Pellegrini, lungo la Via Francigena, via di pellegrinaggio verso Roma, e cinque anni dopo aver assistito alla caduta di Siena donò tutti i suoi beni all’ospizio». C’è poi Beatrice d’Este, una nobildonna che Dante critica per essersi risposata dopo la morte del suo primo marito e che compare indirettamente nel Purgatorio nelle parole del marito insoddisfatto, Nino Visconti: «Per raccontare la storia di Beatrice, la mia studentessa ha recuperato un articolo della studiosa Deborah W. Parker, che ha contestualizzato il trattamento che le riserva Dante. Parker spiega come Beatrice D’Este sia stata probabilmente costretta al suo secondo matrimonio e come sulla sua tomba fece scolpire gli stemmi di famiglia di entrambi i suoi due mariti, una coraggiosa di dichiarazione di lealtà e, forse, di indipendenza». Nel lavoro di Ingallinella e delle sue studentesse sono stati considerati anche alcuni personaggi LGBT+ della Commedia, come Guido Guerra, e collocati da Dante all’Inferno tra i sodomiti: «Se per le donne non disponiamo di molte fonti storiche, in questi altri casi la situazione è stata molto diversa. Si trattava di personaggi di spicco della storia militare fiorentina e le voci su di loro sono dunque più estese». Il lavoro è stato però lo stesso: separare il dato storico, come gli eventi politici a cui avevano preso parte o le battaglie, dal trattamento dantesco. Il progetto di Ingallinella non è ancora concluso. Spiega che c’è ancora molto lavoro da fare e che il prossimo passo sarà quello di far scegliere i personaggi alle sue studentesse, in base ai loro interessi di ricerca: «Verosimilmente» anticipa «continueremo col migliorare le voci sui personaggi non cristiani della Commedia». Il risultato quasi paradossale del suo lavoro è che ora, e in molti casi, la voce in lingua inglese è più corretta e aggiornata rispetto a quella in italiano: «L’invito, dato che Wikipedia è uno spazio aperto, è che queste voci riviste e migliorate vengano tradotte e messe a disposizione dei lettori italiani». Citando la teorica femminista Sara Ahmed, Ingallinella dice che «un mattone alla volta – una pagina, una revisione o un nuovo riferimento alla volta – i wikipediani possono ampliare la nostra comprensione del passato, collocando le storie delle donne in un mondo che per lungo tempo le ha relegate ai margini».

L’allarme del poeta. La lezione di Dante: un’economia al servizio delle comunità. Giuseppe De Lucia Lumeno su Il Riformista il 5 Ottobre 2021. Perché non possiamo fare a meno di Dante? È una domanda che ci si pone, forse inaspettatamente, anche tra chi si occupa per professione di soldi, tassi, interessi, prestiti, ricavi ecc. Le banche popolari che da sempre investono risorse ed energie nella salvaguardia e nella valorizzazione dell’enorme patrimonio di cultura, civiltà e bellezza del nostro Paese a partire dai territori nei quali operano e in collaborazione con le rispettive comunità locali, non hanno mancato l’appuntamento del 700° anniversario della morte di Dante organizzando diverse iniziative ed eventi che si sono tenuti e si terranno nei prossimi mesi. Un esempio che vuole ricordarli tutti è quello della Banca Popolare di Sondrio che ha deciso di ricordare il 150° anniversario della propria fondazione con un importante evento dal titolo “DantedìValtellina – Nel 700° anno dalla morte di Dante” straordinariamente riuscito per qualità degli interventi di esperti, docenti e attori e per numero dei partecipanti. L’iniziativa, che si è tenuta la scorsa settimana, ha coinvolto, nella prima parte, gli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori sull’attualità del messaggio della Divina Commedia e sull’importanza della cultura nella vita delle persone. La seconda parte, incentrata sull’ultimo canto del Paradiso, è stata pensata per l’intera cittadinanza ed ha esaminato la figura di Dante e la sua opera da un punto di vista letterario, linguistico, filosofico, storico e, più generalmente, artistico. Quello della Popolare di Sondrio non è stato un evento isolato nel mondo bancario. L’Anno di Dante ha, infatti, visto anche l’autorevole intervento del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco che, lo scorso 11 settembre al Festival Dante 2021 di Ravenna, ha tenuto un dotto e appassionato intervento dal titolo “Note sull’economia di Dante e su vicende dei nostri tempi”. Allo stesso incontro di Ravenna è intervenuto anche il Presidente dell’ABI, Antonio Patuelli, con un esplicito monito al mondo dell’economia perché tutti seguano l’ideale etico del «Catone dantesco per la rigida rettitudine per l’adempimento dei doveri per stare lontani … dall’ignavia, dagli avari e dai prodighi, dagli scialacquatori e dagli usurai, dai barattieri, dagli ipocriti, dai ladri, dai seminatori di discordia, dai traditori della Patria e dei benefattori». Cosa lega, dunque, l’attività e la cultura bancaria a Dante Alighieri? Il giudizio del più illustre cittadino di Firenze sui “mercanti-banchieri” è certamente duro e risente del rapporto che egli ebbe con il potere politico, economico e finanziario del suo tempo che non fu certo semplice e lineare e che lo portò all’esilio «…sì come sa di sale/lo pane altrui, e com’è duro calle/lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale…». Ciò che più è attuale e utile del messaggio di Dante e del suo rapporto con l’economia, per una lettura critica dei nostri tempi, è la sua forte e, per certi versi drammatica, preoccupazione, per il disfacimento morale, politico e sociale del suo tempo originato dalla cupidigia delle persone, causa, questa, di avarizia, avidità, corruzione, ruberie, falsificazioni, usura. Il disfacimento di cui Dante è testimone, prima ancora che severo censore, accompagna, negli anni in cui egli è vissuto, una crescita economica e dei commerci straordinaria con l’esplosione delle interazioni tra attività commerciali e dei meccanismi di mediazione finanziaria e una crescita del commercio internazionale senza precedenti. Il Duecento, considerato da molti economisti il secolo della nascita della globalizzazione, vede avverarsi una vera e propria rivoluzione della finanza occidentale con la nascita e lo sviluppo delle corporazioni delle arti e dei mestieri, nonché l’introduzione di nuove e sempre più innovative tecnologie. Uno sviluppo e una crescita così vorticosi che generano arricchimenti tanto rapidi e facili da preoccupare Dante: «La gente nuova e i sùbiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, /Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni…». E ancora, paragonando la Firenze del passato a quella a lui contemporanea: «Fiorenza dentro da la cerchia antica, / ond’ella toglie ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica. / Non avea catenella, non corona, / non gonne contigiate, non cintura / che fosse a veder più che la persona. / Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre, ché ‘l tempo e la dote / non fuggien quinci e quindi la misura». Insomma la finanza, fine a sé stessa, l’arricchimento per l’arricchimento, ieri come oggi, non possono che creare situazioni di degenerazione morale prima ancora che politica ed economica. Al Duecento seguirà il Trecento, secolo di crisi profondissime, di pandemie (sic!), fallimenti fino alla bancarotta del Comune di Firenze del 1345. Ogni paragone con il presente non è casuale. Agli anni ‘80-‘90 del secolo scorso, gli anni della grande espansione della globalizzazione economica e finanziaria e della crescita smisurata del benessere, sono seguiti, dal 2007 ad oggi, gli anni della più grande crisi economico-finanziaria del mondo occidentale e della prima grande pandemia globale. Le parole del Governatore Visco sono a tal proposto illuminanti: «La forza innovativa dell’analisi di Dante sta nel rilevare la natura globale dell’instabilità e la necessità quindi di un mutamento istituzionale adatto a farvi fronte». Esiste allora un insegnamento per chi “fa banca” che si può trarre da Dante e dalla sua opera? Al di là dell’alto profilo culturale e letterario del più grande poeta italiano come può una banca di territorio produrre, attraverso Dante, cultura e metterla a servizio della propria collettività? Come può mostrarsi nella condizione opposta a quella di chi trae la sua ragione di vita da un uso del denaro fine a sé stesso? Forse, per una banca popolare, come quella di Sondrio o come le tante che operano ogni giorno con dedizione e in un rapporto di profonda connessione e di cooperazione con le proprie comunità, la risposta a queste domande è più semplice di quello che può sembrare. Una finanza al servizio dell’economia reale, come è sempre nella storia, non soltanto continua a essere utile e necessaria per la realizzazione del bene comune, ma resta, ancora oggi, un valido antidoto ai facili e rapidi arricchimenti che, ostacolando una effettiva circolazione e distribuzione della ricchezza, rappresentano un rischio per i redditi, l’occupazione e la stabilità dell’intero sistema economico. La separazione tra sviluppo della finanza ed economia reale, oltre al disfacimento morale, politico e sociale, è causa di squilibrio di quell’”ordine naturale” tanto caro a Dante e così necessario per lo sviluppo e il benessere delle nostre comunità, della società contemporanea. Il sostegno alla crescita e alla salvaguardia dell’immenso patrimonio culturale del nostro Paese, unico al mondo per quantità, qualità e concentrazione, proseguirà, per le banche popolari, su altri versanti anche quando l’anno dedicato a Dante sarà concluso confermando così una tradizione consolidata e testimoniata, ad esempio nel 2020, dai circa 23 milioni di euro destinati da queste banche all’ambito artistico e culturale e per le manifestazioni locali (il 23 per cento del totale degli interventi a beneficio delle comunità e dei territori). Non in pane solo vivet homo è la risposta di Gesù all’invito del diavolo di trasformare in pane le pietre del deserto, per saziare la fame dopo 40 giorni e 40 notti di digiuno. Come ci ricorda l’evangelista Matteo l’uomo non vive di solo nutrimento materiale: ha bisogno anche di quello spirituale. Giuseppe De Lucia Lumeno

Quell’ingiustizia subita che mosse persino Dante alla pietà per i dannati. Parola di Marta Cartabia. A 700 anni dalla morte del poeta, la Guardasigilli rilegge la Divina Commedia. «Come spesso accade è un’esperienza dolorosa che ci fa riflettere sulla pena». Francesca Spasiano su Il Dubbio il 20 settembre 2021. «La giustizia che emerge dall’opera di Dante può essere severa e lo è in molte delle pene che sono inflitte ai dannati dell’Inferno, quasi crudele. Ma non è mai frutto di una fredda, aritmetica, rigida applicazione di regole predeterminate. Le eccezioni e gli incontri imprevedibili lungo il cammino dicono di una giustizia che non coincide con un giudizio irremovibile». Se ognuno avesse la lente di Marta Cartabia per rileggere la tradizione, allora ci apparirebbe meno sbiadito quel sentimento di «pietade» che fa della Divina Commedia l’opera più spietata, e al contempo umana, della nostra letteratura. Nell’anno dell’anniversario, dopo settecento lunghissimi anni dalla sua morte, del “Cantore di rettitudine” si è detto quasi ogni cosa. M a forse vale ancora la pena rimestare in quei versi di straordinaria crudezza per ricordarci che persino Dante, principe della morale, aveva pietà dei dannati. «Tanti autori – spiega Cartabia – hanno sottolineato che la Divina Commedia è in fondo una grande costruzione normativa. Ma c’è un’osservazione di Justin Steinberg che vorrei qui riportare: egli sottolinea che uno degli scopi di questa grandiosa composizione è la possibilità di esplorare i casi limite, le eccezioni alle ferree regole da lui immaginate». Ed ecco la prova: “I pagani sono salvati – scrive Steinberg – i dannati compatiti, i giuramenti infranti, le condanne ridefinite”. «Come spesso accade nella vita di ciascuno, è soprattutto attraverso l’esperienza della ingiustizia, o di quella che è percepita come tale, che ogni persona si accosta al grande universo della giustizia e al grande bisogno di risposte di giustizia». È ancora Cartabia a parlare, a rammentarci – ripercorrendo la vita di Dante – come «la giustizia lo abbia lambito attraverso un’esperienza dolorosissima»: la condanna all’esilio. «Dante stesso contempla l’ipotesi che la sua condanna sia rivista – ricorda la guardasigilli – . La revisione non arriverà, ma nella Commedia la giustizia è mossa e muove. Quante suggestioni per noi, nel nostro tempo, in una giustizia capace di muovere. La giustizia in Dante non è mai fissità perché la sua origine, il suo termine ultimo è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”». Un motivo biografico vincola il poeta al bivio eterno tra colpa e innocenza, tra condanna ed espiazione. Così come il gusto per i classici sembra indurre la ministra della Giustizia a inquadrare il suo mandato nella cornice del dubbio. La prima volta che la suggestione di Dante si affaccia nelle sue parole è il 9 dicembre 2020,quando la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa le conferisce il dottorato honoris causa in Legge. Per l’occasione, Cartabia tiene una lectio magistralis dal titolo “Per l’alto mare aperto. L’Università al tempo della grande incertezza”. «Ma misi me per l’alto mare aperto»: siamo nel XXVI Canto dell’Inferno, in compagnia di Ulisse. La futura ministra si serve di quell’immagine per ricordare agli studenti in balia della pandemia che «ci stiamo dirigendo verso una terra incognita, un mondo ancora sconosciuto, sì, ma da esplorare». La seconda volta che le sentiamo nominare Dante è in occasione delle celebrazioni per il settimo centenario dalla morte che si sono tenute l’8 settembre al palazzetto degli Anguillara “Casa di Dante”. Questa volta Cartabia legge con gli occhiali da guardasigilli per ricordare il «nesso ricorrente nell’opera di Dante tra Giustizia, Sapienza e Amore, per altro ritratte insieme all’ingresso della “città dolente”».

LA GIUSTIZIA “SOFFERTA” DA DANTE

La città dolente di Dante Alighieri è Firenze. Ma non è lì che muore da esule nel 1321. La malaria se lo porta via a Ravenna il 14 settembre di quell’anno, all’età di 56 anni. Quando inizia la sua Comedia, lo sappiamo, è nel mezzo del cammino della sua vita. Gli attribuiamo 35 anni, ché la prospettiva di vita secondo la Bibbia è di 70.Perseguitato, costretto all’esilio, il poeta realizza l’omaggio a Beatrice, la promessa annunciata negli ultimi versi della Vita Nuova: «Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».Il poeta della generazione dei poeti d’amore, il maestro delle rime volgari, vuole dire di Beatrice ciò che non fu mai detto di alcuna. Ma all’origine della Divina Commedia c’è anche un altro fattore: il trauma politico, la condanna a processo. L’ingiustizia, diremmo, e il desiderio di dimostrare la propria innocenza. Nella Firenze del 1300, sconquassata dalla rivalità tra la famiglia dei Cerchi e dei Donati, si stabilisce la potenza dei secondi, i Guelfi neri. Comincia una politica di sistematica persecuzione degli esponenti di parte bianca, ostili al Papa, che si risolve nella loro uccisione o nell’espulsione da Firenze. Dante allora si trova a Roma – trattenuto, si dice, da papa Bonifacio VIII – e da lì non farà più ritorno nella sua terra natìa: la storia lo colloca dalla parte dei Cerchi.Lo insegue, errante, l’accusa di «baratteria», usura, concussione, malversazione. Il Dante politico è travolto dalla gogna. Ché fondata o del tutto arbitraria che fosse l’accusa, si trattò certamente di un processo politico: «Se in contumacia vengono rivolte a Dante accuse di malversazione, è perché si pensa che ce ne sia materia, perché si ritiene di poterle vendere come plausibili all’opinione pubblica fiorentina», spiega lo storico Alessandro Barbero. E così, al cospetto del giudizio divino, Dante non risparmia nemmeno se stesso e sceglie di condannare i barattieri nella bolgia infernale del Ventunesimo Canto, lì dove eternamente ribolle un magma di pece nera. Ma ecco il punto: tanto è severa la sua sentenza, quanto è umana la sua comprensione per i dannati.

«SÌ CHE DI PIETADE/ IO VENNI MEN COSÌ COM’IO MORISSE…»

Il poeta aveva profuso tutto il suo genio per classificare il peccato. L’estasi non si può spiegare a parole, ci dice alla fine del Paradiso. Mentre il dolore si può provare anche attraverso la pelle degli altri. Di quei condannati che Dante non esita neanche un istante a consegnare all’eterno, all’infinita espiazione della pena. D’altronde non si può separare, neanche forzando la mano, il poeta dal tempo che visse. Dante è figlio del Medioevo. È disgustato dall’amministrazione terrena della giustizia. Non applica sconti, lo abbiamo detto, quando infligge la pena. Simbolo della sua imparzialità è il destino riservato a Guido Cavalcanti, dei suoi amici il più caro. Per non parlare del venerato maestro, Brunetto Latini, collocato all’Inferno tra i «sodomiti». Eppure a tutti i dannati Dante riserva rispetto. Ha riguardo per gli oppositori politici, gli epicurei, e tutti coloro che la sua morale non può tollerare: lo studio matto e disperato, direbbe Leopardi, lo aveva nutrito di filosofia naturale. Se Brunetto Latini gli aveva insegnato l’arte di fare politica, di farsi largo tra i decisori e i nobili di spirito e portafoglio, all’indomani della morte di Beatrice Dante trova ristoro nei «filosofanti». Tra tutti Aristotele, Tommaso D’Aquino, Boezio. Coloro che, in un estremo sforzo di sintesi, correlano lo studio della natura al modo di stare al mondo: la morale, appunto.Ma anche quando veste i panni di giudice rigoroso, Dante è sopraffatto dalla compassione. Di fronte al contrappasso che eternamente separa Paolo e Francesca, il suo corpo non regge: «Mentre che l’uno spirto questo disse/ l’altro piangea; sì che di pietade/ io venni men così com’io morisse/ E caddi come corpo morto cade». Siamo nel Canto V, secondo cerchio dell’Inferno, dove sono puniti i lussuriosi. Più avanti, nel Ventesimo Canto, Dante incontra i maghi e gli indovini. Ognuno di loro ha il collo e il viso girati dalla parte dei “reni”, condannati a guardare all’indietro così come in vita «vollero veder troppo avante». Una tale visione del corpo umano, sfregiato e deturpato, lo turba profondamente: non riesce a tenere «gli occhi asciutti», confessa al lettore, si abbandona a un pianto di compassione. Così Virgilio – sua guida, faro della ragione – lo riprende severamente e gli dà dello sciocco: «Chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta?».Si tratta della stessa “passione” che ritroviamo nel Canto XXVI dell’Inferno, il Canto di Ulisse.« Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi/ e più lo ‘ngegno affreno ch’i non soglio/ perché non corra che virtù non guidi/ sì che, se stella bona o miglior cosa/ m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi non m’invidi ».Fin dall’inizio del passo, leggiamo nelle parole di Dante una straordinaria partecipazione al dolore di Ulisse. Un ardente desiderio spinge il poeta ad ascoltare la sua confessione, così come il re di Itaca aveva voluto ascoltare il canto delle sirene. Un motivo biografico li lega al punto da poter definire Ulisse il “doppio di Dante”: entrambi esuli, l’uno rifiuta di riconoscere le proprie colpe condannando la propria famiglia alla miseria, l’altro rinuncia ai propri affetti per sete di conoscenza. Ma se il Dante personaggio avverte ed esalta il pericolo estremo che comporta la vicenda narrata da Omero, il Dante teologo, che giudica e condanna Ulisse all’Inferno, doveva pur concordare con l’imperativo morale del conoscere e sperimentare: «Che fatti non foste… ».

LA “RIVOLUZIONE” DEL PARADISO

«Nell’Inferno più che essere punita la persona è punito l’atto, è punita la violazione in sé», scrive l’ex magistrato Gherardo Colombo in un saggio a proposito della giustizia nella Divina Commedia.Dante attribuisce alla pena una funzione preventiva. «Secondo l’idea dell’epoca, che è tradotta esattamente nell’opera di Dante – spiega Colombo – la pena è efficace quando è proporzionata alla gravità della colpa, nel senso che quanto maggiore è la colpa, tanto maggiore deve essere la pena». Siamo in piena giustizia retributiva, il contrappasso. È la legge dell’occhio per occhio «che influenza ancora tanta parte della nostra cultura e che sicuramente influenzava la cultura dell’epoca di Dante», sottolinea l’ex magistrato. Ma Dante distingue il “giusto naturale”, il diritto naturale, dal “giusto legale”, la legge. Conosce il dilemma che definisce il diritto: l’insieme di regole del viver civile coincide sempre col “giusto”? Dove nasce il diritto? La giustizia viene da Dio, risponde il poeta, e si rivolge ai regnanti: “Diligite iustitiam”, amate la giustizia, “ Qui iudicatis terram”, voi che regnate in terra (Canto XVIII, Paradiso). La pena funziona da deterrente verso comportamenti criminali futuri, ma la prevenzione non riguarda i dannati, inchiodati all’eternità, riguarda tutti: la pena agisce come monito universale. «Per gli uomini del mondo che “mal vive” è necessario, secondo il poeta, rinnovare se stessi e ciascun altro individuo», aggiunge Colombo. Bisognava ammonire e cancellare l’errore, più che il trasgressore. «Io… li errori della gente abominava e dispregiava, ma non per infamia o vituperio delli erranti, ma delli errori, li quali biasimando credea fare dispiacere… », leggiamo nel Convivio. E così più avanti nella Divina Commedia: nel modello retributivo di Dante si apre una prospettiva di riconciliazione. «Il Purgatorio rappresenta uno spiraglio – chiosa l’ex magistrato –. Nell’Inferno, infatti, la pena è vendetta. Nel Purgatorio la pena è espiazione. La pena è in qualche misura caritatevole, perché serve ad espiare i peccati e a reintegrare la dignità che conduce in Paradiso». Ché se l’Inferno è il suo capolavoro di immaginazione, la vera rivoluzione di Dante è il Purgatorio: lì dove si semina il dubbio che la retribuzione possa non essere «l’unica via per sanzionare un comportamento deviante».

Dante Alighieri. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato Durante di Alighiero degli Alighieri e anche noto con il solo nome Dante, della famiglia Alighieri (Firenze, maggio 1265 – Ravenna, 14 settembre 1321), è stato un poeta, scrittore e politico italiano. Il nome "Dante", secondo la testimonianza di Jacopo Alighieri, è un ipocoristico di Durante; nei documenti era seguito dal patronimico Alagherii o dal gentilizio de Alagheriis, mentre la variante "Alighieri" si affermò solo con l'avvento di Boccaccio. È considerato il padre della lingua italiana; la sua fama è dovuta alla paternità della Comedìa, divenuta celebre come Divina Commedia e universalmente considerata la più grande opera scritta in lingua italiana e uno dei maggiori capolavori della letteratura mondiale. Espressione della cultura medievale, filtrata attraverso la lirica del Dolce stil novo, la Commedia è anche veicolo allegorico della salvezza umana, che si concreta nel toccare i drammi dei dannati, le pene purgatoriali e le glorie celesti, permettendo a Dante di offrire al lettore uno spaccato di morale ed etica. Importante linguista, teorico politico e filosofo, Dante spaziò all'interno dello scibile umano, segnando profondamente la letteratura italiana dei secoli successivi e la stessa cultura occidentale, tanto da essere soprannominato il "Sommo Poeta" o, per antonomasia, il "Poeta". Dante, le cui spoglie si trovano presso la tomba a Ravenna costruita nel 1780 da Camillo Morigia, è diventato uno dei simboli dell'Italia nel mondo, grazie al nome del principale ente della diffusione della lingua italiana, la Società Dante Alighieri, mentre gli studi critici e filologici sono mantenuti vivi dalla Società dantesca.

La data di nascita di Dante non è conosciuta con esattezza, anche se solitamente viene indicata attorno al 1265. Tale datazione è ricavata sulla base di alcune allusioni autobiografiche riportate nella Vita Nova e nella cantica dell'Inferno, che comincia con il celeberrimo verso Nel mezzo del cammin di nostra vita. Poiché la metà della vita dell'uomo è, per Dante, il trentacinquesimo anno di vita e poiché il viaggio immaginario avviene nel 1300, si risalirebbe di conseguenza al 1265. Oltre alle elucubrazioni dei critici, viene in supporto di tale ipotesi un contemporaneo di Dante, lo storico fiorentino Giovanni Villani il quale, nella sua Nova Cronica, riporta che «questo Dante morì in esilio del comune di Firenze in età di circa 56 anni»: una prova che confermerebbe tale idea. Alcuni versi del Paradiso ci dicono inoltre che egli nacque sotto il segno dei Gemelli, quindi in un periodo compreso fra il 21 maggio e il 21 giugno.

Tuttavia, se sconosciuto è il giorno della sua nascita, certo invece è quello del battesimo: il 27 marzo 1266, di Sabato santo. Quel giorno vennero portati al sacro fonte tutti i nati dell'anno per una solenne cerimonia collettiva. Dante venne battezzato con il nome di Durante, poi sincopato in Dante, in ricordo di un parente ghibellino. Pregna di rimandi classici è la leggenda narrata da Giovanni Boccaccio ne Il Trattatello in laude di Dante riguardo alla nascita del poeta: secondo Boccaccio, la madre di Dante, poco prima di darlo alla luce, ebbe una visione e sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in mezzo a un vasto prato con una sorgente zampillante insieme al piccolo Dante appena partorito e di vedere il bimbo tendere la piccola mano verso le fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone. Dante apparteneva agli Alighieri, una famiglia di secondaria importanza all'interno dell'élite sociale fiorentina che, negli ultimi due secoli, aveva raggiunto una certa agiatezza economica. Benché Dante affermi che la sua famiglia discendesse dagli antichi Romani, il parente più lontano di cui egli fa nome è il trisavolo Cacciaguida degli Elisei, fiorentino vissuto intorno al 1100 e cavaliere nella seconda crociata al seguito dell'imperatore Corrado III. Come sottolinea Arnaldo D'Addario sull'Enciclopedia dantesca, la famiglia degli Alighieri (che prese tale nominativo dalla famiglia della moglie di Cacciaguida) passò da uno status nobiliare meritocratico a uno borghese agiato, ma meno prestigioso sul piano sociale. Il nonno paterno di Dante, Bellincione, era infatti un popolano e un popolano sposò la sorella di Dante. Il figlio di Bellincione (e padre di Dante), Aleghiero o Alighiero di Bellincione, svolgeva la professione di compsor (cambiavalute), con la quale riuscì a procurare un dignitoso decoro alla numerosa famiglia. Grazie alla scoperta di due pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca, però, si viene a sapere che il padre di Dante avrebbe fatto anche l'usuraio (dando adito alla tenzone tra l'Alighieri e l'amico Forese Donati, traendo degli arricchimenti tramite la sua posizione di procuratore giudiziale presso il tribunale di Firenze. Era inoltre un guelfo, ma senza ambizioni politiche: per questo i ghibellini non lo esiliarono dopo la battaglia di Montaperti, come fecero con altri guelfi, giudicandolo un avversario non pericoloso. La madre di Dante si chiamava Bella degli Abati, figlia di Durante Scolaro e appartenente a un'importante famiglia ghibellina locale. Il figlio Dante non la citerà mai tra i suoi scritti, col risultato che di lei possediamo pochissime notizie biografiche. Bella morì quando Dante aveva cinque o sei anni e Alighiero presto si risposò, forse tra il 1275 e il 1278, con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Da questo matrimonio nacquero Francesco e Tana Alighieri (Gaetana) e forse anche – ma potrebbe essere stata anche figlia di Bella degli Abati – un'altra figlia ricordata dal Boccaccio come moglie del banditore fiorentino Leone Poggi e madre del suo amico Andrea Poggi. Si ritiene che a lei alluda Dante in Vita nuova (Vita nova) XXIII, 11-12, chiamandola «donna giovane e gentile [...] di propinquissima sanguinitade congiunta».

La formazione intellettuale I primi studi e Brunetto Latini. Della formazione di Dante non si conosce molto. Con ogni probabilità seguì l'iter educativo proprio dell'epoca, che si basava sulla formazione presso un grammatico (conosciuto anche con il nome di doctor puerorum, probabilmente) con il quale apprendere prima i rudimenti linguistici, per poi approdare allo studio delle arti liberali, pilastro dell'educazione medioevale: aritmetica,geometria, musica, astronomia da un lato (quadrivio); dialettica, grammatica e retorica dall'altro (trivio). Come si può dedurre da Convivio II, 12, 2-4, l'importanza del latino quale veicolo del sapere era fondamentale per la formazione dello studente, in quanto la ratio studiorum si basava essenzialmente sulla lettura di Cicerone e di Virgilio da un lato e del latino medievale dall'altro (Arrigo da Settimello, in particolare). L'educazione ufficiale era poi accompagnata dai contatti "informali" con gli stimoli culturali provenienti ora da altolocati ambienti cittadini, ora dal contatto diretto con viaggiatori e mercanti stranieri che importavano, in Toscana, le novità filosofiche e letterarie dei rispettivi Paesi d'origine. Dante ebbe la fortuna di incontrare, negli anni ottanta, il politico ed erudito fiorentino Ser Brunetto Latini, reduce da un lungo soggiorno in Francia sia come ambasciatore della Repubblica, sia come esiliato politico. L'effettiva influenza di Ser Brunetto sul giovane Dante è stata oggetto di studio da parte di Francesco Mazzoni prima, e di Giorgio Inglese poi. Entrambi i filologi, nei loro studi, cercarono di inquadrare l'eredità dell'autore del Tresor sulla formazione intellettuale del giovane concittadino. Dante, da parte sua, ricordò commosso la figura del Latini nella Commedia, rimarcandone l'umanità e l'affetto ricevuto:

«[...] e or m'accora,

la cara e buona imagine paterna

di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m'insegnavate come l'uom s'etterna [...]»

(Inferno, Canto XV, vv. 82-85)

Da questi versi, Dante espresse chiaramente l'apprezzamento di una letteratura intesa nel suo senso "civico", nell'accezione di utilità civica. La comunità in cui vive il poeta, infatti, ne serberà il ricordo anche dopo la morte di quest'ultimo. Umberto Bosco e Giovanni Reggio, inoltre, rimarcano l'analogia tra il messaggio dantesco e quello manifestato da Brunetto nel Tresor, come si evince dalla volgarizzazione toscana dell'opera realizzata da Bono Giamboni.

Lo studio della filosofia. «E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella [la Donna Gentile] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero.»

(Convivio, 12 7)

Dante, all'indomani della morte dell'amata Beatrice (in un periodo oscillante tra il 1291 e il 1294/1295), cominciò a raffinare la propria cultura filosofica frequentando le scuole organizzate dai domenicani di Santa Maria Novella e dai francescani di Santa Croce; se gli ultimi erano ereditari del pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, i primi erano ereditari della lezione aristotelico-tomista di Tommaso d'Aquino, permettendo a Dante di approfondire (forse grazie all'ascolto diretto del celebre studioso Fra' Remigio de' Girolami) il Filosofo per eccellenza della cultura medievale. Inoltre, la lettura dei commenti di intellettuali che si opponevano all'interpretazione tomista (quali l'arabo Averroè), permise a Dante di adottare una sensibilità «polifonica dell'aristotelismo».

I presunti legami con Bologna e Parigi. Giorgio Vasari, Sei poeti toscani (da destra: Cavalcanti, Dante, Boccaccio, Petrarca, Cino da Pistoia e Guittone d'Arezzo), pittura a olio, 1544, conservata presso il Minneapolis Institute of Art, Minneapolis. Considerato uno dei maggiori lirici volgari del XIII secolo, Cavalcanti fu la guida e il primo interlocutore poetico di Dante, quest'ultimo poco più giovane di lui.

Alcuni critici ritengono che Dante abbia soggiornato a Bologna. Anche Giulio Ferroni ritiene certa la presenza di Dante nella città felsinea: «Un memoriale bolognese del notaio Enrichetto delle Querce attesta (in una forma linguistica locale) il sonetto Non mi poriano già mai fare ammenda: la circostanza viene considerata indizio pressoché certo di una presenza di Dante a Bologna anteriore a questa data». Entrambi ritengono che Dante abbia studiato presso l'Università di Bologna, ma non vi sono prove in proposito. Invece è molto probabile che Dante soggiornasse a Bologna tra l'estate del 1286 e quella del 1287, dove conobbe Bartolomeo da Bologna, alla cui interpretazione teologica dell'Empireo Dante in parte aderisce. Riguardo al soggiorno parigino, ci sono invece parecchi dubbi: in un passo del Paradiso, (Che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizzò invidïosi veri), Dante alluderebbe alla Rue du Fouarre, dove si svolgevano le lezioni della Sorbona. Questo ha fatto pensare a qualche commentatore, in modo puramente congetturale, che Dante possa essersi realmente recato a Parigi tra il 1309 e il 1310.

La lirica volgare. Dante e l'incontro con Cavalcanti. Dante ebbe inoltre modo di partecipare alla vivace cultura letteraria ruotante intorno alla lirica volgare. Negli anni sessanta del XIII secolo, in Toscana giunsero i primi influssi della "Scuola siciliana", movimento poetico sorto intorno alla corte di Federico II di Svevia e che rielaborò le tematiche amorose della lirica provenzale. I letterati toscani, subendo gli influssi delle liriche di Giacomo da Lentini e di Guido delle Colonne, svilupparono una lirica orientata sia verso l'amor cortese, ma anche verso la politica e l'impegno civile. Guittone d'Arezzo e Bonaggiunta Orbicciani, vale a dire i principali esponenti della cosiddetta scuola siculo-toscana, ebbero un seguace nella figura del fiorentino Chiaro Davanzati, il quale importò il nuovo codice poetico all'interno delle mura della sua città. Fu proprio a Firenze, però, che alcuni giovani poeti (capeggiati dal nobile Guido Cavalcanti) espressero il loro dissenso nei confronti della complessità stilistica e linguistica dei siculo-toscani, propugnando al contrario una lirica più dolce e soave: il dolce stil novo. Dante si trovò nel pieno di questo dibattito letterario: nelle sue prime opere è evidente il legame (seppur tenue) sia con la poesia toscana di Guittone e di Bonagiunta, sia con quella più schiettamente occitana. Presto, però, il giovane si legò ai dettami della poetica stilnovista, cambiamento favorito dall'amicizia che lo legava al più anziano Cavalcanti.

Il matrimonio con Gemma Donati. Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all'età di vent'anni nel 1285. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell'epoca; lo si faceva con una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti a un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati – era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, vale a dire i guelfi neri. Il matrimonio tra i due non dovette essere molto felice, secondo la tradizione raccolta dal Boccaccio e fatta propria poi nell'Ottocento da Vittorio Imbriani. Dante non scrisse infatti un solo verso alla moglie, mentre di costei non ci sono pervenute notizie sull'effettiva presenza al fianco del marito durante l'esilio. Comunque sia, l'unione generò due figli e una figlia: Jacopo, Pietro, Antonia e un possibile quarto, Giovanni. Dei tre certi, Pietro fu giudice a Verona e l'unico che continuò la stirpe degli Alighieri, in quanto Jacopo scelse di seguire la carriera ecclesiastica, mentre Antonia divenne monaca con il nome di Sorella Beatrice, sembra nel convento delle Olivetane a Ravenna.

Impegni politici e militari. Giovanni Villani, Corso Donati fa liberare dei prigionieri, in Cronaca, XIV secolo. Corso Donati, esponente di punta dei Neri, fu acerrimo nemico di Dante, il quale lancerà contro di lui violenti attacchi nei suoi scritti. Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di Campaldino dell'11 giugno 1289) e Pisa (presa di Caprona, 16 agosto 1289). Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d'Angiò (figlio di Carlo II d'Angiò) che nel frattempo si trovava a Firenze. L'attività politica prese Dante a partire dai primi anni 1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica. Nel 1293 entrarono in vigore gli Ordinamenti di Giustizia di Giano Della Bella, che escludevano l'antica nobiltà dalla politica e permettevano al ceto borghese di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un'Arte. Dante, in quanto nobile, fu escluso dalla politica cittadina fino al 6 luglio del 1295, quando furono promulgati i Temperamenti, leggi che ridiedero diritto ai nobili di rivestire ruoli istituzionali, purché si immatricolassero alle Arti. Dante, pertanto, si iscrisse all'Arte dei Medici e Speziali. L'esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all'aprile 1296; fu nel gruppo dei "Savi", che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l'elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Nel frattempo, all'interno del partito guelfo fiorentino si produsse una frattura gravissima tra il gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica (guelfi neri), e quello invece fautore di una politica moderatamente popolare (guelfi bianchi), capeggiato dalla famiglia Cerchi. La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico (i Donati, esponenti dell'antica nobiltà, erano stati surclassati in potenza dai Cerchi, considerati dai primi dei parvenu), generò una guerra intestina cui Dante non si sottrasse schierandosi, moderatamente, dalla parte dei guelfi bianchi.

Lo scontro con Bonifacio VIII (1300). Nell'anno 1300, Dante fu eletto uno dei sette priori per il bimestre 15 giugno-15 agosto. Nonostante l'appartenenza al partito guelfo, egli cercò sempre di osteggiare le ingerenze del suo acerrimo nemico papa Bonifacio VIII, dal poeta intravisto come supremo emblema della decadenza morale della Chiesa. Con l'arrivo del cardinale Matteo d'Acquasparta, inviato dal pontefice in qualità di paciere (ma in realtà spedito per ridimensionare la potenza dei guelfi bianchi, in quel periodo in piena ascesa sui neri), Dante riuscì ad ostacolare il suo operato. Sempre durante il suo priorato, Dante approvò il grave provvedimento con cui furono esiliati, nel tentativo di riportare la pace all'interno dello Stato, otto esponenti dei guelfi neri e sette di quelli bianchi, compreso Guido Cavalcanti che di lì a poco morirà in Sarzana. Questo provvedimento ebbe serie ripercussioni sugli sviluppi degli eventi futuri: non solo si rivelò una disposizione inutile (i guelfi neri temporeggiarono prima di partire per l'Umbria, il posto destinato al loro confino), ma fece rischiare un colpo di Stato da parte dei guelfi neri stessi, grazie al segreto supporto del cardinale d'Acquasparta. Inoltre, il provvedimento attirò sui suoi fautori (incluso Dante stesso) sia l'odio della parte nera che la diffidenza degli "amici" bianchi: i primi, ovviamente, per la ferita inferta; i secondi, per il colpo dato al loro partito da parte di un suo stesso membro. Nel frattempo, le relazioni tra Bonifacio e il governo dei bianchi peggiorarono ulteriormente a partire dal mese di settembre, allorché i nuovi priori (succeduti al collegio di cui fece parte Dante) revocarono immediatamente il bando per i bianchi, mostrando la loro partigianeria e dando così al legato papale cardinale d'Acquasparta modo di scagliare l'anatema su Firenze. Con l'invio di Carlo di Valois a Firenze, mandato dal papa come nuovo paciere (ma di fatto conquistatore) al posto del cardinale d'Acquasparta, la Repubblica spedì a Roma, nel tentativo di distogliere il papa dalle sue mire egemoniche, un'ambasceria di cui faceva parte essenziale anche Dante, accompagnato da Maso Minerbetti e da Corazza da Signa.

L'inizio dell'esilio (1301-1304). Tommaso da Modena, Benedetto XI, affresco, anni '50 del XIV secolo, Sala del Capitolo, Seminario di Treviso. Il beato papa Boccasini, trevigiano, nel suo breve pontificato cercò di riportare la pace all'interno di Firenze, inviando il cardinale Niccolò da Prato come paciere. È l'unico pontefice su cui Dante non proferì alcuna condanna, ma neanche verso il quale manifestò pieno apprezzamento, tanto da non comparire nella Commedia. Dante si trovava quindi a Roma, sembra trattenuto oltre misura da Bonifacio VIII, quando Carlo di Valois, al primo subbuglio cittadino, prese pretesto per mettere a ferro e fuoco Firenze con un colpo di mano. Il 9 novembre 1301 i conquistatori imposero come podestà Cante Gabrielli da Gubbio, il quale apparteneva alla fazione dei guelfi neri della sua città natia e quindi diede inizio a una politica di sistematica persecuzione degli esponenti politici di parte bianca ostili al papa, fatto che si risolse alla fine nella loro uccisione o nell'espulsione da Firenze. Con due condanne successive, quella del 27 gennaio e quella del 10 marzo 1302, che colpirono inoltre numerosi esponenti delle famiglie dei Cerchi, il poeta fu condannato, in contumacia, al rogo e alla distruzione delle case. Da quel momento, Dante non rivide più la sua patria. «Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”» (Libro del chiodo - Archivio di Stato di Firenze - 10 marzo 1302)

I tentativi di rientro e la battaglia di Lastra (1304). Dopo i falliti tentati colpi di mano del 1302, Dante, in qualità di capitano dell'esercito degli esuli, organizzò insieme a Scarpetta Ordelaffi, capo del partito ghibellino e signore di Forlì (presso il quale Dante si era rifugiato), un nuovo tentativo di rientrare a Firenze. L'impresa fu però sfortunata: il podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli (un altro forlivese, nemico degli Ordelaffi), riuscì ad avere la meglio nella battaglia di Castel Pulciano. Fallita anche l'azione diplomatica, nell'estate del 1304, del cardinale Niccolò da Prato, legato pontificio di papa Benedetto XI (sul quale Dante aveva riposto molte speranze), il 20 luglio dello stesso anno i bianchi, riuniti alla Lastra, una località a pochi chilometri da Firenze, decisero di intraprendere un nuovo attacco militare contro i neri. Dante, ritenendo corretto aspettare un momento politicamente più favorevole, si schierò contro l'ennesima lotta armata, trovandosi in minoranza al punto che i più intransigenti formularono su di lui dei sospetti di tradimento; pertanto decise di non partecipare alla battaglia e di prendere le distanze dal gruppo. Come preventivato dallo stesso, la battaglia di Lastra fu un vero e proprio fallimento con la morte di quattrocento uomini fra ghibellini e bianchi. Il messaggio profetico ci arriva da Cacciaguida:

«Di sua bestialitate il suo processo

farà la prova; sì ch'a te fia bello

averti fatta parte per te stesso.»

(Paradiso XVII, vv. 67-69)

La prima fase dell'esilio (1304-1310)

Tra Forlì e la Lunigiana dei Malaspina. Dante fu, dopo la battaglia della Lastra, ospite di diverse corti e famiglie della Romagna, fra cui gli stessi Ordelaffi. Il soggiorno forlivese non durò a lungo, in quanto l'esule si spostò prima a Bologna (1305), poi a Padova nel 1306 e infine nella Marca Trevigiana presso Gherardo III da Camino. Da qui, Dante fu chiamato in Lunigiana da Moroello Malaspina (quello di Giovagallo, visto che più membri della famiglia portavano questo nome), col quale il poeta entrò forse in contatto grazie all'amico comune, il poeta Cino da Pistoia. In Lunigiana (regione in cui giunse nella primavera del 1306), Dante ebbe l'occasione di negoziare la missione diplomatica per un'ipotesi di pace tra i Malaspina e il vescovo-conte di Luni, Antonio Nuvolone da Camilla (1297 – 1307). In qualità di procuratore plenipotenziario dei Malaspina, Dante riuscì a far firmare da ambo le parti la pace di Castelnuovo del 6 ottobre del 1306, successo che gli fece guadagnare la stima e la gratitudine dei suoi protettori. L'ospitalità malaspiniana è celebrata nel Canto VIII del Purgatorio, dove al termine del componimento Dante formula alla figura di Corrado Malaspina il Giovane l'elogio del casato:

«[...] e io vi giuro.../... che vostra gente onrata.../ sola và dritta e 'l mal cammin dispregia.»

(Pg VIII, vv. 127-132)

Nel 1307, dopo aver lasciato la Lunigiana, Dante si trasferì nel Casentino, dove fu ospite dei conti Guidi, conti di Battifolle e signori di Poppi, presso i quali iniziò a stendere la cantica dell'Inferno.

La discesa di Arrigo VII (1310-1313).

Il Ghibellin fuggiasco. Il soggiorno nel casentino durò pochissimo tempo: tra il 1308 e il 1310 si può infatti ipotizzare che il poeta risiedesse prima a Lucca e poi a Parigi, anche se non è possibile valutare con certezza il soggiorno transalpino come già precedentemente esposto. Dante, molto più probabilmente, si trovava a Forlì nel 1310, dove ebbe la notizia, nel mese di ottobre, della discesa in Italia del nuovo imperatore Arrigo VII. Dante guardò a quella spedizione con grande speranza, in quanto vi intravedeva non soltanto la fine dell'anarchia politica italiana, ma anche la concreta possibilità di rientrare finalmente a Firenze. Infatti l'imperatore fu salutato dai ghibellini italiani e dai fuoriusciti politici guelfi, connubio che spinse il poeta ad avvicinarsi alla fazione imperiale italiana capeggiata dagli Scaligeri di Verona. Dante, che tra il 1308 e il 1311 stava scrivendo il De Monarchia, manifestò le sue aperte simpatie imperiali, scagliando una violenta lettera contro i fiorentini il 31 marzo del 1311 e giungendo, sulla base di quanto affermato nell'epistola indirizzata ad Arrigo VII, a incontrare l'imperatore stesso in un colloquio privato. Non sorprende, pertanto, che Ugo Foscolo giungerà a definire Dante come un ghibellino:

«E tu prima, Firenze, udivi il carme

Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco.»

(Ugo Foscolo, Dei sepolcri, vv. 173-174)

Il sogno dantesco di una Renovatio Imperii si infrangerà il 24 agosto del 1313, quando l'imperatore venne a mancare, improvvisamente, a Buonconvento. Se già la morte violenta di Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre del 1308 per mano di Rossellino Della Tosa (l'esponente più intransigente dei guelfi neri, aveva fatto crollare le speranze di Dante, la morte dell'imperatore diede un colpo mortale ai tentativi del poeta di rientrare definitivamente a Firenze.

Gli ultimi anni. Cangrande della Scala, in un ritratto immaginario del XVII secolo. Abilissimo politico e grande condottiero, Cangrande fu mecenate della cultura e dei letterati in particolare, stringendo amicizia con Dante.

Il soggiorno veronese (1313-1318). All'indomani della morte improvvisa dell'imperatore, Dante accolse l'invito di Cangrande della Scala a risiedere presso la sua corte di Verona. Dante aveva già avuto modo, in passato, di risiedere nella città veneta, in quegli anni nel pieno della sua potenza. Petrocchi, come delineato prima nel suo saggio Itinerari danteschi e poi nella Vita di Dante ricorda come Dante fosse già stato ospite, per pochi mesi tra il 1303 e il 1304, presso Bartolomeo della Scala, fratello maggiore di Cangrande. Quando poi Bartolomeo morì, nel marzo del 1304, Dante fu costretto a lasciare Verona in quanto il suo successore, Alboino, non era in buoni rapporti col poeta. Alla morte di Alboino, nel 1312, divenne suo successore il fratello Cangrande, tra i capi dei ghibellini italiani e protettore (oltreché amico) di Dante. Fu in virtù di questo legame che Cangrande chiamò a sé l'esule fiorentino e i suoi figli, dando loro sicurezza e protezione dai vari nemici che si erano fatti negli anni. L'amicizia e la stima tra i due uomini fu tale che Dante esaltò, nella cantica del Paradiso – composta per la maggior parte durante il soggiorno veronese –, il suo generoso patrono in un panegirico per bocca dell'avo Cacciaguida:

«Lo primo tuo refugio e 'l primo ostello

sarà la cortesia del gran Lombardo

che 'n su la scala porta il santo uccello;

ch'in te avrà sì benigno riguardo,

che del fare e del chieder, tra voi due,

fia primo quel che tra l'altri è più tardo

[...]

Le sue magnificenze conosciute

saranno ancora, sì che' suoi nemici

non ne potran tener le lingue mute.

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;

per lui fia trasmutata molta gente,

cambiando condizion ricchi e mendici;»

(Paradiso XVII, vv. 70-75, 85-90)

Nel 2018 è stata scoperta da Paolo Pellegrini, docente dell'Università di Verona, una nuova lettera, scritta probabilmente proprio da Dante nel mese di agosto del 1312 e spedita da Cangrande al nuovo imperatore Enrico VII; essa modificherebbe sostanzialmente la data del soggiorno veronese del poeta, anticipando il suo arrivo al 1312, ed escluderebbe le ipotesi che volevano Dante a Pisa o in Lunigiana tra il 1312 ed il 1316.

Il soggiorno ravennate (1318-1321). Dante, per motivi ancora sconosciuti, si allontanò da Verona per approdare, nel 1318, a Ravenna, presso la corte di Guido Novello da Polenta. I critici hanno cercato di comprendere le cause dell'allontanamento di Dante dalla città scaligera, visti gli ottimi rapporti che intercorrevano tra Dante e Cangrande. Augusto Torre ipotizzò una missione politica a Ravenna, affidatagli dallo stesso suo protettore; altri pongono le cause in una crisi momentanea tra Dante e Cangrande, oppure nell'attrattiva di far parte di una corte di letterati tra i quali il signore stesso (cioè Guido Novello), che si professava tale. Tuttavia, i rapporti con Verona non cessarono del tutto, come testimoniato dalla presenza di Dante nella città veneta il 20 gennaio 1320, per discutere la Quaestio de aqua et terra, l'ultima sua opera latina. Gli ultimi tre anni di vita trascorsero relativamente tranquilli nella città romagnola, durante i quali Dante creò un cenacolo letterario frequentato dai figli Pietro e Jacopo e da alcuni giovani letterati locali, tra i quali Pieraccio Tedaldi e Giovanni Quirini. Per conto del signore di Ravenna svolse occasionali ambascerie politiche, come quella che lo condusse a Venezia. All'epoca, la città lagunare era in attrito con Guido Novello a causa di attacchi continui alle sue navi da parte delle galee ravennati e il doge, infuriato, si alleò con Forlì per muovere guerra a Guido Novello; questi, ben sapendo di non disporre dei mezzi necessari per fronteggiare tale invasione, chiese a Dante di intercedere per lui davanti al Senato veneziano. Gli studiosi si sono domandati perché Guido Novello avesse pensato proprio all'ultracinquantenne poeta come suo rappresentante: alcuni ritengono che sia stato scelto Dante per quella missione in quanto amico degli Ordelaffi, signori di Forlì, e quindi in grado di trovare più facilmente una via per comporre le divergenze in campo.

La morte e i funerali. L'ambasceria di Dante sortì un buon effetto per la sicurezza di Ravenna, ma fu fatale al poeta che, di ritorno dalla città lagunare, contrasse la malaria mentre passava dalle paludose Valli di Comacchio. Le febbri portarono velocemente il poeta cinquantaseienne alla morte, che avvenne a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. I funerali, in pompa magna, furono officiati nella chiesa di San Pier Maggiore (oggi San Francesco) a Ravenna, alla presenza delle massime autorità cittadine e dei figli. La morte improvvisa di Dante suscitò ampio rammarico nel mondo letterario, come dimostrato da Cino da Pistoia nella sua canzone Su per la costa, Amor, de l'alto monte.

Le spoglie mortali. Le "tombe" di Dante. La tomba di Dante a Ravenna, realizzata da Camillo Morigia. Dante trovò inizialmente sepoltura in un'urna di marmo posta nella chiesa ove si tennero i funerali. Quando la città di Ravenna passò poi sotto il controllo della Serenissima, il podestà Bernardo Bembo (padre del ben più celebre Pietro) ordinò all'architetto Pietro Lombardi, nel 1483, di realizzare un grande monumento che ornasse la tomba del poeta. Ritornata la città, al principio del XVI secolo, agli Stati della Chiesa, i legati pontifici trascurarono le sorti della tomba di Dante, la quale cadde presto in rovina. Nel corso dei due secoli successivi furono compiuti solo due tentativi per porre rimedio alle disastrose condizioni in cui il sepolcro versava: il primo fu nel 1692, quando il cardinale legato per le Romagne Domenico Maria Corsi e il prolegato Giovanni Salviati, entrambi di nobili famiglie fiorentine, provvidero a restaurarla. Nonostante fossero passati pochi decenni, il monumento funebre fu rovinato a causa del sollevamento del terreno sottostante la chiesa, cosa che spinse il cardinale legato Luigi Valenti Gonzaga a incaricare l'architetto Camillo Morigia, nel 1780, di progettare il tempietto neoclassico tuttora visibile.

Le travagliate vicende dei resti. I resti mortali di Dante furono oggetto di diatribe tra i ravennati e i fiorentini già dopo qualche decennio la sua morte, quando l'autore della Commedia fu "riscoperto" dai suoi concittadini grazie alla propaganda operata da Boccaccio. Se i fiorentini rivendicavano le spoglie in quanto concittadini dello scomparso (già nel 1429 il Comune richiese ai Da Polenta la restituzione dei resti), i ravennati volevano che rimanessero nel luogo dove il poeta morì, ritenendo che i fiorentini non si meritassero i resti di un uomo che avevano dispregiato in vita. Per sottrarre i resti del poeta a un possibile trafugamento da parte di Firenze (rischio divenuto concreto sotto i papi medicei Leone X e Clemente VII), i frati francescani tolsero le ossa dal sepolcro realizzato da Pietro Lombardi, nascondendole in un luogo segreto e rendendo poi, di fatto, il monumento del Morigia un cenotafio. Quando nel 1810 Napoleone ordinò la soppressione degli ordini religiosi, i frati, che di generazione in generazione si erano tramandati il luogo ove si trovavano i resti, decisero di nasconderle in una porta murata dell'attiguo oratorio del quadrarco di Braccioforte. Le spoglie rimasero in quel luogo fino al 1865, allorché un muratore, intento a restaurare il convento in occasione del VI centenario della nascita del poeta, scoprì casualmente sotto una porta murata una piccola cassetta di legno, recante delle iscrizioni in latino a firma di un certo frate Antonio Santi (1677), le quali riportavano che nella scatola erano contenute le ossa di Dante. Effettivamente, all'interno della cassetta fu ritrovato uno scheletro pressoché integro; si provvide allora a riaprire l'urna nel tempietto del Morigia, che fu trovata vuota, fatte salve tre falangi, che risultarono combaciare con i resti rinvenuti sotto la porta murata, certificandone l'effettiva autenticità. La salma fu ricomposta, esposta per qualche mese in un'urna di cristallo e quindi ritumulata all'interno del tempietto del Morigia, in una cassa di noce protetta da un cofano di piombo. Nel sepolcro di Dante, sotto un piccolo altare si trova l'epigrafe in versi latini dettati da Bernardo da Canaccio per volere di Guido Novello, ma incisi soltanto nel 1357:

(LA)

«Iura Monarchiae, Superos Flegetonta, lacusque Lustrando cecini, voluerunt fata quousque. Sed quia pars cessit melioribus hospita castris Auctoremque suum petiit feliciter astris, Hic clauditur Dantes, patriis exterris ab oris, Quem genuit parvi Florentia mater amoris.»

(IT)

«I diritti della monarchia, gli dei superni e la palude del Flegetonte visitando cantai finché volle il destino. Poiché però l'anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sta racchiuso Dante, esule dalla patria terra, che generò Firenze, madre di poco amore.»

(Epigrafe). Il più antico ritratto documentato di Dante Alighieri conosciuto, Palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai, Firenze. Databile intorno al 1336-1337, l'affresco è di scuola giottesca ed è il ritratto iconografico del poeta più vicino a quello ricostruito nel 2007.

Il vero volto di Dante. Come si può ben vedere dai vari dipinti a lui dedicati, il volto del poeta era assai spigoloso, con la faccia torva e col celeberrimo naso aquilino, come figura nel dipinto di Botticelli posto nella sezione introduttiva. Fu Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante, a fornire questa descrizione fisica:

«Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura [...] Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso.»

(Trattatello in laude di Dante, XX)

Gli studi compiuti dagli antropologi, però, smentirono gran parte della letteratura artistica dantesca nel corso dei secoli. Nel 1921, in occasione del seicentenario della morte di Dante, l'antropologo dell'Università di Bologna Fabio Frassetto fu autorizzato dalle autorità a studiare il cranio del poeta, risultato mancante della mandibola. Nonostante i mezzi dell'epoca e un risultato di indagine non pienamente soddisfacente, Frassetto può già dedurre che il volto "psicologico" tramandatoci nel corso dei secoli non corrisponde a quello "fisico". Difatti nel 2007, grazie a una squadra guidata da Giorgio Gruppioni, antropologo sempre dell'Università di Bologna, si riuscì a realizzare un volto i cui tratti somatici corrisponderebbero al 95% a quello reale. Partendo dal cranio ricostruito da Frassetto, il volto reale di Dante è risultato (grazie al contributo del biologo dell'Università di Pisa Francesco Mallegni e dello scultore Gabriele Mallegni) sicuramente non bello, ma privo di quel naso aquilino così accentuato dagli artisti di età rinascimentale e molto più vicino a quello, risalente pochi anni dopo la morte del poeta, di scuola giottesca.

Il pensiero.  Il ruolo del volgare e l'ottica "civile" della letteratura. Il ruolo della lingua volgare, definita da Dante nel De Vulgari come Hec est nostra vera prima locutio («il nostro primo vero linguaggio», nella traduzione italiana), fu fondamentale per lo sviluppo del suo programma letterario. Con Dante, infatti, il volgare assunse lo stato di lingua colta e letteraria, grazie alla ferrea volontà, da parte del poeta fiorentino, di trovare un veicolo linguistico comune tra gli italiani, perlomeno tra i governanti. Egli, nei primi passi del De Vulgari, esporrà chiaramente la sua predilezione per la lingua colloquiale e materna rispetto a quella latina, finta e artificiale:

(LA)

«Harum quoque duarum nobilior est vulgaris: tum quia prima fuit humano generi usitata; tum quia totus orbis ipsa perfruitur, licet in diversas prolationes et vocabula sit divisa; tum quia naturalis est nobis, cum illa potius artificialis existat.»

(IT)

«La più nobile di queste due lingue è il volgare, sia perché fu la prima a essere usata dal genere umano, sia perché tutto il mondo ne fruisce (pur nelle diversità di pronuncia e di vocabolario che la dividono), sia perché ci è naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale.»

(De Vulgari Eloquentia I, 1,4)

Proposito della produzione letteraria volgare dantesca è infatti quella di essere fruibile da parte del pubblico dei lettori, cercando di abbattere il muro tra i ceti colti (abituati a interagire fra di loro in latino) e quelli più popolari, affinché anche questi ultimi potessero apprendere contenuti filosofici e morali fino ad allora relegati nell'ambiente accademico. Si ha quindi una visione della letteratura intesa come strumento al servizio della società, come verrà esposto programmaticamente nel Convivio:

«E io adunque... a' piedi di coloro che seggiono [nella mensa dei dotti] ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch'io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi.»

(Convivio, I, 10)

Alla scelta di Dante di utilizzare la lingua volgare per scrivere alcune delle sue opere possono avere influito notevolmente le opere di Andrea da Grosseto, letterato del Duecento che utilizzava la lingua volgare da lui parlata, il dialetto grossetano dell'epoca, per la traduzione di opere prosaiche in latino, come i trattati di Albertano da Brescia.

La poetica

Il «plurilinguismo» dantesco. Con questa felice espressione, il critico letterario Gianfranco Contini ha individuato la straordinaria versatilità di Dante, all'interno delle Rime, nel saper usare più registri linguistici con disinvoltura e grazia armonica. Come già esposto prima, Dante manifesta un'aperta curiosità per la struttura "genetica" della lingua materna degli italiani, concentrandosi sulle espressioni dell'eloquio quotidiano, sui motti e battute più o meno raffinate. Questa tendenza a inquadrare la ricchezza testuale della lingua materna spinge il letterato fiorentino a realizzare un affresco variopinto finora mai creato nella lirica volgare italiana, come esposto lucidamente da Giulio Ferroni:

«Rispetto alla produzione poetica del volgare italiano della seconda metà del secolo XIII, la Commedia amplia notevolmente gli orizzonti sintattici e lessicali: la varietà stilistica... crea una variazione di registri, attingendo sia alla lingua bassa sia a quella nobile. Dante trae spunti dalla letteratura latina... o da quella in volgare, ma nello stesso tempo ha uno spiccato interesse per il linguaggio parlato, colloquiale, anche nelle forme più vivaci, aggressive e popolaresche.»

(Ferroni, p. 28)

Raffaello Sanzio, Disputa del Sacramento, dettaglio raffigurante Dante, 1509-1510 ca, Stanza della Segnatura, Palazzo Pontificio, Vaticano. Raffaello inserisce Dante tra teologi e dottori della Chiesa, in quanto il poeta fiorentino era ritenuto filosofo e teologo di chiara fama per le opere da lui lasciate in materia religiosa.

Come rimarca Guglielmo Barucci: «Non siamo dunque di fronte [nelle Rime] a una progressiva evoluzione dello stile di Dante, ma alla compresenza – anche nello stesso periodo – di forme e stili diversi». La capacità con cui Dante passa, all'interno delle Rime, dalle tematiche amorose a quelle politiche, da quelle morali a quelle burlesche, troverà il supremo raffinamento all'interno della Commedia, riuscendo a calibrare la tripartizione stilistica denominata Rota Vergilii, secondo la quale a un determinato argomento deve corrispondere un determinato registro stilistico. Nella Commedia, in cui le tre cantiche corrispondono ai tre stili "umile", "mezzano" e "sublime", la rigida tripartizione teorica scema davanti alle esigenze narrative dello scrittore, per cui all'interno dell'Inferno (che dovrebbe corrispondere allo stile più basso), troviamo passi e luoghi di altissima levatura stilistica e drammatica, quali l'incontro con Francesca da Rimini e Ulisse. Il plurilinguismo, secondo un'analisi più strettamente lessicale, risente anch'esso dei numerosi idiomi di cui era infarcita la lingua letteraria dell'epoca: vi si trovano infatti latinismi, gallicismi e, ovviamente, volgare fiorentino.

Lo Stilnovismo dantesco: tra biografismo e spiritualizzazione

Dante ebbe un ruolo fondamentale nel far approdare la lirica volgare a nuove conquiste, non soltanto dal punto di vista tecnico-linguistico, ma anche da quello prettamente contenutistico. La spiritualizzazione della figura dell'amata Beatrice e l'impianto vagamente storico in cui la vicenda amorosa è inserita, determinarono la nascita di tratti del tutto particolari all'interno dello stilnovismo. La presenza della figura idealizzata della donna amata (la cosiddetta donna angelo) è un topos ricorrente in Lapo Gianni, Guido Cavalcanti e Cino da Pistoia, ma in Dante assume una dimensione più storicizzata di quella degli altri rimatori. La produzione dantesca, per la sua profondità filosofica può essere confrontata soltanto con quella del maestro Cavalcanti, rispetto alla quale la divergenza consiste nella differente concezione dell'amore. Se Beatrice è l'angelo che opera la conversione spirituale di Dante sulla Terra e che gli dona la beatitudine celeste, la donna amata da Cavalcanti è invece foriera di sofferenza, dolore che allontanerà progressivamente l'uomo da quella catarsi divina teorizzata dall'Alighieri. Altro traguardo raggiunto da Dante è l'aver saputo far emergere l'introspezione psicologica e l'autobiografismo: praticamente ignoti al Medioevo, queste due dimensioni guardano già al Petrarca e, più lontano ancora, alla letteratura umanistica. Dante così è il primo, tra i letterati italiani, a "scomporsi" tra il sé inteso come personaggio e l'altro io inteso come narratore delle proprie vicende. Così Contini, riprendendo il filo tracciato dallo studioso statunitense [[Charles Singleton]], parla dell'operazione poetica e narrativa dantesca:

«Va citato a titolo d'onor l'italianista americano Charles Singleton, che in un suo saggio penetrante... ha notato come nell'io di Dante... convergano l'uomo in generale, soggetto del vivere e dell'agire, e l'individuo storico, titolare di un'esperienza determinata hic et nunc, in un certo spazio e in un certo tempo; Io trascendentale (con la maiuscola), diremmo oggi, e io (con la minuscola) esistenziale.»

(Gianfranco Contini, Un'idea di Dante, pp. 34-35)

Beatrice e la «donna angelo». «L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno, ch'egli chiama Beatrice, ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile, nella sua purezza e verginità, più nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno, a fantasma, a ideale celeste che a realtà distinta e che procura effetti proprii. Uno sguardo, un saluto è tutta la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo, prima che fosse donna, e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione, come si direbbe oggi, rimase un sogno ed un sospiro.» (Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana [1870], Morano, Napoli 1890, p. 59.)

Così De Sanctis, padre della storiografia letteraria italiana, scrisse sulla donna amata dal poeta, Beatrice. Benché si cerchi tutt'oggi di comprendere in che cosa consistesse realmente, per Dante, l'amore nei confronti di Beatrice Portinari (presunta identificazione storica della Beatrice della Vita Nova), si può solo concludere con certezza l'importanza che tale amore ebbe per la cultura letteraria italiana. È nel nome di questo amore che Dante ha dato la sua impronta al Dolce stil novo, aprendo la sua "seconda fase poetica" (in cui manifesta la sua piena originalità rispetto ai modelli passati e conducendo i poeti e gli scrittori a scoprire i temi dell'amore in un modo mai così enfatizzato prima. L'amore per Beatrice (come in modo differente Francesco Petrarca mostrerà per la sua Laura) sarà il punto di partenza per la formulazione del suo manifesto poetico, nuova concezione dell'amor cortese sublimato dalla sua intensa sensibilità religiosa (il culto mariano con le laudi arrivato a Dante attraverso le correnti pauperistiche del Duecento, dai Francescani in poi) e, pertanto, privata degli elementi sensuali e carnali tipici della lirica provenzale. Tale formulazione poetica, culminata con la poesia della lode, approderà, dopo la morte della Beatrice "terrena", alla ricerca filosofica prima (la Donna pietosa) e a quella teologica poi (l'apparizione in sogno di Beatrice che spinge Dante a ritornare a lei dopo il traviamento filosofico, critica che si farà più dura in Purgatorio, XXX). Tale allegorizzazione dell'amata, intesa come veicolo di salvezza, segna definitivamente il distacco dalla tematica amorosa e spinge Dante verso la vera sapienza, cioè luce abbacinante e impenetrabile che avvolge Dio nel Paradiso. Beatrice si conferma, pertanto, in quel ruolo salvifico tipico degli angeli, che reca non solo all'amato, ma a tutti gli uomini quella beatitudine di cui si accennava prim.

Mantenendo una funzione allegorica, Dante frappone un valore numerologico alla figura di Beatrice. È infatti all'età di nove anni che la incontra per la prima volta, poi nell'ora nona avviene un successivo incontro. Di lei dirà pure: «non soffre di stare in un altro numero se non nel nove». Dante fa morire Beatrice il 9 giugno (pur essendo in realtà l'8) scrivendo su di essa: «lo perfetto numero era compiuto».

Dalle rime «amorose» a quelle «petrose». Dopo la fine dell'esperienza amorosa, Dante si concentrò sempre più su una poesia caratterizzata dalla riflessione filosofico-politica, che assumerà tratti duri e sofferenti nelle rime della seconda metà degli anni novanta, chiamate anche rime «petrose», in quanto incentrate sulla figura di una certa «donna petra», completamente antitetica alle "donne che avete intelletto d'Amore". Infatti, come riportano Salvatore Guglielmino e Hermann Grosser, la poesia dantesca perse quella dolcezza e leggiadria propria della lirica della Vita nova, per assumere connotati aspri e difficili:

«... l'esperienza delle rime petrose, che si riallacciano all'esperienza del trobar clus [poetare difficile] di Arnaut Daniel, costituisce un fondamentale esercizio di stile aspro (di contro a quello dolce dello stilnovismo).»

(Guglielmino-Grosser, p. 151)

Le fonti e i modelli letterari.

Dante e il mondo classico.  Gustave Doré, Lucifero, 1861-1868. L'incisione dell'artista francese riprende la descrizione fatta dal poeta in If XXXIV, la quale a sua volta era tratta da un affresco presente nel Battistero di San Giovanni. Dante ebbe un profondo amore nei confronti dell'antichità classica e della sua cultura: ne sono prova la devozione per Virgilio, l'altissimo rispetto per Cesare e per le numerose fonti greche e latine da lui usate per la costruzione del mondo immaginario della Commedia (e di cui la citazione de «li spiriti magni» in If IV sono un riferimento esplicito degli autori su cui si poggiava la cultura dantesca). Nella Commedia, il poeta glorifica l'élite morale e intellettuale del mondo antico nel Limbo, luogo piacevole e ameno alle porte dell'Inferno dove i giusti morti senza battesimo vivono, senza però non provare dolore per la mancata beatitudine. Al contrario di quanto faranno Petrarca e Boccaccio, Dante si dimostrò un uomo ancora legato appieno alla visione medievale che l'uomo aveva della civiltà greca e latina, poiché inquadrava quest'ultima all'interno della storia della salvezza propugnata dal cristianesimo, certezza basata sulla dottrina medievale dell'esegesi detta dei quattro sensi (letterale, simbolico, allegorico e anagogico) con cui si cercava di individuare il messaggio cristiano negli autori antichi. Virgilio è visto da Dante non nella sua dimensione storica e culturale di intellettuale latino dell'età augustea, quanto in quella profetico-soteriologica: fu lui, infatti, a predire la nascita di Gesù Cristo nella IV Egloga delle Bucoliche e così fu glorificato dai cristiani medievali. Oltre a questa dimensione mitica della figura di Virgilio, Dante guardò a lui come supremo modello letterario e morale, come evidenziato nel proemio del Poema:

«O de li altri poeti onore e lume,

vagliami 'l lungo studio e l' grande amore

che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,

tu se' solo colui da cu' io tolsi

lo bello stilo che m'ha fatto onore.»

(Inferno, If I, 82-87)

L'iconografia medievale

Dante fu influenzato moltissimo dal mondo che lo circondava, traendo spunto sia dalla dimensione artistica in senso stretto (busti, bassorilievi e affreschi presenti nelle chiese), sia da quanto poteva vedere nella sua vita quotidiana. Barbara Reynolds riporta di come

«Dante [fosse] aduso a casi di tortura, morte di stenti, omicidio, tradimento, adulterio, sodomia e bestialità. Immagini del male si trovavano illustrate ovunque. La cupola del [battistero di San Giovanni Battista], ad esempio, era decorata a mosaici...ove si trovavano raffigurati l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il giudizio universale e, di particolare rilevanza nella Commedia, una grottesca immagine di Satana [...] I diavoli e i tormenti dell'Inferno non sono invenzioni della personale fantasia dantesca. Tali terrificanti moniti...erano recitati in rima dai cantastorie ambulanti, costituivano temi di prediche e di allestimenti scenici.»

(Reynolds, pp. 27-28)

Gli episodi di Malacoda, Barbariccia e della masnada comparsi in If XXI, XXII e XXIII, dunque, non sono ascrivibili soltanto all'immaginario personale del poeta, ma sono ricavati, nella loro potente e degradante caricatura iconografica, da quanto il poeta poteva scorgere nelle chiese e/o nelle vie di Firenze attraverso spettacoli allegorici. Oltre alle fonti iconografiche, c'erano però anche dei testi che presentavano il demonio con tratti disumani e bestiali: in primo luogo, la visione di Tundale dell'XI secolo, in cui è descritto il demonio che divora le anime dei dannati, ma anche le cronache di Giacomino da Verona e di Bonvesin de la Riva. Gli stessi paesaggi della Commedia ricalcano la descrizione delle città medievali: la presenza di fortificazioni (il castello del Limbo, le mura della città di Dite), i ponti presenti sulle Malebolge, gli accenni, nel canto XV, alle imponenti dighe di Bruges e di Padova e le stesse pene infernali sono una trasposizione visiva della "cultura" medievale in senso lato.

Dante tra cristianesimo e Islam

Dante contempla l'Empireo

Influenza fondamentale fu anche quella esercitata dalla produzione letteraria appartenente al cristianesimo e, in un certo grado, anche alla religione islamica. La Bibbia è sicuramente il libro cui Dante attinge maggiormente: echi ne troviamo, oltre ai tantissimi della Commedia, anche nella Vita nova (per esempio, l'episodio della morte di Beatrice ricalca quello di Cristo sul Calvario) e nel De vulgari eloquentia (l'episodio della torre di Babele quale origine delle lingue, presente nel I libro). Oltre alla produzione strettamente sacra, Dante attinse anche alla produzione religiosa medievale, prendendo spunto, per esempio, dalla Visio sancti Pauli del V secolo, opera narrante l'ascesa dell'apostolo delle genti al terzo cielo del Paradiso. Oltre alle fonti letterarie cristiane, Dante sarebbe giunto in possesso, sulla base di quanto ha scritto la filologa Maria Corti, del Libro della Scala, opera escatologica araba tradotta in castigliano, francese antico e latino per conto del re Alfonso X.

Un esempio concreto lo troviamo nel concetto islamico di spirito della vita (rūh al hayāh) che è considerato come "aria" che esce dalla cavità del cuore. Dante a tal proposito scrive: «...spirito della vita, lo quale dimora nella secretissima camera de lo cuore».

Lo storico spagnolo Asín Palacios ha espresso tutte le posizioni di Dante in merito alle sue conoscenze islamiche nel testo L’escatologia islamica nella Divina Commedia.

Il ruolo della filosofia nella produzione dantesca. Come si è detto già nella parte biografica Dante, dopo la morte di Beatrice, si immerse nello studio della filosofia. Dal Convivio sappiamo che Dante aveva letto il De consolatione philosophiae di Boezio e il De amicitia di Cicerone e che poi cominciò a prender parte alle dispute filosofiche che i due principali ordini religiosi (Francescani e Domenicani) pubblicamente o indirettamente tennero in Firenze, gli uni spiegando la dottrina dei mistici e di San Bonaventura, gli altri presentando le teorie di San Tommaso d'Aquino. Il critico Bruno Nardi evidenzia i tratti salienti del pensiero filosofico dantesco che, pur avendo una base nel tomismo, presenta anche altri aspetti tra cui un evidente influsso del neoplatonismo (ad esempio dallo Pseudo-Dionigi l'Areopagita nelle gerarchie angeliche del Paradiso). Nonostante gli influssi di scuola platonica, Dante subì maggiormente l'influsso di Aristotele, che nella seconda metà del XIII secolo conobbe l'apogeo nell'Europa medievale.

Aristotele nella produzione poetica. La produzione poetica dantesca risentì di due opere aristoteliche in particolare: la Fisica e l'Etica Nicomachea. La descrizione del mondo naturale da parte del filosofo di Stagira, accanto alla tradizione medica risalente a Galeno, fu la fonte principale cui Dante e Cavalcanti attinsero per l'elaborazione della cosiddetta «dottrina degli spiriti». Attraverso i commenti redatti da Averroè e da Alberto Magno, Dante affermò che il funzionamento del corpo umano fosse dovuto alla presenza di vari spiriti in determinati organi, dai quali nascevano poi sentimenti corrispondenti allo stimolo proveniente dall'esterno. Alla presenza di Beatrice, tali spiriti entravano in subbuglio, suscitando in Dante violente reazioni emotive e assumendo, come nel caso sotto riportato, anche una volontà propria, resa efficace attraverso la figura retorica della prosopopea:

«Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: "Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi". In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: "Apparuit iam beatitudo vestra". In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: "Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!".» (Vita Nova, II, 3-6) 

Sandro Botticelli, La mappa dell'Inferno, tra il 1480 e il 1490, Biblioteca Apostolica Vaticana. La divisione dell'Inferno e degli altri due regni dell'Oltretomba sono debitori dell'etica aristotelica. Ancor più significativa fu l'influenza di Aristotele all'interno della Commedia, dove si fece sentire la presenza dell'"Etica Nicomachea", oltreché della Fisica. Da quest'ultima, Dante accolse la struttura cosmologica del Creato (impianto profondamente debitore anche dell'astronomo egiziano Tolomeo), adattandola poi alla fede cristiana; dall'"Etica", invece, prese spunto per l'ordinata e razionale organizzazione del suo mondo ultraterreno, suddividendolo in varie sottounità (gironi nell'Inferno, cornici nel Purgatorio e cieli nel Paradiso) dove porre determinate categorie di anime in base alle colpe/virtù commesse in vita.

Aristotele nella produzione socio-politica. Nell'ambito politico, Dante crede con Aristotele e san Tommaso d'Aquino che lo Stato abbia un fondamento razionale e naturale, basato su legami gerarchici in grado di dare stabilità e ordine interno. Nardi aggiunge poi che «pur riconoscendo che lo schema generale della sua metafisica è quello della scolastica cristiana, è certo che egli vi ha inserito taluni particolari caratteristici, come la produzione mediata del mondo inferiore e quella intorno all'origine dell'anima umana risultante del concorso dell'atto creatore coll'opera della natura».

L'esoterismo dantesco. Diversi autori hanno trattato gli aspetti esoterici delle opere di Dante forse determinati dall'ormai accertata adesione alla setta dei Fedeli d'Amore. Lo schema e i contenuti stessi della Divina Commedia farebbero emergere chiari riferimenti. Sotto questo aspetto sono di notevole importanza il lavoro di Guenon, L'esoterismo di Dante e il testo di Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore.

L'eresia dantesca. A partire dal XIX secolo diversi autori hanno sostenuto la tesi che Dante potesse essere stato un cristiano eretico. Tra questi Ugo Foscolo, Gabriele Rossetti e Eugène Aroux. Più recentemente Maria Soresina ha avanzato l'ipotesi che fosse il catarismo l'eresia dantesca.

Opere.

Il Fiore e Detto d'Amore. Due opere poetiche in volgare di argomento, lessico e stile affini e collocate in un periodo cronologico che va dal 1283 al 1287, sono state attribuite con una certa sicurezza a Dante dalla critica novecentesca, soprattutto a partire dal lavoro del filologo dantesco Gianfranco Contini.

Le Rime. Le Rime sono una raccolta messa insieme e ordinata da moderni editori, che riunisce il complesso della produzione lirica dantesca dalle prove giovanili a quelle dell'età matura (le prime sono datate intorno al 1284) divise tra Rime giovanili e Rime dell'esilio per distinguere due gruppi di liriche assai distanti per il tono e gli argomenti affrontati. Le Rime giovanili comprendono componimenti che riflettono le varie tendenze della lirica cortese del tempo, quella guittoniana, quella guinizelliana e quella cavalcantiana, passando da tematiche amorose a giocose tenzoni dallo sfondo velatamente erotico-giocoso con Forese Donati e con Dante da Maiano.

Vita Nova. La Vita Nova può essere considerata il "romanzo" autobiografico di Dante, in cui si celebra l'amore per Beatrice, presentata con tutte le caratteristiche proprie dello stilnovismo dantesco. Racconto della vita spirituale e della evoluzione poetica del Poeta, resa come exemplum, la Vita nova è un prosimetro (brano caratterizzato dall'alternanza tra prosa e versi) e risulta strutturata in quarantadue (o trentuno) capitoli in prosa collegati in una storia omogenea, che spiega una serie di testi poetici composti in tempi differenti, tra cui hanno particolare rilevanza la canzone-manifesto Donne ch'avete intelletto d'amore e il celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare. Secondo buona parte degli studiosi, per la forma del prosimetro, Dante si sarebbe ispirato alle razos provenzali (ovvero le "ragioni") che servivano a spiegare le ragioni da cui scaturivano le liriche; e alla De consolatione philosophiae di Severino Boezio. L'opera è consacrata all'amore per Beatrice e fu composta probabilmente tra il 1292 e il 1293. La composizione delle rime si può far risalire, secondo la cronologia che Dante fornisce, tra il 1283 come risulta dal sonetto A ciascun alma presa e dopo il giugno del 1291, anniversario della morte di Beatrice. Per stabilire con una certa sicurezza la data della composizione del libro nel suo insieme organico, ultimamente la critica è propensa ad avvalersi del 1300, data non superabile, che corrisponde alla morte del destinatario Guido Cavalcanti: "Questo mio primo amico a cui io ciò scrivo" (Vita nova, XXX, 3). Quest'opera ha avuto una particolare fortuna negli Stati Uniti, dove fu tradotta dal filosofo e letterato Ralph Waldo Emerson.

Convivio. Il Convivio (scritta tra il 1303 e il 1308) dal latino convivium, ovvero "banchetto" (di sapienza), è la prima delle opere di Dante scritta subito dopo il forzato allontanamento di Firenze ed è il grande manifesto del fine "civile" che la letteratura deve avere nel consorzio umano. L'opera consiste in un commento a varie canzoni dottrinali poste all'incipit, una vera e propria enciclopedia dei saperi più importanti per coloro che vogliano dedicarsi all'attività pubblica e civile senza aver compiuto gli studi regolari. È pertanto scritta in volgare per essere appunto capita da chi non ha avuto la possibilità in precedenza di studiare il latino. L'incipit del Convivio fa capire chiaramente che l'autore è un grande conoscitore e seguace di Aristotele; questi, infatti, viene citato con il termine "Lo Filosofo". L'incipit in questo caso spiega a chi è rivolta quest'opera e a chi non è rivolta: soltanto coloro che non hanno potuto conoscere la scienza dovrebbero accedervi. Questi sono stati impediti da due tipi di ragioni:

interne: malformazioni fisiche, vizi e malizia;

esterne: cura familiare, civile e difetto di luogo di nascita.

Dante ritiene beati i pochi che possono partecipare alla mensa della scienza, dove si mangia il "pane degli angeli", e miseri coloro che si accontentano di mangiare il cibo delle pecore. Dante non siede alla mensa, ma è fuggito da coloro che mangiano il pastume e ha raccolto quello che cade dalla mensa degli eletti per crearne un altro banchetto. L'autore allestirà un banchetto e servirà una vivanda (i componimenti in versi) accompagnata dal pane (la prosa) necessario per assimilarne l'essenza. Saranno invitati a sedersi solo coloro che erano stati impediti da cura familiare e civile, mentre i pigri sarebbero stati ai loro piedi per raccogliere le briciole.

De vulgari eloquentia. Contemporaneo al Convivio, il De vulgari eloquentia è un trattato in latino scritto da Dante tra il 1303 e il 1304. Composto da un primo libro intero e da 14 capitoli del secondo libro, era inizialmente destinato a comprendere quattro libri. Pur affrontando il tema della lingua volgare, fu scritto in latino perché gli interlocutori a cui Dante si rivolse appartenevano all'élite culturale del tempo, che forte della tradizione della letteratura classica riteneva il latino senz'altro superiore a qualsiasi volgare, ma anche per conferire alla lingua volgare una maggior dignità: il latino era infatti usato soltanto per scrivere di legge, religione e trattati internazionali, cioè argomenti della massima importanza. Dante si lanciò in un'appassionata difesa del volgare, dicendo che meritava di diventare una lingua illustre in grado di competere se non uguagliare la lingua di Virgilio, sostenendo però che per diventare una lingua in grado di trattare argomenti importanti il volgare doveva essere:

illustre (in quanto luminoso e quindi capace di dare lustro a chi ne fa uso nello scritto);

cardinale (tale che intorno a esso ruotassero come una porta intorno al cardine, i volgari regionali);

aulico (reso nobile dal suo uso dotto, tale da esser parlato nella reggia);

curiale (come linguaggio delle corti italiane, e da essere adoperato negli atti politici di un sovrano).

Con tali termini intendeva l'assoluta dignità del volgare anche come lingua letteraria, non più come lingua esclusivamente popolare. Dopo avere ammesso la grande dignità del siciliano illustre, la prima lingua letteraria assunta a dignità nazionale, passa in rassegna tutti gli altri volgari italiani trovando nell'uno alcune, nell'altro altre delle qualità che sommate dovrebbero costituire la lingua italiana. Dante vede nell'italiano la panthera redolens dei bestiari medievali, animale che attrae la sua preda (qui lo scrittore) con il suo irresistibile profumo, che Dante sente in tutti i volgari regionali, e in particolare nel siciliano, senza però riuscire mai a vederla materializzarsi: manca in effetti ancora una lingua italiana utilizzabile in tutti i suoi registri, da tutti gli strati della popolazione della penisola italica. Per farla riapparire era dunque necessario attingere alle opere dei letterati italiani finora apparsi, cercando così di delineare un canone linguistico e letterario comune.

De Monarchia. L'opera venne composta in occasione della discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII di Lussemburgo tra il 1310 e il 1313. Si compone di tre libri ed è la summa del pensiero politico dantesco. Nel primo Dante afferma la necessità di un impero universale e autonomo, e riconosce questo impero come unica forma di governo capace di garantire unità e pace. Nel secondo riconosce la legittimità del diritto dell'impero da parte dei Romani. Nel terzo libro Dante dimostra che l'autorità del monarca è una volontà divina, e quindi dipende da Dio: non è soggetta all'autorità del pontefice; al contempo, però, l'imperatore deve mostrare rispetto nei confronti del pontefice, Vicario di Dio in Terra. La posizione dantesca è per più aspetti originale, poiché si oppone decisivamente alla tradizione politica narrata dalla donazione di Costantino: il De Monarchia è in contrasto tanto con i sostenitori della concezione ierocratica, quanto con i sostenitori dell'autonomia politica e religiosa dei sovrani nazionali rispetto all'imperatore e al papa.

Commedia. La Comedìa — titolo originale dell'opera: successivamente Giovanni Boccaccio attribuì l'aggettivo "Divina" al poema dantesco — è il capolavoro del poeta fiorentino ed è considerata la più importante testimonianza letteraria della civiltà medievale nonché una delle più grandi opere della letteratura universale. Viene definita "comedia" in quanto scritta in stile "comico", ovvero non aulico. Un'altra interpretazione si fonda sul fatto che il poema inizia da situazioni piene di dolore e paura e finisce con la pace e la sublimità della visione di Dio. Dante iniziò a lavorare all'opera intorno al 1300 (anno giubilare, tanto che egli data al 7 aprile di quell'anno il suo viaggio nella selva oscura) e la continuò nel resto della vita, pubblicando le cantiche man mano che le completava. Si hanno notizie di copie manoscritte dell'Inferno intorno al 1313, mentre il Purgatorio fu pubblicato nei due anni successivi. Il Paradiso, iniziato forse nel 1316, fu pubblicato man mano che si completavano i canti negli ultimi anni di vita del poeta. Il poema è diviso in tre libri o cantiche, ciascuno formato da 33 canti (tranne l'Inferno che ne presenta 34, poiché il primo funge da proemio all'intero poema) e a cui corrispondono i tre stili della Rota Vergilii; ogni canto si compone di terzine di endecasillabi (la terzina dantesca).

Incipit della Divina Commedia, edizione del 1472. La Commedia tende a una rappresentazione ampia e drammatica della realtà, ben lontana dalla pedante poesia didattica medievale, ma intrisa di una spiritualità cristiana nuova che si mescola alla passione politica e agli interessi letterari del poeta. Si narra di un viaggio immaginario nei tre regni dell'aldilà, nei quali si proiettano il bene e il male del mondo terreno, compiuto dal poeta stesso, quale "simbolo" dell'umanità, sotto la guida della ragione e della fede. Il percorso tortuoso e arduo di Dante, il cui linguaggio diventa sempre più complesso quanto più egli sale verso il Paradiso, rappresenta, sotto metafora, anche il difficile processo di maturazione linguistica del volgare illustre, che si emancipa dai confini angusti municipali per far assurgere il volgare fiorentino al di sopra delle altre varianti del volgare italiano, arricchendolo nel contempo con il loro contatto. Dante è accompagnato sia nell'Inferno che nel Purgatorio dal suo maestro Virgilio; in Paradiso da Beatrice e, infine, da san Bernardo.

Le Epistole e l'Epistola XIII a Cangrande della Scala. Ruolo rilevante hanno le 13 Epistole scritte da Dante durante gli anni dell'esilio. Tra le principali epistole, incentrate principalmente su questioni politiche (relative alla discesa di Arrigo VII) e religiose (lettera indirizzata ai cardinali italiani riuniti, nel 1314, per eleggere il successore di Clemente V). L'Epistola XIII a Cangrande della Scala, risalente agli anni tra il 1316 e 1320, è l'ultima e la più rilevante delle epistole attualmente conservate (benché si dubiti in parte della sua autenticità). Essa contiene la dedica del Paradiso al signore di Verona, nonché importanti indicazioni per la lettura della Commedia: il soggetto (la condizione delle anime dopo la morte), la pluralità dei sensi, il titolo (che deriva dal fatto che inizia in modo aspro e triste e si conclude con il lieto fine), la finalità dell'opera che non è solo speculativa, ma pratica poiché mira a rimuovere i viventi dallo stato di miseria per portarli alla felicità.

Egloghe. Le Egloghe sono due componimenti di carattere bucolico scritti in lingua latina tra il 1319 e il 1321 a Ravenna, facenti parte di una corrispondenza con Giovanni del Virgilio, intellettuale bolognese, i cui due componimenti finiscono sotto il titolo di Egloga I e Egloga III, mentre quelli danteschi sono l'Egloga II e Egloga IV. La corrispondenza/tenzone fra i due nacque quando il del Virgilio rimproverò Dante di voler conquistare la corona poetica scrivendo in volgare e non in latino, critica che suscitò la reazione di Dante e la composizione delle Egloghe, visto che Giovanni del Virgilio aveva inviato a Dante tale componimento latino e che, secondo la dottrina medievale della responsio, l'interlocutore doveva rispondere con il genere usato per primo.

La Quaestio de aqua et terra. Il sistema dell'Universo secondo l'egiziano Tolomeo, teoria fatta propria da Dante stesso. La trattazione filosofica continuò fino alla fine della vita del poeta. Il 20 gennaio 1320, Dante si recò nuovamente a Verona per discutere, nella chiesa di Sant'Elena, la struttura del cosmo secondo i cardini aristotelico-tolemaici che, in quel periodo, erano già oggetto di studio privilegiato per la composizione del Paradiso. Dante, qui, sostiene come la Terra si trovasse al centro dell'universo, circondata dal mondo sublunare (composto da terra, acqua, aria e fuoco) e di come l'acqua si trovi al di sopra della sfera terrestre. Da qui, la trattazione filosofica caratterizzata dalla disputatio con gli avversari.

La fortuna in Italia e nel mondo.

In Italia

Dante ebbe una risonanza e una fama pressoché immediata in Italia. Già a partire dalla seconda metà del XIV secolo, il Boccaccio iniziò una vera e propria diffusione del culto dantesco, culminata prima nella composizione del Trattatello in laude di Dante e poi nelle Esposizioni sopra la commedia. L'eredità del Boccaccio fu raccolta, durante la fase del primo umanesimo, dal cancelliere della Repubblica Fiorentina Leonardo Bruni, che compose la Vita di Dante Alighieri (1436) e che contribuì al perdurare del mito dantesco nelle generazioni dei letterati (Agnolo Poliziano, Lorenzo de' Medici e Luigi Pulci) e degli artisti (Sandro Botticelli) fiorentini della seconda metà del Quattrocento. La parabola dantesca cominciò tuttavia a scemare a partire dal 1525, allorché il cardinale Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua, stabilì la superiorità del Petrarca in campo poetico e del Boccaccio per la prosa. Tale canone escluderà il Dante della Commedia in quanto difficile imitatore, determinandone un declino (nonostante le appassionate difese di Michelangelo prima e di Giambattista Vico poi) che perdurerà per tutto il Seicento e il Settecento, a causa anche della messa all'Indice del De Monarchia. Solamente con l'età romantica e risorgimentale Dante riacquisì un ruolo di primo piano in quanto simbolo dell'italianità e della solitudine propria dell'eroe romantico. L'alto valore letterario della Commedia, consacrato da De Sanctis nella sua Storia della letteratura italiana e riconfermato poi da Carducci, Pascoli e Benedetto Croce, troverà nel XX secolo appassionati studiosi e cultori in Gianfranco Contini, Umberto Bosco, Natalino Sapegno, Giorgio Petrocchi, Maria Corti e, negli ultimi anni, in Marco Santagata.

Sempre nel Novecento e nel Duemila, vari pontefici hanno dedicato pensieri di stima per l'Alighieri: Benedetto XV, Paolo VI, Giovanni Paolo II l'hanno ricordato per il suo altissimo valore artistico morale; Benedetto XVI per la finezza teologica; papa Francesco per il valore soteriologico della Commedia.

Nel mondo

Tra il Quattrocento e il XXI secolo, Dante conobbe fasi alterne nei restanti Paesi del mondo, influenzati da fattori storici e culturali a seconda delle regioni geografiche di appartenenza:

Inghilterra: Geoffrey Chaucer, oltre al modello del Decameron, si ispirò anche alla Commedia, traendo spunto dalle tragedie dell'Inferno quali quella del Conte Ugolino. Ignorato pressoché nei secoli XV e XVI secolo, il poeta fiorentino trovò un grandissimo estimatore in John Milton, che prese spunto dall'immaginario dantesco per la creazione dell'universo del suo Paradise Lost. Con il Romanticismo, Dante fu ammirato da letterati (William Blake, William Wordsworth, Samuel Taylor Coleridge, George Gordon Byron e Alfred Tennyson) e pittori (Dante Gabriel Rossetti e i preraffaelliti, oltre che da William Bell Scott), che lo considerarono un vero e proprio maestro di poesia e di arte. Nel XX secolo, Edward Morgan Forster si ispirò alla selva oscura per l'Omnibus celeste e Thomas Stearns Eliot (poeta di origine statunitense naturalizzato inglese), grandissimo estimatore della Divina Commedia, ne sottolinea il profondo ascendente sulla gran parte delle sue opere e in particolare su The Waste Land (La Terra Desolata, 1922), uno dei suoi saggi dedicati a Dante ora raccolti nel volume Scritti su Dante. 

Estimatore della Vita Nova, Ralph Waldo Emerson fece conoscere il nome di Dante negli Stati Uniti d'America.

Francia: a parte alcuni codici di Christine de Pizan, Dante non fu conosciuto approfonditamente in Francia fino alla discesa, nel 1494, di Carlo VIII. Sotto Francesco I, Dante si diffuse grazie anche alla cosiddetta Scuola lionese, fondata da mercanti italiani che esportarono d'oltralpe la Commedia. Le successive critiche bembiane e il diffondersi del petrarchismo oscurarono la fama di Dante in terra di Francia, cosa che fu favorita dai poeti de La Pléiade e dal classicismo francese sotto Luigi XIV. Aspramente criticato poi da Voltaire, Dante riconobbe un certo successo nel XIX secolo grazie alle lezioni tenute da Claude Fauriel e da Abel-François Villemain.

Germania: la Germania conobbe, come la Francia, relativamente tardi Dante. L'interesse per il Sommo Poeta, al contrario delle altre nazioni europee, toccò però un vero e proprio culmine nel corso della riforma protestante, per via dei contenuti polemici anticlericali presenti nel De Monarchia. Il Dante della Commedia fu scoperto solo in età Romantica grazie a August Wilhelm von Schlegel, ai filosofi Friedrich Schelling e Hegel e al filologo Karl Witte.

Spagna: precoce fu invece la conoscenza di Dante in Spagna grazie a opere, datate tra il XIV e il XV secolo, quali il Cancionero de Baena e Enrique de Aragón. La Spagna, esponente di spicco della controriforma, condannò violentemente l'anticlericalismo dantesco, determinandone un vero e proprio eclissamento che perdurò fino al 1829, con l'arrivo del Romanticismo. Fondamentali risultarono le traduzioni della Commedia in prosa ad opera di Miguel Aranda y Sanjuán (1868) e in versi del Conde de Cheste (1879).

Americhe: già nel corso del XIX secolo, lo statunitense Ralph Waldo Emerson importò sul suolo americano la Vita Nova, decretando un interesse sempre maggiore nella letteratura americana grazie a Ezra Pound ed Henry Miller. Nel mondo ispanofono, invece, si segnala il culto che l'argentino Jorge Luis Borges ha manifestato per la Commedia.

Dante nella cultura di massa.

Dante nella faccia nazionale dei 2 euro italiani

Nel corso del XX secolo, la figura di Dante è stata oggetto di numerose iniziative affinché fosse diffuso presso il grande pubblico. In occasione del cinquantenario dell'Unità d'Italia, la Milano Films e la Helios Film] realizzarono i due primi lungometraggi dedicati all'Inferno, lavori che suscitarono reazioni sia positive che negative (queste ultime dovute alla presenza di elementi erotici).

Nei decenni successivi, le celebrazioni nazionali dantesche, come il seicentenario della morte nel 1921 e il settecentenario della nascita nel 1965, sensibilizzarono il popolo italiano sull'eredità del Sommo Poeta, anche grazie allo sceneggiato televisivo Vita di Dante, realizzato nel 1965 in occasione del settecentenario. Nel corso della seconda metà del Novecento, l'opera di sensibilizzazione si avvalse inoltre dell'emissione di lire raffiguranti il volto di Dante (oltre che di fumetti della Disney ispirati all'Inferno).

Grazie alla televisione, la diffusione dell'opera di Dante raggiunse un pubblico sempre più ampio: Vittorio Gassman, Vittorio Sermonti e Roberto Benigni recitarono i versi della Commedia in manifestazioni pubbliche. Nel resto del mondo, invece, Dante ha ispirato la realizzazione di alcuni film (quali Seven) e di alcuni manga (come le opere di Gō Nagai) e videogiochi (tra cui Dante's Inferno).

Personaggi e luoghi dell'Inferno sono stati scelti dall'Unione Astronomica Internazionale per dare i nomi a formazioni geologiche sulla superficie di Io, satellite di Giove. Inoltre nel 1998 il ritratto di Dante Alighieri dipinto da Raffaello Sanzio è stato scelto come faccia nazionale della moneta da 2 euro italiana e nel 2015, in occasione del 750º anniversario della sua nascita, sono state coniate due monete da 2 euro commemorativi, un'italiana e l'altra sammarinese.

Nel 2020 la Repubblica Italiana ha stabilito il 25 marzo quale data per commemorare annualmente la figura di Dante; tale giornata nazionale è stata denominata Dantedì.

Dante ad Arezzo nei documenti di Fraternita: manoscritti e preziose copie della Commedia. In mostra per la prima volta l'atto notarile intestato al fratello Francesco, le lettere di Petrarca a Boccaccio,  la Divina Commedia illustrata dal Botticelli, ritratto inedito di Dante dalla collezione Bartolini. Aperta fino a dicembre. Silvia Bardi su Lanazione.it il 2 maggio 2021 - In un atto notarile del 13 maggio 1304 redatto ad Arezzo dal notaio Ciuccio di Ser Dardo, il fratello di Dante, Francesco Alighieri da Firenze, contrae un debito di dodici fiorini d’oro con lo spadaio aretino Follione Iobbi e uno speziale come testimone.  E se il fratello di Dante era ad Arezzo, forse per aiutare economicamente il poeta in esilio e gli altri guelfi bianchi a rientrare in patria, sicuramente c’era anche lui. E di tracce ce ne sono in città tra il 1303 e il 1304 lasciate da fonti e documenti. Di lui ne parla il Petrarca nelle epistole “Familiares” del 1359 attestando che Dante e suo padre vissero insieme in vicolo dell’Orto visto che il padre e il nonno di Petrarca erano segretari del vescovo Guglielmo. Non solo. In una lettera conservata alla Laurenziana di Firenze Petrarca scrive a Boccaccio di “non odiare” Dante e di averlo incontrato un paio di vote proprio ad Arezzo. C’è un passo di Leonardo Bruni nelle “Historiae Florentini populi” in cui si parla del soggiorno di Dante ad Arezzo. E c’è l’atto notarile del fratello Francesco, ora  per la prima volta esposto al pubblico. Pagine, documenti, ritratti, lettere, atti. Tutti documenti preziosissimi conservati negli archivi della Fraternita e della Biblioteca di Arezzo nella mostra ”Omaggio al Sommo Poeta” aperta ieri in Fraternita con l’obiettivo di riportare l’attenzione su Arezzo come luogo legato alle vicende familiari e personali di Dante durante l’esilio che lo vede anche a Gargonza e in Casentino. Documenti esposte al pubblico fino a dicembre, pagine di manoscritti e cinquecentine originali, spiegate da schede analitiche e approfondimenti, tra cui una preziosissima edizione della Divina Commedia datata 1481 con disegni di Sandro Botticelli, e ancora edizioni del 1497, del 1544, un Inferno del 1595 e un inedito ritratto di Dante appartenente alla collezione Bartolini  che si presume sia stato copiato da una maschera originale di proprietà del poeta e  che ha dato lo spunto per disegnare il logo della mostra. Un percorso curato da Elisa Boffa e Pierluigi Licciardello per la parte di ricerca storica, con allestimento di Alessandra Giannini, fotografie di Renato Raggi e direzione organizzativa di Paolo Drago. “Al tempo di Dante la Fraternita già esisteva - precisano subito con orgoglio il primo rettore Pierluigi Rossi e Francesca Chieli rettore con delega alla cultura - nel 1263 veniva riconosciuta ufficialmente dal vescovo Guglielmo degli Ubertini e lui sicuramente l’ha conosciuta. In questi anni l’Istituzione aretina attraversava una significativa trasformazione adeguandosi al cambiamento degli assetti sociali e politici del tempo, un percorso ricostruito in mostra con documenti di archivio”. Tra questo lo Statuto e l'anagrafe degli abitanti di Porta Crucifera con nomi di famiglie nobili e potenti come Albergotti e Brandaglia ma anche gente del popolo. Ci sono i lasciti testamentari, i compiti del Gonfaloniere, la disputa con i domenicani sugli abiti dei moribondi da lasciare ai poveri che invece i frati non consegnavano alla Fraternita il cui principale accusatore è proprio il rettore Binduccio di Teri da Pietramala della famiglia del vescovo Guido Tarlati. "Il 24 luglio 1304, giorno della nascita di Francesco Petrarca ad Arezzo - fa sapere Per Luigi Rossi - Dante si trovava già nella nostra città,  culla di due padri della lingua italiana. Questa mostra mira a recuperare la memoria dei primi anni di vita della Fraternita dei Laici e della presenza di Dante ad Arezzo. Senza memoria non c’è identità storica e senso di appartenenza alla millenaria civiltà aretina”. 

Il saggio. “Dante e la relazione con l’altro”, la terza via per esistere nella differenza. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 25 Luglio 2021. «I filosofi finora hanno interpretato il mondo in modi diversi, ora si tratta di trasformarlo». Così recita la celeberrima undicesima Tesi su Feuerbach coniata da Karl Marx. Una polarità netta che contrappone due atteggiamenti, una distinzione tra teoria e pratica, tra pensiero e azione, in cui è fin troppo facile schierarsi. Tertium non datur. Dall’ultimo libro di Filippo La Porta si leva una proposta alternativa, appare all’orizzonte una terza via che sfugge alla limitante dicotomia tra lo sguardo ozioso di chi commenta il naufragio mentre se ne sta al sicuro sulla terraferma e l’intraprendenza militante di chi vuole cambiare il mondo a partire dal suo limitato e limitante punto di vista. Una terza strada che non aderisce alla tracotanza della conoscenza autarchica, al narcisismo egoista di un sapere astratto fine a stesso. Ma neanche alle seducenti sirene del “fine giustifica i mezzi”, alla prassi militante di chi vuole sempre ricondurre l’alterità a propria immagine e somiglianza, costi quel che costi. Come un raggio nell’acqua. Dante e la relazione con l’altro (Salerno Editore 2021) non è, come si potrebbe superficialmente concludere, un libro di “critica dantesca”; non si tratta dell’ennesima interpretazione filologica o divulgativa della Commedia pubblicata in occasione dell’anno dantesco. In queste pagine è in gioco una vera e propria “scommessa etica”. Come ammette lo stesso autore nell’Ouverture, in questo libro si “usa” il testo dantesco con un fine etico-filosofico che trascende l’analisi dell’opera del Sommo Poeta. Un’occasione utile per riaprire l’annoso dibattito sull’“uso” lecito o illecito dei classici della letteratura e del pensiero. L’asfissiante specialismo degli esperti ci ha fatto troppo spesso dimenticare che i classici non sono dietro di noi, ma davanti a noi; il messaggio racchiuso in queste opere immortali non è confinato nel passato, ma ci chiama a una scommessa sul futuro. Non si tratta di ricondurre i classici a noi, ma di notare come in quelle pagine si parli di noi, della nostra capacità o incapacità d’istituire relazioni con gli altri e di rapportarci con il mondo. Il libro, insomma, è dedicato a lettori che vogliono «far interagire i versi danteschi con la propria esperienza morale», a coloro che sono capaci di tradurre i classici in una nuova “postura” che cambia il punto di vista sul domani. Paradise now: l’esperienza di cui parla Dante nella terza cantica è incommensurabilmente lontana dalla nostra, eppure ci chiama a un atteggiamento nuovo, ci parla del “qui e ora”. Canto II del Paradiso. Dante e Beatrice si trovano nel primo cielo e volano in direzione della Luna. L’astro, pur essendo un corpo solido, si lascia miracolosamente attraversare: «per entro sé l’etterna margarita / ne ricevette com’acqua recepe / raggio di luce permanente». Dante e Beatrice penetrano la Luna come un raggio di luce penetra nell’acqua senza scompaginarla. Ecco la “terza via”. Un paradigma alternativo di relazione con l’altro e con il mondo, lontano sia dall’indifferenza sia dalla sopraffazione. Un nuovo rapporto di intimità che non violi l’identità, una relazione di vicinanza che non implichi la profanazione. Come un raggio di luce attraversa l’acqua senza turbarla, così la nostra sete conoscitiva dovrebbe tener conto del limite invalicabile rappresentato dall’alterità del mondo e dalla diversità degli altri. “Passività ricettiva” la definisce La Porta. Una passività vigile, un atteggiamento di apertura rispettosa che si lascia “visitare” dalle cose del mondo senza la pretesa di averle a disposizione. Una postura conoscitiva simile a quella del Socrate platonico che si ferma solingo davanti alla casa di Agatone e attende paziente che i pensieri lo raggiungano e lo attraversino. Ne segue un’idea di relazione interpersonale non più basata sul desiderio luciferino di voler conoscere l’altro in tutti i suoi aspetti, di volerne smussarne i difetti e plasmarne le asperità. Ma una sorta di “lontana vicinanza”, di “prossimità distante” che consenta a entrambi i soggetti di esistere nella propria differenza. Un “ideale regolativo” soltanto apparentemente impolitico. Per esplicitarne le implicazioni esistenziali, sociali, politiche ed educative – nel capitolo Dantisti (quasi) involontari – La Porta chiama a raccolta il grande pensiero femminile del ‘900. Edith Stein, Maria Zambrano, Hannah Arendt, Simone Weil, Susan Sontag: la voce di tante Beatrici novecentesche che ci guidano nel riconoscere che l’ineliminabile “passività” che costituisce la nostra natura non è un tratto meramente tragico della condizione umana, ma un prezioso veicolo conoscitivo, una porta che apre all’intersoggettività. Non è un caso che, come esergo del suo saggio più famoso dal titolo Il problema dell’empatia, la Stein scelga due versi del Paradiso di Dante: «già non attendere’ io tua dimanda, / s’io m’intuassi, come tu t’inmii», cioè, “se io potessi entrare nella tua mente come tu entri nella mia, non avresti bisogno di fare la tua domanda per risponderti”. E nessuna risposta potrà svelarci “il segreto” di un mondo che non è abitato dall’Uomo ma da tanti uomini e tante donne, i cui volti diversi si presentato a noi come alterità inviolabili e inappropriabili. Saremo in grado di essere anche noi “come un raggio nell’acqua”? Il mondo sembra andare in direzione opposta: ci confrontiamo solo con i nostri simili e viviamo in bolle digitali in cui sentiamo solo l’eco dei nostri pensieri. Spesso siamo pesanti “come un sasso nell’acqua”: smuoviamo le acque sperando di suscitare reazioni a catena, sbracciamo per farci notare, una gara di intolleranza che unisce opinioni bipartisan. Accogliamo l’appello di queste pagine e lasciamoci distrarre dal nostro perenne e indaffarato attivismo: solo se saremo capaci di non turbare la superficie dell’acqua, potremo ascoltare davvero il leggero “brusio del mondo”. Lucrezia Ercoli

Mario Baudino per "la Stampa" l'1 luglio 2021. Le ossa di Dante Alighieri hanno avuto nei secoli, com' è noto, una storia assai travagliata. Ora però un testimone «quasi» oculare aggiunge un colpo di scena: i tedeschi in ritirata le razziarono, o credettero di razziarle, nella primavera del '44, su ordine di Himmler, però vennero beffati e si portarono a Berlino, dove volevano edificare un Pantheon con le tombe dei grandi scrittori del passato, ciò che rimaneva di un ignoto defunto. La prima parte della vicenda è ben conosciuta: allertati dai servizi segreti americani, un gruppo di resistenti (e studiosi, in testa Raimondo Craveri, genero di Benedetto Croce) riuscirono a celare in tempo i resti terreni del poeta. A quanto sembra c' è però ben altro. Lo racconta Sergio Roncucci sulla rivista del Pen club in edicola oggi, svelando che in effetti i tedeschi portarono in Germania quelle che ritenevano le ceneri di Dante: ma erano di un ignoto defunto, che Monsignor Mesini, sacerdote antifascista, storico di Ravenna e custode della tomba dantesca, aveva raccattato in tutta fretta al cimitero. Roncucci, che allora aveva dieci anni, sa queste cose perché nell' operazione fu coinvolto direttamente suo padre. E si chiede come mai nessuno nei abbia mai parlato. Monsignor Mesini scrisse in effetti un libro, I monumenti ravennati e la guerra, dove narrò la vicenda, ma limitandosi a dire che le ossa erano state trasferite dalla loro urna e sepolte, chiuse in una cassetta di ferro, in una buca cementata. Venne posta al di sopra un'altra cassa simile, vuota, per ingannare un eventuale predone. Questa, la versione ufficiale, che non menziona il falso Dante finito in Germania per soddisfare le brame dell'Ahnenerbe l'accademia voluta da Himmler per studiare le eredità ancestrali del popolo tedesco: dove seri professori lavoravano fianco a fianco con folli esoteristi (andarono anche in Tibet a misurare i crani della popolazione per dimostrare qualche idiozia sulla «razza ariana»). Considerata la loro ferocia, indurli in inganno non era un gioco da ragazzi. Difendere le povere ossa dantesche fu un'azione di guerra. Mandare un falso in Germania, un milite ignoto, fu una gran bella impresa. Ma un monsignore poteva mai ammettere di aver anche lui, se pure a fin di bene, frugato tra le tombe?

Così fu sventato il tentativo di Hitler di trafugare le ossa di Dante. Sergio Roncucci l'1 Luglio 2021 su Il Giornale. Nella primavera del 1944 a Ravenna, flagellata dalla Seconda guerra mondiale, soldati tedeschi delle SS trafugano le ossa di Dante Alighieri per portarle in Germania. Hitler aveva ordinato all'architetto Albert Speer di costruire un mausoleo per ospitare le spoglie di alcuni grandi scrittori. Oltre a Dante, Cervantes, Zola, Molière, Victor Hugo, Tolstoj e, possibilmente, anche Shakespeare. Il progetto che non verrà mai realizzato per la fine della guerra è delirante, ma fa parte delle paranoie del Führer. L'«operazione Dante», però, viene a conoscenza dell'Oss (Office of Strategic Services) in sostanza il sevizio di spionaggio americano durante la guerra che informa l'Ori (Organizzazione per la Resistenza Italiana), creata a Napoli da Raimondo Craveri (giovane avvocato piemontese, genero di Benedetto Croce) assieme ad altri antifascisti. Croce avvisa Manara Valgimigli, scrittore e grecista che vive a Padova, che, a sua volta, avverte monsignor Giovanni Mesini, studioso ravennate di Dante. Occorre sventare il tentativo tedesco. Con l'aiuto di un amico, il sacerdote sostituisce le ossa del poeta con quelle, anonime, prelevate da una tomba abbandonata, nel cimitero di Ravenna. Quando i tedeschi se ne accorgeranno, sarà troppo tardi: la guerra è ormai alla fine. Quale ufficiale tedesco deve occuparsi dell'«operazione Dante»? I tentativi di salvare il patrimonio monumentale di Ravenna dalla guerra coinvolgono direttamente il colonnello Alexander Langsdorff delle SS, che scrive «al competente posto militare di servizio con viva preghiera di risparmiare Ravenna per quanto possibile e per quanto lo permettano le esigenze militari». Personaggio di notevole spessore culturale (studi a Marburgo in germanistica e preistoria, archeologo di spedizioni in Medio Oriente) Langsdorff, nazista della prima ora, colonnello delle SS e per sei anni nello stato maggiore di Himmler, lavora presso l'Ahnenerbe (Società di ricerca dell'eredità ancestrale), interessata alle reliquie del passato. Dal febbraio 1944 al 30 aprile 1945, Langsdorff dirige il Kunstschutz per l'Italia, vale a dire la struttura per la protezione dell'arte (con sede a Verona), che trafuga anche capolavori rinascimentali. Della vicenda fino ad oggi non si è saputo nulla, a parte qualche cenno contenuto in un libretto di monsignor Mesini, I monumenti ravennati e la guerra, uscito nel 1956 e passato sotto silenzio. Ho quindi deciso di raccontare la vicenda del '44, come testimone diretto, a contatto con alcuni protagonisti, fra cui mio fratello Giorgio e mio padre Bruno. Sergio Roncucci

Se ti tremano le vene e i polsi, lo ha detto Dante. Ilaria Zaffino su La Repubblica il 26 giugno 2021. Ogni giorno citiamo frasi tratte dalla Divina Commedia. Ma siamo proprio sicuri di farlo in modo corretto? Un libro le raccoglie e le spiega, noi ne abbiamo scelte dieci. “Or incomincian le dolenti note”, ma anche “considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti”, sino ai sin troppo abusati “Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate” oppure “E quindi uscimmo a riveder le stelle”: il famosissimo explicit dell’Inferno che nell’ultimo anno e mezzo abbiamo ritrovato sulla bocca di tutti come augurio di imminente rinascita dopo la pandemia.

A Orvieto quadro inedito di Dante con la barba: “Boccaccio lo descriveva così, tela unica al mondo". La Repubblica il 24 marzo 2021. Un Dante inedito, con la barba. È quello ritratto in questa tela custodita nella stanza del sindaco di Orvieto da tempo immemorabile, ma la sua importanza è stata riconosciuta solo ora, per le celebrazioni dei 700 anni dalla morte del Poeta. "L'iconografia dantesca lo riproduce sempre senza barba, eppure il primo biografo di Dante, Giovanni Boccaccio, nel "Trattatello in laude di Dante" dice che i capelli e la barba del poeta erano spessi, neri e crespi", spiega Daniele Di Loreto, presidente della Fondazione 'Claudio Faina'. Perché dunque Dante è sempre stato riprodotto senza barba? "Una risposta l'abbiamo trovata nell'articolo di un professore di Bitonto - continua Di Loreto - la barba la portavano i rivoluzionari e Dante non poteva essere considerato tale".

Da video.repubblica.it il 25 marzo 2021. Un Dante inedito, con la barba. È quello ritratto in questa tela custodita nella stanza del sindaco di Orvieto da tempo immemorabile, ma la sua importanza è stata riconosciuta solo ora, per le celebrazioni dei 700 anni dalla morte del Poeta. "L'iconografia dantesca lo riproduce sempre senza barba, eppure il primo biografo di Dante, Giovanni Boccaccio, nel "Trattatello in laude di Dante" dice che i capelli e la barba del poeta erano spessi, neri e crespi", spiega Daniele Di Loreto, presidente della Fondazione 'Claudio Faina'. Perché dunque Dante è sempre stato riprodotto senza barba? "Una risposta l'abbiamo trovata nell'articolo di un professore di Bitonto - continua Di Loreto - la barba la portavano i rivoluzionari e Dante non poteva essere considerato tale".

Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti.

Sogni. Il famoso incontro tra Dante e Beatrice a Firenze nel 1283. Lui ha 18 anni, è un adolescente pieno di desideri insoddisfatti, lei 17 ed è sposata al cavaliere Simone de' Bardi, gira per strada in compagnia di gentildonne più anziane. Lui cerca di non farsi vedere, ma lei incrocia il suo sguardo e lo saluta, mandandolo al settimo cielo («tanto che mi parve allora vedere tutti li termini delle beatitudini»). È la prima volta che sente la sua voce. A questo punto, Dante torna a casa e si chiude in camera sua. La notte la sogna nuda [Barbero, Dante, Laterza, 2020]. Dante scrive tutto in un sonetto, A ciascun'alma presa, e lo manda, anonimo, ai suoi amici. È un gioco di cui tutti conoscono le regole: ricevere un sonetto è una sfida, e bisogna rispondere. Un altro Dante, Dante da Maiano, gli consiglia di sciacquarsi i testicoli in acqua fredda (oche lavi la tua coglier largamente, / a ciò che stinga e passi lo vapore)).

Crimini. Accuse rivolte a Dante nel processo contro di lui istruito, in puro spirito accademico, nel 1966 ad Arezzo: corruzione, speculazione edilizia, trame con la massoneria, compravendita di magistrati, di avversari politici, abuso d'ufficio, distrazione di denaro pubblico, estorsione, pedofilia. Il giudice era Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica. Sentenza: assolto, un po' per mancanza di prove, un po' perché, essendosi l'imputato buttato in politica, c'era il sospetto di accanimento giudiziario [Feltri, Sta].

Diavoli. «Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto sannuto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante pazzo... Sono nomi da commedia dell'arte. Il diavolo può essere affascinante come Mefistofele, terrificante come quello dell'Esorcista, oppure buffo. I diavoli di Dante sono così: grotteschi. Il male autentico è nell'uomo. E l'Inferno può essere dentro di noi» [Cazzullo, 7]

Gemma. Alla moglie, Dante non dedicò mai nemmeno un verso [Infante, Focus].

Altre cose. Abbiamo anche appreso: che i discendenti di Dante vivono nel Veronese e producono Valpolicella; che ai tempi di Dante ricorrere alle armi, aggredire, ferire e anche ammazzare la gente per la strada poteva accadere anche ai cittadini più autorevoli; che Dante nel De vulgari eloquentia definisce il romanesco tristiloquium, lingua squallida; che le parolacce scritte nella Divina Commedia sono sterco, merda, merdose, puttana, cul, fiche, vacca e vagina; che oggi papa Francesco pubblicherà una lettera apostolica intitolata Candor Lucis aeternae, dedicata a Dante; che sia De Gasperi sia Togliatti adoravano Dante; che Dante a scuola si annoiava e concluse che il modo migliore per imparare le cose è leggere libri per conto proprio.

Benigni celebra Dante al Quirinale: "Fondò un partito dove c'era solo lui, il PD". E a Mattarella: "Vorrei abbracciarla ma non si può". L'attore e regista in diretta tv dal Quirinale ha letto il XXV canto del “Paradiso” alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e del ministro della Cultura, Dario Franceschini. E ha scherzato con il Capo dello Stato: "Posso farle i capelli vestito da corazzieri". La Repubblica il 25 marzo 2021. C'è spazio per qualche spunto di satira politica, come spesso accade nei suoi monologhi, nell'intervento di Roberto Benigni al Quirinale per il Dantedì. "Dante - dice il premio Oscar alla presenza del presidente Mattarella - è stato un grande poeta e un grande politico. Era con i guelfi, tra i Priori e poi nel Consiglio dei 100. La politica non gli ha portato bene: lo hanno esiliato ingiustamente da Firenze e condannato, quindi è passato tra i ghibellini. Ma alla fine ha detto basta con la politica e ha fatto 'parte per se stesso'. Ha fondato il partito di Dante, il Pd, non ha vinto mai. Si sono scissi, c'erano troppe correnti: questo Pd sono 700 anni che non trova pace". L'attore e regista celebra Dante nel giorno dedicato al Sommo poeta, data che gli studiosi riconoscono come inizio nel suo viaggio nell'aldilà e nell'anniversario della morte avvenuta nel 1321, ma si concede anche qualche battuta prima di introdurre i testi. L'attore ha portato i versi della Divina Commedia al Quirinale leggendo, alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e del ministro della Cultura, Dario Franceschini, il XXV canto del Paradiso (in diretta su Rai 1). "Perché abbiamo scelto il canto XXV del Paradiso? Perché è il canto della speranza. In ogni luogo in cui adesso andiamo, è tutto un inno alla speranza, la virtù più popolare, quella che ci conforta più di tutti". Un applauso dal Presidente, un saluto con i pochi presenti a causa del distanziamento e poi una battuta rivolta a Mattarella: "Ho una tale stima e ammirazione per lei che vorrei abbracciarla, ma non si può. Se ha bisogno di qualcosa, vorrei essere utile per lei. Se ha bisogno di un corazziere oppure un cuoco, un autista, un sarto, un barbiere. Una volta ho sentito in tv che non aveva il barbiere. Le faccio i capelli vestito da corazziere". "Dentro di me tutto danza, è un balletto, saluto gli italiani a casa, in questo momento con ancora più affetto e calore", dice Roberto Benigni nel Salone dei Corazzieri al Quirinale. Della data che si celebra oggi dice: "Il 25 marzo è la data in cui inizia il suo viaggio nei tre regni dell'oltretomba, l'avventura più bella della poesia di tutti i tempi. Dante ha scritto il Paradiso "per rimuovere le persone dallo stato di tristezza, di miseria, di povertà nel quale si trovano e condurli a uno stato di felicità. Voleva la felicità. Cos'è la felicità per Dante? Il fine del Paradiso è il desiderio infinito che ognuno di noi ha di immedesimarsi, di ricongiungersi con la realtà divina". "Ognuno di noi - ha proseguito Benigni - sente che dentro c'è una scintilla immortale, e Dante lo sa. Dopo aver letto il Paradiso, se lo si legge lasciandosi andare, non si guardano più le altre persone con distrazione o indifferenza, ma come scrigni di un mistero, depositarie di un destino immenso", ha aggiunto l'attore. Poi su Rai 3 si cambia registro con Il V dell'Inferno, replica dello show che fu trasmesso in diretta su Rai 1 il 29 novembre 2007, la lettura incentrata sulla passione tra Paolo e Francesca, quello dell'amor ch'a nullo amato amar perdona, che fu allora un successo televisivo da oltre 10 milioni di telespettatori.

Il Dantedì unisce l'Italia. Il Papa: "Dante profeta di speranza". Eventi e dichiarazioni nella giornata dedicata al Poeta. Mattarella: "La sua coerenza ci sia di esempio". Il ministro della cultura Franceschini: "Migliaia di eventi in un suo nome, Alighieri ci indica la strada dell'unità". La Repubblica il 25 marzo 2021. Oggi l’Italia celebra il settecentenario dalla morte di Dante Alighieri: è il Dantedì, giornata istituita nel 2020 dal Consiglio dei ministri su suggerimento del ministero della cultura,  e in tutto il paese si moltiplicano iniziative, progetti e dichiarazioni per celebrare il poeta e la sua Commedia.

LE DICHIARAZIONI DEL MONDO POLITICO E GLI EVENTI IN ITALIA. "La coerenza di dante sia un esempio per noi", ha sottolineato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mentre il ministro della cultura Dario Franceschini è intervenuto stamane per inaugurare la giornata, sottolineando che nonostante sia appena il secondo anno del Dantedì “sono già tantissime le iniziative in tutta italia e online per celebrare Dante". Il ministro ha sottolineato come "in un momento difficile come questo attorno a Dante vi sia una grande vitalità e coesione della comunità nazionale. In fondo, lui stesso ci ha indicato la strada, quando alla fine del lungo viaggio all'inferno ha concluso con 'e quindi uscimmo a riveder le stelle' (tutti gli eventi della giornata sono segnalati online sul sito del ministero. Papa Francesco dedica a Dante la lettera apostolica "Candor lucis aeternae" scrivendo che: "In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l'umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere". Il Pontificio Consiglio della Cultura ha istituito un Comitato scientifico-organizzativo, presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasi, per la realizzazione e la promozione di iniziative volte a celebrare il sommo Poeta, con una mostra virtuale  curata dalla Biblioteca Apostolica Vaticana e promossa dal Comitato scientifico-organizzativo dantesco e dal "Cortile dei Gentili".  I Musei Vaticani lanceranno un progetto didattico virtuale denominato "Dante nei Musei Vaticani", in cui saranno evidenziate tutte le opere dei Musei che si riferiscono, in qualche modo, alla figura e all'opera di Dante. Il sindaco di Firenze, Dario Nardella, in occasione del Dantedì ribadisce che Firenze non ha intenzione di chiedere le spoglie del poeta a Ravenna, dove riposano: "Credo che il rapporto tra il sommo poeta e Firenze sia talmente simbiotico, intenso, che pensare di prendere le spoglie a Ravenna "sia soltanto una velleità". Ciò che conta è che il simbolo universale di Dante sia ovunque associato alla nostra città". Sempre a Firenze, medici e infermieri dell'ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova hanno risposto all'invito proposto dal presidente della Toscana Eugenio Giani di leggere gli ultimi versi del canto 34 dell'Inferno. Sempre a Firenze, un abete gigantesco si innalza di oltre 22 Metri in Piazza della Signoria protendendo i suoi rami metallici verso il cielo: l'installazione, realizzata dall'artista Giuseppe Penone, è la più grande mai collocata nello spazio pubblico del centro fiorentino. La colossale scultura è pensata come metafora del Paradiso: cioè "l'albero che vive de la cima / e frutta sempre e mai non perde foglia". A Ravenna il sindaco Michele de Pascale ha rabboccato d'olio la lampada donata da Firenze nella tomba di Dante e Mara Dirani, custode del mausoleo, ha letto i versi del primo canto dell'Inferno. Come ogni anno, dunque, stamane il primo cittadino ha aggiunto l'olio alla lampada, sottolineando come la città abbia "l'enorme onore di ospitare le spoglie mortali del più grande poeta d'occidente, del simbolo universale della cultura italiana". In questo luogo, aggiunge, arde l'olio donato ogni anno "dalla città sorella di firenze, in onore di dante e anche oggi iniziamo la giornata col rito del rabbocco dell'olio".

LE INIZIATIVE NEL MONDO. Pechino: l'Istituto italiano di cultura di Pechino (Iic), in collaborazione con l'ambasciata d'Italia a Pechino, organizza oggi la conferenza "Avviciniamoci a Dante", congiuntamente con il Centro studi italianistici della Beijing Foreign Studies University. L'evento si concludera' con la lettura di brani scelti dalla Divina Commedia da parte di un gruppo di studenti del Dipartimento di lingua italiana della Beijing Foreign Studies University, i quali metteranno a confronto le principali versioni in cinese dell'opera del Sommo Poeta. Buenos Aires. Nove eventi in un giorno per portare Dante nelle case di tutti gli argentini: è programma organizzato da ambasciata, consolati e istituti di cultura italiana in Argentina per la giornata dedicata a Dante Alighieri. L'iniziativa è aperta da interventi video del ministro della Cultura italiano Dario Franceschini e del suo pari argentino Tristan Bauer e prosegue sui canali social dell'ambasciata con "pillole dantesche" interpretate dai volti più noti del cinema e della tv argentina. Madrid. L'Istituto italiano di cultura di Madrid rende omaggio a questo gigante della letteratura con un eccezionale concerto presso l'Auditorio Nacional di Madrid. "La Vita Nuova di Nicola Piovani. Cantata per voce recitante, soprano e piccola orchestra", questo il titolo del concerto, si terrà alle ore 19.30. Londra. La Divina Commedia recitata da Greta Scacchi e Luigi Di Fiore, messa in musica dall'Accademia Teatro alla Scala di Milano e tradotta in immagini nei libri della collezione speciale della University College London. Con la conduzione della giornalista di "Bbc World", Zeinab Badawi, è questo il menu dell'evento multidisciplinare che l'ambasciata d'Italia a Londra presenta sui suoi canali internet in occasione del Dantedì.

Il Papa gli invia una lettera che finalmente lo perdona. Il Dante contro il potere temporale dei Papi e critico nei confronti dell'allora stato pontificio, viene ora riabilitato da Papa Francesco che al Sommo Poeta dedica una Lettera apostolica. Serena Sartini - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale. Il Dante contro il potere temporale dei Papi e critico nei confronti dell'allora stato pontificio, viene ora riabilitato da Papa Francesco che al Sommo Poeta dedica una Lettera apostolica, la Candor Lucis aeternae, pubblicata nel giorno in cui si ritiene che il padre della lingua italiana abbia iniziato a scrivere la Divina Commedia. Quarantotto pagine intense per ripercorrere l'attualità del messaggio del poeta. «Nella missione profetica di Dante - si legge nel testo del Papa - si inseriscono anche la denuncia e la critica nei confronti di quei credenti, sia Pontefici sia semplici fedeli, che tradiscono l'adesione a Cristo e trasformano la Chiesa in uno strumento per i propri interessi, dimenticando lo spirito delle Beatitudini e la carità verso i piccoli e i poveri e idolatrando il potere e la ricchezza». «Il Poeta, mentre denuncia la corruzione di alcuni settori della Chiesa - prosegue Francesco - si fa portavoce di un rinnovamento profondo e invoca la Provvidenza perché lo favorisca e lo renda possibile». Per Bergoglio, inoltre, Durante Alighieri detto Dante era «un precursore della nostra cultura multimediale», una «miniera quasi infinita di conoscenze, di esperienze, di considerazioni in ogni ambito della ricerca umana». «La ricchezza di figure, di narrazioni, di simboli, di immagini suggestive e attraenti che Dante ci propone suscita certamente ammirazione, meraviglia, gratitudine. In lui possiamo quasi intravedere un precursore della nostra cultura multimediale, in cui parole e immagini, simboli e suoni, poesia e danza si fondono in un unico messaggio». E proprio il messaggio del Poeta nato a Firenze, esiliato in Casentino e in Romagna, e morto a Ravenna, ben si inserisce nell'attualità. «In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l'umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l'umanità - conclude il Papa - l'amor che move il sole e l'altre stelle».

Per non offendere gli islamici adesso si censura pure Dante. "In Dante, Maometto subisce un destino crudo e umiliante, solo perché è il precursore dell’Islam". È un caso la nuova traduzione politicamente corretta della Divina Commedia di Dante che circola in Belgio e Olanda. E dalla Germania danno al poeta del "plagiatore e arrivista". Roberto Vivaldelli - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. Dante "rivisto" in Belgio e Olanda per non offendere gli islamici e attaccato duramente da un giornale tedesco. Mentre oggi in Italia si celebra il Dantedì, la giornata nazionale dedicata al Sommo Poeta Dante Alighieri (1265-1321), in Belgio e Olanda una nuova traduzione in fiammingo politicamente corretta della Divina Commedia evita di citare il nome del Profeta dell'islam, Maometto, per non offendere gli islamici. Dante, infatti, lo colloca tra i seminatori di discordie della IX Bolgia dell'VIII Cerchio dell'Inferno, la cui pena consiste nell'essere fatti a pezzi da un diavolo armato di spada. Maometto compare nel Canto XXVIII, vv. 22-63, e appare tagliato dal mento all'ano, con le interiora e gli organi interni che gli pendono tra le gambe. Il caso, riportato dal quotidiano belga De Standaard, e citato dal giornalista Giulio Meotti nella sua newsletter, fa discutere: nella traduzione in fiammingo dell’opera, a cura di Lies Lavrijsen, il nome di Maometto viene infatti rimosso per per non essere "inutilmenti offensivi", come ha sottolineato l’editore Blossom Books. Come sottolinea l'editore Myrthe Spiteri, che ha rimosso i riferimenti al Profeta dell'Islam, "in Dante, Maometto subisce un destino crudo e umiliante, solo perché è il precursore dell’Islam". Trattasi dell'ennesima - e questa sì, umiliante - sottomissione culturale dell'Occidente all'Islam, che rinuncia ai suoi maestri - come Dante - pur di non rischiare di offendere gli islamici. Sottomissione dettata non solo da un atteggiamento ma anche dai numeri: a Bruxelles i musulmani sono il 25,5 % della popolazione, in Vallonia il 4,0 % mentre nelle Fiandre il 3,9%, mentre nei vicini Paesi Bassi i musulmani rappresentano il 4,9% della popolazione. Come nota Avvenire, va sottolineato che la posizione di Dante nei confronti della cultura arabo-musulmana è molto complessa e comporta una fitta serie di scambi, come ha documentato fin dal 1919 lo studioso e sacerdote spagnolo Miguel Asín y Palacios nel classico L’escatologia musulmana nella Divina Commedia. Sul tema interviene l'eurodeputata della Lega, Silvia Sardone: "Oggi è la Giornata nazionale dedicata a Dante, il sommo poeta. Purtroppo in Europa invece di celebrarlo si arriva persino a censurarlo. In Belgio, infatti, una nuova traduzione dell’Inferno della Divina Commedia di Dante, tradotta in fiammingo, ha rimosso Maometto per non essere inutilmente offensivi" osserva l'esponente del carroccio. "Ma per i buonisti di oggi bisogna cancellare persino la storia della letteratura. Dante, per qualcuno, è razzista, islamofobo e poco inclusivo. Ma ci rendiamo conto? In un’Europa sempre più sottomessa agli islamici, si arriva a fare le pulci a una pietra miliare della nostra storia, alla più grande opera mai scritta in italiano. Il tutto per non urtare i musulmani, ormai sempre più padroni a casa nostra. Nulla che sorprenda, sottolinea Silvia Sardone, "visto che alcuni estremisti di un gruppo salafita tentarono anni fa un attentato nella chiesa di San Petronio a Bologna dove c’è un affresco di Maometto all’inferno".

L'attacco shock della Germania a Dante. E nel giornata in cui si celebra Dante, dalla Germania, e in particolare dal Frankfurter Rundschau, in un articolo a firma dello scrittore e commentatore Arno Widmann, arriva un incredibile e sconcertante attacco contro la figura di Dante e contro l'Italia. Secondo lo scrittore, in Italia oggi si celebra un poeta medievale "anni luce dietro a Shakespeare", egocentrico e arrivista, che ha poco a che fare con la nascita della lingua italiana. Widmann osserva, fra mille inesattezze, che "l’Italia lo loda perché ha portato la lingua alle altezze della grande letteratura: si è costruito la lingua per la sua opera e da questa lingua è nata la lingua dei suoi lettori e poi dell’Italia". Per lo scrittore tedesco Dante è un plagiatore: secondo Widmann, infatti, meglio "non fare un torto a Dante, sottovalutando la sua spregiudicata ambizione", perché in realtà "potrebbe aver sognato, col suo viaggio cristiano nell’Aldilà, di fare un colpaccio ai danni del poema arabo". Come riporta La Repubblica, Widmann riprende la tesi - smentita - dello studioso spagnolo Asín Palacios, il quale nel 1919 affermò che la Divina Commedia si basava su un poema mistico arabo in cui si narra l’esperienza dell’ascesa al Cielo. Accuse shock alle quali il ministro ai beni culturali Dario Franceschini replica con un tweet: "Non ragioniam di lor, ma guarda e passa" ,afferma l'esponente del governo Draghi, che cita il terzo canto dell'Inferno per replicare, nel giorno del Dantedì, all'attacco a Dante Alighieri da parte del giornale tedesco Frankfurter Rundschau.

(ANSA il 25 marzo 2021) "Dividere il buono dal cattivo": è il titolo di una lunga analisi della Divina Commedia pubblicata dalla Frankfurter Rundschau che affronta l'opera di Dante Alighieri paragonandola a quella di Shakespeare, in occasione della giornata dantesca. L'autore sottolinea criticamente "il piacere di giudicare e condannare" dell'autore fiorentino. "L'amoralità di Shakespeare, la sua descrizione di ciò che è, ci sembra anni luce più moderno dello sforzo di Dante di avere un'opinione su tutto, di trascinare tutto davanti al giudizio della sua morale. Tutta questa gigantesca opera è lì solo per permettere al poeta di anticipare il Giudizio Universale, di fare il lavoro di Dio" e di dividere il buono dal cattivo, conclude il giornalista. L'autore dell'articolo, senza risparmiare sarcasmo sulla devozione italiana per Dante, fa presente che il padre della lingua italiana ha avuto diverse fonti di ispirazione per la sua Opera, dai trovatori alla tradizione araba. "Si può dire che "la prima poesia d'arte madrelingua italiana è stata scritta in provenzale". Brunetto Latini, maestro e amico di Dante, scrisse la sua enciclopedia chiamata Livre du Trésor in francese", osserva l'autore Arno Widmann. "Il poema di più di 14.000 versi vuole essere un ponte di 1300 anni con l'Eneide di Virgilio. Un'opera del genere ha bisogno di un ego enorme", prosegue l'articolo, che poi passa ad analizzare la disposizione di Dante di ricomprendere il mondo passato e presente con la lente morale dei "sommersi e salvati", una visione decisamente diversa da quella dell'autore lontano quattro secoli, William Shakespeare, a cui viene paragonato.

(ANSA il 25 marzo 2021) Non ragioniam di lor, ma guarda e passa (Inf. III, 51) Il ministro della cultura Dario Franceschini risponde così da Twitter al Frankfurter Rundschau, il giornale tedesco che oggi ha criticato Dante paragonando la sua opera a quella di Shakespeare dall'autore dell'articolo ritenuto "molto più moderno".

(ANSA il 25 marzo 2021) "Inaccettabili le parole del giornale tedesco Frankfurter Rundschau contro Dante Alighieri, simbolo nazionale e poeta universale". Lo afferma il capogruppo di FDI in commissione Cultura, Federico Mollicone "Non ci permetteremmo mai di sminuire la grandezza di Goethe, peraltro ammiratore della bellezza, dell'arte e del paesaggio italiano. I ministri Dario Franceschini e Luigi Di Maio chiedano le scuse ufficiali dai rispettivi omologhi Monika Grutters e Heiko Mass per questo oltraggio a un simbolo nazionale".

Dante nel mirino di un quotidiano tedesco: “Non ha inventato nulla”. Giampiero Casoni su Notizie.it il 25/03/2021. Nella giornata del Dantedì una testata tedesca mette in discussione grandezza ed originalità del poeta contrapponendogli Shakespeare. Nel mirino di un quotidiano tedesco stavolta non ci finisce l’Italia del crimine ma addirittura Dante, che secondo il Frankfurter Rundschau “con la sua ambizione on ha inventato nulla”. Viene voglia proprio di rigiocarla, questa semifinale di Mexico ‘70 in salsa letteraria, a leggere ciò che scrive Arno Widmann nel giorno del Dantedì. Chi è costui? Si tratta del fondatore della testata e traduttore ufficiale. Fondatore che mette alla berlina “il piacere di giudicare e condannare” del poeta fiorentino. Insomma, a suo dire Dante sarebbe stato un moralista un pò bigotto neanche lontanamente paragonabile a Shakespeare. E che i tedeschi chiamassero gli inglesi a far loro da sponda è già fatto eccezionale in sé. “L’amoralità di Shakespeare, la sua descrizione di ciò che è, ci sembra anni luce più moderno dello sforzo di Dante di avere un’opinione su tutto, di trascinare tutto davanti al giudizio della sua morale. Tutta questa gigantesca opera è lì solo per permettere al poeta di anticipare il Giudizio Universale, di fare il lavoro di Dio”.

La replica di Franceschini. Dante come setaccio stucchevole fra buono e cattivo dunque. E la replica su Twitter del ministro della Cultura Dario Franceschini è arrivata a stretto giro di posta e in sponda di citazione: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. A parere di Widmann l’Italia osanna Dante “perché ha portato la lingua alle altezze della grande letteratura. Si è costruito la lingua per la sua opera e da questa lingua è nata la lingua dei suoi lettori e poi dell’Italia”. A ben vedere una lettura quasi esatta se non fosse per i torni palesemente riduttivi, toni che riecheggiano anche quando Widmann ci imposta il ‘peccato originale’ degli studenti italiani di 60 anni fa.

Sponda a Brunetto Latini. “Si può dire che la prima poesia d’arte madrelingua italiana è stata scritta in provenzale. Brunetto Latini, maestro e amico di Dante, scrisse la sua enciclopedia chiamata Livre du Trésor in francese”. E la Commedia non sarebbe una trovata così originale, perché un mistico arabo l’avrebbe preceduta. Widmann in proposito cita a conforto della sua critica lo studioso spagnolo Asín Palacios nel 1919. E incalza sul fatto che gli studiosi italiani avrebbero sempre smentito questa lettura. Perché? “vedevano minacciata l’originalità del loro eroe. Si farebbe un’ingiustizia a Dante se si sottovalutasse la sua ambizione”.

L’amore ideale è “luterano”. Non va meglio, secondo il teutonico, per il tema dell’amore fra uomo e donna come "ascensore" spirituale, e qui il capolavoro per brandizzare il concetto: quel tema non avrebbe avuto precedenti, ma sarebbe stato sviluppato molto meglio dopo “con Lutero e la Riforma”.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

La Germania ci offende pure su Dante. Oltraggio da un giornale tedesco. E Tobias Piller applaude. Adriana De Conto giovedì 25 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Un attacco ignobile a Dante Alighieri e all’Italia arriva come una sfregio durante i festeggiamenti per il 700esimo anniversario della morte del Sommo Poeta. L’attacco arriva dalla Germania, sulle pagine del quotidiano Frankfurter Rundschau. L’Italia avrebbe ben poco da festeggiare, sottintende il fondatore della testata e traduttore Arno Widmann, affermando che il Sommo Poeta era “anni luce dietro a Shakespeare” e che poco avrebbe a che vedere con la nascita della lingua italiana. Il ministro della Cultura Dario Franceschini ha voluto replicare alle parole del quotidiano tedesco con un tweet, che cita un famoso verso dantesco tratto dall’Inferno: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa». Widmann irride “il piacere di giudicare e condannare” dell’autore fiorentino. “L’amoralità di Shakespeare, la sua descrizione di ciò che è, ci sembra anni luce più moderno dello sforzo di Dante di avere un’opinione su tutto; di trascinare tutto davanti al giudizio della sua morale. Tutta questa gigantesca opera è lì solo per permettere al poeta di anticipare il Giudizio Universale, di fare il lavoro di Dio”; e di dividere il buono dal cattivo. Ha a che ridire anche sull’origine della lingua italiana, affermando che noi italiani lodiamo Dante «perché ha portato la lingua alle altezze della grande letteratura: si è costruito la lingua per la sua opera e da questa lingua è nata la lingua dei suoi lettori e poi dell’Italia». Errore, scrive il tedesco, sottolineando  che questa è la versione che veniva fornita agli scolari italiani di 60 anni fa. Come poeta lirico, si legge sul giornale tedesco, l’Alighieri sarebbe stato preceduto dai trovatori di Provenza, dunque in realtà «la prima lirica in madrelingua italiana fu scritta in provenzale». Anche Brunetto Latini, maestro e amico di Dante, avrebbe scritto il suo Trésor in francese non tanto perché in quel momento era esiliato in Francia, quanto «perché sapeva che avrebbe avuto più lettori». Rilievi che hanno l’unico scopo di offendere l’Italia servendosi di Dante e banalizzando in pochi schizzi di fango questioni complesse sulle quali c’è una bibliografia sterminata. La stessa Commedia, insinua Widmann, non sarebbe affatto il frutto di un’idea  originale; ma sarebbe stata preceduta da un poema mistico arabo in cui si narra l’esperienza dell’ascesa al Cielo. Ancora: nemmeno l’amore tra uomo e donna come via di elevazione spirituale sarebbe invenzione del Sommo Poeta. Ma deriverebbe – continua Widmann – “da Lutero e dalla Riforma”. Una visione germanocentrica fuori da ogni ragionevolezza, addirittura delirante quando offende pure lo scrittore statunitense  T.S. Eliot, che in un famoso saggio del 1929 si sarebbe reso colpevole di aver accostato Dante a Shakespeare. Naturalmente su tutti i siti italiani l’articolo è stato travolto da critiche. Sono intervenuti fior di critici e rappresentanti della politica. “I ministri Dario Franceschini e Luigi Di Maio chiedano le scuse ufficiali dai rispettivi omologhi Monika Grutters e Heiko Mass per questo oltraggio”. Lo dice Federico Mollicone di FdI.”Soltanto uno ha difeso Arno Widmann: l’ineffabile Tobias Piller, il giornalista tedesco ed ex presidente della stampa estera in Italia. Da sempre antiitaliano in servizio permanente effettivo: “Non ho letto da nessuna parte né “arrivista” né “plagiatore”. Mi sembra un articolo che inquadra Dante nel suo tempo e ne spiega la grandezza ai tedeschi”. Così il corrispondente dall’Italia della ‘Frankfurter Allgemeine Zeitung’ ed ex presidente della stampa estera in Italia, Tobias Piller, parla all’Adnkronos dell’articolo dedicato a Dante dal quotidiano locale ‘Frankfurter Rundschau’ che sulla stampa online italiana è rimbalzato come un duro attacco al Sommo Poeta nel giorno del Dantedì. “Arno Widmann? È un personaggio di forte vis polemica. Ha sempre fatto parlare di sé per teorie volutamente provocatorie oppure, talvolta, di complotto. Volendo parlare male di Dante, gli muove contro argomenti totalmente insostenibili. La sua opinione non coincide affatto con l’opinione generale su Dante in Germania. Non rappresenta nemmeno una corrente di pensiero.” Parlando all’emittente radiofonica fiorentina Lady Radio, il direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt, ha praticamente smontato il provocatore.

Dante, i tedeschi non lo infangano: storia (e bugie) di un blitz inventato. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 29/3/2021. Un articolo intelligente ha scatenato l’ira di chi è abituato a fare della cultura l’occasione per un derby, allo scopo di farsi animatore della curva, perché più la tifoseria si arrabbia, più ti si stringe attorno. A nulla vale spiegare che la cultura non è né gara né derby né competizione né status symbol, perché è evidente che, in questa storia, la cultura non c’entra nulla. L’articolo in questione è dell’intellettuale tedesco Arno Widmann ed è uscito sul quotidiano Frankfurter Rundschau nel giorno più simbolico di questo settimo centenario della morte di Dante, il 25 marzo. Commenti indignati, sbigottiti, reazioni isteriche da ogni parte, su siti web, nei telegiornali, e poi prese di posizione scomposte di ministri ed ex ministri, e persino di giallisti, che si sono mobilitati contro il «tizio tedesco».

L’attacco truffa. Il motivo? Dante Alighieri sarebbe stato attaccato. E, all’apparenza si tratta quindi di un nobile motivo e potrebbe anche sembrare ottimo segno l’attività culturale che diventa dibattito, la politica che si nutre di letteratura, i telegiornali che danno finalmente spazio non residuale e notturno alla cultura. Ma è una truffa. Non c’è stato nessun attacco in quest’articolo tradotto qui, in modo che chiunque possa leggerlo e capire facilmente che non aggredisce Dante, non lo definisce plagiatore, non afferma che è anni luce dietro a Shakespeare, non dice che era un arrivista, non dichiara, infine, che gli italiani non hanno proprio niente da festeggiare. Nulla di tutto questo. L’autore dell’articolo vuole dire una cosa diversa sulla quale concorda ogni persona che abbia un minimo di reminiscenze di quello che ha studiato sui manuali di scuola: un testo letterario non nasce mai dal nulla, è come il buon vino, mantiene traccia degli umori della terra da cui è nato. L’idea del genio romantico che si sveglia una mattina e di colpo crea il capolavoro, senza aver prima letto, visto, studiato, approfondito, rimescolato, contaminato, è romantica, appunto!

Dante e l’Islam. La colpa di Widmann è di aver detto questo, che Dante non nasce dal nulla, ma nasce nel solco di diverse tradizioni, come quella della poesia provenzale, che inventa per prima la poesia in volgare. Un’operazione quella della poesia in volgare che, Widmann precisa, Dante fa lievitare. Il fatto che esistano dei precedenti, dice Widmann, non sminuisce Dante, così come non lo sminuisce il fatto che esista persino un testo arabo tra le possibili fonti d’ispirazione dantesca. A torto — ricorda Widmann — gli italiani credettero che Miguel Asìn Palacios volesse sminuire Dante, quando sostenne questo nel suo saggio, «Dante e l’Islam», pubblicato nel 1919. Palacios ipotizzava che tra i materiali che avevano ispirato Dante ci fosse il «Libro della Scala» o della ascesa di Maometto in cielo, un testo escatologico arabo, tradotto in castigliano da un medico ebreo, nel 1264. Proprio questo era del resto la cultura medievale: un ebreo che traduce dall’arabo, e un cristiano che trova la sua traduzione interessante! Nessuno però grida al tradimento della patria o di Dante, quando i nostri italianisti dicono che probabilmente tra le fonti d’ispirazione di Dante si deve considerare lo scrittore lombardo Bonvesin de la Riva, morto nel 1315, e autore di un poema in tre parti: la «scriptura negra», dove si descrivono le pene dell’Inferno, quella «rossa» dove si descrive la passione di Cristo e quella «dorata» dove si parla dei beati del cielo.

L’esempio di Bonvesin della Riva. Anche Bonvesin parla del fuoco che per lui tormenta gli avari, della puzza che ammorba i disonesti, del ghiaccio che punisce gli improbi, dei vermi che mangiano i profittatori, e anche descrive terribili demoni che tormentano i dannati e dannati che urlano, piangono, mordono, percuotono! In genere, è noto a tutti, si cita Bonvesin della Riva proprio per dire che se il tema è lo stesso, ben altra è la resa dantesca. Legioni di artisti del resto hanno rappresentato la Pietà prima di Michelangelo… L’idea di cultura, di sapere, di conoscenza che dobbiamo portare avanti non è la gara tra chi ha il poeta più grande di tutti. Non è una gara! E certe grandezze non sono neppure misurabili.

Non è una gara. Immaginare una gara tra Dante, Shakespeare, Goethe e Cervantes, coinciderebbe con la morte della letteratura. L’altra colpa di Arno è stata di ammettere che leggere Dante è maledettamente difficile, a dispetto di quanto ne dica Eliot! Difficile a scuola, per un bambino, dice Arno, studiare Dante con quei lunghi apparati di note che lo rendono ostico. Nulla con cui non concorderebbero molti studenti italiani. Leggere Shakespeare, dice Arno, è facile e piacevole, ma Dante necessita di una chiave speciale. Questo è il problema della cultura medievale, è una cultura complessa, ricca di costruzioni simboliche, decisa a viaggiare sempre e solo sul polisenso. E, sia chiaro, non sto accusando Dante di essere uno scrittore pesante e complesso, è lui stesso che nel Convivio avverte il lettore di non prenderlo mai alla lettera, di interpretare sempre la sua pagina secondo i quattro sensi della Scrittura, storico, allegorico, morale, ed escatologico.

Il paragone con Shakespeare. Arno dice (inseguendo i sentieri di Eliot) che la Commedia di Dante, così fitta di costruzioni teologiche e di tensioni morali, è permeata dal giudizio, così diversa, invece, è l’opera del laico Shakespeare, che si tiene a distanza dalle colpe dei suoi personaggi. Arno Widman è stato allievo di Theodor Adorno, ha cofondato la TAZ, lo storico giornale della sinistra di Berlino ed è stato responsabile della sezione culturale di uno dei settimanali più colti d’Europa, lo Die Zeit nonché responsabile della pagina delle opinioni della Berliner Zeitung. Non solo, Widmann ha anche tradotto Umberto Eco, Curzio Malaparte — di cui è forse il maggior conoscitore in Germania — e Victor Serge. Si poteva mai pensare che un intellettuale con il suo profilo potesse dire quelle fesserie su Dante, e in quel modo? No, che non si poteva, ma la questione qui non è Dante, la questione è che di Dante si voleva fare un uso strumentale.

Il polverone. Attaccare Widmann, o difendere Dante da Widmann, è servito come al solito a distrarre, a gettare l’osso per aizzare la zuffa, e lasciare poi che il polverone offrisse un vantaggio alla politica. In queste ore avrebbero dovuto riaprire i teatri, i cinema, i circoli di lettura. Il ministro Franceschini lo aveva promesso, a qualunque costo. Invece non è andata così. L’agonia in cui librerie, teatri, editori, vivono dovrebbe essere l’elemento centrale del dibattito politico come dovrebbe esserlo il fatto che l’Italia è terz’ultima in Europa per investimenti statali in attività culturali. Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono subito mobilitati contro l’attacco lanzichenecco di Arno! Ma è stato solo un modo per fare ammuina, per suonare il ritornello trito della patria più bella e dello scrittore più grande, per coprire il fatto che non hanno né progetti né visione per ritirare su la cultura italiana rimasta senza fondi, senza investimenti, senza piani.

Il poeta in esilio. Dante è stato un esule, infangato e diffamato per tutta la vita. Il 27 gennaio del 1302, un tribunale uscito da un governo golpista lo ha accusato di concussione e peculato, di essersi arricchito illecitamente durante i mesi della sua attività politica, come priore e come consigliere dei Cento. Mesi quelli, che invece Dante spese per combattere la corruzione e nel bloccare sistematicamente tutti i finanziamenti al corrottissimo e rapace Bonifacio VIII. Per i primi tredici anni del suo esilio, a Firenze, si è fatto di tutto per impedirgli di rientrare, escludendolo sistematicamente da ogni amnistia concesse ai fuoriusciti, perché lui — diceva il governo di Firenze — non meritava neppure la «grazia», perché peggio di chiunque altro aveva «tradito la patria fiorentina». Quando, nel 1315, fu compreso, infine, nella lista dei graziandi, non si vollero però cancellare le accuse mossegli. Dante allora non rientrò, scrisse ad un amico che: se questo era il prezzo, se il prezzo era la menzogna, allora preferiva morire nella verità dell’esilio. Difendere la verità è un buon modo per rendere omaggio a Dante. Trasformarlo, invece, in un’icona da mettere sul cappellino, così dagli spalti possiamo fare «Buuu» sugli altri giocatori è proprio il modo per riportarlo dentro a quel tipo di politica che fino all’ultimo cercò di non far vincere a Firenze.

Saviano difende i tedeschi: "Non hanno insultato Dante". Il giornalista difende l'articolo di Arno Widmann su Dante pubblicato sul Frankfurter Rundschau: parla di "assurda polemica" e accusa la stampa italiana di aver mal interpretato le parole di Widmann. Senza argomentare. Roberto Vivaldelli - Sab, 27/03/2021 - su Il Giornale. Si potrebbe forse obiettare che le parole "arrivista" e "plagiatore" nell'oramai celebre articolo di Arno Widmann su Dante Alighieri pubblicato sul Frankfurter Rundschau non ci siano o meglio, siano state tradotte in maniera un po' rozza e semplicistica. Ma da qui a dire che nel pezzo del celebre critico letterario tedesco non ci sia uno spirito provocatorio o non vi siano punzecchiature nei confronti del Sommo poeta, ce ne passa. È ciò che prova a sostenere Roberto Saviano, provando a spiegare, sulla sua pagina Facebook, che la stampa italiana non conosce il tedesco e si è inutilmente indignata nei confronti dell'articolo scritto dall'amicone Widmann per sposare l'odio-antitedesco. "Trovo sui social un'assurda polemica su Dante che parte da un articolo pubblicato in Germania. Vi dimostrerò come anche un ottimo articolo di analisi letteraria possa essere strumentalizzato dal più becero populismo. Nessun attacco a Dante arriva dalla Germania, come suggerisce qualche giornalista e qualche politico, nessuna accusa di essere un plagiatore. Niente di tutto questo, nemmeno l'ombra. Solo l'incapacità di leggere e comprendere testi scritti" afferma Saviano.

La lezioncina (a vuoto) di Saviano. Conosco l’autore dell’articolo su Dante, Arno Widmann, da più di dieci anni, spiega Saviano, ed "è uno dei più colti e sapienti critici letterari europei. Conosce la letteratura del nostro paese come pochi. Sicuramente la conosce meglio dei politici che oggi lo attaccano. Il suo è un intelligentissimo articolo che parla dell'influenza che ebbe sulla lingua di Dante l'operazione già compiuta dai provenzali e che però lui fece lievitare, perché grazie a Dante quell'operazione non si limitò più solo all'argomento amoroso ma si allargò a tutto il resto. E dunque, sottolinea Saviano, "nessuna offesa a Dante nel suo articolo che, invece, è una dotta analisi non rivolta solo ai lettori tedeschi, ma a chiunque ami la letteratura. Arno Widmann offre spunti interessantissimi sul ruolo dell’intellettuale italiano, politicamente impegnato e chiamato a esprimersi sul mondo". Peccato che Saviano non argomenti e non spieghi dove sarebbero, a suo parere, gli errori di traduzione commessi dalla stampa italiana, limitandosi a dire di conoscere Widmann e accusando i giornalisti italiani - e alcuni politici, tra i quali Matteo Salvini, tanto per cambiare - di becero nazionalismo, cosa che agli intellettuali chic proprio non piace. La solita e noiosissima pedanteria ideologica.

La provocazione del giornale tedesco. La verità è che per provare ad affermare che il tono dell'articolo di Widmann non sia provocatorio, ci vuole un bel coraggio. Articolo legittimo, s'intende, com'è altrettanto legittima la reazione di chi ha fatto notare al critico tedesco di aver scritto delle inesattezze, se non delle vere e proprie sciocchezze. Come nota l'Agi, secondo il giornalista tedesco, la Divina Commedia è "una fabbrica di versi", nella quale "ogni volta è chiaro se fai parte dei buoni o dei cattivi", laddove l’Alighieri è mosso soprattutto "dalla voglia al giudicare e al condannare". Presunzione, fa intendere il critico tedesco, che pooi aggiunge: "Gli oltre 14 mila versi sono intesi a gettare un ponte lungo oltre 1300 anni sull’Eneide di Virgilio: una tale opera abbisogna di un ego immenso". Secondo l’autore, Dante Alighieri "in un certo senso avrebbe creato la lingua per la sua opera, e questa lingua divenne quella dei suoi lettori e poi quella dell’Italia...”, ma è semplicemente quello "che fino a 60 anni fa si raccontava ad ogni scolaro italiano, nessuno lo direbbe anche oggi". Come se son bastasse, le prime liriche in volgare furono scritte "in provenzale", certo non nell’italico idioma dantesco: in pratica, osserva sempre l'Agi, la maggiore invenzione di Dante, ossia di aver portato il volgare nell’alveo dell’arte letteraria, non è una vera invenzione. Dopodiché Widmann tira in ballo Shakespeare, che gli pare "più moderno anni luce rispetto agli sforzi di Dante di aver un’opinione su tutto, di trascinare tutto davanti alla poltrona da giudice della sua Morale. Tutta questa immensa opera serve solo per permettere al Poeta di anticipare il Giorno del Giudizio, mettere lui in pratica l’Opera di Dio e di spingere i buoni nel vasetto e i cattivi nel pozzo". Non male per un articolo che, secondo Saviano, "offre spunti interessantissimi sul ruolo dell’intellettuale italiano, politicamente impegnato e chiamato a esprimersi sul mondo".

Eike Schmidt smentisce (indirettamente) Saviano. Se c'è una persona di cultura che conosce il tedesco - da madrelingua - l'arte e la figura di Dante, quello è sicuramente Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi. Commentando l'articolo su Dante, Schmidt, intervistato dall'emittente radiofonica Lady Radio e riportato dal quotidiano La Nazione, spiega che "Arno Widmann è un personaggio di forte vis polemica, che ha sempre fatto parlare di sé per teorie volutamente provocatorie oppure, talvolta, di complotto. Volendo parlare male di Dante, gli muove contro argomenti totalmente insostenibili. La sua opinione non coincide affatto con l’opinione generale su Dante in Germania, non rappresenta nemmeno una corrente di pensiero". "Dice Widmann - prosegue il direttore e critico d'arte tedesco- che Dante abbia cercato di imitare i poeti provenzali francesi. Non è certo una grande scoperta: che egli abbia guardato ai provenzali come a un modello lo si sa da sempre, ma che si sia limitato a copiarli è altrettanto evidente che sia falso. Un’altro argomento di Windmann è che Dante abbia creato una 'contro-versione' cristiana a fronte della tradizione islamica del viaggio ultraterreno del Profeta Maometto: questo è del tutto infondato". Quindi anche Eike Schmidt ha letto o tradotto male l'articolo di Widmann, caro Saviano? Del tutto improbabile. Forse chi dovrebbe rileggersi meglio l'articolo è proprio l'autore di Gomorra.

Dante o Arno Widmann? Chi dei due è uno scrittore? Paolo Gambi il 25 marzo 2021 su Il Giornale. Un giornalista tedesco, tal Arno Widmann, nel giorno in cui in Italia si celebra Dante ha scritto sul Frankfurter Rundschau, un giornale che molti di noi sentiranno citare per la prima volta nella vita, che Dante, essenzialmente, fa schifo. Perché farebbe così schifo? Perché, secondo lui, era un moralista. Fa la morale a Dante perché Dante farebbe la morale. Lo giudica perché giudica.

Un genio. Lo considera un plagiatore. Avrebbe copiato dalla poesia provenzale, stravolgendola. E ci tiene a tirare frecciatine antipatiche alla lingua italiana. Usa come somma accusa il fatto che Dante avrebbe copiato da un autore arabo, tirando fuori una tesi del 1919.

Molto attuale. E dimentica che il tema del viaggio nell’aldilà è vecchio come la letteratura, lo sappiamo tutti, e Dante cita Virgilio e il suo canto VI dell’Eneide in modo più che esplicito.

Ma vale poi la pena rispondere? Arriva a dargli dell’egotico. Cita misteriosamente addirittura le accuse che gli vennero mosse a Firenze, con un’allusione moralistica. Avanza poi una tesi rivoluzionaria: Shakespeare era più moderno di Dante. Chissà, magari bisognerebbe fargli vedere un righello con gli eventi storici disegnati sopra e ricordargli che Shakespeare vive 300 anni dopo Dante.

E fa tutto con un ghigno antiitaliano di sottofondo. Questo Arno Widmann, che evidentemente non conosce né Dante, né tantomeno Shakespeare e scrive cose a vanvera solo perché qualcuno scriva di lui, ha raggiunto il suo obiettivo. Ora sappiamo che in Germania, in mezzo a tanta brava gente che coltiva l’amicizia con l’Italia, c’è anche questo tal Arno Widmann, che non sa nulla di Dante, di Shakespeare e probabilmente non capisce nulla di letteratura, che ci tiene a farci sapere che Dante e l’Italia gli fanno schifo. Spaghetti, pizza, mandolino.

Grazie per avercelo fatto sapere. E grazie al Frankfurter Rundschau per dare spazio a tesi così avanguardistiche. La cosa bella è che comunque, dopo questa fiammata mediatica (lo so, ci sono cascato anche io), questo tal Arno qualcosa tornerà ad essere ciò che era prima, cioè nessuno. Mentre Dante continuerà ad essere Dante. E non smetterà di far risuonare le sue parole. Fra le quali leggiamo anche “quanta ignoranza è quella che v’offende!”.

DanteDì, il Sommo Poeta (spiegato ai bambini). Serena Coppetti il 25 marzo 2021 su Il Giornale. Ci sono persone che fanno cose eccezionali. Io ho avuto la fortuna di intervistarne due. Laura Vaioli  laurea in filosofia e oggi direttrice della TheSIGN – Comics & Arts Academy a Firenze e Mirko Volpi,  insegna Storia della lingua italiana all’Università di Pavia. Cosa hanno in comune? Hanno scritto un libro, insieme a Giacomo Guccinelli ci ha messo il suo tratto. Risultato: bellissimo. Si intitola «I mostri di Dante» (Salani, 140 pag) e visto che oggi è il DanteDì più DanteDì di sempre (perché sono passati 700 anni dalla morte) è la giornata giusta per parlarne. Un libro per bambini, quindi se siete nonni, o genitori dategli un’occhiata perché parla di Dante ai ragazzi nel modo giusto. L’idea (di Laura Vaioli) è geniale. Dal 1300 sono ben passati 700 anni. È nata la psicologia, Freud ha rivoluzionato l’idea dell’uomo e ancor di più Jung ha detto e scritto… Quindi anche i mostri che Dante incontra all’Inferno, dal Cerbero alle Erinni, dal Minotauro a quel diavolo di Lucifero possono essere un po’ visti come le “zone d’ombra” di ciascuno di noi, bambini ma anche (e forse soprattutto) adulti. Chi non si è mai sentito una delle Erinni? Chi non ha mai incontrato un Gerione con la faccia da buono e poi si è rivelato un serpente? Il libro fa pensare a questo e alla fine fa giocare con questo. Per esempio:  il gioco che conclude il capitolo sul Minotauro è di realizzare un bel miniMinotauro da attaccare sul cruscotto dell’automobile perché gli adulti alla guida riescono a dare il peggio di sé e diventano davvero dei… Minotauri.  Se cliccate su questo link  I mostri di Dante? Siamo un po’ anche tutti noi!  trovate l’intervista a Laura Vaioli (fatta sul sito per bambini Il Mio Primo Quotidiano) e tutte le informazioni sul libro ma raccontate ai più piccoli. Con parole adatte a loro. I mostri (17 in tutto perché è stato aggiunto anche qualche Dannato) sono stati scelti dall’esperto di Dante Mirko Volpi. Cliccando qui  (DanteDì, ma chissà come scriveva il Sommo Poeta).  avrete tutti gli spunti per parlare di Dante con figli o nipotini. Ma non di quando è nato (che peraltro non si sa neppure…) o quando è morto. Con Mirko Volpi (guida d’eccezione, esperto di Dante) abbiamo cercato aspetti curiosi per i più piccoli. Ma forse non lo sapete neanche voi… per esempio che di Dante non abbiamo neanche un-riga-una di scritti di suo pugno? neanche una firmetta, un paio di letterine? Insomma è il padre della lingua italiana ma non sappiamo come scriveva.

Dante, da esiliato a figlio illustre: la parabola con Firenze. Gregorio Moppi su La Repubblica il 24 marzo 2021. Prima Firenze condannò Dante in contumacia, poi, morto il poeta, la città volle impadronirsi dell'aura mitica che nel frattempo era sorta attorno a lui e alla "Commedia". E ci riuscì. Nel giro di un trentennio, a partire dal decesso avvenuto a Ravenna nel 1321, Dante l'esiliato, nemico pubblico numero uno, venne chiamato figlio illustre e divenne monumento cittadino. Lui, più volte, mentre errava di corte in corte sperando di poter rimettere piede nella sua terra, aveva rivendicato la propria fiorentinità; tuttavia, negli ultimi tempi, su Firenze aveva messo una pietra sopra, tanto che nelle lettere tarde si diceva "fiorentino di nascita", certo, ma ormai non "per costume". Della riappropriazione della figura di Dante da parte della città matrigna si occupa la mostra "Onorevole e antico cittadino di Firenze", al Bargello dal 21 aprile al 31 luglio, che espone una cinquantina tra manoscritti e opere d'arte utili a ricostruire la relazione postuma che Firenze intrecciò con l'Alighieri e la sua opera nel secondo quarto del Trecento. Allora la città sembrava quasi trasformata in uno scriptorium diffuso, al centro del quale campeggiava la "Commedia". "La definizione di "onorevole cittadino" si deve allo storico Giovanni Villani, che verso il 1340 rivendica la fiorentinità dell'Alighieri", spiega Luca Azzetta, curatore della mostra insieme a Sonia Chiodo e Teresa De Robertis, tutti docenti all'Università di Firenze. "È una rivendicazione culturale e politica, che avviene quando la "Commedia" viene metabolizzata da ampi strati della popolazione". Tema della mostra è dimostrare come, se oggi leggiamo Dante in un certo modo, lo si deve all'immagine che del poeta e della sua opera si costituì a Firenze in quei tre decenni. Quando, cioè, nella Cappella del podestà al Bargello, Giotto e i suoi allievi ritraevano il volto del poeta includendolo tra le schiere degli eletti nel Paradiso. E quando, proprio per divulgare la "Commedia", fu inventata una tipologia di libro dal successo continentale le cui pagine sono spartite fra testo, miniature, commento. E, ancora, quando Boccaccio, attorno al 1350, scrisse la prima biografia di Dante. Queste pagine autografe, conservate a Toledo, sono tra i pezzi forti dell'esposizione, che presenta pure altri codici preziosi e notevoli per bellezza. Come la "Commedia" copiata da Francesco di ser Nardo da Barberino, proveniente dalla Biblioteca Trivulziana di Milano, che nel frontespizio del "Paradiso" raffigura un Dante incoronato poeta. O quella illustrata da Pacino di Bonaguida, che oltre al miniatore faceva il pittore. Ed è curiosa la presenza in mostra del quaderno dei conti, miniato, di un venditore di granaglie in Orsanmichele, che fra scritture di servizio e frasi moraleggianti, inserisce passi danteschi, e anzi, tanto ne ha assimilato linguaggio e stile, che perfino ciò che esce dalla sua penna sa un po' di Dante. Una parte delle spese della mostra è sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze che, nell'ottica di promuovere le iniziative rivolte alla formazione giovanile, finanzia anche laboratori e attività didattiche a tema dantesco per bambini e ragazzi tra 6 e 16 anni che si svolgeranno al Bargello in parallelo all'esposizione.

Dantedì? Se Dante potesse ci picchierebbe, altroché. Per lui la libertà era sacra, per noi il lockdown è infinito. Emanuele Ricucci il 25 marzo 2021 su Il Giornale. Lui uscì a riveder le stelle, liberandosi dal male, noi, a malapena, possiamo uscire per fare la spesa. Celebrare Dante in galera, leggerne i suoi versi, musealizzarne l’essenza disinnescandola in maratone di lettura online. Feticismo fariseo. Pareva brutto non fare niente nel giorno dei settecento anni della sua nascita, ovvio. Anche oggi, ci siamo puliti la coscienza. L’equilibrio è ristabilito. Possiamo evocare il nome dei padri, possiamo disturbare il sonno glorioso dei giusti, possiamo leggerne i versi, persino masturbarci sopra le loro pagine, ma ormai il bluff è svelato: nel profondo nostro, profondo rosso, non sentiamo più accendersi il motivo del nostro esistere e reagire, combattere ed ambire, strettamente legato ai loro insegnamenti, se non per dimostrazione di stile. Quasi sempre, ormai per la totalità, così va. L’eredità si è rotta, la trasmissione interrotta. Riempiamoci pure la bocca, ma domani saremo gli stronzi di sempre. Ogni nostro sforzo quotidiano dovrebbe essere volto alla ricerca della giustizia, in questi mesi. Sì dovrebbe respirare tensione, non solo generata dalla continua privazione ma dalla necessità di liberarci dal male che buca lo stomaco. Tripartire la nostra volontà quotidiana: famiglia, lavoro e ricerca della giustizia. Ognuno dovrebbe cavalcare il disagio. Eppure sembriamo atomi che non si legano e, per questo, non producono effetti. Passivi, sodomizzati, strillanti su un social network: eccoli i “botoli ringhiosi”, nel Dantedì, che siamo diventati, chiusi nell’infinito pandemico, a gridare nel Purgatorio che osa punire anche solo l’idea di Bene con le fruste dei virologi che lasciano segni sulla schiena: non permetterti di vivere, di sperare, la curva non cala, i contagi esplodono, i morti aumentano, serve un nuovo lockdown, serve altra prigione. E noi qui, oggi, a celebrare Dante che della libertà fece ambizione assoluta?

Ma forse non ci rendiamo pienamente conto. Io mi chiedo: cos’altro debbano fare, dal governo, per non meritarsi una vera e propria sommossa popolare? Forse, dare della mignotta a nostra madre? Come si riesce a intavolare, in ogni disgraziato giorno italiano, un dibattito su questo e quello, quando ad Anagni vengono scoperte magicamente oltre venti milioni di dosi di vaccino, in un Paese che lagna assenza di vaccini e che, proprio per questo, è ancora agli arresti domiciliari ad aspettare che il caldo sciamano, santo e magico, venga a salvarci tutti, o meglio, quelli che, di questo passo, saranno rimasti poiché fuori pericolo rispetto al fallimento economico o psicologico? Ma come si fa? Con quale coscienza? Con quale visione di uomo, di cittadino e di Stato? Questi cavoli della Boldrini e della figlia di Fedez; questi grandissimi cavoli della corsa scudetto e delle uscite di Michele Serra; questi ingombranti cavoli di Enrico Letta e del nuovo suicidio del Pd. Questi rampanti cavoli di ogni cosa mobile o immobile, compreso il Dantedì, tanto siamo sempre meno degni di ricordare un padre nobile. Quel padre ci disconoscerebbe: “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta (Pg I 71). La vita rifiuta per lei. E noialtri, poveri farisei virtuali, me in primis, non stiamo rifiutando la vita per giungere alla libertà, non compiamo il sacrificio della ribellione – eppure c’è chi ancora va definendosi tale in un giubilo mistico di infantilismo e tenerezza -, ma abbiamo accettato, supinamente, la riduzione della vita stessa a un’eccezione. Dante, nei suoi passi, mostra una continua tensione alla redenzione, alla libertà come fondamento dell’integrità degli uomini, in continuo equilibrio tra libero arbitrio e sfera morale: “dalle prime opere fino alla Commedia, dove continuamente presente è la tensione dell’anima verso la purificazione degli affetti, sostenuta dalla ragione e illuminata dalla grazia”, ci ricorda Bruno Bernabei nell’Enciclopedia Dantesca, “Libertade è tra i vocaboli centrali del mondo dantesco, pervaso dall’ideale della libertà”. Il rovesciamento dalla servitù. Quella dantesca appare non come una libertà “di” (che oggi pretendiamo come se ciò che facciamo determina la nostra esistenza, specie in rapporto agli altri), ma una libertà “da”. E qui risuona più forte di tutte le letture online della Divina commedia online del cacchio di questa giornata, l’ammonimento di Alighieri esiliato ai concittadini, che possiamo oggi leggere non solo con accezione al Divino, ma anche come evocazione più alta di cosa sarebbe giusto fare per non essere più considerati cittadini de iure e sudditi de facto: “Non vi accorgete…che è la cupidigia che vi domina,…che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi […] l’osservanza delle quali…non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà”. Libertà dantesca, nobile affrancamento che dovrebbe essere anzitutto dalle macerie di noi stessi e dalle nostre aspettative: attendiamo, e i giorni della pandemia ne sono testimonianza, che la libertà ci venga data, ci venga offerta, peggio ancora, ci venga concessa. Dunque eccoci qui a celebrare il cimitero, la Cultura come rito forzato, atto dimostrativo, il ricordo come ricorso. Eccoci, oggi, a spolverare le bomboniere nella cristalliera, ricordando i tempi che furono. Nel frattempo ci ricordo che, quasi sicuramente, le restrizioni dureranno anche dopo Pasqua, fino al 13 o al 18 aprile, nonostante le dichiarazioni del ministro Franco e dello stesso Draghi “sull’ultimo sforzo” e su “da dopo Pasqua ricomincia gradualmente una parvenza di normalità”. E chi gli impedisce di non proseguire con le zone rosse fino a metà maggio? Ancora una volta: i padri sono sempre più giovani di noi, anche se hanno settecento anni. Mentre lo ricordiamo e mentre lui ricorda chi siamo e come siamo fatti, chiediamo scusa a Dante della nostra inconsistenza. E questo Regno cretino, se voleva dare vita a qualcosa di concreto, poteva almeno regalare una copia della Divina a ogni studente. Una casa, una Divina commedia, che è lettura degli uomini, del tempo, di Dio. Ben più di un’interrogazione. “Color che ragionando andaro al fondo, s’accorser d’esta innata libertate; però moralità lasciaro al mondo “. Quale moralità può lasciare un mondo umano in rovina che si limita a farsi sterilizzare, a replicare, a godere dell’immagine-verità, a prostituirsi verso chiunque politicamente possa garantire le proprie necessità di sopravvivenza, che campa di mera gratificazione istantanea, che rinuncia al proprio pensiero critico per cucire in fretta e senza approfondire, il reale e i suoi accadimenti, morendo nel nozionismo, nelle porzioni di dichiarazioni dei media, del web, dei leader che dà vita a una percezione di conoscenza? Anche oggi ci siamo puliti la coscienza. Anche oggi abbiamo constatato, in gran parte, l’inutilità degli intellettuali in questo mondo, l’inutilità degli intellettuali che si esprime nell’impossibilità di tradurre e declinare, di contaminare la sfera morale, e non solo pompare le possibilità infinite del libero arbitrio, e la volontà degli stessi di apparire, di monetizzare, di farsi riconoscere. Vuoti simulacri. Nello sforzo dell’anima per uscire dal peccato, nel riportare il mondo ad un salvifico antropocentrismo. È Massimo Dapporto, nei suoi ragionamenti sulla libertà dantesca, a ricordarcelo: “Ancora la dialettica fra libertà e schiavitù; tra un giudizio non compromesso dalla passione e il condizionamento dell’appetito. Perché la libertà in Dante è “de la volontà la libertate”, come dirà in Paradiso o, nelle parole ancora della Monarchia, “principio primo della nostra libertà si è la libertà dell’arbitrio”. Anche qui, l’io della modernità non può che sentirsi lontano, forse dolorosamente lontano, dalle certezze dantesche. L’io spodestato del soggetto moderno, non più padrone a casa sua; l’io invaso dall’inconscio, o disturbato dal progresso delle neuroscienze, che non sanno dove collocare l’organo della libertà nella contemporanea topografia del cervello, rischiano di rendere il concetto di libertà dantesca remoto, supremamente inattuale. Dante vive in un regime intellettuale e morale di orgogliosa alterità antropocentrica; in cui la diversità radicale della ragione apparenta l’uomo al divino e alla sua trascendenza”, così come fu per il genio dell’imperfezione, Leonardo, e così come fu per quell’uomo rinascimentale, che mise in asse Natura, Bellezza e Assoluto, che noialtri, poveri topi da laboratorio, andiamo cercando ma che sempre meno riusciamo a capire.

La celebrazione del Dantedì. Dante sapeva che la terra è tonda, ecco tutte le prove. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 25 Marzo 2021. “O tu che onori scienzia ed arte” (Inf. IV, 73). Dante si rivolge così a Virgilio per esprimere il massimo riconoscimento di stima e ammirazione. E Dante non sceglie mai le parole a caso. Scienza ed arte. Virgilio è scienziato e artista. Artista della parola naturalmente, altissimo poeta (Inf. IV, 80) e, come tale, appartenente al club esclusivo dei Fabulous Five, insieme con Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Tutti poeti, eppure Dante antepone il merito scientifico a quello artistico o, se anche si trattasse solo di una figura retorica di inversione, sarebbe comunque un’equiparazione tra le competenze artistiche di Virgilio e quelle scientifiche. La scienza per Dante è prolungamento ed emanazione di fede e metafisica, per cui ha carattere sacrale. Come il Verbo si è incarnato per la redenzione di ognuno, così la scienza deve informare la vita di chiunque. Ce lo spiega egli stesso nel primo dei quattro trattati del Convivio, cioè il banchetto, nel quale Dante spezza il pane della scienza per i profani, per coloro ai quali impedimenti fisici o sociali non abbiano permesso di dedicarsi a studi regolari. Purché provvisto di “spirito gentile”, ognuno può cibarsi alla mensa imbandita nel Convivio. Dante è tra i primi a teorizzare la necessità della divulgazione scientifica per lo sviluppo della società e per l’affrancamento dall’ignoranza e dalla superstizione. E infatti il corso della Commedia è disseminato di osservazioni di carattere matematico, fisico, astronomico, geologico, zoologico, botanico. Così tante che in un articolo -anche se celebrativo- occorre fare una cernita e decidere di quali parlare. Scelgo una questione tornata di attualità negli ultimi decenni e specialmente in regime di segregazione pandemica, il Terrapiattismo. Seguendo Dante scopriremo che spesso il vero Medioevo è oggi. Una tradizione tanto diffusa quanto infondata vuole che nel Medioevo si ritenesse la Terra piatta e che questa convinzione sia stata smentita solo nel 1492 col viaggio di Cristoforo Colombo, anno che segna convenzionalmente l’inizio dell’era moderna. Colombo avrebbe supposto che la Terra sia sferica e che quindi l’estremo oriente, le Indie, sarebbe stato raggiungibile percorrendo il meridiano in senso opposto, navigando verso ovest, facendo cioè il giro dall’ “altra parte” (salvo poi imbattersi in altre Indie, le future Americhe). Dante, attraverso i commentatori di Aristotele e i filosofi scolastici, conosceva l’ingegnosa dimostrazione della sfericità della Terra tramite l’osservazione delle eclissi di Luna. Questo tipo di eclissi si verifica quando la Terra si interpone tra Sole e Luna, proiettando il suo cono d’ombra sulla superficie lunare. L’ombra della Terra è circolare. Tale profilo circolare può essere teoricamente generato da due forme solide, la sfera e il cilindro (ad esempio un cilindro basso, la “frittella” cara ai Terrapiattisti). Quindi un’unica osservazione non è dirimente, perché non permette di discriminare se l’ombra è proiettata da una sfera, o da un cilindro con il proprio asse parallelo ai raggi del sole. In pratica, dicono i Terrapiattisti, l’ombra circolare della Terra sulla Luna sarebbe come la zona asciutta sotto un ombrello aperto quando piove… E fino qui, niente da eccepire. Terra Sferica-Terra Piatta 1 a 1. Ma si dà il caso che l’eclissi si verifichi in condizioni sempre diverse, perché la Terra gira intorno al proprio asse. Quindi, se la Terra fosse piatta, disegnerebbe sulla Luna un’ombra circolare in un unico caso, cioè quello appena descritto. Ma se il suo asse, invece che trovarsi in condizione parallela ai raggi, fosse perpendicolare (cioè la frittella fosse “di taglio”), l’ombra sarebbe una striscia e, con tutte le altre inclinazioni, sarebbe un’ellisse. Infatti, se invece di tenere il manico dell’ombrello diritto, lo incliniamo, la zona riparata dalla pioggia non sarà più un cerchio, ma una forma vagamente ovale. Addirittura, tenendo il manico orizzontale, la zona asciutta diventerà una striscia (curvilinea, perché l’ombrello non ha esattamente la forma di una frittella). Dimostrazione utile ai fini della comprensione della forma della Terra, meno per la prevenzione dei reumatismi. In conclusione, siccome l’ombra della Terra sulla Luna è SEMPRE circolare, l’unica forma della Terra compatibile con TUTTE le osservazioni è quella sferica. Questione chiusa, terrapiattismo confutato. E Dante, fine osservatore delle cose del mondo, non solo accoglie la dimostrazione della Terra sferica, ma nell’Inferno ne descrive le conseguenze. Ulisse, dopo la celeberrima orazione per spronare i compagni ad abbandonare la comfort zone e spingersi oltre Gibilterra nell’Oceano Atlantico, il famoso fatti non foste a viver come bruti (Inf. XXVI, 119) ecc., naviga verso sud, costeggiando l’Africa occidentale. Dice Dante: Tutte le stelle già de l’altro polo/vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,/che non surgëa fuor del marin suolo. (Inf. XXVI, 127-129). Ulisse cioè, procedendo a sud, comincia ad osservare stelle non visibili nel nostro emisfero e, viceversa, le stelle del nostro emisfero gli appaiono sempre più basse sull’orizzonte, fino al punto da non vederle più sorgere dalla superficie del mare. Esattamente come accade quando ci si muove sulla superficie di una sfera, guardando un punto in alto: man mano che ci si sposta, il punto cambia di posizione, fino a scomparire del tutto. Su una superficie piatta questo non avviene. Quando ci si sposta, un punto in alto, resta pressappoco nella stessa posizione… Se siete già un po’ meravigliati, aspettate il resto. Dante, come noto, immagina l’Inferno come una immensa cavità a forma di imbuto con, in corrispondenza del becco, Lucifero, incastonato in una massa di ghiaccio che egli stesso produce, congelando con la ventilazione delle sue ali l’acqua che cola lì in fondo. Lucifero è al centro della Terra e Dante lo raggiunge oltre cinquecento anni prima di Jules Verne! Ci avevate mai pensato che grandissimo autore di fantascienza sia stato? Dante e Virgilio arrivano quindi al centro della Terra. Ma là l’imbuto finisce! Come proseguire il viaggio e raggiungere gli antipodi per uscire a riveder le stelle? Virgilio, quando il gioco si fa duro, ha trovate straordinarie per togliere di impaccio il suo malcapitato compagno, alle prime armi nelle escursioni sotterranee. Per ben due volte sgrida personaggi infernali come Caronte e Flegias perché fanno storie a far passare Dante. Quando teme che le Furie possano chiamare Medusa e pietrificare Dante (Vegna Medusa: sì ‘l farem di smalto, Inf. IX, 52), lui stesso gli chiude gli occhi con le sue mani. Un’altra volta lo fa mettere seduto quatto quatto (Inf. XXI, 89) dietro un masso perché i diavoli della V bolgia non lo vedano, oppure quando prende in braccio Dante come suo figlio, non come compagno (Inf XXIII, 51) e si butta a capofitto in un dirupo per sfuggire all’inseguimento di Barbariccia e soci. Al cospetto di Lucifero, Virgilio, per sorpassare il centro della Terra, ordina a Dante di attaccarglisi dietro la schiena, aggrappato al collo e poi inizia a scendere attaccandosi ai peli del diavolo e passando per una fessura del ghiaccio che ne circonda il corpaccione. Quindi… colpo di scena! Virgilio, continua a scendere ma, arrivato circa alla cintola di Lucifero, si rigira di 180 gradi come un sub che dopo aver preso l’ultima boccata d’aria si immerge a capofitto verso il fondo. A questo punto, comincia a risalire lungo le gambe, verso i piedi del diavolo. Dante finge di non capirci più niente. Ma come? Stiamo andando verso i piedi? Allora stiamo scendendo, non stiamo salendo! E Virgilio: ti devo spiegare sempre tutto. Ma scusa, se superi il centro della Terra e prosegui, quello che prima era sotto, sta sopra e viceversa. Quindi tutto regolare. Stiamo salendo verso i piedi! E sali sali sali, raggiungono la parte opposta della Terra, agli antipodi rispetto alla selva oscura. Eppure anche lì è tutto regolare. Dante non sente che gli va il sangue alla testa. Si può stare dall’altra parte del mondo e non accorgersi di essere rovesciati, non come i terrapiattisti che temono di cascare di sotto se superano lo spigolo! E, dall’altra parte del mondo, nel punto diametralmente opposto a Gerusalemme, si erge la collina del Purgatorio. Oggi sappiamo che lì non si trova la collina del purgatorio, ma pressappoco la Nuova Zelanda. Eppure, come prevedeva Dante, i Neozelandesi non si sentono a testa in giù. Quindi, ricapitolando, tutto rigoroso nella geografia terrestre dell’Inferno? Non esageriamo, è pur sempre un poema allegorico, non un manuale di scienza. Ve ne dico solo una. Dante parte tradizionalmente il venerdì santo dell’anno 1300 e in un giorno compie la traversata dell’inferno. Se pure fosse andato diritto, senza deviazioni e giri vari, avrebbe dovuto coprire i circa 13mila chilometri del percorso in 24 ore, all’invidiabile media cioè di oltre 500 all’ora! Dante non sapeva che la strada era così lunga? Lo sapeva, lo sapeva. Già Eratostene di Cirene aveva misurato il raggio terrestre con notevole approssimazione. E allora? E allora un po’ di fantasia! Godiamoci la lettura della più grande opera di ingegno ed immaginazione forse di tutti i tempi e non stiamo a cavillare troppo. Dante non si discute, si ama.

Dante Alighieri, un vino di 700 anni. Tra Toscana e Veneto, l'esilio del sommo poeta e il nettare di Bacco. Simone Savoia - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. Che sapore ha il vino di Dante Alighieri 700 anni dopo la sua morte? Il 25 marzo 1300 il sommo poeta intraprendeva il suo viaggio nell’aldilà. Il 14 settembre 1321 si spegneva a Ravenna a causa di una malaria contratta nelle malsane Valli di Comacchio al ritorno da Venezia. Dalla crasi tra queste date nasce il “Dantedì” di oggi, 25 marzo 2021. “Grande emozione certamente. Ho appena parlato con il presidente di una delle innumerevoli società Dante Alighieri sorte nel mondo, quella di San Rafaèl in Argentina. Ma credo sia solo l’inizio di giorni molto intensi”. In effetti il telefono della contessa Massimilla Serègo Alighieri, discendente di ventunesima generazione di Dante Alighieri. Produttrice vitivinicola, sommelier e altri svariati interessi culturali. Elegante inflessione veneta.

Contessa, ha risciacquato i panni linguistici nell’Adige più che nell’Arno…

“Come noto Pietro e Iacopo Alighieri (i figli di Dante, ndr) vissero a Verona, avevano seguito il padre nell’esilio. Pietro il 24 aprile 1353 acquistò ‘due pezze di terra’, così recitano i registri dell’epoca, nelle Possessioni del Casal dei Ronchi, in Valpolicella. Ancora oggi è la tenuta in cui vive la famiglia Serègo Alighieri”.

La vita del sommo poeta fu tra la natìa Toscana e il Veneto, terre di grandi vini…
“Sì, ma le sue peripezie furono figlie della politica, dell’esilio maturato per ragioni politiche. Il vino c’entra poco in questo passaggio”.

La Divina Commedia non ha molti versi sul vino. Più metafore funzionali, no?

“Lui non era certo un bevitore né un mangiatore. Era un consumatore misurato, come testimoniato del resto dal suo primo biografo, Giovanni Boccaccio”.

Lui chi, Dante?

“Il sommo poeta lo indichiamo così in famiglia. Non per un eccesso di confidenza ma, al contrario, per pudore.

Già il suo nome viene citato moltissimo e troppo spesso fuori contesto. Come suoi discendenti non vogliamo essere partecipi di quest’usurpazione”.

Un passo del Purgatorio dantesco recita: “e perché meno ammiri la parola, guarda il calor del sol che si fa vino, giunto a l’omor che de la vite cola”. Come legge questa metafora enologica?

“Sono i versi da 76 a 78 del Canto XXV del Purgatorio. Quasi a testimoniare della sacralità del vino. Ma il lettore viene ammonito nei versi da 121 a 123 del Canto XV, sempre del Purgatorio: ‘ma se’ venuto più che mezza lega/ velando li occhi e con le gambe avvolte,/ a guisa di cui vino o sonno piega?’. I vinti dal vino che non raggiungono la verità sono i bevitori irresponsabili, coloro che sono privi di cultura del vino”.

Per questi 700 anni danteschi, da sommelier che bottiglia stapperebbe?

“Sarebbe scontato dire un Amarone della Valpolicella. Ma più che stappare una bottiglia, almeno oggi preferirei fermarmi a riflettere su una pagina di grande e immortale letteratura italiana”. Facciamo il viaggio di Dante a ritroso, spostiamoci dalla Valpolicella alla natìa Firenze. Qui un accento inconfondibile declama: “…ebbe la Santa Chiesa e le sue braccia: dal Torso fu, e purga per digiuno le anguille di Bolsena e la Vernaccia…”. Massimo Castellani sgrana versi danteschi come fossero una preghiera. E non dev’essere così inusuale per un fiorentino, delegato dell’Associazione Italiana Sommelier a Firenze e ambasciatore del Chianti Classico.
Questi versi cosa sono, Castellani?

“Divina Commedia, Seconda Cantica, Canto 24, versi da 22 a 24. Nella sesta cornice del Purgatorio Dante incontra i golosi. Tra essi c’è Papa Martino IV, 189esimo successore di Pietro, asceso al Soglio pontificio nel 1281 e morto nel 1285. Facile immaginare come…”

Come morì Papa Martino IV?

“Furono la sua ghiottoneria, la sua ingordigia a portarlo nella tomba. L’ex tesoriere della cattedrale francese di Tours, diventata il Torso dantesco, era pazzo per le anguille. Le annegava nella Vernaccia e, quando erano ben impregnate di nettare di Bacco, le arrostiva. Ma nemmeno il Papa potè nulla contro gli eccessi di grassi alimentari accumulati da quella passione sfrenata per le anguille! Pensi che alla sua morte fu coniato quest’epitaffio: ‘Godano le anguille, perché qui giace morto colui che le scorticava quasi fossero ree di morte!’.

Almeno, così pare”.

Ma che c’entrano le anguille e la Vernaccia di Papa Martino con Dante?

“C’entrano eccome! Perché sono la più compiuta citazione enologica della Comedìa e rendono l’idea del panorama enologico della Toscana agli inizi del XIV secolo, quando Dante compose la sua opera somma”.

Quali vini si bevevano in Toscana ai tempi di Dante Alighieri?

“Certamente la Vernaccia di San Gimignano, già citata nei documenti gabellari del comune nel 1276. Dante in qualità di ambasciatore di Firenze aveva tenuto lì un famoso discorso l’8 maggio 1299 per incitare i sangimignanesi ad aderire alla Lega guelfa in Toscana”.

Il toscano per antonomasia che esalta un vino bianco! Dante bastian contrario fino in fondo?

“Attenzione: a quei tempi il vino bianco era assimilato ad ambienti socialmente nobili, mentre il rosso era più delle osterie. Ma non dobbiamo pensare al vino bianco come lo intendiamo e degustiamo oggi. La Vernaccia di Dante era più simile al vin santo, invecchiava nelle botti di legno e quindi acquisiva struttura. È certo però che già all’epoca la Toscana fosse terra di rosso, Sangiovese in primis”.

Ma era una Toscana enologica ancora di là da venire, no?

“Beh, in realtà già erano in embrione alcune grandi dinastie enologiche. Intanto Dante a Firenze conosceva l’Arte dei vinattieri, che si era costituita come corporazione autonoma dal 1288. Giovanni di Piero Antinori, tanto per citare un nome, vi aderisce nel 1385, qualche decennio dopo la morte del sommo poeta. Berto de’ Frescobaldi produceva vino dal 1308, quindi coevo di Dante. I Ricasoli sono già proprietari del castello di Brolio dal 1141. Nel 1398 c’è la famosa citazione della lettera di cambio “E de’ dare, a dì 16 diciembre, fiorini 3 soldi 26 denari 8 a Piero di Tino Riccio, per barili 6 di vino di Chianti ....li detti paghamo per lettera di Ser Lapo Mazzei” cioè il notaio Ser Lapo Mazzei, avo dell’omonima dinastia enologica e considerato il padre del Chianti Classico”.

Ma Dante che rapporto aveva con il vino?

“Era un moderato bevitore, cui un profondo sentimento religioso impediva gli eccessi. Infatti Ciacco, “uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai” come scrive Boccaccio, a Dante sta simpatico. Ma comunque lo mette tra i golosi del Terzo Cerchio dell’Inferno. La gola, il cedimento ai piaceri della tavola, per Dante sono un peccato mortale”.

Benchè esule, Dante è un fiorentino nel midollo?

“Dante Alighieri è il fiorentino per eccellenza. Il Dante politico è figlio della Firenze del suo tempo e delle sue roventi passioni. Con la Divina Commedia si toglie qualche sassolino dalla scarpa e colpisce i suoi nemici. Ma non viene mai meno la sua amarezza per l’esilio che lo tiene lontano dalla sua terra, cui aspira di tornare. Ancora oggi il Comune di Firenze fornisce a quello di Ravenna l’olio combustibile per la fiamma permanentemente accesa sulla tomba del sommo poeta”. In un certo senso, il “ghibellin fuggiasco”, come Ugo Foscolo definì Dante, ha trovato la sua solenne stabilità. Come eterno e straordinario contemporaneo degli italiani.

Il mondo di Dante: viaggio tra i misteri della Divina Commedia e i luoghi simbolo del Poeta d'Italia. La Repubblica il 12 marzo 2021. A settecento anni dalla sua morte, Dante Alighieri continua a essere uno dei simboli più conosciuti della cultura universale e la sua opera più importante, la Divina Commedia, è il secondo libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia. Ma la vita di Dante, per lunghi tratti, fu caratterizzata dall'amarezza e dalle difficoltà: esiliato da Firenze dopo essere stato condannato per baratteria nel 1302, fu costretto a un pellegrinaggio che lo portò a soggiornare alla corte di signori come Cangrande della Scala a Verona e Guido da Polenta a Ravenna. E proprio a Ravenna morì, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Viaggio alla scoperta dei luoghi simbolo del poeta che ha creato la lingua italiana: dal mistero dei suoi manoscritti al legame con i discendenti, dal dramma dell'esilio alla disputa sulle sue ossa, che per secoli ha diviso ravennati e fiorentini. Documentario di Antonio Nasso.

La Patria si è incarnata in Dante, intellettuale che unì l’Italia intera. Francesco Carlesi il 28 Marzo 2021 su  Cultura ed Identità su Il Giornale.it. Dante fu in tutto e per tutto un uomo del Medioevo: nacque a Firenze nel 1265 da una famiglia della piccola nobiltà cittadina, anche se l’appartenenza degli Alighieri all’aristocrazia è stata messa in dubbio da alcuni storici. Lo stesso Dante da giovane criticò il concetto di nobiltà, ritenendo che essa potesse avere senso solo in base alla virtù, non al sangue, come già aveva espresso il suo maestro Brunetto Latini.Successivamente, nella Commedia, rivendicò invece le sue radici nobili descrivendo le figure dei suoi avi nell’incontro con Farinata (Inferno, canto X), pur senza perdere una punta di ironia sul tema. Era il Dante che, costretto all’esilio, trovava ospitalità nelle più prestigiose corti della nobiltà italiana, dagli Scaligeri a Verona ai Da Polenta a Ravenna. Dal 1295, infatti, il fiorentino aveva intrapreso con convinzione la strada dell’impegno politico. Dopo anni di raffinato e “multiforme” poetare, segnato dai temi dell’amore e dell’itinerarium mentis in Deum, quell’afflato religioso che è la cifra stessa di quei secoli, egli si iscrisse a una corporazione, entrando nell’Arte dei Medici e Speziali (filosofia e scienze sociali erano intrinsecamente legate all’epoca). Il fiorentino divenne ben presto una figura di spicco della scena comunale e ricoprì cariche di prestigio, fino a essere eletto fra i Priori, la suprema magistratura cittadina. Firenze all’epoca era dominata dai Guelfi, i quali però erano divisi in due fazioni: Bianchi e Neri. Se i primi, per cui Dante parteggiava (pur da una posizione moderata e volta alla pacificazione), si battevano per la libertà della città, i secondi appoggiavano apertamente la politica di Bonifacio VIII, il quale mirava a imporre il dominio della Chiesa sulla Toscana. Nel 1301 questi ultimi riuscirono ad impadronirsi di Firenze, favoriti dal legato pontificio Carlo di Valois inviato con il pretesto di agire da “paciere” tra le due fazioni. Cominciò una serie di persecuzioni nei confronti dei Bianchi, a cui Dante sfuggì in quanto inviato a Roma come ambasciatore. Appreso di essere stato condannato con l’accusa di baratteria, cioè corruzione, non si presentò per discolparsi, venendo colpito da un’altra sentenza che lo condannava al rogo. Cominciava così l’esperienza dell’esilio. I suoi circa vent’anni lontano da Firenze gli offrirono l’occasione di osservare le lacerazioni delle guerre civili tra città italiane, il predominio del denaro e dello spirito affaristico nelle classi dirigenti della penisola e infine il triste stato di una Chiesa “mondanizzata” e corrotta, i cui membri assomigliavano a “lupi rapaci”. Si convinse che solo la presenza di un imperatore, supremo regolatore della vita civile, avrebbe potuto obbligare il papato a tornare alla sua missione spirituale. Il suo impegno politico si fondeva con l’etica, si basava su radici profonde che arrivavano fino alla Politica di Aristotele per volgersi al patriottismo e alla salvaguardia delle autonomie nel quadro di un ordine superiore. Ernesto Giacomo Parodi, in una bellissima opera collettanea del 1921 intitolata Dante e l’Italia (nella quale figura anche un contributo di Giovanni Gentile) scrisse che la “sua gelosa cura di salvaguardare, di fronte alla somma e alla sacra autorità dell’impero, le autonomie comunali, ci attesta di che sincero e sicuro amore per esse fosse caldo il cuore di questo esule, che pur ne aborriva le furiose lotte civili e consacrava le sue austere vigilie a scoprire un ordinamento del mondo, capace di conciliare insieme le due dee, da troppo tempo discordi, pace e libertà”. La sua vocazione profetica, talvolta pedantescamente moralista, sarà una delle spinte principali che daranno vita alla Commedia, la quale risentì ovviamente dei valori e delle esperienze del Poeta. Già il Convivio, che segnò il passaggio dal rarefatto mondo dello stilnovismo a quello del cantor rectitudinis (cantore della virtù), come lui stesso amava definirsi, traeva spunto dalla volontà di difendersi dalle accuse ingiuste mosse a suo carico dai concittadini che lo avevano esiliato. Conservatore, Dante si scagliò contro i ceti emergenti della nuova realtà mercantile, la “gente nova e i subiti guadagni”, che ai suoi occhi stavano distruggendo il passato feudale e cortese. L’opera, primo esempio di vera prosa volgare italiana, è importante anche perché rivolta apertamente non alle classi dirigenti «avide e corrotte» del tempo, ma alla “vera” nobiltà incarnata dagli uomini onesti, virtuosi e disinteressati. Il fine ultimo, che ritroviamo anche nel De Monarchia, era quello di una restaurazione dell’autorità imperiale che riportasse la pace, la giustizia, il rispetto della legge e i buoni costumi in un mondo corrotto e dilaniato dalle guerre civili. Questa idea di renovatio imperii (che lo portò a incontrare l’imperatore Arrigo VII verso cui nutriva forti speranze) e il suo avvicinamento agli esuli ghibellini nel tentativo di tornare a Firenze, indurranno Foscolo a definire Dante “il ghibellin fuggiasco”. Come ricorda ancora Baldi, l’idea del Poeta era che i rapporti tra imperatore e papa avrebbero dovuto armonizzarsi. Entrambi derivati da Dio, seguivano però due linee d’azione diverse: l’Impero aveva per fine la felicità dell’uomo in questa vita, la Chiesa invece il raggiungimento della felicità della beatitudine eterna. Una complementarietà espressa nell’idea dei “due soli”, che troviamo in una terzina del Purgatorio: “Soleva Roma che ‘l buon mondo feo/due soli aver, che l’una e l’altra strada/facean vedere, e del mondo e di Deo” (canto XVI, vv.106-108). La Commedia si configura dunque come un viaggio allegorico verso la redenzione, colmo di significati che hanno impegnato decine di studiosi illustri (come Vico, De Sanctis, Croce e Spitzer) e ancora continuano a farlo. Pur caratterizzata da toni cupi, pessimistici e apocalittici, nell’opera si respira anche libertà, sete di conoscenza e speranza di un riscatto per l’umanità. Questo capolavoro potente, intriso delle passioni e delle pulsioni spirituali, filosofiche e politiche di Dante e del suo tempo, non smette ancora oggi di colpire al cuore. La continua correlazione con un piano divino ce lo fa apparire così lontano, inafferrabile eppure così affascinante. La Commedia rappresenta uno dei passi più importanti per la costruzione dell’Italia, quella comunità di cui all’epoca di Dante esistevano solo le “membra” (rappresentate dagli intellettuali sparsi per la penisola, spiega il Vate nel De Vulgari eloquentia) e che nei secoli riuscì a trovare forma, anche grazie al fondamentale contributo di questo Poeta fiorentino. Non è un caso che Mazzini, protagonista del Risorgimento, vide proprio in Dante il padre e il faro dell’Italia: “La Patria s’è incarnata in Dante. La grande anima sua ha presentito l’Italia iniziatrice perenne di unità religiosa e sociale d’Europa: l’Italia angiolo di civiltà alle nazioni, l’Italia come un giorno vedremo”. E noi oggi, nani sulle spalle di giganti, sogniamo ancora di vederla.

Noi e Dante Alighieri, viaggio nell’Aldilà in venti tappe. Testo di ALDO CAZZULLO su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2021. Il più grande poeta dell’umanità, inventore dell’Italia, moriva 700 anni fa. Ma già prima immaginò di inoltrarsi nell’Oltretomba, la notte del Venerdì Santo, probabilmente il 25 marzo 1301. Ripercorriamo con una sequenza di video la discesa agli Inferi: un contributo al giorno, weekend esclusi, su Corriere.it. Il libro di Aldo Cazzullo, «A riveder le stelle», (Mondadori, 18 euro): 250 mila copie vendute

Moriva 700 anni fa Dante Alighieri. Con un’iniziativa speciale multimediale, il Corriere della Sera vuole condurre i lettori a ripercorrere la discesa agli Inferi del Sommo Poeta, con una sequenza di venti video: un contributo al giorno, weekend esclusi, su Corriere.it, a partire dal 19 marzo. Ecco la mappa completa del viaggio. «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita» è l’incipit del primo canto de l’Inferno ne La Divina Commedia.

1 - L’INIZIO. «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: il viaggio comincia così. La parola chiave è «nostra». Dante (a sinistra come lo dipinse Sandro Botticelli, nel 1498) ci dice subito che la storia parla di noi. Ci riguarda in quanto esseri umani, perché il viaggio all’Inferno è anche un viaggio interiore, sino ai confini di ciò che è in noi. E ci riguarda in quanto italiani. Dante parla di Italia fin dal primo canto. È lui a inventare l’espressione «Belpaese». Dante ci ha dato non soltanto una lingua, ma soprattutto un’idea di noi stessi. Per lui l’Italia non era uno Stato, ma appunto un’idea: un patrimonio di cultura e di bellezza.

2- DANTE E I GRANDI. Per Dante l’Italia aveva una missione: conciliare la classicità con la cristianità, la Roma dei Cesari con la Roma dei Papi. Da Dante l’idea di Italia arriva sino ai giorni nostri, attraverso Petrarca, il Rinascimento, il Risorgimento. Ugo Foscolo va a Firenze e si commuove a santa Croce davanti alla tomba di Vittorio Alfieri e scrive: «L’ossa fremono amor di patria».  Leopardi compone l’ode «al monumento a Dante che si prepara in Firenze». Manzoni va a sciacquare i panni in Arno. Machiavelli invece non amava Dante: lo accusava di aver denigrato la patria fiorentina; e di aver scritto troppe parolacce.

3 - «AHI SERVA ITALIA...» «Ahi serva Italia di dolore ostello nave sanza nocchiere in gran tempesta non donna di province, ma bordello…». Dante ama l’Italia ma è indignato con gli italiani, perché sono troppo divisi tra loro: guelfi e ghibellini, Bianchi e Neri, Montecchi e Capuleti… (Dante è anche il primo a scrivere di Montecchi e Capuleti, secoli prima di Shakespeare). Parlando di Firenze, scrive che solo i mediocri fanno politica, i capi e i governi cambiano di continuo, e una legge decisa a ottobre non arriva a metà novembre. Pare a volte il ritratto dell’Italia di oggi.

4 - DANTE E LE DONNE. Dante scrive che la specie umana supera tutto ciò che è sulla Terra grazie alla donna. È la donna che salva l’uomo, è Beatrice che salva Dante. Anzi, quando Dante si smarrisce nella selva oscura si mette in moto una catena di donne per salvarlo.Nel quadro di Rossetti, il Poeta è dietro l’angelo che bacia Beatrice morente. La Madonna va da santa Lucia – Dante era molto devoto a santa Lucia, protettrice della vista, perché da ragazzo aveva avuto una malattia agli occhi –, santa Lucia va da Beatrice che scende nell’Inferno per chiedere a Virgilio di assistere Dante; lei lo attenderà all’ingresso del Paradiso, per condurlo sin davanti al volto di Dio.

5 - CARON DIMONIO. Dante porta nell’Inferno cristiano figure della mitologia pagana: i centauri, Medusa, il Minotauro, Cerbero, Minosse, Gerione, e appunto Caronte, il traghettatore delle anime, che Michelangelo affrescherà nel suo Giudizio Universale nella Cappella Sistina. «Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo/ gridando: “Guai a voi, anime prave…”». L’apparizione di Caronte è grandiosa e terribile.«Caron dimonio, con occhi di bragia, loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s’adagia».

6 - PAOLO E FRANCESCA. Il personaggio più celebre della Divina Commedia è una donna, Francesca. Tutti ricordano il verso «Amor ch’a nullo amato amar perdona», che è finito pure nelle canzoni di Venditti e Jovanotti. Chissà se davvero l’amore non consente a nessuno che sia amato di non riamare a sua volta. Ma non è meno importante un altro verso: «Caina attende chi a vita ci spense». L’assassino di Paolo e Francesca, Gianciotto Malatesta, il colpevole del più famoso femminicidio nella storia delle letteratura, è atteso nella Caina, il luogo più profondo di tutto l’Inferno, dove sono puniti i traditori dei parenti. Ecco come finiranno i violenti contro le donne.

7 - I GOLOSI. I golosi sono battuti da una pioggia «etterna, maladetta, fredda e greve», e scuoiati da Cerbero. Tra loro Dante incontra un dannato, Ciacco che in fiorentino vuol dire maiale. Per la prima volta gli viene predetto l’esilio, che nel Paradiso descriverà proprio con un’immagine che evoca il cibo: «Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e com’è duro calle/ lo scendere e il salir per l’altrui scale».

8 - DANTE E GIOTTO. Dante e Giotto forse si conoscevano, Dante cita Giotto nella Divina Commedia, Giotto affresca il volto di Dante dopo la sua morte nel Bargello, che era allora il Palazzo comunale di Firenze. Qualcuno sostiene che Dante quando scriveva l’Inferno sia andato a trovare Giotto a Padova mentre affrescava il Giudizio Universale nella cappella degli Scrovegni; e chissà chi tra i due grandi ha ispirato l’altro.

9 - FARINATA DEGLI UBERTI. «Io avea già il mio viso nel suo fitto/ ed el s’ergeva col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto». Farinata era un nemico degli antenati di Dante, comandava i ghibellini fiorentini nella battaglia di Montaperti, dove i guelfi furono sconfitti e massacrati. Però fu Farinata a salvare la città, che gli altri capi ghibellini volevano radere al suolo. Per questo Dante gli rende omaggio: il petto e la fronte sono le parti del corpo che meglio esprimono la dignità umana.

10 - IL VIAGGIO IN ITALIA. La Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive la Sicilia, che pure non ha mai visto: la chiama la bella Trinacria, parla dell’Etna e di Scilla e Cariddi. Evoca la «fortunata terra di Puglia» e la Lombardia. Racconta la Toscana e la Romagna. Descrive il lago di Garda e l’Arsenale di Venezia. E cita il golfo del Quarnaro, «che Italia chiude e i suoi termini bagna»: un verso citato da generazioni di irredentisti, e che ci ricorda il dramma degli esuli istriani, giuliani, dalmati costretti a lasciare la loro terra.

11 - I RUFFIANI E MEDEA. La sensibilità di Dante verso le donne è tale che, per mettere in scena Achille, presenta il più grande eroe omerico come l’uomo che fece soffrire Deidamia, abbandonata per andare alla guerra di Troia. E tra i ruffiani, che approfittarono della bellezza femminile, mette un altro eroe, Giasone, reo di aver sedotto e abbandonato la principessa Isifile, lasciandola «gravida, soletta»; «e anche di Medea si fa vendetta». All’Inferno non c’è Medea, la cattiva per antonomasia; c’è l’uomo che l’ha tradita.

12 - BRUNETTO LATINI. «Siete voi qui, ser Brunetto?». Brunetto Latini, il suo maestro, è l’unica figura familiare con cui Dante parla nell’Inferno, ma è anche l’unico dannato cui dà del voi e non del tu, e che chiama «ser», signore; tale è la reverenza verso la «cara e buona immagine paterna/ di voi, quando nel mondo ad ora ad ora/ m’insegnavate come l’uom s’etterna». Brunetto è tra i «sodomiti»; Dante è pur sempre un uomo del suo tempo; ma Virgilio lo avvisa che «qui si conviene essere cortesi», e infatti Dante risparmia loro le torture genitali frequenti negli affreschi del tempo. E va ricordato che alcuni omosessuali sono in Purgatorio, e quindi salvi.

13 - PIER DELLE VIGNE. Nella selva dei suicidi – «uomini fummo, e or siam fatti sterpi» – Dante incontra il consigliere di Federico II, colui che teneva le chiavi del cuore dell’imperatore: Pier delle Vigne. Accusato ingiustamente di tradimento, fu acciecato e chiuso in carcere, dove si suicidò, forse sfracellandosi la testa contro il muro. Dante si rispecchia in lui, perché forse durante l’esilio ebbe la tentazione di togliersi la vita; ma seppe respingerla.

14 - I PAPI ALL’INFERNO. A riprova del suo straordinario coraggio intellettuale, Dante mette quattro Papi del tempo all’Inferno. Celestino V, che si dimise. Bonifacio VIII, il suo grande nemico. E anche Niccolò III e Clemente V, «simoniaci», cioè dediti al commercio delle cose sacre. Per Dante il Papa non doveva essere un sovrano assoluto, ma un’autorità spirituale; proprio quel che ora è diventato. Altri due Pontefici sono in Purgatorio: in particolare, Martino IV è tra i golosi, perché ghiotto di anguille e vernaccia.

15 - DANTE E GLI USURAI. Per Dante gli usurai sono colpevoli di violenza contro Dio. La natura è figlia di Dio; l’arte degli uomini imita la natura, quindi può dirsi nipote di Dio. Gli uomini traggono il pane dalla natura, o dall’arte. Ma quelli che fanno soldi con altri soldi, sulla pelle della povera gente, meritano l’Inferno. Profeta oltre che poeta, Dante aveva già intuito gli eccessi della finanza; del resto Firenze era la Manhattan del tempo, aveva più abitanti di Parigi, e aveva già le banche.

16 - DANTE E I DIAVOLI. Quando inventa i nomi dei diavoli, Dante dà prova di una bravura ai limiti del virtuosismo, tipo Maradona che palleggia scalzo con le arance. Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto sannuto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante pazzo… Sono nomi da commedia dell’arte. Il diavolo può essere affascinante come Mefistofele, terrificante come quello della saga dell’Esorcista, oppure buffo. I diavoli di Dante sono così: grotteschi. Il male autentico è nell’uomo. E l’Inferno può essere dentro di noi.

17 - ULISSE. Omero non dice come muore Ulisse. Dante immagina che non sia tornato a Itaca, ma abbia ripreso il mare, oltre le colonne d’Ercole. L’Ulisse dantesco è il primo uomo moderno; perché la modernità non nasce dalla saggezza, bensì dall’ignoranza, o meglio dalla consapevolezza di essere ignoranti. Ulisse è l’eroe della conoscenza. È l’uomo che sa di non sapere, e quindi si mette in viaggio, oltre l’orizzonte, «di retro al sol», nel «mondo sanza gente». Farà naufragio. Ma poco più di un secolo e mezzo dopo la morte di Dante, un altro grande italiano prenderà il mare sulla rotta dell’Ulisse dantesco, oltre le colonne d’Ercole, cambiando la storia.

18 - IL CONTE UGOLINO. In fondo all’Inferno Dante incontra il conte Ugolino (accanto, in una scultura) che rode il cranio dell’arcivescovo Ruggeri. Signore di Pisa, viene chiuso in una torre con «quattro figliuoli», in realtà due figli e due nipoti. Una notte fa un sogno premonitore: il suo nemico guida una battuta di caccia; le prede sono «il lupo e i lupicini», Ugolino e i suoi ragazzi. Il prigioniero si sveglia di soprassalto e sente colpi di martello: stanno murando la porta della torre. Il conte vedrà cadere uno dopo l’altro i suoi 4 figliuoli, e forse si ciberà delle loro carni. Dante ripensa ai suoi 4 figli: anche loro hanno patito la fame nell’esilio.«La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a’ capelli del capo ch’elli avea di retro guasto» (Inferno, canto XXXIII)

19 - LUCIFERO. Da lontano pare un mulino a vento, difeso da una cerchia di torri. In realtà, le torri sono giganti, che parlano una lingua misteriosa. E il mulino è Lucifero: gigantesco, sbatte le ali da pipistrello, formando così il ghiaccio che ricopre le anime dei traditori. Attorno a lui volano gli angeli ribelli. Con tre bocche Lucifero maciulla i tre traditori supremi: Bruto e Cassio, gli assassini di Cesare; e Giuda, il traditore di Gesù. Dante e Virgilio si arrampicano sul pelo di Lucifero, si capovolgono, trovano un pertugio che attraverso il centro della Terra porta fuori dall’Inferno. È una scena tra il romanzo di Verne e le spedizioni spaziali. L’aria è fresca, si rivedono le stelle, mentre sta per arrivare la luce dell’alba. Di fronte c’è la montagna del Purgatorio.

20 - LA PREGHIERA ALLA VERGINE. Beatrice accompagna Dante fin davanti al volto di Dio. L’ultimo canto del Paradiso, che conclude la Divina Commedia, si apre con la più bella preghiera mai scritta: «Vergine madre, figlia del tuo figlio…». Mai nessun poeta ha avuto parole così dolci per la donna, tramite tra uomo e Dio, di più, capace di dare carne e vita a Dio e farlo vivere tra noi, sulla Terra. Non a caso Borges diceva che «la Divina Commedia è il più bel libro scritto dagli uomini»

IN VIAGGIO CON DANTE DI ALDO CAZZULLO.

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 22 marzo 2021: in viaggio con Dante nell’Aldilà, la prima puntata: «Nel mezzo del cammin...». Aldo Cazzullo ci conduce in venti video a ripercorrere la discesa agli Inferi del Sommo Poeta: un contributo al giorno, weekend esclusi, su Corriere.it. Su «7» in edicola il 19 marzo abbiamo presentato la mappa completa del viaggio. Il primo video racconta «L’inizio»: «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Il viaggio comincia così — scrive Cazzullo — . La parola chiave è «nostra». Dante ci dice subito che la storia parla di noi. Ci riguarda in quanto esseri umani, perché il viaggio all’Inferno è anche un viaggio interiore, sino ai confini di ciò che è in noi. E ci riguarda in quanto italiani. Dante parla di Italia fin dal primo canto. È lui a inventare l’espressione «Belpaese». Dante ci ha dato non soltanto una lingua, ma soprattutto un’idea di noi stessi. Per lui l’Italia non era uno Stato, ma appunto un’idea: un patrimonio di cultura e di bellezza.

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2021:Dante fonda l’Italia (e si arrabbia con tutti). La seconda puntata del viaggio nell’Aldilà. Aldo Cazzullo ci conduce in venti video a ripercorrere la discesa agli Inferi del Sommo Poeta: un contributo al giorno, weekend esclusi, su Corriere.it. Su «7» abbiamo presentato la mappa completa del viaggio. Il secondo video che potete vedere qui racconta Dante che ama il suo Paese, ma questo non gli impedisce di mostrarsi indignato con gli italiani, perché sono troppo divisi tra loro: guelfi e ghibellini, Bianchi e Neri, Montecchi e Capuleti… E questa è una curiosità perché Dante è anche il primo a scrivere di Montecchi e Capuleti, secoli prima di Shakespeare. Quanto alla storia della guerra intestina a Firenze, Dante — costretto all’esilio perché esponente degli sconfitti ghibellini (i sostenitori dell’imperatore) — parlando della propria città scrive che solo i mediocri fanno politica, i capi e i governi cambiano di continuo, e una legge decisa a ottobre non arriva a metà novembre. Pare a volte il ritratto dell’Italia di oggi.

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 24 marzo 2021:Dante e i grandi poeti e scrittori. La terza puntata del viaggio nell’Aldilà. Aldo Cazzullo ci conduce in venti video a ripercorrere la discesa agli Inferi del Sommo Poeta: un contributo al giorno, weekend esclusi, su Corriere.it. Su «7» abbiamo presentato la mappa completa del viaggio. Il terzo video che potete vedere qui parte dalla constatazione che per Dante l’Italia aveva una missione: conciliare la classicità con la cristianità. E da una considerazione. Ci sono nazioni nate da un matrimonio dinastico, come la Spagna. Altre da un divorzio: Enrico VIII si libera contemporaneamente della moglie e del papa e nasce l’Inghilterra. Ci sono nazioni nate da una guerra: Giovanna d’Arco aiuta un re fragile a cacciare gli inglesi invasori e nasce la Francia. Ma l’Italia no: «L’Italia nasce invece dalla bellezza e dalla cultura — spiega Cazzullo —. Dagli affreschi di Giotto e dai versi di Dante». Quest’idea dell’Italia arriva da Dante fino ai giorni nostri attraverso i grandi poeti, i grandi scrittori. Ugo Foscolo va a Firenze e si commuove a Santa Croce davanti alla tomba di Vittorio Alfieri e scrive: «E l’ossa fremono amor di patria». Leopardi compone l’ode «al monumento a Dante che si prepara in Firenze». Manzoni va a sciacquare i panni in Arno. Ippolito Nievo scrive di essere nato veneziano ma che morirà italiano. Ma non tutti i grandi scrittori hanno amato il Sommo Poeta: Machiavelli non amava Dante; lo accusava di aver denigrato la patria fiorentina; di aver scritto troppe parolacce. Anche un altro grande toscano, Petrarca, non amava Dante.

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2021:Dante e la concezione modernissima della donna: è lei che salva l’uomo. L’incontro con Beatrice. Quarta puntata. Aldo Cazzullo ci conduce in venti video a ripercorrere la discesa agli Inferi del Sommo Poeta: un contributo al giorno, weekend esclusi, su Corriere.it. Su «7» abbiamo presentato la mappa completa del viaggio. Il quarto video che potete vedere qui racconta la figura della donna raccontata da Dante nel secondo canto dell’Inferno. Dante ha una concezione modernissima della donna: «In un tempo in cui si discuteva se la donna avesse o no l’anima — spiega Cazzullo — Dante spiega che la specie umana supera ogni cosa contenuta nel cerchio della Luna (cioè sulla terra) grazie alla donna». E’ la donna che salva l’uomo, è Beatrice che salva Dante. Anzi, quando Dante si smarrisce nella selva oscura si mette in moto una catena di donne per salvarlo. La Madonna va da santa Lucia – Dante era molto devoto a santa Lucia, protettrice della vista, perché da ragazzo aveva avuto una malattia agli occhi –, santa Lucia va da Beatrice che scende nell’Inferno per chiedere a Virgilio di assistere Dante; lei lo attenderà all’ingresso del Paradiso, per condurlo sin davanti al volto di Dio.

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 26 marzo 2021:Dante e il mito pagano: Caronte traghettatore d’anime. Quinta puntata. Beatrice è scesa dal Paradiso per chiedere a Virgilio di accompagnare Dante nell’Aldilà. E Dante si trova davanti a Caronte: «Caron dimonio con occhi di bragia, loro accennando, tutte le raccoglie; batte col remo qualunque s’adagia». Aldo Cazzullo ci conduce a ripercorrere la discesa agli Inferi del Sommo Poeta: in venti video, un contributo al giorno, weekend esclusi, su Corriere.it. Su «7» abbiamo presentato la mappa completa del viaggio. Il quinto video che vedete sottolinea come Dante porti nell’Inferno cristiano figure della mitologia pagana: i centauri, Medusa, il Minotauro, Cerbero, Minosse, Gerione, e appunto Caronte, il traghettatore delle anime. Grazie a Dante Caron dimonio entra nell’immaginario cristiano, tant’è che poi — spiega Cazzullo — Michelangelo lo raffigurerà nel suo Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Quando Caronte dice a Dante «tu non sei morto, vattene», interviene Virgilio e gli dice: «Caron non ti crucciare, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». Dante paragona poi la folla di anime alle foglie che si staccano dagli alberi d’autunno: un verso che torna in una bellissima poesia di Ungaretti. «Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie»

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 27 marzo 2021:L’Inferno di Dante in 3D, come Orodruin nel Signore degli Anelli. Ricorda molto la montagna di Orudruin, la casa del malefico Sauron, l’Inferno dantesco raffigurato nella prima rappresentazione in realtà virtuale della Divina Commedia. L’idea di trasporre il capolavoro di Dante Alighieri in 3D è venuta ai fondatori di ETT, start-up dell’industria digitale creativa. Si tratta di «un cortometraggio immersivo, accompagnato dalla voce dell’attore Francesco Pannofino», che verrà messo a disposizione di musei, scuole, industria cinematografica-televisiva e piattaforme Vr. Sette e Corriere.it ve ne offrono un’anticipazione, con alcune terzine montate apposta nella preview di questo video. Il progetto è stato lanciato a 700 anni dalla morte di Dante, in occasione del «Dantedì» e «rende possibile varcare le soglie dell’Inferno e vivere alcuni momenti significativi di una delle opere letterarie più tradotte al mondo». La produzione riguarda, per ora, soltanto l’Inferno ed è stata realizzata da ETT in associazione con West 46th Films S.r.l. Regia e sceneggiatura sono di Federico Basso. Alessandro Parrello, invece, ha curato la regia e la sceneggiatura delle riprese live. Punto di forza della produzione è «l’integrazione di computer grafica e riprese cinematografiche in Realtà Virtuale, il cui potenziale è valorizzato dai personaggi e dalle ambientazioni del racconto». Lo spettatore ha, infatti, la possibilità di riconoscere Dante smarrito nella selva oscura ai confini dell’Inferno, per poi «assumerne letteralmente lo sguardo e diventare il Poeta».

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 29 marzo 2021:Dante con Paolo e Francesca: in fondo all’Inferno chi commette femminicidio. Sesta puntata. Nel V Canto dell’Inferno, Dante giunge con Virgilio nel secondo girone, dove sono puniti i Lussuriosi. È il tema del sesto video con cui Aldo Cazzullo ci conduce a ripercorrere la discesa agli Inferi. Il progetto, su Corriere.it, prevede 20 video, un contributo al giorno, weekend esclusi. Oltrepassato Minosse — gran conoscitor de le peccata — il Sommo Poeta incontra per la prima volta dei veri dannati puniti nel loro cerchio. Due anime escono dalla schiera dei morti per amore. Sono Paolo e Francesca, ed è lei a parlare (mentre lui si limita a piangere): «Amor, ch’ al cor gentil ratto s’apprende, Prese costui della bella persona Che mi fu tolta e il modo ancor m’offende. Amor, che a nullo amato amar perdona, Mi prese del costui piacer sì forte Che, come vedi, ancor non m’abbandona». Narra del loro infelice amore clandestino (lui era il fratello dell’uomo che Francesca aveva sposato per un patto tra le due potenti famiglie di Ravenna e Rimini) e ricorda come: «Amor condusse noi a una morte Caina attende chi a vita ci spense». L’ultimo verso è meno noto ma importante, spiega Cazzullo, perché l’assassino, il responsabile del più famoso femminicidio nella storia della letteratura finirà nella «Caina», il punto più brutto di tutto l’Inferno, «dove sono puniti i traditori dei parenti, Caino appunto». E secondo Dante in fondo all’Inferno c’è il ghiaccio, simbolo dell’odio e della disperazione. Ed è lì che vanno a finire coloro che fanno del male alle donne: «Perché la violenza contro le donne non è un problema delle donne soltanto — avverte Cazzullo — è un problema di noi uomini. Siamo noi uomini che dobbiamo cambiare e far cambiare i violenti». Dante nella sua modernità «si era posto anche questo problema: punire coloro che fanno del male alle donne».

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 30 marzo 2021:Dante scopre, tra Cerbero e i golosi, il suo destino di futuro esule - La settima puntata. Dante si risveglia dopo lo svenimento al termine del colloquio con Paolo e Francesca («al tornar de la mente che si chiuse») e si rende conto di essere giunto nel terzo cerchio, girone dei golosi, tra «novi tormenti e novi tormentati». Circondato da urla e lamenti Dante lo percorre. È il VI canto dell’Inferno, al cui centro c’è il tema politico delle lotte a Firenze. Ed è il tema del settimo video con cui Aldo Cazzullo ci conduce a ripercorrere la discesa agli Inferi. I golosi sono battuti da una pioggia «etterna, maladetta, fredda e greve» — mista ad acqua sporca e neve —, e Cerbero, mostruoso cane a tre teste, graffia e fa a brandelli con zampe artigliate i dannati. Tra loro Dante incontra un personaggio noto: Ciacco (che in fiorentino vuol dire maiale). Il Poeta gli chiede tre cose: quale sarà l’esito delle lotte politiche a Firenze (risposta: le fazioni opposte si scontreranno violentemente «venendo al sangue»), se vi sono cittadini giusti (sono solo due, ma nessuno li ascolta), per quali motivi continuano le discordie intestine (per superbia, invidia ed avarizia, risponde Ciacco). Per la prima volta gli viene predetto l’esilio, che nel Paradiso descriverà proprio con un’immagine che evoca il cibo: «Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e com’è duro calle/ lo scendere e il salir per l’altrui scale».

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2021:Dante, Giotto e il disegno dell’Inferno: l’origine di una iconografia. Ottava puntata. Il racconto dell’Inferno prosegue nel cortile del Bargello, lo stesso dove era stato condannato all’esilio; lo stesso in cui dopo la sua morte il più grande pittore dell’epoca lo avrebbe affrescato. Forse Dante e Giotto si conoscevano. Nella Divina Commedia, Dante Alighieri cita Giotto dicendo che aveva superato in bravura e fama il maestro Cimabue. E Giotto di Bondone affresca il volto del Sommo Poeta dopo la sua morte nel Bargello, che era allora il Palazzo comunale di Firenze. Qualcuno sostiene che Dante quando scriveva l’Inferno sia andato a trovare Giotto a Padova mentre affrescava il Giudizio Universale nella cappella degli Scrovegni, dove c’è la rappresentazione dell’Inferno. E chissà chi tra i due grandi ha ispirato l’altro, sottolinea Aldo Cazzullo in questo ottavo video della serie in cui ci conduce a ripercorrere il suo viaggio nell’Aldilà. L’Italia che nasce con Dante e con Giotto è un incontro del bello; è una matrice da cui nascono stili , è il software del mondo, il luogo in cui si pensava il mondo e le maniere di raffigurarlo. Non è e non sarà mai un Paese qualunque. «E nascere in Italia non è , come tendiamo a pensare, una sfortuna — avverte Cazzullo —. Piuttosto è un’opportunità ed è una responsabilità».

Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'1 aprile 2021: Dante, Farinata e la seconda profezia sull’esilio - Nona puntata. Siamo nell’Inferno, al canto X Dante cammina tra i sepolcri degli eresiarchi. E all’improvviso una voce da una delle tombe lo chiama. Il Poeta si volta rassicurato da Virgilio e vede il grande condottiero Farinata: «Io avea già il mio viso nel suo fitto/ ed el s’ergeva col petto e con la fronte/ com’avesse l’inferno a gran dispitto». Farinata degli Uberti era un nemico degli antenati di Dante, perché comandava i fuoriusciti ghibellini fiorentini nella battaglia di Montaperti, dove i guelfi (la parte cui Dante apparteneva anche se all’epoca non era ancora nato) furono sconfitti e massacrati: 10 mila morti in un giorno. Però fu Farinata a salvare la città di Firenze, che gli altri capi ghibellini volevano radere al suolo. Per questo Dante gli rende omaggio: «Il petto e la fronte sono le parti del corpo dell’uomo che meglio esprimono la dignità umana e il valore», spiega Aldo Cazzullo in questo nono video della serie in cui ci conduce a ripercorrere il suo viaggio nell’Aldilà (il progetto, su Corriere.it, prevede 20 video, un contributo al giorno, weekend esclusi; su «7» abbiamo presentato la mappa completa del viaggio, leggi qui). Parlando dei propri avi esuli, il dannato Farinata esprime la seconda profezia sull’allontanamento di Dante da Firenze: non passeranno più di 4 anni /50 lune) e accadrà che anche Dante saprà quanto pesa non poter tornare nella propria città: «Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell’arte pesa» (ndr. l’arte di vivere in esilio sperimentata dagli avi di Farinata stesso).

Dante e il verso sul Quarnaro che isperò migliaia di irredentisti - Decima puntata. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 2 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. Tra le terzine della Divina Commedia la citazione del golfo «che Italia chiude e i suoi termini bagna» - Aldo Cazzullo /CorriereTv. La Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive l’Italia, anche i luoghi dove non è mai stato: parla della Sicilia, che pure non ha mai visto; la chiama la bella Trinacria, parla dell’Etna e di Scilla e Cariddi. Evoca la «fortunata terra di Puglia» e la Lombardia. Racconta la Toscana e la Romagna, spiega Aldo Cazzullo in questo decimo video della serie in cui ci conduce a ripercorrere il suo viaggio nell’Aldilà. Dante descrive la Roma del Giubileo del 1300 e poi il lago di Garda (con le Dolomiti che separano il mondo tedesco dal mondo latino), Mantova - la città di Virgilio - e l’Arsenale di Venezia, che al suo tempo era la più grande fabbrica d’Europa. E cita il golfo del Quarnaro, «che Italia chiude e i suoi termini bagna»: un verso «citato da generazioni di irredentisti — ricorda Cazzullo —, che si battevano perché quelle terre diventassero italiane (com’erano già di lingua, di cuore), e che ci ricorda il dramma degli esuli istriani, giuliani, dalmati costretti a lasciare la loro terra».

Dante contro seduttori e ruffiani che ingannano le donne - Undicesima puntata. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. All’Inferno gli uomini che hanno sedotto e abbandonato: non c’è Medea, ma colui che la tradì - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Si era già parlato della grande modernità di Dante nel pensiero verso le donne. Nella seconda puntata, avevamo sottolineato che «è la donna che salva l’uomo, la donna è il capolavoro di Dio». In questo undicesimo video — della serie in cui ci fa ripercorrere il viaggio nell’Aldilà. —, Aldo Cazzullo racconta ancora la sensibilità del Sommo Poeta verso le donne: «tale che, per mettere in scena Achille, presenta il più grande eroe omerico come l’uomo che fece soffrire Deidamia, abbandonata per andare alla guerra di Troia». Siamo nella prima parte del Canto XVIII dell’Inferno, dove Dante incontra seduttori e ruffiani: la loro pena consiste nel camminare nudi in direzioni parallele e opposte lungo la Bolgia (la prima dell’VIII Cerchio), inseguiti e straziati da demoni armati di fruste. Tra costoro — tra i ruffiani che approfittarono della bellezza femminile — Dante include un altro eroe: Giasone, reo di aver sedotto e abbandonato la principessa Isifile, lasciandola «gravida, soletta»; «e anche di Medea si fa vendetta». All’Inferno non c’è Medea, la cattiva per antonomasia; c’è l’uomo che l’ha tradita.

Dante e il maestro finito all’Inferno: «Siete voi qui, ser Brunetto?» - Dodicesima puntata. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 6 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. L’Inferno torna ad essere autobiografia quando incontra il suo maestro - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Dante giunge, dopo aver lasciato la selva dei suicidi del XIII canto, in un grande deserto infuocato dove vengono puniti i violenti, i bestemmiatori, i sodomiti e gli usurai. Qui trova Brunetto Latini, il suo maestro: l’unica figura familiare con cui il Sommo Poeta parla nell’Inferno, ma anche l’unico dannato cui dà del voi e non del tu. Lo chiama «ser», signore: «Siete voi qui, ser Brunetto?». Tale è la reverenza verso la «cara e buona immagine paterna/ di voi, quando nel mondo ad ora ad ora/ m’insegnavate come l’uom s’etterna». C’è rispetto perché Brunetto — che fu un uomo politico e un letterato della Firenze del XIII secolo — era stato un suo modello in tema di implicazioni morali della vita politica. Il colloquio tra Dante e Brunetto sfocia in polemica contro la corruzione della città natia, Firenze. — ci fa trovare Brunetto tra i «sodomiti»; ma Virgilio lo avvisa che «qui si conviene essere cortesi», e infatti Dante risparmia loro le torture genitali frequenti negli affreschi del tempo. E va ricordato che alcuni omosessuali sono in Purgatorio, e quindi salvi. Nel suo racconto i sodomiti all’Inferno vengono costretti a camminare nella sabbia infuocata, sono anime costantemente investite da una pioggia di fuoco.

Dante, le Arpie e il suicida Pier delle Vigne - Tredicesima puntata. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. Tra i suicidi, Dante incontra il consigliere di Federico II, accusato ingiustamente di tradimento - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Dante, entrato nel II girone del VII Cerchio, giunge nella selva dei suicidi: «Uomini fummo, e or siam fatti sterpi». E’ una selva spaventosa, in cui il fogliame è oscuro, i rami sono contorti e al posto dei frutti ci sono spine velenose. Qui sono puniti coloro che si liberarono «della paura della morte, ma anche del proprio corpo e per contrappasso sono trasformati in alberi». Su questo paesaggio desolato volano le Arpie: «Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno». Virgilio invita Dante a spezzare un ramo, e da quel ramo esce sangue — racconta Aldo Cazzullo nel tredicesimo video di questo viaggio nell’Aldilà —: il ramo che il Sommo Poeta ha spezzato è cio che resta del consigliere di Federico II, colui che teneva le chiavi del cuore dell’imperatore, Pier delle Vigne. «Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor de Federigo e che le volsi serrando e disserrando», dice a Dante. Accusato ingiustamente di tradimento, Pier delle Vigne fu accecato e chiuso in carcere, dove si suicidò, forse sfracellandosi la testa contro il muro. Dante si rispecchia in lui, ne prende le difese (e anche grazie alla Divina Commedia l’ex consigliere sarà considerato nel tempo innocente), perché forse durante l’esilio ebbe la tentazione di togliersi la vita; ma seppe respingerla.

Dante, i papi simoniaci e la profezia su Bonifacio VIII: andrà all’Inferno - Quattordicesima puntata. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. La sua invettiva contro i pontefici è durissima: «Fatto v’avete dio d’oro e d’argento» - Aldo Cazzullo /CorriereTv. A riprova del suo straordinario coraggio intellettuale, Dante mette quattro Papi del suo tempo all’Inferno. Celestino V, che si dimise. Bonifacio VIII, il suo grande nemico. E anche Niccolò III e Clemente V, «simoniaci», cioè dediti al commercio delle cose sacre. «Per Dante il Papa non doveva essere un sovrano assoluto, ma un’autorità spirituale; proprio quel che ora è diventato», spiega Aldo Cazzullo nel quattordicesimo video di questo viaggio nell’Aldilà. Siamo al Canto XIX dell’Inferno, e ci troviamo nella terza bolgia dell’Ottavo cerchio: qui sono puniti i simoniaci. «... e voi rapaci per oro e per argento avolterate, or convien che per voi suoni la tromba, però che ne la terza bolgia state». Tra le fosse in cui i dannati giacciono a testa in giù, il Sommo Poeta è attratto da quella in cui uno di loro scalcia più degli altri. Virgilio lo accompagna nella discesa in quella che scopriamo essere la fossa riservata ai papi. E qui il Poeta parla con Niccolò III che inizialmente crede — essendo i dannati in grado di comprendere il futuro — che lui sia un nuovo arrivato: papa Bonifacio. «Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio?”». Dante risponde di non esser lui, Niccolò si presenta, ed esprime una profezia sul futuro ingresso nell’Inferno di Bonifacio e di papa Clemente V. A questo punto il Poeta lancia la sua invettiva contro i papi simoniaci: «Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; e che altro è da voi a l’idolatre, se non ch’elli uno e voi ne orate cento?». Dante sostiene che Bonifacio VIII è talmente malvagio da provocare la dannazione di Guido da Montefeltro, grande condottiero del tempo, che si era convertito diventando un frate francescano. Ma fu tentato dal papa e diede un consiglio per aiutarlo a sconfiggerne i nemici. Altri due Pontefici sono in Purgatorio: in particolare, Martino IV è tra i golosi, perché ghiotto di anguille e vernaccia.

Dante, gli usurai e gli eccessi della finanza nella Firenze che fu Manhattan - Quindicesima puntata. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 9 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. Per il Poeta, quelli che fanno soldi con altri soldi, sulla pelle della povera gente, meritano l’Inferno - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Superato l’accesso al terzo girone, nel VII Cerchio dell’Inferno, Dante si ritrova tra i dannati puniti perché furono violenti contro Dio . «E per Dante anche gli usurai sono colpevoli di violenza contro Dio. La natura è figlia di Dio; l’arte degli uomini imita la natura, quindi può dirsi nipote di Dio», spiega Aldo Cazzullo in questa quindicesima puntata del viaggio nella Divina Commedia. «Gli uomini traggono il pane dalla natura, o dall’arte. Ma quelli che fanno soldi con altri soldi, sulla pelle della povera gente, meritano l’Inferno». E qui tra i condannati a star seduti sulla sabbia arroventata sotto una pioggia infuocata, Dante incontra Reginaldo Scrovegni, rappresentante di una nota e antica famiglia padovana: un usuraio così ricco che il figlio, Arrico, potè pagare (per espiare le colpe del padre) la costruzione della nota Cappella degli Scrovegni, poi affrescata da Giotto. Ma tra gli usurai, il Poeta incontra anche alcuni fiorentini: ormai è chiaro che il Poeta mette all’Inferno i tiranni del suo tempo, e accanto a questi gli usurai come i Gianfigliazzi e gli Obriachi. «Profeta oltre che poeta, Dante è molto moderno anche in questo: perché si pone il problema del rapporto tra l’economia produttiva (il lavoro) e la finanza. Questo problema del divorzio tra ricchezza e lavoro lo aveva già intuito. E aveva già intuito gli eccessi della finanza — sottolinea Cazzullo —. Era già vero al suo tempo, quando Firenze era la Manhattan dell’epoca, aveva più abitanti di Parigi, c’era già l’emblema del sistema finanziario: le banche. Ed è a maggior ragione vero, più vero ancora, oggi».

Dante tra i diavoli: l’inferno può essere dentro di noi - Sedicesima puntata. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 12/4/2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. Nella quinta bolgia il Poeta incontra Filippo Adimari e lo apostrofa: «Spirito maledetto» - Aldo Cazzullo /CorriereTv.  «Quando inventa i nomi dei diavoli, Dante dà prova di una bravura ai limiti del virtuosismo, tipo Maradona che palleggia scalzo con le arance», sottolinea Aldo Cazuzllo nell’introdurre il sedicesimo video della serie dedicata al viaggio nella Divina Commedia. Malacoda, Scarmiglione, Alichino, Calcabrina, Cagnazzo, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto sannuto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante pazzo… Sono nomi da commedia dell’arte. «Il diavolo può essere affascinante come Mefistofele, terrificante come quello della saga dell’Esorcista, oppure buffo. I diavoli di Dante sono così: grotteschi — continua Cazzullo —. Il male autentico è nell’uomo. E l’Inferno può essere dentro di noi. L’uomo può essere inferno per un altro uomo». Siamo nella quinta bolgia dell’VIII cerchio (canto XXI), custodita appunto dai diavoli. Qui vengono puniti i barattieri, i corrotti, dannati invischiati nella pece bollente. Una decina tra i diavoli che ubbidiscono a Malacoda, demone a capo dei Malebranche, scortano dante e Virgilio fino al ponte di roccia che conduce nell’altra bolgia. «In realtà i diavoli di Dante non sono così spaventosi... i veri cattivi sono i dannati e ce n’è uno in particolare con cui Dante è spietato: Filippo Argenti, che si chiamava in realtà Filippo Adimari (ma girava per Firenze a Cavallo con gli speroni d’argento) ed era della fazione avversa a quella del Poeta; lo aveva anche schiaffeggiato». Furono gli Adimari a confiscare tutti beni della famiglia Alighieri quando Dante fu esiliato. Quando Dante lo trova nella palude stigia, lo chiama «spirito maledetto» e gli dice che sta bene lì, nel fango, dove sta.

Dante con Ulisse: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 13/4/2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. Nella ottava bolgia il Poeta si fa raccontare dall’eroe il viaggio oltre le Colonne d’Ercole - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Il canto XXVI dell’Inferno dantesco ruota intorno alle figure degli eroi Ulisse e Diomede, i greci che il Poeta pone tra i peccatori (scontano insieme la pena nell’VIII Bolgia) per aver ordito per l’inganno del cavallo di Troia e aver rubato il Palladio che proteggeva Troia. Dannati a parlare dentro il fuoco, insieme ad altri consiglieri fraudolenti. E tra questi Dante mette anche cinque ladri tutti fiorentini. «Omero non racconta come muore Ulisse — spiega Aldo Cazzullo —. Ma Dante immagina che non sia tornato a Itaca, bensì abbia ripreso il mare, oltre le Colonne d’Ercole». «L’Ulisse dantesco è il primo uomo moderno; perché la modernità non nasce dalla saggezza, bensì dall’ignoranza, o meglio dalla consapevolezza di essere ignoranti», sottolinea Cazzullo in questo diciassettesimo video del viaggio nella Divina Commedia (la serie-progetto, su Corriere.it, prevede 20 video, un contributo al giorno, weekend esclusi leggi qui ).. «Ulisse è l’eroe della conoscenza. È l’uomo che sa di non sapere, e quindi si mette in viaggio», oltre l’orizzonte, «di retro al sol», nel «mondo sanza gente». Dante gli fa narrare il viaggio oltre le Colonne nell’emisfero sud: giunto oltre Siviglia, per convincere i suoi compagni a tentare l’impresa mai rischiata da altri, Ulisse pronuncia la famosa “orazion picciola”: «... Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». Farà naufragio. Ma poco più di un secolo e mezzo dopo la morte di Dante, un altro grande italiano prenderà il mare sulla rotta dell’Ulisse dantesco, oltre le colonne d’Ercole, cambiando la storia.

Dante in fondo all’Inferno: «La Commedia è una sua lunga autobiografia e i dannati sono lo specchio della sua sofferenza». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 14 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. In questa puntata Dante arriva in fondo all’Inferno e incontra il conte Ugolino - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Il diciottesimo video del viaggio nella Divina Commedia.

Dante vede Lucifero e infine esce «a riveder le stelle». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 15 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. Prima di lasciare l’Inferno Dante incontra il Diavolo, che «da ogne bocca dirompea co’ denti un peccatore, a guisa di maciulla» - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Nel XXXIV Canto dell’Inferno, Dante incontra il Diavolo in persona e lo descrive come un’enorme e orrida creatura, pelosa, dotata di tre facce su una sola testa: «Lo ‘mperador del doloroso regno da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia. E più con un gigante io mi congegno, che i giganti non fan con le sue braccia .... Oh quanto parve a me gran maraviglia quand’ io vidi tre facce a la sua testa!». Da lontano pare un mulino a vento, difeso da una cerchia di torri. In realtà, le torri sono giganti, che parlano una lingua misteriosa. E il mulino è Lucifero — spiega Aldo Cazzullo in questo diciannovesimo video del viaggio nella Divina Commedia  — «gigantesco, sbatte le ali da pipistrello, formando così il ghiaccio che ricopre le anime dei traditori». Attorno a lui volano gli angeli ribelli. Con tre bocche Lucifero mangia tre dannati: «Da ogne bocca dirompea co’ denti un peccatore, a guisa di maciulla, sì che tre ne facea così dolenti». Sono i tre traditori supremi: Bruto e Cassio, gli assassini di Cesare; e Giuda, il traditore di Gesù. Poi «Dante e Virgilio si arrampicano sul pelo di Lucifero, si capovolgono, trovano un pertugio che attraverso il centro della Terra porta fuori dall’Inferno». È una scena tra il romanzo di Verne e le spedizioni spaziali. L’aria è fresca, si rivedono le stelle — «....E quindi uscimmo a riveder le stelle» —, mentre sta per arrivare la luce dell’alba. Di fronte c’è la montagna del Purgatorio.

Dante, Beatrice e la Madonna: la via delle donne per arrivare a Dio. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 aprile 2021. L’iniziativa multimediale del Corriere, con Aldo Cazzullo: 20 video per un viaggio nell’Aldilà. Quest’ultimo video corrisponde all’ultimo canto che chiude la Divina Commedia e la descrizione del Paradiso - Aldo Cazzullo /CorriereTv. Dopo l’incontro con Lucifero nel XXXIV canto dell’Inferno e l’uscita dall’Aldilà — «...e quindi uscimmo a riveder le stelle» — Dante e Virgilio si trovano, alle prime luci dell’alba, di fronte alla montagna del Purgatorio. L’ultima puntata della serie di venti video curata da Aldo Cazzullo salta tutto il libro dei penitenti, la seconda delle tre cantiche, per passare direttamente al Paradiso, dove «Beatrice accompagna Dante fin davanti al volto di Dio», anche se in realtà Dante arriverà a vedere Dio solo grazie all’intercessione della Madonna invocata da San Bernardo, ultima guida del Poeta negli ultimissimi canti del Paradiso. «L’ultimo canto, che conclude la Divina Commedia, si apre con la più bella preghiera mai scritta: “Vergine madre, figlia del tuo figlio…” — nota Cazzullo —. Mai nessun poeta ha avuto parole così dolci per la donna, tramite tra uomo e Dio, di più, capace di dare carne e vita a Dio e farlo vivere tra noi, sulla Terra. Non a caso Borges diceva che “la Divina Commedia è il più bel libro scritto dagli uomini”».

Dante, il nuovo libro di Aldo Cazzullo: finiremo tutti quanti in Purgatorio. Emanuele Trevi su Il Corriere della Sera il 5 settembre 2021. Esce martedì 7 settembre il nuovo libro «Il posto degli uomini» (Mondadori), in cui l’editorialista del «Corriere» esplora la seconda cantica della «Divina Commedia». A pagina 221 del bel libro di Aldo Cazzullo sul Purgatorio ho avuto il piacere di ritrovare il verso che amo di più in tutta l’opera di Dante Alighieri. Tutti ne hanno uno, e comprendo che se ne possano prediligere di più sublimi, ma il mio (forse ognuno ha quello che si merita) è una vecchia ricetta da veri ghiottoni compressa nella misura di un solo endecasillabo: «l’anguille di Bolsena e la vernaccia». Adoro questo verso perché è saturo di realtà, di materia solida e liquida, come quelle nature morte dei maestri fiamminghi del Seicento che sembrano addirittura sprigionare, come suprema illusione, l’odore delle vivande che gremiscono lo spazio della tela. Non è un caso che si trovi nel canto XXIV, quando il poeta-pellegrino, nella sua scalata alla montagna del Purgatorio, è arrivato al girone dei golosi: uno dei luoghi in cui le anime salvate, in attesa di essere ammesse all’eterna beatitudine, scontano i vizi che hanno intristito e ostacolato la loro vita terrena. Come il Tantalo dei Greci, seguendo la legge del più elementare dei contrappassi, i purganti golosi patiscono una fame e una sete terribili, tali da scavare i loro lineamenti fino a renderli irriconoscibili. Una terribile «dieta», insomma: come nota giustamente Cazzullo (Il posto degli uomini. Dante in Purgatorio dove andremo tutti, in uscita martedì 7 settembre da Mondadori), Dante impiega, per descrivere questo tremendo castigo, acuito dall’odore soave di cibo che si spande nell’aria, la stessa parola carica di sensi di colpa e propositi virtuosi che impieghiamo oggi. Come se, alla nostra maniera secolarizzata e poco o nulla metafisica, per il solo fatto di parlare la lingua di Dante noi ci infliggessimo, quando decidiamo di perdere qualche chilo, un pizzico di esistenza purgatoriale. Ma torniamo, se mi è permesso, alle anguille di Bolsena, perché le citazioni che si fanno di Dante sono spesso piuttosto fuorvianti, e quindi l’unica maniera di comprendere il loro valore effettivo è ricollocarle sempre nel loro tessuto narrativo. Il quale, come abbiamo potuto constatare fin dai banchi di scuola, è costituito in maniera preponderante di dialoghi. Quindi è sempre necessario (e forse proprio questa è la maggiore difficoltà nell’interpretazione) pensare a chi sta parlando in quel momento, perché non è detto che Dante usi i suoi personaggi come se fossero semplici portavoce. Certe volte, al contrario, il poeta sembra compiacersi dell’arte sottile dell’ascolto, riproducendo modi di parlare e mentalità che non coincidono esattamente con il suo punto di vista. Un’attenzione del genere è necessaria leggendo i libri di un altro grande dialoghista, Dostoevskij. Per questo motivo, come Cazzullo ha capito benissimo, per spiegare utilmente Dante bisogna essere ferratissimi nella più umile delle operazioni critiche, che è quella di riassumere efficacemente la situazione narrativa e i personaggi in campo. Nel Purgatorio, poi, tutto questo metodo dialogico assume un particolare calore umano, perché sono tanti gli incontri con vecchie conoscenze. Una cosa è parlare con Ulisse, per esempio, tutt’altra è farsi accompagnare nel girone dei golosi da un amico fiorentino, addirittura un parente della moglie, come Forese Donati, detto Bicci. In gioventù, Dante e Bicci se le erano menate di santa ragione, a colpi di sonetti che sono tutt’altro che dei capolavori, da una parte e dall’altra, anche se il genio di Dante traluce anche in questi peccatucci da principiante. Ma insomma, sono insulti reciproci in rima, in uno stile non molto dissimile dal «Vernacoliere» odierno: un fuoco di fila di allusioni che vanno dall’impotenza sessuale alla leggerezza nel contrarre debiti. Tutto questo scherzo si chiamava una «tenzone», e poteva andare per le lunghe. Dai versi di Dante si capisce che Forese, molto prima di finire in Purgatorio, era noto come un’ottima forchetta, divoratore di petti di starne e lombate in tale quantità da rischiare di mandarlo sul lastrico. Chi meglio di questo Forese messo a «dieta» dalla divina provvidenza avrebbe potuto far da guida a Dante nel variopinto mondo dei golosi? Ed ecco a un certo punto apparire, nella schiera di questi forzati del digiuno, addirittura un papa ghiottone, Martino IV, che regnò tra il 1281 e il 1285, al secolo Simon de Brion. È qui nel Purgatorio, spiega Forese a Dante, che Martino sconta la smodata passione per «l’anguille di Bolsena e la vernaccia». Ogni verso di Dante è una miniera per gli eruditi, che ci hanno spiegato anche che la vernaccia serviva a cuocere le anguille: ecco perché quello di Dante è solo in apparenza un verso-menu, e in realtà un verso-ricetta. Martino IV fu un uomo intelligente e importante ai suoi tempi, ed ebbe il suo ruolo in un delicato e cangiante scacchiere politico. Ma gli uomini non possono mai decidere i motivi che li faranno sopravvivere nella memoria dei posteri, soprattutto se ci si mette di mezzo un verso di Dante. Cazzullo cita un delizioso epigramma in latino in cui le anguille esultano alla morte del papa, stufe di essere scorticate come ree di omicidio. E un antico commentatore di Dante riporta uno scherzo del papa in persona, che avrebbe voluto trasformare la Germania nel lago di Bolsena, e i tedeschi in anguille, per mangiarseli tutti. Sarà stato davvero uno scherzo? In questi uomini dell’età di Dante c’è sempre, nel bene o nel male, qualcosa di incomprensibile, così come nell’architettura gotica c’è sempre almeno un elemento che sfugge alla nostra concezione di cos’è un edificio. Questo divoratore di anguille alla vernaccia sembra divorato a sua volta dalla sua passione fino al punto che al posto dell’immagine dell’uomo rimane quella del suo piatto preferito. Ho parlato di una natura morta fiamminga, ma qui Dante sembra anticipare il genio di Arcimboldo. E la cosa più commovente è che questo frammento indimenticabile di poesia e psicologia del desiderio Dante lo ceda volentieri a quel poetastro della domenica che è il suo vecchio amico Forese. Ed è una cosa che fa spesso, con la generosità di chi è talmente ricco che nemmeno se ne accorge: fa parlare gli altri meglio di quanto abbiano mai parlato da vivi. Ma senza mai sovrapporsi, rispettando quello che sono. Dopo di lui solo Shakespeare, credo, è stato capace di tanto.

Dante per Dante. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 10 aprile 2021. A Caprona, cinquecento anime nei pressi di Pisa, spunta un murales dove il nasone del Sommo Poeta è in primo piano per onorare le vittime della mafia con uno dei suoi versi più famosi: «E quindi uscimmo a riveder le stelle». Qualcuno del posto esce a rivedere il dipinto e ne rimane sconvolto. Quel Dante glorificato nel murales non è forse lo stesso Dante che il 16 agosto 1289, praticamente l’altro ieri, partecipò con i guelfi di Firenze all’assedio del castello di Caprona, abitato dai ghibellini di Pisa, e che ebbe pure l’ardire di citare l’episodio nella Divina Commedia, paragonando i pisani ai diavoli di Malebolge? L’affronto reclama una rappresaglia letteraria immediata. Non avendo a disposizione Petrarca e nemmeno un rapper, gli offesi la affidano a un ultrà di calcio. Lo striscione appeso nei pressi del murales recita: «Calci e Caprona, Dante non rappresenta la zona». I critici diranno se si tratta di un verso immortale. Di sicuro l’episodio rivela come gli italiani - e in primis i toscani, che sono i più italiani di tutti - coltivino una riserva insospettabile di memoria storica, destinata a venire allo scoperto ogni volta che intercetta un loro rancore. Per completezza vi segnalo che l’amministrazione comunale, con una mossa da trapezista, ha deciso di difendere il murales pro-Dante e al tempo stesso di non rimuovere lo striscione anti-Dante. A riprova che l’Italia è fatta di guelfi e di ghibellini, ma soprattutto di democristiani.

A Caprona spunta uno striscione contro Dante. Orlando Sacchelli su Arno - Il Giornale l'8 aprile 2021. Poco più di 500 abitanti, Caprona è una piccola frazione del comune di Vicopisano (Pisa) nota per due cose: la pittoresca torretta che domina dall’alto, e l’incrocio tra la strada lungomonte – snodo tra Pisa, Calci e Cascina – e  quella che superando il ponte sull’Arno conduce a Navacchio. A Caprona è comparso uno strano striscione che polemizza nientepopodimeno che con Dante Alighieri, che oltre 700 anni fa si trovò a combattere proprio da queste parti. A qualcuno evidentemente non è piaciuto il murale, realizzato dall’artista Daria Palotti, in cui è raffigurato anche Dante. Il progetto, promosso dal Comune di Vicopisano per ricordare le vittime della mafia, coniuga i versi di Dante e la memoria, visto che lo slogan della “Giornata della memoria” di quest’anno è proprio una frase di Dante: “A ricordare e rivedere le stelle”. Sarebbe bastato andare un po’ in profondità, quindi, per evitare di sollevare una polemica inutile. Dante era solo un pretesto narrativo (e artistico) per ricordare le vittime della mafia. Ma torniamo allo striscione che è stato appeso ad un muro, proprio sulla strada più trafficata di Caprona. La scritta che campeggia è questa: “Calci & Caprona: Dante non rappresenta la zona“. I colori utilizzati per la scritta svelano la “mano”, o meglio l’ispirazione. “Calci e Caprona” di colore rosso, “Dante” è scritto di viola e “non rappresenta la zona” sono scritti alternando il nero e l’azzurro. Viola (colori della Fiorentina) e il nerazzurro (colori del Pisa) evidenziano la matrice calcistica di questa polemica. Ma l’aver voluto ricordare Dante, in questo periodo, non è casuale: oltre ad essere il più grande poeta mai esistito, simbolo della cultura italiana conosciuto in tutto il mondo, quest’anno ricorrono i 700 anni dalla sua morte. Certo, era fiorentino (peccato imperdonabile per un pisano). Ma dobbiamo anche ricordare che Dante morì a Ravenna, mandato in esilio proprio da Firenze.

Dante e la battaglia di Caprona. Correva l’anno 1289 e il giovane Dante partecipò alla spedizione dei guelfi fiorentini contro i ghibellini pisani. Il Sommo Poeta descrisse poi quella battaglia nella Divina Commedia, nel 21° canto dell’Inferno:

“Per ch’io mi mossi e a lui venni ratto;

e i diavoli si fecer tutti avanti,

sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto;

così vid’io già temer li fanti

ch’uscivan patteggiati di Caprona,

veggendo sé tra nemici cotanti”.

(Inferno, XXI, 94-96)

“Allora mi mossi e lo raggiunsi rapidamente;

e i diavoli si fecero tutti avanti,

così che io (Dante) ebbi paura che non rispettassero i patti;

allo stesso modo vidi temere i fanti (Pisani)

che uscivano dal castello di Caprona secondo i termini della resa,

vedendosi stretti da tanti nemici” (Fiorentini e Lucchesi).

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Dante descrive i soldati pisani che, dopo aver negoziato la resa, erano alquanto intimoriti di fronte ai numerosi soldati fiorentini. Dante definisce i pisani “diavoli”, che rinunciano ai loro propositi e si arrendeno pur di salvarsi. La torretta di cui parlavamo sopra è una ricostruzione ottocentesca della “torre degli Upezzinghi”, che ricorda l’antico castello esistente nell’XI secolo, distrutto dai Fiorentini nel 1433.

L’agghiacciante fine dei Traditori della Patria (il Parlamento dovrebbe giurare sulla Commedia). Paolo Asti il 6 Aprile 2021 su culturaidentita.it. Per ch’io mi volsi, e vidimi davantee sotto i piedi un lago che per geloavea di vetro e non d’acqua sembiante…E’ così che Dante descrive il suo arrivo al lago di Cocito dove il ghiaccio, in cui sono immersi gli uomini, rappresenta la freddezza con cui hanno consumato il loro tradimento. E’ qui che sta Lucifero, impegnato a maciullare con i denti delle sue tre bocche quel che resta di Bruto, Cassio e Giuda, a guardia di chi ha commesso il peggiore dei peccati rompendo il patto tra coloro in cui la fede special si cria. E’ il «Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato…» scrive un anonimo commentatore del ‘300. Traditori della Patria, dell’amicizia, dei parenti, degli ospiti e dei benefattori, collocati nel più profondo dell’Inferno. Un’immagine tra le più spettrali, quella che racconta Dante, ormai prossimo al suo settecentesimo anniversario, ma senza perdere in alcuna parola la dignità, oltre che poetica, dell’attualità. Gli ospiti di questo IX° cerchio dell’Inferno, sono conficcati in vario modo nel ghiaccio e nessun di loro, vista l’abominevole colpa di cui si sono macchiati, vuole rivelar chi fosse in vita. Tra i traditori della Patria posti nell’Antenora, non pago delle pene, c’è chi tradisce ancora. Si tratta di Buoso da Duera, che in vita fu dagli Angioini corrotto, per tradire Manfredi di Svevia, che rivela al poeta i nomi di chi è con lui a patir pena. Tra loro il fiorentino Tesauro dei Beccheria, abbate di Vallombrosa che tradì a Firenze i Ghibellini e Tebaldello Zambrasi reo di aver consegnato Faenza ai Guelfi bolognesi. Sepolti nel ghiaccio, fino al collo e a testa in giù, stanno nella Caina i traditori dei parenti. Nella Tolomea invece sono i traditori degli ospiti, che hanno cercato ricovero, nella difficoltà, presso coloro che erano ritenuti amici. Se con la Caina, il richiamo al tradimento tra fratelli è ben palese, con la Tolomea i riferimenti possibili sono più d’uno. Per alcuni si tratta di Tolomeo XIV, il re egiziano capace di uccidere, Pompeo che, dopo la disfatta di Farsalo, si rifugiò da lui, per altri invece si tratta del governatore di Gerico, Tolomeo appunto che, nel racconto della Bibbia, uccise Maccabeo e i suoi figli dopo averli invitati a banchettare. Ma come condurrebbe Virgilio, un Dante contemporaneo, tra i tradimenti consumati dalla politica, tra quelli compiuti da chi è stato chiamato a essere guardiano dei valori costituzionali, tra chi ha infangato il proprio mandato elettorale con promesse agli elettori, senza dar di prova tra ciò che fu predicato e ciò che è compiuto. L’elenco sarebbe lungo e lascio al lettore riempirne le righe di un diario le cui pagine si consumano quotidianamente nel disinteresse quasi generale. Dove collocare un presidente che tradisce i valori di costituzionali che richiamano al ruolo imprescindibile del Parlamento eletto dagli Italiani? Forse in un luogo che possiamo immaginare semplicemente chiamato Contea. A un diario più intimo, una personale Tolomea, lascio invece i traditori che si ergono per immondizia, coloro che hanno tradito l’amicizia.

Davvero la Divina Commedia ha un modello arabo? No: ne ha almeno due. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 6 aprile 2021. Un racconto del viaggio di Maometto in Paradiso. Ma anche un poeta che manda all'Inferno i suoi nemici. L'arabista Francesca Corrao ci guida tra i grandi autori islamici che possono avere ispirato Dante. Dalla newsletter dell’Espresso sulla galassia culturale araba

Cent'anni fa la notizia fece scandalo, e si capisce: «Nel 1919 esce un saggio che lega la Divina Commedia a un testo che racconta il viaggio di Maometto in Paradiso», ricorda Francesca Corrao, docente di Lingua e cultura araba e direttrice del Master sull'Islam alla Luiss. «Erano gli anni delle colonie in Libia e in Etiopia, dell'italianità: si può capire che mettere in discussione l'originalità del Sommo Poeta, ipotizzare addirittura un debito verso la cultura araba suonasse come un affronto. Ma davvero oggi ci si scandalizza ancora per quel legame?» Ci si scandalizza, sì: è bastato che in un articolo della Frankfurter Rundschau venisse citato “Il libro della Scala di Maometto” come possibile fonte della Commedia per far saltar su Meloni e Salvini contro il reato di lesa Dantità. L'articolo di Arno Widman, molto più dotto e denso di quelli che siamo abituati a leggere sui quotidiani italiani, inquadrava Dante nella cultura del suo tempo sottolineando le innovazioni ma anche i legami con la tradizione precedente. Nei riassunti che ne sono usciti sulla stampa italiana, è diventato un attacco alla grandezza di Dante sia come autore che come persona. Un piccato Franceschini ha affidato la risposta allo stesso poeta («Non ragioniam di lor, ma guarda e passa»). A ogni passaggio della polemica, si perdeva una fetta delle disquisizioni di Widman. Finché la pietra dello scandalo è rimasta una sola: ma davvero la “Scala di Maometto” ha ispirato la Divina Commedia? Alla poesia araba, Francesca Corrao ha dedicato una vita di studi. Nel libro più recente (“I cavalieri, le dame e i deserti”, Edizioni dell'Istituto per l'Oriente C.A. Nallino), un capitolo racconta la corte di Federico II, in Sicilia, dove si scriveva in volgare, latino, arabo e greco, dove si incontravano poeti siciliani, arabi e provenzali e dove Giacomo da Lentini e Ciullo d'Alcamo, considerati i primi autori della letteratura italiana, «sono pieni di metafore arabe, di allitterazioni e modelli retorici tipici della lirica araba». Dalla Sicilia le innovazioni poetiche hanno raggiunto la Toscana: la scuola siciliana e lo stilnovismo sono strettamente legati. Tutti riprendevano modelli ebraici, latini, greci, arabi: «Le idee circolavano, non si tratta di plagio», continua. «Alla corte di Federico II produceva una quantità di traduzioni di testi classici. Senza le traduzioni dall'arabo noi non conosceremmo non solo la filosofia antica ma nemmeno la matematica: diciamolo che i bizantini hanno bruciato Euclide! Di ogni nuova traduzione, Federico mandava una copia alla biblioteca di Bologna». Si spiega così per esempio l'influenza di Averroè sulla poesia di Cavalcanti, la quantità di traduzioni dall'arabo realizzate per Pico della Mirandola, e perfino gli echi di manuali del buon governo arabi nel “Principe” di Machiavelli: «L'ultimo fu scritto a Palermo da Ibn Zafar, “I conforti politici”: anche questo fu tradotto in volgare da uno studioso ebreo e mandato da Federico a Bologna». E “Il libro della Scala di Maometto”? «Era un testo molto presente nella cultura araba del tempo. Ma in realtà c'è un altro modello che è ancora più simile alla Commedia», continua la professoressa Corrao. Intanto, a differenza della “Scala”, questo testo è in versi: «E l'autore è forse il miglior poeta della lingua araba, il siriano Abul Ala Al-Marri. Nella sua “Epistola del perdono” il poeta va nell'oltretomba, trova il suo maestro e poi si diverte a raccontare come incontra, tra Inferno e Paradiso, tutti i poeti suoi avversari. Molto simile a quello che fa Dante, no? Questo poema era così famoso che fu tradotto e riscritto in Spagna. Non è possibile che Dante non ne avesse sentito parlare: è ovvio che tra poeti ci si parlasse di quello che andava di moda...». Tutto questo, gli studiosi lo sanno bene. «Sono argomenti che ha studiato Maria Corti e poi lo ha pubblicato una sua allieva, Anna Longoni. Al Marri invece è stato pubblicato di recente da Martino Diaz». “L'epistola del perdono” è pubblicato da Einaudi, la “Scala” da Rizzoli. Una curiosità: il saggio del 1918 di Miguel Asin Palacios citato da Widman era stato ricordato sull'Espresso, in una bustina di Minerva, da Umberto Eco, di cui Widman è traduttore. Di certo, comunque, tutta la questione è un'occasione per ridiscutere le radici comuni dei poeti arabi e italiani: «Con la cacciata di ebrei e musulmani dalla Spagna, alla fine del Quattrocento, è cominciata una damnatio memoriae, e oggi studiare queste materie è come ricostruire un puzzle di cui sono stati distrutti molti pezzi. Ma, restando a Dante, ricordiamoci che il primo a fare un viaggio poetico nell'aldilà non è un italiano o un arabo ma un greco: l'Ulisse dell'Odissea. Senza contare il viaggio biblico di Giobbe, altra fonte comune a poeti musulmani e cristiani. Questo non significa che Dante non sia stato geniale: una cultura chiusa sarebbe sterile come un prato senza api. E invece in ogni materia è così: ti nutri dei grandi del passato e fai fare alla cultura un passo avanti aggiungendoci del tuo». Con buona pace di chi si scandalizza.

Povero Dante. Angelo Gaccione su Il Quotidiano del Sud il 5 aprile 2021. La mia lingua ha segnato il mio destino. Ho preso coscienza molto presto del fatto che la lingua è la vera patria di un uomo, la patria più autentica. Sono stato in bilico per anni, soprattutto quando mi gravava sul collo l’obbligo del servizio militare, se restare in Italia o andarmene altrove. Come il personaggio del racconto “Liliana”, anch’io ero terrorizzato: “(…) In fondo volevo restare per scrivere, e temevo che se fossi partito avrei perso definitivamente l’uso della mia lingua e non avrei più potuto fare lo scrittore. Avevo avuto una conversazione con lo scrittore dissidente sovietico M*, in quegli anni, e avevo appreso che alcuni fuorusciti che avevano abbandonato la Russia per riparare in Occidente, si erano isteriliti come scrittori e come poeti. Fuori dalla patria, avevano perso il fertile humus linguistico che li alimentava e dentro cui erano immersi. Me ne spaventai, temevo di diventare arido anch’io, di perdere la lingua, di divenire intrapiantabile come certe piante che muoiono su altri terreni”. Se lo stile fa lo scrittore, non c’è dubbio che la lingua è il pozzo immenso in cui attinge. Lo sapevo da Dante che avevo letto e riletto fino a bucarmi gli occhi, e lo sapevo dall’amore per le lingue madri dialettali dal cui impasto trae forza quella che per me resta l’idioma più ricco, più prezioso, più fantasioso del mondo. E se in un passaggio di un racconto sulla gerarchia delle lingue carico di ironia, quella spagnola poteva pretendere di parlare al cuore di Diòs (di Dio), la lingua italiana restava pur sempre quella in grado di parlare al cuore degli uomini. E proprio perché degli uomini concreti, terreni, e delle loro vicende umane, voleva occuparsi la mia penna, non potevo che usare la nostra di lingua: quella che Dante aveva forgiato col suo duro e caparbio lavoro. Mi vanto di averne sempre avuto rispetto e nulla ho concesso alle mode e al suo depauperamento. Semmai ho operato una sorta di resistenza e di recupero; di recupero di lemmi cancellati o destinati all’oblio; di toponimi di luoghi e di cose che esistono perché la lingua li rinomina, li conserva, li tiene vivi. C’è la parola perché c’è la cosa, ma è altrettanto vero che se muore la parola muore pure la cosa. Che ne sanno i milanesi di oggi del Bottonuto? Dove possono topograficamente collocarlo non conoscendo più l’uso della parola? E i miei giovani concittadini acresi che ne sanno della Malabocca e del suo significato, avendo perduto la lingua madre dialettale? Mentre da un lato si ricordano in pompa magna i settecento anni dalla morte del padre della lingua italiana Dante Alighieri, dall’altro la nostra colta e bellissima lingua viene vituperata, invasa com’è da anglicismi di ogni tipo, banali e spesso fuorvianti, che la immiseriscono. I francesi sono giustamente molto più orgogliosi di noi a questo riguardo, e mai accetterebbero che sulla insegna di un calzolaio fosse scritto shoemaker.

Così Dante rese poetica la parolaccia. Il filologo Sanguineti analizza l'uso del turpiloquio nella "Commedia". Alex Pietrogiacomi - Ven, 12/03/2021 - su Il Giornale. Il 2021 segna i 700 anni della morte del sommo poeta italiano, e si aprono le ennesime discettazioni sulla sua valenza, sui suoi studi accademici o semplicemente scolastici, sempre troppo semplificati in vista di una fruizione da quiz a premi televisivo. Se tutto il mondo ci invidia la figura di Dante Alighieri, scoperto a livello internazionale molto prima di quello che potremmo pensare, da Cristina da Pizzano (nata un secolo dopo) e meglio conosciuta come Christine de Pizan, la quale in anticipo su chiunque, e con molti punti biografici in comune con il fiorentino, parlava dell'opera di Dante come di qualcosa «senza paragone», noi abbiamo sempre qualche remora ad accostarci in modi che non siano istituzionali alla sua lingua e opera. Eppure le opere dantesche ci offrono anche spunti di divertimento filologico, fatto di scoperte e studi che ne svelano un lato giocoso della sua conoscenza e in questo Le parolacce di Dante (Tempesta editore, pagg. 98, euro 98) di Federico Sanguineti ha un ruolo essenziale. Un agile libretto che permette di immergersi nella materia viva dantesca, la sua lingua, e di farlo con un lavoro di comparazione letteraria e filologica incredibile per la sua concisa acutezza. Innanzitutto, come dice nell'introduzione Moni Ovadia «è bene non farsi trarre in inganno, perché siamo di fronte a un libro colto ed eccentrico che conviene leggersi per mettersi in relazione singolare e innovativa con il padre della nostra letteratura mondiale di tutti i tempi». Sì, perché Sanguineti ci propone un viaggio nelle strade alternative alla comprensione del Sommo e dei meno noti processi che lo portarono allo sviluppo della sua prodigiosa lingua. Viaggio «affascinante e contropelo» nelle parole e nelle parolacce, quest'ultime però da non intendersi come la svilente attitudine del quotidiano a cui siamo abituati, ma come un continuo alternarsi tra la percezione della parola in ogni sua sfumatura, connotazione stilistica, storica e ogni suo rimaneggiamento/interpretazione da parte di terzi come i copisti, i censori o critici. Sì, è vero che nella Divina Commedia le parolacce ci sono e ce n'è un uso abbondante, soprattutto nell'Inferno, basti pensare a sterco, merda, merdose, puttana, cul, le fiche, vacca, fin ad arrivare al Paradiso, dove compare vagina, rivelandosi come un poema sede non solo del sublime ma anche della sua nemesi, ma è anche vero che non si tratta di parlare solo della loro verve bassa, quanto del loro valore proletario, dell'universalità spesso additata negativamente da altri illustri colleghi di cui godeva la scrittura dantesca. Universalità che si rivolgeva a maniscalchi, contadini, che permetteva, e ha permesso anche negli anni a venire, all'opera di Dante di essere trasmessa, fruita, anche se non la si capiva, poiché si percepiva la sua bellezza. Un plurilinguismo dantesco manifesto soprattutto nella grande ricchezza lessicale, che va da termini alti e aulici, passando per latinismi e francesismi, provenzalismi, neologismi, nonché linguaggi inventati, fino al più basso turpiloquio, alla parolaccia appunto. Accanto alla concezione più comune però, della mala parola, si scoprono in queste pagine anche le connotazioni stilistiche, fatte di misure e scelte: come la Z, un suono ignobile e disadatto alla poesia, «tale da ridurre a parolaccia la parola che lo contiene», che però apre il poema, insieme ad altre parolacce (da intendersi ora come sconvenienti per uso, metrica etc) che derivano da un uso inappropriato dello iotacismo, mitacismo e labdacismo «Nel mezzo del cammin di nostra vita», e che rendono tutto ancora più scandaloso «perché, data la presenza di Z nel primo endecasillabo, l'incipit non può che suonare cacofonico all'autore stesso». E questo è solo uno degli esempi presenti tra le pagine del lavoro di Sanguineti, a cui vanno aggiunte tutte le rivisitazioni di censure religiose o peggio le banalizzazioni attuate da copisti disattenti o troppo zelanti nel voler riportare alla luce i testi originali e il loro spirito più alto.

I libri da leggere. Anniversario di Dante, la biografia da non perdere dello storico Barbero. Filippo La Porta su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Siamo invasi da Dante, nel 700esimo anniversario della morte! Una danteide infinita, proteiforme: erudita e pop, filologica e visionaria, accademica e ludica. Dai videogame alla realtà virtuale, da tomi ponderosi ad agili manuali introduttivi. Non sempre è facile orientarsi e distinguere il grano dall’oglio. Cominciamo con un saggio biografico in testa alle classifiche. Ma prima ancora vorrei suggerire una proposta rispetto al rapporto con i classici. Occorrerebbe sfuggire a due opposte tentazioni: attualizzarli forzosamente o congelarli in una bacheca museale, condannandoli a un venerabile silenzio. Dante o Boccaccio o Machiavelli sono per noi preziosi in quanto distanti, e in parte inafferrabili. Il loro “tempo” riusciamo solo a immaginarlo, come in sogno. La loro alterità ci permette però di giudicare il mondo presente, di vederlo dal di fuori. Dante è immerso nel Medioevo, nell’idea antimoderna di un universo stabile, orientato a una finalità. Ma nello stesso tempo ci parla del bene e del male, dell’incorreggibile inclinazione a peccare e della responsabilità umana, e invita ogni lettore (non ha scritto la Divina commedia per gli studiosi!), a una trasformazione radicale, ad una diversa visione delle cose, che sfugge a qualsiasi ortodossia religiosa, a qualsiasi liturgia, e che ogni volta ci colpisce per la sua audacia (il grande teologo Romano Guardini osservò che la Divina commedia non è propriamente un poema teologico, ma solo ci parla di fatti e conseguenze). Il Dante (Laterza) di Alessandro Barbero – quasi una icona mediatica (riunisce Piero Angela, Corrado Augias e lo Sgarbi divulgatore! – è un libro utile, ben scritto e a suo modo “umile”. Essendo un storico – da alcune sue lezioni si può imparare molto (ad esempio sulla Resistenza o sul metodo storiografico degli Annales) l’autore non azzarda nuove interpretazioni né si mette a commentare singoli versi, piuttosto colloca Dante nel suo tempo, seguendone meticolosamente le varie età, dall’infanzia alla maturità e agli ultimi anni (in parte avvolti nel mistero): l’educazione sentimentale, i clan familiari, il quartiere, il matrimonio, gli affari (prima dell’esilio era discretamente agiato, poi perse tutti i suoi beni), l’attività politica (che cominciò a svolgere a partire dai trent’anni, tuttavia alla fine Cacciaguida gli riconosce una sua orgogliosa autonomia, oltre gli schieramenti) le amicizie, l’esilio, gli studi e la biblioteca. Dove si percepisce la prossimità dell’autore alla storia della vita quotidiana dei suoi maestri Bloch e Lefebvre: quando si sofferma sulle occasioni d’incontro tra giovani di sesso diverso nella Firenze duecentesca (rarissime, a parte in chiesa durante una predica o a un pranzo di nozze). In altri casi Barbero contribuisce a chiarire alcuni equivoci nati da cattiva informazione: Dante si iscrive all’Arte dei Medici (era obbligatorio immatricolarsi in una corporazione per fare politica), soltanto perché quell’arte era un eterogeneo contenitore di professionisti e imprenditori di tutti i generi. L’inizio è epicamente spettacolare, con Dante ripreso durante la battaglia di Campaldino, a cavallo con lancia nelle prime file (tra gli effetti speciali di Spielberg e l’asciuttezza di Olmi). Poi si procede con una accurata ricostruzione di scenari ed episodi biografici (ad esempio il rapporto sempre un po’ problematico con i “signori” che pure lo ospitavano), presupposto di qualsiasi immersione nell’opera dantesca. Solo una considerazione: dopo aver letto Barbero comincia però il vero “lavoro” del lettore, alle prese con la “attuale”, incandescente inattualità dello scrittore fiorentino. In che senso? Dopo aver preso atto, anche con l’aiuto di Barbero, delle molte contraddizioni di Dante, non ci resta che farle deflagrare, e vedere l’effetto che fa (su di noi): soldato zelante (va in guerra quando la patria lo richiede) e amante della pace (vero obiettivo di ogni politica), consapevole che la nobiltà è interiore (legata alla virtù) ma orgoglioso di discendere da una illustre casata, dotato di un’etica pubblica severa e però impegnato a sistemare la figlia (suora) in un monastero ravennate, cantore di potenti e ammiratore di san Francesco, Romeo di Villanova (un consigliere caduto in disgrazia) e dell’anonimo Rifeo (un “giusto”), fautore della vendetta e convinto che la carità dilati il cuore di chiunque (come il sole con la rosa)…Fino alla madre delle contraddizioni, tra etica e politica (accettare la realtà o intervenire su di essa per modificarla?): da un lato intende rigenerare l’umanità corrotta – si sente investito da una missione provvidenziale -, combattere gli “sterpi eretici”, riunificare l’Italia, dall’altra accetta la inviolabile, inemendabile diversità di ogni individuo, lo lascia essere quello che è, come l’amico pigro Belacqua, così pigro che in Purgatorio rimanda l’ascesa al Paradiso!. All’inizio del Paradiso lui e Beatrice penetrano la luna – una immagine meravigliosa, quasi fiabesca – senza alterarla. Proprio come un raggio di luce entra nell’acqua senza scompaginarla.

Incontrate o immaginate: alla scoperta delle donne nelle pagine di Dante. Gaia Rau su La Repubblica il 26 febbraio 2021.  Il libro di Marco Santagata, scomparso a novembre, sulle figure femminili dell’autore della Divina Commedia. Incontrate o solo immaginate, in ogni caso consegnate all’eternità. La Bice Portinari realmente esistita e la Beatrice ideale, essere eccezionale capace di testimoniare in terra la perfezione del cielo, promettendo salvezza. E poi tutte le altre: la moglie Gemma Donati, la sorella Tana, la Vanna amata da Cavalcanti e la Selvaggia di Cino. Senza dimenticare le grandi protagoniste della Commedia, quella Francesca da Rimini e quella Pia de’ Tolomei le cui storie sembrano uscite dalle più nere pagine di cronaca dei nostri giorni. Se una lunga malattia, aggravata dal coronavirus, non lo avesse portato via lo scorso novembre a 73 anni, Marco Santagata sarebbe stato senza uno dei protagonisti del settimo centenario della morte di Dante, le cui celebrazioni dovranno già scontare il peso gravoso della pandemia. Ma l’anno dantesco può comunque godere di un contributo importante, seppur postumo, dell’illustre studioso pisano: si tratta di "Le donne di Dante" (Il Mulino) in libreria da questo mese che, grazie anche all’apporto di un ricco apparato iconografico, offre una ricognizione attenta e completa delle figure femminili determinanti nel percorso dell’Alighieri, sotto il profilo biografico quanto da un punto di vista letterario e immaginifico. Un’operazione che restituisce molto del doppio binario – la ricerca e la scrittura, il lavoro accademico e quello narrativo – su cui Santagata ha costruito il rapporto con i maestri, Dante in primis. Raggiungendo la celebrità tanto per i suoi studi quanto per una serie di romanzi – vedi " Il maestro dei santi pallidi", pubblicato da Guanda e vincitore del Campiello nel 2003, o " Dante. Il romanzo della sua vita" ( Mondadori, 2012) – con cui ha cercato di interpretare il volto più umano, attuale e in parte deliziosamente "pop" dei grandi poeti ai quali ha consacrato la propria carriera. Un tentativo di avvicinare al lettore il Dante essere umano, anzi umanissimo, che emerge anche dalle pagine del libro postumo, seppure da un punto di vista ribaltato che privilegia, appunto, le donne che lo circondarono e ispirarono. Un lavoro che, nella prima parte del volume, assume quasi la forma di un’investigazione storica: poco l’autore della Commedia parlò della propria famiglia, niente scrisse della sua infanzia. E così la madre Bella, morta quando Dante era appena un bambino, la sorella secondogenita, figura vicina e premurosa che sembra affiorare da pochi versi della "Vita Nuova", o ancora la più grande Tana, di cui più sappiamo per il ruolo che la famiglia del marito, i Riccomanni, ebbe nel sostenere il poeta dopo la condanna e l’esilio, appaiono come presenze dai contorni indefiniti, quasi dei fantasmi al pari di quella donna "di val di Pado", l’antenata illustre, sposa del trisavolo Cacciaguida incontrato nel Paradiso, dalla quale discende probabilmente il nome degli Alighieri. Contorni più precisi li assume invece Gemma Donati, controparte di un matrimonio passato alla storia, grazie alla descrizione impietosa di Boccaccio, come profondamente infelice; in realtà – sembra qui emergere – figura determinante e di innegabile sostegno per Dante anche dopo l’esilio. Pochissimi i dettagli sulla figlia Antonia, la cui devozione per il padre trapela tuttavia dal nome scelto come monaca: Beatrice. E proprio alla giovane Portinari è dedicata, e non potrebbe essere altrimenti, la parte più corposa del saggio, divisa fra realtà storica e immaginazione letteraria, lungo un discrimine sottile che Santagata riconosce e identifica lungo le pagine falsamente autobiografiche della "Vita Nuova". Beatrice che non fu tuttavia la sola donna amata da Dante, né l’unica protagonista delle sue liriche, animate da personaggi in parte misteriosi come la " gozzuta" – così la descrisse sempre Boccaccio – di Pratovecchio destinataria della celebre canzone "Amor, da che convien pur ch’io mi doglia". Procedendo fra poesia e documentazione, il viaggio di Santagata approda infine alle donne della " Commedia": Cunizza da Romano, Sapia Salvani, la Margherita Aldobrandeschi moglie del Guido di Montfort condannato al girone dei violenti per l’efferato delitto di Viterbo, ma soprattutto le vittime di femminicidio Francesca e Pia. Storie in bilico fra cronaca rosa e nera che Dante ripropone nel poema, attribuendo loro valore esemplare. E rendendo le loro protagoniste, di fatto, eterne.

Il più italiano dei grandi. Il più grande degli italiani. Marcello Veneziani il 29 Gennaio 2021 su Cultura ed Identità. Dante Alighieri è il punto di fusione tra identità e cultura. Tramite la cultura, che in Dante è culto e coltivazione, lingua, poesia e tradizione, si forma l’identità di una nazione, di un popolo, di una civiltà. Dante è nostro padre, ho scritto già nel titolo del mio libro da poco uscito, che oltre il mio saggio raccoglie le sue migliori pagine in prosa. Dante fondò l’Italia tramite la lingua, la visione geopolitica, l’eredità dell’impero romano e l’impronta della civiltà cristiana. L’Italia, dunque, non fu fondata da un condottiero o da una dinastia ma da un poeta. Dante generò l’Italia dal suo mito. Vagheggiava la monarchia universale ma fu il primo a considerare il fulcro di una rinascenza in Roma, nella Roma cattolica ma non clericale, dove l’Impero ha dignità pari a quella del Papato. Fu ancora Dante a dare un mito di fondazione e una narrazione su cui costruire l’Italia, collegandosi a Virgilio e alla fondazione di Roma. Dante generò quell’aspettativa d’Italia che altri scrittori poi coltivarono nei secoli. Da dove nasce il ruolo postumo di Dante come profeta dell’Italia? Da una lunga tradizione culturale, che parte dalla “discoverta” di Giovan Battista Vico. E’ lui a ritenere Dante, sulla scia di Omero, lo scopritore del linguaggio poetico, capace di raccogliere in un solo “illustre volgare”, le sparse lingue della penisola, come Omero aveva fatto per i popoli della Grecia arcaica. Ma Dante, a differenza di Omero, non era una figura mitica, impersonale, una tradizione collettiva che si tramandava per via orale; era un poeta, con una sua spiccata personalità, sue opere e un suo ruolo nella storia del suo tempo. E si pose, secondo Vico, come artefice primo della lingua e dell’ethos della nuova Italia che si profilava faticosamente all’orizzonte e dolorosamente emergeva dalla barbarie ritornante. Fu Vico a cogliere il nesso tra lingua e nazionalità, ritenendo Dante il precursore dell’Italia. Il fondatore d’Italia nella prima rappresentazione eroica e mitologica è Enea, che lo stesso Dante richiama, attraverso Virgilio e l’Eneide. Il mito di fondazione nasce dal suo racconto epico. Da Virgilio a Dante, e da Dante a Petrarca e Boccaccio, dalla scuola poetica siciliana all’uso della lingua volgare: il cammino dell’identità italiana comincia poetando. Vico stabilisce una sequenza rigorosa: dalla filosofia italica nasce la lingua latina e dalla lingua latina prende forma la nazione italica. La sapienza genera la lingua e la lingua genera la nazione. E’ il percorso di una nazione culturale. La “scoperta” civile di Dante avviene solo tra la fine del diciottesimo secolo e il diciannovesimo, incrocia il romanticismo e culmina nell’idealismo risorgimentale. Il seicento fu un secolo senza Dante. Non dimentichiamo, del resto, che non solo il de Monarchia ma perfino la Divina Commedia era proibita nella Roma dei Papi fino al 1791. L’edizione che circolava in quegli anni, pubblicata nel 1728, recava la falsa dicitura di stampata a Napoli, mentre fu clandestinamente stampata a Roma con alcune parti censurate perché “disdicevoli”, diceva la prefazione, “a scrittore religioso”. Ciò rende l’idea di un clima sfavorevole alla riscoperta di Dante, se non in ambienti laici e ostili alla Chiesa, come la massoneria e la carboneria. Leopardi ritenne Dante “per intenzione e per effetto” il fondatore della lingua italiana; anzi, Dante fu il solo – a suo dire – ad avere l’intenzione di applicare la lingua italiana alla letteratura, attraverso “il poema sacro” ma anche tramite “le materie più gravi della filosofia e della teologia”, inclusa l’opera “dottrinale e gravissima del Convivio”. Giudicando la sua “vicenda sfortunata”, Leopardi considerò Dante “uomo d’animo forte, bastante a reggere e sostenere la mala fortuna (…) Tanto più ammirabile ma tanto meno amabile e commiserabile” rispetto al suo prediletto Torquato Tasso.

Dante indicò un cammino iniziatico e spirituale che è universale; e un cammino civile e culturale che è italiano. Anche se, come notò Prezzolini, Dante fu anche il padre degli antitaliani per amor deluso di patria. Dante non cerca lettori ma affiliati; non vuole dilettare il lettore ma trasformarlo. Da qui la sua grandezza e la sua solitudine. Dante, il più italiano dei grandi, il più grande degli italiani.

Marcello Veneziani e il suo “Dante, nostro padre”. Un libro capitale sul Sommo Poeta e sul politico che fondò l’Italia. Carlo Franza il 10 febbraio 2021 su Il Giornale. Un  libro, anzi un’antologia critica curata da Marcello Veneziani (Dante, nostro padre), pp.224,2021,  uscita da Vallecchi Editore,  raccoglie per la prima volta le migliori pagine in prosa di Dante Alighieri in vista del settimo centenario della sua morte, ricorrenza che cade  a distanza diquel fatidico settembre 1321. Dice Veneziani,  guardandosi attorno nei giorni nostri: “ “Quando il mondo sembra crollare, le civiltà precipitano, i popoli sono disorientati, la solitudine globale prevale, la strada maestra è una sola: tornare al principio e ai principi da cui principiò il nostro cammino”. E’ un’antologia nuova, nuovissima, e soprattutto  capace di riportarci ai tempi del liceo  e d’università  quando si leggeva non solo Dante e i suoi libri  ma si approfondivano tematiche  politiche e cosmogoniche. Veneziani  da vero studioso  analizza non solo il pensiero del Sommo  poeta ma ne  mette in risalto  la personalità, lo spirito polemico e visionario, la complessa concezione teologica,   filosofica e politica. Cinque sono i  temi (Amore, Sapienza, Lingua, Politica e Madre Terra),   non  certo scolastici che oltretutto  ci avrebbero già annoiato,  che hanno scandito il naturale percorso di vita e di studio,  a partire dai pensieri giovanili di Vita Nova  che svelano  la sua concezione dell’Amore e la sua venerazione per Beatrice; poi  il tempo della dottrina e della saggezza con i pensieri raccolti nel Convivio, frutto della maturità; ancora  la scoperta della lingua volgare e il suo rapporto con i dialetti attraverso le pagine del De Vulgari Eloquentia;  mentre con il trattato De Monarchia Dante rivela la sua visione personale del rapporto tra fede e politica, tra il regno di Dio e quello dell’uomo. E ancora, con Quaestio de Aqua et terra il Poeta si spingerà fino all’Empireo per concepire una cosmogonia dove ogni cosa diventa “lumen gloriae” e simbolo di fede. E alla fine di questo percorso si vedrà come Dante è stato il politico e il pensatore che “ha fondato l’Italia”.  Non è poco, l’assicuro. La novità più interessante è che Veneziani ha riscoperto Dante attraverso i testi meno conosciuti e le interpretazioni più oscure del pensatore celeste scortato da compagni di strada come Boccaccio, Bruni, Vico, Leopardi, Rossetti, Byron, Gentile, Croce, Pound, Eliot, Guénon, Evola, Valli, Gilson, Papini, Borges, Noventa, Del Noce, Morghen e Quadrelli;  una schiera di letterati  che dal Medioevo  fino all’Italia risorgimentale ne hanno respirato, assorbito e interpretato  il pensiero. Senza dimenticare che Veneziani già nel titolo ci consegna “Dante nostro  padre”, affettuoso, caro, lungimirante, alla luce di fede e ardore, sogno e delusione, serenità e angoscia  che appartengono a ogni tempo perché fanno parte della condizione umana e dell’eterno ritorno di tutte le cose. Il libro alza il velo  e  fa scoprire  cosa si nasconde dentro e dietro “’l velame de li versi strani”. Secondo Giuseppe Prezzolini, come si sa, Dante “resta il più grande degli Antitaliani, come potrebbero chiamarsi i giudici severi e i critici implacabili degli Italiani”. Mi piace ricordare che il poeta Thomas S. Eliot  in un saggio del 1950, “Cosa significa Dante per me,”  spiegava: “Ciò che si continua a imparare da Dante desidero sottolinearlo in tre punti. Il primo è che tra i pochissimi poeti di una simile statura non c’è nessuno, nemmeno Virgilio, che sia stato un più attento studioso dell’arte della poesia o un più scrupoloso, accurato e consapevole professionista del mestiere… La seconda lezione di Dante è quella dell’ampiezza della sfera emotiva… La Divina Commedia esprime nell’ambito dell’emozione tutto ciò che, compreso tra la disperazione della depravazione e la visione della beatitudine, l’uomo è capace di sperimentare”; e al terzo punto: “Dante è, rispetto a tutti gli altri poeti del nostro continente, di gran lunga il più europeo. È il meno provinciale, eppure… nessuno è più locale di lui”. Non possono sfuggire certi passaggi antipapisti del “De Monarchia”,  passaggi attualissimi come l’epistola ai cardinali italiani del 1314;  la chiesa del presente e il papato del presente con i suoi scandali  ne è quasi specchio  se già Dante in quel tempo  si rivolse  ai porporati definendoli “archimandriti solo di nome”,  scatenando il suo  sdegno addirittura con un  “vergognatevi dunque”. Dante Maestro e Padre dei nostri giorni, letterato attualissimo, scrittore sommo, politico sapiente.  La sua “Commedia” è il poema dell’esilio,  l’Inferno è “l’etterno essilio”,  ma la nostra vita di oggi  e di tutti, è un esilio, di un percorso che alla fine ci porta a Dio.  “Da essilio venne a questa pace”, scrive Dante a proposito di Boezio, incorniciandolo  nel canto decimo del Paradiso. Dante è l’Italia e l’Italia è Dante. Carlo Franza

Dante, storia di un arcitaliano. Marco Cicala su La Repubblica il 31 dicembre 2020.  Gli amori, il denaro, i vizi della politica, l'esilio, il successo. Con Alessandro Barbero abbiamo indagato su un mito nazionale. Che a 700 anni dalla morte ci racconta ancora chi siamo.

È solo un po' meno misterioso di quello di Cleopatra: ma insomma, professore, Dante aveva il naso adunco oppure no?

"E chi lo sa? Tutti i ritratti che abbiamo di lui sono stati fatti da gente che non lo aveva mai visto" sorride lo storico Alessandro Barbero nel chiostro di Santa Croce. Conversiamo a due passi dal cenotafio di Alighieri: quella tomba vuota che da secoli reclama inascoltata le mortali spoglie del Sommo, custodite tenacemente a Ravenna. Nella statua che sormonta il sarcofago fiorentino, Dante ha la solita aria accigliata. A renderlo così torvo furono i tormenti dell'esilio o un caratteraccio potenziato dalla proverbiale irascibilità toscana? "Quando penso a Dante la simpatia non è la prima cosa che mi viene in mente" ammette Barbero. "Ma se mi invitassero a bere un caffè con lui mi precipiterei. Uno storico si innamora sempre dell'argomento che studia. La passione è scoprire. Come un poliziotto che cerca di catturare un delinquente". E difatti il Dante di Barbero, pubblicato da Laterza, è un pedinamento lungo 360 pagine appresso a un genio che a sette secoli dalla morte resta inafferrabile. Altrimenti che genio sarebbe? L'avvio del libro è trascinante. Anche perché vi convolano a nozze le due grandi passioni di Alessandro Barbero: il Medioevo e la storia militare. Sabato 11 giugno 1289: le truppe fiorentine muovono verso lo scontro con gli aretini in quella che sarà ricordata come la battaglia di Campaldino. Dante ha 24 anni. È in prima fila. Si getta nella mischia, ma durante il macello - è lui stesso a raccontarlo - viene assalito dalla paura e fugge. Un comportamento che all'epoca non era considerato per forza disonorevole.

Valeva già il principio secondo cui "soldato che scappa è buono per un'altra volta"?

"In un certo senso sì. Intendiamoci: anche nel Medioevo si apprezzavano i coraggiosi e si disprezzavano i vigliacchi. Però non si pensava che se sei coraggioso non scappi. Più di tutto contava la competenza, il professionismo di chi durante la battaglia capisce cosa gli sta succedendo intorno. Parliamo di gente che conosceva bene le guerre, che le faceva davvero. I cavalieri senza macchia e senza paura ce li siamo inventati noi molto più tardi".

Dante apparteneva all'élite fiorentina. I suoi antenati si erano arricchiti prestando denaro. Ma anche sulla peccaminosità dell'usura, i medievali avevano opinioni elastiche. Se prestavi a un povero eri uno strozzino. Mentre se prestavi a un ricco movimentavi il capitalismo, facevi crescere il Pil, eri un rispettabile uomo d'affari.

"Gli antenati di Dante prestavano a tutti. Ma all'epoca usuraio è chi vive soltanto di prestiti. Se fa anche altre attività, la faccenda cambia. Tanto sul piano teologico che su quello sociale, il mondo di Dante si interroga sul problema dell'usura cercando sempre un equilibrio, soluzioni pragmatiche".

Firenze è la Wall Street del tempo.

"Più che la Wall Street, una città-banca. In Italia in generale e a Firenze in particolare circolava più contante che in qualsiasi altro posto d'Europa. Da sola, Firenze aveva entrate paragonabili a quelle di un regno. Nemmeno il confronto con New York rende l'idea di quale fosse allora la sua potenza economico-finanziaria".

Finché non la abbandona, a Firenze Dante vive da rentier.

"Sì, campa di rendita. E la sua condizione già rimanda a quella che sarà la drammatica crisi del capitalismo italiano nel Medioevo".

Crisi scatenata da cosa?

"Dall'idea che una volta diventati ricchi non si continua più a investire, ma si comprano terre e si fa i signori. Dante appartiene alla generazione di coloro che smettono di lavorare per sedersi sulle rendite".

Anche lui chiede soldi in prestito.

"A quei tempi chi ne chiede non è necessariamente in difficoltà economiche. Di solito chi fa grossi debiti è perché può permetterseli. Anche oggi a un povero non si fanno prestiti da cinquecentomila euro".

Benestante, Alighieri può dedicarsi alle cose dell'intelletto. E ai rovelli d'amore. Veniamo a Beatrice: alla fine questi due benedetti ragazzi quante volte si incontrarono?

"Senta, io ne ho contate soltanto due. La prima da bambini: Beatrice ha otto anni, lui quasi nove. La seconda quando Dante è diciottenne e incrociandola per strada sente per la prima volta la sua voce".

Poi corre a rinchiudersi nella sua cameretta e comincia una magnifica ossessione.

"Al liceo è capitato a tutti noi di innamorarci di una ragazza che non sapeva nemmeno che esistessimo. La differenza è che da una cosa del genere Dante ha ricavato un'enorme costruzione mentale chiamata Divina Commedia".

Ecco, appunto: al liceo ci martellavano con la figura di Beatrice "donna angelicata". Ma lei ricorda che Dante racconta di averla sognata nuda.

"Non mi faccia passare per uno che ha interessi morbosi. Però, sì, è proprio lui a riferirci quel sogno. Non dimentichiamo, tuttavia, che Dante appartiene a una generazione che si interroga infinitamente su cosa sia l'amore. Qualcosa di buono o cattivo? L'amore è visto come una potenza, come un essere mostruoso che può impadronirsi di te, cambiarti la vita, farti impazzire. Ci si chiede: non è che sotto spoglie da amico, l'amore sarà invece un nemico?".

Però Dante non resta inchiodato al casto ricordo di Beatrice.

"No, come sappiamo, prende moglie e faranno tre figli. Di loro abbiamo notizie, mentre di lei, Gemma Donati, restano pochissime tracce. In esilio Dante è costretto a separarsi dalla moglie, ma nella sua vita compaiono altre donne, ricordate o presenti. Anche se, certo, in vecchiaia lui si distaccherà sempre di più dalle cose dell'amore".

Alighieri piazza all'inferno il suo venerato maestro, e omosessuale, Brunetto Latini. Ma lei spiega come nei confronti dell'omosessualità il Medioevo sia stata un'epoca molto meno buia di tante altre.

"Nel mondo di Dante l'omosessualità è condannata ma non perseguita come oggi ci si potrebbe immaginare. Dagli studi che hanno approfondito l'argomento non risulta che ci fossero particolari campagne persecutorie. Quando venivano scoperti, gli omosessuali erano tutt'al più multati. L'intolleranza e i roghi arriveranno più tardi, con il Rinascimento, che si dimostrerà molto più duro anche verso gli ebrei. Nella Commedia Dante incontra diversi omosessuali. Non solo all'inferno, ma anche in purgatorio. Se gli omosessuali si sono pentiti mica vanno all'inferno. Se sono persone autorevoli, Dante li tratta con il massimo rispetto".

Professore, qual è la più grossa balla che il mito, la vulgata ci hanno raccontato su Dante?

"Direi l'immagine di un uomo integerrimo, dalla moralità assoluta. Non che fosse un disonesto, ma come quella di tutti noi, anche la sua vita fu piena di compromessi e contraddizioni. Compromessi che a posteriori Dante provvede a lisciare, a spianare, facendo finta che non siano mai esistiti. E se ne autoconvince".

Lascia Firenze inseguito anche da accuse di concussione. Fondate o inventate dai suoi avversari?

"La mia idea è che, essendo già abbastanza ricco, Dante non si sia buttato in politica per far soldi. Non credo che abbia rubato. Ma è pur vero che a quei tempi la politica funzionava in modi a noi molto familiari. C'erano anche allora gli amici da favorire, gli appalti e i finanziamenti da assegnare. E quando c'eri dentro, c'eri dentro. Ricordiamoci però che Dante viene a trovarsi in una crisi politica un po' speciale. A Firenze, fino a quel momento, il partito che andava al potere cacciava gli avversari ma senza giudicarli. Invece nel conflitto del Trecento quelli che prendono il potere individuano un certo numero di fuoriusciti contro cui organizzano processi".

Sommari?

"Non sono purghe staliniane. Non ci sono confessioni estorte, ma istruttorie e capi d'accusa molto precisi. Se in contumacia vengono rivolte a Dante accuse di malversazione, è perché si pensa che ce ne sia materia, perché si ritiene di poterle vendere come plausibili all'opinione pubblica fiorentina. Per trarne vantaggio, infamare ancora di più gli avversari".

Quel trauma politico è l'innesco della Commedia?

"Come sa, su questo esistono molte interpretazioni. Nel libro racconto Dante da storico, non da critico letterario. Però se il suo viaggio inizia "nel mezzo del cammin di nostra vita" è pensabile che Dante lo metta in relazione proprio con quei giorni dell'anno 1300 nei quali ci racconta che fu sul punto di traviarsi, di dannarsi".

Ricordandoli, usa la parola "follia". In che senso?

"Non lo sappiamo. Può voler dire che, da moralista, nell'impazzimento della lotta politica, l'umanità gli apparve come un mondo di pazzi criminali. Oppure può significare che in quei momenti aveva rischiato personalmente la pelle. O anche che gli era passata per la testa l'idea del suicidio. Tutte le piste restano aperte".

Esiliato, il guelfo Dante cambia idee politiche, fa il trasformista?

"Parla molto dell'Imperatore come salvezza del mondo, ma non per questo diventa ghibellino. In esilio siede al tavolo coi ghibellini per discutere su come rientrare insieme a Firenze. All'epoca i partiti politici sono schieramenti a geometria variabile, strutture trasversali che tengono insieme interessi diversi. Uno poteva essere guelfo e credere all'Imperatore. Dopotutto in certe fasi gli stessi papi si erano messi d'accordo con gli imperatori!".

In vent'anni di esilio, l'orgoglioso Dante subisce suo malgrado una mutazione: da ricco e libero cittadino politicamente impegnato diventa un nomade, un suddito, un postulante, un cortigiano. Grossa pugnalata al suo amor proprio.

"All'inizio vive quell'esperienza con sgomento. Appellarsi alla generosità dei signori faceva parte della sua cultura cavalleresca. Ma lo vediamo scrivere lettere di un'umiltà impressionante per uno che fino a poco prima era dirigente di un libero e potente Comune. Però gli anni dell'esilio sono anche quelli in cui Dante diventa Dante".

Una "star" della poesia. Pur in assenza di stampa.

"È l'uomo che ha scritto l'Inferno e il Purgatorio e di cui si sa che sta scrivendo il Paradiso. Opere che non vengono stampate, naturalmente, ma pubblicate, copiate, e che circolano facendone una leggenda già in vita".

Il Dante esiliato lavora come un matto. Oltre al poema, scrive saggi, trattati, epistole. Un cantiere a cielo aperto. In questo un po' le assomiglia?

"Vuol dire che scrivo troppo? (risata)".

Sia mai. Però lei è lo storico più popolare d'Italia. Studia, scrive, insegna, parla in tv, ai festival, sul web. Qual è la cosa che le piace di più?

"Alla fine scrivere. E studiare. Ma per me non sono dimensioni separate. Mentre raccolgo le fonti comincio a scrivere. Le due cose crescono in contemporanea. Quanto alla divulgazione in pubblico, è un lavoro molto bello e gratificante, ma di tipo diverso. Forse dovrei farlo a più piccole dosi".

Uno studente spagnolo apre il Don Chisciotte di Cervantes e lo capisce. Lo stesso un tedesco col Faust di Goethe o un francese con I miserabili di Victor Hugo. Invece un ragazzino italiano apre la Divina Commedia e si fa male, molto male.

"Ma I miserabili sono quasi contemporanei dei Promessi sposi! E non credo che se oggi un giovane francese aprisse un romanzo medievale di Chrétien de Troyes lo capirebbe subito".

Ha ragione.

"Ma ha ragione anche lei. Tanti capolavori della nostra letteratura sono molto antichi, hanno bisogno di note, spiegazioni. Non sono libri che leggi per divertimento, che ti porti a letto la sera. Sono pieni di parole con un senso diverso dal nostro. Però non tutte. Prenda il famoso canto Quinto dell'Inferno e il celebre verso 'La bocca mi basciò tutto tremante'... Non ci vogliono le note per capirlo".

Operazioni benemerite quali quelle di Vittorio Sermonti o Roberto Benigni hanno fatto molto per avvicinare a Dante il grande pubblico. Però la sua lingua resta un osso duro. A scuola ci faceva dannare. E all'università il dantista ci spaventava solo un po' meno del dentista. Lei che ricordi ha?

"Tutto sommato buoni. Ho ritrovato un numero del Corriere dei piccoli in cui si raccontava la giornata di un ragazzino di oggi nella Firenze di Dante. La prima copia della Divina Commedia la trovai in casa. L'ho letta tutta ma senza capirci niente".

Quando ha iniziato a capirla?

"Al liceo ci facevano leggere una cantica l'anno. Non ne ho ricordi traumatici come lei. Ma la Divina Commedia penso di aver iniziato a capirla solo adesso".

La Commedia consoliderà l'immagine, o il cliché, di un'Italia litigiosa, eternamente lacerata tra poteri, fazioni, campanili. La storia di altri Paesi europei è altrettanto rissosa, ma la loro letteratura non ci restituisce un'identità così divisa...

"Prenda una fortunata autrice contemporanea di bestseller storici come Hilary Mantel: i suoi romanzi sono ambientati nel '500 intorno alla corte dei Tudor. Si parla di un re, dei suoi ministri. Se invece vuoi fare un romanzo sul '500 italiano devi scegliere tra l'Inquisizione, Roma, Venezia, la Sicilia... Tra gli abitanti delle città inglesi ci saranno pure state rivalità, ma quelle rivalità non sono diventate la Storia d'Inghilterra. Mentre antagonismi, che so, come quelli tra Firenze e Siena hanno fatto la Storia d'Italia. Una Storia fatta di tante storie diverse".

Le spoglie di Dante andrebbero riportate qui a Firenze o lasciate lì dove stanno?

"Davanti a questa sua domanda mi permetta di avvalermi della facoltà di non rispondere".

È un suo diritto. Ma perché mai?

"Perché ho buoni amici tanto qui come a Ravenna".

Sul Venerdì del 31 dicembre 2020

Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 14 febbraio 2021. Dante Alighieri, escalation di commemorazioni e libri, previsto il picco con la data della scomparsa avvenuta settecento anni fa, la notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Dante, il volto dell' Italia più grande, impresso nel nostro immaginario con quel profilo tagliente, incoronato del lauro dei grandi. Cercando l' essenza più profonda della sua vita di uomo, abbiamo scelto, come filo conduttore, il saggio Le donne di Dante (il Mulino, pag. 424, euro 38), autore Marco Santagata, grande italianista, purtroppo scomparso lo scorso autunno, dal quale emergono lati inediti: non solo quello un po' stucchevole di Dante innamorato per l' eternità della soave Beatrice Portinari, prematuramente scomparsa e ritrovata nell' aldilà della sua trilogia. Ma un uomo incline alle tentazioni della carne, dotato di sensibilità sottile, anzi una specie di sesto senso, che addirittura lo portava a svenimenti, nel caso di emozioni forti: «Caddi come corpo morto cade...», diceva ascoltando il racconto struggente di Francesca da Rimini, che gli spiegava come fu uccisa dal marito insieme con l' amato Paolo Malatesta. Anzi, Dante letteralmente si avvinghia con l' immaginario alle figure femminili, è incuriosito, sedotto, affascinato. «Ricorditi di me...», gli sussurra Pia de' Tolomei. Bisogna guardare a un antico senso del peccato per scoprire l' essenza di Dante, e quindi il suo rapporto con il mondo femminile di allora, le donne che ha frequentato e amato. Molte, a prescindere dalle figure pilastro: la madre Bella, di nome e di fatto, con la quale aveva un legame dolcissimo, lei limava i lati aspri e scontrosi del suo bambino difficile, Tana, una delle due sorelle, che lo aiutò anche economicamente quando si trovava in difficoltà nell' eterno peregrinare dell' esilio. Quindi Beatrice Portinari, detta anche Bice, destinata a rimanere "figura nobilissima". E poi la moglie Gemma Donati, matrimonio combinato sin da quando erano bambini, giocavano insieme, gli portò un nome nobile ma una dote scarsa, in compenso fu lei a salvare i primi otto canti della Commedia, facendo sì che li riavesse nel corso dell' esilio, dopo l' accusa di concussione, complice Bonifacio VIII, condannato dapprima a una salatissima multa e poi alla pena di morte. Non si videro mai più. Un sentimento eterno lo riporta a Beatrice, con lei Dante usava tutte le "precauzioni" tipiche dell' epoca, cioè una forma di elegante ipocrisia: era d' obbligo fingere di interessarsi a un' altra (detta donna "schermo") per non far capire il vero oggetto dell'amore. E forse anche per quel gioco delle "due verità" Beatrice finì per sposare un altro (nell' aldilà rimprovererà Dante, gelosia retrospettiva), lui in chiesa guardava Giovanna, amica di Bice, che era anche la donna amata dal carissimo amico Guido Cavalcanti. Una curiosità, le sue preferenze andavano alle bionde, con la fronte alta e carnagione pallida: ed ecco l' approccio con una fanciulla che lo osserva dalla finestra dopo il funerale di Beatrice, lui la chiama la Pietosa ma in seguito, nella Vita Nova, le attribuisce il nome di Gentile, difficile resistere alla tentazione di quella donna che manifesta così grande comprensione per il suo dolore. Sì, è proprio amore carnale, anche se si dichiara spesso pentito per aver tradito il ricordo di Beatrice. E poi arriva un' altra, Lisetta, che gli corre incontro «baldanzosamente», per non parlare di una nobildonna di Pratovecchio, in Garfagnana, detta, poverina, la «gozzuta», ma a quanto pare gli aveva dato piacere, nonostante l' imbarazzante handicap, il rapporto fu duraturo. E in una poesia attribuisce con rancore il nome di Pietra a una fanciulla spietata che non si concede. E c' è chi ha spinto l' acceleratore sull' inclinazione al sesso da parte di Dante, accade in un altro libro, Dante di Shakespeare-Amor ch' nulla amato, di Rita Monaldi e Francesco Sorti (Solferino, pag.352, euro 20), abilmente costruito (da applauso) come opera teatrale: gli autori immaginano che venga ritrovato un manoscritto rimasto nascosto per secoli, dove William Shakespeare aveva vergato una tragedia basata sulla vita di Dante, percorrendone puntigliosamente i dati biografici, ma regalandogli le ali potenti del Bardo. Dove si scopre che tra le evasioni predilette dall' Alighieri c' era la frequentazione delle osterie, il buon vino era anche carburante per la sua fantasia, e aiutava a sopportare la fatica di una vita errante, fragile nel fisico, costretto a usare ogni astuzia per sbarcare il lunario, in questa o quell' altra corte. Condannato a non riveder mai più la sua Firenze, nonostante molti tentativi di forzare la sorte. Vino e donne, che spesso lo inseguivano, nell' immenso delirio creativo del capolavoro. Grandezza senza confronti, soltanto William Shakespeare, appunto, è suo pari nel mondo. O forse no.

"Riporto Dante sulla terra. Ma ora è una tragedia". Uno dei massimi poeti italiani immagina l'Alighieri in un nuovo viaggio. Nell'Italia di oggi...Luigi Mascheroni, Domenica 17/01/2021 su Il Giornale. Per dare nuova vita a un mito, serve un mitomodernista. E per far scendere il Poeta dal piedistallo, ci vuole un grande poeta. E così Giuseppe Conte, fondatore del Mitomodernismo, uno dei più grandi poeti italiani di oggi, scuotendo via la polvere e la cappa di piombo che ha ricoperto la figura di Dante Alighieri (1265-1321), nei settecento anni dalla morte, re-inventa a modo suo, con un'operazione spericolata, coraggiosa e necessaria, il viaggio del Sommo. E lo fa - in un romanzo visionario e coltissimo: Dante in love (Giunti, pagg. 204, euro 17; in libreria dal 20 gennaio) - applicando a Dante la più sottile pena del contrappasso si possa immaginare. Come allora gli fu concesso di viaggiare col suo corpo di carne fra le ombre dell'aldilà, così oggi gli è permesso di tornare come ombra fra gli uomini di carne.

Per riconsegnarci il vero Dante, bisognava ribaltare tutto.

«Dante viene visto come un esponente della cultura medievale, un filosofo, un poeta... Invece prima di tutto va visto come una fonte di energia spirituale. Lui è un creatore di immagini straordinario, il suo poema ha una potenza narrativa modernissima, e la Commedia è un'epopea figlia di Omero e Virgilio, ma ribaltata, in cui il personaggio principale è egli stesso, Dante Alighieri, poeta fiorentino. Un'intuizione che fa fare un passo decisivo alla letteratura universale».

E rieccolo, qui e ora, il personaggio Dante. Che Giuseppe Conte - scrittore di valore inversamente proporzionale al politico suo omonimo - immagina tornare sulla terra, una notte all'anno, per 699 anni, finché, alla settecentesima, lo incontriamo noi lettori. E lo vediamo vagare, spaesato e sconcertato, oggi, nella sua Firenze, fra il Battistero e il Duomo, in una città impaurita e deserta come al tempo della Peste nera, dove aleggia una «minaccia oscura» e l'aria è irrespirabile («Non potevo evitare il parallelo, ho scritto il romanzo durante la prima ondata della pandemia, chiuso nel mio studio, solo davanti al computer, da dove ormai passa tutto: amicizie, lavoro, informazioni... io stesso ombra fra le ombre del mio libro»). E da qui, fra nuove maschere di morte, vecchi fantasmi, scoperte sconvolgenti e antichi sogni, inizia un nuovo viaggio, in cui Dante incontrerà - tra tante donne dello schermo, ormai solo televisive - una nuova Beatrice, una studentessa americana: Grace, «Grazia»...

La prima cosa di cui si accorge Dante è la scomparsa del bagliore delle stelle, e il dilagare di quello dei cellulari.

«Il mio Dante ha visto passare il tempo, anno per anno. Ma soltanto per un giorno: vede giusto dei segnali, non lo scorrere completo della Storia. E giunto al settecentesimo anno, trova il mondo stravolto. Attenti: Dante non è un nostalgico. Osserva ma non si pronuncia attraverso categorie ideologiche. È perplesso, quello sì. Ma chi non lo sarebbe di fronte a turisti distratti e chiassosi che, davanti al suo bel San Giovanni, in short e la bocca sporca di pizza al trancio, si fanno un selfie?».

Il Poeta lamenta una perdita del senso di ordine da parte dell'Occidente: nei comportamenti, i gusti, le città, i valori.

«Dante, 700 anni dopo, vede un Occidente, soprattutto, che non ha più il senso di che cosa è stato. Il Poeta ricorda il suo tempo, la lotta e la passione civile, lo spirito metafisico dell'Europa, figlia della filosofia greca e del cristianesimo... Uno spirito oggi perduto. Manca la dimensione metafisica e la forza di una posizione netta di fronte al mondo e alla crisi che lo sta attraversando».

Cosa significa che l'Occidente non ha più una tensione metafisica?

«Significa non avere più una visione, un progetto per il futuro, la volontà di raggiungere grandi obiettivi. Dante voleva l'Impero. Oggi facciamo fatica a pensare a un'Europa unita dall'economia. Abbiamo perso sogni e speranze di grandezza. Gli europei non riescono neppure a vedere la gloria del proprio passato, o la rinnegano, ne hanno paura. E gli uomini di Lettere e di Scienza, i pensatori, gli scrittori, non fanno nulla per difendere quella Storia, quella memoria, anzi sono spesso in prima fila per rinnegarla, condannarla, cancellarla. Dante stesso può cadere sotto la scure di questa folle ossessione che distrugge i pilastri della nostra civiltà. Qualcuno comincerà a dire che non va più letto, che non è corretto... Risultato? Saremo più poveri e schiavi degli altri».

Dante si accorge che cambia tutto, tranne il Potere. E anche la «serva» Italia è rimasta così: era un «bordello» allora, lo è sette secoli dopo: fra ingiustizie, corruzione, inettitudine.

«Dante, nell'Italia di oggi, si chiede se la politica non sia simile alla Firenze dei suoi tempi, quando il primo villano che arrivava in città si creava una sua cerchia e si metteva a comandare; quando una legge veniva fatta a ottobre e a novembre non valeva più... Avesse visto i Dpcm... Avesse visto un comico diventare leader politico... Dante constata la mancanza di forza progettuale dei partiti di oggi: chi ha mai visto un politico contemporaneo manifestare una grande idea, un'utopia, una speranza? Oltre la Tav e il ponte sullo Stretto non vanno. Gli uomini del suo tempo si sacrificavano per vedere sorgere le cattedrali, noi ci sfianchiamo per il Mes».

Dante fu rovinato dalla politica. Il poeta - l'intellettuale - deve fare politica? Come?

«Dante, facendo politica a Firenze, fu frainteso, accusato ingiustamente, bandito dalla sua città, espropriato dei suoi beni. Era un politico anche fazioso. Mandò in esilio Cavalcanti, il suo amico più caro. E la pagò cara, finendo egli stesso in esilio. E così è diventato il simbolo dell'artista che non cede a compromessi davanti alle proprie idee. E oggi? Io vedo molta gente che per andare a letto con il Potere accetta qualsiasi cosa, vedo un conformismo spaventoso... vedo intellettuali contraddirsi senza vergogna. Invece l'artista, il Poeta, deve diffidare del Potere, proprio perché il Potere diffida di lui... Deve tenere vivi i propri sogni a qualsiasi costo, non svendersi, deve restare libero da ogni dogma... Ma pochi della mia generazione sono stati capaci di tenersi lontano da quello marxista: hanno preferito cattedre, posti, incarichi...».

L'intellettuale organico, quello impegnato, il consigliori del Principe...

«Sia chiaro: io non sono per rinchiudersi nella Torre d'avorio. No, assolutamente. Bisogna giudicare, spronare, indicare. L'intellettuale deve sporcarsi le mani... Ma svettando, non strisciando. Facile prendersela con Trump e Salvini... Più difficile affrontare i problemi agitati da Trump e Salvini. Oggi non vedo passioni, vedo fazioni».

E la politica di oggi?

«È fatta da Renzi e Conte, il mio omonimo. Il primo è figlio di Ares, attaccabrighe, bizzoso, pieno di voglia di contendere. Il secondo ha un equivalente mitologico femmineo nella sirena, immobile, che incanta e fa naufragare i marinai, cioè la Sinistra, dietro di sé... Ma sono figure minori, lottano come Titani per un potere minimo.. Io vorrei che la politica tornasse a essere servizio al Paese, alla nazione, al proprio popolo».

Invece è al servizio di se stessa.

«La civiltà di Atene nasce quando Atena trionfa. E Atena è la dea del Sapere. La Democrazia senza Sapere non vale niente. Invece oggi la Politica disprezza il Sapere. Siamo arrivati all'Uno vale uno. E infatti siamo al grado zero della democrazia. Da poeta, vorrei prendere a sberle Beppe Grillo».

Dante, padre del «volgare», cioè l'italiano, si accorge amaramente che abbiamo perso la nostra lingua, «buona come nessuna altra al mondo per contenere tutto»: le invettive più violente e le preghiere più dolci. Cosa è successo?

«È successo che al prosciugamento dei sentimenti è seguito un impoverimento della lingua. Tutti ripetiamo fino all'ossessione la parola emozione, continuiamo a emozionarci per tutto... Ma abbiamo perso le parole che raccontano i movimenti della nostra anima. Non siamo più in grado di seguirla, e ci fermiamo ai Wow!. Che tristezza. Bisogna ricordarlo sempre: è il linguaggio che rende umano l'uomo. Una lingua povera testimonia un uomo povero. In fondo, è la lingua media dei romanzi di oggi: verbi all'indicativo presente, un po' di gergalità, un punto esclamativo. Abbiamo perduto su tutta la linea».

Ma Omnia vincit amor. Dante torna per un desiderio carnale. Per amare di nuovo. Dante in love, appunto.

«Dante non può dimenticare i suoi sogni d'amore. E del resto tutta la sua opera e la sua vita sono mosse da Amore, fin dal sonetto Guido, i' vorrei dove, parlando di amici, di giovinezza, di donne, si vive un sogno magico, non ancora verticale verso Dio, ma orizzontale, umano, carnale. Poi arriverà Beatrice a verticalizzare l'Amore ed elevarlo verso la contemplazione del divino... Ed ecco la Commedia, dove a trionfare è L'amor che move il sole e l'altre stelle».

Cosa vuol dire, come si ripete sempre, che ci salverà la Bellezza?

«Niente, se la bellezza non è caricata di un forte senso sacrale. Oggi bellezza è una parola inflazionata. Esistono tanti gradi di bellezza: sensuale, fisica, metafisica. Ma quello che serve è la Bellezza come energia spirituale, che rinnovi la società». 

Perché un francescano deve studiare Dante, l’attualità dell’analisi del Venerabile Castrillo nel 2021. Antonio Modaffari su Il Riformista il 2 Gennaio 2021. Ecco il 2021, un anno che speriamo possa essere davvero nuovo, che possa rappresentare un punto di ripartenza dopo le sofferenze del 2020.

L’Italia celebrerà Dante Alighieri, nel nuovo anno, infatti, ricorrerà il VII Centenario della morte del Sommo Poeta che nella Divina Commedia inserisce Francesco d’Assisi tra i beati del Paradiso. Il Padre Serafico compare più volte, Dante ne esalta, elogiandolo, la scelta di vita. Una forte ammirazione. C’è un altro legame tra Dante e il francescanesimo, un legame sicuramente più piccolo ma segnato sempre da grande ammirazione. È quello del Venerabile Mons. Agostino Ernesto Castrillo, Vescovo di San Marco Argentano e Bisignano a metà del ‘900 e frate francescano. Mons. Castrillo era anche un letterato. Un professore che amava i classici e tra i classici la sua opera preferita era proprio la Divina Commedia. L’amore, di mons. Castrillo verso quest’opera, si evince con le tante citazioni che fa di altri autori; tutto ciò a testimoniare le continue ricerche e gli studi approfonditi che ha dedicato a quest’opera. Lo si capisce leggendo i suoi quaderni di appunti, testimonianza rara di bellezza letteraria. C’è un punto che trova particolare rilevanza. Secondo mons. Castrillo, infatti, esisteva un rapporto tra i francescani e il Sommo Poeta: «I francescani-scriveva il Venerabile- hanno il dovere di studiare Dante più di qualunque altro italiano. 1° Poiché Dante fu terziario e volle morire con l’abito di San Francesco. 2° Perché Dante amò i francescani; picchiò spesso alla porta dei loro conventi e scrive a San Francesco uno dei canti più belli del Paradiso. 3° I francescani hanno avuto sempre un culto speciale per Dante e parecchi hanno commentato pubblicamente la Divina Commedia. 4° Fu un francescano, Pietro da Figline, nato nel 1500, il quale dette per primo al divino poema l’epiteto Divina».

Con Dante nella città dolente per separare morale e diritto. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 3 Gennaio 2021. «Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura,/ ché la diritta via era smarrita». La “via diritta” che seguiremo in questa rubrica, mescolando l’immaginario dantesco con l’orizzonte culturale contemporaneo, è letteralmente la via del “diritto”. Il termine che abitualmente utilizziamo in ambito giuridico, infatti, deriva dal latino directum, «ciò che segue un movimento in linea retta». Come suggerisce il lemma in tutte le lingue di matrice indoeuropea – l’inglese right, il tedesco recht e il francese droit – il diritto è ciò che segue un percorso rettilineo, è una strada senza curve, una via diritta senza deviazioni. Il diritto è la “via diritta” che si fa metafora di un comportamento conforme alle regole (morali oltre che giuridiche) che conduce alla rettitudine. Il diritto è, dunque, inflessibile: nessuna inclinazione è prevista, nessuna mutazione è tollerata. Come dice l’espressione proverbiale, chi “fila diritto” si comporta bene e non ha cedimenti sul piano della condotta morale e disciplinare. Il diritto, insomma, non giustifica piegamenti, deformazioni, storture. Indica la perfetta “linearità” di tutto ciò che procede in linea retta. Ma la linearità indeformabile promessa dal diritto si scontra inevitabilmente con le storture del fare umano, con le infinite inclinazioni dell’umana natura. Come ha scritto Immanuel Kant, «da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di perfettamente diritto». Si apre uno iato tra ciò che si vorrebbe liscio e ciò che per sua natura è increspato da infinite pieghe. La linea retta, infatti, rimane un’utopia, un’invenzione umana che non esiste in natura, un ideale regolativo irraggiungibile.

La “diritta via” per l’uomo è da sempre la via smarrita. Per capire qualcosa di più sulle declinazioni contemporanee del “diritto” e sulle conseguenti discussioni giuridiche che hanno invaso e contaminato l’immaginario della popular culture e lo spazio pubblico dei nostri tempi è inevitabile seguire il Sommo Poeta e scendere con lui negli inferi. L’atto penale, come ha scritto Simone Weil nel testo pubblicato postumo con il titolo L’attesa di Dio – ha «il colore stesso dell’inferno». “Fine pena: mai”. Un monito che potrebbe campeggiare all’ingresso di tutti gli infernali gironi danteschi, il peggiore incubo dei garantisti, dove le pene sono per definizione senza conclusione, destinate a ripetersi all’infinito senza possibilità di redenzione o di interruzione. Ma proprio in quest’inferno giustizialista si apre un ricchissimo campionario per possibili riflessioni che fanno riferimento ai mutamenti, nell’immaginario collettivo e nella sensibilità sociale contemporanei, in merito ai temi connessi al peccato e al castigo, alla colpa e alla pena, al crimine e alla punizione.

Quali sono, infatti, i comportamenti condannati da Dante? Spesso è il rigore morale e religioso dell’autore a emettere la condanna definitiva: i comportamenti dei dannati sono stati più immorali che illegali, più disprezzabili che perseguibili. Eppure, le violazioni dantesche non riguardano solo le leggi morali, ma spesso anche quelle giuridiche, infrazioni delle norme che presidiano la società e la convivenza civile. Si può fare danno a Dio, a se stessi, agli altri, ma anche alla società intera. E in molti casi, malgrado vi sia la chiara violazione delle norme – morali o giuridiche che siano – l’autore è mosso da pietà e soffre per la pur inevitabile condanna. Nel viaggio nella selva oscura, insomma, è in gioco proprio l’annosa – e sempre attuale – differenza tra peccato e reato, nel cuore della prossimità e della distinzione tra l’ambito morale e l’ambito giuridico. La sfera del potere e la sfera del sacro sono inevitabilmente confuse, la legge morale fa tutt’uno con la legge positiva, non c’è scarto tra giudizio di Dio e il giudizio degli uomini, tra la giustizia divina e la giustizia umana. Non a caso le pene scelte da Dante per i suoi dannati non sono sempre pura invenzione letteraria, ma spesso hanno precise referenze storiche: le pene dell’Inferno non si discostano molto da quelle praticate nella sua epoca o già sperimentate in epoche precedenti. Dalla legge del taglione che punisce la parte del corpo che si è macchiata del delitto allo squartamento del corpo del condannato, fino all’esposizione alla gogna ed allo scempio da parte degli animali. Basti un esempio. La pena dei simoniaci descritta nel canto XIX dell’Inferno corrisponde alla tecnica della “propagginazione”, un metodo di esecuzione capitale utilizzato nel Medioevo, che consisteva nel calare a testa in giù il condannato in una buca che veniva successivamente riempita di terra, di melma o di sterco in modo che il condannato morisse soffocato. Ci sembra di essere molto lontani da quel bosco tenebroso in cui giustizia terrena e castigo divino sono intrecciate da mille trame. Il nodo gordiano era stato scisso con un colpo netto da Cesare Beccaria nel suo famosissimo Dei delitti e delle pene edito nel lontano 1764 che, proprio per la distinzione tra reato e peccato, venne messo all’indice dei libri proibiti. Beccaria distingue inequivocabilmente tra i reati, danni fatti alla società e all’utilità comune che dalla società devono essere giudicati e puniti, e i peccati che «dipendono dall’imperscrutabile malizia del cuore» che solo Dio può giudicare, perdonare o punire se «ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza». La punizione per aver trasgredito la legge è ben diversa dall’espiazione di un oltraggio contro Dio che non abbiamo i mezzi e gli strumenti per giudicare. A più di duecentocinquant’anni di distanza, la legge morale dovrebbe essere ben distinta dalla legge positiva, il diritto dovrebbe essere completamente desacralizzato e dovremmo essere ben consapevoli che peccato e delitto, così come crimine e colpa non sono sinonimi. Come giustamente aveva chiosato, ancor prima di Beccaria, Thomas Hobbes, «se i reati son peccati, non tutti i peccati son reati». Eppure – sulle pagine del Riformista lo sappiamo fin troppo bene – spesso riappaiono tendenze a confondere il piano giuridico con quello morale; riemergono spinte volte a condannare comportamenti che dovrebbero rimanere nella sfera privata dei singoli e nulla hanno a che fare con il terreno d’azione di uno stato di diritto moderno. Solo accompagnando Dante e Virgilio nella “città dolente” e confrontandoci con occhi nuovi con “l’etterno dolore” de “la perduta gente” saremo in grado di riconoscere di nuovo una “via diritta” che ci conduca lontano dalle tenebre.

Torna il moralismo sui peccati di gola, oggi come nell’inferno di Dante. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 28 Febbraio 2021. Siamo sotto «la piova / etterna, maladetta, fredda e greve». C’è una sensazione di già visto. Anche Cerbero non è nuovo. È un mostro dell’Averno. Virgilio ce lo consegna nel libro VI dell’Eneide e Dante lo mette a guardia del girone nel sesto canto dell’Inferno. “I miseri profani” sono stesi per terra in mezzo a fango putrido come animali. Urlano come cani e strisciano come vermi. La descrizione della colpa è affidata a un certo Ciacco, l’unico che si solleva dalla melma che “pute”, un fiorentino il cui soprannome in dialetto significa “porco”. Gli spiriti dannati stanno scontando «la dannosa colpa de la gola». Come in vita erano andati dietro alle grandi raffinatezze gastronomiche, i golosi per contrappasso sono sdraiati nel fango maleodorante come maiali. I peccatori, abituati alla varietà luculliana delle vivande, sono flagellati da una pioggia immutabile. «Mai non c’è nova». Il peccato di gola è una cosa seria per l’epoca. Nella teologia cristiana è uno dei sette peccati capitali. Tommaso D’Aquino ne definisce la portata: l’essere umano quando «eccede la giusta misura nel dedicarsi ai piaceri del cibo e delle bevande» fa peccato. Una trasgressione chiarissima: non la qualità del cibo, ma la quantità. Più che golosi i peccatori sono “ingordi”. L’ingordigia di cibi e bevande è cosa grave; sul piano personale è segno di perdita del controllo di sé, ma sul piano pubblico è un vero reato sociale. La sopravvivenza quotidiana per la maggioranza della popolazione è una scommessa, la vita dei più è una dura lotta per portare in tavola almeno un pasto caldo. La sfrenatezza alimentare è una insopportabile offesa all’esercito dei veri miserabili che patiscono la fame e la povertà. Gli ingordi, intenti solo a soddisfare il proprio appetito, sembrano ignorare la miseria e il dolore degli altri. Mangiare tanto significa togliere il nutrimento a chi non ne ha. L’ingordigia, dunque, tradisce una colpa ancor più grave: l’avarizia e la superbia. Non è un caso che il primo peccato in assoluto sia stato un peccato di gola. Adamo ed Eva che assaggiano il frutto proibito dell’albero del bene e del male. Dietro quella prima trasgressione alimentare sono passati tutti i mali del mondo. «Più non ti dico e più non ti rispondo» conclude Ciacco. Nell’inferno dantesco il rapporto tra «la dannosa colpa de la gola» e la depravazione alimentare è solo evocato, la golosità è un tema del tutto marginale nell’equilibrio del canto. Diciamo la verità: la colpa è solo abbozzata e ogni riferimento alla gastronomia è rapidamente liquidato. C’è il peccato, ma non c’è il reato. Un atteggiamento omertoso del Sommo Poeta, proprio in quegli anni di Rinascimento culinario. Nel periodo in cui vengono scritte le terzine dei golosi – spesso lo si dimentica – la cucina fa enormi progressi. Agli inizi del Trecento che vengono pubblicati i precursori dei ricettari moderni. Il famoso Liber de coquina è del 1304. Dante, però, è il meno adatto a parlare di gastronomia e di ghiottonerie. A tavola rifiuta gli eccessi e gli artifici dei sontuosi banchetti, e predilige un mangiare semplice e sobrio. Come ricorda Boccaccio «nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità». Dante disapprova chi dimostra di «non mangiare per vivere, ma più tosto di vivere per mangiare». Siamo sempre nel perimetro dell’Etica Nicomachea di Aristotele e della sua teoria del “giusto mezzo”. Siamo ancora molto lontani dal famoso adagio di un filosofo ateo e materialista: “l’uomo è ciò che mangia”. La marginalizzazione dei piaceri della tavola è senza appello, tanto che i vizi di gola non meriteranno troppe attenzioni del Poeta neanche nel canto XXIV del Purgatorio. E da allora le ragioni del cibo non albergheranno più nella cultura italiana. La cultura letteraria e la cultura gastronomica viaggeranno in carrozze separate. Le arti maggiori non si mescolano con le arti minori. Non “l’amor del gusto”, ma l’amor del giusto. Una distinzione che alberga nell’uomo, misura di tutte le cose. Il nostro corpo ospita sensi nobili e superiori: la vista e l’udito; e sensi ignobili e bassi come il tatto, l’olfatto e il gusto. La cultura si collega alle parti più dignitose della psiche, e non può compromettersi con le parti infime del corpo. La cultura non potrà trattare di gastronomia, che insiste con i suoi odori e sapori sulle parti più basse dell’individuo. I temi del “basso corporeo”, per usare un termine di Piero Camporesi, non meriteranno le attenzioni degli intellettuali. La «dannosa colpa de la gola» fu il primo di infiniti tentativi di fermare il progresso a suon di reiterate scomuniche gastronomiche. Sembra che la corruzione morale si accompagni sempre a nuove infatuazioni culinarie; che il degrado dei costumi viaggi sempre in compagnia di nuove ricette. Dante non si sbaglia, in cucina c’è un satanico odore di zolfo. Dietro l’arida matematica delle dosi, si nasconde il cardine di una cosmogonia rovesciata e diabolica. «Dio ha inventato il cibo, il diavolo il cuoco», scrive Joyce nell’Ulisse. Cucinare è l’attività che distingue l’uomo dagli altri animali. Solo le bestie si limitano a “mangiare per vivere” scegliendo il cibo per le sue proprietà energetiche e nutritive. Colui che cucina, invece, sovverte l’ordine delle cose. Inverte l’intero sistema nutritivo, lo allontana dal disegno divino. Gli alimenti allo stato grezzo vengono sottratti al loro destino e perdono nei fornelli la loro verginità; si mescolano, variano il proprio contenuto e danno luogo ad una piccola rivoluzione ontologica. Ogni religione si accosta con una preghiera al cibo per la paura che incutono le pietanze che escono da quel laboratorio alchemico che è la cucina. La censura dantesca del «basso corporeo» ci ha privato di alfabeti simbolici. Il cibo, ribadisce Roland Barthes, è «un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni, di comportamenti». Ignoriamo una lingua molto articolata, fatta di elementi naturali che sostituiscono le vocali, le sillabe, le parole; e di una sintassi che li trasforma in elaborati costrutti narrativi. I golosi, non a caso, vengono appena dopo i lussuriosi. Il legame stretto tra cibo e sesso è ormai acquisito. Al bisogno – garantire la sopravvivenza del singolo e della specie tramite nutrizione e procreazione – si accompagna il desiderio: l’appetito e il piacere sessuale e gastronomico. La gastronomia è inscindibile dal godimento e dalla dissipazione. La preparazione delle cailles en sarcophage risarcisce, nel Pranzo di Babette, la sventurata cameriera di tutto il dolore della sua condizione. Il sontuoso pranzo è una petite mort, come Bataille definisce l’estasi dell’orgasmo: il più effimero e voluttuoso di tutti i piaceri. Solo recentemente siamo usciti dalla tirannia moralistica e abbiamo riabilitato la cucina tra le scienze umane. I cibi non sono solo buoni da mangiare, come ha detto Lévi-Strauss, ma anche “buoni da pensare”. Finalmente la rivincita del “basso corporeo”. Dall’intransigenza dantesca, però, siamo piombati in un’ipocrita connivenza. Nella scena alimentare contemporanea si intrecciano tutte le contraddizioni di una società schizofrenica. Ora che l’Occidente è libero dallo spettro della carestia e il cibo ha prezzi accessibili, l’homo edens è combattuto: consuma ma lo condanna; mangia con la bocca, ma biasima con la parola. La tavola diviene ufficio religioso: un fideismo alimentare, figlio dell’ateismo spirituale, diviso tra gastronomia edonistica e pauperismo penitenziale. All’epoca di Dante l’alimentazione indicava la stabile appartenenza a un gruppo socio-culturale preciso. Oggi rappresenta i conflitti identitari e relazionali di una società sempre più instabile e incerta. Non è un caso che il disagio contemporaneo e l’insicurezza affettiva confluiscano spesso nei disturbi dell’alimentazione, tra rifiuto totale e consumo compulsivo di cibo, nel pendolo patologico tra anoressia e bulimia. D’altronde la doppia prescrizione fornita dalla società è contradditoria e patologica: cedi ai peccati di gola e mettiti a dieta; consuma più che puoi e mantieniti “in forma”. L’astinenza e il digiuno non sono più manifestazione dell’ascetismo pagano o della mortificazione cristiana, ma una perversione della “diet culture”, la cultura della dieta che ci chiede di avere un “corpo conforme”. Stiamo sempre per entrare a dieta o per uscirne. L’onda lunga del moralismo contro i golosi non sembra estinguersi. Addirittura la grassezza non si presta più ad essere il maggiore riconoscimento del potere. Sono lontani i tempi di sovrani obesi come Anna Stuart e di Giorgio IV: i potenti attuali sono in preda alla sindrome di Napoleone e prediligono alimenti leggeri. La frugalità a tavola è manifestazione di dominio delle passioni. La sobrietà comunica agli altri un’immagine di efficienza e di padronanza di sé. Anche se Michel Onfray – il filosofo francese edonista, autore di una inebriante “gaia scienza alimentare” – ci invita a diffidare dei teorici della frugalità: chi reprime i piaceri del corpo, inonda di disprezzo tutta l’umanità. E nella storia ci sono esempi temibilissimi: da Saint-Just a Hitler. Eppure il terrorismo repressivo incalza: la tavola come crapula, la convivialità come orgia, l’affetto come debolezza, la gioia di vivere come tentazione. Il mondo di oggi è popolato da clerici mangianti: esseri bifronti che predicano il culto del piacere e quello della sua castrazione. La pandemia ha reso evidente questa tendenza patologica: ci siamo aggrappati alla tavola come a una scialuppa di salvataggio contro la precarietà del mondo esterno, ma siamo stati subito travolti dal senso di colpa. Dopo aver sfornato dolci e spadellato leccornie, dobbiamo scontare la pena tra beveroni ipocalorici e insipide portate light. Lo star bene a tavola torna ad essere una colpa e il bipolarismo alimentare contemporaneo ci ricaccia all’inferno. Tra le pentole si annidano ancora oscuri presagi. Ogni volta che alla fine di un pasto ci alziamo pentiti inizia a tirare una brutta aria. «La piova / etterna, maladetta, fredda e greve».

Viaggio nella poesia di Dante, la storia di Paolo e Francesca tra oscurità e bellezza. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 10 Febbraio 2021. «In quel luogo privo di luce/ si urlava come il mare tempestoso, / agitato da venti contrari». Questo è il primo vero scenario infernale. Buio pesto e aria pesante. Un gran vento agita e percuote le anime dei dannati: «Una bufera mai doma/ travolgeva nel turbinio gli spiriti, tormentandoli e sbattendoli con violenza». Questa è la prima pena da cui risalire alla colpa dei condannati. «Intesi ch’a così fatto tormento/ enno dannati i peccator carnali». Sono i lussuriosi e, a una prima lettura, queste anime dovrebbero espiare nella bufera il peccato della carne. Anche per loro si applicherebbe la legge del contrappasso che governa l’aldilà infernale: la regola secondo cui la pena esprime l’esatto contrario della colpa (dal latino contra e patior, patire il contrario). La punizione come l’opposto della colpa in vita. Ma se consideriamo meglio le cose, non siamo certo di fronte a una punizione così pesante ed esemplare. Dante anticipa la tolleranza dei moderni, è benevolo verso le passioni carnali. Il girone è quello più lontano dal centro dell’inferno e la condanna è tutto meno che terribile. In effetti, la pena è affine al peccato; è proprio il suo equivalente. I lussuriosi vengono trascinati in una grande tempesta, come in vita si sono lasciati trasportare da una libidine smisurata. Anche Saffo aveva descritto la passione «come un vento che si abbatte sulle querce sulla montagna». Il vento è il disordine, l’assenza di lucidità, l’allontanamento dalla ragione. «Di qua, di là, di giù, di sù li mena» come un tempo la loro vita si era abbandonata agli istinti carnali e al desiderio sessuale. I dannati sono soggiogati da una tempesta burrascosa, tanto quanto è stata tempestosa la loro vicenda terrena. Nell’aldilà trovano il loro inferno paradisiaco o il loro paradiso infernale: condannati a un’eterna tempesta ormonale, a una adolescenza infinita in cui la componente biologica si affaccia in tutta la sua potenza e gli ormoni prendono il sopravvento sulle incerte difese della nostra innocente giovinezza. I lussuriosi, beati loro, sono incarcerati in uno sconfinato Sturm der Liebe, una Tempesta d’Amore. E il fatto che Dante provi pietà, mista a un certo senso di autobiografico smarrimento rende il poeta umano, troppo umano. E, ça va sans dire, l’interesse va per quelli che morirono per amore. Due “anime affannate” in particolare: un uomo e una donna, che, nonostante la tempesta, restano fermamente avvinghiate. Paolo e Francesca. Inizia così una delle vicende più famose della letteratura italiana, la prima educazione sentimentale della scuola dell’obbligo. Proprio per questo non si può evitare di indagare le questioni meno note e più inquietanti del racconto dantesco. I due stanno all’inferno e la cosa è più che opportuna per non dare adito a equivoci sulla valutazione morale dei fatti. Il loro “uscir da la schiera”, però, si giustifica con l’eccezionalità della storia passionale. Il racconto ha del sensazionale anche perché l’episodio di Paolo e Francesca appartiene in primo luogo alla cronaca dell’epoca. Paolo Malatesta di Rimini e Francesca Da Polenta di Ravenna erano cognati (Francesca era infatti andata in sposa a Gianciotto Malatesta, fratello di Paolo). Entrambi scomparvero intorno al 1287. Sulla loro sorte si potevano fare solo congetture. Si vociferava di un delitto, ma l’alleanza tra Ravenna e Rimini era così conveniente che il crimine era stato messo a tacere da entrambe le famiglie. Rimaneva una delle tante dicerie che riguardavano le famiglie signorili dell’epoca. Dante aveva vent’anni quando avvennero i fatti e ne scriverà 13 anni dopo. Il poeta aveva partecipato alla Battaglia di Campaldino e Bernardino da Polenta, fratello di Francesca, fu suo compagno d’arme. Le confidenze sul delitto, quindi, gli arrivarono da una fonte diretta. Il poeta viene a conoscenza di tutti i particolari del fatto di sangue e, pur bisognoso di protezione, tira fuori la vicenda assumendosi la coraggiosa responsabilità di denunciare lo scandalo di una delle più potenti e spietate famiglie del tempo (Gianciotto è ancora vivo e potente quando Dante scrive). I versi del Canto V sono il primo insuperabile esempio di una vera e propria operazione verità, per avere qualcosa di simile dovremo aspettare un Émile Zola dei tempi nostri. Un coup de théâtre magistrale per inaugurare, come in una sceneggiatura hollywoodiana, l’uso del flashback, quella tecnica narrativa efficacissima che ci trasporta nel passato attraverso i ricordi vividi di chi lo ha vissuto. La ricostruzione dei fatti svela quel “mal perverso”, il sempiterno incubo di tutte le coppie: l’adulterio. La cultura italiana ne è ossessionata. Non dimentichiamoci che quello femminile da noi è stato punito fino al 1968. Il delitto d’onore è stato abrogato solo nel 1981 insieme al matrimonio riparatore (paradossalmente tornato in auge con la sentenza ultima della Cassazione sull’impeto di gelosia). E se l’adulterio non è più reato, il tradimento resta: fa ancora parte delle vicende coniugali in sede di separazione e troppo spesso viene evocato come fosse un’attenuante nei casi di femminicidio. Ma «Caina attende chi a vita ci spense» dice Francesca. Se i Malatesta coprirono i misfatti di Gianciotto, Dante (solo lui) fa giustizia e lo aspetta all’inferno a scontare senza attenuanti la sua pena in Caina, il posto dove sono confinati i condannati per delitti contro i parenti. Insomma, il Canto V mette mano a una questione che trasversalmente investe tutte le culture e le religioni e che, come nessun’altra, è indicatore di civiltà e di tolleranza. E ancora oggi ci arrovelliamo dietro quell’«Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,/ prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende». Il verso finale viene erroneamente usato nei convegni sul femminicidio, quando in realtà l’“ancor m’offende” di Francesca si riferisce alla forza irresistibile dell’amore che li aveva uniti in vita al di là dei codici dell’amor cortese e che continua con la stessa intensità impetuosa dopo la morte («ancor non m’abbandona»). La tempesta d’amore li unisce per l’eternità: Amor omnia vincit, l’amore vince tutto, anche la morte. Naturalmente il “mal perverso” è sapientemente mediato dalla narrazione poetica. «Noi leggiavamo un giorno per diletto/ di Lancialotto come amor lo strinse;/ soli eravamo e sanza alcun sospetto». Questo è stato il loro irreparabile errore: aver dato un seguito concreto alla condotta proibita dei due personaggi letterari, aver confuso la letteratura con la vita vera, aver scambiato la finzione con la realtà. Le tre terzine più famose di tutti i tempi incominciano con la parola Amore, ma non si tratta dello stesso sentimento messo in scena dal Dolce Stil Novo. La sceneggiatura è cambiata e sul palco approda un nuovo soggetto. No, non è semplicemente il sesso, come tutti ci voglion far credere. Di sesso all’epoca ce n’era già tanto: “La voglia dei cazzi”, per dirla con il provocatorio titolo di Alessandro Barbero, non avrebbe scandalizzato il pubblico. Tutti i fabliaux medioevali sono un prontuario di rapporti sessuali proibiti, storie di contadine disinibite e di preti sboccacciati. «Ma non per questo il sesso libera se stesso trasfigurandosi in Eros» avrebbe detto Marcuse. Qui compare qualcosa di nuovo, di eversivo, di ingovernabile: il piacere. Si riaffaccia dalla notte dei tempi la prepotenza di Eros. Dante persevera con la sua curiosità, e in quella insistenza ritroviamo tutte le frustrazioni dell’attuale voyeurismo. «Quanti dolci sospiri» e quali «dubbiosi disiri»? Da allora in tutte le storie, in tutti i prodotti culturali, in tutte le fiction, in tutti i reality show cerchiamo quell’eccitazione morbosa che anticipa la passione. «Aimer à loisir, aimer et mourir» scrive Baudelaire. L’eros è l’amore che si accompagna alla morte, del corpo o dell’anima: «Amor condusse noi ad una morte» conferma Dante. L’antichissima relazione fra Eros e Thanatos consolida la sua forza e si traghetta nella contemporaneità. Quando l’eros si svela apertamente, il cielo si oscura. E quando Paolo «la bocca mi basciò tutto tremante», tremano tutte le certezze terrene. Il contatto come metafora della soglia, come passaggio estremo, porta di un altro mondo, l’incontro di amore e morte. E ogni volta che l’uomo rivive l’attimo fuggente del primo contatto «come corpo morto cade». In quel momento gli uomini «la ragion sommettono al talento». Il passaggio dalla ragione alla passione è fatale. La trasgressione si insinua da allora nel mondo occidentale, ben oltre la continua ostilità tra eros ed ethos, tra piacere e dovere del mondo classico. Qui si inaugura una nuova stagione, una nuova lacerazione. La tentazione letale dell’inosservanza, della contravvenzione, dell’infrazione. Il piacere si annida proprio lì, nella trasgressione che disubbidisce alle leggi della ragione, nel pericoloso soddisfacimento di un desiderio proibito. Dante scelse un delitto per scendere negli oscuri meandri dell’eros e da allora la forma narrativa del noir è quella che meglio racconta il lato oscuro che si annida nella passione. Il pensiero libertino e quello moralista non riusciranno più a ricomporsi nella narrazione contemporanea dei “peccator carnali”. «Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse». Così come Paolo e Francesca furono vittime del desiderio fedifrago di due amanti leggendari così noi, a nostra volta, siamo vittime inconsapevoli dei versi immortali con cui Dante incornicia il piacere peccaminoso del desiderio proibito. Le inquietudini dantesche risuonano oggi con la stessa intensità: «Hey, babe, Take a walk on the wild side».

Indignati e social: a 700 anni dalla morte di Dante siamo noi i nuovi iracondi. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 25 Marzo 2021. Tra «sudice onde» Virgilio e Dante giungono in una palude mortifera, piena di «fummo» che impedisce la vista. Ci sono «genti fangose in quel pantano». I dannati sono nudi, immersi nella melma e con il volto corrucciato; si percuotono con le mani, con il petto, con i piedi e si sbranano a vicenda dilaniandosi le carni a forza di morsi. «L’anime di color cui vinse l’ira». Virgilio svela a Dante l’identità dei dannati del quinto girone dell’Inferno: gli iracondi, coloro che sono stati “vinti” dall’ira, uno dei sette peccati capitali. Per contrappasso, all’inferno sono consumati dalla loro stessa ferocia, smembrati dalla loro stessa furia. Gli iracondi, immersi nella palude Stigia, si dimenano e si azzuffano nel fango come fanno le bestie. Una punizione degradata e degradante che colpisce chi in vita non ha saputo controllare gli impulsi ferini e non ha tenuto a freno gli istinti animaleschi. «Qui staranno come porci in brago», nel fango come maiali. I dannati descritti da Dante alla fine del Canto VII e all’inizio del VIII hanno ancora il “sembiante offeso”. Essere preda dell’ira, infatti, non è qualcosa che si può nascondere alla vista. A differenza dell’odio e del risentimento, l’ira è visibile, si mostra con dei “sintomi” perfettamente riconoscibili. L’ira trasforma il colorito, accelera il battito, storpia la voce. «Le altre passioni si possono nascondere o nutrire in segreto, l’ira invece si evidenzia chiaramente nell’aspetto e ribolle in maniera tanto più evidente quanto più è grande» scrive Seneca nel suo famoso trattato contro l’iracondia. Ben prima del girone dantesco, la passione furente ricopre un ruolo centrale della nostra tradizione culturale. Basterebbe ricordare che “menis”, l’ira sacra, è la prima parola della letteratura occidentale, l’incipit dell’Iliade. L’ira di Achille, la sua reazione adirata dopo l’offesa subita da Agamennone, è l’energia che muove l’intera narrazione omerica. L’etimologia di “menis”, infatti, è legata al verbo me-mne-mai che vuol dire “tenere a mente”, “ricordare”. L’ira è memoria dell’offesa ricevuta, motore di una violenza in cerca di vendetta. Tanto è forte e duratura, che gli iracondi la mantengono scritta sul volto anche dopo la morte. Anche l’anima di Achille che vaga nell’Ade, come narra Omero nell’Odissea, è ancora preda dell’ira: «se tornassi per un solo momento alla casa paterna – rivela l’eroe perito a Troia – farei pesare il mio furore e le mie mani invincibili». L’ira è la passione più temibile perché ci fa perdere il dominio di noi stessi. L’iracondo perde la capacità di autocontrollo, non è più padrone delle sue azioni e dei suoi pensieri. Chi si lascia dominare dalla parte dell’anima irascibile abbandona i freni della ragione e si lascia andare a reazioni istintive e brutali. Non si tratta, però, di una passione soltanto umana. Anche le divinità non ne sono immuni ed è proprio per contenere l’ira deum che gli uomini fanno continui sacrifici e si percuotono il petto in infinite suppliche. Per non parlare del Dio dell’Antico Testamento: iroso, sempre in collera per il comportamento degli uomini, furioso per la loro continua ribellione, vendicativo e punitivo. Il riferimento all’ira di Yhwh compare in ben 518 casi. E al di là della visione edulcorata che abbiamo del Vangelo, non mancano le testimonianze dell’ira di Gesù che, visibilmente irato, caccia i mercanti dal tempio. «Non sono venuto a mettere pace, ma la spada», leggiamo nel Vangelo secondo Matteo. La Buona Novella ha un carattere conflittuale, è una dichiarazione di guerra contro chi non prende posizione, contro chi rimane tiepido e non si adira contro l’ingiustizia. Anche nel Paradiso dantesco San Piero confessa «io sovente arrosso e disfavillo», bruciante di rabbia contro Bonifacio VIII. È Aristotele a fornire alla teologia – e allo stesso Dante – la giustificazione razionale dell’ira “giusta” di Dio e degli uomini virtuosi. L’ira – secondo l’autore dell’Etica Nicomachea che si è meritato l’appellativo di defensor irae – non è un vizio che va sanzionato in assoluto, ma una passione che va giudicata relativamente alla gravità dell’offesa ricevuta. L’ira va condannata solo se si trasforma in iracondia sproporzionata e mal direzionata. L’ira contro l’ingiustizia, invece, non solo è legittima, ma anche doverosa e virtuosa; «è atteggiamento da schiavi il sopportare l’oltraggio e far finta di nulla se gli amici sono insultati». Questo vale per i cittadini indignati della polis democratica a cui si rivolge Aristotele, ma anche per le masse arrabbiate delle rivolte popolari della storia moderna: soltanto l’ira riesce a mobilitare le folle e ad attivare rivolgimenti politici e rivoluzioni sociali; è una spinta pulsionale necessaria per far attecchire il cambiamento. L’ira, scrive il filosofo Peter Sloterdijk, «apre agli uomini la strada sulla quale essi fanno valere ciò che hanno, possono, sono e vogliono essere». Esistono, dunque, delle “ragioni” della più irragionevole delle passioni. Ma chi stabilisce il confine tra l’ira giusta e l’ira ingiusta, tra il peccato e la virtù, tra il torto e la ragione? Torniamo a Dante e Virgilio che attraversano la palude su una piccola barca guidata dall’iracondo Flegias, un “galeoto” mutuato da un personaggio mitico dell’Eneide virgiliana. Dal mare buio e melmoso emerge un dannato che si attacca alla barca e tenta di rovesciarla. «Via costà con li altri cani!» lo respinge Virgilio. Chi è questo “spirito maladetto” che turba il viaggio dantesco? «Ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto»: il poeta riconosce Filippo Argenti, un fiorentino “bizzarro” campione di superbia e rissosità, simbolo di una città “partita”, lacerata in una perenne guerra civile tra fazioni irascibili. Filippo Argenti in terra fu «persona orgogliosa», la sua arroganza tracotante ha lasciato solo ricordi negativi. E «lasciando orribili dispregi» ha meritato una degna punizione. Inizia una vera e propria rissa verbale tra l’Alighieri e l’Argenti. Gli interpreti hanno giustificato l’acrimonia del diverbio con motivazioni private legate alla biografia dantesca, sembra ci sia dietro una brutta storia di inimicizia tra famiglie con tanto di schiaffi in pubblico e beni confiscati. In effetti, la reazione di Dante, come sottolinea il Momigliano, «ha qualcosa di satanico». Il sommo poeta non solo non nasconde il suo compiacimento nel vedere il nemico umiliato, ma esplicita a Virgilio il suo voluttuoso desiderio di vendetta: «Molto sarei vago di vederlo attuffare in questa broda prima che noi uscissimo del lago». Prima potente e temuto, ora impotente e degradato, Argenti è solo un’ombra «furiosa» di chi era stato in vita. Nessuna tristezza e nessuna pietà, ma un’inusitata crudeltà punitiva: Dante vuole vedere il suo avversario sprofondare nel fango tra le fauci degli altri dannati. Un brutale revanchisme che desidera e pretende vendetta. E Virgilio lo approva tanto da suggellare il momento con un abbraccio e un bacio: «convien che tu goda». E così sia. I compagni di tortura, «le fangose genti», si avventano sul corpo di quel fiorentino bizzarro, lo fanno a brandelli gridando furiosamente «A Filippo Argenti!». E Argenti sconfitto finisce per scaricare la sua foga contro se stesso fino all’autodistruzione e «si volve in se medesimo coi denti». Dante di fronte a «quello strazio» si gode felice lo spettacolo. «Dio ancor ne lodo e ne ringrazio», e ringrazia ancora Dio per avergli concesso un piacere sì duraturo. «Quivi li lasciammo, che più non ne narro» chiosa Dante passando oltre. L’incontro con Argenti, però, continua a tormentare i lettori contemporanei. Dante si autoassolve – lo sdegno del giusto di fronte all’ira “mala” – e noi siamo tentati di assolverci con lui, ma qualcosa non torna. È facile condannare l’ira altrui come passione accecante e violenta, come istinto bestiale e altezzosa superbia. E, viceversa, difendere la nostra ira apostrofandola come “giusta”, legittimando implicitamente le nostre reazioni crudeli e vendicative che non fanno altro che riprodurre l’atteggiamento vizioso che inizialmente volevamo contestare. Per questo Caparezza, nella canzone Argenti vive dedicata all’iracondo fiorentino rappa: «Persino tu che mi anneghi a furia di calci sui denti, ti chiami Dante Alighieri, ma somigli negli atteggiamenti a Filippo Argenti!». Tra l’ira virtuosa di Dante e il peccato capitale di cui si è macchiato l’Argenti sembra esserci un legame inscindibile. Lo scontro ad armi impari nel mezzo dell’infernale palude fangosa ci mostra la vera natura dell’ira, ci svela ciò che – indipendentemente dalle sue giustificabili motivazioni – la rende così seducente ai nostri occhi: il piacere sadico della vendetta. Lo aveva già rivelato Aristotele: «Ogni manifestazione d’ira è accompagnata da un certo piacere che deriva dalla speranza di vendicarsi. Si passa il tempo a vendicarsi con il pensiero, e l’immagine che ne nasce genera piacere come accade nei sogni». E Dante ci mostra spudoratamente la sua sete di vendetta e, al contempo, la fantasia del suo appagamento. Non è difficile riconoscere un atteggiamento di cui siamo spesso protagonisti. Come Prospero nella Tempesta di Shakespeare, mettiamo spesso in scena un nostro “teatro della vendetta” per sublimare la nostra indignazione, per avere un appagamento allucinato del nostro desiderio di rivalsa. Sognare di punire l’altro – non importa se in un’invettiva poetica o in un tweet al vetriolo – è un modo per ristabilire metaforicamente la nostra superiorità e rimarginare la ferita del nostro ego. Il sommo poeta non poteva sapere che, qualche secolo più tardi, il godimento spietato della vendetta giustificato dall’ira “bona” avrebbe saturato la vita quotidiana nell’attuale società digitale. L’indignazione totale, come la chiama il filosofo francese Laurent de Sutter, ha contagiato ogni spiraglio dell’odierno spazio pubblico. Siamo costantemente immersi in un duello mortale tra iracondi accecati dalle proprie ragioni. Il dibattito è un litigio rabbioso in cui è importante contrastare l’avversario a partire da una posizione di superiorità: la mia fazione è quella che ha “ragione”, quella indignata “giustamente”, quella che contrasta “l’ira mala”. Ci illudiamo di essere autenticamente adirati per l’ultimo scandalo moralmente deprecabile, in realtà siamo alla ricerca di uno scampolo di piacere, di un appagamento narcisistico che nulla ha a che fare con la giustizia. Con le fauci schiumanti, siamo in attesa di un brandello di carne altrui per alleviare la nostra irata frustrazione, per placare le richieste del nostro ego ferito. Siamo convinti di avere un posto sulla barca dei moralisti sdegnati con il dito puntato contro le “genti fangose” e non ci accorgiamo che stiamo annaspando con loro nel sudiciume di “quel pantano”.

Avari e prodighi, i peccatori puniti da Dante ci insegnano la verità sul denaro. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 12 Marzo 2021. «Pape Satàn, pape satàn, aleppe!» grida Pluto, l’antico dio che protegge la ricchezza, alla vista di Dante e Virgilio. Il primo verso del canto VII dell’Inferno risuona come un’ingiunzione demoniaca e incomprensibile. La sua traduzione rimane oscura e continua a far discutere gli interpreti. Sarà per questo che il verso nonsense dantesco – un’invocazione satanica o un’ironica preghiera – è anche il titolo all’ultimo libro di Umberto Eco. Pape satàn, aleppe! è un grido inquietante e confuso che interpreta bene lo smarrimento dell’individuo contemporaneo che abita l’attuale società liquida. Ma torniamo a Dante e Virgilio. Messo a tacere il “maledetto lupo” guardiano del girone, i due viaggiatori entrano nel IV cerchio infernale. «D’una parte e d’altra, con grand’urli, voltando pesi per forza di poppa», i dannati sono impegnati a spingere dei grandi massi con la forza del petto. Dante descrive una sorta di danza eterna semicircolare. I peccatori sono separati in due schiere e si muovono in cerchio in direzioni opposte. Si incontrano a metà strada, si girano, e ricominciano a spingere il masso dall’altra parte. Così come “sovra Cariddi”, al centro dello stretto di Messina, si scontrano le onde di due mari, così i due gruppi di peccatori si infrangono, condannati a un ritmo sempiterno che li fa scontrare e poi separare. Ma ogni incontro è foriero di reciproche ingiurie: «Perché tieni?», dice un gruppo, «Perché burli?», ribatte l’altro. Ecco, quindi, svelata la colpa di cui si sono macchiati: da una parte il gruppo degli avari che “tiene” stretto il denaro, dall’altra il gruppo dei prodighi che “burla”, sperpera e dilapida. La pena dantesca richiama l’inane fatica a cui Zeus condannò Sisifo, il titano ribelle costretto a spingere dalle pendici di un monte un masso che, una volta in cima, ricade di nuovo a valle. Ogni sforzo è vano, la fatica di Sisifo è destinata a ripetersi in eterno senza ottenere alcun risultato, se non il ripresentarsi immutabile della situazione di partenza. E come lui, gli avari e i prodighi spingono il masso in una direzione e poi nell’altra, senza giungere a nessun cambiamento. Il contrappasso per una vita senza scopo, dedicata ad accumulare o dissipare i volubili beni terreni. «Mal dare e mal tenere». Il IV cerchio punisce coloro che fecero un cattivo uso del denaro. «Tutti quanti – spiega Virgilio – fuor guerci». Avarizia e prodigalità sono il risultato di uno strabismo della mente, di un errore di misurazione. Arricchimento e spreco, conservazione e dissipazione sono due estremi lontani dal giusto mezzo e conducono allo stesso triste destino. Un peccato per eccesso e uno per difetto, per entrambi la stessa amara punizione. «Est modus in rebus, c’è una misura nelle cose» sentenziava Orazio, gli avari e i prodighi sono peccatori della dismisura. Dante ha «lo cor quasi compunto», la visione di questo «cerchio tetro» gli crea un forte turbamento. Forse perché si accorge che il gruppo sulla sinistra, quello degli avari, è composto da tutti “cherci” con il capo rasato, «papi e cardinali in cui usa avarizia il suo soperchio». Nessuno di essi viene nominato. Uomini delle alte gerarchie ecclesiastiche che sono talmente “sozzi”, insudiciati dalla cupidigia, da essere ormai “bruni”, oscuri e irriconoscibili. Proprio l’avarizia, dalla tarda antichità, è considerata la radice di tutti i mali. Secondo la celebre definizione di San Paolo, Radix Omnium Malorum Avaritia, da cui l’acronimo ROMA per indicare il vero motivo del declino e della caduta dell’Impero Romano. Ma è con la rivoluzione commerciale dell’XI secolo che l’avarizia è condannata senza appello. «L’antico primato teologico della superbia cede al sempre più forte coro di proteste, che imputano alla crescente avarizia tutta la nequizia dei tempi» scrive Johan Huizinga nel suo L’Autunno del Medioevo. Non è un caso che Ambrogio Lorenzetti nella sua Allegoria del buon governo indichi proprio l’avarizia come causa della disarmonia e del malgoverno della città. L’avarizia è il vizio capitale che caratterizza la figura di spicco della nuova struttura sociale ed economica: il mercante. La nascita della città, lo sviluppo del commercio, l’espansione dei mercati, l’utilizzo della moneta nelle transazioni economiche, la pratica dell’usura. «Il mercante diviene un mestiere pericolosamente esposto al vizio dell’avarizia, dal momento che il sovrappiù generato dall’attività di scambio incentiva un’inclinazione senza limiti per il guadagno» scrive l’economista Stefano Zamagni in Avarizia, la passione dell’avere. Con il favore degli ordini mendicanti domenicani e francescani e le loro spinte pauperistico-evangeliche, si diffonde in tutta Europa una temperie etico-religiosa che segnerà per sempre il senso dell’Occidente per il denaro. Il guadagno ha un’aura peccaminosa, l’arricchimento deve accompagnarsi al senso di colpa, la borsa piena d’oro traina gli uomini all’inferno. “Sterco del diavolo”, il famoso anatema di San Basilio Magno, ripreso da Jacques Le Goff nel titolo di un libro sulla storia del denaro. Insomma, la retorica del demoniaco “turbocapitalismo” servo del vil denaro ha radici lontane e padri nobili. Un retaggio medioevale duro a morire. Per allontanare l’ombra dei “chierci sozzi” e per rinvigorire l’immaginario di una “chiesa povera e per i poveri”, l’attuale Papa ha scelto proprio il nome di Francesco. «La ricchezza è lo sterco del diavolo» ha tuonato in un angelus da Piazza San Pietro. D’altronde, è più facile che un cammello passi nella cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli…Ma proprio sul finire del Medioevo spicca la voce di un umanista fuori dal coro: l’avarizia da vizio teologico può trasformarsi in virtù civile. Poggio Bracciolini, nel 1424, scrive nel De Avaritia che l’avaro è anche «forte, prudente, d’animo grande». Inizia un lungo (e incompiuto) percorso di secolarizzazione che si allontana dal piano della morale religiosa. Anche l’avarizia è “utile e necessaria” per incentivare lo spirito produttivo; se l’avaro perseguendo il proprio interesse favorisce “progresso economico e avanzamento civile”, il suo non è più un vizio antisociale da biasimare. È sul quel filone che la Favola delle api di Mandeville, nel secolo dei Lumi, trasforma i vizi privati in pubblici benefici. Proprio le api egoiste e avare, nel perseguire i loro interessi, contribuiscono al benessere di tutto l’alveare. In una società che voglia definirsi laica e moderna, interesse personale e interesse collettivo non sono alternativi. Gli avari e i prodighi puniti severamente da Dante, però, ci insegnano una verità sempiterna sul nostro rapporto con il denaro. I soldi sono molto più che un semplice mezzo per raggiungere una quantità potenzialmente infinita di fini; il valore del denaro non è legato soltanto a ciò che con esso si può o non si può acquistare. Il denaro – spiega lucidamente Georg Simmel nella sua Filosofia del denaro – è esso stesso il fine ultimo, «è oggetto di timorosa attenzione, è un tabù», produce un appagamento simile «alla pace dell’anima che s’è conseguita dopo aver trovato Dio». Il denaro da mezzo diventa fine. E come ha dimostrano la contemporanea neuro-economia, il denaro attiva gli stessi centri nervosi associati agli stimoli corporei piacevoli: i soldi sono in sé stessi fonte di piacere. Il “disturbo da accumulo” che caratterizza la passione dell’avaro mostra in chiave patologica questo inevitabile capovolgimento. L’avaro custodisce senza mai spendere, sacrifica i suoi bisogni e i suoi desideri per preservare intatto il suo patrimonio. L’avarizia, dice Bernardo da Chiaravalle, «è un continuo vivere in miseria per paura della miseria». Un ossessivo trattenimento che non sfocia mai nel godimento; un trattenere senza rilasciare che rimanda sempre il piacere. Come l’Arpagone di Molière, l’avaro protegge la sua “cassetta”, conta e riconta i suoi denari; mai e poi mai affronta il rischio di scalfire il suo patrimonio. Il vero avaro non assomiglia affatto al mercante e all’imprenditore intraprendente che investe i suoi soldi: il vero avaro non usa ciò che possiede per non rischiare di perderlo. Tutte le passioni e tutte le attività dell’avaro si riducono all’avarizia stessa. Karl Marx ha descritto meglio di chiunque altro la vita ascetica e misera a cui si condanna l’avaro: «Rinuncia a sé stessi, rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all’osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi eccetera, tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai». Il rapporto dell’avaro con il denaro, secondo Freud, è davvero legato allo “sterco”. Non lo sterco del demonio, ma le feci dell’uomo stesso. L’avarizia, dice il padre della psicanalisi, è una fissazione della libido nella sua fase anale. Il rapporto con il denaro e quello con le feci hanno delle assonanze; l’avaro chiude il denaro in cassaforte e custodisce i propri beni come lo stitico trattiene le feci invece di espellerle e “donarle” al mondo. L’arte, la letteratura, il cinema ritraggono sempre un avaro caricaturale simile allo Scrooge di Canto di Natale di Dickens: vecchio, solo e incapace di relazionarsi al prossimo. Ma in quelle pose ridicole, c’è la chiave di una fragilità da cui non siamo estranei. Il denaro, ancora una volta, è investito di grandi significati simbolici e l’avarizia non è altro che un campanello d’allarme di una paura patologica. Al pericolo dell’incontro con il mondo e al rischio dell’incontro con gli altri, l’avaro preferisce il rapporto stabile con la solidità della moneta, un possesso solitario ed egocentrico che non prevede relazione alcuna e, per questo, non delude mai. Che cos’è l’avarizia se non una manifestazione della paura paralizzante della perdita? L’avaro ha terrore del futuro, accumula e non consuma per contrastare l’instabilità ventura, protegge il suo tesoro e così ha l’impressione di poter di controllare l’incertezza dell’avvenire. Risparmia oggi per poterne godere in un domani che non arriverà mai. L’avaro si mette al riparo dalle intemperie e dalle frustrazioni, si isola per proteggersi dal contatto con gli altri. Ma dietro la paura di perdere “la roba” c’è un ben più grande spauracchio. Lo dimostra perfettamente il contadino Mazarò, il protagonista della meravigliosa novella di Verga La roba, che strilla: «Roba mia, vientene con me!». O lo stesso Mastro don Gesualdo che «voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui». L’avaro è riuscito a sfuggire a tutte le perdite, ma non può sfuggire alla perdita ultima, la più temuta di tutte: quella della vita. Tutte le casseforti del mondo non bastano per esaudire il suo vero desiderio: trattenere la vita e sconfiggere la morte. Ecco la vera hybris, ecco il vero peccato di cui si macchia l’avaro: non accettare la condizione umana, rifiutare la propria mortalità, voler essere come Dio. L’avaro, insomma, ci mette a contatto con una tentazione che oggi ben conosciamo: evitare di vivere per paura di morire. Ma Dante ci indica una via d’uscita: il genere umano “si rabuffa” per il denaro, ma è una “buffa”, un inganno. Gli avidi e i prodighi, ci ricorda il Poeta, peccano di ignoranza perché non sanno che i beni terreni «son commessi a la fortuna». Il denaro passa da un popolo all’altro, da una famiglia all’altra, da una persona all’altra per ragioni che non conosciamo e che non possiamo governare, secondo un ritmo dettato da quella che Virgilio chiama “Fortuna”. «Le sue permutazioni non hanno tregue»: non possiamo metterci al riparo dalle rapide e imperscrutabili “permutazioni” della sorte. L’avidità vorace con cui consumiamo o l’egoismo con cui accumuliamo ci fanno dimenticare che quei beni su cui tanto ci affanniamo sono transitori e volubili. Il tesoro gelosamente custodito nella cassetta di Arpagone potrebbe di colpo essere carta straccia. In questa fase storica, questi versi risuonano più veri che mai. Ci sentiamo più esposti alla precarietà e più impotenti di fronte alle alterne vicende della fortuna. Per quanto ci siamo sforzati di evitare i rischi e di prevedere le tempeste, non eravamo equipaggiati contro i repentini rivolgimenti della sorte che, in meno un anno, ha cambiato le vite di molti. E allora non ci resta che continuare a spostare il masso in cima alla vetta, senza sperare che l’eterna pena si interrompa. «Bisogna immaginare Sisifo felice» ci consola Albert Camus.

Ritratto di Guido Cavalcanti, il poeta raccontato da Dante e Boccaccio. Lucrezia Ercoli su Il Riformista l'8 Aprile 2021. Varcata la soglia della città di Dite, si apre una «grande campagna». Una pianura desolata e spettrale, «piena di duolo e di tormento». Una terra disseminata di «sepulcri». Un immenso cimitero, una città dei morti medievale. Stile Les Alyscamps, prototipo insuperabile della necropoli che ci portiamo dentro. «Tutti li lor coperchi erano sospesi». Dai sepolcri escono «sì duri lamenti, che ben parean di miseri e d’offesi». Sono i «sospiri dolenti» de «li eresiarche con lor seguaci, d’ogne setta». Nelle arche fiammeggianti giacciono gli eretici, «Tra li avelli fiamme erano sparte». Spiriti ardenti in vita che, per contrappasso, ardono anche da morti. E non poteva essere diversamente visto che molti di loro erano stati arsi vivi nelle pubbliche piazze dalla furia dell’ortodossia religiosa. L’eresia è l’ombra di Banco del sapere cattolico. L’insopprimibile critica delle dottrine teologiche, che periodicamente rimette in discussione i testi sacri. Dante non parla di Catari e di Valdesi ben presenti nella Firenze del suo tempo, ma appena può esalta San Domenico (canto XII del Paradiso che «ne li sterpi eretici percosse») e si ripara dalla temibile inquisizione domenicana. Gli eretici del X canto non hanno comunque pene atroci. Sono sì dannati, ma non degradati. Nei sarcofaghi giacciono uomini moralmente degni, uomini nobili. È il luogo migliore per incontrare due personaggi metaforici della vita politica del tempo. Innanzi tutto Dante realizza il «disio» di parlare con il «magnanimo» Farinata degli Uberti, che alla «nobil patria» fu «troppo molesto». Il capo dei capi del campo imperiale. Quello che aveva cacciato i guelfi da Firenze. E quando saranno i ghibellini a essere esiliati, non esita da Siena ad organizzare la rivincita. Nel 1260 colora «l’Arbia di rosso» nella battaglia di Montaperti. Un massacro della gioventù fiorentina senza precedenti: diecimila morti e altrettanti prigionieri. Rientra in un’attonita Firenze, ma dopo la sua morte i guelfi riprenderanno la città. Inizia così una lunga e sistematica epurazione. L’ortodossia viene dettata dai vincitori. E Farinata verrà condannato per eresia a diciannove anni dalla morte. Un processo farsesco ai suoi resti, riesumati dalla tomba nella Chiesa di Santa Reparata e gettati nell’Arno. I figli pubblicamente decapitati, i suoi parenti perseguitati e condannati al rogo. E, soprattutto, tutti i suoi beni confiscati dai nuovi padroni della città. La verità teologica è come la verità processuale, raramente coincide con la verità. Noblesse oblige. E Farinata anche dagli inferi guarda sprezzante le macerie della sua sconfitta. «S’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno a gran dispitto» e può permettersi di guardare con «dispitto» la sua eterna pena. La damnatio postuma poco aveva avuto a che fare con la fede. Qui Dante azzarda un’amnistia tra fazioni che «fieramente furo avversi». I buoni propositi di vivere senza nemici politici hanno origini lontane. E ora come allora rimangono propositi. Il discorso viene interrotto (per fortuna) da «un’ombra» che scivola accanto al poeta. È Cavalcante de’ Cavalcanti, che chiede angosciato di Guido: «Mio figlio ov’è?». Dante ci tiene a specificare che si trova nel regno dei morti guidato dalla ragione e dalla grazia. E aggiunge: «forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». A Cavalcante non sfugge il tempo remoto utilizzato dal poeta. «Elli ebbe? Non viv’elli ancora?». Quindi Guido è morto e, senza aspettare risposta, si rintana nella tomba «e più non parve fora». Una raggelante tragicità che maschera una narrazione molto strumentale. In effetti Dante parla al governo di Firenze. Con Farinata si accredita come guelfo della prima ora e con Cavalcante fa l’anima candida. Proprio lui, eletto priore di Firenze, aveva mandato Guido in esilio dove morirà di lì a pochi mesi. Comunque, il ritratto di Cavalcanti padre piagnucoloso e questuante non rende giustizia alla levatura della persona. Più onesto il Boccaccio che lo descrive «leggiadro e ricco cavaliere, e seguì l’oppinion d’Epicuro in non credere che l’anima dopo la morte del corpo vivesse e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti carnali». Questa è la faccenda. I due incontri non aiutano ad approfondire la drammaticità dei sepolcri, che «da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l’anima col corpo morta fanno». Dante non aderisce alla vulgata dell’epicureo crapulone e godereccio, ma condanna senza argomentare la “vera” colpa di Epicuro: il suo ateismo materialista. Una negligenza già pervenuta; l’imbarazzo culturale di sempre. Niente è più ostico alla religione di Epicuro. Non è un caso che di tutti i suoi scritti (e Diogene Laerzio parla di oltre trecento rotoli di papiro) non ci resti nulla, se non tre lettere agli amici e il testamento. Nel corso dei secoli tutti hanno tentato di metterlo a tacere con censure e denigrazioni fuorvianti. La filosofia epicurea è lo spauracchio dei devoti. Coloro che «l’anima col corpo morta fanno» non credono né alla Provvidenza, né al Destino, né alla Grazia. «Mentre la vita umana giaceva sulla terra, oppressa dal grave peso della religione, per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi mortali a sfidarla» scrive Lucrezio, che ne condensa gli insegnamenti nel suo De rerum natura. Rincara la dose Nietzsche ne L’Anticristo: il filosofo greco «ha combattuto il cristianesimo, la corruzione dell’anima attraverso l’idea del peccato, quella del castigo e dell’immortalità». Epicuro in greco significa “alleato”. Sta al nostro fianco e ci aiuta a sconfiggere le paure che ci impediscono di vivere pienamente e pacificamente la nostra esistenza. E quale paura primigenia, madre di tutte le nostre ossessioni e fobie paralizzanti, va spazzata via se non la paura della morte? Per riuscire nell’arduo compito e raggiungere la piena felicità terrena, la via seguita da Epicuro non è quella religiosa, ma quella “scientifica”. Alla base dell’universo ci sono solo gli atomi e il vuoto. E di conseguenza anche l’anima, come il corpo, si disgrega con il sopraggiungere della morte. «Anche tutta la natura dell’anima deve quindi dissolversi come si dissolve il fumo nelle alte regioni dell’aria» spiega Lucrezio. L’anima e il corpo crescono, invecchiano, e sono inevitabilmente «distrutte dal tempo». La morte non va più temuta perché quando c’è lei “noi non ci siamo” e non percepiamo più nulla. La minaccia del castigo divino post mortem è impotente: l’anima muore con il corpo e lo spauracchio della pena infernale non condiziona più la nostra vita terrena. La divinità, se c’è, sicuramente non si occupa delle faccende umane. Si può «godere della mortalità della vita», scrive Epicuro nella Lettera a Meneceo, solo se si elimina «la brama dell’immortalità». E chi davvero interiorizza queste idee «vive tra il uomini come un Dio». Di fronte alla paura della morte, il maestro non invita i discepoli a trovare consolazione nel futuro dell’anima immortale, ma invita a volgere lo sguardo al passato, alla piacevolezza dei ricordi felici, alla gioia dei momenti condivisi. Poco prima di morire, colpito da dolori insopportabili, scrive sereno: «Ma a combattere tutto questo s’è schierata la gioia che provo nell’anima per il ricordo delle conversazioni che abbiamo avute». La felicità di chi può dire di aver vissuto una vita piena, la consapevolezza di chi, come canta Orazio, «può di giorno in giorno dire: – ho vissuto!». Una vera e propria liberazione che scuote la coscienza dei moderni (non a caso il giovane Karl Marx dedica proprio al pensiero di Epicuro la sua dissertazione di laurea). Sarà ancora una volta Boccaccio a ristabilire il vero. Alla fierezza indomita di Guido Cavalcanti dedica l’intera nona novella della sesta giornata del Decameron. L’autore di Donna me prega è descritto come «un de’ miglior loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale». E proprio la sua passione per la filosofia lo aveva fatto avvicinare all’epicureismo: «Egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri». Si vociferava che queste sue speculazioni «erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse». L’altezzoso e superbo Guido Cavalcanti è la voce eterodossa del tempo novo, che specula sull’inesistenza di Dio e non fa mistero della sua vicinanza a un pensiero irreligioso. Ma nella novella c’è di più. Mentre passeggia solitario e meditabondo, Guido viene disturbato da una banda di giovani aristocratici presso Porta San Giovanni, luogo di Firenze dove si trovano le tombe più antiche della città. «Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu avrai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?» lo provocano i ragazzi intenzionati a «dargli briga». La risposta di Guido è talmente sorprendente, da inquietare ancora il lettore contemporaneo: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace. E posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò». Guido salta oltre le tombe e scompare tra gli archi di San Giovanni. I presenti rimangono attoniti, perché quella frase apparentemente «non veniva a dir nulla». Solo messer Betto Brunelleschi, il capobanda, riesce a dare una spiegazione: «siamo, a comparazion di lui e degli altri scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra». Il salto che supera i sepolcri – quella che Betto definisce «la maggior villania del mondo» – pone il poeta-filosofo al di là del vociare superfluo di chi assomiglia a un cadavere, di chi è talmente spento da sentirsi “a casa” in un cimitero. L’intellettuale è sempre dissonante, non cerca l’approvazione degli altri. Il balzo irreverente tra i sepolcri – proprio dove Dante confina e punisce gli eretici epicurei – sembra davvero una beffa postuma. In un balzo, Guido è libero «sì come colui che leggerissimo era». Italo Calvino fa di questa novella il paradigma della leggerezza: «Se volessi scegliere un simbolo augurale per l’affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l’agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero da automobili arrugginite». D’altronde, chi davvero vorrebbe vivere per sempre? Come si chiedeva un altro profeta del nuovo millennio: “Who wants to live forever when love must die?”

Pier della Vigna e la selva dei suicidi per sfuggire alla gogna. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 25 Aprile 2021. Dante e Virgilio si trovano in un bosco che «da neun sentiero era segnato». I due poeti si addentrano in una selva dove gli alberi sono di «color fosco», con rami «nodosi e ‘nvolti». Una foresta buia, senza fiori e senza foglie, piena di «aspri sterpi» di spine velenose. Siamo nel settimo cerchio dell’Inferno, quello dove sono confinati i violenti. All’inizio del canto XIII, il centauro Nesso ha condotto Dante al di là del fiume Flegetonte, il fiume di sangue del primo girone, dove erano immersi gli assassini, coloro che hanno compiuto violenza contro gli altri, tormentati dalle frecce dei centauri. Ora si apre lo scenario da incubo del secondo girone, destinato a coloro che hanno fatto violenza contro se stessi. Siamo nella selva dei suicidi. Sui occidio, letteralmente “uccisione di se stessi”. Il termine, malgrado le apparenze, non esiste nel latino classico. Una definizione tutta cristiana. Nella Roma antica il suicidio era un diritto che apparteneva a ogni singolo cittadino. La vita era un bene a completa disposizione dell’individuo e togliersela in determinate circostanze rappresentava un gesto di estrema virtù. L’Imperatore Marco Aurelio la vedeva addirittura come soluzione al «taedium vitae». Qui però non siamo nei Campi Elisi ma in un tetro girone dell’Inferno. Sui rami scheletrici degli alberi nidificano e «fanno lamenti» le «brutte Arpie», animali mitologici già presenti nell’Eneide di Virgilio, con «colli e visi umani», ma dai «piè con artigli, e pennuto ‘l gran ventre». Metà donne e metà uccelli, le arpie sono i mostruosi giustizieri dei suicidi. «Sì vederai cose che torrien fede al mio sermone»: Virgilio avverte Dante che vedrà cose talmente strane che a raccontarle non ci crederebbe. Una pena terribile, infatti, aspetta coloro che hanno commesso un atto innaturale, contrario alla legge divina. Un gesto sacrilego che offende la natura, la comunità e soprattutto Dio. Se uccidere è proibito, anche uccidere se stessi è vietato da Dio perché, come specifica Sant’Agostino, «chi uccide se stesso, non uccide altri se non un uomo». Tommaso d’Aquino rincara la dose: «gravius peccat qui occodit seipsum quam qui occidit alterum», la colpa del suicidio è perfino più grave del peccato di omicidio. Da allora la questione è rimasta aperta. Non si tratta certo di problema superato o relegato alle dispute medioevali. Come si può leggere nel Catechismo della Chiesa Cattolica, datato 1992 e ancora in vigore: il suicidio «è contrario all’amore del Dio vivente» e rappresenta «un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi». Chi si dà la morte nega che «siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato» anche se «gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida». In pratica, l’unica speranza di perdono è che il suicida non sappia cosa sta facendo. Quando nel 2006 il Vicariato di Roma ha negato i funerali religiosi a Piergiorgio Welby ha precisato che «a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del dottor Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica». Insomma, il girone dantesco non è lontano dalle diatribe attuali. Come cantava Fabrizio de André nella Ballata del Miché il suicida «nella fossa comune cadrà senza il prete e la messa perché di un suicida non hanno pietà». Ma torniamo nella selva. Dante sente «d’ogne parte trarre guai», ma non capisce da dove provengono i lamenti perché intorno a sé non vede nessuno, pensa che i dannati siano nascosti tra gli alberi. Ma, su invito di Virgilio, Dante rompe un ramoscello. «Colsi un ramicel da un gran pruno; e ’l tronco suo gridò: Perché mi schiante?». Un gesto semplice, spezzare un piccolo ramo, dà vita a una reazione inaspettata che lascia il poeta smarrito: gli alberi della selva parlano. «Perché mi scerpi? non hai tu spirto di pietade alcuno? Uomini fummo, e or siam fatti sterpi» lo rimprovera il tronco dopo essere stato “ferito”. Siamo stati uomini e ora siamo piante: coloro che si sono “sradicati” volontariamente dalla vita si ritrovano, per la legge del contrappasso, forzatamente radicati a terra. La pena per i suicidi consiste in questa terribile metempsicosi vegetale che li trasforma in alberi scheletrici. Dalle venature arboreee sgorga sangue, la corteccia è la pelle lacerata. E insieme al sangue, in un contorcimento doloroso, escono anche le parole: gli alberi-suicidi possono parlare solo se feriti. Proprio l’anima di quel suicida gli rivela il triste destino dei violenti contro se stessi. L’anima del dannato «germoglia come gran di spelta», come un seme di gramigna, fino a diventare una «pianta silvestra». Le Arpie si nutrono delle sue foglie, la feriscono e queste ferite sono «al dolor fenestra», finestre per i lamenti di dolore. Quando arriverà il giorno del giudizio l’anima dei suicidi non sarà “rivesta” del corpo perché «non è giusto aver ciò ch’om si toglie»: per contrappasso non è giusto avere indietro ciò di cui ci si è volontariamente privati. I corpi che «strascineremo» per la «mesta selva» rimarranno «appesi, ciascuno al prun de l’ombra sua molesta», sospesi agli alberi dell’anima che in vita gli fu nemica. L’io assassino sarà in eterno accanto al cadavere della vittima che lui stesso ha prodotto, al dondolante corpo dell’io assassinato. Uno scenario terribile quello tratteggiato da Dante, mutuato da riferimenti letterari dall’episodio di Polidoro descritto da Virgilio alle Metamorfosi di Ovidio Dante, però, non ha ferito un albero qualsiasi. I lamenti provengono dall’anima arborea di Pier della Vigna di Capua. «Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo», un uomo potente e temuto, un tempo al servizio di Federico II. L’unico a raccogliere le confidenze esclusive del sovrano «tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi», tanto da perderci il sonno e la vita. Pier della Vigna, infatti, è stato accusato di aver tradito quella fiducia e di essersi arricchito illecitamente. In breve tempo è processato per tradimento, condannato, accecato con un ferro rovente. «L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto». Della Vigna si consegna alla morte per sfuggire al “disdegno”. Un gesto “ingiusto” volto contro lui stesso, colui che era nel “giusto”: per confermare la propria innocenza si suicida in cella. Ecco, dunque, il motivo del suicidio di quest’anima dannata. Pier della Vigna ammette di non aver retto alla vergogna, di non aver sopportato il patibolo costruito da un’opinione pubblica malevola. «La meretrice» che «nfiammò contra me li animi tutti» è l’invidia: vittima innocente dell’occhio invidioso dei cortigiani, non sopporta l’infamia delle calunnie (tanto pervasive da essere credute perfino dal sovrano) e in solitudine si uccide. Lo «spirito incarcerato» chiede a Dante di rivendicare il suo buon nome, di riabilitare la sua “memoria” riscattandolo da un’accusa ingiusta e da una gogna crudele. «Tanta pietà m’accora» confessa Dante che forse si immedesima e in Pier della Vigna rivede se stesso, un intellettuale travolto da una condanna ingiusta dettata dall’invidia e dall’odio. E anche noi, al di là del giudizio storico sul personaggio, comprendiamo bene la disperazione con cui Pier della Vigna motiva il suo gesto estremo. La cronaca ci ha tristemente abituati alle drammatiche conseguenze della gogna pubblica che distrugge una reputazione e isola l’imputato accusato sotto il peso di sospetti tendenziosi da cui è impossibile difendersi. Inchieste giudiziarie e processi mediatici che vivono di denigrazione e di umiliazione, con il favore di un’opinione pubblica che considera l’imputato sempre “colpevole fino a prova contraria”. Se non ci convincono le parole lontane di Pier della Vigna che si suicida «credendo col morir fuggir disdegno», dovrebbe insegnarci qualcosa almeno la recente vicenda della dirigente del Miur Giovanna Boda, che ha tentato il suicidio a seguito di una gogna mediatica di rara ferocia, per di più con un’ipotesi di reato fumosa di cui ancora non si conosce la fondatezza. È tempo di portare luce nell’oscura selva dei suicidi dantesca. Come canta Fabrizio de André nel pezzo scritto di ritorno dal funerale di Luigi Tenco, suicida a Sanremo nel gennaio 1967: «Lascia che sia fiorito Signore, il suo sentiero / Quando a te la sua anima / E al mondo la sua pelle / Dovrà riconsegnare». Contro il moralismo e il giustizialismo, De André contrappone un dio che salva e che non giudica, una misericordia che accoglie l’uomo senza rimproverargli le sue sofferenze e le sue fragilità: «Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai Santi Dio, fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte». Anche noi speriamo di allontanarci dai fuochi punitivi dell’Inferno che, a guardarli da qui, ci appaiono un patibolo “umano, troppo umano”. «Il tuo bel Paradiso l’hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso – ci ricorda la Preghiera in gennaio – per quelli che han vissuto con la coscienza pura l’inferno esiste solo per chi ne ha paura». Lucrezia Ercoli

La poesia di Dante in epoca Covid, dall’Ulisse al nostro viaggio intimo. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 12 Maggio 2021. «Di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia». Tante fiammelle vaganti si muovono per il fossato come «lucciole giù per la vallea». E «ogne fiamma un peccatore invola» e «si move ciascuna per la gola del fosse». «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso»: i dannati sono nascosti all’interno di quelle fiamme che li bruciano dall’interno. «Mi dolsi» confessa Dante perché in quelle fiammelle ci sono uomini di ingegno, uomini nobili e degni di fama che peccarono abusando proprio della dote dell’intelligenza. Il canto XXVI dell’Inferno, infatti, è dedicato alla bolgia dell’VIII cerchio che raccoglie i consiglieri fraudolenti, coloro che hanno ingannato il prossimo per favorire la propria grandezza o quella della propria parte politica. Chi in vita è stato bruciato dalla tentazione dell’astuzia, per contrappasso, trascorre l’eternità dentro una fiamma incandescente, colpevole di aver preferito l’intelligenza alla virtù, la scaltrezza alla morale. Un rapporto tra peccato e pena motivato anche dalla somiglianza lessicale tra calliditas (astuzia) e caliditas (calore). «Chi è ‘n quel foco che vien sì diviso di sopra» chiede Dante a Virgilio, riferendosi alla fiamma divisa in due che procede verso di loro. «Là dentro si martira Ulisse e Diomede», risponde il poeta latino, «così insieme a la vendetta vanno come a l’ira», subiscono insieme la meritata punizione dopo aver compiuto azioni contro l’ira divina. I due, spiega Virgilio, scontano tre imprese: «l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme», la frode del cavallo di Troia; l’aver sottratto Achille, nascosto sull’isola di Sciro, all’amore della figlia del re Deidamia; l’aver organizzato il rapimento del Palladio, la statua sacra dalla città di Troia. Questa, dunque, la colpa di Ulisse: aver usato la frode e l’astuzia, in contrasto con le norme morali e religiose, per raggiungere i suoi scopi. «Non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi», Virgilio li prega di raccontare la loro fine misteriosa, di svelare in quale luogo senza ritorno andarono a perdersi e a finire la loro esistenza. La duplice fiamma si agita e «la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori». È Ulisse stesso a raccontare la storia che Omero ha lasciato incompiuta, la storia del suo ultimo viaggio. Ulisse non muore a Itaca, riparte per «l’alto mare aperto». «Né dolcezza di figlio, né la pietà / del vecchio padre, né ‘l debito amore» poterono placare la sete conoscitiva di Ulisse. Non i doveri paterni verso Telemaco, non quelli di figlio nei confronti del padre Laerte, non il debito verso Penelope, la sposa fedele che lo aveva aspettato, lo hanno trattenuto dal ripartire. Niente può vincere «l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore». Ulisse «sol con un legno e con quella compagna piccola», con i compagni sopravvissuti alla guerra, salpa dalla sua patria ritrovata e riprende la via del mare. Riprende il viaggio della conoscenza, spinto da un’inguaribile curiositas che vuole svelare tutti gli arcani del mondo. Il desiderio di fare esperienza del mondo, una spinta alla conoscenza che unisce il coraggio di chi è pronto ad affrontare i rischi e l’orgoglio di chi rifiuta i limiti della ragione umana. Ulisse con la sua sparuta compagnia arriva «dov’Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l’uom più oltre non si metta». Non plus ultra, non oltre si sono spinti i naviganti. «Vecchi e tardi» raggiungono lo stretto di Gibilterra che segna il limite della conoscenza umana, Ulisse, consapevole che gli rimane poco da vivere, vuole oltrepassare le colonne d’Ercole, vuole fare esperienza del «mondo sanza gente». Così, convince i compagni con una vera e propria «orazion piccola», concisa e solenne. Sono i versi più famosi del canto, tra i più citati dell’intera Commedia: «considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». I remi diventano ali e non puntano più verso Itaca, ma verso un Altrove. Ulisse arriva perfino a vedere una montagna «alta tanto quanto veduta non avea alcuna» ma non può raggiungerla. È la montagna del Paradiso terrestre, la montagna che non può essere conquistata. Così finisce il viaggio: la barca di Ulisse e dei suoi intrepidi compagni di viaggio viene inghiottita nel mare. «Infin che ’l mar fu sovra noi richiuso». Così si chiude il racconto del «folle volo» della fiammella infernale. L’Ulisse di Dante, indubbiamente influenzato da fonti latine, è molto diverso dall’Ulisse omerico. Il viaggio dell’Odissea è mosso dalla nostalgia della patria, è un viaggio orientato verso casa; l’alba di un nuovo giorno sorge nel momento in cui la barca di Ulisse raggiunge la costa dell’isola itacese. Omero costruisce un percorso circolare che parte da Itaca e torna a Itaca, ritrovando le cose e le persone desiderate. La finalità ultima del pellegrinaggio nostalgico di Odisseo è il nostos che in greco vuol dire “ritorno”. Una parola che ritorna costantemente nel poema omerico: Ulisse «consumava la vita sospirando il ritorno (nostos)» scrive Omero. Non a caso il termine nostos è all’origine della parola nostalgia che letteralmente significa «dolore per il ritorno»: un sentimento che originariamente descrive la brama di tornare a casa propria, lo struggimento dell’esule che rimpiange la terra natia. Patria ubi bene. Indubbiamente il viaggio di ritorno dell’eroe prevede il superamento di continui pericoli e ostacoli; il viaggio verso la méta è continuamente interrotto dall’istintiva attrazione per ciò che è estraneo, inquietante e meraviglioso. L’Odissea è un viaggio tra creature mostruose e leggendarie che tentano in ogni modo di affabulare, ingannare e sedurre il nostro eroe. Alla fine, però, come ogni esule che si rispetti, Ulisse torna a casa e ritrova i suoi affetti, che non hanno mai perso la speranza. Dante, invece, ci regala il ritratto di un viandante moderno, modello per i poeti romantici e per gli artisti del Novecento, non più vittima di un fato incontrollato, ma artefice del proprio destino. Il nostos, il viaggio di ritorno a casa, si trasforma in un exodos, un salpare verso l’ignoto senza ritorno. Una ricerca di senso votata al fallimento, destinata a non culminare in una conoscenza completa e proprio per questo degna di essere intrapresa. Il viaggio più importante e, al contempo, più pericoloso. Un pellegrinaggio ab-solutus: privo di ogni certezza e, al contempo, libero da ogni legame. Un mondo frammentato e scisso, quindi, è la patria del viandante, costantemente in pellegrinaggio da un posto all’altro perché la méta – scrive Baudelaire – «si sposta; / se non è in alcun luogo, può essere dappertutto». Un invito al viaggio, dunque, in cui siamo tutti imbarcati: non c’è più terra ferma e il navigante si fa naufrago nei gorghi dell’esistenza. Dall’ottava bolgia infernale ci giunge un invito che, in questi tempi claustrofobici, ha il potere di scuoterci. Il viaggio è un archetipo centrale della cultura occidentale: dal Grand Tour dei giovani aristocratici del passato al viaggio alla deriva degli esuli, con le gambe degli uomini si muovono anche pensieri, desideri e speranze. L’esistenza stessa, ci ricordano gli antichi, è navigatio vitae aperta verso il futuro. In questi mesi ci siamo crogiolati nella nostalgia di viaggi già compiuti, abbiamo usato l’immaginazione per viaggiare dentro i confini ristretti della nostra casa. «Puoi viaggiare dal tuo divano» è diventato lo slogan promozionale dei tanti Netflix della cultura. Anche se il nostro “folle volo” sembra assomigliare in realtà a quello del protagonista del quadro di Giorgio De Chirico Ritorno di Ulisse. A fare da sfondo alle peregrinazioni di Ulisse, alter-ego del pittore ormai ottantenne, non è più il Mediterraneo popolato da meraviglie e terrori, ma un paesaggio più intimo e familiare: la sua camera da letto. Il marinaio è ai remi di una barca immersa in un mare domestico, che gira in tondo in un vortice di onde sul pavimento. Forse, possiamo ancora spingerci al di là delle colonne d’Ercole, ma solo immergendoci in un viaggio visionario che ripercorre il perimetro delle stanze della nostra mente. «La mia camera è un vascello fantastico, ove posso fare viaggi avventurosi, degni di un esploratore testardo» scrive De Chirico. E se davvero non siamo fatti per «viver come bruti», non possiamo fare altro che trovare il coraggio per rimetterci in viaggio verso un nuovo mondo ignoto. Con in mente i versi che Alfred Tennyson mette in bocca al suo novello Ulisse: «Non posso smettere di viaggiare: berrò / Ogni goccia della vita / […]. Com’è sciocco fermarsi, finire, / Arrugginire non lucidati, non brillare nell’uso! / Come se respirare fosse vivere! Vita ammucchiata su vita. […] Venite, amici miei, / Non è troppo tardi per cercare un mondo più nuovo. […] Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi / Mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo; / Un’eguale indole di eroici cuori, / Indeboliti dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà / Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere». Lucrezia Ercoli

Viaggio nell’Inferno di Dante, il principio dei traditori tra cambiamento e innovazione. Lucrezia Ercoli su Il Riformista l'11 Giugno 2021. Si intravedono i vessilli, Vexilla regis prodeunt. Stiamo per toccare il punto più basso dell’aberrazione umana. Aspettiamo questo momento dall’inizio del viaggio. I Vexilla Inferni, i segni del re degli inferi, procedono verso di noi. Non sono quelli della vera Croce come negli inni del Venerdì Santo, ma del suo oppositore. Siamo al centro dell’inferno. Siamo lungo uno dei cinque fiumi mitologici degli Inferi: il Cocito, il “fiume di ghiaccio”. L’ultimo canto, il trentaquattresimo. Dante e Virgilio vengono al cospetto del principio di ogni male, Lucifero. Spira un vento freddo da rabbrividire e le ombre dei dannati sono tutte affondate nel ghiaccio, e si intravedono come pagliuzze sottovetro. Il luogo più freddo e desolato dell’universo. È la “Giudecca”. Il termine indica il quartiere ebraico (dal latino judaeus). Nella Giudecca gli ebrei venivano anticamente confinati. Omen est nomen. Cosa c’è di più inospitale di un quartiere ebraico? Con buona pace del politicamente corretto. Nella ghiaccia della “Judaica” le anime sono sdraiate, a testa in su o in giù, diritte o rovesciate, ma tutte cristallizzate e silenziose. Tutte anonime. Nessun dannato viene individuato da Dante, né tantomeno da Virgilio. Non vengono date spiegazioni. Si presume che insieme al popolo ebraico vi siano congelati i peccatori verso la Chiesa e verso l’Impero. Probabilmente tutti quelli che hanno agito contro i loro benefattori. A capirne di più ci può aiutare “la creatura ch’ebbe il bel sembiante”. Virgilio lo introduce da par suo: “Ecco il luogo dove conviene armarsi di coraggio”. Aumenta la suspence. Dante diviene “gelato e fioco”, che è meglio non chiedere spiegazioni, “ch’ogne parlar sarebbe poco”; le parole non sono sufficienti. Una visione mozzafiato, che “non morì e non rimasi vivo”. L’apparizione ti lascia senza vita e senza morte. “Lo ‘mperador del doloroso regno da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia”. L’imperatore del male conficcato nel ghiaccio fino al petto, con la sua regalità infernale. Ma come è fatto Lucifero? La domanda è pertinente, se ancora oggi usiamo l’aggettivo luciferino a sproposito. La sua rappresentazione non è una questione di poco conto nella costruzione dell’immaginario contemporaneo. Il diavolo e l’inferno hanno tormentato l’uomo medievale. Per Jacques Le Goff, il maggiore intellettuale della Nouvelle Histoire, il diavolo è stato “la grande creazione del cristianesimo durante il Medioevo”. L’iconografia del demonio è molto significativa. Innanzitutto, Lucifero è brutto. È un angelo abbattuto, distrutto e fiaccato da Dio. Uno sconfitto portato all’impotenza. Come tutti i potenti decaduti può essere finalmente beffeggiato. Ieri come oggi niente è più liberatorio che ridicolizzare e rendere grottesca la figura della persona un tempo importante. Capace di trasformarsi e di camuffarsi, mostra essenzialmente due volti, quello del seduttore e quello del torturatore infernale. Il diavolo ammaliatore prende sembianze umane, soprattutto femminili e stringe patti con i peccatori. Il patto con il demonio ha essenzialmente prodotto la caccia alle streghe. Mentre il diavolo infernale del XIII e XIV secolo diventa un mostro, un incrocio tra l’uomo e la bestia, sempre dotato di corna, di coda e di ali. Il suo aspetto addirittura peggiorerà con la crisi del quattordicesimo secolo. Dopo le famigerate pestilenze del Trecento prevarrà l’esagerazione grottesca alla Bosch. La figura del diavolo alimenta l’angoscia di ricchi e poveri. Non mancano santi uomini di Chiesa che, dopo averlo incontrato, ne hanno tracciato l’identikit in prediche e libri. Una figura, diremmo oggi, “pervasiva” a tutto campo, dalla mentalità popolare alle forme più ricercate dell’arte. Il suo aspetto è terrificante. Lo troviamo nelle sculture, negli affreschi, nelle facciate delle chiese o al loro interno nei capitelli e nelle pitture. I fedeli hanno paura del diavolo: sanno che può portare via l’anima e con essa la vita eterna. Poi arriva la grande paura della morte, non solo perché la peste nera l’avrebbe resa sempre presente, ma perché dal Trecento si incomincia a vivere in condizioni migliori. Più ci si lega alla vita e più si teme la morte. Il diavolo, incarnazione di tutte le inquietudini legate al senso di colpa e alla paura della morte, impone la sua presenza perturbante nel quotidiano. In Dante, però, Lucifero interpreta solo la parte del torturatore. L’inferno della Divina Commedia si appiattisce sulla crudeltà del supplizio e tutti i tormenti sono illustrati con truculento realismo. Oggi sappiamo quanto le immagini siano state utili come veicolo di diffusione dei contenuti religiosi. La pittura ha sfamato la morbosità dei viziosi. Proprio con le immagini dei demoni e dei peccatori nasce la prima concretezza artistica italiana. Dentro al filone realistico si colloca il Giudizio finale del Battistero di Firenze, iniziato probabilmente nel 1225 e osservato minuziosamente da Dante. A onor del vero ci viene risparmiata gran parte degli elementi grotteschi (corna, artigli, serpenti) propri dell’iconografia dell’epoca. Rimangono le tre facce mostruose di Lucifero. Il vultus trifrons: il volto centrale rosso, quello chiaro a destra e quello scuro a sinistra. Le tre caratteristiche divine (podestà, sapienza e amore) sono in Lucifero all’opposto: impotenza, ignoranza e odio. L’antitesi perfetta. Si conclude così l’impianto caricaturale dell’Inferno. In questo canto tutto risulta au contraire: i vessilli non sono quelli della croce, la “ghiaccia” ha preso il posto delle fiamme, Lucifero è tanto brutto quanto è stato bello un tempo e, infine, le tre facce sono quelle rovesciate della divina Trinità. Artifici magistrali degni della cinematografia gotica contemporanea. L’impianto parodico consente di affrontare meglio la complessità della situazione. La parodia, più di tante parole, facilita la descrizione e la spiegazione di una condizione difficile. L’espediente scenico si impone da allora nelle dinamiche descrittive e ancora oggi il parossismo è una costante della cultura moderna. L’arte e la letteratura, che in nessuna epoca sono state mai innocenti, hanno diffuso una visione precisa dell’aldilà, dei dannati, delle torture e dei demoni disgustosi. A fin di bene? Per suscitare quel sincero sgomento da indurre l’uomo medioevale a pentirsi e a salvarsi? Sta di fatto che si è radicato potente il pregiudizio che il brutto sia il male. Il diavolo è sporco e deforme. Gli sporchi e deformi sono cattivi e i “segnati da Dio” hanno qualcosa di demoniaco. È l’eredità avvelenata dell’uomo “timorato”. Il Lucifero dantesco soddisfa le odierne curiosità di conoscere le sembianze del più cattivo dei cattivi. Dalla narrazione parodica abbiamo ricavato anche un utilissimo passe-partout. Vogliamo sapere come è fatto il male? Il contrario esatto del bene. E come è fatto il bene? Il contrario esatto del male. Ci rimane una curiosità ancora da soddisfare. Ora che abbiamo conosciuto il peggiore dei torturatori, chi sarà mai il peggiore dei peccatori? Il colpevole imperdonabile? Lucifero lo sbrana. Con tre facce, con tre bocche, ne sbrana tre. Tre sommi peccatori, gli unici nominati al centro dell’inferno, al centro della colpa, al centro del peccato. Quello davanti ce lo indica Virgilio. È Giuda Iscariota. C’era da scommetterci per un demonio conficcato al centro della Giudecca. Chi più di Giuda è un giuda? Gli altri due rappresentano la vera conclusione del viaggio all’inferno. Sono i nemici dell’Impero. Marco Giunio Bruto e Cassio Longino. Due politici e senatori della tarda Repubblica romana, figure preminenti della congiura delle Idi di Marzo e assassini di Giulio Cesare. Giuda ha tradito Gesù e Bruto e Cassio hanno tradito Cesare, “il primo principe sommo”, fondatore dell’autorità imperiale voluta dalla Provvidenza e opera della Redenzione. Apparizioni funeste collocate nel centro geometrico dell’Universo. Nella terna Dante vuole bastonare chi insidia il potere. Sono questi i veri nemici di Dio, che affida proprio al potere la sopravvivenza degli uomini. Il castigo più severo va al peccato più grave: attentare al governo spirituale e al governo temporale. Ben più pesante dei sette vizi capitali è il venir meno a un impegno di fedeltà e di lealtà: tradire. Dal latino tradere, dare oltre, trasmettere. L’immagine sostanziale del tradimento ci riporta alla mente un tradire molto fisico: dare al nemico, aiutare il nemico, consegnare al nemico. Giuda consegna Cristo. Proprio nel canto finale dell’inferno il tradimento si enfatizza. L’esagerazione lo esaspera. Per secoli le immagini di Giuda, Bruto e Cassio hanno rappresentato lo stereotipo del tradimento e della sua punizione. Da allora l’infedeltà è una presenza costante e ingombrante. Qualunque venir meno a un obbligo, a una fiducia, a una dedizione è tradimento. Tutto tradisce: lo sguardo tradisce un desiderio; la memoria ci tradisce; ci tradiamo da soli… Il moralismo non rinuncia mai al tradimento. Più il tradimento è condannato, più aumenta la schiera dei traditori. Ci si tratta vicendevolmente come dei Giuda, pronti a svendere famiglia, principi e partito per trenta denari. Le categorie dantesche godono di ottima salute nella retorica istituzionale. Chi tratterebbe oggi Bruto e Cassio da peccatori? Solo un fanatico. La condanna del tradimento è il principio fondante del fanatismo. Attenzione! “Il tradimento non trionfa mai: qual è il motivo? Perché se trionfa, nessuno osa chiamarlo tradimento” ha sentenziato il poeta John Harington. Questa è la verità che sappiamo e che non diciamo. Bruto e Cassio non sono peccatori, sono perdenti. In un momento storico in cui l’impegno solenne si è ridimensionato, dovremmo attenuare la nostra faziosità. Difficile! La storia la scrivono i vincitori. Sempre! E gli sconfitti sono spregevoli, sempre! Ben prima di Dante. Ad Atene, dopo i Trenta Tiranni si regolarono i conti. Addirittura misero a morte Socrate per collaborazionismo. Promulgarono una legge che vietava di rievocare il passato, e tantomeno di reinterpretarlo. Da allora – dalla Roma imperiale alla Roma fascista, dall’inquisizione ai partiti comunisti, da Giuda a Trockij – i conti con la storia vengono fatti secondo lo stereotipo del tradimento e della sua punizione. Anche se, come ha scritto Curzio Malaparte, l’umanità si misura innanzitutto sul sacro rispetto dei vinti e degli sconfitti: «Non so quale sia più difficile, se il mestiere del vinto o quello del vincitore. Ma una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori». Il modello dantesco resiste perché la libertà ci impaurisce, ci consegna al buio e all’incertezza. Solo Giulio Giorello ha provato a rovesciare il tavolo: «Il tradimento è motore di cambiamenti necessari, può rivelarsi l’elemento portante dell’innovazione, se non addirittura il nucleo di un nuovo eroismo». A noi non rimane che applicare a Dante il suo stesso approccio parodico. E dire con Aldo Carotenuto: «Il tradimento è una rivolta: ogni rivoluzione s’iscrive nell’orbita del tradimento, è tradimento ogni opera d’arte che rompa un circuito obsoleto della conoscenza, è tradimento ogni nuova scoperta, è tradimento ogni originale movimento intellettuale». Lunga vita ai traditori! Lucrezia Ercoli 

L'anniversario. “Le due mani di Dio”, l’ironia dantesca e la drammaticità di Pasolini. Filippo La Porta su il Riformista il 12 Marzo 2021. Nella pletora di libri su Dante – divulgativi, specialistici, pretestuosi, accademici – vorrei indicare un saggetto prezioso, che ho trovato fortunosamente in una libreria d’occasione (e che mi ero perso quando uscì vent’anni fa): Le due mani di Dio, di Franco Ferrucci (Fazi). L’autore non è propriamente un dantista, anche se si è occupato in varie occasioni dell’opera dantesca, ma questo smilzo libretto di 150 pagine, straripante di intuizioni critiche, rivela una erudizione, un vivacità intellettuale e una passione “militante” assolutamente rare (altri studiosi avrebbero ricavato un volume da ogni capitolo!). L’immagine che ispira il titolo è di Bernardino da Siena, e riassume la fusione cristiana di monoteismo biblico e politeismo pagano. Da una parte Jeova, il Dio dell’Antico Testamento, solitario e austero, intrattabile e infinitamente distante e dall’altra il Nuovo Testamento e poi la religione cristiana come viene maturando nei primi secoli, con il suo velato politeismo: le figure dei santi (dei inferiori), la Vergine Madre (la più alta divinità minore dopo quella di Cristo, figura pagana, “Giunone dalla riacquistata innocenza” legata a Dio da un rapporto “obliquamente incestuoso), e di Cristo stesso (la sua doppia natura: nella eresia ariana era considerato un dio minore). In seguito all’interno della religione cristiana resterà una tensione tra l’anima politeistica e di origine pagana e la vocazione monoteistica, rappresentata soprattutto dal misticismo. La Divina Commedia è la più alta testimonianza di questo “monopoliteismo”, con le sue innumerevoli presenze pagane e la visione mistica dell’ultimo canto. Una riflessione, questa, che ci aiuta a capire meglio la identità culturale dell’Occidente, nata dalla confluenza di tradizione ebraico-cristiana e cultura classica. Ma ora vorrei concentrarmi sul capitolo più illuminante del libro di Ferrucci, sull’ironia di Dante. Ferrucci ha insegnato molti anni alla Rutgers university, New Jersey. Proprio in America, durante una lezione che tenevo sui classici, una studentessa mi chiese scandalizzandomi un po’ – con innocente spudoratezza: “Mi scusi, ma Dante era italiano” (“Pardon me, is Dante really Italian?”). Per molti americani capii che Dante rappresenta un vertice della letteratura universale, quasi senza patria e senza radici. Me ne sentii ferito nell’orgoglio. Il punto è che Dante, con la sua severità e intransigenza morale, con la durezza che mostra nell’Inferno (ai limiti del sadismo) non sembra tanto assimilabile al carattere italiano così come si è plasmato nei secoli e come viene riconosciuto il tutto il mondo (si sa, siamo un popolo di simpatici commedianti, di esteti e di inesauribili retori, un po’ geniali e un po’ cialtroni). Oltre al fatto che Dante, verosimilmente, era favorevole sia alla vendetta che alla pena di morte! Ma d’altra parte Dante mi appare anche italianissimo, per innumerevoli ragioni. E qui vengo all’ironia: «Una ventata d’ironia trasvola sull’intera Commedia e investe lo stesso protagonista». Ferrucci si riferisce non tanto agli episodi esplicitamente comici (i canti dei barattieri nell’Inferno), ma a quei momenti in cui Dante rivede se stesso a confronto con una realtà che sollecita il suo gusto del paradosso (quasi una anticipazione dell’ironia romantica, della “buffoneria trascendentale” cui accennò Schlegel). Dante è per lui – costantemente – sia eroico che ironico. Ripassiamo velocemente con l’autore alcuni di questi momenti: l’idea di mettere vicino, nella bolgia infernale dei falsari, Gianni Schicchi, personaggio buffonesco da commedia, e Mirra, eroina tragica ovidiana, o quella di far dire allo scismatico Maometto una profezia sull’uccisione prossima dello scismatico fra Dolcino, il fatto – sottolineato dal solo Tasso – che Virgilio di fronte a Ulisse si fa passare per Omero (per sentirsi raccontare la sua storia), l’incontro con Oderisi da Gubbio tra i superbi del Purgatorio (il quale sottolinea il carattere effimero della fama), e fino all’esame di san Pietro sulla fede in Paradiso. A questi esempi, e a innumerevoli altri, occorre aggiungere la canzonatura reciproca di Dante e Virgilio. Senza trascurare che «ironico è già il fatto che l’unica persona vivente sia il narratore, in questo universo di morti che gli parlano come vicini di casa o amici d’infanzia» (di qui anche la compresenza di linguaggio sublime e linguaggio plebeo). Insomma l’ironia significa per Dante riconoscimento del carattere contraddittorio, paradossale, indecifrabile della realtà. Di qui la immissione – in un poema che si vuole pur sempre sacro – del teatro, del gioco, della maschera, della canzonatura, della finzione, della messinscena. Tutti aspetti inequivocabili, bisognerà riconoscerlo, del nostro carattere nazionale. Pasolini si ispira continuamente a Dante e anzi volle rifare la Divina Commedia (con esiti semi-disastrosi). Eppure non aveva alcun senso dell’ironia, e anzi diffidava dell’ironia come attitudine riduttiva del piccolo borghese. Probabilmente Pasolini, in ciò, era più “cristiano” di Dante! Viveva cioè ogni momento in una specie di tensione totale, in una continua drammaticità, identificandosi (fin da ragazzo) nell’immagine di Cristo in croce (riusciva a essere creativo solo se si sentiva perseguitato). Si dice che Pasolini durante il set di alcuni film (ad esempio Cosa sono le nuvole) amasse sbellicarsi dalle risate con gli attori e le comparse (in quel caso Totò, Franchi e Ingrassia, Laura Betti…), però l’ironia è latitante nella sua intera opera. Era più Savonarola che Dante, più un predicatore medievale, vibrante e apocalittico, che un poeta incline all’ironia giocosa come Dante, a quell’uso della mitologia classica «come divertissement perfino gratuito».

·        Edmondo De Amicis.

Edmondo De Amicis con Cuore ha inventato gli italiani. Infantili, egoisti, indifferenti. Ma anche generosi, sentimentali, coraggiosi. Lo scrittore ha forgiato un modello di cittadini e progettato il carattere di una nazione popolata da “brava gente”.  Marcello Fois su L'Espresso il 31 agosto 2021. De Amicis ha inventato gli italiani. Ne ha espresso le possibili coordinate di popolo, ne ha tracciato l’unico profilo unitario che soprassedesse alle immense differenziazioni che da sempre lo contraddistinguono. E tutto ciò perché aveva a «cuore» un modello di società utopistico fino al punto di pensare che si è felici solo a patto di essere felici di quello che si è. Una tautologia soltanto apparente. Un intento assai meno semplice di quello che sembrerebbe a prima vista. Perché lavorare su un materiale incandescente come una nazione da farsi, nonostante sulla carta avesse circa vent’anni, e cimentarsi a fornire punti di riferimento, e intenti comuni, a gruppi di cittadini che, fino a pochissimo tempo prima, erano vissuti in uno stato di separazione amministrativa e geografica, era un’impresa da sognatore, o da pazzo (…). Eppure quel sistema, arrivato intatto persino ai giorni nostri, quel dispositivo, da lui messo a punto, ha funzionato alla perfezione. Sul fatto che sia un bene che abbia funzionato si potrebbe discutere, ma il dato sostanziale è che, quando nel 1886 nelle vetrine delle librerie, nelle case, nei banchi di scuola apparirà Cuore, questi italiani endemicamente difformi, geneticamente polemici, caratterialmente lagnosi, difettosi nel senso di patria, politicamente pusillanimi, saranno diventati, definitivamente, «brava gente». Questo abito di alta sartoria che veste e nasconde qualunque bruttura, che individua nella bontà utopistica un punto di unione, un collante nella separatezza, e fornisce una exit strategy sociale, è il vero, geniale, contributo intellettuale, antropologico, politico di Edmondo De Amicis. Cuore è l’unico classico della letteratura italiana che non sia scaturito da esigenze prettamente letterarie. Ma da un impegno etico preciso. Qualcosa che ha a che fare con gli esperimenti giovanili del De Amicis prima che lasciasse l’esercito e che, nel 1869 aveva stilato per Le Monnier “Racconti militari”: libro di lettura ad uso delle scuole dell’esercito. Una propensione didattica che arriva da lontano dunque. E che, lo sapeva benissimo, poteva rischiare di inficiare il valore stilistico dell’opera. Cosa che di fatto avvenne, proprio per la perfezione con cui quel contenuto si adatta al contenitore. Quando la scrittura calza a pennello sparisce. Sicché a De Amicis vengono additati molti luoghi comuni che non erano tali prima che lui stesso li inventasse. E tuttavia di letteratura si tratta, considerando che, come detto, Cuore inizia esattamente dove finiscono I promessi sposi. E cioè da quella «birberia», detta anche pubblica istruzione, o istituzione scolastica, attraverso la quale si poteva ottenere una nazione «ben inclinata». Uno spazio dove si potesse riprodurre in vitro quella stessa difformità, quella stessa incapacità di coesione, quella stessa, infantile, tendenza a non assumersi responsabilità sociali, che caratterizzava, e caratterizza, il rappezzato popolo italiano. Per inventarsi gli «italiani brava gente» è stato necessario coltivarli in una serra dove tutti i loro difetti endemici potessero, almeno sulla carta, diventare pregi. E dove si potessero attivare quelle qualità intrinseche che avviassero un processo virtuoso di contributo e assistenza reciproci, anziché uno di rivendicazione e sopraffazione continui. Chi pensasse all’opera di De Amicis solo in termini prettamente letterari avrebbe però una visione assai limitata della portata che la letteratura può avere se professionalmente indirizzata. De Amicis è stato un professionista formidabile. Il suo modello di Italia ha come fine ultimo quello di salvare gli italiani da sé stessi. Ed è il risultato di un apprendistato che dura fin dalla prima adolescenza, quando il dubbio era tra fare lo scrittore o il soldato. È l’esito di un pensiero politico e letterario che formalizzando sardi sacrificali, lombardi guardinghi, romagnoli sanguigni, fiorentini artisti, liguri viaggiatori con poca spesa, siculi figli della Provvidenza, veneti semplici e introversi, campani col cuore in mano, e cosí via, ci ha convinto che il segreto di una nazione coesa era nella retorica di sé stessi. Cuore è quell’abito della bontà, o della bonomia, che costantemente rinneghiamo, ma che non abbiamo mai cessato di portare. È il mantello con cui copriamo la natura ferina che ci contraddistingue confezionato da un sarto, De Amicis, che combatte contro l’opinione corrente del suo e del nostro tempo. Che intravede cioè la possibilità di inventarsi un senso di popolo dove quel senso languiva e languisce (...). Perché in fondo l’Italia era ed è ancora la nazione che Benedetto Croce inquadra come ricoverata nel nosocomio dove devono stare rinchiusi gli affetti da una inguaribile malattia morale. La stessa precisa patologia nazionale che Piero Gobetti qualifica come analfabetismo democratico. Quella di un paese che Pier Paolo Pasolini condanna senza appello come «brutalmente egoista» e che Carlo Emilio Gadda, che pure era stato fascista, in Eros e Priapo, descrive come abitato da un popolo strepitosamente paradossale: «quei liceali trombati a mezzo, quegli universitari malinconici e titubanti con diciotto esami da smaltire fuori corso: o indocili perdigiorno che vivacchiavano di espedienti» (...). A caratterizzarci da sempre è quella condizione immobile che Umberto Eco, non certo tifoso di De Amicis, chiama Ur-Fascismo dalle caratteristiche spaventosamente immortali. De Amicis è dunque, innanzitutto, un’eccezione passata e presente. Un’eccezione tutt’ora. Un ingenuo progressista che crede di poter indicare una strada alternativa alla realtà di cui, come è capitato alla maggior parte degli intellettuali di questo paese, conosce perfettamente le storture: è stato soldato, è stato viaggiatore, è stato, e in fondo è rimasto sempre, socialista. Ha scritto il primo e unico romanzo italiano del suo tempo che tratti il tema dell’emancipazione femminile, goffamente certo; tuttavia Amore e Ginnastica resta comunque un tentativo straordinario di suggerire un tema caldo a una nazione possentemente maschilista. È un brav’uomo Edmondo, ha capito che la potenza delle proposte consiste nel coraggio con cui si fanno. Ha in mente il valore socialista con quel tanto di ingenuità utopica e capacità di scandalo che contraddistingueva i retti padri della patria. E s’ingegna di mettere a punto una nazione vera, coesa, certo schematica, ma possibile: empatica, solidale, filantropica. Indubbiamente un po’ melò, ma non lo sono anche Verdi e Puccini? Valore socialista dunque, non populista. A differenza di quanto si possa pensare i due sentimenti sono inversamente proporzionali piú che opposti in senso stretto. La parola buonista è l’ultimo parto di questo rapporto tra chi si sforza di essere brava gente e chi è convinto di esserlo. Ci sono i buoni che non si mettono mai in discussione e quelli che costantemente lo fanno: i buonisti appunto. Il valore populista è draconiano, quello socialista è dubitativo. De Amicis, dunque, per chi avesse la furbizia di leggerlo come va fatto, risulterebbe buonista, nell’accezione solidale che si vuol dare al termine, ma tutt’altro che buono. Se fosse buono non non metterebbe queste parole in bocca al maestro Perboni: «Voi... avete schernito un disgraziato, percosso un debole che non si può difendere. Avete commesso una delle azioni piú basse, piú vergognose di cui si possa macchiare una creatura umana. Vigliacchi!». Quel «vigliacchi» conduce il pensiero ai nostri giorni, all’inutile complessità di cui rivestiamo i nostri tentennamenti e la nostra incapacità generalizzata di nutrire un sentimento solidale nei confronti dei migranti che respingiamo o rinchiudiamo nei centri di accoglienza. È retorico quel «vigliacchi», è solo edificante, o semplicemente, pericolosamente, calzante? E poco piú avanti: «Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai piú gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore». Una specie di memento semplificato per tutti quegli «amanti del tricolore» che pensano sia possibile pronunciare nella stessa frase «prima gli italiani» e «terroni».

“L’invenzione degli italiani. Dove ci porta Cuore” di Marcello Fois (Einaudi, pp. 104, € 12) da cui è tratto il testo qui anticipato, arriva in libreria il 7 settembre. L’autore presenterà il saggio il 12 settembre al Festivaletteratura di Mantova (Tenda Sordello, ore 16) e a Pordenonelegge il 17, in un Elogio di De Amicis (ore 21, Spazio Gabelli)

·        Edoardo Albinati.

Superbia, livore e retorica. Il mondo "pietoso" di Albinati. Luigi Mascheroni il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Il nuovo pamphlet dello scrittore premio Strega affoga nei luoghi comuni per vellicare la sinistra elitaria e feroce. Una cosa che Edoardo Albinati - scrittore, giornalista e insegnante, nato a Roma nel '56 - non ha mai sopportato, una cosa che ha patito in silenzio, con fastidio e disagio, è che il suo nome assomigli a quello di Eraldo Affinati, scrittore, giornalista e insegnante, nato a Roma nel '56. Strano. Come è noto gli intellettuali, specie di sinistra, risultano scevri da invidie, gelosie e rivalità. Di sinistra, goloso, invidiatissimo - è un premio Strega - Edoardo Albinati in una vecchia intervista ammise che il suo maggior difetto è di illudersi di essere coraggioso e poi «scoprirsi a volte un po' vighiacchetto». Che è ancora più strano: si può dire tutto degli intellettuali di sinistra tranne che siano vighiacchetti. «Berlusconi è un puzzone schifoso puttaniere ladro evasore immorale ignorante che non legge neanche un libro!». «Vorremmo farti un contratto con Einaudi o Mondadori. O Rizzoli...». «Subito!». Comunque, chi lo conosce bene sa che il vero vizio di Albinati tipico di chi sfoga un senso di inadeguatezza nella più sfrenata competitività è la superbia. Ego, Super Io e Super Edo. Edo Albinati casa nel quartiere Trieste, ereditata dal padre e a lungo affittata al padrino Enzo Siciliano, e mentalità ai Parioli appartiene per censo e incenso alla buona (anzi: buonissima) borghesia cattolica apostolica romana. Quella che non sa mai scegliere fra un pensiero infame e una missione umanitaria. Padre ingegnere, liceo classico San Leone Magno, scuola cattolica e Prato Pagano. Che è la rivista su cui escono le sue prime poesie. Tenterà, con esiti non fortunati, anche di pubblicare su Braci, agli inizi degli anni '80, perché Albinati si è sempre sentito più poeta che narratore, anche se i lettori lo considerano più narratore che poeta, i suoi amici grande poeta e grande narratore, e i grandi critici né poeta né narratore. I suoi amici sono molti: i più bei nomi, da sempre, della migliore sinistra intellettuale capitolina, cioè la schiuma colta e mondana del Pd, punto perfetto di intersezione tra il cardo - i salotti - e il decumano - l'ideologia delle roccaforti editoriali, giornalistiche, cinematografare e teatrali romane. Quando si dice che l'egemonia di sinistra è un castrum inespugnabile. Gli amici sono importanti. Ma avere amici importanti è ancora più importante. Enzo Siciliano, il ras della Roma letteraria, negli anni '80 lo porta nella redazione di Nuovi Argomenti e poi nello Specchio. Antonio Franchini lo fa lavorare come editor in Mondadori. Mentre Sandro Veronesi l'amico inseparabile: quando uno scrive un libro l'altro lo recensisce, e dopo che l'ha recensito, scrive un libro che spedisce all'altro per recensione lo fa pubblicare in Fandango. Intanto - punteggiata da due relazioni importanti: la prima con Benedetta Loy, figlia di Rosetta Loy, compagna di Cesare Garboli, la seconda con Francesca D'Aloja, l'attuale compagna con una grande passione per il cinema e i cineasti, già compagna di Alessandro Gassmann poi moglie di Marco Risi - scorre la lunga bio-bibliografia dell'autorevole scrittore-insegnante, che dal debutto nel romanzo, anno 1989, con Il polacco lavatore di vetri, elegantemente stroncato da Stefano Giovanardi su Repubblica, lo porta, nel 2016, a vincere il Premio Strega con il romanzo La scuola cattolica, diventato un film presentato alla recente alla Mostra del cinema di Venezia. L'intellighenzia è un tappeto rosso steso fra il Lido e le première romane. Romano (ma «laziale esistenzialista»), mondano, mente critica, intelligente (molto), buono (insegna a Rebibbia), buonista (di immigrati, omosessuali, carcerati non gli importa più di tanto, gli importano le proiezioni simboliche che dalle loro vicende promanano), democratico, burbero ma sensibile, tono monocorde e aria da seminarista, Edoardo Albinati - presidente del club Simpatia dei premi Strega con Scurati, Piccolo, Veronesi e Trevi - soffre di una particolare forma di sindrome imitativa: gli occhiali di Pasolini che gli ha regalato Siciliano, i pantaloni di Nelo Risi che portava la sera dello Strega, gli inguardabili sandali di cuoio per sentirsi Valentino Zeichen... «Io sono Io e gli altri sono me». «Uomo contraddittorio con un'esistenza a zig-zag», come si è definito pubblicamente una volta, Affinati... cioè Albinati..., come scrittore ama mescolare narrativa e saggistica, memoir e pamphlet, invettiva e diario: come il nuovo Velo Pietoso (Rizzoli), sottotitolo «Una stagione di retorica», un libro che fa a zig-zag fra racconto a frammenti di tv, qualche citazione di autori famosi tipo Wikiquote (Veronesi nella sua sobria recensione ha parlato di «riferimenti inauditi, orbitali, schizofrenici»), cronaca politica e pubblicità... In realtà se accettiamo l'ipotesi che non tutto ciò che è scritto da un premio Strega sia da premio Strega è un non-libro, un libroide, una raccolta di pensierini molto retorici, a dispetto del titolo, e della retorica peggiore, quella dei buoni sentimenti - che al più valevano una rubrica su un giornale. Ma un libro... Mah. Albinati, prosa elegante - «Medici non vaccinati? Pezzi di m...» - e raffinati sofismi - l'augurarsi la morte di un bambino su una nave di migranti, così, giusto per mettere in crisi il ministro Salvini ha quella cattiveria tipica di chi ama ostentare tolleranza e benevolenza verso l'altro, senza distinzione per quanto riguarda sesso, razza e religione, ma molti distinguo in merito alle idee politiche, come quando auspica (siamo a pagina 57) «un fracco di legnate» a un giornalista di destra che va in tv a criticare il Ddl Zan. «A frocioooooooo!!!». Ben venga la sinistra illiberale, dogmatica, provinciale, elitaria e intollerante. Falce e manganello. Altre cose notevoli di Velo pietoso. L'asserzione «Prima che per aver commesso un qualsiasi reato, uno in galera dovrebbe finirci solo per essere andato al Billionaire». L'elogio delle infermiere dell'Est, Svetlane, rumene, ucraine, chissà perché sempre migliori delle italiane. L'attacco alla serie tv Anna di Ammaniti: «A me sembra un fumetto scritto quando io avevo dodici anni, e l'autore stava all'asilo» e a Parasite («Una solenne boiata»). Quello alla performance «raccapricciante per volgarità e retorica» di Stefano Massini sulla morte della ragazza di Prato stritolata da un macchinario tessile. Il miniorgasmo che gli ha provocato il j'accuse di Fedez al concertone del Primo maggio contro la Rai (Wow!, però...). Cose così. Ah, e naturalmente i soliti pipponi sui migranti, sui sovranisti brutti ignoranti e cattivi, su Salvini e la traversata dei migranti come «una crociera», sul Ddl din don Zan, sul nazionalismo sfrenato dei campioni europei, sullo ius soli... Strano che manchi Greta Thunberg. Yaaaaaaawn, che noia! Curioso: il pamphlettino di Albinati esce nella stessa collana in cui uscì quello di Walter Siti contro l'impegno, in cui si diceva ma dài? - che non c'è come la retorica dei buoni sentimenti per mettere a dormire la letteratura. Albinati: Fai bei sogni.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale a

·        Edoardo Nesi.

Edoardo Nesi, «Ebbi un attacco giovanile di comunismo, poi capii: il mio era un mondo risolto». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 2/1/2021. Edoardo Nesi è alla scrivania dove ha creato tutti i suoi romanzi. Alle sue spalle, è appesa la testiera di un letto del Seicento spagnolo che lo incornicia fra sontuosi ghirigori di legno. «Mio suocero sosteneva d’averla comprata da un autentico nobiluomo in disgrazia», spiega. «Questa casa era sua. L’acquistò a fine anni 60 per riceverci i clienti. Era ancora giovane, ancora non aveva fatto i soldi, ma già immaginava di vendere bene i suoi tessuti se i clienti l’avessero visto nell’agio. Qui sono venuti tutti gli stilisti più importanti». Nesi si alza, si avvicina alle vetrate: «Da quella parte, c’è la zona industriale di Prato. Lui la indicava e, ingigantendo, diceva: li vedete quei capannoni? È tutta gente che lavora per me». Silenzio. Sospiro. «Erano tempi straordinari». Suo suocero, Sergio Carpini, compare anche in Storia della mia gente col quale Nesi ha vinto lo Strega nel 2011 e che ha scritto dopo aver venduto la sua, di fabbrica, ormai arreso alla concorrenza dei cinesi, e compare nell’ultimo, Economia Sentimentale, edito dalla Nave di Teseo, dove c’è Nesi stesso che passa il lockdown in questa casa, un po’ a struggersi di nostalgia per i tempi che furono, un po’ a telefonare ad amici economisti e finanzieri per capire i tempi che verranno.

Anche suo suocero chiuse travolto dalla globalizzazione?

«Lui, a fine anni 80, quando per la prima volta un cliente gli chiese il prezzo di un tessuto. Ne fu scandalizzato. Per lui, il mondo perdeva uno dei suoi fondamenti: l’idea rinascimentale per cui il signore che commissiona il ritratto all’artista non chiede quanto costa».

Se lei, nel 2004, non avesse chiuso il Lanificio T.O. Nesi & Figli, avrebbe trovato il coraggio di scrivere e basta?

«È una domanda enorme. So che lavorare in azienda mi piaceva».

Da piccolo, voleva diventare imprenditore o scrittore?

«Ero chiuso, timido, permaloso. Stavo sempre in casa a leggere. Divoravo fantascienza: mi affascinava il progresso. Dai 14 ai 18 anni, ho scritto racconti in cui c’era sempre un personaggio tipo me, un po’ triste, solitario, a cui succedevano cose clamorose e importanti. Crescendo, l’idea di entrare in fabbrica, come volevano i miei, non mi attirava, ma loro sapevano che avrebbero vinto: io una vera vocazione non l’avevo. A Giurisprudenza, dove ho dato solo cinque esami, mi sono iscritto incantato da una scena del Verdetto. C’è Paul Newman che sull’arringa finale si blocca, con un foglio fra le mani. Quando finalmente si riprende, dice: nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti».

E perché lei sentì suo quello smarrimento?

«Lui sa di aver ragione però sta perdendo, ma io quando lo vidi in quell’aula, in quella penombra tagliata da una lama di luce… Be’, mi rovinò Newman. Era così che mi sono sentito finché non mi sono sposato: sempre male, sempre nell’incomprensione delle cose».

E invece, sposandosi, cos’è cambiato?

«Prima di sposarsi, il ragazzino triste e solitario si era messo a divertirsi… Ero pieno di energie e curiosità e le seguivo tutte, ma non mi divertivo mai davvero, un po’ soffrivo sempre. Mia moglie mi ha fatto capire che il divertimento non mi portava da nessuna parte. Mi ha riportato sulla Terra. E cominciai a scrivere seriamente solo dopo aver sposato Carlotta».

«La mia eterna fidanzata bellissima». La definisce così, in un libro.

«È molto bella, molto intelligente. Le devo tutto. Ci siamo fidanzati che avevo 19 anni, sposati che ne avevo 29. Mi ha visto in tutte le fasi: studente fallito, imprenditore fallito… Ed è sempre stata lì. Mi è sempre stata di aiuto in tutto. Legge i miei libri man mano che scrivo. È una tale lettrice fantastica che il mio editore americano chiede a lei cosa pubblicare».

È vero, per sua moglie lei scrive troppo di miserie e di tragedie?

«Pensa che dovrei scrivere qualcosa di più positivo, ma io non sono tanto positivo. E quando finalmente ho avuto un po’ di successo è stato con libri che raccontano di fallimenti. Miei, soprattutto».

Il ragazzo che fa le summer school in America, il capitano d’azienda in giacca di Versace a New York o a Monaco... Quanto è davvero lei l’Edoardo Nesi di certi suoi libri?

«Sono proprio io, sempre io. Sono quello della giacca che fu il primo regalo da imprenditore che mi fecero i miei. Ci ho provato, ma i romanzi, se io non ci sono, vengono peggio. Storia della mia gente è nato così, parlava solo di economia, ma quando mi ci sono ficcato dentro, ha preso senso».

Prima ha detto che non voleva entrare in fabbrica ma che poi lavorarci le è piaciuto.

«All’inizio, non ci volevo mica stare, non mi piaceva mica, venivo da un’idea sbagliata di lavoro. Avevo avuto un attacco giovanile di comunismo, mi sembrava che vi si sfruttassero gli operai. Solo dopo capii che quello che credevo di sapere era falso. La filiera di produzione di Prato era fatta di piccole aziende e artigiani e tutti guadagnavano e potevano fare la luna di miele in Polinesia, c’era l’idea che il lavoro si poteva condividere e il benessere toccasse un po’ a tutti, se eravamo bravi, se ci impegnavamo. Era un mondo risolto, aveva le sue regole e, se ubbidivi, avresti avuto benessere».

In «Economia Sentimentale», racconta di Muhammad Ali e del giorno in cui stava per finire al tappeto e dice che lei, invece, un giorno, al tappeto ci è andato e ci è rimasto per mesi e mesi. Qual è quel giorno?

«Quello in cui è morto mio padre, due anni fa. Il libro nasce dal tentativo di riprendere una vita normale dopo la botta più forte della mia vita. Lui è stato, insieme a mia moglie, il mio punto di riferimento, il mio idolo. Fino ai miei 18 anni, abbiamo parlato poco: era un padre della sua generazione, stava sempre in fabbrica, l’ho conosciuto solo lavorando con lui. Mi faceva da guida, mi insegnava un mondo complicato. Insomma, volevo scrivere di lui, ma le parole non mi venivano, poi ho capito che il babbo, per me, è sempre stato la decodificazione del mondo attraverso l’economia e ho capito che il libro poteva nascere solo mettendo insieme le due cose».

Davvero ha tatuato Alvarado, il nome di suo papà, sul braccio?

«È stato il primo dei miei 15 tatuaggi. Lui ne fu onorato. Poi, ho tatuato i nomi di mia moglie, dei miei figli, frasi di Francis Scott Fitzgerald, “rage, rage against the dying of the light” di Dylan Thomas: infuriati, infuriati contro la morte. Sul cuore, ho la scritta “per sempre”».

È il titolo di un suo libro. Perché, una volta, ha detto che non doveva pubblicarlo?

«Perché appartiene a un mio momento strano e personale: avevo iniziato ad andare nelle chiese, che ci fossero o no le messe. Mio padre, da liberale ateo, si stava convertendo e ho voluto vedere che c’era dentro questa cosa. Non sono riuscito a capirlo».

Anni fa, ha detto al Corriere che, dopo aver chiuso la fabbrica, la depressione non ha smesso di accompagnarla. È ancora così?

«Ora, nel nuovo libro, ho scritto che le cose non vanno via mai, nemmeno quando finiscono, e nemmeno le persone, neanche quando muoiono. Alcuni ricordi sono indelebili. Io, per fortuna, non conosco la depressione maggiore, ma ho passato giorni difficili. Di quelli che ti svegli e vedi il vuoto davanti; poi, la mattina dopo, ti svegli e vedi un altro vuoto. Poi, arriva un giorno luminoso e il sole, quando c’è, mi cambia le giornate in maniera comica».

Si sente in colpa per non essere riuscito a tenere in vita l’azienda?

«Un po’ sì. I miei figli, Ettore e Angelica, 23 e 25 anni, sono bravi, sono andati a Londra, ne ho un orgoglio pazzesco, ma quando li ho visti partire è stata durissima, pensavo che io non avevo una fabbrica in cui farli entrare. Quello che oggi mi manca, e che cerco di raccontare in tutti i modi, è la promessa che il futuro ti porti del bene. Questa promessa devi averla, se no come fai a impegnarti?».

La nostalgia del progresso sembra un ossimoro. Invece?

«È il fulcro di quello che scrivo. Ai miei tempi, c’erano cose straordinarie. C’era il Concorde che andava a New York in tre ore. Mi dirà che altri scrittori si occupano d’altro, ma se non c’è più il progresso, le persone si abbandonano a lavori temporanei dai quali non imparano nulla, tutto s’inaridisce…».

Il critico Camillo Langone ha scritto: «Bisogna tenerselo caro Edoardo Nesi: ma dove lo si trova nelle patrie pauperistiche lettere un altro capace di dire che i soldi danno la felicità?». Si riconosce nella definizione?

«I soldi aiutano molto, specie se sono frutto di lavoro e di capacità. Io ero felice quando vendevo un tessuto a uno stilista importante e quel tessuto andava in tutto il mondo».

Primo libro «Fughe da fermo» pubblicato nel ‘95, poi altri sei e il primo successo nel 2011. In mezzo, ha mai pensato di smettere?

«Ho avuto la fortuna di avere un editore, Elisabetta Sgarbi, che mi ha sempre trattato come autore di successo anche quando non lo ero. E a scuola avevo conosciuto Giovanni Veronesi, il regista, e con lui suo fratello Sandro, che era andato a Roma e provava a scrivere. Sandro è magnetico oggi e lo era ancora di più da ragazzo. Leggeva i miei racconti, m’incoraggiava. Anche avere lui è stata una fortuna».

Ha tradotto «Infinite Jest», mille pagine e oltre. Perché ha definito David Foster Wallace «il suicida che mi ha insegnato a vivere»?

«Perché mi ha insegnato a capire come vive un alcolizzato, un infelice, un depresso e mi ha insegnato la tolleranza verso gli uomini e le donne di questo mondo. È come se mi avesse abbracciato con quel libro, come se ci avesse abbracciato tutti».

Come s’immagina da vecchio?

«Mi sto avviando verso questa cosa e questa, sì, sarà divertente».

·        Elisabetta Sgarbi.

Giangiacomo Schiavi per il "Corriere della Sera" il 14 giugno 2021.

Torna la Milanesiana. Libri, musica, cinema: cultura che viaggia, idee per il futuro. Elisabetta Sgarbi, editrice, regista, talent scout culturale, ideatrice di eventi e, dicono di lei, alchimista della socialità pop, nostra signora delle lettere. Ripartiamo da dove?

«Ci sono parole che hanno un significato più simbolico che reale. Ripartenza è una parola feticcio, presuppone che ci siamo fermati». 

E non è così?

«Certamente alcune categorie di lavoratori si sono fermate, ma non bisogna tralasciare il bagaglio di conoscenze che abbiamo acquisito. La conoscenza è una attività importante che, per esempio, può prevenire analoghe situazioni. Abbiamo attraversato una pandemia mondiale con oltre centomila morti in Italia; abbiamo sentito una paura profonda e ancestrale, diversa dalle preoccupazioni quotidiane che sembravano essere assolute, e più simile a quella dei nostri genitori o nonni durante la guerra; abbiamo prodotto un vaccino, anzi più d' uno, in un tempo minimo, grazie alla coesione della comunità scientifica; abbiamo capito molte cose sulla sanità: sappiamo che non bastano i grandi ospedali, ma servono anche i medici diffusi, a contatto con le persone...». 

...Abbiamo perso familiari, amici, certezze. Abbiamo scoperto che molto di quel che ci è dato, di colpo può non esserci più...

«Queste nuove consapevolezze non sono secondarie, sono il risultato di un anno e mezzo di sofferenze, che saranno fondamentali per il futuro. Questo per dire che non ci siamo mai fermati, la vita non si ferma. E non dobbiamo svalutare l'attività della conoscenza». 

Elisabetta Sgarbi è abituata a sorprendere. Tu vai a destra, lei gira a sinistra. Pensi ai libri e lei parla di cinema. Ragioni di città e ti ritrovi in provincia. Riaccendi i motori e lei dice che non li ha mai spenti. Ma la sua Milanesiana oggi è un colpo di acceleratore su un Paese in stand by. Cultura itinerante, in cerca di connessioni tra saperi. Servirà a portare fuori da Milano un po' dello spirito ambrosiano o a raccogliere le energie sommerse della provincia?

«Io credo molto in quello che lei chiama spirito ambrosiano. Che vuol dire senso del sacrificio e del lavoro, salvaguardia di un tessuto umano, sociale e culturale, vuol dire curiosità e una certa sobrietà. Su questa base sono cresciute grandi le eccentricità, che hanno fatto la storia di Milano. Questo spirito ha portato una città relativamente piccola a diventare capitale economica e culturale».

C' è un po' di nebbia su Milano dopo il Covid. O no?

«Milano deve ritrovare il suo spirito, perché - se devo essere sincera - ancora prima del Covid, vivendo e lavorando qui, avevo a volte l' impressione di scontare quei versi di Kavafis: "E se non puoi la vita che desideri/ cerca almeno questo/ per quanto sta in te: non sciuparla/ nel troppo commercio con la gente/ con troppe parole in un viavai frenetico./ Non sciuparla portandola in giro/ in balìa del quotidiano/ gioco balordo degli incontri / e degli inviti/fino a farne una stucchevole estranea"» . 

La provincia è un luogo dell'anima. Lei ne è uscita, con il fratello Vittorio, per andare in cerca di un altro mondo. Con il lockdown c' è tornata. Ha sentito il contraccolpo?

«È stato straniante tornare a vivere per un periodo così lungo nella casa dove sono cresciuta, dove sono stata bambina e ragazza, senza avere intorno i miei genitori. E d' altra parte li vedevo, i miei genitori, anche se non c' erano, nelle cose, nelle stanze, negli alberi. Fantasmi un po' ovunque. Poi, nella casa di Ro, non ci sono semplici cose, ma opere d' arte collezionate da mio fratello e mia madre e ora nella Fondazione di famiglia: e le opere d' arte parlano, ti guardano, sono tutt'altro che neutrali». 

È difficile adattarsi a certi ritmi per chi ha sempre vissuto di corsa. Il futuro chiede di riprenderci il tempo.

«Io ho il terrore del tempo, nel senso che ho paura di perderlo, di mancarlo. Sa quei versi di Andrew Marvel, in Alla amante ritrosa: "Così sebbene non si possa obbligare il nostro sole/ a fermarsi/ possiamo tuttavia obbligarlo a correre".» 

Ha sentito il peso della solitudine?

«In questo senso si, la pandemia mi ha costretto a una maggiore solitudine, a pensare di più a quello che andava fatto e che stavo facendo. Ho paradossalmente lavorato di più, ma in modo più ragionato». 

Si parla molto di contaminazione e lei è sempre più multitasking: dai libri ai film alla musica. Che cos' è «Extraliscio, punk da balera», che debutta oggi nelle sale?

«È un film che considero, nello stesso tempo, il più mio, per la passione che ci ho messo e per quello che ha generato, ma anche il più diverso da me, come fossi stata eterodiretta.

C' è una energia, una positività, una vena ironica e umoristica che non appartiene al mio cinema, ma che è degli Extraliscio. È come se mi fossi abbandonata al loro flusso. E questa sensazione è aumentata con la voce narrante di Ermanno Cavazzoni, un equilibrio inarrivabile di leggerezza e profondità, di ironia e gravità». 

Chi è Betty Wrong, lo pseudonimo con il quale si firma e significa Elisabetta Sbagliata. Vuol dire che nelle sue scelte c' è una strada sbagliata?

«C' è una inquietudine di fondo, che mi porta a seguire strade che mi si aprono, senza sapere dove vanno a finire. Ma inizio a percorrerle. Sono strade divergenti dalla rotta principale, ma poi si ritrovano i collegamenti, le convergenze. A volte le strade "sbagliate", cioè diverse e nuove, si rivelano più ricche di opportunità delle strade maestre. E anche quando sembrano non portare da nessuna parte, in realtà hanno un significato». 

Che cosa ha imparato lasciando la Bompiani e lanciando la Nave di Teseo in un momento difficile per le aziende editoriali?

«È stato un grande rischio, una scommessa al buio. Ma era necessario farla. E i temi che La nave di Teseo ha posto al sistema editoriale, allora, al momento della sua Fondazione, sono tutti ancora vivi e andrebbero affrontati. Bisognava avere molta fiducia nei libri e negli autori e in se stessi. E credere poco alle frasi fatte che nutrono l'editoria da sempre: tipo che l'editoria è in crisi, che non si legge più, che gli editori indipendenti sono destinati a fallire e che sopravviveranno solo i grandi gruppi...». 

La parola chiave della Milanesiana quest' anno l'ha scelta Claudio Magris: progresso. Una parola antica che rimanda a una speranza ottocentesca. Che cos' è oggi il progresso?

«Il progresso è una parola scivolosa, "sempre più stabilmente e desolatamente inattuale", scrive Aldo Schiavone nel suo libro dedicato al progresso». 

Forse ci aiuterà capire in che direzione va il mondo...

«L' immagine da cui è partito Magris, che si è ispirato a un libro di Schiavone, è il quadro di Klee: Angelus novus. Un angelo volta le spalle al futuro verso cui il vento lo sospinge via, mentre guarda le macerie della storia, che vorrebbe salvare. "Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso." scrive Benjamin. Ed è difficile trovare parole più potenti per indicare la parola progresso». 

Libri e film nutrono speranza e memoria, ma questo sembra un tempo senza storia. Lo pensa anche lei?

«Io non penso che la cultura sia qualcosa di separato dalle altre attività umane, produttive, che so, la medicina, la legge, l'economia, la politica. La cultura dovrebbe entrare dentro queste attività, creare consapevolezza e conoscenza del mondo e della storia. I testi, siano essi film, canzoni, libri, sono - per dirla con Eco - la nostra enciclopedia, il codice segreto delle nostre azioni, dei nostri pensieri». 

C' è un altro punto critico: la scuola, la formazione.

«La formazione scolastica è decisiva per il futuro di una comunità: io spero - con la montagna di soldi che arriveranno dall' Europa - che la formazione dei ragazzi sia al centro delle preoccupazioni dei legislatori. Non solo formazione al lavoro, ma formazione alla cultura del ragionamento, della argomentazione, del discorso». 

È arrivato il momento di cercare vie nuove per la cultura del futuro? Fuori dal conformismo, dall' omologazione?

«Non sopporto tutta questa politica che occupa la televisione sette giorni su sette, a tutte le ore, per dire poco più del nulla. Bisognerebbe ribellarsi. Bisognerebbe porre dei limiti estetici, di buon gusto». 

Crede nella green generation?

«Credo nel senso del prendersi cura delle cose, delle persone, della natura e anche delle parole. Il tema dell'ambiente va posto insieme al tema del paesaggio, come ha scritto recentemente il Presidente Mattarella ed è la battaglia storica di mio fratello Vittorio».

Sceglie sempre un look da rockstar. Ieri il rosso e il nero. Oggi il verde e il giallo...

L'abbigliamento non è casuale.

«Ho rivisto da poco un video clip di Franco Battiato del Duemila, "Bist du bei mir", in cui sono vestita interamente di nero: calze, minigonna, anfibi, molto rock. Ora amo molto i colori, e in particolare il verde. Ho una formazione estetica importante, ho visto molta pittura, sto attenta agli accostamenti cromatici». 

A chi dedica la rosa simbolo della Milanesiana?

«Inevitabilmente a Franco Battiato, il suo autore. Mi manca molto». 

Torneremo a riveder le stelle?

«Basta alzare lo sguardo, in una notte chiara. Se ne vedono tantissime. E bisognerebbe essere in grado di chiamarle per nome». 

Saranno le donne a salvare il mondo?

«Bisogna prima salvare le donne. Troppe violenze domestiche, ancora. Quando avremo costruito una concreta parità di opportunità, ci lasceremo salvare volentieri».

Elisabetta Sgarbi: «La mia vita tra film, libri, musica e arte. Ed è bello perdersi». Pier Paolo Mocci su Il Quotidiano del Sud il 19 aprile 2021. Su Nexo+ arriva il suo doc “Vaccini. 9 lezioni di scienza”. «Io Ministro della Cultura? No, piuttosto mio fratello Vittorio». Editrice con La Nave di Teseo, direttrice artistica della rassegna culturale La Milanesiana, esponente di spicco del dibattito culturale, discografica (la sua Betty Wrong ha prodotto gli Extraliscio in gara all’ultimo Sanremo), studiosa, intellettuale e regista cinematografica. Nel corso di questi 20 anni Elisabetta Sgarbi ha diretto una ventina tra film sperimentali, d’arte e documentari. Uno degli ultimi, il più “attuale”, è ora disponibile sulla piattaforma Nexo+ e s’intitola Vaccini. 9 lezioni di scienza, che la stessa Sgarbi definisce «9 lezioni giocose ed eclettiche non per aprire un dibattito sul tema dei vaccini, ma per chiuderlo definitivamente, rimettendo al centro la scienza», con la parola affidata a scienziati, virologi, medici e filosofi come Alberto Mantovani, Andrea Biondi, Emanuele Coccia, Pietro Bartolo, Massimo Cacciari, Anna Maria Lorusso, Gianpaolo Donzelli, Chiara Azzari, Roberto Burioni. Sgarbi, il modo migliore per partecipare ad un dibattito su un tema così delicato è lasciare spazio al pragmatismo inequivocabile della comunità scientifica.

Il suo documentario affronta la vaccinazione in chiave del tutto originale, senza correre il rischio di essere poi superati o smentiti dal corso degli eventi. Era questo il suo intento?

«Era porre al centro due temi: l’importanza dei vaccini, che mai come oggi è evidente, tre anni fa lo era meno; e il tema della comunicazione: cioè dello statuto del discorso scientifico, la sua autorevolezza nel contesto di una civiltà democratica che tende a non dare autorità a nessun discorso in particolare. Certo, nel film ci sono riferimenti a fatti di attualità, ma in sostanza è un discorso generale, che vale per ogni vaccino. Non a caso è tornato di attualità ora, dopo due anni che è stato presentato a Torino».

Tema finito sulla bocca di tutti – che ha generato inevitabili fake news e un dispendio di commenti social spesso parecchio velleitari – che smuove invece nel suo docufilm anche intellettuali e filosofi, in quello che può essere definito un “Manifesto della Scienza sul Vaccino”, un po’ come le Avanguardie erano solite fare di fronte ai grandi cambiamenti epocali o agli stilemi che si erano preposti. Quali stimoli ne ha dedotto, quali suggestioni ne ha carpito?

«Beh, mi piacerebbe, sarebbe auspicabile che un film–documentario, commissionato da un ospedale pediatrico, diventasse un punto di riferimento per il tema dei vaccini. Però tendo a pensare che il Covid abbia almeno rimesso questo punto fermo: i vaccini sono essenziali e lo saranno ancora di più in futuro. Aggiungo questo: la vaccinazione a livello mondiale. Il nostro obiettivo non è solo la salute dei paesi occidentali e sviluppati, ma deve essere vaccinare in modo massiccio i paesi più poveri, fragili, esposti. Questo non solo nell’interesse dei popoli più fragili, ma anche nel nostro interesse. La salute deve avere come riferimento il mondo e il tema della giustizia e della equità».

In questo momento la sua attività filantropica, culturale, intellettuale, è davvero encomiabile e necessaria. Spazia dalle pubblicazioni della sua Nave di Teseo, alla collaborazione con Nexo+, il recente film ispirato alla figura di suo padre e della sua famiglia, la partecipazione “bizzarra” a Sanremo. Cosa la diverte e la incuriosisce in questo momento e se ci può anticipare qualcosa di imminente per il prossimo futuro.

«In questo momento sono molto attenta alla casa editrice e alla costruzione della prossima Milanesiana. Stanno uscendo libri importanti. E ne sono usciti di altrettanto importanti. Edith Bruck nella dozzina del Premio Strega. E poi una Milanesiana che sarà ancora più itinerante e ricca. E spero il più possibile all’aperto e in presenza di pubblico e persone. La scorsa settimana è uscito il nuovo singolo di Extraliscio, “È bello perdersi”, con un videoclip che abbiamo realizzato in un posto stravagante a Bologna, il Global Theater di Steno Tonelli, davvero molto divertente».

Come si articolerà la sua consulenza e collaborazione con la piattaforma streaming di Nexo Digital?

«È un patto sulla parola e sulla fiducia e stima reciproca: a loro piace quello che faccio nei diversi campi; a me piace questo progetto di piattaforma culturale e non solo di puro intrattenimento. Io farò loro delle proposte e loro ne faranno a me. Le strade via via si incrociano. Ho avuto la disponibilità di Paulo Coelho a partecipare alla piattaforma Nexo+, con un documentario che racconta il suo viaggio lungo la Transiberiana. Poi vedremo».

Le piacerebbe un giorno diventare Ministro della Cultura?

«Non sono certa che sia il mio ruolo. La politica non è il mio mestiere. E il Ministro ha un ruolo politico. Io sono una operaia della cultura. Per il ruolo di Ministro il mio candidato è Vittorio Sgarbi che dovrebbe fare una sana alternanza con Dario Franceschini».

Che tipo di scambio culturale, intellettuale e artistico c’è con suo fratello Vittorio?

«Beh, la mia formazione culturale molto deve a Vittorio. Vivere con lui è stato come stare a scuola 24 ore al giorno. Sin da ragazzo sembrava avere già letto tutto, come venisse da una vita vissuta prima. Anche ora mi fa continuamente scoprire artisti e scrittori. Lui non conosce, d’altra parte, scrittori che pubblico magari per la prima volta. E non conosceva certo gli Extraliscio. Facciamo due vite parallele, che spesso si incontrano».

Pensa che si spalancheranno le porte, a pandemia conclusa, di un nuovo Rinascimento o è addirittura già iniziato e non ce ne siamo accorti?

«Houellebecq scrisse l’anno scorso che ne usciremo peggiori. Non so dire, non credo ci siano certezze in merito, e tutto fa pensare piuttosto che abbia ragione Houellebecq. Comunque possiamo sperare che emerga un grande artista o intellettuale che, a partire dalla Pandemia, riesca ad avere una idea così brillante da determinare un nuovo Rinascimento».

Il ruolo dell’Arte e di tutte le forme della Cultura (dal Cinema alla Letteratura, passando per la Musica) avranno perso un’occasione se non tramuteranno in racconto espressivo l’epocale cambiamento che stiamo vivendo?

«Io ho una idea dell’arte che parte dall’Arte e non da chi ne gode. È l’arte che genera di volta in volta lo spazio in cui essere vissuta e interpretata. Sono convinta che non devo preoccuparmi io di fare il prossimo capolavoro che rivoluzionerà il mondo. Devo stare attenta a non perderlo, semmai mi passasse davanti. L’attenzione è sempre necessaria».

Piera Anna Franini per “il Giornale” il 2 marzo 2021. Elisabetta Sgarbi è promotrice e imprenditrice di cultura a tutto tondo. Con Umberto Eco fonda la casa editrice La nave di Teseo, nel 2000 lancia La Milanesiana, manifestazione che interseca e contamina saperi intorno a un tema. Si firma Betty Wrong quando impugna la cinepresa realizzando documentari e film, l' ultimo è «Si ballerà finché entra la luce dell' alba- Extraliscio Punk da balera», vincitore del premio Siae (Venezia) e Fice (Mantova). Infine, forte di una laurea in materia, continua a mantenere la titolarità della farmacia di famiglia a Ro, nel ferrarese. Si muove tra editoria, cinema, management culturale, farmacia. Praticamente una macchina da guerra «Faccio anche di più: come editrice musicale debutto tra pochi giorni a Sanremo, producendo il brano di Extraliscio, Bianca Luce Nera, che verrà eseguita con Davide Toffolo dei Tre allegri ragazzi morti e sarà in gara tra i 26 big. Lavoro molto, sempre direi, perché faccio cose che mi appassionano e che dilatano il tempo».

E la sua Milanesiana, come la vede nei prossimi 10 anni?

«Come una macchina semovente che costruisca incontri tutto l' anno, ovunque in Italia, e non solo, non definita da una stagionalità; quasi automatica e in cui comunque mi riconosca, questo è essenziale. E le discipline del sottotitolo dovranno occupare una pagina intera. Un festival mondo. E in cui saranno meno le persone collegate in streaming di quante non ce ne siano dal vivo».

L' edizione del 2021 sarà quella della rinascita?

«È nata e rinata tante volte in questi ventidue anni. Ha visto cambiare l' Italia: è nata quando c' erano ancora le Province e la lira. Già l' anno scorso l' avevo definita una Milanesiana della Resistenza, sperando che fosse una Resistenza a termine. E invece stiamo ancora resistendo e la fine è lontana. Io spero sia una Milanesiana che dia il senso della normalità della gioia e della bellezza di stare in uno spazio fisico con gli autori e il pubblico».

E invece, come vede la «Nave di Teseo» da qui al 2031?

«In genere non amo pensare nei tempi lunghi. Mi sembra un gesto di ottimismo infondato, vivo ogni giorno come se avesse una durata enormemente dilatata. Posso dire di lavorare a una idea, a un progetto di casa editrice con un catalogo vivo e vivace, anche se in assenza di novità forti, cosa che può capitare nel corso della attività di una casa editrice. Già ora abbiamo raggiunto una quota di catalogo, rispetto alle novità, ragguardevole, considerando che siamo nati solo cinque anni fa. Ma è un dato che può e deve crescere. E ovviamente vedo una casa editrice che conservi la sua vivacità e larghezza di orizzonti. Restando indipendente, come la vollero Umberto Eco e i fondatori della prima ora».

Qual è il suo ricordo più bello legato alla figura di Eco?

«Quando fondammo La nave di Teseo, in quelle settimane convulse. La sua convinzione e quell' entusiasmo da ragazzino. A un certo punto mi disse: «bisogna chiamare Furio Colombo, con lui ho cominciato tante cose e voglio cominciare anche questa. C' era un sottinteso che nessuno voleva pronunciare, e cioè che fosse una delle ultime cose che avrebbe fatto. Ma questo aggiungeva una emozione forte e un significato assoluto alla casa editrice».

Che in 5 anni ha pubblicato tre Pulitzer prima che fossero premiati: Joby Warrick, Andrew Sean Greer, Richard Powers. Come si fiuta un Premio Pulitzer? Istinto? Esperienza? Entrambi?

«Ah, non lo so proprio. C' è una nube di indeterminatezza in cui stanno intuizione, fortuna, esperienza, gusto. Nessuno sa cosa ha prevalso in quel caso: per un premio vinto, ci sono tanti autori che avrebbero egualmente meritato, ma non hanno ottenuto nulla».

Vogliamo ribadire il concetto di quanto sia necessaria la Cultura per riaccendere identità nazionale e voglia di ripartire?

«Sì, è necessaria, ma senza retorica. Non esiste la Cultura come un qualcosa di astratto, un blocco cristallizzato, come fosse un museo della memoria. Esistono persone che elaborano e realizzano progetti in ambiti culturali diversi. Esistono i musei, i teatri, i cinema, le librerie e ognuno di questi ha una propria particolarità perché dietro ci sono persone con una propria autonomia. Per non parlare della scuola, delle università, e di tutto quanto qui non posso menzionare ma che irrora il mondo della cultura. Bisogna dare la possibilità a queste persone di riprendere la propria attività, il più presto possibile. Non penso si possa aspettare oltre. Rischiamo di trovare macerie».

Il mondo culturale italiano come ha reagito alla pandemia?

«Guardi, ci siamo inventati di tutto. Quindi do dieci a tutti quelli che hanno reagito, che non hanno perso la voglia di fare e la speranza (tema della Milanesiana), anche sforzandosi di rispettare e fare rispettare le norme Covid. E quindi devo ripetermi: bisogna ripartire, altrimenti troveremo macerie».

La pandemia ha accelerato processi, ha messo a nudo meccanismi arrugginiti già nella fase pre-Covid. Nel mondo della Cultura, cosa non funzionava e dunque va riscritto?

«Uno dei libri profetici di questa situazione è secondo me La società signorile di massa di Luca Ricolfi, che ha messo a nudo le debolezze della nostra economia e, in generale, della nostra società. Ora lo stesso Ricolfi sta uscendo con un nuovo libro, che sembra la diretta continuazione del precedente: proprio perché siamo diventati una società signorile di massa abbiamo malgovernato una pandemia».

Lei è una ribelle. Suo fratello Vittorio è ribelle. Quanto ha inciso - in questo - il contesto familiare?

«La famiglia di mia mamma, evidentemente, pesa nei nostri geni. Direi fortunatamente: dire pubblicamente, o agli interessati, di non essere d' accordo forma la personalità. Costringe a fare i conti con se stessi realmente, impone una verifica delle proprie opinioni più attenta e severa, si impara a sbagliare in modo roboante, ma anche a gustare con soddisfazione la vittoria. Era così nostro zio Bruno, che fu molto importante per Vittorio, e soprattutto era così mia mamma: raccontava che aveva vinto il concorso per ottenere una farmacia a Milano dicendo pubblicamente al professore che la esaminava che lui stava sbagliando, e che invece aveva ragione lei. In questo modo vinse la farmacia di Cologno Monzese. Così ci lasciò tutti a Ro Ferrarese per andare a vivere e lavorare da sola. Era una donna molto moderna e sempre all' attacco».

Lei ama ricordare che l' intelligenza non ha sesso. A questo punto, le donne dovrebbero recitare sempre meno il ruolo di donne.

«Io amo le donne forti, che sanno fare valere la propria competenza e determinazione, senza perdere la capacità di sedurre, anzi, la aumentano. Ancora una volta mia madre è stata fondamentale: convinceva e seduceva a un ritmo tutto suo, con piena consapevolezza. La sua intelligenza dominava il mondo. Aveva una carica vitale che non ho più trovato al mondo, se non in mio fratello. Mi manca molto».

Che cosa ha provato vedendo «Lei mi parla ancora», il film che Pupi Avati ha dedicato ai suoi genitori?

«Un caleidoscopio di sentimenti. Dolore, gioia, orgoglio, soddisfazione, malinconia. Ho rivissuto scene che non avrei mai voluto rivedere, come la morte dei miei genitori, e ho vissuto scene che non avrei potuto vivere se non al cinema: il loro fidanzamento.

Se dovesse proseguire questo incipit di frase: cosa scriverebbe?

«Era mio padre...»

«Glielo dico da editore: mio padre e' uno scrittore».

E suo fratello? Riesce a separare il Vittorio Sgarbi politico e critico dal Vittorio fratello?

«Vittorio è anzitutto mio fratello e sono cresciuta vedendo lievitare le sue passioni culturali e la sua intelligenza. A lui devo moltissimo, per tutto quanto ho scoperto e per il carattere che, per resistere a lui, mi sono formata. Sulla questione politica, devo rifletterci. È una questione complessa. Spesso ha intuizioni giuste e la foga con cui le manifesta può distrarre dal valore delle sue idee».

Quanto è difficile per un editore comunicare allo scrittore che le ragioni dell' arte vanno conciliate con quelle della macchina editoriale?

«Ci sono casi diversi. Ma uno scrittore e un editore intelligenti sanno di lavorare per la stessa causa. Prendersi cura di un autore, per un editore, è prendersi cura di se stessi. Tendo poi alla assoluta continuità: pubblico scrittori con cui sono cresciuta, che conosco nelle reazioni, nelle fragilità e nei punti di forza. Penso di sapere quando ascoltare e quando insistere. Quando lasciare la presa e quando impormi. E viceversa, ovviamente: anche gli autori, almeno alcuni, conoscono i miei difetti e i miei pregi, le mie debolezze».

Il mondo dei libri, ha detto, si basa sulla fiducia tra editore-scrittore, tra casa editrice-librai.

«Valentino Bompiani diceva che più che al libro era interessato all' autore.

In un libro si deve intuire anche quanto l' autore farà di bello in futuro. È un atto di fiducia, una scommessa su ciò che non si vede ma si è certi che ci sarà. Questo atteggiamento contempla anche la necessità di stare accanto all' autore quando questi si trova in momenti di difficoltà. L' editore può perdere denaro su questo o quel romanzo dell' autore, ma è certo, in cuor suo, che è solo un momento e che andrà meglio. Anche l' autore, d' altra parte, deve avere un rapporto improntato alla fiducia: l' editore può sbagliare. I librai, poi, o hanno fiducia nelle proposte dell' editore, e credono in quello in cui lui crede, o altrimenti non ci sarebbero quelle sorprese positive di cui vive il mercato del libro».

Gli italiani non sono grandi lettori. Cosa si può fare per educare alla lettura?

«Anche qui, bisognerebbe uscire dalla retorica o dalle idee mirabolanti e infruttuose. I dati sulla lettura hanno ragioni storiche e, soprattutto, leggere non si comanda, come non si comanda di amare o sognare. Leggere è un piacere complesso e profondo. Servono anzitutto bravi insegnanti: persone appassionate e colte a cui brillino gli occhi quando parlano di romanzi e saggi ai loro giovani studenti. Quel brillio può accendere in uno studente una scintilla che non si spegne più. Ma ripartire dai professori - formarli, valutarli, premiarli - è un investimento che richiede una visione del futuro. Ce l' abbiamo?»

Lei quante ore legge al giorno? E in che momenti?

«Leggo sempre anche quando non leggo. Ho imparato a leggere nei momenti più impensati. A volte ci sono testi da leggere con urgenza, e bisogna sospendere qualsiasi altra attività. Ma in genere la notte, quando il telefono cessa di suonare, la riservo alle letture di curiosità. Di notte le parole valgono di più».

Lei è editrice e regista. Qual è la forza della parola di cui è sprovvista l' immagine, e viceversa?

«C' è una distinzione importante: come regista io sono l' equivalente dello scrittore, e mi dovrei confrontare con il produttore come l' autore si confronta con il suo editore. Quanto al rapporto tra parola e immagine, è un terreno molto complesso, perché si richiamano a vicenda. Per anni ho cercato un dialogo diverso tra cinema e parola, tanto che inventai uno slogan Il cinema delle parole, per un mio film molto audace, Notte senza fine. Il cinema a un certo punto della sua storia ha scoperto la parola ed è stato un trauma che solo in pochi hanno saputo affrontare con eleganza, come il duo Lubitsch/Raphaelson. È un passaggio molto affascinante, raccontato da film straordinari come Dancing in the rain».

Non manca mai il rosso nelle sue mise.

«Amo molto i colori. Ma non ho mai smesso di vestirmi di nero, portando sempre orecchini rossi».

·        Vittorio Sgarbi. 

Su 7, Vittorio Sgarbi: «Warhol girava con un registratore al collo. Io ho imparato a usare il cellulare». Francesca Pini su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2021. Il critico e l’arte della dettatura, anche tecnologica, che genera nuovi testi Direttamente dalla scena teatrale, lo spettacolo diventa un libro: la biografia del divino Raffaello, che dipingeva idee («non racconta fatti, illustra concetti»). E aveva carta bianca dal papa. Con esempi della sua opera, aneddoti di vita e parallelismi tra i secoli.

 Questa intervista è stata pubblicata sul numero di 7 in edicola (e su Digital Edition) venerdì 10 dicembre. La proponiamo online per i lettori di Corriere.it. Buona lettura

Alle 2.37 del mattino, su WhatsApp, chiede riconferma del nostro appuntamento. Risposta quasi in diretta alle 2.44: “certo che sì, come stabilito”. Vittorio Sgarbi abita la notte per vivere un’altra dimensione, scrivendo. O meglio dettando.

«Nel ‘78 mi fidanzai con una ragazza (Sandra Caporali conosciuta a un convegno su Giorgione) per 55 giorni. Cominciai allora a dettare a lei i miei testi. Anche con questa mia assistente oggi è così, siamo andati a dormire alle 8 di mattina perché tutta notte avevo dettato e lei scriveva al cellulare.... Per scrivere ho sempre usato la penna, mai la macchina per scrivere, mai il computer, però adesso so usare anch’io il cellulare. Ho passato epoche intere di reazione alla tecnologia. Poi ho cominciato a fare conferenze ovunque dalle quali si può trarre un testo da trascrivere ed editare. La dettatura ti fa sentire l’ambiente del testo scritto, questo nuovo libro su Raffaello ( La nave di Teseo, ndr) deriva dallo spettacolo teatrale replicato almeno sessanta volte, in cui da quelle trascrizioni hanno messo insieme questo volume. Nel ‘74 conobbi Andy Warhol: girava con un registratore al collo, immagini che archivio sonoro! Io ho il culto della registrazione. Da diversi anni conservo un corpus di audio, certo non tutto quello che ho detto, ma lo spettacolo di ieri sera su Dante e Giotto potrebbe già essere un libro».

Raffaello è molto lusingato di essere stato chiamato in Vaticano, ma dice che ha poco spazio per dipingere...

«E allora papa Giulio II, che è innamorato della sua arte, fa buttar giù gli affreschi degli altri pittori: Signorelli, Piero della Francesca, Bartolomeo della Gatta e Bramantino perché vuole che lui abbia le pareti bianche, si può pensare che Giulio II abbia fatto picchettare gli affreschi precedenti, riducendo il muro come un groviera, per consentire la gittata dell’intonaco. Teoricamente, se noi potessimo staccare gli affreschi di Raffaello, troveremmo lì sotto quei loro dipinti. Se avessi fatto la carriera cardinalizia l’avrei proposto. Sotto l’ Incendio di Borgo c’è probabilmente Bramantino. Giulio II era molto attratto da questo pittore che non descriveva la realtà. Nella Scuola di Atene, c’è un tempio del sapere tendenzialmente pagano all’interno di un tempio religioso come il Vaticano. Guardi le sue opere e vedi un teorema filosofico che diventa pittura. Lui non racconta fatti, illustra concetti».

Per lei felicità è scoprire quadri, anche di minori come quelli del Talpino, un Raffaello però non l’ha trovato sul suo cammino. Nel libro racconta un episodio incredibile.

«Nell’82 la storica dell’arte Sylvie Béguin sale a Parigi su un taxi, e il conducente che aveva sempre con sé la foto del dipinto di un angelo di cui voleva conoscere l’autore, gliela mostrò e lei subito disse “Raffaello”. E così di questa Pala di Città di Castello (L’incoronazione di San Nicola da Tolentino), c’è un pezzo a Brescia, un altro a Napoli e quest’ angelo al Louvre, comprato per 80 milioni di lire nell’82. Un colpaccio».

Il ritratto de La Muta, è l’unica opera di Raffaello ad Urbino, portata lì per volere di Mussolini.

«Scelta opportuna di un uomo che viene generalmente condannato per altro, e questa è una delle tante azioni che vanno rubricate nelle cose giuste che fece. Urbino fu un luogo universale per quel suo palazzo ducale nel quale si mosse un mondo, e quando Raffaello partì nel 1503/4, arrivò un suo alter ego, il poeta Baldassar Castiglione per tutto il tempo in cui lui non c’è. Poi nel 1516 anche lui va a Roma, e fanno una bellissima cosa insieme, quella lettera a papa Leone X nel 1519 sulla conservazione dei beni artistici, ed è la prova della loro sintonia di carattere. Quindi non potendo avere ad Urbino il dipinto di Baldassar Castiglione, questa Muta presa dagli Uffizi è bene o male un emblema. Certo è un prestito senza fine».

Lei diffida del divino Raffaello così perfettino, preferendogli il sulfureo Piero di Cosimo, amando di più la perversione...

«Sono sempre stato un uomo felice, nonostante mi si faccia vedere sempre incazzato. Mi alzo al mattino bello contento e poi man mano che passano le ore...ho sempre avuto fortuna con le donne, ho iniziato a fare il seduttore negli anni 60, poi è arrivato il ‘68, ho incominciato la mia attività sessuale quando le donne erano libere, per cui se penso a mio padre o a Berlusconi nel 1954, allora uno doveva sposarsi. Se tu piaci alle donne piaci al mondo. E ho sempre pensato alla tristezza delle persone che non piacciono. Mi compiaccio di piacere. Non ho mai avuto aspirazione ad avere più di quello che ho. Ogni tanto penso perché non sono diventato ricco. Quelli come il finanziere Micheli li guardo con invidia».

Meglio i soldi della storia dell’arte...

«Nell’82 prendevo 600 mila lire di stipendio, 2 milioni di lire al mese per la rubrica sull’ Europeo (allora avere una rubrica era come avere più che una cattedra, ce l’avevano Barilli, io e Zeri). Poi arrivò Franco Maria Ricci con la sua rivista: 250 mila lire a cartella, io facevo 4 articoli a numero, quindi 10 milioni al mese, arrivavo a 13 milioni al mese nell’82. Invece nel ‘92 erano 13 milioni al giorno fatti così: in tv un monologante come Biagi o Barbato stavano in video 6 minuti senza calo di ascolti, mentre io duravo 13 minuti, a un milione al minuto. Quindi mi sono abituato bene. Canale 5 era il Bengodi. Nel ‘90 feci il contratto in Rai con la Carrà, io ero un co-conduttore moderno e lei un po’ arcaica, prendevo 500 milioni di lire e il rapporto finì perché insultai il Papa. Poi passai a Mike Bongiorno, altri 500».

E con i figli tutto bene?

Ne ha scoperto qualcun altro? «No, anche perché dopo le cure per il cancro sono un po’ fermo. L’ultima scopata l’ho fatta il 6 febbraio scorso. Subito dopo mi hanno scoperto il tumore, poi ho fatto le radiazioni. I figli li vedo poco. Carlo, 32 anni, è molto presuntuoso, lavora in banca a Bruxelles e questo è un problema economico risolto. Alba si è incagliata su due esami alla Bocconi, da secchiona che sembrava ha dato dei segnali problematici che però possono risolversi, adesso vuole tradurre i miei libri in albanese. La terza invece, Evelina, mi ha fatto spendere 22 mila euro all’anno per la scuola Marangoni, vuole diventare stilista, l’hanno invitata ad andare al Grande Fratello e lei si è rifiutata! Ha fatto la snob, non si è presentata. È vero che una persona chic lì non ci va, ma la tv ti dà soldi e notorietà quindi sono arrabbiato con lei. Non sembra neanche mia figlia».

Maurizio Caverzan per “la Verità” l'11 dicembre 2021.  

Buongiorno Vittorio Sgarbi, quando ha saputo del cancro?

«Quasi un anno fa. Ricordo che il 26 dicembre andai a sciare». 

Si poteva?

«No, infatti ci andai in polemica con il governo che lo impediva. Ma è stata una cosa così Andai ad Asiago a fare sci di fondo da solo nel bosco. Caddi una decina di volte perché non lo praticavo da tanto. Il giorno dopo mi accorsi di avere le caviglie gonfie. Non ci pensai e il 31 andai a trovare Cesare Battisti nel carcere di Rossano, in Calabria». 

Cesare Battisti cosa le disse?

«Che mi stima, anche se la pensa in un altro modo. Va bene, gli ho detto, però tu hai ucciso delle persone, hai fatto il terrorista». 

E lui?

«Mi ha detto che sa di aver sbagliato e che oggi non è più quell'uomo. Poi mi ha dato dei documenti che lo riguardano e che adesso, secondo i magistrati, dovrei consegnare alla polizia perché, dicono, così Battisti può influenzare i processi. A me sembra una follia: un imputato influenza un processo che lo riguarda? Questa è la magistratura che abbiamo in Italia» 

File corposo. Stavamo parlando della sua salute.

«Tornato a casa mi sono messo a letto, sorpreso da un'improvvisa e strana depressione. Dopo dieci giorni, quando mi sono fatto visitare, mi hanno detto che avevo avuto il Covid in forma lieve. In compenso, hanno trovato i valori della prostata oltre i limiti. Era fine gennaio. Ho fatto altre visite e, tra aprile e giugno, un ciclo di radiazioni che ha debellato le macchie di cancro».

Tutto bene, dunque?

«Nel frattempo, il 25 marzo a Madrid è stato scoperto un Ecce Homo di Caravaggio fino allora sconosciuto che, con rammarico, non ho potuto acquistare perché è stato ritirato dal governo. Mi sono rifatto trasformandolo nell'oggetto di Ecce Caravaggio, il volume pubblicato in luglio, che precede quello appena uscito, Raffaello. Un Dio mortale (entrambi da La nave di Teseo, ndr). Così, tra il Covid e il cancro, ho avuto come compagni Caravaggio e Raffaello. Quando ci fai cento spettacoli e lezioni, questi giganti diventano quasi tuoi parenti».

Sdrammatizzando, possiamo dire che il lavoro funziona da antidoto alla malattia? 

«Per me lo è stato, ha coperto il disagio per lo stato di salute». 

Che ora è migliorato?

«Il referto della risonanza nucleare è ottimo. Dovrò fare altre punture di ormoni, una al mese». 

I molti impegni l'aiutano a convivere con questo pensiero?

«È così. Ho appena inaugurato a Lucca la mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini. Prima avevo fatto quella su Depero al Mart di Rovereto, di cui sono presidente. Sempre a Rovereto il 16 dicembre aprirà Canova tra innocenza e peccato. Poi c'è Ferrara arte». 

Perché Raffaello è un Dio mortale?

«Nel libro riprendo un concetto, espresso da Giorgio Vasari nelle Vite, che l'opera di Raffaello conferma perché racconta un ordine del mondo che la Chiesa continua a promuovere. Non esistono solo i valori di povertà e attenzione agli ultimi. Ci sono anche la salvaguardia della libertà della persona e il rispetto della civiltà, che hanno la loro apoteosi nella celeberrima Scuola di Atene dove troviamo Socrate, Platone e Aristotele affiancati da Leonardo e Michelangelo. Sono i principi del mondo occidentale nati nella Grecia antica, aggiornati dal Rinascimento, compiuti nel cristianesimo». 

E Raffaello come si colloca?

«È un interprete di questa sintesi, fin troppo perfetto. L'arte è una continuazione della creazione divina. Il mondo in cui viviamo è il risultato di ciò che Dio crea e l'uomo fa». 

Perché scrive di non avere empatia con Raffaello?

«La perfezione mette soggezione. Noi comuni mortali sentiamo più vicini Caravaggio e Van Gogh, artisti sfigati che sentono l'umano. Raffaello invece sente il divino, sebbene viva un momento oscuro che lo rende umano». 

Pensavo si rivedesse in un genio che ama le donne

.«Raffaello è ecumenico e universale, mentre il mio temperamento viene comunemente definito divisivo. Se dovessi scegliere il dipinto preferito non lo cercherei tra i suoi, ma in quelli di Caravaggio o di Rembrandt».

Però Raffaello è un bipolare, diviso tra estetica e carnalità.

«Vasari lo adombra, ma nel complesso la perfezione prevale sui difetti. È attraversato dalla sensualità, ma La Fornarina, l'opera in cui ritrae la sua donna, la dipinge solo per sé». 

Lei la paragona a una Monica Bellucci dell'epoca.

«È un gioco ottico del mio spettacolo, realizzato con la proiezione del volto della Bellucci su di lei».Raffaello era modernissimo perché aveva anche un pusher del sesso?«È un'estensione di alcuni accenni del Vasari. Per farlo dipingere con continuità, Agostino Chigi gli porta le donne. Sono eccessi della maturità, da giovane era più preciso». 

Chi potrebbe essere Raffaello oggi?

«Sono gli artisti di regime come Jeff Koons, l'ex di Cicciolina. Ora è in mostra a Palazzo Strozzi a Firenze. Anche Botero, per l'ispirazione. O Michelangelo Pistoletto, con i suoi Quadri specchianti. Per temperamento, umiltà e rigore quello che si avvicina di più è Antonio Lopez Garcia, un pittore spagnolo raffinatissimo, legato al potere ma senza la popolarità di Raffaello». 

Tra Leonardo, Caravaggio, Michelangelo, Raffaello, Piero della Francesca il suo preferito è?

«Non ho pittori preferiti. Spesso la preferenza è alternativa alla conoscenza: quanti più ne conosci tanto meno ne scegli uno. Sarebbe facile citare Bramantino, Ercole de' De Roberti, Cosmè Tura, nel Quattrocento ce ne sono tanti dimenticati».

È andato alla Prima della Scala?

«No. Ci sono andato quando ero assessore alla cultura o sottosegretario. Non ci vado per vanità. Preferisco dedicarmi a ciò che mi riguarda in prima persona. Martedì ho inaugurato a Lucca la mostra I pittori della luce. Da Caravaggio a Paolini». 

Chi sono i pittori della luce?

«Quelli che hanno capito che Caravaggio oltre a inventare la fotografia, cioè la rappresentazione della realtà così com' è, ha inventato anche la luce elettrica, la luce con la quale irrora i suoi interni. Valentin de Boulogne, Gherardo delle Notti, Giovanni Serodine, Rubens».  

L'arte è una risorsa per uscire dal buio della pandemia?

«Non mi sembra, i musei e i teatri sono stati chiusi a lungo. Il governo si è dimostrato timido e impaurito. In Spagna sono rimasti sempre aperti e, considerato che, allora come oggi, nelle chiese non si richiede il green pass perché vigono protocolli rigorosi, anche nei musei si poteva fare lo stesso visto che le distanze sono naturali. Invece, la mia mostra su Caravaggio al Mart è rimasta chiusa, come quella su Tiepolo alle Gallerie d'Italia a Milano. La gente che è stata tanto in casa oggi torna nei musei come per una compensazione». 

Chi è l'artista che rappresenterebbe meglio la pandemia?

«Edward Munch. L'urlo è l'immagine della situazione che stiamo vivendo». 

Che cosa pensa di Banksy?

«È un artista sia di regime che antiregime, ironico e paradossale. Il mercato lo premia perché è un interprete delle problematiche attuali. C'è grande curiosità attorno a lui. La mostra a Palazzo Diamanti a Ferrara ha avuto 70.000 visitatori».

La curiosità è alimentata dalla sua invisibilità?

«Quella è un po' una civetteria. È un writer che espone sui muri quando ci sono un bambino dimenticato e una donna offesa. In un certo senso è un artista che interpreta l'epoca di Greta Thunberg». 

Piuttosto mainstream?

«Secondo quella forma di antipotere che, in realtà, oggi è legata al consenso».

Il nostro patrimonio artistico potrebbe essere una risorsa per il rilancio del Paese? Ciclicamente qualche mente lucida sollecita la creazione di un circolo virtuoso, poi però non se ne fa niente.

«Dopo il referendum voluto da Marco Pannella, siamo stati decenni senza ministero del Turismo. Adesso che ce l'abbiamo, è arrivata la pandemia. Occorre razionalità, non serve incentivare il turismo culturale a Venezia e Firenze, mentre è utile farlo a Pistoia e a Pisa. Le colline dell'area del Prosecco sono state riconosciute patrimonio dell'Unesco prima degli affreschi di Giotto a Padova. Si procede con lentezza, tuttavia qualcosa si muove, come abbiamo visto con Matera Capitale europea della cultura, diventata ormai una sorta di Venezia del sud».

Come ministro dei Beni culturali vedrebbe un manager o un intellettuale meglio di un politico?

«Vedrei bene me stesso, attendo di farlo nel prossimo governo. Le attività che curo mostrano come saprei valorizzare il nostro patrimonio». 

Che cosa pensa della fatwa da cui sono stati colpiti Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e Carlo Freccero a proposito della gestione della pandemia?

«Io me la sono cavata con danni minori di loro. Durante i primi mesi di lockdown mi ero molto esposto contro il governo che proibiva di andare in bicicletta, di sciare, di fare il bagno e, con le precauzioni necessarie, spettacoli all'aperto. Poi è arrivato il vaccino: l'ho fatto e mi curo. Ma ritengo, con Cacciari e Agamben, che si possa puntare su un'autotutela non impositiva. Fatico a capire perché chi è vaccinato debba temere chi non lo è e portare la mascherina. Intelligenze acute sono state confuse con i No-vax da un potere che ci tratta come bambini».

Cosa significa che mentre qualche decennio fa gli intellettuali di riferimento del dibattito nazionale erano Alberto Moravia, Giovanni Testori e Umberto Eco ora i nuovi guru siano Fedez e Zerocalcare?

«Significa che la situazione è degradata. Fedez lo prendo per il culo regolarmente. Muovendosi nella musica, in tv e sui social è presente nelle grandi aree della comunicazione contemporanea. Dove prevalgono quelli che parlano a più persone, anche se veicolano contenuti banali. Fino a qualche tempo fa non ero presente sui social, ora tutti i miei contenuti finiscono lì. Pasolini ha usato al meglio gli strumenti del suo tempo, il cinema e la televisione. Anche Berlusconi ha vinto perché conosceva la televisione. I social identificano quest' epoca».

Sta dicendo che Cacciari e Agamben dovrebbero usarli?

«Persone che possiedono una visione originale come loro sono meno influenti perché non li frequentano. La scelta degli strumenti giusti può portare a far prevalere chi ha idee meno significative, ma una potenza di fuoco superiore».

(ANSA il 30 ottobre 2021) - Il tribunale di Enna ha assolto Vittorio Sgarbi dall'accusa di diffamazione. Sgarbi, all'epoca, il 2018, residente a Calascibetta, era stato denunciato dal giornalista Andrea Scanzi per avere rivolto su giornali on line e in una trasmissione televisiva frasi ingiuriose contro di lui. Il tribunale ha ritenuto che "trattasi non di diffamazione, bensì di ingiuria (illecito depenalizzato) e, quindi, di fatto non previsto dalla legge come reato e l'imputato non è punibile per avere commesso i fatti in stato di ira determinato dal fatto ingiusto altrui". Nel processo con rito abbreviato, Scanzi si era costituito parte civile attraverso l'avvocato Caterina Malavenda del foro di Milano, mentre vittorio Sgarbi è stato difeso dagli avvocati Giampaolo Cicconi del foro di Macerata e Giovanni Di Giovanni del foro di Caltanissetta.

Sgarbi fa l'assessore per un solo giorno. Valentina Dardari il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Vittorio Sgarbi in meno di 24 ore si è proposto come assessore alla Cultura del VI municipio e poco dopo si è dimesso. Ecco cosa è successo. Vittorio Sgarbi ha battuto un record: in meno di 24 ore è riuscito a proporsi come assessore alla Cultura del VI municipio di Roma, e poco dopo a dimettersi. Alla fine ha anche litigato con un suo alleato, Nicola Franco, il minisindaco neoeletto con il 61% delle preferenze. Come riportato da Repubblica il deputato, e sindaco di Sutri, aveva inviato tramite un video il suo progetto per la periferia Est, da Torre Angela a Tor Bella Monaca. “Se avesse vinto Michetti avrei fatto l'assessore alla Cultura, ma accetto la sfida in VI municipio perché anche se si tratta solo di una porzione di Roma, queste periferie meritano di diventare un luogo in cui fare un'operazione sovversiva” aveva dichiarato Sgarbi nel video. Aggiungendo poi: “Chiamerò ad animare il teatro di Tor Bella Monaca il drammaturgo Moni Ovadia e i centri sociali. I writers e i pittori possono rivitalizzare zone degradate e pasoliniane”. Secondo quanto asserito dal sindaco di Sutri aveva anche già contattato Ovadia.

La risposta di Franco

Sgarbi avrebbe anche reclutato per l’occasione l’architetto e senatore a vita Renzo Piano “che conosco da anni e che ritiene sia inutile costruire in Centro, bisogna restaurare la cattiva urbanistica”. Sgarbi ha quindi definito il suo progetto sovversivo che mira, come lui stesso ha dichiarato, “a rendere gaia la Torre, bella la Torre Monaca, angelica la Torre Angela”. Passano pochi minuti ed ecco arrivare la risposta del suo caro amico, così lo aveva definito, Franco. Il presidente del VI municipio, che sembra però volerci andare cauto, ha infatti spiegato: “Sgarbi ha dato la sua disponibilità a fare l'assessore, io sarei felicissimo, è un nome splendente che potrebbe illuminare questo territorio, sarebbe una grande opportunità. Sulla fattibilità però attenderei, devo ancora parlare con la coalizione e più che altro capire come i suoi impegni di parlamentare, sindaco di Sutri, personaggio televisivo con il ruolo di assessore. Il nostro è un Municipio particolare che ha bisogno di un impegno h24”.

Ed ecco le dimissioni di Sgarbi

Risposta che non sembra proprio essere piaciuta a Sgarbi che, contattato dal quotidiano La Repubblica, non le ha certo mandate a dire. Ha definito inaccettabile il fatto che Franco abbia fatto finta di non sapere nulla perché, come ha asserito lui stesso:“La proposta non è partita da me, ma da Franco, le cui parole mi hanno fatto girare le scatole”. Da lì a poco ecco arrivare le dimissioni: “Franco ha detto che per poter fare una scelta che superasse le ambizioni degli altri partiti dovevo dire che ero disponibile. Si sono parlati i nostri staff e io con il video ho fatto quanto mi è stato chiesto. Da questo momento ha già le mie dimissioni sul tavolo”. Capitolo chiuso. Forse. 

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou,

Dagospia il 29 ottobre 2021. LA ZANZARA SU RADIO 24. “I grillini? Sono dei pezzi di merda. Sono ignoranti e incapaci che rubano lo stipendio e lo tolgono a quelli che se lo meritano. Nessuno di loro è eletto. Sono tutti nominati da Grillo che ha preso i voti di tutti e non è lì. In compenso in casa sua suo figlio ha stuprato una ragazza”. Ma non eri garantista, non puoi dire che il figlio di Grillo è uno stupratore: “Io garantista? Non sono affatto garantista. Se tu hai educato tuo figlio a stuprare sei una merda umana. Un uomo di merda. E ti dirò di più. Siccome la storia è storia, Attilio Piccioni era il capo della Dc. Suo figlio, Piero Piccioni, era un grande un grande musicista che ha fatto fior di colonne sonore, viene accusato di avere stuprato, preso una donna e lo arrestano. Il padre si è dimesso. Quella è la morale. Oggi un signore fa un governo perché vuol proteggere il figlio con il ministro Bonafede che è un suo servo”. Ma siamo ancora alle accuse, non ci sono sentenze e tu difendi sempre gli indagati: “Me ne sbatto i coglioni. Difendo gli indagati che piacciono a me, loro mi fanno schifo. Quindi non li difendo. Vi dirò di più. Il punto non è tanto sulla sostanza dell’accusa, potrebbe anche essere che l’accusa poi cada. Intanto c’è. Ma quanto si è parlato del figlio di Salvini perché era stato sulla motoretta di un poliziotto? Ne hanno parlato per un mese e mezzo. Era ministro? Ma dov’era il reato? Dove cazzo era? Sto dicendo che era un fatto piccolo di cui si è parlato molto. L’altro è un fatto grande di cui anche voi vi vergognate di parlarne. Sto dicendo che il dato era discutibile, ma piccolo. Oggi la stampa censura lo stupro del figlio di Grillo a casa di Grillo, a casa sua. Di cosa avete paura, vi cagate sotto? E’ solo il figlio del capo di un partito di merda, di un partito di stronzi”. Come li chiami quelli che hanno votato il taglio dei parlamentari?: “Tutti quelli che erano lì, erano contrari al taglio. Sono dei vigliacchi, tutti. I discorsi erano questi, sono per il no e voto sì, sono dei malati di mente. Forza Italia e la Lega hanno votato con i 5Stelle, perché volevano dire anche noi siamo per il taglio. Ma se uno dice che si taglino i coglioni, vedrai che tagliano anche quelli”. E Giachetti che annuncia un referendum contro dopo aver votato sì al taglio?: “Che vada affanculo. Hanno votato una volta alla Camera, due volte al Senato contro. Si cagano sotto, hanno venduto il Parlamento per stare al Governo. Servi, disonesti, voto di scambio. Allora per tenere in piedi quel governo di merda, di stupratori e di delinquenti hanno venduto il Parlamento”. “Anche Renzi – dice ancora Sgarbi -  è uno stupratore. Si è inculato il suo ex partito. Guarda come se l’è inculato. Guardate Zingaretti, ha un culo così”. Poi parla delle sue recenti affermazioni sul sesso a tre con Eva Robins e una terza, “che adesso è morta”. “Eva Robins – dice Sgarbi – ha un uccellino che è come un dito. La terza, la famosa morta,  non si può dire chi è ma si può dire questo:  il pompino lo fa meglio una donna o un trans? La bocca è uguale? I denti sono uguali? La lingua è uguale? Il pompino è puro. E questo prova che quando stai con un trans, stai con una donna. Ha per caso un pezzo di uccello. Però basta che tu non lo usi troppo. A me è capitato in qualche occasione anche di non trovare quasi niente. Vittoria Schisano per esempio, che è una figa fulminante, sono arrivato lì, l’ho presa poi ho toccato davanti…ma cosa c’è qui? C’è un residuo di uccello che si era dimenticato di togliere. Nelle statue antiche, poi anche in quelle moderne, se vai al museo Guggenheim c’è una scultura di Marino Marini che è un cavaliere con l’uccello. Lo puoi montare e smontare. Se lo monti è perché c’è poca gente, quando c’è molta gente invece lo togli. Se mi faccio fare un pompino da un uomo al buio, come si fa a capire che è un maschio?”. Quale era la posizione esatta nel gioco a tre con la “morta”?: “La morta al momento era viva. No, perché si può anche stare con una morta. La situazione era questa: Sgarbi prende la Eva Robins, la prende nell’unico buco che ha, cioè dietro. Valorizza il suo punto davanti e lo ficca dentro la figa della morta. E’ logica. Se l’ho mai preso dietro? Io no perché ho le emorroidi”.

Cosa rende Sgarbi una rockstar. Max Del Papa il 25 Luglio 2021 su Nicolaporro.it. Chissà se il creatore di questo sito sapeva di star firmando la sua deliziosa condanna. Perché dopo che un evento all’esordio va così bene, diventa impossibile lasciarlo lì come un caso isolato, l’eccezione di un pretesto. Per cui il povero Nicola, che sul serio s’è fatto in 18 per curare tutto prima e durante e poi, dovrà già pensare alla prossima edizione di La Ripartenza, in scena lo scorso fine settimana al Petruzzelli di Bari.

Economia, lavoro, ripartenza. Davvero non è una storia di tutti i giorni un simile parterre di ospiti, di testimonianze, di situazioni nel segno di un solo soggetto, un solo giornalista anche se dietro c’era la macchina di un’organizzazione che non ha lasciato niente all’imprevisto, mai. Sono di quelle occasioni che, al di là del prestigio, dello sfilare di protagonisti, del peso degli sponsor fanno capire alcune cose da dentro; per esempio, che la retorica sull’imprenditore che comunque vada la sfanga perché è ricco e strizza i lavoranti e olia le maniglie dei fisco, ha rotto i santissimi per la sua superficialità smargiassa. Perché poi ti capita di parlare con sir Rocco Forte, quello degli hotel di lusso, e lì ti rendi conto del rischio come propellente, della esposizione con le banche, dell’ottimismo che non è il vezzo dei privilegiati ma una componente essenziale, non rinunciabile dell’attività ed è con quell’ottimismo che sa di pazzia che puoi aprire nuovi resort, creare altro lavoro mentre il lavoro evapora dappertutto, tenere su il nome di un’Italia che ha bisogno anche di situazioni stellari per ospiti stellari. E sir Rocco, a trovartelo a cena, è personaggio notevole perché accorcia le distanze con estrema naturalezza ma tu sai, senti che viaggia ad altre altezze, che i suoi impegni, i suoi pensieri vanno oltre la divagazione del momento. Ma non è di questo che parliamo qui oggi. Parliamo del momento più alto, almeno per chi scrive, nella girandola di situazioni, di atmosfere, di spunti davanti a un pubblico che il Petruzzelli lo riempiva per metà ma solo per imposizioni dal cielo oscuro delle regole pandemiche. Se no non sarebbero bastati i millecinquento posti canonici.

La performance di Sgarbi. È stato un lampo di grandezza cominciata in sordina, come quasi sempre succede. Vittorio Sgarbi, in ritardo come suo solito, a lungo atteso, si materializza infine dal fondo della platea; avanza curvo, pallido e pesante, segnato, trasfigurato: un vegliardo con addosso il peso di una vita improvvisamente troppo maligna e troppo massiccia. Ma sale sul palco e ritorna Sgarbi. Divaga, come al solito quando deve attaccare una lectio magistralis; sfarfalla ma la lezione è già partita e tu non lo sai ma lui sì; improvvisa, ma per finta, da paraculo, perché sa benissimo cosa andrà a raccontare e perché; irride, esalta se stesso, si celebra, si concede sprazzi di disprezzo politico, porta in giro il pubblico, sospeso per le sue avventure artistiche in lungo e in largo per il Paese, Vittorio è un don Chisciotte che “salì sul destriero e partì per tutte le direzioni” e ad ogni approdo lascia un segno, fatto di mostre, di recuperi, di scoperte, di tele rinvenute nel modo più mirabolante, di veri che sembrano falsi e invece sono veri e lui passa dall’infamia del sospetto giudiziario al trionfo della riabilitazione retrodatata: avete visto, stronzi, avevo ragione.

Caravaggio, un grande italiano. Poi, senza sapere come, ti ritrovi dentro Caravaggio. Dentro i suoi dipinti di carne e di sangue, dentro la sua stessa carne e sangue e Sgarbi il folle ti sta spiegando con parole accessibili e voce sapientemente modulata – circa una dèpense beniana – ti sta insegnando che l’unicità del Merisi non è nel luogo comune al discount della sottocultura, il maledettismo, le Madonne col volto delle puttane, i malacarne crocifissi nel ruolo di santi, e “la luce, ah quella luce, Caravaggio è luce”, no, il Critico ti mostra come la non replicabilità del Milanese stia nella crudezza che si fa essenzialità e quindi essenza; a un certo punto recupera la natività del Rubens, che qui nel Fermano ci esce dagli occhi e dalle orecchie perché è gloria patria, e la giustappone: un Caravaggio psichedelico, ma l’originale ha il dramma dell’infinito, è un vortice di sensazioni cannibali.

Da Caravaggio a… Pasolini. E non basta, sai. Perché la magia viene adesso, con Pasolini che è Caravaggio, ma che sta farneticando Sgarbi? È impazzito? No, è proprio così, il giovane letterato, appena spretato dal PCI per indegnità moralistiche, viene folgorato da Roberto Longhi sulla via Padana, la via del Merisi e trecento anni dopo subisce un transfert ch’è un trauma. Pasolini diventa Caravaggio, ne sposa la fatalità dell’autodistruzione. E qui Sgarbi ha buon gioco nel mostrare qualcosa di spaventoso, l’eterno ritorno di un destino, le coincidenze esoteriche che, chi lo sa, forse sono già scritte, sono già dipinte e ogni nostro sforzo non ha senso a resistere. Trecento anni prima, Caravaggio aveva raffigurato i ragazzi di vita di Pasolini: l’Amor Vincitore è Pino Pelosi, l’assassino; il Bacco emaciato è Ninetto. Non sono somiglianze, sono proprio quelli, parlano i ritratti a fianco delle foto. Un fiume di vita e di morte lungo trecento anni e non è cambiato niente, il corsaro dell’arte e lo scrittore dilaniato mescolano la loro carne guasta e sofferente. In platea si alza come ondata un brivido che corre veloce per le pelli, un virus di cui nessuno vuole il vaccino.

Il segreto di uno spettacolo grandioso. “Caravaggio è un artista contemporaneo, nasce nel 1951”, va di paradosso Vittorio. Quando Pasolini lo scopre e lo possiede e ne viene posseduto fino all’esito fatale in uno squallore lunare di borgata, “’Che se n’annamo a Ostia?’ fece il Riccetto. Lì, la notte di Ognissanti del 1975, c’era un Riccetto che non voleva andare oltre, e reagì macellando. “E bulli e belli, criminosi e poveri, bravate al danzo e bestemmiare inutile” dice la canzone di Renato Zero dedicata a PPP. Vuoi o non vuoi, è storia nostra e parte dal 1600. E potrai anche dire che è repertorio, che non è la prima volta che Sgarbi racconta questa storia sinuosa e insinuante, già ce ne informava Alessandro Gnocchi in una splendida cronaca dello scorso ottobre sul Giornale. Ma ci sono cose che diventano spettacoli, e uno spettacolo, se è grandioso, è sempre la prima volta che lo vedi. Perché è la prima volta che accade. È anche l’ultima: non si ripete mai davvero. Dopo, è solo trionfo annunciato, Sgarbi è uscito da sé per rientrare, quasi docile, nella sua fatica di uomo arrancante e ferito ma mai domo. C’è la processione per il suo libro, per un altro selfie e lui non si nega a nessuno con una amabilità inedita, perfino tenera, forse anche figlia del vulnus: “Ho fatto questo libro in lockdown perché era il modo migliore di mandare a fare in culo in cancro”, mi dirà più tardi. L’ha spuntata, ma sul volto ha i segni della guerra. Dicono tutti che Vittorio Sgarbi è una rockstar perché è incontenibile, anche per se stesso, dice le parolacce, polemizza, fa casino, non ha regole, stravive e nessuno capisce davvero chi sia. Non si rendono conto che lui è una rockstar per un motivo molto più semplice. Perché morirà per quello che fa. Morirà per quello che lo ha fatto esistere. Morirà per la sua vita, che l’ha consumato esaltandolo, l’ha avvelenato d’ossigeno incandescente. Sgarbi morirà addosso a un quadro e diventerà dipinto egli stesso e sarà la morte di chi non morirà più. Max Del Papa, 25 luglio 2021

Dagonews il 26 giugno 2021. «Se ho perdonato il prete che tentò di baciarmi a quattordici anni? Non ho mai vissuto il tentativo di seduzione del sacerdote come uno stupro, mi ha fatto tenerezza, pena. Certo, in certi casi si può parlare di violenza, ma in altri casi sono atti di tenerezza che vanno compresi. Lui è morto da molti anni e non l’ho mai incontrato, però non ho mai pensato di denunciarlo o di chiedere risarcimenti» Lo ha dichiarato Vittorio Sgarbi, ospite del web talk "KlausCondicio" condotto da Klaus Davi su YouTube.

«Penso che la Raggi sia stata un pessimo sindaco per la città di Roma. L’elezione della Raggi rappresenta la parabola tragica e triste di Beppe Grillo. Quel modello politico, civico e culturale che ha sostenuto la Raggi ha portato in realtà a votare per lui e non per lei; la Raggi ha svolto delle funzioni di ‘supplenza’ senza avere nessuna competenza amministrativa o di qualsiasi altra attività a lei riconosciuta. Nella città della cultura universale, del Rinascimento, l’unica impresa che sono riusciti a ideare è quella dello stadio con quattro grattacieli, quando Roma è una città con una skyline orizzontale. Da lì è nata la mia polemica. Come donna invece la giudico come una persona qualunque, priva di qualsiasi particolare attenzione». Lo ha dichiarato Vittorio Sgarbi, ospite del web talk "KlausCondicio" condotto da Klaus Davi su YouTube.

«Io sono fermamente convinto della legittimità di qualsiasi orientamento sessuale. Il Gay Village certamente con me resterà aperto. È nato come conseguenza di una comunità che ha alcuni valori in cui si identificano i membri, ma questo non ha nulla a che vedere con gli insegnamenti nelle scuole, che è l’unico punto che contesto del ddl Zan. Lascerei fuori questi discorsi prima dei 15 anni. Per il resto, sono favorevole al Gay Village e in generale a qualunque orientamento sessuale». Lo ha dichiarato Vittorio Sgarbi, ospite del web talk "KlausCondicio" condotto da Klaus Davi su YouTube.

Alcune forme di criminalità vanno combattute, in particolare quelle forme che stanno dietro alla prostituzione nelle strade. È evidente che bisogna valutare, così come fa anche il ddl Zan, che possa esistere una vocazione alla prostituzione del tutto legittima e che quindi andrebbe legalizzata l’apertura di centri tali da liberare le strade della prostituzione. 

Una donna che vuol fare la prostituta dovrebbe avere la dignità per farlo senza i rischi della strada e in balia di sfruttatori. Ogni sessualità deve avere la propria legittimazione, anche quella delle prostitute per vocazione. In Germania spesso gli eros center sono comunali? Il modello tedesco, come quello austriaco, è positivo: si può trovare quello che si desidera in tutta sicurezza e legalità. Ma in Italia c’è il Vaticano…». Lo ha dichiarato Vittorio Sgarbi, ospite del web talk "KlausCondicio" condotto da Klaus Davi su YouTube.

Vittorio Sgarbi non esclude che si possano intitolare vie dalla città di Roma a grandi personaggi dell’industria o brand, chiedendo loro un contributo per le casse comunali: "Può funzionare. Dev’essere una persona che abbia conseguito dei risultati di gloria e di ambizione come un Cavaliere del Lavoro, potrebbe contribuire alle casse comunali. 

Non si intende tassare i ricchi, ma ci sono persone di una certa eminenza – come Della Valle – che impongono una collaborazione tra lo Stato e il privato. Sul piano simbolico potrebbe avere un senso". Lo ha dichiarato Vittorio Sgarbi, ospite del web talk "KlausCondicio" condotto da Klaus Davi su YouTube.

«De Magistris? Avendo finito il suo secondo mandato ha bisogno di avere un piccolo stipendio, almeno come consigliere regionale... Il consigliere regionale ha uno stipendio paragonabile a quello di un deputato, correndo da solo prenderà sicuramente qualche voto e finirà in Consiglio. Se ne frega del debito che lascia, ma è sicuro del reddito che trova». Lo ha dichiarato Vittorio Sgarbi, ospite del web talk "KlausCondicio" condotto da Klaus Davi su YouTube.

«Rifarei la mostra "Vade Retro", anzi spero di poterla rifare a Roma perché mi piace moltissimo, d’altronde sono l’unico di centrodestra che ha partecipato al Gay Pride. Fui cacciato dalla Moratti per questa mostra, però la rifarei».  Lo ha dichiarato Vittorio Sgarbi, ospite del web talk "KlausCondicio" condotto da Klaus Davi su YouTube, in merito alla mostra sull’arte omosessuale “Vade Retro” a Milano, che subì il veto della giunta Moratti su diverse opere nel 2007.

Vittorio Sgarbi è indagato per esportazione illecita di un quadro di 5 milioni di euro. Valentina Mericio il 24/06/2021 su Notizie.it. Il deputato e noto critico d'arte Vittorio Sgarbi è indagato con la compagna Sabrina Colle. L'accusa è esportazione senza licenza di un quadro. Vittorio Sgarbi e la storica compagna Sabrina Colle sono stati indagati. L’accusa è aver esportato illecitamente un quadro del valore di 5 milioni di euro. Il quadro in questione è il “Concerto con bevitore” dipinto nel ‘600 da Valentin de Boulogne. Stando a quanto riporta il quotidiano “La Repubblica”, secondo gli inquirenti Sgarbi e la compagna sarebbero “i proprietari o comunque i detentori” dell’opera d’arte, tuttavia per esportare opere d’arte è necessario avere un attestato di libera circolazione o la licenza di esportazione. Stando a quanto appreso da una nota diramata dai carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale sono in tutto cinque le persone indagate dalla Procura di Siracusa. Tra queste configurano Vittorio Sgarbi e la compagna Sabrina Colle che sono stati accusati di aver esportato un quadro pur non avendo l’attestato di libera circolazione o la licenza di esportazione. La nota dei militari riporta come il fine dell’esportazione del dipinto fosse quello di esporlo in una nota fiera internazionale per poi venderlo nel mercato internazionale dell’arte. Il dipinto che è stato ritrovato nel Principato di Monaco è stato riportato in Italia lo scorso 15 giugno dove si trova sotto sequestro. Nel frattempo Vittorio Sgarbi con un post sui social ha raccontato la sua versione dei fatti dichiarando di non aver esportato nulla. Ha quindi proseguito: “Il quadro, che evidentemente non è mio, mi è stato sottoposto perché lo studiassi e lo valutassi, cosi come faccio, da anni, regolarmente e legalmente con decine e decine di dipinti: è il mio lavoro di storico e critico d’arte. Tra l’altro, si tratta di una copia. Una copia! l’originale sta all’Accademia Chigiana di Siena! Non ho alcun appartamento a Montecarlo, come è stato scritto. E, a dire il vero, in nessun’altra località. Sono da una vita in affitto!”. Non si tratta questa dell’unica vicenda nella quale Sgarbi è stato coinvolto. Il noto critico d’arte risulta attualmente accusato di aver certificato 32 opere attribuite all’artista Gino De Dominicis come dipinti “autentici” pur trattandosi secondo l’inchiesta di falsi. L’udienza preliminare è fissata al prossimo 30 giugno.

Marco Maffettone per ANSA il 30 giugno 2021. "Non luogo a procedere" per Vittorio Sgarbi. E' quanto deciso dal gup di Roma nel procedimento che vedeva il critico d'arte accusato di avere certificato come autentici alcuni lavori riconducibili all'artista Gino De Dominicis, ritenuti falsi dal comando Tutela patrimonio culturale dei carabinieri. Nei suoi confronti il giudice, dopo una camera di consiglio di circa due ore, ha fatto cadere le accuse con la formula "perché il fatto non costituisce reato". Il gup ha prosciolto con la stessa formula anche Duccio Trombadori mentre ha rinviato a giudizio altre 19 persone coinvolte nell'indagine. Per loro il processo è stato fissato al prossimo 21 dicembre davanti alla nona sezione collegiale. Il procedimento finito al vaglio del giudice per le udienze preliminari della Capitale è quello che portò, nel novembre 2018, all'arresto di due persone, finite entrambe ai domiciliari. Nel fascicolo sono state iscritte venti persone tra cui lo stesso Sgarbi cui i magistrati contestavano, nel suo ruolo di presidente della Fondazione Archivio Gino De Dominicis di Roma, la violazione dell'articolo 178 lettera C del codice dei beni culturali e del paesaggio. Sempre nel novembre 2018 su disposizione del gip furono sequestrate oltre 250 opere considerate contraffatte per un valore di oltre 30 milioni di euro e venne individuato il locale adibito a laboratorio dove sono state trovate opere con tutto il materiale idoneo alla produzione di falsi. Secondo l'impianto accusatorio, sul mercato lecito dell'arte contemporanea sarebbero state immesse numerose opere d'arte contraffatte, corredandole di fraudolente certificazioni di autenticità, attribuite al celebre artista marchigiano Gino De Dominicis -riconosciuto come uno degli autori più importanti dell'arte italiana del secondo dopoguerra con quotazioni sempre più in rialzo sul mercato - e, in misura minore, ad altri maestri dell'arte contemporanea. Tre anni fa, inoltre, i carabinieri diedero esecuzione a 4 misure cautelari, di cui 2 provvedimenti di arresti domiciliari, uno dei quali riguardante la vice presidente della Fondazione. Per due galleristi scattò l'interdizione all'esercizio della professione. Nell'ordinanza cautelare emessa nel 2018 il gip spiegava che le "indagini del procedimento hanno avuto origine dalla contrapposizione tra due Archivi, entrambi dedicati allo stesso De Dominicis. Tale contrapposizione vede schierati - scriveva il gip - da una parte l'archivio "Gino De Dominicis" con sede a Foligno , rappresentato da Paola De Dominicis, cugina ed erede dell'artista e dall'altra parte la "Fondazione/Archivio Gino De Dominicis" con sede a Roma". Nella struttura di questa seconda fondazione "sono presenti numerosi soggetti indagati nel procedimento ", aggiungeva il giudice spiegando che "è importante osservare che De Dominicis, non riconoscendo alla fotografia valore documentario, ha sempre ostacolato in vita la pubblicazione di cataloghi delle sue opere. Il catalogo ragionato realizzato nel 2011 ne ha documentate 632, mentre secondo alcune stime l'artista in tutta la sua vita non avrebbe prodotto più di 800/850 opere". (ANSA).

Pierluigi Panza per il "Corriere della Sera" l'1 luglio 2021. «Non luogo a procedere» per Vittorio Sgarbi. È quanto deciso dal gup di Roma nel procedimento che vedeva il critico accusato di avere certificato come autentici alcuni lavori riconducibili all' artista Gino De Dominicis, ritenuti falsi dal comando Tutela patrimonio culturale dei carabinieri. Dopo una camera di consiglio di due ore, il giudice ha fatto cadere le accuse «perché il fatto non costituisce reato». Il gup ha prosciolto con la stessa formula anche il critico Duccio Trombadori mentre ha rinviato a giudizio altre 19 persone coinvolte nell' indagine. Il procedimento finito al vaglio del giudice per le udienze preliminari di Roma è quello che portò, nel novembre 2018, all' arresto di due persone. Nel fascicolo erano state iscritte venti persone, tra le quali Sgarbi, al quale i magistrati hanno contestato, nel suo ruolo di presidente della Fondazione Archivio Gino De Dominicis di Roma, la violazione dell'articolo 178 del codice dei beni culturali (contraffazione). Sempre nel novembre 2018 su disposizione del gip furono sequestrate oltre 250 opere considerate contraffatte per un valore di oltre 30 milioni e venne individuato un laboratorio idoneo alla produzione di falsi. Secondo l'accusa, sul mercato dell'arte contemporanea sarebbero state immesse numerose opere d' arte contraffatte di De Dominicis corredandole di fraudolente certificazioni di autenticità. Tre anni fa i carabinieri diedero esecuzione a 4 misure cautelari, una delle quali riguardante la vice presidente della Fondazione. Sgarbi, naturalmente soddisfatto, ha ricordato di aver sempre definito «assurde» le accuse a lui rivolte. «È una totale invenzione. La mia posizione precisa è che si tratta di capolavori di De Dominicis e li autentico come mi pare. L'argomento non esiste, è un'azione assurda di magistrati che tra l'altro ho anche fatto sconfessare dal Csm perché l'indagine è stata fatta in maniera grottesca su un autore morto nel '98, le cui opere quindi hanno meno di 50 anni. Non esiste il problema, nessuno falsificherebbe». Gino De Dominicis balzò alla notorietà nella Biennale del 1972 quando espose come opera d'arte un bambino con la sindrome di Down e intitolò l'opera Seconda soluzione di immortalità. De Dominicis, per altro, non riconoscendo alla fotografia valore documentario, ha sempre ostacolato la pubblicazione di cataloghi generali delle sue opere. Il catalogo ragionato del 2011 ne ha documentate 632, ma secondo alcune stime l'artista ne avrebbe prodotte più di ottocento.

Francesca Amé per “Il Giornale” l'1 luglio 2021. La notizia del proscioglimento dalle accuse arriva a Vittorio Sgarbi poco prima di salire su un aereo da Roma per Albenga. 

Non luogo a procedere: se lo aspettava?

«Devo dire che questo gup di Roma (Angela Gerardi, ndr) deve essere molto intelligente. Ha usato la ragione che non hanno usato i carabinieri». 

Vittorio Sgarbi è un fiume in pena, anche perché la vicenda si trascina da tempo, oltre 10 anni. Tutto ruota attorno all'eredità sulle opere di Gino De Dominicis, figura estremamente particolare (per usare un eufemismo) dell'arte italiana del Secondo Novecento. Nel '72 espose alla Biennale di Venezia una persona con Sindrome di Down come «opera d'arte».

Muovendosi tra scultura, pittura, architettura e filosofia, De Dominicis non voleva essere definito né le sue opere potevano essere fotografate. Questo è il punto: a Sgarbi è stata contestata la falsa attribuzione di alcuni suoi lavori da parte di Italo Tomassoni, quando il critico e parlamentare era anche presidente della Fondazione Archivio De Dominicis, costituita alla morte dell'artista, di cui Sgarbi era amico, nel 98.

L'accusa di Tomassoni è stata sostenuta dal Nucleo di Tutela del patrimonio artistico dei carabinieri.

«I carabinieri mi hanno pedinato, intercettato e mai interrogato. Hanno perso tempo e non hanno capito il problema. Qui parliamo di arte concettuale. Ciò che conta è il concetto stesso dell'opera che vale in sé, molto più delle sue riproduzioni. Non si possono applicare le stesse categorie di falsificazione che potremmo usare per un Fontana, un De Chirico, un Morandi».

Le è stato contestato anche l'aver attribuito opere in base alle fotografie, in un albergo, mentre era al telefono.

«E questo che cosa significa? Posso fare attribuzioni, se conosco bene l'artista, in qualsiasi condizione. Sulle fotografie poi dobbiamo intenderci: De Dominicis stesso non voleva che alcuna sua opera fosse mai riprodotta. Eppure di alcuni suoi lavori, come nel caso di quello discusso a Venezia, che poi gli ha dato fama anche grazie alla parodia che Alberto Sordi ne fece in Le vacanze intelligenti, le foto sono l'unica testimonianza che ci resta». 

 Ha sentito Duccio Trombadori, anche lui liberato dalle accuse «perché il fatto non costituisce reato»?

«Non oggi (ieri, ndr). Entrambi eravamo convinti che si trattasse di accuse costruite sul nulla, dove la stessa ipotetica vittima (il collezionista e mecenate Luigi Koelliker, ndr) non ha mai detto di sentirsi vittima. I veri falsi su cui avevo allertato i carabinieri sono altri, come la Tavola Doria, su cui sono stati spesi denari per dimostrare che era di Leonardo e ora è attribuita al Poppi e non la vuole nessuno».

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 17 giugno 2021. La gip Angela Gerardi rinvia la decisione al prossimo 30 giugno ma intanto conferma: la competenza a decidere sui presunti falsi De Dominicis spetta al Tribunale di Roma. É qui, allora, che si deciderà il futuro di Vittorio Sgarbi, critico, opinionista ma ora anche candidato per il centrodestra all'assessorato alla comunale alla Cultura (su proposta di Enrico Michetti). La vicenda è quella che due anni fa aveva portato a un sequestro di beni da parte dei carabinieri della Tutela del patrimonio al lavoro sugli expertise delle opere di Gino De Dominicis, autore contemporaneo e sfuggente sotto il profilo critico (scoraggiò i cataloghi ufficiali sulle sue stesse opere). Secondo il pm, Sgarbi avrebbe fabbricato certificazioni fasulle allo scopo presumibilmente di arricchirsi, certo convinto di non essere messo in discussione anche in virtù della frequentazione avuta a suo tempo con lo stesso De Dominicis, morto nel 1998. Il critico è accusato di essersi associato con alcune persone, alcune delle quali operanti fra Fabriano e dintorni, fra le quali la vice presidente dell'associazione De Domincis Marta Massaioli, l'intellettuale Duccio Trombadori, il gallerista Pio Monti e altri con l'obiettivo di produrre falsi seriali.  Gli investigatori si erano serviti delle intercettazioni per documentare scambi e strategie. I fatti riguardano il periodo fra il 2012 e il 2015. Gli indagati, sotto controllo, parlavano di «prototipi» con riferimento alle matrici delle opere e dibattevano di expertise a pagamento: «Ehh bisogna andare da Vittorio (Sgarbi, ndr.) quando gli chiediamo le autentiche... allungargli 10mila euro...», dicevano al telefono Massaioli e il figlio. Una prima discovery investigativa aveva destato l'ira di Sgarbi che, al telefono aveva minacciato: «Devo farli saltare tutti 'sti str.., cornuti, deficienti». Il critico si era attivato contro la Procura e aveva parlato con gli allora ministri della Difesa Roberta Pinotti (dunque competente a decidere sull'Arma dei carabinieri) e dei Beni culturali, Dario Franceschini, che tentavano di calmarlo ma l'inchiesta è andata avanti fino alla conclusione e alla richiesta di rinvio a giudizio. Oggi, assistito dal difensore, l'avvocato Giampaolo Cicconi, Sgarbi ha depositato una memoria nella quale si difende e pur tuonando contro l'incompetenza del perito della Procura («Una capra») ha scelto una più prudente linea di difesa: «L'attribuzione di un'opera spesso è mutevole nel tempo ed è condizionata dalla ricerca storico artistica e dalle scoperte scientifiche: ciò che si ritiene vero oggi può non essere vero domani» scrive.

Vittorio Sgarbi, "quadri falsi autenticati al telefonino": l'incontro filmato in hotel, il critico d'arte rischia il rinvio a giudizio. Libero Quotidiano il 15 giugno 2021. La corsa di Vittorio Sgarbi al Campidoglio potrebbe fermarsi a Piazzale Clodio. Al Tribunale di Roma infatti c'è un fascicolo che lo riguarda e che potrebbe compromettere la sua candidatura alle comunali come assessore alla Cultura nel ticket di centrodestra Michetti-Matone ma soprattutto la sua reputazione di critico d'arte. I pm gli contestano, riporta La Repubblica, di aver autenticato almeno 32 quadri di Gino De Dominicis che lui - sostiene la procura - sapeva essere palesemente falsi. Su alcune tele, è l'accusa, le pennellate di bianco erano ancora fresche. Di più. Sgarbi è accusato di far parte di un'associazione per delinquere che fabbrica finti quadri di De Dominicis (ma anche di De Chirico, Carrà e Fontana), li autentica grazie a nomi di peso come quello appunto dell'ex sottosegretario berlusconiano, e li vende ai collezionisti. Il gruppo, che fa capo a Marta Massaioli, ha venduto opere di De Dominicis per 10 milioni di euro. E il valore delle pitture sequestrate supera i 30 milioni. Il compenso di Sgarbi è stato di 170 mila euro. Domani 16 giugno è fissata l'udienza preliminare sull'associazione per delinquere, dove si deciderà se Sgarbi e gli altri devono andare a processo.  L'inchiesta nasce nel 2012 quando Paola De Dominicis, cugina e unica erede del maestro, si accorge che sul mercato circolano opere apocrife. E segnala ai carabinieri del Nucleo tutela del Patrimonio culturale 118 opere che ritene fasulle e di dubbia attribuzione. La donna indica in particolare un collezionista milanese, Luigi Koelliker, in possesso di numerosi quadri apparsi in un catalogo curato da Vittorio Sgarbi e Duccio Trombadori. La perizia della professoressa Isabella Quattrocchi attesta la contraffazione di molte delle tele. Non solo. La Fondazione Gino De Dominicis, di cui Sgarbi era presidente e Massaioli vice, scoprono i carabinieri, è una scatola vuota. "La sede indicata sul sito è inesistente, l'utenza telefonica è il cellulare del marito di Massaioli". La Massaioli risulta essere già stata condannata a 2 mesi per furto aggravato nel 2003, condannata a 2 anni e 6 mesi nel 2017 per ricettazione e contraffazione di opere d'arte. Sgarbi dunque viene pedinato e intercettato per mesi. Il 25 giugno 2014 all'hotel Carlyle a Milano, videoregistrato dai militari, la Massaioli scende da un taxi trascinando un trolley grigio ed entra nella hall dell'albergo dove c'è Sgarbi. Massaioli tira fuori un faldone di certificati di autentica e li sottopone al critico. Il quale, senza smettere di parlare al telefonino, firma. Durante l'"expertise" al Carlyle, Massaioli chiama il gallerista romano Massimiliano Mucciaccia, che un mese prima si è lamentato per tre De Dominicis, perché il suo restauratore si era accorto che la tempera bianca era ancora fresca," al massimo risalente a un anno prima". Massaioli lo fa parlare con Sgarbi, per rassicurarlo. A quel punto i carabinieri fanno scattare le perquisizioni. Sequestrano 170 certificati, di cui 119 firmati da Sgarbi, "tutti privi di riscontro fotografico dell'opera autenticata".

Inchiesta falsi De Dominicis, Sgarbi si difende: "Tutte vere quelle opere, lo giuro su mia madre. Perizie al telefono? Le faccio dove mi pare" . Fabio Tonacci su La Repubblica il 16 giugno 2021. Il critico d'arte e candidato all'assessorato alla Cultura capitolino, indagato per associazione a delinquere e per false autentiche su 32 opere del pittore, dice la sua "Nessuno ci capisce nulla perché nessuno conosceva quell'artista come me. Vernice fresca sulle tele? E' normale, anche su Caravaggio l'hanno fatto".  

"Ho avuto la fortuna, prima di Palamara, di conoscere in profondità la totale vacuità, inutilità e perdita di tempo delle inchieste giudiziarie..."

Non cominciamo con gli sproloqui sulla giustizia, Sgarbi. Andiamo al punto. E il punto è ostico: lei è imputato a Roma per associazione a delinquere e per 32 false autentiche di opere di Gino De Dominicis.

Vittorio Sgarbi, il caso delle opere d'arte false autenticate: "Magistrati fuorilegge". Ma spunta una telefonata al ministero...Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. "L'inchiesta è una totale invenzione". Vittorio Sgarbi, furibondo, replica alle accuse mosse dai pm di Roma che gli contestano di aver autenticato almeno 32 quadri di Gino De Dominicis che sapeva essere falsi e di far parte di un'associazione a delinquere che realizzerebbe finti quadri dell'artista marchigiano per poi autenticarli. Accuse che Sgarbi rispedisce al mittente giudicandole frutto di "un'azione assurda" che potrebbero, però, costargli un rinvio a giudizio dal momento che oggi 16 giugno si svolge l'udienza preliminare in cui si decide se andrà a processo con l'accusa di associazione per delinquere. Il critico d'arte respinge in toto l'indagine: "La mia posizione precisa è che si tratta di capolavori di De Dominicis e li autentico come mi pare. L'argomento non esiste, è un'azione del tutto assurda di magistrati che tra l'altro ho anche fatto sconfessare dal Csm perché l'indagine è stata fatta in maniera grottesca su un autore che è morto nel '98, le cui opere quindi hanno meno di 50 anni. Non esiste il problema, nessuno falsificherebbe". L'inchiesta, secondo Sgarbi, si baserebbe su "una pura invenzione di un personaggio, l'avvocato Tomassoni innamorato di De Dominicis, che ha dichiarato false le opere comprate dal grande imprenditore Koelliker che invece sono tutte buone, le mie perizie sono tutte perfette. L'argomento non esiste. Il collezionista che le ha comprate è straordinario, di falsi non ce n'è neanche uno. In ogni caso io ho fatto delle perizie per opere che ritengo vere". Sgarbi sostiene, poi, che De Dominicis è "un'artista concettuale e le opere concettuali non sono fatte a mano ma con la mente. L'avvocato penserà a tutto, non ci sarà alcun rinvio a giudizio perché le opere sono tutte buone e l'assunto è del tutto falso. L'unica cosa falsa è l'assunto di questa inchiesta", conclude Sgarbi. La Repubblica parla di alcune telefonate che Sgarbi fece quando venne a sapere dell'inchiesta che lo coinvolgeva. Telefonate al comandante generale dell'Arma, alla presidenza del Consiglio, a due ministri, Roberta Pinotti e Dario Franceschini, a un generale di brigata. Telefonate di cui è rimasta traccia negli atti. "Sì, ho chiamato Pinotti, Gallitelli e prima il generale Mossa, che guidava il Comando tutela patrimonio", ammette quindi Sgarbi. "Ero indignato, perché hanno messo in dubbio la mia competenza, senza neanche interrogarmi. Non era un tentativo di bloccare l'indagine, ma considero quei pm degli autentici fuorilegge".

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 18 giugno 2021. Vittorio Sgarbi è accusato di aver dato il via, assieme ad altre 2o persone, a false autenticazioni delle opere di Gino De Dominicis, il pittore anconetano vissuto fra il 1947 e il 1998. L' accusa nei suoi confronti è di associazione a delinquere e di false certificazioni. I fatti risalgono al 2012 e sono andati avanti fino al 2015. Il prossimo 30 giugno si deciderà sul rinvio a giudizio. In una delle intercettazioni agli atti dell'operazione giudiziaria «Urvasi e Gilgamesh» Marta Massaioli dice al figlio: «Diamo a Vittorio 10 mila euro...» Secondo la Procura avreste creato una fabbrica di falsi expertise delle opere di Gino De Dominicis. Puntava al denaro Sgarbi?

«I compensi erano e sono minimi. Per il mio lavoro nell' associazione ricevevo 50 mila euro l' anno. Si rivolgevano a me in quanto amico di De Dominicis. Ma faccio una considerazione».

Prego.

«Discutiamo di un autore morto da meno di cinquant' anni. Non possiamo ancora parlare legittimamente di capolavori universalmente riconosciuti. Siamo ancora in una sorta di limbo per così dire». 

Eppure lei è stato denunciato dalla nipote di De Dominicis che ha presentato un esposto alla Procura di Roma. Quei quadri a suo giudizio erano falsi.

«Dietro tutta questa storia c' è Tomassoni (il critico e collezionista Italo Tomassoni di cui Paola De Dominicis è cliente, ndr ) che possiede un' ottantina di sue opere e contro il quale da presidente dell' associazione ho intenzione di intraprendere un' azione giudiziaria. Le cose stanno in modo diverso: io dico che sono falsi quelli posseduti da Tomassoni e non quelli sequestrati dalla polizia giudiziaria». 

Il suo avvocato Gian Paolo Cicconi sembra preoccupato: le contestano l'associazione per delinquere. La Massaioli come del resto Pio Monti e Franco Toselli, indagati, hanno una sfilza di precedenti giudiziari, alcuni per truffa. Non pensa di essere stato perlomeno incauto?

«Rifarei quello che ho fatto. La Massaioli è la legittima erede di De Dominicis ed è stata l' amante dell' artista, la donna che è stata al suo fianco per anni». 

Smentisce Isabella Quattrocchi, esperta della Procura?

«È quella che ha dato per falsi degli autentici Modigliani. Un' esperta che va in giro col pendolino e attrezzi da mago Otelma. Trombadori (Duccio Trombadori, altro indagato, ndr) vale mille Quattrocchi». 

Se è sempre stato così sicuro di sé perché s' è rivolto a ministri come Pinotti e Franceschini? Voleva insabbiare l'inchiesta?

«Mai pensato che i magistrati si facessero intimidire. Volevo solo che sapessero di avere a che fare con una polizia giudiziaria analfabeta d' arte. Per la stessa ragione, ieri (mercoledì, ndr ) ho chiamato il generale Teo Luzi, gli ho detto che non voglio più avere a che fare con loro, di non chiamarmi più per dare una mano. Si perseguono gli esperti anziché consultarli»

E Luzi?

«Era sbalordito. Questi sono i carabinieri che hanno esposto il presidente Giorgio Napolitano a una figuraccia internazionale mettendo in mostra al Quirinale una patacca di Leonardo (la tavola Doria esibita nel 2013, ndr )...»

Nella sua memoria depositata in tribunale lei sostiene che «l'attribuzione di un'opera spesso è mutevole nel tempo»: si prepara una via di fuga?

«No. Funziona così nella storia dell'arte. Esistono decine di pareri differenti sull' attribuzione di questo o quel capolavoro che resta dibattuto».

Il centrodestra di Enrico Michetti la sponsorizza in qualità di assessore alla Cultura del Campidoglio in caso di vittoria. Nessun imbarazzo per il processo in corso?

«Non è detto che questo processo si faccia, io spero di no (il gip deciderà il 30 giugno, ndr ) comunque in realtà mi sponsorizzo da solo. Dopo il flop di Mafia Capitale e di Giuseppe Pignatone che ha diffuso un'immagine infamante di Roma è arrivato il tempo che il Campidoglio rinasc...

Franco Stefanoni per corriere.it il 6 giugno 2021. «È stata dura, ma alla fine è andato tutto bene». Vittorio Sgarbi via social annuncia di aver sconfitto la malattia che lo ha colpito negli ultimi tempi: un tumore, raccontato dallo stesso parlamentare e critico durante diverse dirette televisive. «Ringrazio quanti si sono presi cura di me (non faccio nomi perché l’elenco sarebbe lungo) e in particolare i medici e gli infermieri del reparto di Oncologia dell’Ospedale Regina Elena di Roma», ha reso noto oggi, «poi chi, ogni giorno, sta al mio fianco e fa i conti con i miei ‘”sgarbi”. Ho provato la sofferenza fisica di chi combatte questo male, ma voglio dire che dal cancro si può guarire. Per questo, a chi sta affrontando una sfida come questa, dico: resistere, resistere, resistere! In culo alla balena. E alle capre». Nelle ultime settimane il sindaco di Sutri si era sottoposto a cure oncologiche ma non è mai mancato in tv o nei suoi interventi video sui social dove è apparso in alcune occasioni provato. Lo scorso marzo, al Corriere, aveva detto: «Risulto affetto da cancro. L’ho scoperto un paio di mesi fa mentre facevo gli esami del sangue per un controllo. Il sangue è come un linguaggio, dice tutto. C’è un ingrossamento, c’è qualcosa che stanno analizzando. Non ho metastasi di nessun tipo e, fortunatamente, la cosa è circoscritta. I medici stanno studiando la situazione». Sgarbi aveva inoltre denunciato: «Solo che oggi questa mia malattia sembra di serie B, meno importante della mitologia intorno alla pandemia. In aula mi fanno tenere la mascherina, che fa male alla mia malattia e non serve per combattere il Covid, che io non posso più avere perché l’ho già fatto. Un paradosso. Il mio caso si dovrebbe risolvere con la radioterapia ma l’oncologia, in generale, oggi è vittima del terrorismo mediatico che si fa per la pandemia».

Vittorio Sgarbi, il tumore e un messaggio da brividi: "Sofferenza fisica, resistere resistere resistere". Libero Quotidiano il 06 giugno 2021. "Resistere, resistere, resistere". Vittorio Sgarbi 1, cancro 0. Qualche mese fa l'onorevole eletto nel 2018 con Forza Italia ha annunciato a La Zanzara, lo show radiofonico di Radio 24 condotto da David Parenzo e Giuseppe Cruciani, di avere un tumore. Per l'esattezza, "un cancro alle p***e". La consueta dose di sarcasmo, brutale e sfrontato, per nascondere una battaglia molto complicata, in certi momenti terrificante. Ora, via social, il critico d'arte e opinionista tv più famoso, amato e odiato d'Italia esce nuovamente allo scoperto con un annuncio di grande impatto emotivo: "È stata dura, ma alla fine è andato tutto bene". Sì, Vittorio ha sconfitto il cancro. "Ringrazio quanti si sono presi cura di me (non faccio nomi perché l’elenco sarebbe lungo) ed in particolare i medici e gli infermieri del reparto di Oncologia dell’Ospedale Regina Elena di Roma. Poi chi, ogni giorno, sta al mio fianco e fa i conti con i miei 'sgarbi'. Ho provato la sofferenza fisica di chi combatte questo male, ma voglio dire che dal cancro si può guarire. Per questo, a chi sta affrontando una sfida come questa, dico: resistere, resistere, resistere! In c***lo alla balena. E alle capre". Si chiude così un brutto periodo per il fresco 69enne (il compleanno lo scorso 8 maggio), che fortunatamente ha scoperto di non aver avuto metastasi e che nei mesi scorsi ha superato anche il coronavirus. Anzi, ironia della sorte è stato proprio grazie ad esami di routine successivi alla sua negativizzazione che Vittorio ha scoperto di avere un tumore. 

Ottavio Cappellani per "la Sicilia" il 18 aprile 2021. Eravamo io Roberto D’Agostino, Vittorio Sgarbi, Giuliano Ferrara, Lino Jannuzzi, Barbara Alberti, Sergio Perroni… Sono passati trent’anni dalla puntata de “L’Istruttoria” nella quale Sgarbi lancio dell’acqua a Dago e Dago rispose con uno schiaffo. In quella Roma, studente ventenne, scorrazzavo con quello che chiamavo (e chiamo anncora, le rare volte che ci incontriamo, “professo’”), portati in giro dal compianto Sergio Perroni, all’epoca agente di Vittorio, stipati su una Mini Minor. Ricordare quell’epoca oggi, in tempi di Covid, è bello è straziante. Sono passati trent’anni da quella sera, e se oggi, giustamente, si celebra l’anniversario di quel momento storico è perché D’Agostino, Ferrara, Sgarbi, hanno davvero cambiato la maniera di comunicare in Italia. In meglio. Per un breve periodo, prima che l’Italia diventasse nuovamente borghese e sbirresca, si accese la scintilla del litigio tra intellettuali. Cosa ovvia in Inghilterra e in America, ma non da noi, dove l’intellettuale ha da avere quell’aria compitina e noiosa, lontanissima dalla vita vera (e litigiosa) che vissero Truman Capote, Gore Vidal, Hemingway, Martin Amis, ma anche Bret Easton Ellis, Franzen, Foster Wallace. Houellebecq. Qui, in Italia, il litigio non è contemplato, è sempre tacciato di invidia o frustrazione. Ma per le idee si deve lottare, si deve litigare. Sergio Perroni (quanto manca) quella sera fece il diavolo a quattro perché quello spezzone non andasse in onda (era l’epoca della cosiddetta diretta-differita) ritenendo che quell’episodio potesse intaccare l’aura “intellettuale” di Sgarbi, che invece se la rideva sotto i baffi. Si disse che fu il culmine della televisione “trash”, ma io me la stavo spassando. Allievo di Manlio Sgalambro (lui non mi manca, è sempre accanto a me nei momenti di bisogno) che aveva mandato a quel paese tutto il sistema filosofico accademico (leggetevi la sua premesse a “La filosofia delle Università” di Schopenhauer) ero e sono convinto che le idee debbano scontrarsi. Sono un grande sostenitore della sintesi hegeliana, ma prima che vi si giunga bisogna prendersi a calci nelle palle, altrimenti non se ne fa niente. Roberto D’Agostino con Dagospia, Giuliano Ferrara con Il Foglio, Vittorio Sgarbi con “Vittorio Sgarbi” (è una installazione situazionista, un capolavoro della pop art) sono tre meravigliosi individui senza i quali l’Italia sarebbe molto più noiosa di quanto è destinata ad essere. Nessuno dei tre – e credo siano gli unici – hanno mai rivendicato con quella stizza da ballerini di tango, il loro essere “intellettuali”. Eppure sono tra i pochissimi (aggiungerei un altro “eterno”, Emanuele Severino) a potersi fregiare del titolo in quest’era non solo postmoderna, ma “postutto”. Io c’ero, quella sera. Sono passati trent’anni, e vedere il video (su Dagospia) dove Vittorio e Roberto raccontano la serata mi ha un po’ commosso. E mi ha ricordato Sergio Perroni, che della serata fu un protagonista dietro le quinte, e avido di vita.

La vera storia dello schiaffo tra Sgarbi e "Dago". Novella Toloni il 17 Aprile 2021 su Il Giornale. Sgarbi e D’Agostino hanno "celebrato" il trentennale dalla famosa rissa che li vide protagonisti a L'Istruttoria, storico programma di Giuliano Ferrara: "Lo schiaffo è dialettica". L'acqua gettata in faccia da Vittorio Sgarbi a Roberto D'Agostino, il ceffone di quest’ultimo sul viso del critico d’arte. Il tutto mentre Ferrara tentava di separarli. Era il 1991 e in diretta a L'istruttoria, il celebre programma di Italia1 condotto da Giuliano Ferrara, andava in onda una delle prime vere risse della storia della televisione italiana. A 30 anni esatti da quel 16 aprile, i due protagonisti di quella rissa hanno deciso di raccontare come andarono veramente le cose. Una reunion che ha il sapore dell'amarcord e che oggi ha un tono decisamente meno ostile: "Sono passati 30 anni da quel famoso schiaffo. Adesso, però, non abbiamo più l'età per accapigliarci", ha scritto Vittorio Sgarbi sul suo profilo Facebook, pubblicando uno scatto recente di lui insieme al fondatore di Dagospia. Negli anni '90 i due erano come cane gatto, l'uno agli antipodi dell'altro. Ferrara li aveva invitati entrambi nel suo programma, il 16 aprile del 1991, pur sapendo che erano due micce pronte ad esplodere e infatti la rissa è rimasta negli annali. Da tempo Vittorio Sgarbi e Roberto D'Agostino hanno sotterrato l'ascia di guerra e a distanza di trent'anni hanno raccontato - in tandem - quanto realmente successo in quella serata. Lo hanno fatto a La Zanzara, il programma radiofonico di Giuseppe Cruciani su Radio 24, dove hanno virtualmente celebrato l'anniversario di quello scontro diventato "leggenda". Chi dette lo schiaffo a chi? Chi iniziò per prima? Domande a cui Vittorio Sgarbi ha replicato ironico: "Forse fu lui, non mi ricordo ormai sono 5-6 anni che abbiamo ripreso a frequentarci. Lui mi diede uno schiaffo, ma molti pensarono che l’avessi dato io a lui". Quello che non si sapeva l'ha però spiegato D'Agostino sul suo sito. La trasmissione era registrata e il critico d'arte "si fiondò sul corpaccione di Giuliano dicendo: 'Questo non va in onda'. E Giuliano Ferrara, che fino a quel momento aveva tenuto in mano il catetere di Vittorio disse di no in nome dello share". E infatti gli archivi custodiscono un filmato ormai cult. Rimpianti o rimorsi? Quando mai, ha replicato Roberto D'Agostino a La Zanzara: "Non esistono pentimenti nella mia vita, i pentiti ce li ha la mafia. Lo schiaffo è dialettica, quella era una dimostrazione rafforzata e fisica di un’idea, di un concetto, di un pensiero. Lui mi tirò un bicchiere d’acqua, un punto esclamativo; io gli diedi uno schiaffo, due punti esclamativi. Io prima meno, poi chiedo perché. Certe volte devi stabilire un rapporto dialettico formato sul fisico".

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 17 aprile 2021. Dal letame nascono i fiori. Giovedì, alcuni siti hanno riproposto una sequenza famosa de «L’istruttoria», il talk condotto da Giuliano Ferrara su Italia 1. Era il 15 aprile del 1991 quando un diverbio, scoppiato nel corso della trasmissione, culminò prima con dell’acqua gettata da Vittorio Sgarbi in faccia a Roberto D’Agostino, poi con un sonoro schiaffo in faccia al critico d’arte, come reazione scomposta di D’Agostino. Adesso, per la cronaca, i due si amano. Per molto tempo, quello scontro è stato additato come l’esempio più «palpabile» della tv spazzatura. L’equivoco nasceva anche dalla meravigliosa sigla della trasmissione: Ferrara usciva da un bidone della spazzatura, si proclamava l’orco del trash, ma intanto cantava l’aria di Leporello dal «Don Giovanni» di Mozart: «Voglio far il gentiluomo, e non voglio più servir...». Insomma, i tre avevano sufficiente coscienza linguistica del concetto di tv spazzatura. Lo schiaffo de «L’istruttoria» è stato per la tv quello che per il cinema sono stati gli schiaffi alla stazione di «Amici miei». Il dopo schiaffo. Ferrara nel 1996 fonda «Il Foglio», una delle più stimolanti esperienze editoriali del mondo dell’informazione. D’Agostino nel 2000 inaugura il sito Dagospia che, dietro il paravento del gossip, si offre come l’over the top del giornalismo italiano. Sgarbi primeggia in vari campi, dalla critica d’arte all’attività politica. Insomma, gli schiaffi non sempre sono morali. Quello che è difficile da sopportare è l’assenza di Giuliano Ferrara dalla tv. Nei suoi programmi, lo scontro di opinioni (sempre rispettoso) era un tonico salutare, una via di fuga dalla monotonia (il male peggiore di tutti i talk), un cammino di conoscenza (partire da un punto e arrivare a un altro, non girare sempre attorno alla preda). Sì, Ferrara è una grave perdita per la tv italiana.

Andrea Parrella per fanpage.it il 16 aprile 2021. Il 15 aprile del 1991, un'era geologica fa. In televisione la rissa non era ancora la norma, sebbene Vittorio Sgarbi avesse già dato prova, in diverse occasioni, di come quella sarebbe diventata la sua principale forma espressiva, nel corso degli anni perfezionata e portata a livelli che, con una certa audacia, si potrebbero definire artistici. In quel giorno del 1991 si materializza quella che è forse la rissa televisiva per eccellenza, sebbene ce ne siano state altre successivamente. Il contesto è quello de L'istruttoria, programma di Italia1 condotto da Giuliano Ferrara, il quale decise con un certo ardire di mettere nello stesso studio televisivo due personaggi allora notoriamente animati da una certa antipatia reciproca. In particolare sembra che Sgarbi non sopportasse affatto Roberto D'Agostino. Quale pretesto migliore per farli confrontare in televisione? Quello che è successo è storia nota, con un diverbio che culminò prima con dell'acqua gettata da Sgarbi in faccia a D'Agostino, poi con la reazione di quest'ultimo, un sonoro schiaffo in faccia al critico d'arte. Il tutto mentre Ferrara tentava di dividerli. Un momento passato alla storia, che per entrambi è acqua passata, visto che con il tempo i loro rapporti si sono rasserenati. “Il primo a chiedere scusa? Forse fu lui, non mi ricordo – racconta Sgarbi a La Zanzara – ormai sono 5-6 anni che abbiamo ripreso a frequentarci. Lui mi diede uno schiaffo, ma molti pensarono che l’avessi dato io a lui”. 

Ospite del programma radiofonico anche D'Agostino, che invece ha celebrato così il trentennale della lite: Non esistono pentimenti nella mia vita, i pentiti ce li ha la mafia. Lo schiaffo è dialettica, quella era una dimostrazione rafforzata e fisica di un’idea, di un concetto, di un pensiero. Lui mi tirò un bicchiere d’acqua, un punto esclamativo; io gli diedi uno schiaffo, due punti esclamativi. Io prima meno, poi chiedo perché. Certe volte devi stabilire un rapporto dialettico formato sul fisico. Un anniversario che Sgarbi ricorda anche con un post sui social in cui ad una foto con D'Agostino accompagna la didascalia: “Sono passati trent’anni da quel famoso schiaffo. Adesso, però, non abbiamo più l’età per accapigliarci…”.

Francesco Tripputi per kronic.it il 15 aprile 2021. Uno schiaffo che fece la storia! Ma vi sono dei retroscena che hanno portato in quel lontano 1991 a quella sberla clamorosa che il giornalista Roberto D’Agostino aveva rifilato al suo collega Vittorio Sgarbi, conosciuto certamente per essere non proprio una persona calma e pacata. Questi retroscena di quello schiaffo sono stati delineati proprio in un’intervista che è stata rilasciata da D’Agostino in questi ultimi tempi: Ospite de La Confessione di Peter Gomez sul NOVE di Discovery Italia, il fondatore e direttore del sito Dagospia risponde alla domanda del giornalista: “Ad un tratto lei si alzò e gli diede un ceffone. Come andò?”.

Lo schiaffo. Tutto parte dal presentatore del programma, Giuliano Ferrara, che inizia a mettere zizzania tra i due: "Ferrara ci mise uno contro l’altro e ovviamente io, da ex balbuziente, non potevo competere con Sgarbi, perché lui aveva una parlantina travolgente. Quando alla fine ero messo con le spalle al muro dissi: ‘Scusi, ma lei è professore di cosa? Tre volte ha fatto gli esami e tre volte è stato bocciato.” Da li esplode la miccia che accenderà la discussione: “Lui saltò sulla sedia infuriato io ho continuato a fare quel gioco retorico: tre volte, tre esami, tre bocciature. Lui non sapeva come contenere la sua ira, prende un bicchiere d’acqua e me la tira in faccia. Io ho perso la testa e in quel momento ho preso la bottiglia per spaccargliela in testa”. Conclude D’Agostino: “Io sono sempre stato un grande picchiatore e gliela volevo spaccare in testa, lui mi prende la bottiglia, mollo la bottiglia e con la mano sinistra, a favore di telecamera, gli allento uno schiaffo che gli volano via gli occhiali”.

Il rapporto di oggi. A oggi le cose non sembrano cambiate tra i due, come conferma anche l’ultimo confronto a tema coronavirus che li ha visti prendere parte sul programma di Rete4 Stasera Italia condotto da Barbara Palombelli. I due infatti non sembrano molto concordi sull’utilizzo delle mascherine, dove è risaputo che il critico d’arte ha da sempre un’avversione all’uso, come lo dimostrano le sue parole sulla tematica: “La mascherina si porta in automobile? Ha un senso solo per chi ha rubato l’automobile. Basta diffondere panico, dicendo che la mascherina ci difende da un pericolo reale. Sono ormai sei mesi che vengo intervistato solo sul coronavirus. Vorrei non parlarne più.” La risposta per le rime di D’Agostino: “Sgarbi, non sei un virologo.” Replica stizzita di Sgarbi, che inizia a scaldarsi: “Non stai parlando tu, caro D’Agostino, che stai benissimo. Come Briatore, Chiambretti, Porro.” E il giornalista replica: “Ma la mascherina la devi mettere.” Botta e risposta: “La mascherina te la devi mettere nel cervello.” Replica del direttore di Dagospia: “Io me la metto anche nel sedere, ma non c’è da scherzare.” E Sgarbi di nuovo: “Stai scherzando tu, piccolo terrorista”. E per concludere il diverbio: “Vai a Bergamo a dire quelle cose”. Chiude Sgarbi: “Vado anche a Bergamo. Certo non vado a Matera: vado, ma smetti di dire idiozie, scemo”.

Vittorio Sgarbi, drammatica confessione: "Ho un cancro alle p**e e non ne sono ancora uscito". Libero Quotidiano il 21 marzo 2021. Un Vittorio Sgarbi senza freni quello intervenuto a La Zanzara, il programma di Radio24 condotto da Giuseppe Cruciani e David Parenzo. Anche qui si parla di coronavirus, sul quale il critico d'arte non ha mai fatto mistero della propria posizione. “Basta retorica sui medici - tuona -. Il medico deve stare in ospedale, cura i malati che ci sono. Se poi trascura i malati di cancro è già un medico che mi sta sul ca***. Non c’è solo il Covid al mondo. Io ho avuto il Covid e ne sono uscito, e ho un cancro alle p**e e non ne sono ancora uscito". La scoperta del deputato riguardo alla presunta positività al Covid 19 è arrivata dal suo medico, Mario Pepe: "Lui - spiega - mi ha fatto delle analisi e mi ha detto che ho gli anticorpi, e che probabilmente ho avuto il Coronavirus a dicembre. Dunque ho gli anticorpi, non devo fare il vaccino per sei mesi e sono perfettamente a posto. Sono stato asintomatico senza saperlo”. In effetti, tornando a qualche mese fa non è un caso che "hanno avuto il Covid il mio vecchio autista, la mia assistente, il vicesindaco di Sutri lo ha avuto prima di me, ed è stato un mese e mezzo fuori gioco. La morte di Gastel mi ha fatto ripensare alcune cose, ero convinto della sua non letalità. In realtà ci sono due Covid, uno che ti prende e non si vede, un altro che ti prende di traverso”. Eppure per i conduttori c'è un altro interrogativo: "Ma è vero che hai un cancro alle p**e?", chiedono per poi sentirsi dire; “Ho fatto delle analisi per la prostata. Ho un problema, cerchiamo di resistere". E ancora: "C’è un ingrossamento, c’è qualcosa che stanno analizzando. Non ho avuto metastasi di nessun tipo e la cosa è circoscritta. Cerchiamo di salvare l’erezione, sono abbastanza seguito”. 

Da video.repubblica.it il 24 marzo 2021. "Ho il cancro e chiedo di parlare senza mascherina". Vittorio Sgarbi durante il suo intervento alla Camera si è rivolto così alla presidenza, con una dichiarazione che ha spiazzato l'aula. "In ordine alle vicende umane e sanitarie che mi hanno fatto conoscere di avere avuto, nel mese di dicembre, il Covid e quindi di avere gli anticorpi, in ordine al fatto che, dopo ulteriori visite, risulto affetto da cancro, le chiedo di poter parlare senza la mascherina", ha detto il parlamentare, suscitando anche proteste tra i deputati. La risposta del vice presidente Mandelli è stata molto formale: "Ora la mantenga, farò presente al presidente Fico e lui provvederà a dare la risposta", ha detto. La battaglia di Sgarbi contro le mascherine va avanti da tempo. Lo scorso ottobre il deputato era stato portato via di peso dai commessi per essersi rifiutato di indossare la protezione.

Da liberoquotidiano.it il 24 marzo 2021. È guarito dal Covid ma ha un grave problema di salute. Una notizia clamorosa quella che Vittorio Sgarbi ha affidato a una diretta social e poi confermato in un'intervista a la Zanzara, il programma condotto da Giuseppe Cruciani su Radio24. "Basta retorica sui medici. Il medico deve stare in ospedale, cura i malati che ci sono. Se poi trascura i malati di cancro è già un medico che mi sta sul ca**o. Non c’è solo il Covid al mondo. Io ho avuto il Covid e ne sono uscito, e ho un cancro alle palle e non ne sono ancora uscito", ha detto il critico d'arte, parlamentare e candidati sindaco alle elezioni amministrative a Roma. "Il mio medico, Mario Pepe, mi ha fatto delle analisi e mi ha detto che ho gli anticorpi, e che probabilmente ho avuto il coronavirus a dicembre. Dunque ho gli anticorpi, non devo fare il vaccino per sei mesi e sono perfettamente a posto. Sono stato asintomatico senza saperlo", rivela spiegando di aver contratto il Covid senza fortunatamente sviluppare i sintomi più gravi della malattia. E il tumore? “Ho fatto delle analisi per la prostata. Ho un problema, cerchiamo di resistere. C’è un ingrossamento, c’è qualcosa che stanno analizzando. Non ho avuto metastasi di nessun tipo e la cosa è circoscritta. Cerchiamo di salvare l’erezione, sono abbastanza seguito. Per ora l’attività urinaria e di erezione è regolare. L’unica cosa che ho da qualche anno è che c**o sette, otto volte al giorno. E non ho mai trovato il modo di mitigare questa cosa, il che va bene perché ti liberi dalla merda. Ma è l’unica condizione di limitazione alla mia libertà assoluta", racconta senza filtri Sgarbi.

La confessione di Vittorio Sgarbi: "Ho un cancro e non ne sono ancora uscito". Vittorio Sgarbi senza peli sulla lingua racconta sui social e a La Zanzara di avere un cancro e di aver passato il coronavirus da asintomatico. Francesca Galici - Dom, 21/03/2021 - su Il Giornale. Vittorio Sgarbi a ruota libera, prima sui suoi social e poi a La Zanzara, dà notizia di avere un tumore ma anche di aver passato il coronavirus da asintomatico senza essersene accorto. Con la sua solità lucidità politicamente scorretta, il critico d'arte non bada ai formalismi e prova ad accendere i riflettori sulla crisi sanitaria del nostro Paese. Da un anno il coronavirus è al centro dell'attenzione ma nel frattempo non sono sparite le altre malattie, di cui si continua a morire. "Basta retorica sui medici. Il medico deve stare in ospedale, cura i malati che ci sono. Se poi trascura i malati di cancro è già un medico che mi sta sul cazzo. Non c’è solo il Covid al mondo. Io ho avuto il Covid e ne sono uscito, e ho un cancro alle palle e non ne sono ancora uscito", ha detto Vittorio Sgarbi in una diretta social. "Certo che li ringraziamo i medici, ma per tutte le malattie", ha concluso il critico d'arte, confermando quanto detto anche in diretta radiofonica. Pare che il sindaco di Sutri, candidato per le prossime elezioni a Roma, sia stato contagiato dal coronavirus senza rendersene conto: "Il mio medico, Mario Pepe, mi ha fatto delle analisi e mi ha detto che ho gli anticorpi, e che probabilmente ho avuto il coronavirus a dicembre. Dunque ho gli anticorpi, non devo fare il vaccino per sei mesi e sono perfettamente a posto. Sono stato asintomatico senza saperlo". Fin dall'inizio dell'epidemia, Vittorio Sgarbi ha cercato di non drammatizzare la situazione e di spegnere gli allarmismi con il suo tipico modo di fare. Tuttavia, la recente scomparsa di un genio dell'arte fotografica come Giovanni Gastel ha portato il critico d'arte a fare alcune considerazioni: "La morte di Gastel mi ha fatto ripensare alcune cose, ero convinto della sua non letalità. In realtà ci sono due Covid, uno che ti prende e non si vede, un altro che ti prende di traverso". Ora, però, nei pensieri di Vittorio Sgarbi c'è un altro problema di salute: "Ho fatto delle analisi per la prostata. Ho un problema, cerchiamo di resistere. C’è un ingrossamento, c’è qualcosa che stanno analizzando. Non ho avuto metastasi di nessun tipo e la cosa è circoscritta. Cerchiamo di salvare l’erezione, sono abbastanza seguito". Quando gli è stata comunicata la notizia, Vittorio Sgarbi afferma di aver reagito con grande serenità. "Per ora l’attività urinaria e di erezione è regolare. L’unica cosa che ho da qualche anno è che cago sette, otto volte al giorno. E non ho mai trovato il modo di mitigare questa cosa, il che va bene perché ti liberi dalla merda. Ma è l’unica condizione di limitazione alla mia libertà assoluta", ha concluso.

Sgarbi sbotta: "Ho il cancro e in Aula mi fanno tenere la mascherina". Vittorio Sgarbi torna a parlare del cancro alla prostata e si sofferma sulle mancate attenzioni ai malati oncologici in momento di pandemia. Francesca Galici - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. Vittorio Sgarbi ha iniziato un'altra battaglia pubblica, che l'ha visto rivelare in diretta radiofonica di essere affetto da un cancro. Dopo aver dato la notizia durante La Zanzara, il programma di Radio24, il critico d'arte ha deciso di parlarne liberamente. La scoperta della malattia, infatti, non è recente ma risale a circa due mesi fa, grazie alle analisi sangue, come racconta lo stesso Sgarbi al Corriere della sera: "Ho scoperto di aver già fatto il Covid in maniera asintomatica a dicembre, ma anche di avere un problema alla prostata". Oggi Vittorio Sgarbi vuole diventare la voce di tutti i malati oncologici, secondo lui dimenticati a causa dell'emergenza Covid. E si fa voce anche della battaglia contro l'utilizzo indiscriminato delle mascherine, che per sua stessa ammissione, a soggetti come lui porterebbero più disagi che benefici. Ma il sindaco di Sutri ci tiene a tranquillizzare sul suo stato di salute: "C'è un ingrossamento, c'è qualcosa che stanno analizzando. Non ho metastasi di nessun tipo e, fortunatamente, la cosa è circoscritta. I medici stanno studiando la situazione". Ora il critico d'arte è impegnato in una terapia farmacologica ma è in procinto di fare un passo avanti nelle cure: "Inizio le terapie nucleari il 12 aprile al Sant' Orsola". In qualità di malato oncologico, Vittorio Sgarbi vuole sfruttare la sua popolarità per accendere i riflettori sulle carenze sanitarie attorno alla cura dei tumori che si verificano da ormai un anno: "Oggi questa mia malattia sembra di serie B, meno importante della mitologia intorno alla pandemia". E così Sgarbi torna a puntare il dito contro le mascherine, una battaglia che porta avanti da quando è scoppiata l'epidemia e che ora lo vede ancor più deciso a cercare di cambiare le cose: "In aula mi fanno tenere la mascherina, che fa male alla mia malattia e non serve per combattere il Covid, che io non posso più avere perché l'ho già fatto. Un paradosso. L'ho detto a Draghi: se ho avuto una malattia cardiaca, una cancerogena e ho già fatto il Covid perché la mascherina che mi fa male alla respirazione?". Ha anche inviato il certificato medico d'esonero a Roberto Fico ma non ha ancora ricevuto risposte: "Non gliene frega del cancro o di problemi cardiaci, solo del Covid, che è meno letale del cancro ai polmoni per il fumo. In Parlamento siamo di fronte a un paradosso logico: prescrizioni rigidissime per una malattia non letale per più del 90% delle persone che la contraggono, ma se ne hai un'altra, come il cancro o cardiopatie, non frega niente a nessuno". Vittorio Sgarbi è un fiume in piena durante l'intervista nel rivendicare i suoi diritti: "Io voglio essere libero, anche fuori, riaprire le mostre". E col Corsera, il critico d'arte si lancia in un paragone tra i teatri e il Parlamento, muovendo anche un'accusa ben precisa: "Molti hanno avuto il Covid: Zingaretti, Gelmini, Lotti... E siamo ancora in quest'Aula che sembra un teatro; solo che i teatri e i musei sono chiusi, le mostre sbarrate mentre quest'Aula è aperta e senza sanificatori". Per Vittorio Sgarbi, "l'oncologia, in generale, oggi è vittima del terrorismo mediatico che si fa per la pandemia". Oggi, il critico d'arte si sente di dover assumere il ruolo di portavoce dei malati oncologici e di tutti quelli che definisce di serie B. Non nega l'importanza delle mascherine in ambito sanitario ma "per altri aspetti è qualcosa che produce uno stato di ansia, depressione e intimidazione e a pagare sono giovani, adolescenti e altri malati". Nonostante la malattia e le cure, Vittorio Sgarbi ha confermato il suo impegno a correre per le elezioni amministrative: "Resto candidato a sindaco di Roma: la radioterapia dura 40 giorni per 10 minuti al giorno".

Vittorio Sgarbi, il racconto drammatico e l'accusa: "Come ho scoperto il cancro. Ma con il coronavirus...". Libero Quotidiano il 25 marzo 2021. Vittorio Sgarbi ha il cancro. Lo ha scoperto un paio di mesi fa, insieme al fatto di aver avuto il coronavirus. "Mentre facevo gli esami del sangue per un controllo ho scoperto di aver già fatto il Covid in maniera asintomatica a dicembre, ma anche di avere un problema alla prostata", racconta il critico d'arte in una intervista a Il Corriere della Sera. "Il sangue è come un linguaggio, dice tutto. C'è un ingrossamento, c'è qualcosa che stanno analizzando. Non ho metastasi di nessun tipo e, fortunatamente, la cosa è circoscritta. I medici stanno studiando la situazione", prosegue Sgarbi. Che ha già cominciato le cure: "Sto prendendo farmaci. Inizio le terapie nucleari il 12 aprile al Sant' Orsola. Solo che oggi questa mia malattia sembra di serie B, meno importante della mitologia intorno alla pandemia. In aula mi fanno tenere la mascherina, che fa male alla mia malattia e non serve per combattere il Covid, che io non posso più avere perché l'ho già fatto. Un paradosso", sbotta. Tanto che ieri in aula "ho tenuto la mascherina. Ma l'ho detto a Draghi: se ho avuto una malattia cardiaca, una cancerogena e ho già fatto il Covid perché la mascherina che mi fa male alla respirazione?". "Io voglio essere libero, anche fuori, riaprire le mostre", continua. "Ho mandato al presidente Fico un certificato medico ove si prescrive che possa parlare senza utilizzare dispositivi". Ma lui "niente, non gliene frega del cancro o di problemi cardiaci, solo del Covid, che è meno letale del cancro ai polmoni per il fumo. In Parlamento siamo di fronte a un paradosso logico: prescrizioni rigidissime per una malattia non letale per più del 90% delle persone che la contraggono, ma se ne hai un'altra, come il cancro o cardiopatie, non frega niente a nessuno". Conclude quindi Sgarbi, amaro: "Il mio caso si dovrebbe risolvere con la radioterapia ma l'oncologia, in generale, oggi è vittima del terrorismo mediatico che si fa per la pandemia. Ecco i medici del reparto hanno firmato questo documento dove si dice che una Nazione è andata in bancarotta solo perché mancavano decine o qualche centinaia di posti letto, e non centinaia di migliaia, nell'affrontare una malattia".

Da "La Zanzara" il 20 marzo 2021. “Basta retorica sui medici. Il medico deve stare in ospedale, cura i malati che ci sono. Se poi trascura i malati di cancro è già un medico che mi sta sul cazzo. Non c’è solo il Covid al mondo. Io ho avuto il Covid e ne sono uscito, e ho un cancro alle palle e non ne sono ancora uscito. Certo che li ringraziamo i medici, ma per tutte le malattie”. Così Vittorio Sgarbi in una diretta su Internet, e parlando poi a La Zanzara su Radio 24 conferma la notizia: “Il mio medico, Mario Pepe, mi ha fatto delle analisi e mi ha detto che ho gli anticorpi, e che probabilmente ho avuto il Coronavirus a dicembre. Dunque ho gli anticorpi, non devo fare il vaccino per sei mesi e sono perfettamente a posto. Sono stato asintomatico senza saperlo”. Potresti aver infettato un sacco di gente: “Oppure il contrario, effettivamente in quel periodo hanno avuto il Covid il mio vecchio autista, la mia assistente, il vicesindaco di Sutri lo ha avuto prima di me, ed è stato un mese e mezzo fuori gioco. La morte di Gastel mi ha fatto ripensare alcune cose, ero convinto della sua non letalità. In realtà ci sono due Covid, uno che ti prende e non si vede, un altro che ti prende di traverso”. Ma è vero che hai un cancro alle palle?: “Ho fatto delle analisi per la prostata. Ho un problema, cerchiamo di resistere. C’è un ingrossamento, c’è qualcosa che stanno analizzando. Non ho avuto metastasi di nessun tipo e la cosa è circoscritta. Cerchiamo di salvare l’erezione, sono abbastanza seguito”. Bisogna asportare un po' di prostata?: “Sì, credo di sì. Alla mia età accade. Ma quando me lo hanno detto ho reagito con grande serenità ed erano tutti sorpresi. Per ora l’attività urinaria e di erezione è regolare. L’unica cosa che ho da qualche anno è che cago sette, otto volte al giorno. E non ho mai trovato il modo di mitigare questa cosa, il che va bene perché ti liberi dalla merda. Ma è l’unica condizione di limitazione alla mia libertà assoluta”.

Pierluigi Panza per il "Corriere della Sera" il 25 marzo 2021. «Risulto affetto da cancro». La notizia arriva dal diretto interessato, il critico d' arte e parlamentare Vittorio Sgarbi che a Montecitorio ha rivelato di aver scoperto di essere malato oncologico e di aver contratto anche il coronavirus, sebbene in maniera asintomatica.

Quando l' ha scoperto?

«L' ho scoperto un paio di mesi fa - racconta - mentre facevo gli esami del sangue per un controllo. Ho scoperto di aver già fatto il Covid in maniera asintomatica a dicembre, ma anche di avere un problema alla prostata».

Preoccupato?

«Il sangue è come un linguaggio, dice tutto. C' è un ingrossamento, c' è qualcosa che stanno analizzando. Non ho metastasi di nessun tipo e, fortunatamente, la cosa è circoscritta. I medici stanno studiando la situazione».

Ha già iniziato le cure?

«Sto prendendo farmaci. Inizio le terapie nucleari il 12 aprile al Sant' Orsola. Solo che oggi questa mia malattia sembra di serie B, meno importante della mitologia intorno alla pandemia. In aula mi fanno tenere la mascherina, che fa male alla mia malattia e non serve per combattere il Covid, che io non posso più avere perché l' ho già fatto. Un paradosso».

Anche ieri ha parlato in Aula...

«Sì, ho tenuto la mascherina. Ma l' ho detto a Draghi: se ho avuto una malattia cardiaca, una cancerogena e ho già fatto il Covid perché la mascherina che mi fa male alla respirazione? Io voglio essere libero, anche fuori, riaprire le mostre. Ho mandato al presidente Fico un certificato medico ove si prescrive che possa parlare senza utilizzare dispositivi».

Cosa le hanno risposto?

«Niente, non gliene frega del cancro o di problemi cardiaci, solo del Covid, che è meno letale del cancro ai polmoni per il fumo. In Parlamento siamo di fronte a un paradosso logico: prescrizioni rigidissime per una malattia non letale per più del 90% delle persone che la contraggono, ma se ne hai un' altra, come il cancro o cardiopatie, non frega niente a nessuno. Molti hanno avuto il Covid: Zingaretti, Gelmini, Lotti... e siamo ancora in quest' aula che sembra un teatro; solo che i teatri e i musei sono chiusi, le mostre sbarrate mentre quest' Aula è aperta e senza sanificatori».

I suoi medici che altro dicono?

«Il mio caso si dovrebbe risolvere con la radioterapia ma l' oncologia, in generale, oggi è vittima del terrorismo mediatico che si fa per la pandemia. Ecco - lo mostra - i medici del reparto hanno firmato questo documento dove si dice che una Nazione è andata in bancarotta solo perché mancavano decine o qualche centinaia di posti letto, e non centinaia di migliaia, nell' affrontare una malattia».

Sgarbi testimonial per i malati di serie B?

«È necessario. È giusto usare la mascherina in ambito sanitario, dove c' è contatto diretto. Ma per altri aspetti è qualcosa che produce uno stato di ansia, depressione e intimidazione e a pagare sono giovani, adolescenti e altri malati. Abbiamo sospeso la ragione e mitizzato una malattia. Ma le malattie sono molte. Anche Agamben e Vargas Llosa hanno detto che non possiamo impedire la democrazia. Ci vuole attenzione a tutti i malati e libertà di cura».

Gli altri impegni restano?

«Allo stato attuale resto candidato a sindaco di Roma: la radioterapia dura 40 giorni per 10 minuti al giorno. Dobbiamo riaprire il Mart al più presto e avviare le mostre programmate».

·        Emanuele Trevi.

Mirella Serri per “La Stampa” - 10 luglio 2021. Cammina cammina, Emanuele Trevi ha vinto la 75ª edizione dello Strega. Per la sua marcia trionfale non ha utilizzato gli stivali delle Sette leghe, bensì le sneakers giallo-blu della Lidl. Il particolare ha scatenato un gran bailamme social: «Non voleva solo partecipare al Premio Strega, voleva vincerlo presentandosi con quelle scarpe», ha scritto su Twitter un ammiratore. E un altro: «Impazzisco, grandissimo, con quelle scarpe si assicura il premio stile». «Non sono su Facebook e non ho Twitter ma comprendo l’entusiasmo. Queste scarpe sono per me un simbolo. Rivestono un importante significato consumistico. Non sono come Theodor Adorno o Franco Fortini i quali sostenevano che nella società di massa i beni fittizi appaiono come beni reali», osserva Trevi stanco ma appagato dai festeggiamenti. «Queste sneakers sono come il Gronchi rosa: tutti le vogliono e non ce sono abbastanza. Ho sentito in loro un’energia positiva, le ho indossate e mi hanno guidato alla vittoria». Scarpe a parte, il 57enne scrittore romano, che si è conquistato ben 187 preferenze con Due vite (Neri Pozza), ha sedotto con la qualità letteraria del racconto. Nel romanzo si intrecciano schegge di memoria e ricerca di nuove realtà: Emanuele appare nel romanzo in prima persona insieme con i suoi amici protagonisti del libro, Rocco Carbone e Pia Pera, scrittori scomparsi prematuramente. È la gioventù bruciata degli anni 90, dietro la cui calma piatta si nascondeva la ribellione. Tra un cinema d’essai, una prima di Carmelo Bene e una citazione da un testo di semiologia, i tre romanzieri sono belli e dannati, condividono le serate romane che si svolgono tra droga party, grandi bevute e corse in moto. Figlio del celebre psicoanalista junghiano Mario, Trevi è uno scrittore dal temperamento insolito, solitario e mondano. Laura Betti, nel libro che Emanuele le ha dedicato, chiamava Trevi «zoccoletta» e «paraculo», uno sempre controcorrente, un esploratore di mondi sconosciuti. Cosa ha attirato il pubblico dello Strega? «Rocco, Pia ed io eravamo dei ragazzi del ’900. Amavamo Samuel Beckett e Sylvia Plath ma anche Milan Kundera e Raymond Carver. Il linguaggio che ci piaceva era quello di Alberto Savinio in puro stile anni 30-40. Fondamentali erano la musica punk e l’universo delle droghe, esclusa la cocaina che all’epoca si frequentava poco. Questa avventura non rientrava nella vita di Rocco e di Pia ma riempiva l’esistenza di tutti quelli che come me volevano conoscere mondi diversi. La curiosità nel mio caso non ha mai avuto quell’accezione negativa che ha, per esempio, per Martin Heidegger il quale ci insegna che distrae l’individuo dalla contemplazione. Al contrario, io ho incontrato, sempre per dirla con Heidegger, “il mondo e gli altri mosso dal desiderio di vedere novità”. Non eravamo certo dei tossici noi ragazzi degli anni 90 ma, spinti dalla sollecitazione che il filosofo bolla come inautentica, eravamo portati a considerare la notte il nostro regno». Nell’opera dello scrittore per primi vedono la luce testi che sono un incrocio tra saggistica e narrativa (Musica distante: meditazioni sulle virtù; Senza verso. Un’estate a Roma; Qualcosa di scritto. La vita quasi vera di un incontro con Pier Paolo Pasolini) e si pongono, come suggerisce il titolo di un altro libro di Trevi, come una sorta di Viaggio iniziatico. I romanzi finalisti allo Strega, al contrario, hanno come tema centrale la famiglia. È stata questa sua diversità a far battere i cuori dei lettori? «Due vite è un inno all’amicizia. La generazione di autori che ha preceduto la mia aveva il culto delle ideologie. Amitav Ghosh si chiede perché gli scrittori non si interessino del global warming. Io mi sento coinvolto dai rapporti personali e dal senso del tempo che passa. Di solito si dice “gli amici sono la tua famiglia fino a quando non ti fai la tua famiglia”. Questa per me è una sentenza di morte, non amo condividere le problematiche della vita quotidiana con un’altra persona. Detesto gli amori monogamici. Sono per una cultura libertina in cui i rapporti tra uomini e donne siano concepiti come un enorme gioco». A proposito delle donne, Einaudi Stile libero ripropone un suo libro del 2003, I cani del nulla. Una storia vera, dove si parla di Gina, «avanzo di canile municipale» nella quale «emotività e furbizia paiono incarnare l’essenza stessa della femminilità». Un’immagine un po’ riduttiva dell’altro sesso, non le sembra? «Oddio, era una frase scritta all’inizio del nuovo millennio. Però basta! I modelli anglosassoni sono esiziali. Spero di morire prima che tutto il mondo sia dominato dal politically correct. La cultura protestante è dominata dal dover essere e dal puritanesimo. Quella cattolica è più imprevedibile e giocosa. Non voglio le donne schiave come in alcuni segmenti del mondo islamico, voglio con loro rapporti di cavalleria e infantilismo». 

Del Ddl Zan cosa ne pensa?

«Alessandro Zan, il deputato e attivista Lgbt che lo ha proposto, è una persona molto seria e competente. Ma sarebbe un disastro se l’attività estetica venisse affidata alla discrezionalità di un giudice. Le faccio un esempio. Voglio scrivere in un mio libro: “Il signor Smith si chiese dove fosse finito quel negro di merda”. Una cultura che vieta il bacio di Biancaneve perché “rubato” potrebbe avere il desiderio di cassare questa frase o io stesso mi potrei autocensurare. Uno scrittore è un bambino perverso e la libertà è la più bella eredità dell’Illuminismo». 

Lo Strega, sostiene Sandro Veronesi che ha bissato il premio capitolino, migliora la vita. Lo crede anche Trevi?

«No. Per me quello che è fatto è cenere. È alle spalle. Guardo solo in avanti e adesso mi preoccupo del prossimo libro che devo scrivere e dell’articolo che mi aspetta. Forse non mi so godere la vita».

·        Emmanuel Carrère.

Anais Ginori per “il Venerdì di Repubblica” il 13 giugno 2021. "E poi c'è stata la débâcle". L'ultima volta che l'avevamo incontrato, Emmanuel Carrère era in un grande salone con cucina design a vista e ampie finestre dalle quali poteva osservare la scuola frequentata dalla figlia. Si sentivano le urla dei bambini nel cortile mentre la moglie Hélène, citata nei suoi ultimi libri, parlava della bontà del caffè italiano che non si trova a Parigi, e l'impressione era quella di un cinquantenne in pieno controllo della sua vita. Ricevendoci in pantofole di feltro grigio, forse qualche marca scandinava che fa subito nido domestico, appariva come un romanziere a cui era riuscito il miracolo di imprigionare i propri dèmoni in scrigni letterari. L'unica cosa che non è cambiata da quel 2015 sono le pantofole che indossa Carrère aprendo la porta di un appartamento un po' fatiscente, sempre nel decimo arrondissement, tra studi di produzione tv, parrucchieri africani e vecchi postriboli. "Ho passato il primo lockdown mettendo una sedia qui fuori, osservando la strada" racconta mostrando una piattaforma di legno azzurro, il tetto di un alimentari pachistano che, aggiunge, non si è neppure accorto della sua presenza. La casa è vuota come possono essere vuoti i luoghi di passaggio, o vissuti come tali. Una scrivania con computer, un divano di velluto liso, la locandina del Dottor Zivago e una foto seppiata di famiglia. "Sono i miei antenati russi" spiega il Carrère dall'ego "ingombrante e dispotico", sua la definizione, anche se ha modi garbati, quasi dolci. Ogni piega del volto sembra un tormento. Tra gli avi di quell'immagine c'è il nonno materno la cui follia aveva indagato in Un romanzo russo. Dopo un "ciclo favorevole", quasi un decennio, è arrivata la "débâcle". La passione con una misteriosa "donna dei Gemelli", il ricovero in un ospedale psichiatrico, il divorzio. La stesura di un "libricino arguto e accattivante" sullo yoga, che lui pratica da trent'anni, è precipitata nell'abisso di un buio mentale. Il romanzo Yoga (che in Italia esce lunedì 24 maggio per Adelphi, ndr) ha subìto un'ulteriore deviazione quando l'ex moglie ha preteso di scomparire dal manoscritto, come lei ha rivelato dopo la pubblicazione in Francia. Carrère ha inserito brani di finzione, con un risultato un po' sbilenco, e forse commovente proprio per questo. "Un libro impuro" dice lui. 

All'inizio doveva intitolarsi Espirazione. Perché?

"Nella pratica dello yoga ci sono persone per cui è più facile inspirare, come me, e quelle che sono più a loro agio nell'espirazione come il mio amico Hervé (Clerc, che appare in vari libri di Carrère, ndr). 

Mi rendo conto che è una distinzione un po' binaria dell'umanità ma fa parte della cultura asiatica dove si ragiona tra yin e yang. In quel titolo c'era anche il senso di esalare l'ultimo respiro. E poi la vita ha fatto un giro, come spesso accade. È cominciato un periodo caotico, la depressione che racconto, e qualsiasi progetto letterario non solo si è allontanato ma è diventato inconcepibile".

Quando ha ripreso a scrivere?

"Avevo gli appunti presi per il libro sullo yoga e un magma di note intorno al periodo del ricovero a Sainte-Anne (il più famoso ospedale psichiatrico di Parigi, ndr). Mi sono detto che dovevo farne qualcosa visto che la mia vocazione è raccontare quello che mi succede, nella speranza che possa avere una portata non dico universale ma di superamento di sé. Ho provato a trovare una forma e, a un certo punto, ho avuto la sensazione che diventasse possibile e forse più interessante del libro che avevo previsto". 

La lotta contro l'Avversario, sempre lui?

"La parola yoga vuol dire attaccare insieme, a uno stesso giogo, due cavalli che avrebbero voglia di andarsene ognuno per conto proprio. Nell'esperienza che racconto c'è un cavallo che aspira alla serenità, anche se è una parola che non mi piace, e l'altro che corre verso il baratro. Forse sbaglio, ma ho l'impressione che questa tensione esista in ognuno di noi, anche se ovviamente pochi finiscono in un ospedale psichiatrico". 

È stato difficile parlare del ricovero?

"Ne conservo un ricordo frammentario. Ho ripreso le testimonianze di amici e famigliari, mi sono servito dei bollettini. Anche se il gergo psichiatrico è un po' pedante, sono colpito dalla qualità dell'osservazione dei medici". 

La diagnosi è stata "disturbo bipolare di tipo II".

"All'inizio ho protestato. Mi sembrava una nozione vaga e alla moda, usata a sproposito. Andando poi a vedere i sintomi, l'alternanza di momenti di depressione ed esaltazione, mi sono accorto che la diagnosi calzava perfettamente. E che la terapia prevista in questi casi, ovvero il litio, con me funzionava". 

Dopo anni passati a imparare tecniche di meditazione, a frequentare analisti, la soluzione è stata la chimica?

"È una domanda inquietante alla quale non ho risposta. In passato le mie depressioni non erano mai arrivate fino a questo estremo, ma ho sempre sofferto di brutali cambi di umore, come se qualcuno si divertisse ad alzare e abbassare il volume nella mia testa". 

Prende ancora le gocce di litio?

"Sono ormai due anni e mezzo che ne prendo ogni giorno. Faccio parte delle persone che hanno la fortuna di rispondere bene al litio. La sensazione è quella di aver in qualche modo pareggiato alti e bassi, senza essere lobotomizzati. È perturbante ammettere che la chimica è stata più efficace dei miei lunghi sforzi per migliorare non solo l'umore ma anche la mia anima". 

Non crede più alla psicoanalisi?

"Mi interrogo sul fatto che nessuno degli analisti frequentati nel corso di trent'anni abbia mai fatto l'ipotesi che potessi essere un paziente adatto alla psichiatria. Forse non erano molto aperti, si facevano l'idea che la chimica fosse riservata solo a chi deve indossare la camicia di forza". 

Per chi non sa nulla di psichiatria è una sorpresa vedere che ancora oggi si usa l'elettroshock.

"Rimanda a un'immagine barbara e arcaica, fa pensare a Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma è invece una tecnica oggi riscoperta e diffusa nelle strutture di punta. I ricordi dei miei risvegli dopo i vari elettroshock, che si praticano in anestesia totale, sono associati a un insopportabile momento di sconforto. Solo ora, con un po' di distanza, posso dire che è stato uno dei modi per salvarmi". 

È diventato un lettore di poesie per lottare contro le amnesie provocate da questa terapia?

"Le imparo a memoria ed è il criterio con cui le scelgo. È stato un amico a suggerirmi questo esercizio. Non ero un lettore di poesia, ora è diventata una routine quotidiana".

La sua ex moglie ha preteso di cancellare nel libro i passaggi nei quali parlava di lei.

"È un libro vivo, nel senso che la vita lo attraversa e lo cambia fino alla fine. C'è uno spazio bianco nel racconto, un'ellisse narrativa. Non è stata una mia decisione, ho dovuto adeguarmi. E in fondo mi dico, forse per consolarmi, che è un modo semplice ed enigmatico di rappresentare la fine di un amore". 

È la prima volta che un personaggio si ribella ai suoi libri?

"In Un romanzo russo avevo scritto sulla mia compagna di allora, Sophie, senza il suo consenso, e me ne sono pentito. Questa volta ho rispettato la volontà della mia ex moglie, anche se ribadisco che ero contrario non solo per mantenere l'unità del libro ma perché volevo renderle omaggio visto che mi è rimasta accanto nei momenti più difficili. Ho dovuto chiedere a mia sorella di prendere il suo posto nel racconto del ricovero a Sainte-Anne". 

Alla fine è rimasta una citazione di Vite che non sono la mia in cui appare Hélène. La sua ex moglie ha protestato anche per questo.

"Vada per non scrivere qualcosa di nuovo, ma non posso cancellare quello che ho pubblicato anni fa con il suo assenso. Forse alla fine per lei è difficile anche non essere nel libro, c'è un'ambivalenza umanamente comprensibile. Io non mi sento in torto perché ho rispettato gli accordi".

Un contratto stipulato al momento del divorzio nel quale si è impegnato a non pubblicare nulla sulla sua ex moglie senza avere il suo consenso. Poteva succedere solo a Carrère.

"Qualche dubbio l'ho avuto quando abbiamo iniziato a parlare del contratto ma non avrei mai immaginato le conseguenze. Mettevo in conto qualche taglio o modifica, non pensavo che avrebbe detto: voglio sparire da quel libro". 

Lei l'accusa anche di aver mentito ai suoi lettori.

"Per me la letteratura, almeno quella che pratico, è il luogo in cui non si mente. Ma in un capitolo spiego ai lettori che, per una volta, ho dovuto eliminare alcuni passaggi nel rispetto di altre persone. È una menzogna per omissione". 

Perché non ha detto di essere vincolato da un contratto?

"Mi ero impegnato a non parlarne. Dal momento che la mia ex moglie l'ha rivelato pubblicamente adesso posso essere più chiaro". 

Ha inserito passaggi di finzione, un'eresia per chi nei propri romanzi si vantava: è tutto vero.

"Sono brevi inserti, in particolare sul soggiorno a Leros. Mi sono accorto che quando in un libro entra un pezzetto inventato, tende a contagiare il resto. Ma la parte di finzione resta comunque minima, se dovessi quantificarla direi meno del cinque per cento". 

Potrebbe tornare ai romanzi di fiction, anche per evitare nuovi conflitti personali?

"Mi è balenata l'idea, ma non andrà così. Sto cominciando a lavorare su qualcosa che non è assolutamente finzione. Non ne voglio ancora parlare, un po' per superstizione e perché non so quale forma prenderà".

Il pluriomicida Jean-Claude Romand, al centro dell'Avversario, è stato scarcerato due anni fa. Vi siete sentiti?

"Se mi avesse cercato gli avrei risposto, ma non ho avuto più sue notizie. Ha scontato la sua pena e penso che meno si parla di lui, meglio è". 

Perché Vite che non sono la mia è diventato il suo libro preferito?

"È il mio libro più umano, e forse quello che ho scritto nella migliore armonia con le persone di cui parla. Anche se tratta eventi tristi è un libro in cui mi sono sentito bene". 

Qualche mese fa, durante la fase peggiore della pandemia, è andato a fare un reportage in un centro di neuropsichiatria infantile.

"La prima idea era tornare nel reparto dove ero stato ricoverato. Il mio psichiatra mi ha sconsigliato, e allora ho pensato ai bambini. È un periodaccio per tutti, ma loro sono effettivamente in prima linea".

Ha lavorato spesso nel cinema e ora ha girato un film da regista con Juliette Binoche. Quando uscirà?

"È finito da un po' ma è stato ibernato a causa del Covid. La mia scommessa era far recitare un'attrice come Binoche con interpreti non professionisti. Il risultato mi piace ed è stata una sorta di terapia. Fare un film nelle mie condizioni, lavorando in gruppo per quasi un anno, è stata un'immensa fortuna". 

Una volta ha fatto un ritratto del presidente Emmanuel Macron, "l'uomo che non suda mai".

"L'ho seguito in un viaggio a Saint-Martin, nelle Antille francesi, subito dopo l'urgano Irma. La delegazione si muoveva in un'umidità mostruosa. Dopo poche ore eravamo tutti zuppi, tranne lui. È un animale a sangue freddo".

Rispetto a scrittori come Michel Houellebecq, lei ha scelto di tenersi a distanza dalla politica. Perché?

"Il mio problema è che non sono convinto delle mie convinzioni politiche. Sono duttile, troppo. Le mie opinioni politiche fluttuano a seconda dei miei interlocutori. Una mia ex compagna diceva: 'Emmanuel non vota perché ha paura di votare a destra'".

Non vota?

"Da pochi anni, con reticenza. Se la prossima volta la scelta sarà tra Macron e Marine Le Pen andrò a votare Macron. In casi estremi diventa più semplice". 

Dopo aver scritto sul dissidente Limonov, un personaggio come Alexej Navalnyj le interessa?

"Ha un coraggio incredibile ed è agghiacciante vedere come viene trattato davanti al mondo intero. Putin in sostanza dice a chi protesta: je vous emmerde, andatevene a quel paese. Mi piacerebbe un giorno scrivere su Putin".

I suoi libri finiscono spesso con una nota di speranza.

"Anche in questo, concludo parlando di una nuova relazione che comincia, lo faccio capire in modo breve e allusivo". 

Per pudore?

"Il pudore non è il mio forte. Direi per prudenza, per non stuzzicare il diavolo".

Significa che ora sta bene?

"Sì, va meglio, anche se rimane una sorda inquietudine che mi accompagna, il timore che quel malessere sia nascosto in qualche angolo buio e un giorno possa tornare".

·        Enrico Caruso.

Caruso e il freddo glaciale con Toscanini alla Scala. Il Giornale il 30 Settembre 2021. Nel centenario della scomparsa il libro di Maurizio Sessa racconta il re dei tenori e la sua vita, dagli esordi fino al grande successo d'oltreoceano, dal 1899 al 1904. In questo stralcio del libro si parla del dissidio con il grande Maestro Arturo Toscanini. Per gentile concessione dell'editore pubblichiamo uno stralcio del libro "Caruso & Friends - La nascita del re dei tenori (1899-1904)", Maurizio Sessa (Florence Art Edizioni 2021, pp. 128). Una biografia che prende spunto da una collezione di fotografie fino ad oggi inedite e ci aiuta a riscoprire, nel centenario della sua scomparsa, il re dei tenori e la sua vita, dagli esordi fino al grande successo d'oltreoceano, dal 1899 al 1904.

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Caruso, in preda a mal di gola, riprese la rotta per il Sudamerica. A Buenos Aires, il 10 maggio 1900, la sua voce roca provocò le proteste vibranti del pubblico in Mefistofele. Caruso, indispettito, era deciso a mollare tutto, a rimbarcarsi. Gli applausi riscossi nella successiva replica lo indussero a restare. Ada Giachetti, lontana, gli era vicina con il sentimento. Il 27 maggio, con una cartolina da Milano, riferendogli del figlio Rodolfo detto Fofò, lo incoraggiò: «Cuore mio. Scrivimi dei tuoi successi pensa sempre alla tua Ada che tutto andrà bene. Fofò è tanto bellino e sta bene. Bacioti con lui tua Ada». In pochi anni Caruso aveva bruciato le tappe: ventidue teatri, quaranta ruoli, cinquecento e più recite. Dietro gli aridi numeri statistici, quanta fatica, quanti sforzi. A Bologna, a novembre Caruso “sfidò” due tenori di casa: Giuseppe Borgatti (1871-1950) di Cento e Alessandro Bonci di Cesena. Tra i due litiganti locali vinse l'ospite “terzo incomodo”. Prima a Treviso e poi a Bologna, le ventiquattro esecuzioni di Tosca, tra ottobre e novembre del 1900, furono le ultime apparizioni di Enrico e Ada Giachetti come colleghi. Con queste credenziali, l'ex ginnasiale serale dallo scarso profitto Enrico Caruso, il 26 dicembre 1900, fu ammesso al Teatro alla Scala di Milano, ambita e severa Università del melodramma internazionale: compenso trimestrale di cinquantamila lire. Ottimo il trattamento economico, irto di ostacoli il percorso di avvicinamento alla prima lezione. Tutto era cominciato da una sostituzione improvvisa. L'apertura del cartellone spettava a Borgatti con Tristano e Isotta di Wagner, ma il tenore ferrarese ammalatosi non si ristabilì per tempo. Il manager della Scala, Giulio Gatti Casazza, scelse la Bohème di Puccini con Caruso come alternativa per dare avvio alla stagione. Per Enrico un nuovo esame all'insegna delle melodie pucciniane. Il tenore che non era al meglio delle condizioni fisiche «e forse non ancora tecnicamente agguerrito sull'emissione del “do” acuto» ebbe contrasti con il direttore d'orchestra. Un direttore quanto mai severo e puntiglioso. Il più severo e puntiglioso, che rispondeva al nome di Arturo Toscanini. Le prove stentavano tra interruzioni, screzi, imbarazzi. Caruso partì con il piede sbagliato, o meglio con la voce in falsetto. «Alle prove, malgrado le insistenze e gli inviti perentori del maestro, Caruso continuava ad emettere il “do” della “gelida manina” in falsetto». Forse, semplicemente, Caruso risparmiava il fiato. «Si arrivò ad un compromesso, abbassando di mezzo tono la romanza. Ma Caruso continuava ad emettere in falsetto la nota acuta, il “si” naturale». E Toscanini sbottò. Depose la bacchetta, scese dal podio. Tirava aria di tempesta. Caruso, come al solito, si diceva disposto a rifare le valige, a restituire l'anticipo. A riportare un po' di calma nella Sala del Piermarini contribuirono le virtù diplomatiche del duca Giuseppe Visconti di Modrone (1879-1941) e l'autorevolezza e l'autorità del direttore generale Gatti Casazza, che, da ingegnere navale, riportò in linea di galleggiamento la barca che rischiava di affondare. In questo clima che non faceva presagire nulla di buono si arrivò all'apertura. Toscanini, cane che abbaia non morde, si era riaccomodato sul podio. A dispetto di Mimì interpretata dalla napoletana Emma Carelli, soprano verista rivelazione per eccellenza, l'opera ambientata a Parigi ma di chiara ispirazione milanese non spiccò il volo. Almeno secondo le cronache del tempo. Quegli stessi resoconti, però, che raccontano di una pronta e convincente rivincita di Caruso and friends nelle nove repliche conclusesi con applausi e richieste accettate di bis. Toscanini, che considerava la ripetizione a richiesta “roba da fiera”, ingoiò amaro mugugnando. Maurizio Sessa

·        Erasmo da Rotterdam.

La rilettura dei classici. Chi era Erasmo da Rotterdam, il teologo olandese che ha dato nome all’Erasmus. Eraldo Affinati su Il Riformista il 12 Maggio 2021. Non vediamo l’ora che i nostri figli possano riprendere a viaggiare per l’Europa, come del resto stavano facendo prima della forzata interruzione dovuta alla pandemia: se ciò accadrà sarà ancora nel segno di Erasmus, al quale sarebbe auspicabile che qualcuno di loro almeno pensasse quando riceverà l’agognata borsa di studio grazie a cui potrà pagarsi il soggiorno nelle università del vecchio mondo. Del grande teologo umanista di Rotterdam dove nacque nel 1466, figlio di un prete come talvolta accadeva allora, educato dai frati agostiniani dopo la morte di entrambi i genitori a causa della peste che infuriava in quegli anni, Einaudi ha recentemente pubblicato, a cura di Silvana Seidel Menchi, le Prefazioni ai Vangeli (pp. 174, 24 euro). Si tratta di un’opera, con testo latino a fronte, fruibile anche dai non specialisti, come il sottoscritto, i quali potranno apprezzare, se non altro, la potenza stilistica di uno scrittore unico nel suo genere, il cui capolavoro assoluto resta il celebre Elogio della follia (1511, Parigi), dedicato al sodale amico Tommaso Moro, straordinaria allegoria satirica sulla umana inclinazione ai piaceri terrestri, non calcolando i costi della “bella vita”: «Sono nata nelle Isole Fortunate, dove tutto cresce senza seme né aratro. Là non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non asfodeli, malva, squilla, lupini o fave e simili piante da poco». I quattro appelli alla lettura del Nuovo Testamento, nonché un’introduzione al testo sacro, composizioni che vanno dal 1516 al 1522, rappresentano un monumento alla prosa cinquecentesca: nella storia della letteratura sono caposaldi essenziali perché conferiscono alla riflessione religiosa una pienezza vitale superiore al semplice intento devozionale. Hanno una dimensione retorica di notevole fascino, alla maniera di breviari spirituali, con un piglio assolutamente originale. Nel momento in cui esortano il “pio lettore”, si rivolgono in realtà a ognuno di noi chiedendo a chiunque di misurarsi direttamente con la testimonianza degli apostoli per intendere appieno il nocciolo della moderna civiltà occidentale nell’incrocio simbolico fra Gerusalemme, Atene e Roma. Tale consonanza con lo spirito della Riforma non implica alcuna svalutazione della tradizione esegetica. Un uomo da solo non è niente. Al contrario, la tensione febbrile verso l’autorità antica anima la produzione erasmiana: dagli Antibarbari, nel recupero attivo di Agostino e San Gerolamo, agli Adagia, raccolta e commento di proverbi, fino all’Enchiridion, il manuale del milite cristiano. Stiamo parlando di un uomo che ha contribuito a edificare il pensiero moderno, soprattutto nel rapporto contrastato e irrisolto con Lutero: mentre quest’ultimo negava il libero arbitrio, affidandosi sulla scorta paolina alla grazia imperscrutabile di Dio, Erasmo considerava l’atto di volizione individuale il centro stesso della nostra dignità, mettendo sul tavolo di tale contesa insanabile l’intera posta umanistica del Rinascimento. Se la scelta che possiamo compiere fra bene e male non ha fondamento, la responsabilità nei confronti degli altri è ben poca cosa: si riduce alla semplice esecuzione del mansionario che la polis ci ha distribuito. Per questo, aperta parentesi, Fedor Doestoevskij dirà che, fra Cristo e la Verità, lui non avrebbe mai avuto dubbi: si sarebbe sempre schierato dalla parte del Nazareno. Nel Novecento, il tempo dei totalitarismi, Dietrich Bonhoffer parlerà di “grazia a caro prezzo” proprio per smussare il radicalismo luterano: altrimenti come avrebbe potuto far parte della fallita congiura contro Hitler? A chi, fra i suoi allievi, provocatoriamente gli chiese in quale modo conciliasse cristianesimo e Resistenza, pacifismo gandhiano e militanza bellica, aveva detto che, se avesse visto sul Kurfürstendamm di Berlino un autista pazzo uccidere i passanti, il suo dovere di pastore, prima ancora che soccorrere i feriti, doveva essere quello di strappare il conducente dalla guida del mezzo. D’altro canto, un secolo prima, Alessandro Manzoni, nel finale dei Promessi Sposi, quando Renzo, di fronte a Don Rodrigo morente, vorrebbe farsi giustizia da solo, attribuisce a Fra Cristoforo la sua stessa perplessità: come dobbiamo interpretare i bubboni sparsi sul corpo del nemico? “Sarà castigo o misericordia”? I conti sono destinati a restare sempre aperti. Né potrebbe essere altrimenti, almeno in questo mondo: l’unico di cui, fino a prova contraria, disponiamo. Torniamo quindi fiduciosi a Erasmo da Rotterdam, a cui Carlo Ossola ha dedicato negli scorsi anni alcuni preziosi medaglioni critici (Erasmo nel notturno d’Europa e Europa ritrovata. Geografia e miti del vecchio continente), ripercorrendo qualche città della sua vita randagia, da Anderlecht a Lovanio, da Torino a Venezia. Siamo di fronte a un classico utile ancora oggi. Nessuno più di lui ebbe chiaro il rischio al quale può andare incontro ogni verbalismo fine a se stesso, non solo teologico, privo del riscontro dell’esperienza. La medesima ragione lo spingeva verso i Vangeli. «Questo tipo di filosofia consiste negli affetti più che nei sillogismi, è vita più che disputa, è ispirazione più che erudizione, è un trasformarsi più che un raziocinare». Pur restando cattolico, ci metteva tuttavia in guardia contro le degenerazioni dei gruppi chiusi, specie religiosi, troppo tesi all’autoconservazione: «Tra i monaci, i quali professano la povertà cristiana e il disprezzo del mondo, temo che troverai il mondo potenziato». E come non ammirarlo, nella sua fede appassionata, quando auspica che la lettura dei testi sacri, tradotti in volgare, possa essere appannaggio di tutti, nessuno escluso? «Vorrei che il contadino ne intonasse qualche versetto spingendo l’aratro, che il tessitore ne modulasse qualche passo manovrando le sue spole, che il viandante alleviasse il tedio del cammino con queste storie… Chi sta indietro non invidi chi è in testa; chi è in testa incoraggi chi viene dietro, non abbandoni la speranza». Eraldo Affinati

·        Ernest Hemingway.

Renato Minore per "il Messaggero" il 30 giugno 2021. Sono passati quasi sessanta anni da quando Ernest Hemingway, che non era più il colosso di un tempo, ma un semplice uccello spaurito, distrutto dall' alcol, dall' ipertensione, dalla paura del cancro e soprattutto dagli elettrochoc nelle micidiali terapie del Mary Hospital, si accorse di non farcela più. Non solo come uomo, ma soprattutto come scrittore. E così, il due luglio 1961, si uccise con un colpo di fucile in bocca: parafrasando Kafka un autore a lui non congeniale, si potrebbe dire che non volle sopravvivere alla propria vergogna. Basta leggere a questo proposito il suo romanzo pubblicato postumo, ben rimpastato dagli abusi degli eredi. Quel Vero all' alba in cui lo scrittore tenta disperatamente di essere all'altezza del mito, avvolgendosi in una matassa di vicende eroiche-patetiche molto molto hemingwayane: la moglie che vuole uccidere il leone, lo scrittore che spara per lei, la giovane africana che suscita gli ultimi ardori.

LA STAR Erano gli stanchi ruggiti del vecchio leone a quel tempo ancora popolare come una star del cinema, maledetto come un poeta, venerato come un maestro. L' icona nell' immaginario collettivo di una avventurosità intelligente, di una bellezza virile che cade senza smarrire la propria dignità, «un padre buono e duro pieno di forza e di debolezza». Hemingway era anche con ogni probabilità lo scrittore più gettonato da Hollywood. La mecca del cinema s' era infatti gettata a occhi bendati sulle sue parole d' ordine, l'amore, la guerra, il coraggio, la vita come infinita prova tecnica di sopravvivenza, la morte come imprevisto colpo mancino. E ne aveva ricavato, specie nell' epoca d' oro degli adattamenti hollywoodiani degli anni 40 e 50, una serie di opere tanto più efficaci tanto più lontane dalla lettera e dallo spirito dell'originale. Che era rappresentato dal vero talento del suo genio letterario, talvolta oscurato dal personaggio: quel personaggio che era entrato più vistosamente nelle sue pagine nel saggio sulla tauromachia come arte del rischio, Morte nel pomeriggio, e nelle storie di caccia di Verdi colline d' Africa accreditando la leggenda dello scrittore come eroe dominatore di ardui codici di comportamento che esigono coraggio, resistenza fisica, impassibilità, per cui vita e scrittura si intrecciano logorandosi per attrito. I duri giudizi che accompagnarono i primi necrologi condannavano lo scrittore in nome della leggenda vitalistica e decadente che l'aveva imprigionato: i libri apparsi postumi come Festa mobile che rinnovava grazia e disperazione degli anni parigini e Isole nella corrente, tragico ritratto di vecchiaia, alimentarono una discussione tra i critici americani e soprattutto europei. 

L' IMMAGINE Era l'autore di pochi libri miracolosamente felici o un grande scrittore a pieno diritto garantito in qualche maniera dall' immagine ingombrante del personaggio che lo aveva quasi sempre accompagnato, come una scomoda ombra? E lui, il personaggio dall' ombra scomoda, aveva creato libri che comunque restavano perché il tempo dimostrerà sempre più (ha scritto Marquez) che Hemingway come «scrittore si mangia molti scrittori grandi per la sua conoscenza degli uomini e dei segreti del mestiere». Uno scrittore che, in una intervista aveva dato la migliore definizione della sua opera quando l'aveva confrontata a un iceberg dalla mole gigantesca che galleggia in superficie, appena 1/8 del volume totale è inespugnabile grazie ai 7/8 che lo reggono sott' acqua. Galleggiano ancora libri come i 49 racconti, nati in tempi diversi dalle tipiche esperienze hemingwayani della guerra della caccia, della pesca, della corrida, della violenza: esemplari di quella oggettività, di quella tersa economia stilistica che fanno del linguaggio narrativo di Hemingway un grande modello della prosa novecentesca.

LA STORIA O come Il vecchio e il mare, questa storia dalla fisicità essenziale- l'odore di catrame, sale e sangue di pesce, i crampi, la nausea, la spossatezza del vecchio, i terribili spasmi mortali del grande pesce - ambientata sullo sfondo etereo della luce dell'acqua accecati dell'isolamento del moto ondoso dell'oceano. E la narrazione è un continuo strattonare allentarsi e tirare di nuovo, da leggere e rileggere tutta d' un fiato anche nella nuova versione del libro proposta dall' Oscar cult Mondadori, affiancato dal racconto inedito La ricerca come felicità, e da scritti giornalistici e fotografie relativi al mondo della pesca, che dell'universo hemingwayano è un ingrediente fondamentale. Ancora Marquez sostiene che Hemingway sia stato un testimone vivace, più che della natura umana, dell'azione individuale. Il suo eroe emerge in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi situazione e qualsiasi grado della scala sociale, non tanto per sopravvivere quanto per raggiungere la vittoria.

LA VITTORIA Nell' universo di Hemingway la vittoria non è destinata al più forte, ma al più saggio di una saggezza presa con l'esperienza. E chi abbia ancora la voglia di guardare dentro a tanta esibizione vi legge un fondo di coraggio disperato, una sfida cosciente alla percezione del nulla che fa la verità dei suoi personaggi, lui tra questi compreso, che somiglia troppo ai protagonisti delle sue storie e mescola realtà e finzione in un cocktail letterario dal gusto riconoscibilmente popolare. Lo scrittore più apprezzato nei bar, come commentavano i più perfidi, per arrivare a uno stile così facilmente riconoscibile, aveva faticato parecchio sulla pagina, a partire dagli esordi come giornalista allo Star. Aveva inculcato i tre comandamenti del cronista che Hemingway trasformerà come assiomi di fede anche letteraria: concisione, leggibilità e soprattutto scrivere soltanto di quel che si conosce. E con quel suo stile che, dal giornalista approda allo scrittore, asciutto e sincopato, che ha creato infiniti discepoli , con la sua grace under pressure: l' eleganza davanti alle avversità che egli ritrova nei momenti decisivi della sua esistenza, volendo rendere la cosa reale ossia «la sequenza costituita dall' emozione che l'ha prodotta». 

LA DISCIPLINA E nella consapevolezza che sempre lo accompagna di dover affrontare prima di tutto la disciplina, le tribolazioni imposte dal mestiere sapendo che «scrivere qualcosa che abbia un valore permanente comporta un impegno a tempo pieno anche se la scrittura vera e propria occupa solo alcune ore al giorno si tratta di imparare a vedere, ascoltare, pensare, percepire e non percepire, e poi scrivere». È di qui che nasce l'apparente semplicità di Hemingway, la grazia come scrisse lui in Morte nel pomeriggio paragonando la sua arte a quella del torero, sboccia da un fondo tumultuoso, da un tirocinio duro: è uno sforzo penoso in cui è in gioco non soltanto la scrittura, ma la vita. Non esistono scorciatoie, nessuno può sostituirsi all' autore, a lui solo tocca di percorrere tutta quanta la via crucis in fondo alla quale c' è, ci può essere, la rigorosa ricerca della parola come unità ritmica e compositiva di Un posto pulito, illuminato bene, il racconto esemplare di Fiesta che sembra quasi anticipare il senso del nulla, il disagio esistenziale sartriano.

Ernest Hemingway, l'uomo che lesse i suoi necrologi. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 27 giugno 2021. Quando Hemingway morì per la seconda volta lesse i suoi necrologi provenienti da varie parti del mondo. Era un personaggio controverso, da alcuni decisamente avversato, molti non erano stati teneri con lui. Nell’incidente aereo in Africa, dove morì e poi resuscitò agli occhi del mondo, ebbe le ossa del bacino e le costole frantumate, reni e fegato maciullati, molti organi interni compromessi. Era il secondo incontro che aveva con la morte e quella volta seppe che aveva perduto e che gli era rimasto solo il tempo per rimettere a posto le sue cose prima di andarsene, sette anni più tardi. La prima volta che aveva incontrato l’Eterna puta, come la chiamava, era molto giovane e come tutti non aveva ancora compreso granché di “tutta la faccenda del vivere”. Come il protagonista del suo romanzo di esordio, The sun also rises, Jake Barnes, ogni suo scritto fino ad allora pronunciava queste parole: “A me non importava di sapere cosa fosse tutta la faccenda. M’importava di sapere come vivere, nella faccenda. Forse però se scoprivate come viverci potevate anche capire cosa l’intera faccenda fosse”. E così ogni sua azione, giacché ciò che imponeva a sé stesso l’Hemingway uomo, era la medesima cosa che imponeva al sé scrittore: l’estrema coerenza, che si può chiamare anche autenticità, se lo si vuole. E di estrema coerenza è morto, nel suo terzo e ultimo incontro, il 2 luglio di sessant’anni fa. Ma quella prima volta che per poco era morto, nel 1918 a Fossalta, quando era stato investito dalle schegge di un mortaio austriaco Minenwerfer e aveva sentito “l’anima o qualcosa uscire dal corpo come si toglie un fazzoletto di seta di tasca tirandolo per un angolo. Svolazzò in giro e poi ritornò indietro e rientrò e non ero più morto”, Hemingway aveva compreso qualcosa che un ventenne forse non avrebbe dovuto conoscere. C’è un racconto di Hemingway che io preferisco più di ogni altro, è breve e vi accade poco o nulla di rilevante, come nei suoi migliori. S’intitola Un posto pulito, illuminato bene. Due camerieri di un caffè guardano il loro ultimo cliente, un vecchio di più di ottant’anni, che è lì da solo a bere, dopo le due di notte, e impedisce loro di chiudere. Il più giovane dei due è nervoso, vorrebbe cacciarlo, tornare a casa da sua moglie. L’altro cameriere invece no. Vuole tenere ancora aperto per il vecchio. Hanno questo dialogo: “«Io sono di quelli ai quali piace stare al caffè fino a tardi» disse il cameriere più vecchio. «Con tutti quelli che non vogliono andare a letto. Con tutti quelli che hanno bisogno di una luce per la notte.» «Io voglio andare a casa e a letto.» «Siamo due razze diverse» disse il cameriere più vecchio. […] «Non è solo questione di giovinezza e di fiducia, anche se sono bellissime cose. Ogni notte io sono restio a chiudere perché ci può essere qualcuno che ha bisogno del caffè.» «Hombre, ci sono delle bodegas aperte tutta la notte.» «Non capisci. Questo è un caffè piacevole, pulito. È illuminato bene. La luce è molto buona e, adesso, ci sono anche le ombre delle foglie.»” Penso che sia forse questo che ha compreso il giovane Hemingway la prima volta che è morto: che siamo tutti insieme in questo luogo oscuro che è la vita umana, che accanto a chi ha “fiducia” e un posto caldo dentro o fuori di sé, c’è chi dalla nascita si sente solo, “disperatamente solo, solo da perdere la testa”, e profondamente sente la solitudine altrui. Hemingway forse ha compreso in quel momento di essere insieme il vecchio e il secondo cameriere, e sceglie che questo sarà il suo ruolo, per tutti gli uomini uguali al vecchio che nella sua futura esistenza riuscirà a toccare: dare loro un posto dove stare, tenere accesa una “luce per la notte.” Hemingway ha combattuto molte guerre, non solo quelle propriamente dette. Ha affrontato pericoli mortali e animali, uomini che non sopportava e che non lo sopportavano, ipocrisie, retoriche e preconcetti. Ha compiuto atti sbagliati o retti, pietosi o violenti. Ha avvertito più di molti altri il carico di solitudine e di amore che a tutti mette indosso la vita umana. E poi ha scritto. E per tutta la sua esistenza di scrittore si è dannato per riuscire ad arrivare a riprodurre nella scrittura il guizzo vitale, ambiguo e sporco dell’esistenza. È riuscito infine a creare qualcosa, attraverso l’invenzione, “che non è una rappresentazione ma una cosa completamente nuova, più vera di qualunque cosa vera e viva; e la si può creare viva, e se la si crea abbastanza bene le si dà l’immortalità. Per questo si scrive e per nessun’altra ragione che si sappia.” A un certo punto dell’esistenza, ha compreso che era una battaglia perduta in partenza ma ha deciso comunque di affrontarla nel modo più intenso e leale possibile: “con tanta più lealtà quanto maggiore è la sua certezza di perdere, seguendo le leggi di un codice sportivo o cavalleresco dove quello che conta non è la vittoria ma l’eleganza del gioco” (Fernanda Pivano). La penultima volta che è morto, dopo il volo precipitato in Africa, tornato in Italia, tenne lontano i fotografi e i giornalisti, “non è leale sorprendere un uomo sconfitto” disse a Pivano che era andata a trovarlo. A lei, che era preoccupata di cosa potesse pensare di quei necrologi, dei coccodrilli e degli avvoltoi che in questa diversa veste aveva dovuto affrontare, disse solo “Non ti preoccupare, figlia. Il mio cuore è netto e pulito e tutti lo sanno… Non lottare mai con la gente chickenshit, le vendette arrivano troppo in fretta, sicché non si deve lottare. Lascia che cadano del loro stesso peso.” L’ultima volta che Fernanda Pivano lo vide, prima del 2 luglio 1961, era in piedi nella luce sul molo, appena sceso dal Pilar, le venne incontro e l’abbracciò stretta, come faceva lui, aveva già fatto quell’ultimo patto con la morte: “In quel momento vidi le sue braccia stringere e rassicurare come me tutti i suoi personaggi solitari e carichi d’amore alla deriva lungo le vie del disastro, senza sapere (ma abbastanza saggi da non chiedersi) i perché e i percome; e vidi tutti i suoi personaggi consolati e sicuri sotto la sua protezione e la sua inesauribile umanità; sotto la sua comprensione infallibile di tutto ciò che è vero, al di là dei falsi idoli e dei simboli dai piedi di argilla, al di là della coltre soffocante dei rapporti cosiddetti sociali, al di là della barriera di silenzio che ci impedisce di comunicare.”

·        Eugenio Montale.

GOOGLE DEDICA DOODLE A MONTALE, QUELLO CHE C’È DA SAPERE. Il Quotidiano del Sud il 12 ottobre 2021. Il Doodle dedicato a Eugenio Montale a 125 anni dalla nascita. Oggi Google ha dedicato il suo doodle al poeta e giornalista Eugenio Montale morto quarant’anni fa a Milano a 85 anni. Montale ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 1975 «per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni». Infatti la poesia di Montale riflette la crisi dei valori della vita dell’uomo, causata dalla frenesia e dalla monotonia della routine quotidiana. Il poeta riesce con estrema essenzialità e semplicità ad esprimere il vero fine della vita. Tra le poesie più famose di Eugenio Montale, ricordiamo “Meriggiare pallido e assorto”, “Spesso il male di vivere ho incontrato”, “I limoni” tratte dalla raccolta “Ossi di seppia” e molto studiate a scuola. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Montale realizzò opere chiaramente influenzate dal conflitto. La guerra, come il fascismo, è per lui la conferma e l’esaltazione di quel senso di disagio esistenziale che lo lega alla realtà, ed aggrava la sfiducia nei confronti della storia. Montale oltre che poeta è stato traduttore, giornalista, critico letterario e musicale. Fu nominato senatore a vita aderendo prima al Pli e poi al Pri.

Eugenio Montale, il manifesto della poesia di ogni tempo. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 5 settembre 2021. Facciamo poesia perché perdiamo. Perdiamo gli oggetti, le case, le persone. Perdiamo noi stessi e quello che siamo stati per un momento, per giorni o anni, e poi mai più. Scriviamo poesia per contrapporre ai “mai più” i brevi finiti istanti morti, presenti e già passati. Eugenio Montale è morto il 12 settembre di quarant’anni fa, un mese prima che compisse ottantacinque anni. Il discorso che Montale scrisse nel 1975 in occasione del Nobel per la letteratura che gli venne conferito quell’anno, si intitolava “È ancora possibile la poesia?” Dalle parole pronunciate è chiaro che quell’interrogativo Montale l’aveva rivolto molte volte a se stesso e molto vi aveva ragionato sopra. Lungo tutto il testo e fino alla fine del discorso ci sono riflessioni bellissime e fondamentali ma non vi è mai una risposta certa alla tormentata domanda che ne è il titolo, e non potrebbe essere altrimenti: “Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato.” Non tutti amano la poesia, ma tutti hanno almeno una poesia, ascoltata per forza o per caso, colta di sfuggita intera o anche in versi sparsi, che per un attimo li ha inchiodati alla propria esistenza e, soprattutto, alla propria essenza. Chiunque ha incontrato nella propria vita dei versi che, a sentirli o a leggerli, lo hanno come congelato nell’istante. Lo hanno scoperto, rivelato e ritrovato dopo lungo tempo. Lo hanno restituito a se stesso, senza che neanche sapesse di essersi perso, anzi a volte ancora prima che si perdesse. Da qualche decennio a questa parte viene detto periodicamente che non sia più così, che non ci sia più spazio per la poesia perché nessuno più riesce a perdersi o ad ammettere la perdita. Mentre la poesia, come dice Montale, è fatta di assenze e perdite, spazi bianchi, di “a capo” e di “riprese”, di certi “vuoti che hanno un valore”, frutto di tempo e riflessione, “solitudine e accumulazione”. “Tutto fa pensare che l’uomo di oggi sia più che mai un estraneo vivente tra estranei, e che l’apparente comunicazione della vita odierna – una comunicazione che non ha precedenti – avvenga non tra uomini veri ma tra i loro duplicati.” La società oggi non è molto dissimile da quella che descriveva Montale nei suoi saggi, negli articoli, nelle riflessioni in versi o in prosa che ha lasciato. Anzi accade che appaia ancora di più deformata e ingigantita in certe sue rabbie, in certe mortifere paure, in certi spaventati difetti. Accade anche che, ancora di più, tutti gli spazi tendano a essere riempiti, si temono i vuoti, scarseggiano i silenzi. Poco tempo ormai è realmente perso, o almeno ci si illude che non lo sia. Le attese sono diventate scrollate di notizie, la solitudine si soffoca nello spiare tignoso altre solitudini. I dubbi e le incertezze non fanno in tempo a fiorire che sono calpestati dalle più forti certezze altrui, dall’imposizione, dall’obbligo, dall’ineludibile richiesta di esprimere un’opinione, di abbracciare un credo o una fazione (“Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli altri/ ed a se stesso amico,/ e l’ombra sua non cura che la canicola/ stampa sopra uno scalcinato muro!”). Sul muro di un palazzo, vicino casa mia, c’è una scritta. Non so chi sia l’autore, non so se sia una citazione. È volutamente lasciata anonima e incompleta, slegata da qualsiasi contesto e qualsiasi finale. Quella scritta dice solo: “la fredda determinazione dell’uomo convinto.” E io mi fermo davanti a riflettere e mi piace, e mi fa pensare a Montale e alla sua poesia universale del rifiuto. La poesia che più di tutte sento dentro di me, e sento me stessa rintoccare nei suoi versi. “Ciò che viene sottratto all’uomo di oggi – da ogni partito, da ogni tecnica, da ogni conservatorismo o riformismo o rivoluzionarismo – è né più né meno che l’amore”, scrive Montale in una delle sue ultime riflessioni. “[…] fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano « datate » e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato. – Dice Montale in quel suo discorso – […] In tale paesaggio di esibizionismo isterico – si chiede ancora – quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia?” Montale apparentemente non ce lo dice: “Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. – scrive a conclusione del suo discorso – È come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi).” Celati nelle parole del suo discorso per il Nobel, l’ormai vecchio, noto e celebrato poeta non fa che ripeterci quei suoi versi scritti giovanissimo, a poco meno di trent’anni: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/ sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. / Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.” Montale ci ha lasciato il manifesto della poesia, di tutta l’arte, di ogni tempo, in ogni condizione. La poesia esisterà finché esisterà un prodotto artistico che rifugge spiegazioni e risposte, sicurezze e chiarimenti, rifugge anche lo stesso tempo presente, nel momento in cui ne rende universali, cristallizzati ed eterni i molteplici infiniti frammenti di vite e sensi e sentimenti e persone, memorie, istanti di cui esso si compone. “Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. […] Che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è, più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo” Stoccolma, 1975.

Eugenio Montale, Il Nobel innamorato. Paolo Mauri su La Repubblica il 27 febbraio 2021. A quarant’anni dalla morte dell’autore vengono pubblicate le lettere inedite alla musicologa greca Margherita Dalmati. Sono la testimonianza di una relazione rimasta a lungo segreta. Mi ricordo bene quando morì Montale: era il settembre del 1981, il 12, per la precisione: un sabato, con l'Estate Romana in piena attività. In un'arena all'aperto, dietro il Monumento al Milite Ignoto, davano il Napoléon di Abel Gance, un capolavoro. Premio Nobel, senatore a vita ebbe i funerali di Stato. Repubblica, che allora non usciva il lunedì, gli dedicò mezzo giornale martedì 15, con un pezzo di Italo Calvino in prima pagina intitolato "Le parole nate nella Bufera". Sono passati quarant'anni e si può dire che l'officina Montale è ancora in piena attività, a giudicare dal costante interesse dei critici e degli studiosi in genere, con sorprese anche notevoli, come il fascio di lettere inedite a Margherita Dalmati, una poetessa e musicologa greca che in realtà si chiamava Maria Nike Zoroyannidis (1921-2009). Conosceva bene l'italiano ed era amica di molti nostri letterati e artisti. Le lettere sono 42 e le ha ritrovate, in casa della poetessa ad Atene, Alessandra Cenni che ora le pubblica e commenta presso Archinto col titolo Divinità in incognito. Vanno dal 1956 al 1974, ma il nucleo che conta è relativo ai primi anni Sessanta, quando Montale andò in Grecia per il Corriere della Sera. Aveva già conosciuto Margherita a Palermo, ma ora, in occasione del viaggio, le chiede aiuto e la nomina poi in un articolo come Maria Nike che "sa tutto della Grecia e dell'Italia". Montale in quell'occasione era accompagnato dalla Mosca, già molto malandata (morirà nel '63). In una lettera del 22 maggio 1962 Montale scrive: "Ti voglio bene, Margherita cara, anche se questo mi spaventa" e chiede gli sia lasciata la speranza di poter ripiombare in Grecia "per sentirti almeno per un giorno, una notte intera, mia tutta mia". "Ti amo", conclude, e aggiunge: "sono vent'anni che non scrivo una simile parola". E poi? E poi gli chiede una fotografia, "magari piccola, magari il viso solo" e le raccomanda di rispondere all'indirizzo del Corriere, dove, chiarirà più volte, ha una cassetta per la posta molto sicura. Montale ha ventiquattro anni più di Margherita. Distruggerà, salvo sorprese, le lettere di lei, per evitare che cadano nelle mani della Mosca (che pure con Margherita aveva simpatizzato) e, morta la Mosca, per sfuggire alla sorveglianza di Gina Tiossi, la fedele governante. Montale, che talvolta si firma Agenore, semina le lettere di frasi innamorate e, intanto, racconta a Margherita quello che gli accade. Sono gli anni in cui nasce Satura, la raccolta poi uscita nel '71 e così diversa dalle precedenti. Intanto si susseguono i successi, gli omaggi per il settantesimo compleanno (che lui, scherzando definisce esequie), l'uscita delle poesie in Francia presso Gallimard, le traduzioni inglesi. Con Margherita il discorso torna spesso sulla Grecia. Montale aveva tradotto qualcosa di Kavafis, ma dall'inglese. Sarà Margherita a curare in quegli anni con Nelo Risi un primo volumetto di poesie per Einaudi con testo a fronte. Montale vorrebbe tornare ad Atene, ma c'è un certo poeta Q che si spaccia per greco... Ironico, sarcastico, tenero, il Montale privato è un contraltare prezioso del poeta che con Satura non ha più paura di tradire i propri segreti, anzi sceglie deliberatamente il passo del diario. E con Margherita scambia volentieri libri e poesie. In una lettera del 30 settembre 1969 racconta: "Soffro di agorafobia, labirintite ecc. Non salgo né scendo le scale se non c'è qualcuno che mi stia vicino. Quando vado al Quirinale dove le scale sono immense e senza corrimano io mi accosto a un gruppo di parlamentari in arrivo esclamando: Presidente Eccellenza ecc. Uno di questi, lusingatissimo, mi prende sottobraccio e così la salita è facile". Difficile, invece, non pensare ai versi che figurano in Xenia II dedicati alla Mosca e scritti nel '67: "Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale...". Difficile non pensare ad uno scambio di ruoli: ora è Montale nelle condizioni della Mosca. La lettera si conclude così: "Amo tanto la vita, ma più di tutto Maria Nike". Maria Nike, tuttavia , non entrerà nella poesia di Montale attraverso un nome-insegna come era accaduto sempre nel corso del tempo, prima con Arletta (Anna degli Uberti) e con Clizia (Irma Brandeis) e, ancora, con la Volpe (Maria Luisa Spaziani). In realtà, proprio nelle lettere alla Divinità in incognito, prende corpo la Mosca, nei suoi ultimi mesi di vita e poi post mortem. Non parlarmi più di cani, dice a Margherita in una lettera del 1° febbraio 1965: "Non posso sostituire la Mosca con un cane". Ma già in una lettera del 24 novembre del '63 aveva scritto: "Margherita cara, spostare i mobili, prendere un cane, vedere amici, ahimè, mi servirebbe poco. Si tratta di 36 anni vissuti insieme nella buona e nella cattiva sorte, venti dei quali occupati da una lotta eroica per vincere il male che covava, la cecità che progrediva, gli anni che crescevano, l'amministratore che la derubava e tutto il resto che non ti dico. 36, dei quali almeno venti di orrore; ed ora la fedele Gina che vive con noi da vent'anni, stesa al suolo in lacrime...". Ho parlato di "officina Montale" , di un'officina sempre aperta. È recente l'uscita di due grossi volumi per la Società Editrice Fiorentina che raccolgono, a cura di Francesca Castellano, le interviste a Montale dal 1931 al 1981. Non manca un'intervista immaginaria che il poeta fece a se stesso, riandando ai suoi esordi, nei primi decenni del Novecento, quando "nessuno si occupava di poesia. L'ultimo successo di cui ebbi ricordo in quei tempi fu Gozzano, ma gli spiriti forti dicevano male di lui, e anch'io (a torto) ero di quel parere". Siamo nel '46. Pochi anni dopo, nel '51, Montale pubblicherà un saggio su Gozzano sulla rivista Lo Smeraldo. In occasione degli ottant'anni di Montale l'editore Bozzi di Genova pubblicò un volume di analisi critiche e un volumetto di omaggi dove figura una pagina di Sergio Solmi che ricorda un incontro con Montale avvenuto nel 1917 a Parma dov'erano entrambi allievi ufficiali. In quell'occasione Solmi fece leggere a Montale un suo articolo dedicato a Gozzano, morto nel 1916. "Montale sorrise leggendo il mio articolo su Guido Gozzano, che era probabilmente per lui, a quell'epoca, poco più di un attardato romantico subalpino...". In realtà proprio in quell'anno in un diario privato poi pubblicato postumo nel 1983 col titolo di Quaderno genovese da Laura Barile, Montale citava Gozzano con una certa consapevolezza. Il tema del complesso rapporto Montale-Gozzano è ora ripreso da Anna Nozzoli nel denso e bel volume La ragione e il sogno appena uscito presso la Società Editrice Fiorentina e che è appunto una raccolta di saggi Su Montale in prosa e in versi. Scrivendo di Saba (che detestava Gozzano) Montale ne abbassa la statura, poi verrà il già citato saggio del '51 che rinnega in parte, scherzando, in un'intervista televisiva condotta da Leone Piccioni nel '66: non voleva che Gozzano fosse da qualcuno addirittura scambiato per un suo maestro. Nel volume di Anna Nozzoli si trovano capitoli su Montale e la guerra rimossa, sul suo rapporto con Torino, sull'amicizia con Palazzeschi... Una trama davvero infinita.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 6 febbraio 2021. Dei grandi poeti ci si aspetta sempre di scovare versi inediti. A volte, cercando, si trova una Musa. Anche Eugenio Montale, magistero poetico altissimo e profilo sentimentale basso, ebbe le sue Muse. Come ha scritto un critico, la ricerca del fantasma femminile percorre tutta l'esistenza di Montale, e tutta la sua scrittura. Drusilla Tanzi, la «Mosca»; Gerti Frankel; passando per Maria Luisa Spaziani e Paola Nicoli, fino a Irma Brandeis, la «Clizia» delle Occasioni. L'occasione dell'incontro fra un giovane Montale e una giovanissima Margherita Dalmati, nom de plume di Maria-Nike Zoroyannidis (1921-2009) - l'ultima Musa del grande poeta - fu ai tavolini del caffè «Le Giubbe rosse», a Firenze. S'incrociarono, ma niente di più. Poi, molti anni dopo, si risentirono e si rincontrarono ad Atene, in un'accesa primavera greca del 1962, lui già poeta celebrato, lei artista in ascesa. Il mito, il Fato, la Bellezza. L'Amore? In quel momento Montale, è già Montale, anche se da La bufera e le prose della Farfalla di Dinard è passato parecchio tempo. Il suo mondo è quello della «trasognata solitudine» dell'appartamento milanese di via Bigli. Mancano una dozzina d'anni al Nobel. Lei invece, poetessa e musicista di origine greca (nasce a Calcide nel 1921), traduce i più importanti autori greci in italiano e italiani in greco. Amica di Cristina Campo, collaborerà a lungo con Nelo Risi, ci farà conoscere Kavafis, Seferis, Elytis, Solomos e pubblicherà anche con Vanni Scheiwiller. Hanno 24 anni di differenza. Entrambi legati dalla musica (lei suona il clavicembalo, lui è critico musicale per il Corriere d'Informazione) e fino a oggi, a parte i quattro-cinque amici comuni che spettegolavano sulle loro telefonate, pochi sapevano della loro amitié amoureuse, diciamo così. Fino alla scoperta, poco tempo fa, di un plico di lettere di Montale a Margherita, nella casa della poetessa, in Platia Amerikis, ad Atene, insieme con libri dedicati e quadri a pastello di lui per lei. L'autrice del ritrovamento è la studiosa Alessandra Cenni, la quale ora cura la pubblicazione del suo piccolo tesoro: Eugenio Montale, Divinità in incognito. Lettere a Margherita Dalmati (1956-74) (Archinto, pagg. 108, euro 18). Le lettere sono 42, quasi tutte su carta intestata del Corriere della sera e sono firmate «Eugenio» o, più spesso, «Agenore», mitico re fenicio di Tiro. Non sono state trovate invece le lettere della Dalmati a Montale, il quale come è noto distruggeva tutte le prove delle sue infedeltà, fisiche o illusorie che fossero (più illusorie che fisiche, anche questo è noto). Botta senza Risposta. Sfogliare un carteggio di cui si hanno i testi solo del mittente o del destinatario, e non di entrambi, è come applaudire con una mano sola. Ma il risultato, nel caso specifico, è uno spettacolo. Montale è il miglior Montale che conosciamo. Cinico, pettegolo, curioso, sinuoso, ironico, giornalisticamente egoista (gli capitava di chiedere ad amici e amiche di buttargli giù i pezzi che poi firmava sul Corriere, ma era un vezzo più che un vizio...). La prime tre lettere, un preludio, risalgono al 1956-57. Sono brevi e formali: si danno del «Lei». Il vero carteggio inizia nell'aprile 1962, quando sono già passati al «tu», e lui le annuncia che sta per arrivare in Grecia insieme con Drusilla Tanzi (la «Mosca», già gravemente malata: Montale la sposerà a luglio, l'anno dopo lei verrà a mancare). A maggio «Agenore» confessa a margherita di volerle bene, di volerla sentire «almeno per un giorno, una notte intera, mia, tutta mia»: «Ti voglio bene, Maria Nike, ti amo (sono vent'anni che non scrivo una simile parola)». Le chiede una foto e le raccomanda, come farà altre volte negli anni successivi, di spedire le lettere alla redazione di via Solferino, e non a casa, per non ingelosire prima la moglie e poi la fedelissima e altrettanto gelosa governante, la «Gina». «Io sono fedele per costituzione, anche se mi sono innamorato tre o quattro volte in vita mia (solo i morti non lo fanno) - le scrive il 22 maggio 1962 - ma ora è davvero l'ultima volta ed anche se è l'ultima è la più preziosa e mi fa camminare un centimetro più alto del suolo». E a giugno: «Io ti posso dire soltanto che vivo con te ogni minuto e che la mia sofferenza mi aiuta a vivere. La crisi erotica (!) dei 50 anni l'ho avuta, quella (meno ridicola) dei 38 anni l'ho avuta pure, ma ora tutto mi pare diverso, più incorruttibile, anche se non si svolge nella stratosfera e accende furiosamente il mio sangue». Per il resto, al netto dei baci offerti e richiesti, le lettere montaliane traboccano di note a margine del suo noioso lavoro di redazione e di critico («La Scala è un grosso teatro inutile, incapace di formare artisti e legato a un repertorio che ormai sappiamo a memoria. Si spendono due milioni all'anno - scrive nel '62 - che vanno in tasca a registi e scenografi inutili»). Richieste di «informazioni» per pezzi e traduzioni (il poeta le confessa diversi plagi da notizie avute da lei e articoli rubati). Pourparler («Ho viaggiato in aereo con la Callas, forse domani vado a risentirla nella Medea: dicono che sia giù di voce»).  Riferimenti a intellettuali del tempo: Giansiro Ferrata che sta per giungere ad Atene «con altri membri più o meno loschi della Comes nonché scrittori ex fascisti, comunisteggianti, lui personalmente è un buon ragazzo (55 anni), figlio di un pazzo morto suicida...», e Giorgio Zampa, che lo perseguita con la sua filologia!, e Silone, «degnissimo uomo»..., e Mimy Piovene che quando muore la Mosca gli telefona dicendo «Abbiamo anche noi la nostra grave disgrazia: è morto il nostro cane!». E gli insopportabili impegni mondani, tra servizi fotografici, premi e interviste: «Mi sembra di esser «un Bardot letterario». E non aveva ancora vinto il Nobel...

·        Ezra Pound.

Davide Brullo per “il Giornale” il 30 agosto 2021. Il sigillo, l'anello nuziale, diciamo così, è una pubblicazione del 1956: Ezra Pound compila un omaggio alla sua musa, La Martinelli. Il libretto è edito da Vanni Scheiwiller in 500 copie, è una rarità bibliografica: si trova in pochissime biblioteche Roma, Milano, Firenze, Genova e su ebay costa quasi mille euro. Il libro sta in tasca, conta 30 pagine, e riproduce opere «che a Scheiwiller parevano insignificanti», mi dice Massimo Bacigalupo. Eppure, quel libro è la serratura attraverso cui accedere a una storia entusiasmante. La Martinelli, in realtà, si chiamava Shirley Burns Brennan, nata a Philadelphia il 17 gennaio del 1918, la più vecchia di quattro figli di un cattolico irlandese perennemente alcolizzato. Sheri era il nome d'arte, Martinelli il cognome del marito, Ezio Martinelli, scalognato pittore italoamericano cornificato dalla moglie con estatica felicità. «Non sai in quanti vogliono venire a letto con me», scrive lei a Charles Bukowski, uno dei notevoli amanti (le lettere tra Sheri e Chinaski sono pubblicate in Beerspit Night and Cursing, 2001). Tutti desideravano Sheri, pittrice disinibita che cercava fama a New York, protetta da Anaïs Nin, idolatrata, tra gli altri, da Marlon Brando, William Gaddis e Rod Steiger, confidente di Charlie Parker. Sentì parlare di Pound, il poeta pazzo recluso al St. Elizabeths, da Allen Ginsberg: lo preferì a quell'orda di ammiratori, li dividevano 33 anni. La vita sentimentale di Ez era piuttosto complicata. Nel 1914 sposa Dorothy Shakespear, per un periodo si accoppia con Hilda Doolittle (che non disdegnava i rapporti saffici e fu intima di D. H. Lawrence), poi incontra la violinista Olga Rudge, che diventa l'amata e da cui ha una figlia, Mary de Rachewiltz. In mezzo, ci si mette Marcella Spann, «giovane e ingenua insegnante di inglese, veniva da una minuscola cittadina del Texas» (John Tytell, Ezra Pound: The Solitary Volcano, 1987), che diventa la sua viziosa segretaria. Proprio lei offre a noi inguaribili guardoni uno squarcio sulla vita passionale di Pound. «Vedendo Sheri camminare nel parco, salta sulla sedia, corre a salutarla, la afferra con un energico abbraccio». È il 1952, sono gli anni più duri per Pound. «La Martinelli è l'unica persona che abbia incontrato che riesca a reggere una conversazione con me», scrive. Concetto che ribadisce in termini laconici a una fan londinese, Ingrid Davies, «La Martinelli è un atto di Dio». Lei, Sheri, all'amico Bukowski precisa in altro modo: «Sai, mi ha letto Dante, Villon, Guanzi, Ovidio & un mucchio di altre cose & mi ha sedotto mentre leggeva & con una mano mi toccava le tette & con l'altra sfogliava le Metamorfosi di Ovidio». Sheri Martinelli, creatura fatua e fantomatica, era lì per Ezra Pound, lo scandalo vivente, grumo di livida cotenna antiamericana. E Pound, pervertito dalla sua bellezza, «assolutamente deliziato dalla Martinelli, e gioiosamente innamorato di lei per un po' di tempo» (A. David Moody in Ezra Pound: Poet. The Tragic Years 1939-1972, 2015), costringeva la moglie Dorothy a stipendiare le gite dell'amante: «quando andava a Washington per stare al fianco di Pound erano 35 dollari al mese per l'affitto dell'appartamento, una volta ne tirò fuori 200 per pagarle il trattamento dentale». L'amore per Sheri, questo c'importa, grava sui Cantos, il catastrofico capolavoro di Pound. «Sheri era un po' maga e strega... dobbiamo probabilmente alla sua salutare follia i canti più belli scritti da Pound in ospedale psichiatrico, 90-95, la seconda parte della sezione Rock-Drill», mi dice Bacigalupo. Proprio lì, in versi tellurici e dolcissimi, Pound eterna La Martinelli: «dal mucchio di rottami/ m' elevasti/ dall'ottuso limite al di là del dolore/ m' elevasti/ dall'Erebo profondo/ dal turbine sotto terra/ m' elevasti/ dall'aere morto e dalla polvere/ m' elevasti/ al grande volo/ m' elevasti». Il refrain m' elevasti, citato in italiano, si lega al Primo del Paradiso dantesco, quando il Poeta racconta il viaggio superceleste compiuto grazie alla benedizione di Beatrice. Con furore lirico Pound fa di Sheri la sua personalissima Beatrice. Sheri custodì gelosamente i ricordi poundiani. Il primo novembre del 1972 viene visitata da «un vento cattivo, che annuncia la fine di qualcosa di sacro». Il giorno dopo, leggendo i giornali, scopre che Pound è morto. Fu la prima delle sue tante morti. Nel 1977 donò alla Beinecke, la biblioteca di Yale, il suo patrimonio di lettere, documenti, fotografie. Cercò di dimenticarsi. «Dimostra, nella pittura come nella ceramica, il prodigio che tento nella mia scrittura», scrisse di lei Pound. Archibald MacLeish, potentissimo intellettuale americano, più volte Premio Pulitzer, acquistava, tramite Ezra, le opere di Sheri: «Uno dei ricordi più vividi che ho di Pound al St. Elizabeths è la sua eccitazione mentre mi mostra alcune riproduzioni fotografiche dei lavori di una giovane artista, Sheri Martinelli». Sheri, la divina, morì il 3 novembre del 1996. Abitava in un camper. Le piaceva sostare nel parcheggio dei supermercati; contemplava il traffico umano. Civiltà che vengono e vanno, umanità che passa da un gorgo infernale all'altro. I Cantos squadernati davanti al suo sguardo. Qualche mese prima, quello stesso anno, era morta Olga Rudge.

Ezra Pound e la Liguria: amore, cultura e follia.  Alberto Rosselli il 31 Agosto 2021 su cultura ed identità.it su Il Giornale. Quando, nel 1958, Ezra Pound (Halley, 1885 – Venezia, 1972) sbarca a Genova molto è cambiato dal suo ultimo soggiorno in Liguria di prima della guerra. Ad accogliere la «scheggia impazzita» della lirica contemporanea, il propugnatore del «verso libero», lo scopritore, editore e sponsor di letterati del calibro di William B. Yeats, Thomas S. Eliot, James Joyce, Ernest Hemingway, David H. Lawrence, ma anche l’ex sostenitore di Mussolini, non è una folla plaudente, ma un funzionario del consolato americano, un paio di carabinieri e pochi amici rapallesi. Molto tempo è passato dalla prima volta che Pound, nel 1925, giunse nella sua «amata Rapallo» dove dimorò, mettendo anche su famiglia, fino al 1945, attratto sia dalla bellezza del luogo che dal suo interesse per la poesia sperimentale e per la politica fascista, l’unica, a parer suo, capace di concretizzare il sistema sociale perfetto da lui teorizzato, e cioè quello ispirato al «socialismo corporativista» di Clifford H. Douglas. Ma il Pound che mette piede nella Stazione Marittima di Genova non è più lo stesso. Le sue spiccate simpatie nei confronti del Duce e il suo impegno politico – venato da un antisemitismo (di cui in seguito si pentirà) che si rifà non certo ad uno specifico odio razziale, ma ad un’ostilità verso «le potenti lobbies finanziarie ebraiche che tanti danni hanno causato all’Europa» – lo hanno segnato nel profondo, oltre che macchiato sotto il profilo ideologico. Non a caso egli giunge dagli Stati Uniti come ex prigioniero affetto da «gravi disturbi psichici». Dopo la condanna per tradimento comminata nel 1943 dal tribunale del distretto di Columbia per i suoi discorsi alla radio di Roma, l’America lo considera, nonostante i suoi innumerevoli ed indiscutibili meriti artistici, un pericoloso e testardo reietto. Il suo arrivo in Liguria passa perciò sotto silenzio, anche perché la città e l’Italia intera stanno vivendo un periodo di frenetico sviluppo, di ottimismo e di distrazione, caratterizzato dalla diffusione dei beni di largo consumo, come gli elettrodomestici, l’automobile e i juke-box. Presso i rinati cantieri Ansaldo di Sestri Ponente viene varata l’elegante e modernissima turbonave passeggeri Leonardo da Vinci, simbolo della rinascita amatoriale nazionale, mentre da Ricordi si possono acquistare i primi mangiadischi, e nell’umido centro storico, ancora segnato dalle bombe, le tenutarie si apprestano a chiudere mestamente bottega in seguito all’entrata in vigore della Legge Merlin. Pound, arrestato il 2 maggio 1945 a Chiavari, non è mai stato processato regolarmente, ma nel 1946, in America, è stato dichiarato infermo di mente al termine di un colloquio di quattro ore con un gruppo di psichiatri che – non riuscendo a comprendere le sue complesse posizioni politiche – lo internano per 12 anni nel manicomio criminale di Saint Elizabeth, alla periferia di Washington. La prigionia del poeta indigna però gran parte del mondo della cultura internazionale che si mobilita per cercare di aiutarlo. Nel 1949, gli viene assegnato il premio Bollingen per la poesia e nove anni più tardi, anche in seguito alle ripetute sollecitazioni di scrittori e poeti di primo piano, gli viene concesso di tornare (a bordo della Cristoforo Colombo, gemella della più tristemente celebre Andrea Doria) in Italia, nella sua amata Liguria e, soprattutto, a Rapallo, dove ha forse trascorso i momenti più intensi della sua vita, e a Zoagli, località che attrasse ed ispirò anche altri famosi «turisti» stranieri, come Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud e il già citato Yeats. Nella prima metà degli anni Trenta, Pound si era stabilito «nella perla del Levante» ch’egli aveva in mente di trasformare in «capitale della cultura europea». Si circondò di un cenacolo di artisti stranieri e italiani e collaborò, tra il 1930 e il 1932, con riviste, tra cui «L’Indice» di Genova, diretta da Gino Saviotti. Nel 1933, incontrò Mussolini ed organizzò, sempre a Rapallo, una brillante stagione concertistica con musiche di Corelli, Bach, Debussy, Ravel e Vivaldi (autore ch’egli seppe far riscoprire agli Italiani). Dopo una breve visita a Londra, compiuta nel 1938 in seguito alla morte della suocera, Olivia Shakespear, nel 1939 tornò negli Stati Uniti per tentare di convincere (invano) il Presidente Roosevelt ad evitare il conflitto tra Stati Uniti e Italia. Sempre lo stesso anno l’Hamilton College conferì la laurea «honoris causa» a Pound che, tuttavia, scelse di rientrare in Liguria e poi a Roma dove lavorò per l’Eiar dai cui microfoni accusò Roosevelt di avere iniziato una nuova «guerra dei trent’anni» e di essere un filo-stalinista. Nel 1945, dal suo eremo dorato di Rapallo assistette al tracollo della Repubblica Sociale Italiana e subito dopo si presentò spontaneamente al comando delle forze Usa di Chiavari (anche se alcuni sostengono che sia stato arrestato dai membri di una banda partigiana). Venne internato prima a Genova e successivamente nel campo di concentramento di Metato (Pisa), dove iniziò a comporre i Canti pisani (opera alla quale si ispireranno Allen Ginsberg ed altri poeti della «beat generation»), per poi essere trasferito in manette negli States. Poi, il carcere e il suo ultimo espatrio del 1958 in Italia, dove rimarrà fino alla morte. Nel 1962, dopo un paio di ricoveri ospedalieri a Roma e a Merano, si stabilì nuovamente nel Levante, a Sant’Ambrogio (Rapallo), in compagnia della violinista Olga Rudge che, assieme alla legittima moglie, l’artista Dorothy Shakespear, amò il poeta fino alla sua scomparsa che avverrà il 1° novembre 1972 a Venezia.

Alberto Rosselli. Giornalista e saggista storico che ha collaborato e collabora da tempo con numerosi quotidiani italiani ed esteri e con diversi siti internet tematici di storia, etnologia, storia militare e diplomatica, storia delle religioni e geopolitica. Rosselli ha al suo attivo alcune opere di narrativa e svariati saggi. Attualmente Alberto Rosselli è Direttore responsabile della Rivista Storia Verità (storiaverita.org).

·        Fabrizio De Andrè.

Antonio Lodetti per “il Giornale” il 23 aprile 2021. Ma i cantautori sono poeti? L' annosa questione è ormai dibattuta da anni attraverso diverse correnti di pensiero e ha investito tutti i più profondi cantautori, da Bob Dylan a Fabrizio De Andrè. In Italia è proprio Faber ad accendere il dibattito, soprattutto per i collegamenti poetici e letterari legati alle sue composizioni. Per questo La Nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi ha deciso di ripubblicare i libri dedicati al cantautore - in collaborazione con la Onlus seguita da Dori Ghezzi. Si parte da Accordi eretici, originariamente pubblicato nel 1997 e da Volammo davvero del 2007, curato da Elena Valdini (che è anche curatrice della Onlus) con postfazione di Dario Fo. I riferimenti poetici e letterari di De Andrè sono infiniti quanto la sua fantasia nel creare nuovi modelli estetici. Non copiava, come facevano altri, ma elaborava, smussava, scandagliava nel mondo della cultura e della letteratura e della poesia. Uno dei casi più eclatanti è Amore che vieni amore che vai (che uscì come lato b del singolo Geordie, antica ballata folk inglese rielaborata con testo italiano, per dimostrare anch' essa la versatilità di Fabrizio) con la frase «Io t' ho amato sempre / non t' ho amato mai» riprende liberamente il carme 5 del Liber di Catullo. Colto e onnivoro manipolatore di parole, affabulatore nichilista, Faber si è sempre ispirato a qualcosa che l' ha toccato nel fondo per creare i suoi capolavori. Ispirazioni sia sacre che profane ma sempre e ineluttabilmente «alte». Già a partire dal primo album, con Preghiera in gennaio, dedicata a Luigi Tenco e ispirata alla provocatoria poesia di Francis Jammes Preghiera per andare in Paradiso con gli asini; ma anche nella celeberrima Bocca di rosa c' è una citazione - del tutto lontana da questa - di un aforisma di Oscar Wilde: «si sa che la gente dà buoni consigli / se non può più dare cattivo esempio». Nella sua opera ci sono anche versioni moderne di sonetti o poesie come S 'i' fosse foco, ripresa direttamente dall' opera di Cecco Angiolieri. Non possono certo mancare i poeti maudit francesi, soprattutto Rimbaud, che ispira con la sua Le dormeux de val la celeberrima Guerra di Piero e Baudelaire il cui fascino nichilista si sente in Morire per delle idee e La ballata dell' amore cieco. Quanta poesia ne La buona novella, direttamente ispirata dai Vangeli apocrifi ma non solo, perché nella cocente resa del dolore di Maria in Tre madri c' è un ampio riferimento a Jacopone da Todi. I riferimenti di Fabrizio sono immensi e completamente diversi tra loro e si srotolano lungo i suoi dischi. Così Non al denaro non all' amore né al cielo è un peana - fatto di ballate commoventi e realiste - come Il suonatore Jones e Dormono sulla collina ai personaggi dell' Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Tra i cantautori Faber ha molto amato Leonard Cohen (due personalità affini, tra le altre faber citerà la sua Seems So Long Ago, Nancy) e soprattutto George Brassens di cui ha ripreso alcuni brani come il cinico Il gorilla e Nella mia ora di libertà. Mentre tutto l' album Storia di un impiegato (che contiene queste due ultime canzoni e la deflagrante Il bombarolo, tanto cara ai giovani rivoluzionari) è liberamente ispirato a La centrale idroelettrica di Bretska di Evtusenko. Non poteva mancare il maestro Dylan cui Faber ruba uno dei brani più cinici e surreali (insieme a Francesco De Gregori, con cui scriverà anche Canzone per l' estate) trasformando Desolation Row nella poetica e tetra Via della povertà e poi (con l' aiuto di Massimo Bubola, reinventa la countreggiante Romance In Durango in Avventura a Durango. Non mancano certo nel suo repertorio le citazioni del folklore e della cultura popolare, come accade in brani che vanno da Volta la carta ad Ave Maria, che riprende un canto folk sardo ed è stata scritta dopo il rapimento di Fabrizio e Dori, senza parlare dell' intero album-capolavoro Creuza de ma. Insomma leggendo questi volumi e riascoltando queste canzoni si trova la complicata e geniale anima artistica e umana di Fabrizio, quel suo fustigare, amare, odiare, soffrire e ricordare al mondo intero che «tutti morimmo a stento».

·        Federico Palmaroli.

Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2021. È il Raffaello del meme, ma il paragone lo irrita: «No, guardi, i miei sono fotoromanzi, come quelli di Grand Hôtel .Sintetici: una sola scena». Per fare satira, a Federico Palmaroli basta un'immagine. Sopra ci scrive in negativo, con il font Franklin gothic, dialoghi surreali in romanesco, l'idioma del popolo che da 2.774 anni dà del tu al potere. Il risultato è esilarante, talvolta profetico. Il presidente Sergio Mattarella a Mario Draghi durante la cerimonia di congedo dalla Bce: «Te posso chiamà se me serve 'n premier ar volo?». Giuseppe Conte, in mascherina, riceve Silvia Romano strappata alla prigione jihadista: «Sei riuscita a vedelle le mie dirette?». Lo stesso premier, a Brexit consumata, al numero 10 di Downing Street con il portone chiuso: «Me sa che so usciti». Vito Crimi al computer, dopo aver rimpiazzato Di Maio alla guida del M5S, si rivolge alla segretaria: «Che per caso te ricordi che programma usava Luigi pe eliminà la povertà?». Palmaroli vede ciò che è sotto gli occhi di tutti ma che nessuno coglie appieno: il lato comico della politica. Ha cominciato nel 2015 su Facebook con «Le più belle frasi di Osho», arrivando a 1,1 milioni di follower, fino a quando uno studio legale di Londra non gli ha ingiunto, per conto della Osho international foundation, di rimuovere la foto del mistico indiano morto nel 1990. Ha debordato su Twitter, catturando 430.000 seguaci. Ora spopola con una fotovignetta quotidiana sulla prima pagina del Tempo e con almeno due per «Porta a porta», reclutato da Bruno Vespa in persona. Sparita la caricatura di Osho Rajneesh che campeggiava sulle copertine dei suoi primi libri, Palmaroli ha calciato lungo con "Vedi de fa poco 'o spiritoso" (Rizzoli), affidandosi al volto corrucciato di un ormai ex, Conte, con la mano destra minacciosamente protesa verso il lettore. Il premier ci prendeva le misure? «Il gesto io l'ho interpretato come un "Vedi de abbassà le penne"». «O ti sistemo».

Si sentiva un semidio.

«Un pochettino. Un uomo solo al comando, incoronato dalla pandemia».

Che voto gli darebbe in pagella?

«Sei e mezzo. Ha commesso tanti errori. Ma non so chi avrebbe fatto meglio».

Lo rivedremo?

«Se dovesse accadere, mi calerebbe parecchio. Alla caduta del governo gialloverde disse che la sua esperienza in politica sarebbe finita lì. Invece ha fatto il Conte 2 ed era pronto al Conte 3, 4, 5... Anche 15. Una volta che lo tocchi con le tue manine, il potere fatichi a mollarlo».

Nel caso, tornerà con Rocco Casalino?

«Penso proprio di sì. Sono una coppia indissolubile, come Ric e Gian».

Su Draghi la vedo un po' in difficoltà.

«Ancora devo inquadrarne l'espressività. Con le mascherine è più difficile».

Da dove viene questa vena creativa?

«Sono cintura nera di luoghi comuni».

Quindi è un luogocomunista?

«No, per carità! È che fin da ragazzo annotavo le frasi fatte di mia madre».

Me ne dica una. «All'arrivo del temporale: "Meno male che me so ricordata de ritirà li panni". Oppure: "Lassa perde', so sempre raggi". Piuttosto di farmi sottoporre a una radiografia, mi lasciava con il braccio rotto».

Quante vignette deve postare per pasturare l'orda famelica su Facebook?

«Almeno una decina a settimana».

Non rimpiange l'epoca senza i social?

«No. Sono un mezzo per esprimermi. Però a volte mi sento uno schiavo».

 Anche palestre di odio che danno la parola a chi non ha nulla da dire.

«Sicuramente. Può arrivargli la Digos a casa, ma i supporter dei politici continuano a insultarti a tutto spiano».

Però le hanno fatto vincere il premio Satira Forte dei Marmi con Fiorello, Ficarra & Picone e «Le Canard enchaîné».

«Sì, ma la mattina in cui andavo a ritirarlo Facebook mi ha tolto il profilo personale su pressione della Osho foundation. E poche settimane fa mi ha oscurato un'altra volta per qualche ora».

Perché prendersela con Rajneesh?

«Tutti mi credono un ex sannyasin, un seguace pentito. Manco ce so mai annato, in India. L'ho scelto per la mimica facciale, molto adatta al romanesco. Usavo una sua foto con la mano a mezz' aria, come se dicesse: "Pare che j' ho detto cotica", cioè "Mica lo sto insultando"».

Ma le vere frasi di Osho le conosce?

«Qualcosa ho letto. Che te posso dì? Le trovo banalotte. Ne ricordo una che suona pressappoco così: "Se ti lascia una donna, perché soffrire? Ritorni nella situazione in cui ti trovavi prima, quando non ce l'avevi". Sì, vabbè, grazie ar c...!».

«Parlare è la grande malattia di questo secolo», spiegava il santone indiano.

«Che vor dì? Vale anche il contrario. Tacere spesso genera incomprensioni. Comunque un ragazzo italiano mi mandò una foto dall'India in cui si vedeva un cartello con questa mia frase appesa all'ingresso di un resort intitolato a Osho: "Ciò che non ti uccide, te rompe li cojoni". La tradusse in inglese agli adepti. Scoppiarono a ridere. E la tolsero».

Se lavorasse per «Charlie Hedbo», farebbe una fotovignetta su Maometto?

«Sì, perché sono nemico del politicamente corretto. Però quel tipo di umorismo non mi fa ridere. Mi fermo soltanto davanti alla morte e alla malattia».

Da dove trae l'ispirazione?

«Vado a naso. Il ministro Speranza richiude le piste da sci? Io apro Google immagini. Digito una stringa ad minchiam: "Speranza sci". Gli algoritmi qualcosa restituiscono. Ma il mio vero pusher è l'agenzia LaPresse, dalla quale posso scaricare le foto che uso per Il Tempo».

Quanto ci mette a fare la fotovignetta?

«Da 3 minuti a un'ora. Mi capita di volgere lo sguardo all'estero, sempre tenendo la testa a Roma. Donald Trump non se ne voleva andare dalla Casa Bianca. Ho pigliato un'immagine con Melania e l'ho fatto parlare come un inquilino moroso dell'Ater: "M' ha detto un mio amico vigile che se dentro casa ce mettemo 'n anziano nun ce possono caccià via". Gli sfrattati s' immedesimano subito».

Come riesce a capire se farà ridere?

«Ho i tester. Uno è Claudio De Nicola, procuratore di calciatori e proprietario del Pan Bernardo, locale nei paraggi del Quirinale. Un'altra era una giornalista. Non mi chieda dove lavora, non lo dico».

Perché tanta riservatezza?

«Era la mia fidanzata. Ci siamo lasciati pochi mesi fa. Sa, andando avanti con l'età, in amore mi scopro già guasto».

Traduca.

«Aumenta la predisposizione naturale a diventare prigioniero dei miei impicci mentali. La prima morosa durò cinque anni, ma allora ero un ragazzo. Le altre in media non resistono più di quattro».

Quante ne ha avute?

«Di storie spaccacuore? Quattro».

Come giustifica questa incostanza?

«Detesto la perfezione. Mi trovo bene solo con asimmetrici e scapigliati. Non ho mai viaggiato su binari dritti. In amore capitombolo a 100 chilometri orari».

Su 134 foto del suo nuovo libro, ben 97 ritraggono politici. Perché sono divenuti così onnipresenti nelle nostre vite?

«I social hanno accorciato la distanza fra Palazzo e cittadino. Può essere un bene. A patto che i parlamentari si ricordino che rappresentano le istituzioni».

Come prendono la sue battute?

«Si divertono. Il portavoce Filippo Sensi, un mio fan, volle conoscermi. A Palazzo Chigi mi presentò Paolo Gentiloni. Quel premier sì che era tanta roba, me dava un sacco de soddisfazioni. Matteo Salvini l'ho conosciuto alla processione con la Macchina di santa Rosa a Viterbo e mi ha riempito di lodi».

Chi le chiede le fotovignette originali?

«Domenico Arcuri. Tipo autoironico».

Il più divertente?

«Il ministro Giovanni Tria quando andava a Bruxelles a prendere schiaffoni dal commissario Pierre Moscovici».

Sbaglio o picchia duro sui grillini?

«Non è colpa mia se fanno le capriole. Le contraddizioni generano la satira». Da quanto tempo segue la politica? «Avevo i calzoni corti. Mi bevevo persino le "Tribune politiche" con Ugo Zatterin. E adoravo "Mixer" di Giovanni Minoli».

Ha cambiato spesso idea?

«No. Stimavo Giorgio Almirante. Anche Gianfranco Fini, prima che diventasse liberista con la Svolta di Fiuggi».

Ecco perché passa per fascista.

«Non ho mai avuto la tessera del Msi. Mi identifico con la destra sociale».

Ora si spiega la sua presa in giro di Virginia Raggi «vicina a chi ha perso un lavoro in nero a causa del lockdown», con la battuta: «Pensa qui i pori zingarelli rimasti senza passeggeri da derubà». «Non le dico quanti improperi ho ricevuto. Che qualche nomade salga sui mezzi pubblici per dedicarsi al borseggio mi pare un'evidenza statistica».

Non ha mai beccato querele?

«Per adesso no».

Il principe Harry a Meghan mentre lasciano per sempre la casa reale: «Me sò 'nculato l'accappatoi». Ammetterà che il suo humour non è molto british.

«E chi ha mai sostenuto il contrario? Però non frego accappatoi negli hotel: solo ciabattine e quarche sciampetto».

Papa Francesco a piedi a Roma in una via del Corso deserta per il lockdown: «Provo 'n attimo a vedè se tante vorte è aperto Zara». Scherza con i fanti e lascia stare i santi, non gliel'hanno insegnato?

«No. Più il soggetto è alto per autorevolezza e più funziona il crash con il linguaggio del volgo. Non è blasfemia».

Che cosa c'è nel suo futuro?

«Ho scritto una sit-com in 10 puntate, prodotta da Simona Ercolani. Il protagonista è un povero cristo, un Osho alla vaccinara. Forse lo vedremo sulla Rai».

Le sembrano tempi da ridere, questi?

«Aldo Palazzeschi nel Controdolore scrive che devi entrare nel tunnel del dolore per uscire nella luce della risata».

·        Federico Sanguineti.

Paolo Di Stefano per il ''Corriere della Sera'' il 30 dicembre 2020. Per raggiungere Federico Sanguineti basta andare su Facebook, dove sotto la sua fotografia con cilindro nero un po’ buffonesco troverete il suo motto: «La vita è un partorirsi quotidiano». Tutto con lui assume un carattere stralunato e insieme puntuale fino alla pignoleria, un continuo pendolarismo tra poesia comico-burlesca e filologia. Filologia italiana è la disciplina che Sanguineti insegna a Salerno da diversi anni, con un occhio particolare a Dante, suo cavallo di battaglia sin dagli Anni 80, e tanto più da quando nel 2001 pubblicò una edizione critica della Commedia che fece scalpore. Dopo la famosa edizione di Giorgio Petrocchi (1966-67), che definiva il corpus di manoscritti più importante nella cosiddetta «antica vulgata», cioè nei 30 codici anteriori a Boccaccio, Sanguineti riprendeva in considerazione i seicento manoscritti non frammentari, arrivando a considerare validi per la ricostruzione del testo sette soli testimoni. Tra questi, identificava il più autorevole nell’Urbinate 366, di colore linguistico emiliano-romagnolo. Ne nacquero adesioni entusiastiche (per esempio da Maria Corti) e serie obiezioni, come quella di Cesare Segre. Il quale esprimeva le sue perplessità sui tratti linguistici anti-fiorentini dell’edizione. Sanguineti ha continuato a lavorare ed è giunto, con gli anni, a nuove e diverse acquisizioni. Nel 2018, per il Melangolo, con la collaborazione di Eleonisia Mandola, è uscito un Paradiso e di recente un Inferno, basati sul «più antico codice di sicura fiorentinità». Che, a differenza di quel che si è creduto per lungo tempo, non sarebbe il celebre Trivulziano 1080, datato 1337. Il fatto è che se dal punto di vista linguistico i codici settentrionali sono poco affidabili, perché hanno una patina estranea all’originale (ovviamente fiorentino), sul piano testuale, essendo il frutto della prima diffusione del poema, avvenuta al Nord, sono meno corrotti. Entrano dunque in gioco due manoscritti fiorentini che, secondo i nuovi studi, sarebbero più antichi del Trivulziano, un Parmense 3285 e, in primis, il Pluteo XL 12 conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze). Ambedue collocabili tra il 1325 e il 1334. È inutile dire che ci sono schiere di dantisti dediti a edizioni alternative che sono in parziale o totale disaccordo con le ipotesi di Sanguineti (Paolo Trovato, Giorgio Inglese e Enrico Malato). Ed è Sanguineti, oggi, il nostro interlocutore. Figlio di Edoardo, il celebre poeta, teorico della neoavanguardia, critico e dantista, Federico non esita a dichiarare le sue riserve sull’andazzo della filologia dantesca (e non solo). E non gli manca l’ironia.

«I colleghi filologi — dice — sanno tutto, come i virologi, ma la verità è che non ne sappiamo quasi nulla della Commedia e che l’atteggiamento critico migliore del filologo, come quello del virologo, sarebbe la prudenza».

Invece?

«Come diceva il grande filologo Giuseppe Billanovich, molti fanno le edizioni critiche col pallottoliere... Anziché fare un riesame della tradizione, si prende una vecchia edizione, come quella del Petrocchi, e si “corregge” un po’ qua e un po’ là. La reazione che provo è un misto di malinconia e di indignazione».

Ma a cosa serve stare a rompersi la testa per anni su un’edizione critica della «Commedia»?

«Serve a dimostrare ciò che pare ovvio, ma che solo recentemente Giovanna Frosini ha espresso con chiarezza, affermando che il testo di Dante ci è stato trasmesso alterato “fino a divenire inattingibile nella sua verità ultima”. In una edizione critica si ha un’ipotesi di lavoro che, se onestamente condotta, dà la misura di quanto approssimata sia la nostra conoscenza del testo. Il lavoro di Mandola sul Paradiso rappresenta il miglior risultato oggi possibile ed è interessantissimo che, pur con metodo completamente diverso, confermi al 99% il risultato di Petrocchi, un gigante sulle cui spalle ancora si arrampicano molti nani».

In quell’uno per cento cosa c’è?

«Le faccio un solo esempio dal VI dell’Inferno, dove incontriamo Cerbero con la “barba unta e atra”. La famiglia di manoscritti Beta porta una lezione diversa: non barba ma “bocca unta e atra”. Nelle miniature più antiche Cerbero è raffigurato senza barba, e mi chiedo perché mai Dante avrebbe dovuto inventarsi la barba. Tra l’altro, la traduzione francese dell’Eneide, l’Eneas, riporta l’equivalente della “bocca unta e atra”. Non possiamo lasciare Dante in mano agli accademici che vogliono solo avere ragione».

E le varianti fonetiche, oltre alla «selva oscura» che diventa «scura»?

«Ce ne sono alcune significative come “novicento” al posto di “novecento”, “elza” (della spada) al posto di “elsa” o “nessuno” al posto di “neuno”, tutte forme riconducibili al tempo di Dante».

Anche quello del 2001 era il solo risultato allora possibile?

«Oggi tutti mi inchiodano all’edizione del 2001, anche se sono passati vent’anni. Lo definiscono un lavoro coraggioso, ma io ho continuato a lavorare. Ignorano l’edizione del Paradiso e quella dell’Inferno: il silenzio più assoluto, non ne accennano neanche per dire che è una schifezza. In vent’anni è cambiato molto».

Per esempio, la questione del colorito linguistico?

«Ormai i codicologi, i paleografi, gli storici delle miniature hanno dimostrato che il Trivulziano 1080 non è il più antico codice fiorentino. Sappiamo che il Maestro delle Effigi Domenicane ha miniato cinque manoscritti della Commedia e il Trivulziano è il quarto. Prima vengono sicuramente il Pluteo e il Parmense: dunque, per l’aspetto linguistico sono questi i due più autorevoli. Oggi sappiamo questo, poi magari domani sapremo un’altra cosa… Ma i filologi fingono di ignorare tutto».

Sembra che il tasso di litigiosità sia altissimo. Lei su Dante ha polemizzato anche con suo padre.

«Nell’89 a Salerno chiesi di partecipare a un convegno e intervenni con una relazione su Sanguineti dantista: contestai a mio padre l’idea di un Dante reazionario e il parallelo con Pound. Fu uno scandalo».

Non ha mai avuto il mito di suo padre?

«No, mai. Il che non mi impedisce di riconoscere la sua importanza... Importanza relativa, però. Se guardo al Novecento italiano dove il sole della cultura ha in fondo avuto un volo piuttosto basso, come direbbe Karl Kraus, mio padre mi pare un gigante. Il discorso cambia se mi pongo in un’ottica che supera i confini nazionali: allora noto i limiti dell’opera rispetto, poniamo, a Brecht o Lukács».

Eppure, è stato un faro per tanti della sua generazione.

«C’è gente che vanta mio padre senza aver letto una riga. Poi mi viene in mente il nome di uno scrittore del Settecento e dico: sì mio padre è importante come Aurelio de’ Giorgi Bertola, che oggi nessuno conosce... D’altra parte, Berio mi diceva: tuo padre è Dante».

Lo pensava davvero?

«Lo diceva un po’ per gioco un po’ per non morire. Berio era molto spiritoso: nell’ambiente frequentato da mio padre c’era un grande divertimento, inimmaginabile oggi: ho vissuto l’infanzia circondato dalla gioia di vivere, poi erano persone anche complicate, con le loro depressioni, l’alcol... Io ero affascinato dalla figura di Enrico Filippini. Uno dei racconti più belli del Novecento italiano è L’ultimo viaggio, che mio padre detestava, ma era un limite di mio padre: invece è un racconto sconvolgente, ho i brividi solo a pensarci».

Allora Filippini era il germanista, editor della Feltrinelli...

«Mio padre non esisterebbe senza Filippini, è stato lui a pubblicare il Gruppo 63, lo dico un po’ con l’ingenuità del bambino che vedeva sempre Filippini in casa che corteggiava mia madre scherzando... Una volta con la sua auto sportiva a due porte venne a prendere mio padre per andare a Milano. Mia madre era preoccupata perché Filippini era sempre circondato da belle ragazze, allora infilò in macchina anche me. La sera i due amici erano completamente ubriachi quando si accorsero che era tardi per l’ultimo treno e Filippini si mise a correre in auto per Milano a duecento all’ora salendo anche sui marciapiedi, io mi tenevo con le due mani ai sedili, ero euforico...».

È stata una bella adolescenza?

«Mio padre scriveva poesie per me sin da quando ero nell’utero di mia madre, una di queste diceva: “ti attende il filo spinato, la vespa, la vipera, il nichel”. Tutte le sere, invece dell’Ave Maria sentivo: “ti attende il filo spinato...”. Il mio professore Ugo Dotti, che odiava mio padre, mi diceva: dovresti farti pagare come fanno le modelle con i pittori».

Sua madre sarà stata meno inquietante...

«Il suo motto da sempre era: l’università è piena di cretini, stai tranquillo che c’è posto anche per te…».

Come consiglierebbe di leggere la «Commedia» a scuola?

«Consiglierei di leggere senza commento, che era il consiglio di De Sanctis. Bisogna togliere il mito del capire tutto a ogni costo, presumendo che si sappia già tutto. Non posso ascoltare un concerto di Mozart senza aver letto una monografia sul Don Giovanni? Devo lasciarmi prendere dal piacere, anche se sbaglio e leggendo “Tanto gentile e tanto onesta pare” penso che quella è una puttana… Non fa niente, meglio leggerla comunque, anche senza conoscere l’analisi di Contini».

Legge la narrativa attuale?

«Considero Giuliano Scabia il più grande scrittore vivente, il ciclo di Nane Oca è il Faust del nostro tempo... un Faust il cui protagonista non è Faust ma Wozzeck... Come si fa a non vedere la grandezza di un capolavoro così? È pazzesco che nessuno lo riconosca. È la stessa cosa del Laurenziano Pluto XL 12…».

·        Federico Zeri.

Dario Pappalardo per "Robinson - la Repubblica" il 12 agosto 2021. Nei video su YouTube, Federico Zeri continua a tenere la sua lezione. Non dalla cattedra che non ha mai avuto, ma dalla scrivania della sua Villa di Mentana, tra i marmi e le cartelline di fotografie. Continua a googlare nella sua testa - lo fa da quando il termine ancora non esisteva - a trovare connessioni tra le immagini, tra maestri del colore riconosciuti o pittori anonimi, dimenticati dai documenti. Ci dice ancora che la storia dell'arte è storia e basta: che l'occidente e l'oriente si incrociano di continuo sulle tavole delle icone, tra i polittici dipinti e le sculture degli imperatori. Avverte che solo sviluppando il nostro occhio riusciremo a capire chi siamo. Zeri avrebbe compiuto 100 anni il 12 agosto. Di lui resta un archivio strepitoso - Internet ante litteram - che era già nella sua mente e che oggi è oggetto delle ricerche di studiosi e appassionati nel mondo. Quel patrimonio culturale è stato custodito dalla storica dell'arte Anna Ottani Cavina, che per 14 anni ha diretto la Fondazione Zeri, di cui ora è presidente onoraria, all'università di Bologna. Con il critico e una ristretta cerchia di amici ha condiviso i viaggi e un'amicizia costante, fatta di discrezione: «Ci davamo del lei», dice. Chi era Federico Zeri? «La storia di Federico Zeri è quella di un irregolare di genio. Molti l'hanno conosciuto in tv, ma lui ha vissuto decenni di studio alfieriano fra biblioteche e musei con una sete ossessiva di conoscenza. Si laurea a Roma nel 1945 con Pietro Toesca, guida i soldati americani alla scoperta della capitale, conosce le lingue, la botanica, la chimica ed entra in dialogo con i poli antagonisti della storia dell'arte: Roberto Longhi e Bernard Berenson, che raggiunge a I Tatti, la villa di Fiesole, pedalando sulla bici di Anna Banti». Il più citato nella storia dell'arte italiana del Novecento rimane però Roberto Longhi. «Ma Federico Zeri ha sùbito una dimensione internazionale. Conosce il mondo anglosassone come nessuno in quegli anni: 18 traversate alla volta degli Stati Uniti. Parla e scrive un inglese perfetto. A 36 anni è chiamato dal Metropolitan Museum di New York per costruire il catalogo dei dipinti italiani, quattro volumi. Poi il catalogo della Walters Art Gallery di Baltimora e il Census of Italian Paintings nelle collezioni pubbliche americane. Incrocia elementi di diversa natura - storia, filologia, iconografia - per restituire identità ai dipinti. È il consulente di grandi collezionisti, da Vittorio Cini ad Alessandro Contini Bonacossi, da Luigi Magnani a Gianni Agnelli a Paul J. Paul Getty: la sua connoisseurship diventa strumento di conoscenza storica». Non lavorava per il mercato? «Non aveva piedistalli accademici, era un libero studioso. È stato l'advisor del grande antiquario Daniel Wildenstein. In mezzo alle fotografie di Zeri abbiamo recuperato 323 perizie, battute a macchina su carta termofax, molto lontane da quelle paginette oracolari, ontologiche, cui ci ha abituato il mercato. Ogni perizia, di tre/quattro pagine, ha la densità di un saggio. Zeri sposta l'attribuzione e la data, decifra la scritta, individua l'emblema araldico, coglie gli indizi più labili e nascosti. Uno scavo molto serio per dare nome a un dipinto e ricostruire il tessuto storico. Senza potersi avvalere di Internet, aveva una capacità di connessione straordinaria. Scansionate nel cervello, tutte quelle immagini gli permettevano collegamenti che noi oggi facciamo con il computer». Riguardando i suoi interventi in video appare sicuro nello smascherare i falsi con esiti clamorosi. «Usava parole di spietata precisione, definitive. Nel 1983 sul kouros del Getty, la statua greca ritrovata in sette pezzi che quadravano a perfezione, afferma a gran voce che è un falso. Cacciato dai trustees del museo, otterrà finalmente ragione nel 1990, alla comparsa sul mercato di un secondo kouros gemello. A favore delle telecamere del tg, nel 1984 afferma senza esitazione che le "teste di Modigliani": "So' du' paracarri". La sua capacità di definizione proviene da un lungo processo investigativo e da una conoscenza delle forme e della loro evoluzione in un arco temporale vastissimo. Ma anche da studi incrociati. Persino dalla botanica». La botanica? «Smaschera la cosiddetta Madonna di capitan Cook attribuita a Raffaello, riconoscendo nel dipinto una Cycas revoluta, una palma originaria delle terre oceaniche esplorate da Cook 250 anni dopo la morte di Raffaello. In questo campo la sua conoscenza capillare si saldava a un amore sconfinato per la natura che aveva motivazioni nel mondo antico e pagano, prima che la sacralità del regno vegetale fosse scalzata dall'avanzare del cristianesimo». Era diventato una maschera televisiva, un influencer ante litteram. «I suoi affondi sono impudenti, a volte pittoreschi fra palandrane e jellabah, ma nel segno della denuncia. Conosce le potenzialità del mezzo: "Rispondendo alle buffonate con le buffonate, non ho esitato a travestirmi, ad apparire in scenari assurdi, a costruirmi una personalità che Salvador Dalí, che ho conosciuto di persona, non avrebbe sconfessato"». Non ha scritto molti libri. «"Rimpiango tutti i libri che non ho scritto", diceva. Il suo Pittura e Controriforma è ancora un libro esplosivo, prima risposta italiana agli studi marxisti di Frederick Antal. Ma Zeri è una stella di prima grandezza, al di là dei suoi scritti, dove ha forgiato una lingua scabra e laconica, estranea alla cerchia longhiana: "una lingua elegante, costruita a colpi di rinunce, dove il poco tiene il posto del molto e lo riassume", come gli riconosceva Giovanni Testori». Che ricordi ha dei viaggi con lui? «Viaggiava in luoghi remoti, allora poco accessibili, su autobus di linea. Si muoveva fra le rovine della città carovaniera di Palmyra - dove arrivammo nel 1988 con i cammelli - come se davvero quelle rovine lui le avesse abitate, quando ancora non c'era il deserto. "Non ci sono più le gazzelle!". Queste parole di Zeri non le dimentico. Aveva negli occhi la Palmyra del III secolo: leoni e gazzelle cacciati dall'imperatore Aureliano nei territori della regina Zenobia, come li aveva descritti Ammiano Marcellino». Si lanciava in territori estremi per l'epoca. «Amava i crocevia delle culture, le civiltà alla periferia dell'Impero. Non era ancora caduto il muro di Berlino e si andò a Tallinn, in Estonia, alla ricerca di un retablo di Michael Sitow, poi a Mistra, fra le rovine medievali dei Paleologi, in Siria e in Turchia, dove si è recato più volte, mentre colleghi illustri non avevano mai visto Costantinopoli. A differenza di Roberto Longhi, che in Giotto riconosceva l'origine della nostra cultura visiva, Zeri individuava le nostre radici nell'Oriente e nella contaminazione dei due mondi». Non ha mai avuto una cattedra in Italia. «Visiting professor a Harvard e alla Columbia University, non è mai stato chiamato da una università italiana. Da freelance aveva un'autorevolezza che si era costruito da solo. Era una figura libera, controcorrente. Aveva un distacco aristocratico da ogni sistema, non andava a bussare alle porte. Si rifugiò lontano dalla città: a Mentana, fuori Roma, nella villa dove aveva montato la sua collezione di reperti in una passeggiata socratica di incontro con le ombre del passato. La lettura più penetrante è dell'archeologo Antonio Giuliano: Zeri veniva a noi da un mondo antico, cui sentiva di appartenere; da qui la sua solitudine intellettuale e il suo rapporto lacerante con il presente».

·        Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Da "Delitto e castigo" alle intercettazioni. Rileggere Dostoevskij è un balsamo contro il giustizialismo. Angela Azzaro su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Non tutti sanno che il grande romanzo Delitto e castigo sia ispirato fin dal titolo al saggio Dei delitti e delle pene del nostro Cesare Beccaria. Pubblicato nel 1764 è considerato uno dei capisaldi del diritto moderno che ha ispirato leggi e costituzioni di moltissimi Paesi. Fëdor Dostoevskij non lo incontra in maniera casuale. Anche in Russia il libro è molto diffuso e quelle pagine lo spingono a creare uno dei romanzi più potenti della letteratura mondiale. Beccaria così ragiona: «Perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi». Dostoevskij lo legge, forse lo capisce bene anche per le sue vicissitudini personali, lo condivide e ci scrive un libro magistrale sul delitto, sulla colpa, sul perdono. Sul fatto che la pietas vince anche la violenza, la pietas che si esercita nei confronti di chi ha sbagliato, di chi – come in questo caso – ha ucciso. Rodion Romanovič Raskol’nikov uccide la vecchia usuraia e la sorella testimone del primo delitto come atto superomistico, come prova di forza del suo stare al di sopra delle regole, come un dio. La colpa sarà la sua prima condanna. Poi l’incontro con Sonja che rappresenta il perdono, la possibilità di riscatto. Sono innumerevoli le letture che si possono proporre di questo romanzo, ma una cosa è certa: quando lo scrittore russo racconta, lo fa sempre senza giudicare. E questo non giudicare, questo racconto che ci fa empatizzare è la più grande scommessa che si possa fare rispetto all’essere umano. Noi siamo Raskol’nikov. Siamo lui. Diventiamo lui. Non significa giustificare il delitto, pensare che quell’atto sia qualcosa che ci appartiene. Ma sentendo la sua colpa, il peso che porta dentro, assistendo e facendo nostro il suo travaglio compiamo un viaggio unico, fondamentale, bellissimo nella vita dell’altro. E fare un viaggio nella vita dell’altro significa aprirci al perdono, alla comprensione, all’idea che la vendetta, la violenza non possono mai essere una risposta adeguata. Ogni volta che oggi si legge Dostoevskij e si alza la testa dal libro, quello che si vede e si sente è esattamente il contrario. Si giudica, si mette alla gogna, si lincia. Ma è successo qualcosa anche di più grande, di grave, gravissimo, esattamente l’opposto della lettura di Delitto e castigo o dei Fratelli Karamazov: non ci identifichiamo più nell’altro, non siamo capaci di entrare nella sua testa, nel suo cuore, di condividerne le debolezze. Peccato, peccato davvero. La letteratura, potente macchina che ci consente di vivere le vite che non sono le nostre, è stata sostituita dal banale voyeurismo, da lettori e spettatori che guardano dal buco della serratura, senza mai entrare in scena, senza mai provare a recitare le parole più distanti dalle proprie. La letteratura è stata sostituita dalla lettura dei giornali che riportano le intercettazioni, anche quelle che non servono a niente, quelle che dovrebbero essere usate solo nelle aule del tribunale e quelle che dovrebbero invece andare al macero. Sentiamo, leggiamo e l’effetto è quello opposto all’identificazione, alla comprensione, al viaggio nell’essere umano: osserviamo dall’esterno, distanti, giudicanti, pronti a ridere delle altrui debolezze. Dimentichi che le stesse debolezze sono anche nostre, dimentichi che chi non ha peccato scagli la prima pietra. Le pietre sono quelle virtuali che vengono lanciate sui social, sono quelle che i pm hanno tirato con violenza in tutti questi anni, facendo carta straccia della presunzione di innocenza. Ora (forse) non sarà più così e anche le procure dovranno rispettare le norme minime di civiltà. Ma la nostra testa è cambiata, è cambiato anche il modo di fare cultura, di scrivere, di raccontare, sembra che anche gli scrittori o i registi abbiano perso questa intenzione, questa aspirazione. Non tutti e tutte, certo. Ma la cifra stilistica di questo decennio è ben lontano da quello che Dostoevskij ha fatto con le sue opere, farci toccare la carne viva, l’abisso e la rinascita. In Italia uno degli scrittori che ha resistito a questa tendenza è sicuramente Alessandro Piperno di cui è stato di recente pubblicato da Mondadori l’ultimo romanzo, Di chi è la colpa, che fin da titolo è come se volesse aprire una sfida culturale contro il giustizialismo che ha invaso il senso comune. Ma ancora prima con il dittico Il fuoco amico dei ricordi (Persecuzione – Inseparabili) con cui ha vinto il Premio Strega nel 2012 ha messo a nudo la cultura contemporanea rispondendo al circo mediatico con la tragedia dei sentimenti, con il dolore delle accuse ingiuste, delle sentenze anticipate dai media. Una boccata di aria fresca. Ricordare Dostoevskij a duecento anni dalla nascita, rileggere le sue pagine, ha soprattutto questo valore: ritrovare la possibilità di specchiarci nella letteratura, di trovare nelle parole dei grandi scrittori il balsamo contro ogni forma di moralismo. «All’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, un giovane scese per strada dallo stanzino che aveva preso in affitto in vicolo S., e lentamente, come indeciso, si diresse verso il ponte K. Sulle scale riuscì a evitare l’incontro con la padrona di casa. Il suo stanzino era situato proprio sotto il tetto di un’alta casa a cinque piani, e ricordava più un armadio che un alloggio vero e proprio. La padrona dell’appartamento, invece, dalla quale egli aveva preso in affitto quello stambugio, vitto e servizi compresi, viveva al piano inferiore, in un appartamento separato, e ogni volta che egli scendeva in strada gli toccava immancabilmente di passare accanto alla cucina della padrona, che quasi sempre teneva la porta spalancata sulle scale. E ogni volta, passandole accanto, il giovane provava una sensazione dolorosa e vile, della quale si vergognava e che lo portava a storcere il viso in una smorfia. Doveva dei soldi alla padrona, e temeva d’incontrarla». Questo è l’incipit di Delitto e Castigo, uno dei più famosi della storia della letteratura. Dal generale al particolare: e in quel particolare ci siamo anche noi.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

La biografia. Chi era Fëdor Michajlovič Dostoevskij, uno dei più grandi romanzieri russi di tutti i tempi. Redazione su Il Riformista il 6 Novembre 2021. Fëdor Dostoevskij (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881) è stato uno scrittore e filosofo russo. È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri russi di tutti i tempi. Secondo di otto figli, perde la madre appena sedicenne. Il 16 gennaio 1838 entra alla Scuola Superiore del genio militare di San Pietroburgo, frequentandola però controvoglia. Il 12 agosto 1843 Fëdor si diploma, ma nell’agosto 1844 dà le dimissioni, lascia il servizio militare e rinuncia alla carriera che il titolo gli offre. Lottando contro la povertà e la salute cagionevole, comincia a scrivere il suo primo libro, Povera gente, che vede la luce nel 1846. Il 23 aprile 1849 viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi: viene condannato alla pena capitale tramite fucilazione, ma il 19 dicembre lo zar Nicola I commuta la condanna a morte in lavori forzati a tempo indeterminato. Il 18 marzo 1859, congedato dall’esercito, lo scrittore ottiene il permesso di rientrare nella Russia europea stabilendosi a Tver’. Nel 1866 inizia la pubblicazione, a puntate, del romanzo Delitto e castigo. Nel 1867 sposa la sua stenografa Anna e parte con lei per un nuovo viaggio in Europa, a Firenze, dove comincia a scrivere L’idiota. Nel 1868 nasce la figlia Sonja, che vive solo tre mesi. Nel 1879 inizia sulla rivista «Russkij vestnik» la pubblicazione de I fratelli Karamazov, il suo canto del cigno. Muore improvvisamente, in seguito all’aggravarsi del suo enfisema, il 28 gennaio 1881.

I 200 anni dalla nascita. Fëdor Dostoevskij, l’eterno viaggiatore che scavò nel buio dell’anima. Eraldo Affinati su Il Riformista il 7 Novembre 2021. Celebrare i duecento anni dalla nascita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, nato a Mosca l’11 novembre 1821, significa riflettere sull’uomo contemporaneo, al tempo stesso lacerato dalla propria mancanza di certezze e ugualmente teso verso un sistema di valori in grado di dare senso alla vita. I suoi romanzi hanno contribuito a formare la coscienza occidentale e ancora oggi rappresentano il sentiero più prezioso per capire chi siamo e chi vorremmo essere, al punto tale che se un ragazzo di talento, ce ne sono tanti nelle nuove generazioni, ci chiedesse cosa leggere per diventare veramente adulto, gli dovremmo indicare la gloriosa serie dei capolavori maggiori, una sorta di scala santa verso la responsabilità: Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869), I demoni (1871) e I fratelli Karamazov (1880), quest’ultimo pubblicato un anno prima della morte. Ma se, per assurdo, un anziano desiderasse stilare un bilancio delle operazioni svolte, ci sentiremmo di suggerirgli la medesima lista. Anche perché un conto è scoprire Raskòl’nikov a quindici anni, come abbiamo fatto in molti, seguendo con il cuore in gola la sua avventura omicida sui pianerottoli umidi e puzzolenti di Pietroburgo, oppure, nella stessa regione anagrafica, immedesimarci nei vaniloqui pazzi e febbrili del principe Myškin, nel momento in cui viaggia semiaddormentato sui treni svizzeri. Un altro conto è partecipare al delirio insano di Stavrogin o interrogarci sull’incredibile ritorno di Cristo in Terra, presente nella Leggenda del Santo Inquisitore, dalla risacca dell’età adulta. Dostoevskij, prisma cangiante, muta prospettiva secondo le stagioni della nostra esistenza. Questo scrittore sembra fatto apposta per esaltare gli spiriti inquieti e pungere quelli pacificati. Tuttavia sulla sua incontestabile centralità letteraria – insieme a Lev Tolstoj compone infatti, come sentenziò George Steiner, il dittico supremo della letteratura moderna – grava un potenziale equivoco che persino i più grandi interpreti hanno svelato senza riuscire a estirparlo dalla percezione popolare. Non basta studiare i manuali di Dmitrij Petrovič Mirskij per capirlo. A cosa vogliamo alludere? Dostoevskij è passato agli atti come l’esploratore del caos, colui che ci trascina negli inferi degli istinti più smodati. Giusto, ma non dovremmo mai dimenticare che l’individuo del sottosuolo, protagonista dell’omonimo romanzo del 1864, figlio scapestrato del giovane romantico e svagato che diciassette anni prima aveva popolato le notti bianche, rappresenta soltanto una tappa intermedia e provvisoria di una faticosa conquista di maturità incisa nella parabola dostoevskiana. È vero che quello sventurato personaggio alla perenne ricerca di se stesso conosce la parte abietta che tutti noi vorremmo evitare, frequentatore assiduo della dimensione oscura che qualche tempo dopo il dottor Freud porterà alla luce, organizzando speciali visite guidate nell’inconscio con ingegnose scalette antincendio e apposite reti protettive. Dovrebbe del resto essere indubbio che Dostoevskij non si fermò lì, nel fondale da cui pure si sentiva irresistibilmente attratto. Per tutta la vita provò a andare oltre. Il suo pensiero, in questo aveva ragione Michail Michailovič Bachtin, era sempre in movimento. Ecco perché I fratelli Karamazov chiudono il cerchio, senza peraltro saldare la frattura: in quel grande romanzo, la storia di un parricidio, le ragioni e i torti si mischiano in modo inestricabile trasformando la responsabilità giuridica di ognuno in un patetico arnese da lavoro che gli uomini utilizzano per imbavagliare i mostri presenti al loro interno, i quali, inutile illudersi, non troveranno mai requie. La verità e la colpa, per chi non si accontenti dei codici, non stanno mai da una parte sola e ogni individuo, dal santo a quello della peggior risma, lo sappia o no, reca in sé un pezzetto dell’una e dell’altra. Il vero esecutore del crimine, Smerdiakov, figlio illegittimo di Fedor, resta impunito: s’impiccherà dopo aver commesso l’assassinio, come se lo scrittore avesse scoperto in lui qualcosa di innominabile: lo scatto predatorio, il buio biologico. Avrebbe forse avuto il bastardo dei Karamazov, come viene sprezzantemente definito dalla voce del popolo, una vera alternativa? Dopo essere stato partorito da sua madre sul pavimento dei servitori, che lo hanno allevato secondo le loro scarse possibilità, cresciuto nell’ombra mortificante e nella povertà miserabile del cortile, simile a un cane, e dopo aver misurato nel tempo la propria clamorosa insufficienza rispetto ai figli legittimi del vecchio padrone, non ha fatto altro che contenere una specie di rabbia furiosa. La vera risposta al suo urlo disarticolato e autodistruttivo s’incarna in Alioscia, il più consapevole ma anche il meno avveduto, dei fratelli, non certo immune alla passione: ama Lisa e, sebbene vinca le tentazioni, comprende appieno quello che, nelle pagine iniziali dell’opera, gli sussurra Rakìtin: «Fa che un uomo s’innamori di una certa bellezza femminile, del corpo di una donna, o magari solo di una parte di esso (…) e per lei si sbarazzerà dei propri figli, venderà il padre e la madre, la Russia e la patria…». Insomma anche Alioscia nel sangue resta un Karamazov, figlio del vecchio satiro Fedor: «Sensuale da parte di padre, juròdivyj (folle in Cristo) da parte di madre». Eppure sarà lui, nell’ultima sezione del romanzo troppo spesso dimenticata o rimossa, intitolata Ragazzi, a fornirci la chiave per evadere dalla prigione dell’io ricucendo lo strappo causato dal male umano. Tempo addietro aveva conosciuto per strada un bambino, Il’juscia, al quale i compagni tiravano i sassi. Dopo averli convinti a recedere, portando dalla sua parte Kòlja, il più feroce del gruppo, quando la piccola vittima prima si ammala e poi muore, li scorta al funerale siglando con loro un patto assoluto: «E così per sempre, tutta la vita per mano! Un urrà per Karamazov!… E ancora una volta i ragazzi fecero coro al suo grido». Eraldo Affinati

·        Fernanda Pivano.

Gianluca Mercuri per corriere.it/sette il 4 settembre 2021. «Sono stata una scema a non scoparmi Hemingway». Di Fernanda Pivano dovremmo sapere tutto, e quel “dovremmo” possiamo intenderlo almeno in un paio di modi. Se si è attraversato in parte il suo secolo lungo, un’idea del suo lascito la si ha. Se invece si è troppo giovani per averla potuta incrociare, è un concentrato di Novecento che può far capire molte cose di questi nostri anni - anche se lei non li ha visti. In questa estate di legge Zan, di libertà messe in discussione, di MeToo sommerso o riaffiorante, di differenza tra sesso, genere e identità di genere da imparare per poi magari subito di nuovo confondere, lei — anche se era arrivata molte estati fa, il 18 luglio 1917, e se n’è andata qualche estate fa, il 18 agosto 2009 — ci avrebbe forse sciolto qualche dubbio. Oppure ci avrebbe spiazzato ancora di più, con una sorprendente mancanza di verità, col suo essere lei stessa una contraddizione, e quindi stimolandoci a vigilare sulle nostre certezze, anche le più fresche. Probabilmente ci saremmo accostati a lei come a un oracolo laico, in lei identificando giustamente il prototipo dell’indipendenza e dell’emancipazione e della cultura femminili. Lei che fu l’interfaccia ineludibile dei più grandi intellettuali dei suoi decenni. Lei che fu decisiva nella sprovincializzazione dell’Italia, aiutata a smaltire la sbornia ventennale del «popolo guerriero» con l’ideale opposizione dei poveri diavoli di Spoon River, antieroi stanchi, quindi eroi autentici. Pivano fu centrale in tutto questo, ponte tra almeno due generazioni di italiani e il mondo, lei a riconnetterci con la civiltà. Ma una donna così, forgiata dall’avere ascoltato — di nascosto, alla radio, accanto a Pavese e Vittorini — il discorso sulle Quattro Libertà di Roosevelt, non fu mai completamente libera. E una donna così, che pure conobbe uomini eccezionali e avrebbe potuto averli con uno sguardo, amò incondizionatamente un uomo solo, che inseguì e poi ebbe e poi perse, soffrendone fino alla fine. E fino alla fine chiamò disperatamente a sé. 

Ettorino Sottsass e il marchio del padre. Quell’uomo fu Ettore Sottsass, per Nanda “Ettorino” ma in pubblico “Sottsàss”, con l’accento rigorosamente sulla “a”, il contraltare materiale e fattuale della curiosità intellettuale di lei, il grande designer, o “controdesigner”, che tanto contribuì a riaprire gli occhi del mondo sulla bellezza italiana, con mille oggetti diventati icone e quella facilità di tratto che la incantava, mai avrebbe smesso di osservarlo con la matita in mano. Nanda Pivano fu prigioniera per scelta — l’ossimoro è voluto, e riassume questa storia — di quell’amore e di un’educazione altoborghese, e non si liberò mai né dell’uno né dell’altra. Per questo rimpianse gli anni con lui, tantissimi — rimpianse di averli perduti, rimpianse che fossero finiti — ma anche il fatto di essere stata «una scema a non scoparmi Hemingway». Quella frase Enrico Rotelli la rivela dopo qualche istante di concentrazione, perché una delle cose che ha imparato da lei, lavorandole accanto negli ultimi anni, è scegliere bene le parole, capire chi ti ascolta e cosa ti sta chiedendo. «Nanda ha lavorato molto per la libertà sessuale, ma quella degli altri. Lei libera non lo era, non c’è mai riuscita. Era vincolata al suo retaggio vittoriano, come diceva lei stessa». Un retaggio che veniva da lontano, le origini scozzesi, la scuola svizzera, il padre banchiere genovese. Ecco, il padre: una figura che l’ha marchiata, un uomo dominante, «un possessore compulsivo di donne, che incontrava quotidianamente nel suo ufficio», spiega Enrico. Quel modello l’ha segnata e quel modello l’ha indirizzata inesorabilmente nel rapporto con gli uomini. «L’uomo ci prova, la donna sceglie se resistergli». Vai a capire se poi è davvero una scelta o l’effetto di un tabù schiacciante: il punto è che possono esistere accanto, resistere entrambe le cose: per Fernanda Pivano tutta la vita fu così. E quindi la ragazza che aveva sfidato un interrogatorio nazista per aver tradotto di nascosto Addio alle armi, e che «fu tra le prime — fin dagli anni 40 — a portare i pantaloni e i capelli corti, tra le prime a divorziare e a tradurre testi stranieri», incarnò per tutta la vita anche la visione opposta, quella della «donna sottomessa», che accetta i tradimenti dell’uomo che ama e mai lo tradisce, che è corteggiata da seduttori saltuari o seriali con ottimi argomenti — belli, intelligenti, spesso entrambe le cose — ma a nessuno cede. 

«O scrivo o faccio la puttana. insieme è troppo faticoso». Giovanissima, per esempio, si era fatta sedurre solo intellettualmente dal suo maestro Cesare Pavese, che «in lei sperava per avere una casa e un amore», scrisse Davide Lajolo. Celebre è la sua risposta a Neal Cassady, il classico bel tomo tra gli scrittori Beat, che dopo averci provato e riprovato le chiese frustrato «non bevi, non fumi, non scopi, ma allora cosa sei venuta a fare?» e si beccò una frase folgorante, che andrebbe analizzata parola per parola: «O scrivo o faccio la puttana. Insieme è troppo faticoso». Ma perché Fernanda, verrebbe da chiederle oggi, perché loro, quei grandi uomini, potevano fare gli scrittori e i puttanieri e tutti ad applaudirli, e tu invece dovevi scegliere se lavorare o divertirti, salvo poi pentirti in tarda età di «non aver scopato Hemingway»? La risposta la dà Antonio Troiano, il capo della Cultura del Corriere, memoria storica di questo giornale e che con Rotelli è l’altro testimone perfetto della grandezza e delle contraddizioni pivaniane, essendole stato amico per decenni. «Nanda era bella e ha difeso la sua integrità. Voleva essere riconosciuta per quello che era, una studiosa di letteratura americana», dice Antonio. La presunta auto-repressione sessuale, insomma, era un retaggio ma anche una necessità, perché se fosse finita sui giornali come preda/predatrice di scrittori anziché loro intervistatrice e basta, sarebbe fallita la doppia missione che si era data: portare la loro (contro)cultura in quel villaggio che era l’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, e farlo nonostante fosse una donna, perché per le donne quel mestiere semplicemente non era previsto: e infatti, spiega Antonio, «Nanda ha fatto una fatica enorme a difendere la sua professionalità, si è dovuta impegnare quattro volte gli altri», quando «gli altri» erano un plurale rigorosamente maschile. Ed è con questa credibilità — conquistata «con chilometri di libri e di viaggi, leggendo tutto e andando a incontrare di persona tutti» — che «ha messo il Corriere al centro del dibattito culturale, dandogli l’immagine di giornale libero e rispettoso del lavoro degli scrittori». Il tutto «con un’umiltà e una gratitudine continue verso il giornale: era una che ti ringraziava — lei, Fernanda Pivano — per averle pubblicato un pezzo, senza mai pressarti prima. Non era consapevole di quanto fosse brava». Quanto alla libertà, Antonio ricorda il racconto di una telefonata tra Allen Ginsberg e una giornalista cui Nanda aveva assistito, e in cui «l’aveva visto alterarsi a poco a poco, lui così mite e gentile. Alla fine era sbottato, “lei non ha capito che io ho lottato tutta la vita per l’affermazione della libertà, ma mi sono reso conto di aver perso”. Nanda aveva poi provato a consolarlo ricordandogli le cose meravigliose che aveva scritto e fatto da poeta e campione dei diritti gay, ma lui le aveva risposto che la strada era più lunga di quanto potesse immaginare». Valeva per un omosessuale, e valeva per una donna.

Ogni consolazione fisica dell’esistenza. In una ricognizione dell’animo pivaniano attraverso uomini che l’hanno conosciuta bene, non può però mancare lui, Ettore Sottsass, che prima di morire — la precedette di un anno, nel 2007 — ha lasciato un’autobiografia magnifica, Scritto di notte, in cui la loro storia è raccontata nell’essenza, con frammenti che sembrano lampi. Lui, Sottsass, l’apparente elisione tra donna libera e vincolata la spiega coi concetti di indipendenza e controllo, architravi dell’esistenza di ogni italiana audace dal Dopoguerra in poi: «Nella rivoluzione culturale nella quale Fernanda era immersa anima e corpo esisteva un postulato che era, come tutti i postulati, indiscutibile. Anzitutto prevedeva un nuovo stato indipendente della donna nella società, non conquistato con i sistemi della seduzione arcaica, ma con una specie di continuo controllo e invenzione della propria condizione etica. Un atteggiamento del genere, basato appunto sul controllo, significava tenere la distanza, una vasta distanza, da ogni partecipazione o consolazione fisica dell’esistenza».

Si erano conosciuti per telefono. Insomma, Ettore l’aveva capita perfettamente, e per questo non sorprende che nella loro storia durissima e meravigliosa si concentrino tutte le lacerazioni di Nanda, la libertà come cifra di una vita e la sua irraggiungibilità. Si erano conosciuti prima della guerra, con una telefonata che lui racconta così: «Buongiorno. Mi chiamo Fernanda Pivano, sono laureata in lettere e filosofia, ho studiato pianoforte per otto anni, ho preso il diploma e adesso organizzo i concerti del GVF al conservatorio. Vorrei mettere in scena un’opera del Cinquecento. Poi le spiego meglio. Mi hanno detto che lei è molto bravo a disegnare scenografie e volevo sapere se le poteva interessare». Si videro e lei non smise più di amarlo, lui ci mise un po’ a cominciare. Lei ad accoglierlo al rientro dal fronte jugoslavo e a nasconderlo nella casa del suo medico di famiglia. Lei a chiedergli due volte di sposarla, dopo la guerra. La prima lo trova «totalmente impreparato». Lei gli spiega: «I miei vogliono che io mi sposi. Sposerò un ufficiale americano che conosco. Lavorava con me alla radio. Andrò a vivere a Roma». Lui: «Non ho detto niente. Non avevo niente da dire. Una pietra mi è caduta addosso». 

Il segreto di una vita. Quel primo matrimonio resta un mistero per tutti, perché lei non ne ha mai più parlato. Un mistero il marito, un mistero il divorzio. «Sacra Rota», immagina Enrico Rotelli, anche perché altri modi non c’erano. Sottsass racconta il nuovo incontro così: «Mi ha detto che stava divorziando e che sarebbe tornata a casa a Torino e se avevo ancora voglia di stare con lei. Le ho detto che mi sarebbe piaciuto molto, e dopo qualche mese è stato così». Nel 1949, il matrimonio con rito civile a Torino, poi in treno a Milano, «il nostro viaggio di nozze» nella città che sarebbe diventata la loro base per il mondo. Ma, fin dal primo momento, entrambi hanno l’esatta percezione di cosa li attendeva. Il racconto di Sottsass trasmette una lucidità brutale: «Sono entrato nell’ingresso blu e rosso della nuova casa tenendo in braccio la sposa Fernanda, poi l’ho fatta scivolare adagio perché mettesse i piedi per terra. “Eccoci qui” le ho detto, e senza neanche accorgermene mi sono messo a piangere. Fernanda mi ha chiesto: “Perché piangi?”. Non sapevo, o forse sì. Le ho risposto: “Mi è entrato di colpo nella testa il pensiero che adesso dovrò vivere con te tutta la vita. Scusami”. Scusarsi non serviva. Fernanda non ha detto niente, ha sorriso. Era un bel sorriso, ma penso che stesse molto male, malissimo. Così, con un sotterraneo, inconscio, impercettibile senso di claustrofobia è cominciata la mia vita con Fernanda. Una vita fantastica, alta, senza cadute nel bene e nel male, andando di qua e di là curiosi e sempre sperando». 

Un impercettibile senso di claustrofobia. È così che due persone eccezionali comunicano in modo trasparente le difficoltà classiche di una coppia, nel 1949, l’indisponibilità di lui alla monogamia, la disponibilità di lei a subire anche i tradimenti. Il modello è rovesciato dal fatto che è lei il pilastro materiale, lei a mantenerlo mentre lui si avventura nel mondo del design industriale, lei a sgrezzarlo nei circoli culturali milanesi e con la passione dei viaggi. Prima Parigi, dove da sconosciuti vanno da chiunque — la moglie di Kandinsky, Brancusi, Kenzo, Paco Rabanne, tutti ad accogliere nei loro studi quei due giovani italiani pieni di vita — poi finalmente l’America, dove Nanda incontra gli scrittori, Faulkner, Carver, Dos Passos, Miller, Mailer e soprattutto quelli della Beat che segneranno la sua vita, Ginsberg e Kerouac su tutti. In quella fase, «in fondo la vita era bella. Stavamo penetrandola, eravamo forti, luminosi, contenti e non avevamo paura di niente; forse avevamo paura soltanto della nostra fortuna di essere giovani». Ecco, quella fortuna, consumandosi nel tempo, li avrebbe divisi, la gioventù si sarebbe trasformata in rimpianto e maledizione. Un giorno, molti anni dopo, incrociano una coppia giovane in aeroporto, «e Nanda ha detto: “Che bella ragazza”. Ero soprappensiero, forse pensavo a lei o forse pensavo nel vuoto e credo di aver risposto: “Beato lui”. Mi era sfuggito, non lo pensavo, ma per il cuore di Nanda deve essere stato come una pugnalata». Il racconto della fine è altrettanto tagliente: leggerlo è soffrire. Nanda, malata di polmonite, «è molto pallida nel letto, stanca, e piange, piange disperata quando le viene addosso la certezza che la felicità passata, la dolcezza, la speranza, la voglia di fare, le parole, i viaggi, i sorrisi, e tutto il toccarsi, aspettarsi, cercarsi, dirsi, confessarsi, domandare, subire, rinunciare, dare, sentirsi insieme, è tutto finito, non tornerà più, svanito, svanito come un profumo svanisce nell’aria». Nei litigi, «mi rovescia addosso un muro di accuse, mattone su mattone, per colpe antiche, recenti, grandi e piccole. Resto senza parole, resto immobile con le mie colpe da un lato e con il paesaggio della sua vita devastato per sempre e — questo lei, Fernanda, non lo accetta — anche quello della mia». A sconvolgerli, i due paesaggi, è il fatto che lui, a 57 anni, è capace di «innamorarsi come un cretino» e la lascia per una giovane artista catalana. Il divorzio arriva dopo 27 anni di matrimonio quando non c’è più bisogno della Sacra Rota, è diventato legge per le battaglie di donne come Nanda. Da quel momento, lei sviluppa una sorta di misoginia intermittente. Ma la parte più importante è «intermittente». Racconta Rotelli: «A parole odiava tutte le donne, ma quando le conosceva le ammirava moltissimo. Più giovani e carine erano, più la facevano soffrire perché le ricordavano le donne che le avevano tolto Ettorino. Ma poi spesso ne diventava amica e consigliera». Il sentimento era sempre ambivalente. Ancora Rotelli: «Quando arrivavano giovani colleghe a intervistarla, lei non mancava di ricordare a tutte che la loro libertà era il frutto delle sue lotte e del suo lavoro: “Se potete vestirvi così, in jeans o in minigonna, se potete scopare — sì, è un verbo che usava spesso — lo dovete ai miei amici scrittori, alla rivoluzione dei costumi e del sesso che hanno portato nel mondo”. E poi aggiungeva puntualmente: “Voi non dovete avere i rimpianti che ho avuto io, come con Hemingway”». Però mai debordare, e pazienza se il problema è proprio capire qual è, il bordo. Quello che non le piaceva era «l’atteggiamento esageratamente provocante. Non lo considerava autentico. Aveva adorato e praticato il teasing americano», l’ammiccamento misurato, il flirtare raffinato. 

Il dito bagnato di whisky sul bordo del bicchiere. Insomma, questa donna che «preferiva la compagnia maschile», che per tutta la vita aveva conosciuto, accettato e considerato la norma «il modello del maschio che ci prova, perché così erano stati tutti i maschi della sua vita, il padre, il marito, gli amici», e che del Bukowski da tutti descritto come un arrapato impunito diceva «a me ha regalato una rosa», probabilmente, dice Enrico, non avrebbe capito il MeToo (mentre non avrebbe esitato a sostenere Black Lives Matter). Non avrebbe forse raggiunto i livelli espressivi di un’altra grandissima come Natalia Aspesi — «Se si incontra un maschio femminista, tirare su le mutande e scappare» — però «le avrebbe dato fastidio l’estremismo», come le aveva dato fastidio certo «femminismo rancoroso» degli anni Settanta. Una femminista classica, d’altronde, non avrebbe forse capito lei, il suo amore infinito e incondizionato per “Ettorino”, l’averlo aspettato sempre, nonostante tutto. Ancora nel 2004, da una stanza del San Raffaele dov’era stata ricoverata precipitosamente dopo un viaggio a New York, gli diceva «quando vuoi tornare io sono qui, ti aspetto», e l’ha aspettato fino all’ultimo giorno. Lui non è tornato «ma l’ha sempre aiutata, anche dopo la separazione», ricordano sia Troiano sia Rotelli, andando oltre gli alimenti, a sua insaputa. Ma è possibile che nessun altro uomo sia riuscito a prendersi spazio in quell’anima? «Io credo che fosse innamorata di un amore tenero per Jack Kerouac», rivela Antonio Troiano. Un amore protettivo, che anche nelle pagine più impervie di On the Road vedeva «cose meravigliose, perle». E quando tutti lo facevano bere lei gli prendeva il bicchiere e glielo riempiva d’acqua, «e gli passava il dito bagnato di whisky sul bordo», aggiunge Enrico, in un inganno fatto di premura. Premura materna, certo: «Lo chiamava Ti Jean, come lo chiamava sua madre». Alla fine, l’amore unico è stato quello in cui si è autoreclusa. Ma è stata una scelta, che come ogni scelta combatte coi retaggi e convive coi rimpianti: non per questo è meno libera. Ha i limiti che ogni libertà umana incontra o si dà. Tutti abbiamo una parte d’identità ereditaria e una elettiva. L’amore di Nanda per Ettore fu frutto di entrambe. Ecco, oltre a portarci libri imperdibili e ad aprirci l’America, quindi il mondo, Fernanda Pivano è stata tutto questo, una straordinaria donna del Novecento che ha amato un uomo, ne ha ammirati tanti, ne ha rimpianto qualcuno, ma è soprattutto alle donne che, da maestra riluttante, ha mostrato la libertà, la sua fatica quotidiana, la sua meraviglia complicata e necessaria, il suo essere orizzonte irraggiungibile ma a cui non vanno mai voltate le spalle.

Fernanda Pivano, donna di libertà nata nell’oppressione. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 23 maggio 2021. “DOV’E’ Jones il suonatore/ Che fu sorpreso dai suoi novant’anni/ E con la vita avrebbe ancora giocato”? La voce di Fabrizio De André, aspra e tesa per l’intera canzone di apertura del suo Non al denaro, non all’amore né al cielo, album ispirato all’Antologia di Spoon River di E.L. Masters, acquista un accento dolce e divertito quando canta del suonatore Jones, morto a novant’anni, mentre ancora amava la vita e, tutte le volte, se ne stupiva. Fernanda Pivano è morta a novantadue anni, circondata dai suoi amici. Pochi mesi prima continuava a scrivere parole piene di passione e speranza, giocando con la vita e la sua vecchiaia. Amava i giovani, diceva che non capissero quanto per i vecchi fosse importante continuare a parlare con loro, rigenerarsi nelle loro speranze e delusioni. “Non ho mai voluto accettare le malattie dell’età e ne ho le scatole piene di dover prendere tutte queste pastiglie che i medici mi prescrivono. Ho sempre cercato di vivere di passioni e tutto questo mi riporta solo alla disperazione dei miei 92 anni, con le vene che non reggono la pressione di una semplice iniezione. Ma grazie a Dio ci sono questi ragazzi di 18 anni che mi mandano le loro poesie, i loro racconti, i loro auguri e mi chiedono suggerimenti su come fare a superare le tragedie della vita. Ahimè. A 92 anni ancora non so cosa rispondere. Dico loro di sperare. Di battersi per vivere in un mondo senza guerre volute solo da capitani ansiosi di medaglie. Di sorridere senza il rimorso di non aver aiutato nessuno. E proprio questi giovani sono una grande, meravigliosa, consolazione. Il segno che qualcosa di ciò che hai fatto ha lasciato un piccolo segno, un piccolo seme.” Fa venire in mente un altro verso di De André, tratto dalla canzone dedicata al Suonatore Jones: “E poi se la gente sa/ e la gente lo sa che sai suonare./ Suonare ti tocca/ per tutta la vita/ e ti piace lasciarti ascoltare.” A Fernanda Pivano piaceva lasciarsi ascoltare e ascoltare generazioni di giovani scrittori, cantautori e poeti che aveva incontrato fin da quando giovane lo era anche lei. È difficile dire dell’opera di critica, saggistica, narrativa, divulgazione della Pivano perché impossibile è scinderla dalla sua personalità e dalla sua vita. Fu una donna di libertà perché era nata nell’oppressione della sua rigida educazione “vittoriana”, del regime fascista che contrastava le menti libere durante la sua giovinezza. Fu una promotrice strenua della pace, pur con un’indole combattiva e passionaria per tutto ciò che aveva a cuore, tanto che Hemingway in una lettera le scrisse: “Se c’è un errore che fai, figlia, credo che sia (in letteratura) quello di accettare il combattimento con troppa facilità. Io non rispondo mai a un attacco: non do risposta. Continuo a lavorare. Il lavoro è tutto. A volte (in letteratura) ci si arrabbia molto. Ma non rispondo mai, o meglio, ho imparato a non rispondere. Aspetto che muoiano o che abbiano torto, o tutte e due, o a volte li uccido in silenzio con una frase. Con molto affetto. Mr Papa”. Fu di animo aperto e tollerante. Portò in un’Italia degli anni 70 ancora chiusa e bigotta, scrittori e poeti come Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Gregory Corso. Come poteva, le chiedevano allora, passare serate, giorni, soggiorni interi, tra gli scrittori beat, consumatori di LSD, alcol, funghi, peyote, mentre perdevano la ragione, raggiungevano nuovi stati di coscienza, facevano sesso come e con chi pareva loro? E lei, loro amica, sorella, madre e mentore, non beveva, non si drogava, rimaneva fedele al marito e intanto spiegava al mondo i loro valori, il loro stile di vita, combatteva le loro battaglie. Era la prova in carne, lucidità e ironia che vite diverse e personalità diverse potessero convivere pacificamente e proficuamente, e anzi unirsi per gli stessi ideali e le stesse lotte. Aveva in sé una purezza che non aveva nulla a che fare con l’essere puritani o bigotti, ma aveva qualcosa a che fare con la felicità e l’infelicità, con la chiarezza dei sentimenti, con la forza e l’ironia. Tutto questo videro in lei, Pavese, che se ne innamorò di un amore forte e triste, ed Hemingway alle cui avances la Pivano rimpianse tutta la vita di aver resistito. E Kerouac, una delle sue più importanti scoperte letterarie, che completamente ubriaco in un’intervista alla Rai, le diceva che era bella, una ragazza dannatamente bella. E penso non intendesse solo fisicamente: perché quello che impetuosamente scaturiva dalle sue espressioni maliziose, dalla sua faccia ampia e chiara, dagli occhi luminosi e divertiti, dalle parole dette o scritte era una stupefacente e poderosa bellezza interiore. “La gente ce l’ha con te perché sei bella. La ragione è questa. Bum! Bum! Giusto!”, concludeva Kerouac. “Non c’era nessuno come lei nell’universo letterario americano. – Disse, alla sua morte, Easton Ellis – Fernanda era “vera”.” Un’altra delle sue qualità fondamentali che la facevano passare indenne tanto tra gli strali di una fazione di studiosi e critici letterari a lei profondamente avversa quanto tra le risse, i vagabondaggi e i bagordi dei suoi scrittori, da lei sempre ospitati in casa, bellissimi, disperati e pitocchi. Fernanda Pivano portava bellezza e andava a scovarla spesso dove nessuno avrebbe pensato di trovarla. Iniziò con la traduzione dell’Antologia di Spoon River, allungatale nel 1938 da Pavese, suo ex insegnante e mentore, che per essere pubblicata allora dall’Einaudi dovette essere spacciata per l’Antologia di un santo, S. River. Continuò con Addio alle armi, romanzo inviso al fascismo per il suo pacifismo, anti-militarismo, la sua anti-retorica. I nazisti fecero irruzione in casa, arrestarono il fratello perché il suo contratto di traduttrice con l’Einaudi era sotto firma falsa, Fernando Pivano. Lei, giovanissima, si presentò al commissariato per rivendicare quella traduzione, fu arrestata e interrogata. Per questo suo atto di coraggio Hemingway volle conoscerla: “Cosa ti hanno fatto i nazi?” le chiese, poi la tenne a lungo abbracciata. Da allora e per tutta la vita fece molti viaggi, soprattutto in America, tornando carica di esperienze, diversità e scrittori. Apriva l’Italia al mondo e il mondo all’Italia. In Italia per suo invito passarono Lawrence Ferlinghetti, Charles Bukowski, Jay McInerny, Erica Jong, Breat Easton Ellis, Don De Lillo e molti altri. Fu tra i primi a scoprire i poeti contemporanei nei cantautori, a partire da Bob Dylan, per cui premeva dal 1998 perché avesse il Nobel per la letteratura, Lou Reed, Patty Smith, per finire con De Andrè, per il quale aveva un amore incondizionato, da lui ricambiato. Il suo funerale si tenne nella stessa chiesa dove si era svolto quello prematuro di Fabrizio, a celebrarlo Don Gallo, prete e rivoluzionario, che alla fine, con le parole di un altro verso di De André, la salutò con l’epiteto cui più di ogni altra cosa lei teneva: “Ciao, Signora Libertà. Ci vediamo.”

·        Filippo Severati.

Filippo Severati, l'alchimista della pittura eterna su lava. Riscoperti i suoi segreti presso l'Archivio di Stato di Roma.  Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 07 settembre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Alla fine ci siamo arrivati: un paio di mesi fa è stata venduta una “scultura invisibile” per 15mila euro. Del resto, era l’inevitabile corollario di una concezione relativistica del bello: quando basta la “trovata”, la provocazione e la novità a tutti i costi, è normale giungere all’impostura. Consoliamoci con la vera Arte, riscoprendo uno straordinario pittore-alchimista dell’800 che aveva trovato il segreto della pittura immortale. Riusciamo a immaginare un dipinto ad olio che possa resistere all’aperto per secoli, così come un’architettura o una scultura in marmo? Filippo Severati (Roma, 1819 – 1892) vi riuscì in pieno: abbiamo recuperato i suoi segreti presso l’Archivio di Stato di Roma. Questo artista dalla mano delicatissima aveva scoperto il metodo di rendere eterni i suoi ritratti dipingendo su lastre di lava smaltata cotta al forno. In tal modo, la pittura poteva essere esposta all’aperto resistendo a sole, acqua, pioggia, nei secoli. Con una certa emozione abbiamo aperto una lettera del 31 dicembre 1851 dove Severati illustrava a S.S. papa Pio IX il suo procedimento: dopo aver smaltato di bianco una lastra di lava con ossido di stagno, tracciava il disegno e procedeva a stendere i colori, speciali, acquistati in Francia, diluiti con olio di lavanda. “Fatta in tal modo la pittura, dovrà cuocersi in una muffola di terra refrattaria riscaldandola in un fornello con carbone commune o legna fino al calore rosso ciriege. L’opera non si compie mai alla prima cocitura, ma bensì deve essere riparata dai guasti fatti dal fuoco col tornare a dipingervi e quindi ricuocere”…Spiega il fotografo e ceramista Claudio Pisani che, dal 1983, studia con passione questo pittore e le sue tecniche: “Erano necessarie varie cotture, con temperature via via inferiori. In tal modo, la cristallina che veniva stesa sulla lastra di lava (molto più resistente della porcellana) imprigionava i pigmenti in una sostanza vetrosa, rendendola incorruttibile”. I lavori di Severati furono apprezzati moltissimo da Pio IX durante la cerimonia del Bacio della sacra pantofola e il papa lo spinse a brevettare tale procedimento. Tuttavia, come si legge nelle lettere di supplica dell’artista al Camerlengo, le sue magre finanze non gli permettevano di pagare la tassa necessaria e pertanto il buon Pio IX lo esonerò. Con la Presa di Porta Pia, il povero Severati cadde in disgrazia: essendo papalino, il nuovo governo savoiardo non lo prese a ben volere ed egli sopravvisse come apprezzato esecutore di ritratti che venivano montati sui sepolcri del Verano. Nonostante ne abbiano rubati parecchi, ancor oggi passeggiando per lo storico cimitero capitolino, si incontrano tanti volti di signori, dame e, purtroppo, bambini, dai colori ancora freschi e splendenti nonostante siano rimasti all’aperto per oltre un secolo e mezzo. Uno dei più belli è quello della contessa spoletina Anna Montani, sposa prematuramente defunta del nobile Luigi Cancani. I loro figli, consapevoli della qualità del lavoro, lo staccarono, qualche anno dopo, dal sepolcro di famiglia per custodirlo in casa e ancora oggi appartiene ai discendenti, splendidamente intonso, come fosse appena uscito dall’ultima cottura. Il delicato e pallido volto della nobildonna è impreziosito da un merletto squisito reso con minuscole e perfette pennellate. Nonostante la delicatezza del soggetto, l’opera è di massiccia resistenza fisica. Una tale tecnica, infinitamente più durevole dell’affresco e della maiolica, meriterebbe una grande rivalutazione. In questa direzione si è mosso il prof. Domenico Boscia, artista siciliano che ha ripreso la pittura su lava per alcune commissioni pubbliche: “Questa tecnica – spiega - era stata inventata in Francia per decorazioni Art Nouveau, come targhe e cartelli della metropolitana. Severati fu il primo che la utilizzò mettendola al servizio della grande pittura. Peraltro, la cottura espande leggermente il colore creando un effetto sfumato quasi fotografico. La sua innovazione fu straordinaria per l’epoca, dato che non esisteva ancora nulla di simile”. Nonostante i suoi meriti, Severati ancora non è stato ben compreso dalla critica contemporanea. Non gli ha giovato essere passato alla storia come “il pittore del Verano”, ma soprattutto, come avviene per molti pittori dell’800, si tende a considerare “accademica” (come se fosse un demerito) la sua tecnica eccellente e la perfezione delle sue opere.  Eppure basta chiedersi solo una cosa: quanti pittori contemporanei, oggi, saprebbero dipingere come lui?

·        Fran Lebowitz.

Antonio Monda per “la Repubblica” l'11 giugno 2021. Il recente documentario Pretend it' s a city , di Martin Scorsese, ha reso Fran Lebowitz popolare in tutto il mondo: fino ad ora è stato un personaggio di culto per i newyorkesi, relativamente noto negli Stati Uniti e pressoché sconosciuto altrove. Uno dei motivi di questa differenza di popolarità è data dal fatto che, con l' eccezione di alcuni scritti, che risalgono agli anni Novanta, Fran Lebowitz è un personaggio pubblico newyorkese, invitato in televisione o a tenere conferenze nelle quali mescola, con grande ironia, riflessioni sui massimi sistemi ad aneddoti quotidiani. Nonostante sia nata nel New Jersey, è un' icona di quella New York che predilige la downtown degli artisti ma frequenta con piacere le classi alte dell' Upper East Side: il suo sguardo nei confronti di entrambi i mondi ricorda quello di Dorothy Parker, senza tuttavia i suoi elementi autodistruttivi. Nella bella prefazione del prezioso La vita è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire , in uscita per Bompiani con un' ottima traduzione di Giulio D' Antona, Simonetta Sciandivasci sostiene che della Parker non ne ha neanche l' allegria «perché si aspetta poco dalla vita». Può sembrare un paradosso, per una scrittrice che ha fatto dell' ironia la sua forza, e bisogna aggiungere che il suo umorismo, sempre caustico e intelligente, non sconfina mai nel cinismo. «Se frequentassi meno i party newyorkesi» mi racconta nel suo appartamento di downtown invaso dai libri «probabilmente scriverei di più. È la differenza tra me e Scorsese: lui gira film e documentari uno dopo l' altro, io vivo la vita della città. Ma al di là del talento, non so se farei a cambio».

Come vi siete conosciuti?

«Ce lo chiediamo continuamente, e non riusciamo a ricordarcelo, ma parliamo di un' amicizia di almeno trent' anni. Ci siamo sicuramente incontrati a una festa, io ero rapita dal modo con cui parlava di cinema: Marty ti fa venire la voglia di rivedere tutti i film di cui parla, a cominciare dai suoi». 

È abbastanza difficile darle una qualifica: scrittrice? Giornalista? Personaggio pubblico? Lei come vorrà essere ricordata?

«Sinceramente non mi sono mai posta il problema, e non mi importa nulla di cosa diranno o scriveranno quando non ci sarò più. È un po' come chiedere cosa vorresti per cena dopo che sei morta». 

Una delle sue prime esperienze di lavoro è stata quella di tassista: cosa ha imparato?

«Che odiavo lavorare come tassista». 

Lei ha scritto: "Il mio ruolo è quello di accusare la gente!".

«Facciamo di tutto per rendere la vita complicata, e rovinare ogni possibile gioia: questo per me è insopportabile. Quindi mi ribello e accuso». 

John Updike sosteneva che per un newyorkese vivere altrove è assurdo: è d' accordo?

«Ma certo! So bene che nel mondo ci sono luoghi e anche città splendide, in particolare in Italia, ma nessuna ha la vitalità e l' offerta di New York». 

Durante la pandemia è stata data per morta.

«È come la battuta di Mark Twain: "La notizia della mia morte è ampiamente esagerata". In realtà c' è molta invidia e odio nei confronti di New York, proprio per la sua imprescindibile centralità.

Generalmente chi parla della sua morte è chi qui non ce l' ha fatta. Inoltre c' è da aggiungere che in maniera ricorrente leggiamo della morte del romanzo, la morte della pittura, la morte della civiltà, la morte di Dio».  

Lei è credente?

«No, ma non credo Dio sia morto. Sono atea da quando avevo otto anni, e vengo da una famiglia ebraica dove entrambi i genitori erano osservanti». 

Cosa succede dopo la vita?

«Non ne ho la più pallida idea, ma chi crede nella vita non crede nella morte». 

Lei è originaria del New Jersey: come l' ha aiutata a comprendere New York?

«Credo che una persona si caratterizzi più da dove va rispetto al luogo dal quale proviene».

In un racconto lei capisce che un agente hollywoodiano è abbronzato dalla sua voce...

«È un racconto scritto molti anni fa, ma quel mondo non è cambiato. Los Angeles è un po' migliorata perché è diventata un po' più internazionale, ma sottolineo un po'». 

Lei scrive: "La pace interiore non esiste. Ci sono solo ansia e morte".

«È quello che penso, per questo attribuisco un enorme valore al piacere».

In un altro racconto scrive: "Se le vostre fantasie sessuali fossero davvero di un qualche interesse per gli altri, non sarebbero più fantasie".

«Non sopporto i libri che partono dal presupposto che una cosa importantissima per lo scrittore debba essere di interesse universale. Specie se si parla di questioni così intime». 

Milano è descritta come abitata da "quelli che lavorano per i vari Vogue e gli altri".

«Andai molti anni fa a Milano con un amico fotografo e mi colpì l' importanza centrale che aveva l' industria della moda. Mi dicono che non è cambiata molto, no? E comunque non è affatto un giudizio negativo, anzi».

Di Roma invece scrive "basta passarci un' ora o due per rendersi conto che Fellini gira documentari".

«Ebbi questa netta impressione: quel genio di Fellini non aveva inventato nulla. E anche in questo caso lo dico da persona affascinata da quella splendida città». 

"In estate la frescura lascia New York per trasferirsi a Southampton, perché non vuole restare in una città piena solo di scrittori sottopagati e di portoricani". Una battuta del genere oggi potrebbe essere accusata di razzismo, senza parlare del risentimento degli scrittori.

«Questo tipo di censura uccide l' intelligenza: ecco una delle cose che rovinano l' esistenza per le quali rivesto con orgoglio il ruolo di chi accusa».

- La prefazione di Simonetta Sciandivasci - Da Linkiesta.it l'11 giugno 2021. Fran Lebowitz aveva diciannove anni quando, dal New Jersey, si trasferì a New York. Era il 1969, aveva in tasca duecento dollari e credeva di essere ricca, o comunque di avere con sé abbastanza denaro per poter vivere senza mai dover lavorare, cosa che odiava e, tuttora, odia fare. Trovatene un’altra che sia arrivata a New York pensando di avere le tasche piene anziché di doversele riempire; di stazionare, anziché scalare. Non ce n’è una nemmeno fra le agiate, linfatiche aristocratiche di Edith Wharton, le sole capaci di dire che a New York, più che altrove, “presto e bene non vanno insieme”. Finiti i duecento dollari, Lebowitz si mise a fare le prime cose che le erano capitate tra le mani, pulire gli appartamenti del Greenwich Village e di Manhattan, guidare il taxi, scrivere racconti erotici. Poi aveva cominciato a collaborare con alcune riviste fino a essere assunta da Interview di Andy Warhol, con il quale non andò mai troppo d’accordo. Dirà: «È andata meglio dopo la sua morte». Peste. Dieci anni dopo, nel 1978, pubblicò il suo primo libro, Metropolitan Life, vendette ottantaseimila copie e per la prima volta nella sua vita ricevette un assegno così corposo (centocinquantamila dollari) che non potette riscuoterlo come faceva sempre, ovverosia pagando un panino al roastbeef con l’assegno mensile per farsi poi dare il resto in contanti. Dovette andare in banca. La racconta come una gran seccatura in Pretend It’s a City, il secondo documentario che Martin Scorsese le ha dedicato, e che l’ha fatta conoscere anche in Italia, dove prima di questo libro non era stato tradotto niente di suo, ma il suo nome suonava familiare anche a chi non aveva idea di chi fosse e l’ha scoperta su Netflix, e l’ha ascoltata parlare per ore con Scorsese, in decine di appuntamenti tutti uguali, ai quali arrivava vestita come si veste da sessant’anni, occhiali tartarugati, stivali da cowboy, Levi’s, camicia da uomo con gemelli da uomo, caschetto. Appuntamenti durante i quali lei parlava di cosa ama (i libri, il suo appartamento) e di cosa non sopporta (quasi tutto il resto). Fran Lebowitz non scrive un libro da quarant’anni, l’ultimo è stato un racconto per bambini del 1994, lo stesso anno in cui uscì una sua raccolta di pezzi in parte già editi e al New York Times spiegò che non avrebbe mai pubblicato il romanzo per il quale aveva firmato un contratto con la Random House perché la sola cosa che le piaceva meno di scrivere era allenarsi. A Toni Morrison, sua grande amica, «la persona più saggia che io conosca», disse invece che scrivere le piaceva perché altrimenti non le sarebbe rimasto che vivere, e che ammirava il fatto che usasse sempre il noi, che cercasse di includere e coinvolgere i lettori, ma lei era di un’altra scuola, lei voleva starsene per conto suo, non aprire porte, non offrire specchi, non spalancare finestre: «Il mio ruolo è accusare la gente!». Di cosa? Di tutto, o quasi. Di come roviniamo le cose inventando complicazioni: il succo di lime nelle patatine, la segreteria telefonica, gli orologi digitali, le calcolatrici tascabili, le diete, le riviste, il tennis, il giardinaggio. Di come la ostacoliamo ciondolando per strada, dicendo benissimo di libri bruttissimi, straparlando di natura, andando in vacanza a sfiancarci come prigionieri di guerra, servendo uva bianca al posto del dessert. È seccata perché corre a una velocità diversa, vede prima e vede meglio: quando s’affatica non è perché una cosa non le riesce, ma perché non le va di farla. Se ci ha messo sette anni per scrivere il suo primo libro non è stato per tormento, irrisolutezza, studio: è stato perché le mancava il tempo, doveva mantenersi. «Il talento è distribuito in maniera del tutto irregolare e casuale: non lo compri, non lo impari». Era già una scrittrice magnifica quando spolverava le case dei ricchi e osservava il mondo da sotto e leggeva e imparava tutto senza studiare niente, mai studiato in vita sua se non lo stretto indispensabile all’alfabetizzazione. Noi, invece, giacché del talento non accettiamo che sia come la grazia, del tutto casuale e immeritata, studiamo tantissimo per accaparrarcelo. Noi, più piccolini e lenti di lei, più smarriti, più bisognosi di consolarci, esprimerci, mentirci e illuderci, la rallentiamo. E allora lei ce lo dice, ci mostra quanto siamo fessi, e lo fa con i test, i quiz, le concioni, i teoremi, gli elenchi. Questo libro è pieno di manuali per il disvelamento della fesseria, istigazioni all’autarchia, requisitorie contro ignoti e pure contro inanimati, teoremi, calcoli, deduzioni. Scientifico, anche se «la scienza moderna è stata in larga parte concepita come risposta ai problemi dei domestici e in generale è praticata da persone prive di talento per la conversazione». In Italia non siamo abituati a scrittori che non scrivano, del resto non siamo abituati a persone che non scrivano, e allora in lei vediamo una comica, un’attrice, un’intrattenitrice, una battutista. In fondo, ha un incedere così logico e chiaro da sembrarci poco letterario – non siamo abituati neppure a scrittori che abbiano le idee chiare, che non parlino di fuoco sacro, lavori importanti, missioni, salvezze, ruoli imprescindibili, che abbiano quell’idea di sé che fa sì che “a tre anni cominciano a considerarsi una trilogia”. Ora che, finalmente, abbiamo le pagine di Fran Lebowitz, quasi tutte, incontriamo la sua scrittura fenomenale che presenta la realtà senza rappresentarla, la sveste in un battere e un levare, la irride, ci si scontra e, soprattutto, arriva al punto, come fanno le sigarette, che lei ama di un amore inossidabile, intaccabile e sicuro come una casa, la sua. «The words are in the cigarettes», disse a un giornalista del New York Times che la ascoltava affascinato e, tra un inciso e l’altro, tra una sua intemerata contro i tosaerba e un’altra contro i parchimetri, scrisse che lei era politicamente scorretta (lo hanno fatto in molti, e ci dispiace per tutti), e soprattutto una mondana festaiola molto ricercata, come Dorothy Parker e Truman Capote. Di Dorothy Parker, però, Fran Lebowitz non ha mai avuto l’angoscia e neppure l’allegria, perché Fran Lebowitz s’aspetta poco dalla vita, sa che è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, non si cruccia delle donne che non ha sposato, né delle cose irraggiungibili. Ha preoccupazioni concrete, niente di ineffabile. Il suo sorriso è aperto anche quando ghigna. Le piacciono i bambini perché «non ti si siedono di fianco a discutere delle loro irragionevoli speranze per il futuro». Le piace restare uguale e ferma, unica newyorkese non insonne di tutta New York. Quanto si diverte. Sarà che viene dal New Jersey e non ha mai creduto, nemmeno per un momento, che il mondo sia altro che artificio. Un artificio che è bene che rimanga al suo posto, come noi dovremmo starcene nel nostro. A New York, possibilmente, dove vivere altrove sembra a tutti un’assurdità. E forse lo è. 

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 19 gennaio 2021. A volte, a essere politicamente corretti si rischia il ridicolo, specie se si devono fare i conti con Fran Lebowitz. Va bene definirla scrittrice (anche se da un po' di tempo si dice vittima della pagina bianca, di un blocco scritturale); va bene definirla umorista (lo è), ma con maîtresse-à-penser si sfiora l' insulto. Eppure, se c' è una maestra del pensiero questa è proprio l' ex columnist di Interview , la famosa rivista di Andy Warhol, una delle prime donne a insinuarsi nei salotti bene del Greenwich Village diventandone la massima esperta, una influencer quando non esistevano le influencer. Il suo amico Martin Scorsese l' ha intervistata per un documentario di Netflix lungo sei incontri: «Fran Lebowitz - Una vita a New York», titolo italiano ben meno efficace dell' originale, che era «Pretend it' s a city». La conversazione avviene in alcuni luoghi simbolici della città, tra cui un elegante club all' antica e il Queens Museum che contiene il famoso modellino della metropoli ideato da Robert Moses. Ma New York è soprattutto sulla bocca della Lebowitz, perché possiede il raro dono di trasformare ogni parola in immagine, perché Manhattan rivive attraverso gli occhi e la sensibilità dell' intervistata: si vanta di non avere un cellulare e di conservare il raro dono di guardare tutti i newyorchesi che, ogni giorno, rischiano di investirla con la macchina perché non riescono a staccare gli occhi da quegli aggeggi infernali che regolano le loro vite. A Scorsese, che ride a crepapelle a ogni sua battuta, ricorda la loro sostanziale differenza: «Mi piacciono le feste, vado a molte più feste rispetto a te. Ed ecco perché tu hai fatto un mucchio di film mentre io ho scritto pochissimi libri». «Tutti si lamentano che è impossibile vivere a New York (caro vita, rumori incessanti, case mal costruite), ma siamo otto milioni, come facciamo non lo sappiamo». Da anni indossa solo jeans Levi' s modello 501.

Francesca Pellas per “rivistastudio.com” il 19 gennaio 2021. Fran Lebowitz è una scrittrice, umorista, icona newyorkese, grande fumatrice. Niente di tutto ciò è falso, però chi è davvero Fran Lebowitz? Martin Scorsese, che le ha dedicato un documentario appena uscito su Netflix dal titolo Pretend It’s a City (il suo secondo: il primo fu Public Speaking su HBO, nel 2010), dice che non bisogna immaginarsela come una persona, ma come una città: nello specifico New York, di cui è appunto una delle manifestazioni di carne. Lei, dal canto suo, dice di se stessa che abita a New York da decenni pur non potendosela permettere, nonostante sia una delle sue più celebri scrittrici. Che, va detto, non scrive da tempo, e forse è da ricercarsi qui, come racconta lei, il motivo per cui non possiede una villa in Toscana e si trova spesso a dover giocare alla lotteria sperando di vincere: se scrivesse, avrebbe di certo più denaro, e non avrebbe dovuto vendere i suoi Warhol per pagare le spese condominiali. Anche il fatto di avere dei Warhol, peraltro, era incidentale: uno dei suoi primi lavori a Manhattan (oltre a quelli di tassista, donna delle pulizie, venditrice di cinture) fu a Interview Magazine, la rivista da lui fondata, per cui Lebowitz curò due rubriche, una di cinema in cui recensiva film brutti (The Best of the Worst) e una in cui scriveva di quello che le andava (I Cover the Waterfront). Entrambe le rubriche confluirono poi, insieme ad altri saggi apparsi su Mademoiselle, in due raccolte intitolate Metropolitan Life (1978) e Social Studies (1981), che ad oggi costituiscono gli unici libri che abbia mai pubblicato, insieme a un libro per bambini del 1994. Se ne attendono da allora almeno altri due, di cui negli anni si è molto parlato, e di cui il suo editor dice: «Essere l’editor di Fran è il lavoro più facile del mondo, non ho niente da fare». In un’intervista a David Letterman, Lebowitz trovò un nome per questo blocco: blockade, dall’unione di “block” e “decade”. E del resto perché scrivere, si chiede lei intervistata dal suo amico Martin Scorsese (lo chiama Marty), quando può tranquillamente passare nove ore di fila a leggere? Il suo lavoro è quello lì, e in casa conserva diecimila volumi, sistemati in ordine alfabetico e divisi per sezioni (ha per esempio una sezione biografie). Perciò legge tutto il giorno, ogni tanto parla in pubblico, e per il resto del tempo si sente in colpa perché non sta scrivendo. La verità è che di cose su Fran Lebowitz se se potrebbero dire tremila: da quanto fuma a quanto parla, dal cameo che “Marty” le fece fare in The Wolf of Wall Street, al fatto che non ha cellulare né computer e scrive a penna. Si potrebbe poi raccontare della sua amicizia di una vita con Toni Morrison (a cui Pretend It’s a City è dedicato), come del fatto che le rubriche su Interview gliele trascriveva l’altro amico di una vita, Marc Balet, art director del magazine, a cui Fran piombava in casa alle 7 del mattino con caffè e croissant perché battesse a macchina ciò che lei aveva scritto a mano da mezzanotte all’alba. Si potrebbe raccontare della sua idiosincrasia per i turisti, poiché proprio da quella viene il titolo del documentario: “Pretend it’s a city” è infatti la frase che vorrebbe gridare ai turisti, troppi, che invadono New York, quando incrociandola per strada hanno la malaugurata idea di chiederle indicazioni. Fate finta che sia una città. Non è un parco giochi ma una vera città. Non siamo qui perché voi possiate venirci in vacanza, siamo qui per viverci. E appunto, anche se di cose se ne potrebbero dire tremila, l’unica che valga la pena spiegare è quanto Fran Lebowitz sia un essere inscindibile dalla sua città, questo luogo infinito chiamato New York che, come scriveva Colson Whitehead ne Il Colosso di New York, è otto milioni di nude città dentro una città, e non ha mai fine, né mai l’avrà. Questo luogo in cui si è trasferita a 18 anni dal New Jersey dopo essere stata espulsa dal liceo, con un’unica idea in testa: fare la scrittrice. All’epoca nessuno voleva fare lo scrittore, perché tutti volevano essere musicisti, o al massimo registi, ecco perché, racconta lei, fu assunta a Interview: non trovavano scrittori. E lo stesso era accaduto a Changes, la rivista della quarta moglie di Charles Mingus, con cui Fran divenne grande amica e che una volta la portò a fare colazione insieme a Duke Ellington (l’unico di cui Mingus nella vita abbia avuto soggezione, racconta lei). Lebowitz è anche lesbica, ma ha detto spesso di non essere mai stata un’attivista in tal senso. Esiste però un suo pezzo molto famoso, scritto nel 1987 per il New York Times (che le aveva chiesto di spiegare l’impatto dell’AIDS nel mondo dell’arte), in cui dice: «Qual è stato l’effetto dell’AIDS sulla cultura? Dovremmo farci un’altra domanda: che cos’è la cultura senza i gay? Che cosa ne rimane?». Questo sia perché l’epidemia falcidiò un’intera generazione di artisti, sia perché il pubblico che quell’arte poteva davvero apprezzarla morì con loro, e non esiste più: «La capacità critica è sparita con la morte di quel pubblico, nello stesso modo in cui, morendo, se n’è andata l’abilità creativa. E ciò ha permesso la salita alla ribalta di artisti di quinta categoria. L’AIDS non ha decimato solamente gli artisti, ma la conoscenza: la conoscenza di una cultura». Vedendo le immagini di lei da ragazza, già vestita come veste adesso, cioè con jeans, camicia, giacca, e ogni tanto un maglione, ci si stupisce per quanto il suo viso fosse diverso da quello di oggi, e non nel senso di invecchiato, ma proprio di diverso. Oggi è Fran Lebowitz, una persona che ha trasformato la sua abilità nel parlare nella sua professione e nella sua arte. Adesso è un’icona, ma allora era bellissima. Stupenda nel modo minaccioso in cui potevano esserlo certe giovani e intelligentissime lesbiche newyorkesi di quegli anni, ovvero: lasciando immaginare dietro a quelle sopracciglia inarcate interi mondi e intere vite da vivere amandola. Peccato che, come dice lei stessa, l’amore non sia mai stato il suo forte. No, lei è stata, a detta sua, la figlia migliore del mondo, e una brava parente, e una buona amica, ma sempre, sempre, una terribile fidanzata: la sua storia più lunga è durata tre anni, e ora sostiene che non riuscirebbe a immaginarsi impegnata in una relazione per più di sei giorni. Soprattutto, non è mai riuscita a capire che senso abbia la monogamia. Questo però si può spiegare, forse, comprendendo che nella sua vita un grande amore c’è già, ed è quello per la sua città. Perché nonostante i prezzi (delle case, degli affitti e di tutto), New York è l’unico posto in cui Fran Lebowitz potrebbe vivere. “Pretend it’s a city”, fate finta che New York non sia una vostra fantasia, ma una vera città: rimane comunque l’unico mistero in cui valga la pena perdersi.

“Anche quando lavati di fresco e privati di tutti i dolciumi in vista, i bambini tendono ad essere appiccicosi.”

“Ricordati che sei all'ultimo stadio della tua vita di adolescente quando ti rende felice il solo sapere che il telefono squilla per te.”

“L'umiltà non è un buon sostituto di una buona personalità.”

“Il pensiero originale è come il peccato originale: entrambi sono accaduti, prima che tu nascessi, a persone che non hai potuto eventualmente incontrare.”

“Il contrario di parlare non è ascoltare. Il contrario di parlare è aspettare.”

“Il mio animale preferito è la bistecca.”

“Il successo non mi ha rovinato, sono sempre stata insopportabile.”

“Non preoccuparti di discutere del sesso con dei bambini piccoli. Raramente hanno qualcosa da aggiungere.”

“La televisione educativa dovrebbe essere abolita nel modo più assoluto. Vostro figlio proverà una comprensibile delusione scoprendo che le lettere dell'alfabeto non saltano fuori dai libri e non si mettono a danzare in tutù azzurro.”

“Nessun animale dovrebbe mai saltare sui mobili del soggiorno a meno che non sia assolutamente certo di poter di poter tenere testa nella conversazione.”

“Diventare una donna è di particolare interesse solo per un maschio transessuale che aspira ad essere tale. Per le donne d'oggi è semplicemente una buona scusa per non giocare a calcio.”

“La vita è qualcosa che ti accade quando non riesci ad addormentarti.”

“Se sei un cane e il tuo padrone ti suggerisce di indossare un maglioncino... suggeriscigli di indossare una coda.”

“Il comunismo richiede ai suoi aderenti che si alzino presto e partecipino a una faticosa serie di esercizi ginnici. Per chi si augura che le sigarette arrivino già accese il pensiero di tale sforzo a un'ora in cui le persone oneste stanno per addormentarsi è completamente detestabile.”

“Non permettere mai a tuo figlio di chiamarti per nome. Non ti conosce da abbastanza tempo.”

“Non ho mai preso droghe allucinogene perché non ho mai voluto che la mia consapevolezza si espandesse di una virgola non necessaria.”

“Le grosse e pelate carote crude sono accettabili come cibo solo per coloro che vivono nelle tane attendendo con impazienza la Pasqua.”

“Se le tue fantasie sessuali interessassero davvero gli altri, non sarebbero più fantasie.”

“Chiedi a tuo figlio cosa vuole per cena solo se è lui a comprare.”

“Le grandi persone parlano di idee, le persone medie parlano delle cose, e le piccole persone parlano del vino.”

“Ho fatto i calcoli e le tue probabilità di vincere la lotteria sono identiche sia che tu giochi oppure no.”

“La carriera letteraria non è priva di svantaggi, principalmente quello di essere chiamati di frequente a mettersi seduti e scrivere.“

"Il sonno è la morte senza responsabilità".

"Il telefono è un buon modo di parlare alla gente senza essere obbligati a offrir loro da bere".

"Le ragazze che ci stanno sono puttane, quelle che non ci stanno sono signore. Ma è un'accezione arcaica. Se ti capita di incontrare una ragazza che non ci sta non saltare alla conclusione di aver trovato una signora. Probabilmente hai trovato una lesbica".

"Le verdure sono interessanti ma mancano di senso se non accompagnate da un buon pezzo di carne".

Giampiero Mughini per Dagospia il 23 gennaio 2021. Caro Dago, ti confesso che prima delle sette puntate di “Pretend it’s a city”, il docu-film dedicato da Martin Scorsese alla sua amica Fran Lebowitz non sapevo nulla di questa scrittrice/umorista newiorchese che aveva debuttato quarant’anni fa sulla rivista “Interview” del mio adorato Andy Warhol e che ha l’aria di saperne una più del diavolo in fatto di costumi e fisime e angosce della città più bella del mondo. E’ un personaggio che andrebbe conservato in un museo perché non ha l’eguale nel mondo. Non ha mai avuto un iphon né un computer, è ebrea, aguzza, elegante, lesbica, li ha conosciuti tutti, di New York sa ogni andito, dice che un libro è la cosa più vicina che ci sia a un essere umano, e anche se avrebbe dovuto dire che è una cosa immensamente superiore a un essere umano. Siete mai stati traditi da un libro? Mai. Siete mai stati traditi da un amico o da un’amica? Mille volte, e per quanto mi riguarda potrei raccontarvene per pagine e pagine sino all’esaurimento della vostra attenzione. Mai avevo visto in tv un racconto dove di tanto in tanto c’erano pareti colme di libri e null’altro che questo. Mai mi ero sentito orgoglioso di amare i libri come nell’ascoltare la Lebowitz che racconta, punzecchia, allude, ghigna come di chi la sa lunga. Inimmaginabile che una creatura simile potesse sbocciare altrove che a New York, inimmaginabile che in una città altra che New York ci fosse un’aula dove la Lebowitz siede e parla e ha dirimpetto cento persone che ascoltano e ridono e applaudono di tutto cuore. Ve la immaginate Anna Maria Ortese che in un’aula italiana racconta e dice quel che sa e che ha vissuto e che le stiano dirimpetto cento persone che la ascoltano commosse? Quel che abbiamo in Italia è molto diverso, e purtroppo per me sono troppo elegante per dirvene i nomi e i cognomi e i vezzi. Posso solo dirvi quanto è alta la dose di disprezzo intellettuale che nutro nei loro confronti tutti i giorni e tutte le ore che Dio manda sulla terra. Una dose altissima. Che bello vivere a New York e raccontarlo come sa fare la nostra aguzza ebrea. Che belli quei circoli dove seggono lei e Scorsese, e che belle le vetrine di quelle librerie un po’ malandate, Che bello il pensiero di lei che manda a Warhol un testo scritto a mano e lui lo pubblica nel mentre che è sicuro, cinquant’anni fa, che le pagine più belle della sua rivista siano quelle pubblicitarie. Che bello sentir parlare una donna del nostro tempo che mai una volta usa le due parole più consumate e inutili del nostro tempo, “fascismo” e “comunismo”, e invece racconta le persone per strada, le persone che straparlano, le persone che ascoltano, le persone che non sanno che cosa succederà della nostra vita. Le persone come lo siamo tutti noi.

“In Russia il capitalismo ha trionfato sul comunismo, in America il capitalismo ha trionfato sulla democrazia.”

 “Anche quando lavati di fresco e privati di tutti i dolciumi in vista, i bambini tendono ad essere appiccicosi.”

“Ricordati che sei all'ultimo stadio della tua vita di adolescente quando ti rende felice il solo sapere che il telefono squilla per te.”

“L'umiltà non è un buon sostituto di una buona personalità.”

“Il pensiero originale è come il peccato originale: entrambi sono accaduti, prima che tu nascessi, a persone che non hai potuto eventualmente incontrare.”

“Il contrario di parlare non è ascoltare. Il contrario di parlare è aspettare.”

“Il mio animale preferito è la bistecca.”

“Il successo non mi ha rovinato, sono sempre stata insopportabile.”

“Non preoccuparti di discutere del sesso con dei bambini piccoli. Raramente hanno qualcosa da aggiungere.”

“La televisione educativa dovrebbe essere abolita nel modo più assoluto. Vostro figlio proverà una comprensibile delusione scoprendo che le lettere dell'alfabeto non saltano fuori dai libri e non si mettono a danzare in tutù azzurro.”

“Nessun animale dovrebbe mai saltare sui mobili del soggiorno a meno che non sia assolutamente certo di poter di poter tenere testa nella conversazione.”

 “Diventare una donna è di particolare interesse solo per un maschio transessuale che aspira ad essere tale. Per le donne d'oggi è semplicemente una buona scusa per non giocare a calcio.”

“La vita è qualcosa che ti accade quando non riesci ad addormentarti.”

“Se sei un cane e il tuo padrone ti suggerisce di indossare un maglioncino... suggeriscigli di indossare una coda.”

 “Il comunismo richiede ai suoi aderenti che si alzino presto e partecipino a una faticosa serie di esercizi ginnici. Per chi si augura che le sigarette arrivino già accese il pensiero di tale sforzo a un'ora in cui le persone oneste stanno per addormentarsi è completamente detestabile.”

“Non permettere mai a tuo figlio di chiamarti per nome. Non ti conosce da abbastanza tempo.”

 “Non ho mai preso droghe allucinogene perché non ho mai voluto che la mia consapevolezza si espandesse di una virgola non necessaria.”

“Le grosse e pelate carote crude sono accettabili come cibo solo per coloro che vivono nelle tane attendendo con impazienza la Pasqua.”

“Se le tue fantasie sessuali interessassero davvero gli altri, non sarebbero più fantasie.”

“Chiedi a tuo figlio cosa vuole per cena solo se è lui a comprare.”

“Le grandi persone parlano di idee, le persone medie parlano delle cose, e le piccole persone parlano del vino.”

“Ho fatto i calcoli e le tue probabilità di vincere la lotteria sono identiche sia che tu giochi oppure no.”

“La carriera letteraria non è priva di svantaggi, principalmente quello di essere chiamati di frequente a mettersi seduti e scrivere.“

Il sonno è la morte senza responsabilità.

Il telefono è un buon modo di parlare alla gente senza essere obbligati a offrir loro da bere.

Le ragazze che ci stanno sono puttane, quelle che non ci stanno sono signore. Ma è un'accezione arcaica. Se ti capita di incontrare una ragazza che non ci sta non saltare alla conclusione di aver trovato una signora. Probabilmente hai trovato una lesbica.

Le verdure sono interessanti ma mancano di senso se non accompagnate da un buon pezzo di carne.

·        Francesco Grisi.

Cultura di destra, un ricordo di Francesco Grisi: la battaglia per la libertà degli scrittori. Massimo Pedroni sabato 9 Maggio 2021 su Il Secolo D'Italia. Desiderando riportare alla dovuta attenzione la figura di Francesco Grisi in occasione della ricorrenza della data della sua nascita 9 maggio 1927 avvenuta a  Vittorio Veneto, ritengo sia utile riportare tra le altre  anche la mia, seppur marginale testimonianza. Ebbi la fortunata occasione di poterlo conoscere e frequentare. Questo avvenne, poiché dopo un insieme di mie esitazioni, incertezze, ripensamenti, sciolsi gli ormeggi e decisi di  portare alla sua attenzione, un dattiloscritto.  Grazie a lui diventò il mio libro di esordio letterario con il titolo “Ferdinand”. Sono ancora onorato della presentazione che ne fece.  Ebbi modo così, di trovarmi di fronte  a un personaggio di grande spessore.

Le domande e la paglietta. L’impressione che avevo di lui, era articolata. Composita. Avvertivo, come sovente, nel suo essere presente, inaspettatamente diventasse lontano. Assorbito, da “domande?”, “interrogativi?”, “riflessioni?” che come uno sprazzo di luce lo rapivano. All’ inizio non capivo, l’oggetto di questi pensieri.  Cosa che compresi in seguito, grazie alla lettura dei suoi libri e a una maggior confidenza raggiunta. Domande, quelle che si poneva, alle quali è veramente difficile riuscire a dare risposta. Quesiti, sulla ricerca di “senso”. Sulle finalità dell’esistenza. Il tutto forgiato, al lume di una solida, quanto irrequieta fede cattolica. Il cappello di paglia, che portava assiduamente, forse non era abbastanza capiente per contenere tutte le risposte. Alcune rimanevano sospese.

Il dono dell’ironia. Di questo costante rovello, che avevo percepito con esperienza diretta, trovai circostanziata conferma leggendo i suoi libri. “Maria e il vecchio” in primis.  Grisi era un affabulatore di grande rilievo. Accompagnava il suo dire con lo sguardo dei suoi occhi chiari in fuga verso un “altrove” remoto, indefinito. Riusciva a determinare momenti di intensa riflessione tra i suoi ascoltatori. Per poi con vera e propria, istrionica maestria, alleggerire il clima con l’ironia che gli era propria. Avere in dote il dono dell’ironia, l’aiutava a superare certe “strettoie”. Era il grimaldello che  sapientemente rendeva scintillante, per sostenere le varie amarezze e disdette dell’esistenza. Uno scrittore, come Grisi, che lavorava abbandonandosi al “flusso di coscienza”, era più che presente sul fronte immaginario, di coloro i quali trasformano in“dicibile”, ciò che appare come un gomitolo inestricabile di pensieri, emozioni, sensazioni. Terreno proprio di poeti e scrittori.

Paladino del pluralismo culturale. Queste tematiche, non gli impedivano certo di sviluppare un intensa attività di organizzatore e promotore di vicende culturali. Fu un vero e proprio paladino del pluralismo culturale. Fondando, con altri intellettuali, e ricoprendone il ruolo eminente di Segretario, il Sindacato Nazionale Libero Scrittori nel 1970. L’opera che riuscì a dispiegare Francesco Grisi   a favore della  promozione di quella organizzazione fu veramente formidabile. Il Sindacato raccoglieva le migliori e qualificate energie intellettuali, che cercavano spazi di libertà e indipendenza da qualsiasi impostazione ideologica d’impronta marxista.  In quegli anni era un impresa veramente impegnativa. Ma la intensa partecipazione alla vita pubblica, Grisi la confermò anche con l’impegno politico che profuse per la nascita del nuovo soggetto politico che stava nascendo allora Alleanza Nazionale.

La grande sfida intellettuale. La sua famiglia era di origine della Calabria. Terra alla quale rimase fortemente legato. Come lo fu alla cittadina di Todi, in Umbria. Dove aveva la residenza della tranquillità agreste. In questa sede amava dedicarsi anche alla pittura  Produsse testi sia di letteratura che di saggistica. Ne citiamo alcuni: A futura memoria, Maria e il vecchio, La poltrona nel Tevere. Per la saggistica ricordiamo: La protesta di Jacopone da Todi, Scrittori cristiani volenti o nolenti, Storia dei carabinieri.  Rileggendo in questi giorni il suo libro Maria e il vecchio, ho ritrovato il Grisi attentamente presente nella sua contemporaneità,  amalgamata con le temperie dell’inquietudini esistenziali. Increspature, che per lo scrittore, non potevano non passare, attraverso l’esperienza della fede. “Da una parte c’è la vita della logica, dall’altra c’è la vita del mistero … che soprattutto per un cattolico è un problema teologico … Dio non ci viene dato tutti i giorni, è tutti i giorni che lo dobbiamo conquistare”. La protagonista Maria, è una giovane terrorista che coinvolge a sua insaputa il Prof Francesco Malaparte (alter ego dell’autore), nella sua attività . Come minimo il professore s’invaghisce di lei. Da questa  piattaforma letteraria, in  Maria e il vecchio , l’autore fa decollare  alcune  riflessioni, che a uno sguardo superficiale, possono apparire fuori contesto. In realtà, prendeva  il lettore in contropiede. Lo portava su territori alti, ripidi poco frequentati. Per far  condividere il suo profondo sentire. Ne danno prova tra i tanti passaggi uno che troviamo in “Maria e il vecchio”: “Dio lavora nell’eternità. Una mia amica mi diceva che è il cerchio senza confini e quindi senza centro. Leggevo che dona agli uomini il presente che è il punto dove il tempo dell’uomo tocca l’eternità. Vedi. Dio esiste come eternità e il diavolo  come storia”.  Alla luce di un trionfante “pensiero debole”, le considerazioni di Grisi, che si spingeva a  parlare addirittura del diavolo, costituivano l’ennesima limpida sfida intellettuale come gli era abituale fare.

·        Francesco Guicciardini.

Il pensiero di Francesco Guicciardini, scrittore antipopulista amico di Machiavelli. Filippo La Porta su Il Riformista l'8 Settembre 2021. «Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusioni, sanza gusto, sanza deletto, sanza stabilità». Questo epitaffio definitivo sul populismo, sulla massa instabile e incapace di discernimento, è stato pronunciato da uno di quegli scrittori immensi, inarrivabili, di cui noi italiani dovremmo essere orgogliosi: Francesco Guicciardini. L’estate, in cui ci ritroviamo ad avere un po’ più di tempo (o ci illudiamo di averlo) è stagione di classici. Chi è un classico? Direi: un autore che non solo eccelle ma che dura nel tempo, poiché ha riflettuto in profondità su alcuni caratteri “eterni”, o pochissimo mutevoli, della natura umana. Il mio classico di agosto è stato I ricordi di Guicciardini (nati nel 1515, e pubblicati postumi), uno zibaldone di pensieri concentrato in duecento paginette, un capolavoro assoluto della nostra letteratura, un deposito inesauribile di sapere psicologico, antropologico, politico, etico, etc. (“ricordi” sta per “ammonimenti”), che si affianca alla sua grande opera storiografica. Altro che il Kitsch filosofico-allegorico di Nietzsche! No, qui siamo interamente dentro il bene e il male, dentro la umana responsabilità, e soprattutto all’interno di un pensiero scandito da uno stile finissimo, denso e conciso. Anzitutto sgombriamo il campo da un equivoco, e cioè la supposta contrapposizione con Machiavelli (il quale peraltro avrebbe condiviso in pieno quel giudizio sulla massa), che origina da De Sanctis, ostile a Guicciardini perché avrebbe nobilitato l’ossessione degli italiani per il loro angusto “particulare”. Restano ovviamente importanti differenze tra i due – possiamo solo accennarne (forse la più rilevante è la diversa concezione del conflitto, in Machiavelli assolutamente positiva…) -, ma innumerevoli sono le affinità e i punti di contatto: certamente entrambi si collocano entro un filone di realismo politico, temperato in Guicciardini da un forte senso della misura («non mi piacque mai ne’ miei governi la crudeltà e le pene eccessive»), così come una antropologia decisamente pessimista che viene corretta in Gucciardini da una convinzione della bontà originaria degli esseri umani (i quali gli appaiono fragili più che malvagi: «gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che a male», anche se facilmente se ne lasciano deviare). I due furono inoltre amici ed ebbero un fitto scambio intellettuale. Entrambi caddero in disgrazia e videro il fallimento delle proprie aspirazioni politiche, dopo aver svolto fondamentali incarichi pubblici, anche se la vicenda di Guicciardini prima ambasciatore in Spagna e poi all’interno dello stato pontificio (con i papi medicei) ci appare meno turbolenta e meno drammatica. Torniamo ai Ricordi, dove viene anticipato di mezzo secolo il saggismo moderno di Montaigne (suo ammiratore), l’invenzione del personal essay, come del resto nell’epistolario machiavelliano (mentre Castiglione e Della Casa, a loro modo arguti moralisti e osservatori del costume, non escono mai da certa precettistica a fini pratici). Proprio come Montaigne Guicciardini è un pensatore antimetafisico, avverso a ogni sapere assoluto: ha un senso così acuto della complessità e varietà dell’esistenza, che si vieta di estrarne una qualche essenza, o di ricavarne leggi eterne. I singoli eventi sono per lui irripetibili, e perciò occorre giudicare le cose del mondo «giornata per giornata». Il suo sapere è interamente fondato «sull’accidentale dell’esperienza». Per la ragione che «gli uomini sono al buio delle cose» e chi così la speculazione metafisica «serve più ad esercitare gli ingegni che a trovare la verità». Non aspira, come invece Machiavelli, a elaborare una teoria politica o una filosofia della Storia. E ci tiene a precisare che «la dottrina accompagnata co’ cervelli deboli non li migliora». Qui e là ho selezionato alcuni ricordi, senza pretese di completezza, che ora vorrei sottoporvi. Prendiamo subito la questione della vita come palcoscenico, tipica del ‘500 e del ‘600. Guicciardini è consapevole che ognuno di noi recita una parte nel teatro della società. Anzitutto elogia che vive in modo «libero e schietto» usando la simulazione solo raramente (e così giovandosene ancor più), ma poi scrive un “ricordo” particolarmente istruttivo: sforzatevi di apparire buoni (vi sarà utile), ma dato che le opinioni false non durano a lungo «difficilmente vi riuscirà il parere lungamente buoni, se in verità non sarete». Accennavo a un pessimismo moderato. Si veda il suo giudizio su certi eventi politici che prescindono per lui da qualsiasi legge (tendenzialmente universale) di equità morale: ad esempio non riesce ad accettare il fatto che la «giustizia di Dio» comporti la presa di Milano da parte di Ludovico Sforza, che «acquistò sceleratamente, e per acquistarlo fu causa della ruina del mondo» (vi è insomma una «scelleratezza» che trascende qualsiasi calcolo di utilità). Gucciardini è smascheratore della falsa morale qualche secolo prima della cosiddetta «scuola del sospetto»: guardate come «ciascuno reputa brutti i peccati che lui non fa, leggeri quelli che egli fa», e con questa regola misura il bene e il male. E come esempio di realismo crudo, con una sfumatura di cinismo: «Pregate Dio di trovarvi dove si vince» poiché sarete lodati anche per ciò che non avete fatto, mente «chi si trova dove si perde» è imputato «di infinite cose» di cui è «inculpabilissimo». Concludo su un “ricordo” particolarmente affilato, che sono tentato di applicare alla vita quotidiana, e alle vicende di persone che conosco: «la buona fortuna» degli uomini è il loro maggiore nemico, perché li fa diventare spesso «cattivi, leggeri, insolenti», perciò diventa un compito ancor più difficile per loro «resistere» a questa che alle avversità. Che significa? Dobbiamo augurare qualche disgrazia ad amici e conoscenti? Certo che no. Ma occorre sapere che la fortuna e il successo li rendono peggiori poiché ci basta poco per non vedere la assoluta casualità di ciò che ci capita e per dimenticare il dolore degli altri. Filippo La Porta

·        Gabriele d'Annunzio.

Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Francesco Specchia per "Libero quotidiano" il 2 dicembre 2021. «Conservare la libertà intatta fino all'ebbrezza». Benignamente ossessionato dallo spettro di Gabriele D'Annunzio - di cui sospetto essere la reincarnazione - Giordano Bruno Guerri nottetempo prepara il convegno sulla follia del Vate (al festival Follemente di Teramo, diretto da Gianluca Veneziani). E nel mentre riceve la notizia della sua riconferma alla Presidenza del Vittoriale degl'Italiani. Col quarto mandato in tredici anni, è recidivo. Oramai è parte delle sacre mura. Giordano, su dite si posa la polvere dei secoli. Ancora presidente e con un museo/mausoleo/circo maximo che non riceve finanziamenti pubblici, e con Franceschini, un ministro di sinistra che rinomina manager uno storico di destra noto per criticare la destra. Qualcosa non mi torna...

«Cosa non ti torna? Sono contento che il mio lavoro sia apprezzato trasversalmente. Il Vittoriale è rimasto sempre in attivo grazie allo sbigliettamento (chiudiamo a 180mila visitatori, più 70mila rispetto al 2020). Abbiamo trasformato quel progetto visionario in ciò che voleva D'Annunzio: un luogo dove pulsassero natura, storia, vita e bellezza e dove fosse omaggiato nei tempi. L'abbiamo terminato con la pavimentazione del teatro e riportando al mausoleo le salme dei compagni d'arme del Vate: il 4 dicembre, dopo il ritorno dei resti del sindaco di Fiume Riccardo Gigante che Tito gettò in una fossa comune, inumiamo l'ultima salma del sergente Antonio Gottardo» 

Al festival sulla follia tu parli delle Tre follie di Gabriele D'Annunzio. Quali sarebbero?

«La prima è, appunto, il Vittoriale. La seconda e l'impresa di Fiume: partì dall'essere nazionalista e divenne rivoluzionaria, si voleva annettere Fiume all'Italia e si finì con la voglia di annettere l'Italia a Fiume. E, se ci pensi, la Carta del Carnaro promulgata l'8 settembre 1920 durante gli ultimi mesi dell'impresa; be', precorreva i tempi. In un momento in cui tutto il mondo discuteva se dare il voto alle donne, la carta predicava l'uguaglianza assoluta tra uomo e donna: la donna non solo poteva votare, ma essere eletta e doveva fare perfino il servizio militare».

Alla faccia del MeeToo, del politicamente corretto, della violenza di genere

«Non solo. Introdusse anche il divorzio con cinquant' anni di anticipo, mise gli operai nei cda delle fabbriche. E perorò due grandi idee: la riforma dell'esercito in cui venivano aboliti i gradi (la copiò Mao) e la Lega dei Popoli Oppressi che tutelava tutte le minoranze, dai negri d'America ai cinesi in California, anticipò le Leghe territoriali. Il Vate era avantissimo, unico, inimitabile. Diceva che "l'uomo d'intelletto fa la sua vita come si fa un'opera d'arte". Ci tentano in molti, ma solo a lui è riuscito un capolavoro». 

Se lo proietti all'oggi, non ce lo vedresti un D'Annunzio, lancia in resta, contro la cancel culture, o il Natale cancellato da una troppo zelante dirigente della Commissione europea?

«Sì. Questa cosa del politicamente corretto e della cancel culture la riterrebbe orrenda oltre che antiestetica. Se pensi all'idea di cancellare il Natale, ti torna in mente che D'Annunzio che non festeggiava né il Natale né altre feste (festeggiava solo le personali ricorrenze), ma aveva nella Prioria qui al Vittoriale una collezione di oggetti - cristiani, induisti, buddistiche gli davano il senso del sacro. Se gli avessero detto di non festeggiare il Natale avrebbe agghindato con palle di vetro tutti i cipressi del Vittoriale. E, bada bene, sono 217»

E questo ci porta alla tua terza follia dannunziana, il tentativo di trasformare la società italiana. Ma ci riuscì davvero, o, a cominciare da Fiume, collezionò solo fallimenti mascherati da rivoluzione del costume?

«Il tentativo di rovesciare una società italiana fatta da una borghesia piccina, rancorosa, timorata di Dio sta nello scossone che D'Annunzio diede attraverso i suoi scandali, il suo dandysmo, il dedicarsi ai piaceri della vita, al fare debiti, a vivere tutto senza vergogna. Non faceva nulla di diverso da ciò che facciamo oggi solo che lo faceva un secolo prima. D'Annunzio è nostro padre, un rivoluzionario in tutto. Quando a 25 anni pubblicò Il piacere, Joyce disse: "Finalmente qualcuno che ci fa scoprire la letteratura italiana". D'Annunzio era più un visionario che un folle" «Stay hungry, stay foolish». 

Cioè mi stai dicendo che il Vate, con tutta la sua ridondanza, era una sorta di Steve Jobs ante litteram?

«Guarda, D'Annunzio era uno a tutto campo. Introdusse le espressioni "Beni Culturali" o "intellettuali". Come copywriter inventò "La Rinascente". Anche lo "scudetto" è roba sua. Lo tirò fuori dal cilindro in occasione di un torneo di calcio organizzato a Fiume; chi vinceva poteva appuntarsi sulla maglia questo piccolo scudo, idea che sarebbe stata copiata sette anni dopo dalla Federazione Italiana Gioco calcio. E, se vuoi, è stato il precursore di Instagram, dei social, dei selfie..."

Questa è tiratissima, Giordano, dai...

«Ma no, pensaci. Non si lasciava mai fotografare; sceglieva lui il fotografo e, personalmente, la posa giusta, l'immagine da servire al pubblico: pensoso, audace, sensuale. Ha anticipato pure gli influencer, anche se per lui sarebbe più adatto il termine opinion maker. Aveva, soprattutto a cavallo del '900, la capacità di incidere sulle mode: tutti gli uomini lo imitavano nei giorni di festa, si facevano crescere il pizzo come lui».

Allora potremmo anche dire che D'Annunzio, affetto da incontrovertibile satiriasi, si troverebbe a suo agio in questo periodo di fluidità sessuale, tipo i Maneskin?

«Be', era un uomo del suo tempo, alcune esperienze come i rapporti omosessuali non le aveva provate. Ma con le sue partner femminili è lecito pensare che si esibisse in ruoli lesbici. Probabilmente tutta questa fluidità di genere, dal punto di vista sessuale, lui oggi la cavalcherebbe, se non altro per avere, secondo il suo spirito, più opportunità. Però il periodo di massimo fulgore l'ebbe nei giorni di Fiume: nell'assedio il Vate viveva una "felicità ossidionale", era sfrenato; come un condottiero antico aveva conquistato la città senza sparare un colpo. Usava gli Uscocchi per gli atti di pirateria; fece rubare 48 cavalli all'esercito che l'assediava; e se li mangiò, restituendo 48 ronzini macilenti». 

Tornando alla tua nomina. Non mi hai risposto sul fatto che sei considerato di centrodestra ma mazzuoli l'impianto culturale del centrodestra e - mi pare di capire - l'onda "sovranista"...

«Io ho sempre criticato la cultura di destra per cercare di migliorarla. La vorrei liberale, liberista, libertaria e magari un po' libertina; ma la vedo più ingessata nel tradizionalismo. E dipende da cosa intendi per sovranismo. Se si parla di difesa delle proprie radici, mi va benissimo; se lo si intende come rinchiudersi nel proprio mondicino rifiutando il confronto con l'esterno non mi va bene. Purtroppo credo che siamo più sulla seconda strada...»

Da blitzquotidiano.it il 30 novembre 2021. Gabriele D’Annunzio fu il primo influencer. Lo storico Giordano Bruno Guerri, intervistato da Alessandro Chetta per il Corriere della Sera, racconta: “Sto preparando un docufilm che andrà su Rai 2 a marzo. Vorrei dimostrare al grande pubblico che Gabriele D’Annunzio è padre di molte invenzioni, tutt’altro che uomo del passato coperto di polvere: è un nostro contemporaneo”. “Capiva le novità al volo – racconta –  in primis la pubblicità, fiutava lo spirito del tempo e spesso lo creava. Inventò il selfie e di ogni sua foto curava la diffusione. Si può dire che immaginò Instagram e gli influencer…”. (…) Al Circolo dei lettori di Torino – chiede Alessandro Chetta del Corriere della Sera – lunedì 29 novembre alle 18 e 30 terrà una lezione sull’impresa di Fiume e le vicende del confine orientale. Torino guarda il confine opposto, occidentale, dalla storia ricca ma lineare fatta di annessioni, cessioni e conquiste. Ad est invece secoli di caos. Le ragioni? “Da est sono sempre arrivati gli invasori. Da Attila all’impero asburgico, senza dimenticare gli ottomani. È perciò un confine vero, fragile, tutt’altro rispetto alla cuginanza coi francesi ad ovest. Del resto non siamo stati solo invasi ma abbiamo cercato di assorbire alcune di quelle terre orientali, spesso con scarso successo”. Nel 2025 però quel confine salderà le due anime con Gorizia-Nova Gorica Capitale europea della cultura. “Evento molto significativo anche se le due città sono divise solo in teoria. Si può dire siano un unico centro con le sue parti, ognuna con proprie regole, tradizioni, lingua. Io sono in un gruppo di lavoro che prepara il programma col governatore Massimiliano Fedriga e Vittorio Sgarbi”.  “Parliamo di Fiume – continua il giornalista del Corriere – La memoria resta opaca. I meno attenti, la maggioranza, l’accostano al fascismo”. “Ma no, non più. O almeno non più come un tempo”. Dice di no? “Vige maggiore chiarezza dopo il centenario dell’impresa dannunziana, nel 2019, anche grazie anche alla digitalizzazione dell’archivio fiumano del Vittoriale (che Guerri presiede dal 2008, ndr). Di quei 16 mesi sappiamo tantissimo: vita di ministeri, prigioni, ospedali; le schede dei 30 mila legionari consultabili da chiunque. Un’operazione di verità storica che dà frutti. In più avevamo un fondo di 8000 lastre fotografiche rimaste incartate, inedite, poi restaurato e divulgato. Chi legge la Carta del Carnaro a tutto pensa tranne ai fascisti. Stilata da Alceste de Ambris, sindacalista rivoluzionario, e riscritta da D’Annunzio nella sua prosa. Vi si proclamava la parità uomo-donna, il divorzio, e molte altre cose inaudite per quel tempo”. “Torniamo al poeta – conclude Chetta -. Dopo anni di oblio il Vittoriale splende”. “Ho frequentato la Cattolica di Milano – spiega Giordano Bruno Guerri – e raggiunsi il Vittoriale per la tesi di laurea su Giuseppe Bottai. Il presidente dell’epoca mi portò a visitare la casa – la Priorìa – che non era aperta al pubblico: rimasi folgorato. Molti anni dopo, circa 35, scrissi un libro su D’Annunzio L’amante guerriero e a sorpresa venne la nomina. Oggi è la casa museo più visitata d’Europa. Nel 2008 era un sito che riversava in uno stato di tristissimo abbandono, ho dovuto reinventarlo. E adesso, posso dirlo, è un posto figo». Figo? «Sì! Mi piacerebbe venisse inteso non come un ritiro per nostalgici ma una destinazione smart, attraente, così da esclamare: ‘Sai, sono andato al Vittoriale…wow!”.

Gabriele D’Annunzio e il suo “Eja, alalà. Viva l’amore” uscito da De Piante editore. Carlo Franza il 29 ottobre 2021 su Il Giornale. “Eia, alalà. Viva l’amore” è un poemetto conviviale, dalla struttura metrica a rime baciate e intrecciate, composto da Gabriele d’Annunzio (1863-1938) probabilmente negli anni Novanta dell’Ottocento, forse primissimi del Novecento (la data è incerta, e il titolo è redazionale), durante una delle numerose occasioni in cui il Poeta si trovava in Abruzzo, tra Pescara o Francavilla. Il componimento rievoca una festosa cena (dopo aver mangiato anche il “Parrozzo” dolce abruzzese) a cui il giovane d’Annunzio avrebbe partecipato con amici e parenti. Il manoscritto del componimento comparve sul mercato un catalogo d’asta di Bloomsbury del 2009, poi acquistato e depositato negli Archivi del Vittoriale degli italiani di Gardone Riviera. Il testo completo fino a oggi è apparso pubblicato soltanto sulla rivista interna del Vittoriale. Il volumetto edito da De Piante, illustre e preziosa casa editrice lombarda, porta alla ribalta un manoscritto autografo  di D’Annunzio in 28 fogli (nella misura 41,5×15,5 cm.), fogli di carta ingiallita, scritti con inchiostro scuro e numerose correzioni. Il manoscritto ora pubblicato, non aveva titolo, ed è certamente un “poemetto giovanile”, perché così fu  presentato nel catalogo della casa d’aste Bloomsbury; potrebbe essere  “giovanile”  ma non proprio dello stesso periodo di “Primo vere”, composto e pubblicato dal liceale Gabriele nel 1879, a 16 anni,  e già  allora di squisita fattura letteraria  tant’è che impose il giovane D’Annunzio. Il componimento “Eja,alalà. Viva l’amore” oggi pubblicato, è databile fra il 1893 e il 1897, quando d’Annunzio ha per l’appunto 30-34 anni;  non aveva ancora scritto i suoi capolavori poetici, né  era un ragazzino, certo un giovane autore  ormai alla ribalta. “Il testo è di un interesse assoluto, perché contiene in nuce stilemi poetici, temi e topoi del d’Annunzio più maturo”, come ha scritto Annamaria Andreoli per il catalogo d’asta Bloomsbury. Il luogo dove questo «scherzo poetico» venne composto si pensa sia Francavilla in Abruzzo, e probabilmente venne declamato nel palazzo del barone Francesco Bonanni d’Ocre, a Fossa, in provincia dell’Aquila: un gioiello di bellezze artistiche e architettoniche purtroppo devastato dal terremoto del 2009. Fossa è relativamente lontana sia dalla circoscrizione di Ortona sia da Francavilla. Ma il palazzo del barone Bonanni era prediletto per gli incontri di artisti abruzzesi, fra cui il pittore Francesco Paolo Michetti, intimo di d’Annunzio. Ecco l’incipit: «A Francavilla / siamo venuti / per darvi un saggio / in tre minuti / (ci vuol coraggio) / della favilla / inestinguibile / immarcescibile / che in core ci arde». Il componimento è  stato chiaramente  scritto per un’occasione conviviale, piena di amici e parenti: citati,  ad  esempio, la sorella Anna con il marito Filippo, insieme a una sfilza di altri nomi abruzzesi e  certo testimoni dei legami del poeta con la sua terra d’origine. Ha scritto Giordano Bruno Guerri: “ Agli appassionati di storia interesserà che compaia per la prima volta l’ “eja alalà”, grido di guerra e di esultanza degli antichi soldati greci che d’Annunzio trovò più consono all’anima latina del barbaro “hip hip hurrah!”. Nel poemetto viene usato in un modo giocoso: In alto i cuori! / Eja, alalà; / Passa – o Signori! – / la Nobiltà. Poi ne farà un uso molto più impegnativo. D’Annunzio lo aveva scoperto in Eschilo e in Pindaro, e finora si riteneva lo avesse usato per la prima volta nella tragedia La Nave (1907) e nella Fedra (1908). Lo usò ancora, urlandolo, nell’agosto del 1917, quando guidò tre raid notturni sulle basi austriache di Pola, e lo riscrisse nella Canzone del Quarnaro, del 1918. Poi il grido sarebbe stato adottato –come altre invenzioni di d’Annunzio, che se ne sdegnava– dagli squadristi fascisti: i quali ne fecero il grido della «violenza inutile» e del “castigo ingiusto”, come dichiarò il poeta nel 1921. Del resto né i fascisti, né tanto meno Mussolini, avrebbero mai usato la formula scelta da Gabriele per un suo discorso dal balcone, durante l’impresa di Fiume: “Viva l’Amore! Alalà!”. Esclamazione che diventa il titolo di un volumetto oggi uscito da De Piante. Gabriele D’Annunzio (Pescara, 1863 – Gardone Riviera, 1938) è stato lo scrittore – e poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano, eroe della Prima guerra mondiale – più celebre del suo tempo. La sua arte e la sua personalità furono così determinanti per la cultura di massa, che influenzarono usi e costumi nell’Italia dell’epoca: un periodo che più tardi sarebbe stato definito, appunto, annunzianesimo. Al termine della gloriosa impresa di Fiume, nel 1921 si ritirò in una villa a Gardone Riviera, sul lago di Garda (poi ribattezzata il Vittoriale degli Italiani), che ampliò e arredò come un mausoleo di ricordi della sua vita inimitabile e dove lavorò e visse fino alla morte. Carlo Franza

D'Annunzio e quel palazzo che indispettì il fascismo. Giordano Bruno Guerri il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Nel marzo del '24 il Vate tentò di comprare un edificio a Brescia per farne un teatro e una scuola popolare. L'immagine è arrivata via whatsapp dall'ingegnere Roberto Saccone, presidente della Camera di commercio di Brescia e membro del Consiglio di amministrazione del Vittoriale degli Italiani. A una prima occhiata sembra una delle tante lettere di Gabriele d'Annunzio (centinaia, migliaia, forse) che vengono incorniciate su una parete per reverenza al personaggio e alla sua bella scrittura. Ma questa lettera - inedita - ha un forte significato storico, che ho ricostruito con gli archivisti del Vittoriale, Alessandro Tonacci e Roberta Valbusa. Il documento è datato 15 marzo 1924, tre giorni dopo il sessantunesimo compleanno di d'Annunzio e meno di tre mesi prima del delitto Matteotti. Dimostra una palese ostilità verso il regime fascista che si sta instaurando, ponendosi invece nel solco della Carta del Carnaro, la costituzione scritta da d'Annunzio a Fiume, per la crescita della bellezza e della democrazia. Nel 1924 il Comandante così preferisce essere chiamato il Vate è pieno di debiti, tanto che per acquistare quello che diventerà il Vittoriale (una vecchia cascina con un po' di giardino) ha dovuto accendere un mutuo che non pagherà mai. Tuttavia in quel marzo del 1924 cerca di acquistare Palazzo Zoppola in via Marsala 33 a Brescia (oggi Palazzo Ferrazzi), ex Casa del Popolo sede dei socialisti. Vuole farne un teatro di cultura e una scuola popolare. L'acquisto della Casa del Popolo salda l'esigenza dei socialisti bresciani di salvare un cospicuo patrimonio economico con la volontà di Antonio Masperi, fidato amico di Gabriele d'Annunzio, di boicottare l'azione dei dirigenti fascisti bresciani, che vogliono il palazzo, e con aspirazioni del poeta a ergersi a difensore degli oppressi. A d'Annunzio deve essere sembrata un'occasione da non perdere, in un momento di crescente dissenso nei confronti del fascismo. Masperi, classe 1894, è un personaggio interessante, fra i molti che vagarono tra filofascismo, antifascismo, fascismo repubblicano. Bresciano, nazionalista, interventista, pluridecorato durante la Prima guerra mondiale, andò a Fiume con d'Annunzio, portando con sé madre e sorella. Il Comandante lo volle ufficiale della sua Guardia e gli affidò missioni importanti, e anche amene: fu lui, appassionato di sport, l'arbitro nella partita di calcio fra legionari e fiumani in cui per la prima volta venne appuntato lo scudetto tricolore sulla maglia della squadra vincitrice. Ostile al fascismo trionfante, al Vittoriale Masperi era vicinissimo a d'Annunzio, e nel 1923 tentò di fondare con il deputato socialista Domenico Viotto il Partito delle persone oneste, antifascista. È in questo periodo che si collocano i tentativi di acquistare Palazzo Zoppola. Con Masperi collaborano Viotto, che poi verrà arrestato e mandato al confino, e Dante Bravo, fotografo, gallerista e fornitore di d'Annunzio di oggetti d'arte e di molti contatti fra gli artisti contemporanei. Il 15 marzo 1924 nello studio di Masperi, che è avvocato e procuratore speciale di d'Annunzio, l'onorevole Viotto - presidente della Società cooperativa Casa del Popolo - collabora alla stesura del documento d'acquisto. Non disponendo della cifra necessaria all'operazione (400mila lire + altre 114mila per consentire alla Casa del Popolo di saldare le passività) il poeta accende un debito di 200mila presso il Credito agrario bresciano poi Banco di Brescia, poi Ubi, oggi Intesa - dando in garanzia cambiali avallate da Giovanni Battista Bianchi, industriale bresciano e sindaco di Maderno, e dallo stesso Masperi. L'iniziativa irrita i fascisti bresciani e da Roma arrivano chiare indicazioni politiche di impedire l'operazione. Nei giorni successivi l'onorevole Carlo Bonardi, sottosegretario di Stato, sollecita il prefetto di Brescia a nominare un commissario e il 21 marzo 1924 l'avvocato Perugino Sicilia viene incaricato di procedere a una inchiesta rigorosa per accertare la situazione patrimoniale e amministrativa della Società cooperativa Casa del Popolo: si sospetta che l'ammontare delle passività denunciate fosse gonfiato per ridurre al minimo la disponibilità da passare, secondo quanto stabilito dallo statuto, all'Unione cooperativa di consumo controllata ormai dai fascisti. Il progetto si arenò e nel frattempo avviene il delitto Matteotti, che d'Annunzio definì riferendosi al fascismo «fetida ruina». Il poeta si chiude nel silenzio, concentrando il suo impegno nel lavoro creativo e nell'edificazione del Vittoriale. I propositi di lotta a oltranza sono presto dimenticati: «Ho ripreso la mia opera d'artista... Tutto il resto cade», scrive a Mussolini il 16 maggio 1924. Ancora più esplicito il messaggio a Masperi del 4 giugno 1924: «Io - irrevocabilmente - sono ridiventato scrittore mero». Disperando di poter contrastare il fascismo, ne accetterà gli onori e le elargizioni per edificare il Vittoriale, ma in lui rimarrà sino alla fine l'impressione di una «fetida ruina». Masperi nel 1925 si mise a capo di Italia Libera, un'organizzazione antifascista, e il 5 gennaio 1925 venne arrestato insieme a un gruppo di Arditi del Popolo. Tornò fascista dopo l'8 settembre 1943, e fu ucciso dai partigiani nei giorni della Liberazione. Giordano Bruno Guerri

Lo scudetto sulla maglia azzurra inventato da d'Annunzio e l'intollerabile abuso dell'Italia in ginocchio...Andrea Cionci Libero Quotidiano il 02 luglio 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

In effetti siamo un po’ in ritardo, ma forse qualche “anima bella” politicamente corretta potrà ancora convincere, all’ultimo, la nostra Nazionale di calcio a cambiare la maglia. Ci sovviene, infatti, che lo scudetto tricolore sulla maglia azzurra fu inventato nientemeno, fra teschi, pugnali e gagliardetti neri, da d’Annunzio, durante l’epopea fiumana. Individualista per natura, il poeta abruzzese non amava troppo gli sport di squadra, ma, sempre attento alle novità, nel 1887, sulle spiagge di Francavilla (CH) giocava le sue prime partite. Il gioco del pallone stava prendendo piede in tutto il mondo, dall’Inghilterra, e il suo amico compositore Francesco Paolo Tosti aveva portato da “Albione” un nuovissimo pallone di gomma. Racconta Giammarco Menga in “Sportivamente d’Annunzio” (ed. Croce, 2016) che, durante uno scontro, il Vate perse due denti e con essi – prudentemente - l’abitudine di giocare a pallone. Passarono vent’anni finché, con la presa di Fiume, nel 1919, lo sport viene inserito come articolo fondamentale nella futuristica “Carta del Carnaro”: “Gli statuti guarentiscono (sic) a tutti i cittadini d’ambedue i sessi l’educazione corporea in palestre aperte e fornite”. L’esercizio fisico ha, per il Vate, importanza fondamentale e all’inizio del ’20, i legionari già si cimentano in gare di lotta, podismo e calcio. Per rinsaldare l’amicizia fra cittadini fiumani e militari occupanti viene così organizzata una partita che si disputa il 7 febbraio 1920 presso lo stadio di Cantrida. I primi indossano la maglia nero-verde di una squadra locale, l’Esperia, i legionari, invece, la maglia azzurra della nazionale italiana che, tuttavia, all’epoca recava sul petto lo scudo sabaudo con la croce bianca in campo rosso. Così il Vate, volendo dare un chiaro segnale a casa Savoia, lo fa sostituire con uno scudetto tricolore, semplice, senza simboli: Fiume doveva essere italiana, ma sotto il vessillo repubblicano. Da allora, lo scudetto bianco-rosso-verde ricomparve nel ’31, accanto al fascio littorio, e poi nel ’47, nudo e crudo, per una amichevole con la Svizzera. Ammirando ancor oggi quell’inconfondibile stemma, (chissà quanto durerà) inevitabile chiedersi che cosa avrebbe detto il Vate nel vedere, stasera, i giocatori italiani inginocchiati in omaggio a un problema d’oltreoceano cavalcato da gente che mette a ferro e fuoco le città e distrugge statue. Li avrebbe guardati come si guardano delle pulci. L’iniziativa sarebbe già intollerabile se fosse stata presa in modo autonomo. La nazionale di calcio, infatti, rappresenta l’Italia che, al momento, non ha fatto pervenire notizia di volersi inginocchiare davanti a chicchessia. Nemmeno di fronte al Milite Ignoto, di cui quest’anno ricorre il centenario, o alle più alte cariche dello Stato. Quei calciatori sono strapagati per giocare partite e portare dignitosamente il nome dell’Italia all’estero, NON PER PARTECIPARE A INIZIATIVE POLITICHE O IDEOLOGICHE di qualsivoglia genere, di destra, di centro, o di sinistra. Peraltro non è che chi non si inginocchia sia automaticamente un tesserato del Ku Klux Klan, quindi nulla lo giustifica. Si tratta di un vero e proprio abuso, di un affronto gravissimo alla dignità della Nazione, davanti al quale davvero in pochi hanno reagito. Il gesto di inginocchiarsi ha una valenza simbolica assoluta: è la sudditanza totale, la sottomissione completa. Paradossale come non si inginocchi più nessuno, nemmeno Bergoglio davanti al Santissimo Sacramento, e invece lo debbano fare dei calciatori di fronte alle cosette degli uomini. Tuttavia, se l’idea fosse venuta a Mancini, sarebbe stata una trovata, senz’altro grave e criticabile, ma almeno prodotta in modo autonomo: la creatività e la teatralità degli Italiani, per una volta, uscita male. No, neanche questo. Ci si inginocchierà imitando gli altri, in nome del più becero conformismo, solo per compiacere, come affettati cicisbei, la squadra avversaria e per evitare pavidamente qualche stolida critica sui giornali. Una vergogna, una banalità e uno squallore senza fine. Un Paese serio, di fronte a un'offesa del genere, dovrebbe non guardare mai più una partita di calcio e non andare mai più allo stadio. Impossibile? Impensabile? E allora l’umiliazione di stasera è quello che ci meritiamo. Buon inginocchiamento a tutti.

IL DUCE E IL VATE. La Cineteca mette in rete una nuova raccolta di pellicole e rari documenti che raccontano Mussolini e D'Annunzio tra arte e storia. Simone Finotti, Venerdì 15/01/2021 su Il Giornale. Figli entrambi di un tempo di profondi turbamenti, interpreti ciascuno a suo modo di una nazione che arrancava ad inseguire i laceranti mutamenti -e malcontenti- sociali che covava in seno, Gabriele D'Annunzio e Benito Mussolini erano separati da una generazione: il che permise al primo (nato nel 1863) di ispirare dapprima, imbarazzare poi ed essere infine temuto dal secondo (classe 1883), che come è noto trasse buon gioco dal lungo «confino» del Vate al Vittoriale. Come chi appare di pasta simile ma è nell'intimo sentire assai diverso, i due si studiarono a lungo, si parlarono, si compresero e forse anche si stimarono, senza però mai amarsi, almeno secondo la vulgata più diffusa. Ma eccoli ora di nuovo l'uno accanto all'altro, i «carissimi nemici» come non li abbiamo mai visti, nella splendida rassegna Mussolini e D'Annunzio, il dittatore e il poeta, eccezionale raccolta di pellicole e rari documenti sospesi tra cinema e storia, in streaming su Cineteca Milano a partire dal 15 gennaio 2021. Punto di partenza, non poteva essere altrimenti, è il mito postbellico della «vittoria mutilata», perché proprio lì trovarono terreno fertile sia il dannunzianesimo militante, sia la nascita, a Milano, dei Fasci di combattimento, che non a caso recepirono molti rituali e pose di ascendenza romano-fiumana, a partire dal saluto a braccio teso. La celebre avventura del poeta nella città croata viene immortalata da un filmato inedito degli anni Trenta, Gabriele D'Annunzio: Fiume. Il Comandante, si sa, fu anche colui che celebrò il matrimonio tra la poesia e il volo. Non solo nell'opera letteraria, ma nel concreto dell'azione, come testimonia Il volo su Vienna (opera di un anonimo del 1918): le immagini originali narrano l'eroica iniziativa di un intrepido D'Annunzio che sorvolò la capitale austriaca per lanciare migliaia di volantini che inneggiavano alla fine delle ostilità: «Noi voliamo su Vienna -si leggeva su uno-. Potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà». Una delle opere più iconiche del D'Annunzio militante è La Nave, originariamente concepita come rappresentazione teatrale: qui la vediamo nel film-tributo girato dal figlio Gabriellino e Marco Roncoroni nel 1921 (l'originale fu restaurato proprio dalla Cineteca nel 1999). La pellicola rappresenta l'edizione cinematografica dell'omonima tragedia sulle origini della città di Venezia. Un'opera che in quegli anni divenne manifesto e sprone delle ambizioni colonialistiche italiane, condivise fra l'altro dal cantore delle «piccole cose» Giovanni Pascoli, che nel 1911 smise i panni del «fanciullino» per infervorarsi nel celebre discorso di Barga. Sono immagini che ricostruiscono un'epoca, rivelandone volti, personaggi, inquietudini, contraddizioni, turbamenti. Una variazione sul tema del figlio illegittimo, già sviscerato dallo stesso D'Annunzio nel tragico romanzo L'innocente, è Cenere (Febo Mari, 1916), film muto di ambientazione sarda ispirato all'omonimo «racconto del dolore» di Grazia Deledda. Una vera rarità in quanto è l'unica prova sul grande schermo della diva teatrale Eleonora Duse, nota per la tormentata storia d'amore con D'Annunzio (è lei l'Ermione de La pioggia nel pineto). La macchina da presa, in quegli anni, fu anche una preziosa testimone della parabola fascista. Diverse, in rassegna, le riprese di notevole importanza storica: dai documenti amatoriali sull'affermazione del regime, come Campeggio dell'Opera Nazionale Balilla (1925), Nell'Agro Pontino Redento (1933) e Benito Mussolini alle gare di canottaggio sul Tevere, che mostrano aspetti inediti della propaganda di regime, ai filmati degli anni Quaranta, come Benito Mussolini sul fronte russo (1941) e Rodolfo Graziani: parata fascista al parco Sempione di Milano (1944), con rarissime immagini di un cinereporter indipendente. Ancor meno note al grande pubblico sono le scene immortalate in A Noi!(1923) di Umberto Paradisi, collage documentario che illustra le manifestazioni successive alla marcia su Roma. Senza dimenticare gli otto filmati, molti dei quali girati a Milano, de Il Duce fuori Luce, già disponibili dal giugno scorso, che si inseriscono perfettamente nel programma svelando lati meno ufficiali o più curiosi dell'iconografia fascista e di Mussolini. Ma la rassegna non si ferma alla caduta del regime: a raccontare gli effetti della Seconda Guerra Mondiale è Per noi la guerra continua (1950) di Ermanno F. Scopinich, testimonianza della drammatica situazione dei bambini mutilati nel secondo dopoguerra. Tutti i filmati sono disponibili gratuitamente, ad eccezione de Il Duce fuori Luce, Cenere e A Noi!, accessibili ad un costo di 5 euro sempre sulla piattaforma di streaming della Cineteca.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2021. Portatelo nelle scuole, proiettatelo durante le ore di lezione, accompagnate con la sua visione lo studio dei libri di storia e letteratura. E magari, infine, accompagnate gli studenti in visita al Vittoriale. Il cattivo poeta sugli ultimi due anni di vita di D' Annunzio (con la regia di Gianluca Jodice e l' interpretazione maestosa di Sergio Castellitto nelle vesti del Vate), distribuito in 200 copie e proiettato ieri per il primo giorno in Italia, è il manifesto della capacità del nostro cinema di sfornare ancora prodotti di alta qualità e allo stesso tempo pop, attraenti per il grande pubblico. Ma è anche una denuncia indiretta delle lacune che continuano ad affiorare sui banchi di scuola, dove il racconto della vita e delle opere di D' Annunzio è ancora imprigionato in cliché, duri da sradicare. Alla fine della proiezione ieri al cinema Anteo di Milano ci colpivano le testimonianze di alcuni spettatori, giovani e anziani, che, da noi interrogati, ammettevano candidamente: «Ho visto nel film un D' Annunzio che non conoscevo e di cui non sospettavo l' esistenza». Si riferivano all' immagine, che emerge netta ne Il cattivo poeta, di un Vate ostile all' alleanza del fascismo con Hitler, critico, amareggiato e a tratti spietato nei confronti del Duce, e intollerante rispetto alla rozzezza delle camicie nere, da lui definite «sordide». Il quadretto fornito dai docenti è invece spesso quello di un D' Annunzio filo-fascista, profeta del regime e suo beneficiario, e comunque sodale del Duce, quasi cantore dell' Italia in camicia nera. E, come tale, cattivo poeta e cattivo maestro. Il film di Jodice sconquassa invece questi stereotipi e lo fa attingendo a una bibliografia attendibile, agli scritti di D' Annunzio, alle opere di storici più che autorevoli come Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, e studiosi di storia come Roberto Festorazzi. E mostra la verità, quella che per decenni, nei manuali e nelle antologie, si è voluta omettere, un po' per pigrizia un po' per disonestà intellettuale: D' Annunzio sapeva che l' asse Roma-Berlino sarebbe stato un disastro per il nostro Paese. Ma come, ci si chiederà a questo punto, dobbiamo riabilitare il Vate, fare revisionismo, dimenticando i vantaggi e gli onori di cui certamente godette grazie al fascismo, o ribaltarne la figura in quella di un antifascista? E invece no, non c' è nessuna forzatura in questa operazione perché D' Annunzio non fu né fascista né antifascista. Fu, semmai, un ante-fascista che ispirò, nello stile, nella gestualità, nei motti, nello spirito, una ritualità e un' estetica, ancor prima che un etica, poi fatte proprie dal Duce. Ma quindi fu al più Mussolini emulo (per molti versi deteriore) di D' Annunzio e non D' Annunzio devoto seguace dell' altro. Di cui, anzi, fu vittima, emarginato e sorvegliato nella prigione dorata del Vittoriale, e avversario, in modo spesso confessato. La facile dicitura del Vate come esponente dell' estetismo e intellettuale fascista con cui si tenta di liquidare la sua figura nelle aule scolastiche dimentica peraltro le molte sfaccettature dell' artista che affiorano nel film: la sua anima di politico lungimirante, in grado di governare una città, Fiume, secondo criteri civili e culturali all' avanguardia, in nome di una morale libertaria e con una Costituzione modernissima; il suo spirito visionario, veggente o preveggente, come capita solo ai grandi poeti, che gli faceva intuire le disgrazie cui sarebbe andata incontro l' Italia in caso di guerra; e ancora, la vocazione altruistico-comunitario-patriottica, votata all' amore per la nazione e per le future generazioni, e non tanto ripiegata in un narcisistico culto del Sé: quella propensione che lo indusse a lasciare una casa-museo che gli sopravvivesse, pensandola già in vita non come la sua dimora privata ma come il Vittoriale di tutti gli italiani. Ecco perché non sorprende - e la cosa è merito anche della Fondazione il Vittoriale che ha consentito che il film venisse girato in quegli spazi - che Il cattivo poeta porti a cercare il vero D' Annunzio non tanto nei lacunosi libri di scuola, quanto in quel libro vivente che fu la sua residenza sul lago di Garda. Gli stessi spettatori che confessavano ignoranza sugli ultimi anni di vita del Vate ci rivelavano la volontà di visitare il Vittoriale «per capire il genio di D' Annunzio dal vivo». Là, nelle pietre che eresse, negli oggetti che raccolse e tra gli elementi naturali dove pensò, creò e amò. Nella sua biografia incarnata. Pertanto suona una buona notizia l' uscita di questo film, che coincide con la riapertura di cinema e musei e invita ad affollare entrambi. In modo da preparare docenti e studenti sulla figura del Vate e da risparmiare loro altre figuracce.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 19 maggio 2021. Certe vite si spiegano meglio se lette dalla fine. A maggior ragione se la fine è un lungo e scintillante crepuscolo come quello di Gabriele D' Annunzio, che trascorse i suoi ultimi 15 anni nella «forzata clausura» del Vittoriale di Gardone Riviera. E ancor più se su quella fine è possibile avanzare nuovi interrogativi, ipotesi sconvolgenti e non del tutto infondate come quella di un suo possibile avvelenamento. È quanto fa il riuscitissimo film Il cattivo poeta, in uscita domani, del regista Gianluca Jodice e con un' interpretazione magistrale di Sergio Castellitto nei panni del Vate, incentrato sugli ultimi due anni di vita del poeta, allorché lui, per via della posizione eterodossa rispetto alle scelte del Duce, fu messo sotto rigida sorveglianza da parte del regime fascista attraverso l' invio al Vittoriale del giovane segretario federale di Brescia, Giovanni Comini. La forza del film è in primo luogo nella sua ambientazione, dato che buona parte delle scene sono girate all' interno della casa-museo di D' Annunzio, «fatto mai accaduto in un' opera cinematografica», come sottolinea il presidente della Fondazione del Vittoriale degli Italiani Giordano Bruno Guerri, che rende ancor più veritiera la narrazione oltre a contribuire al fascino della visione. E contesto significativo a livello simbolico, visto che quest' anno si celebra il secolo esatto dall' arrivo del Vate a Gardone Riviera, anniversario ben ricordato nel libro di Valentina Raimondo Cento anni di storia del Vittoriale. L' incantevole sogno ( Silvana Editoriale). Un altro elemento di forza del film è il suo attingere a una bibliografia storica consolidata: il personaggio del federale Comini è ispirato al libro, appena ristampato, di Roberto Festorazzi D' Annunzio e la piovra fascista ( Il Silicio), in cui se ne ricostruisce il ruolo di controllore del Vate, su mandato del segretario del Pnf Achille Starace. La figura del D' Annunzio crepuscolare e la suggestione sulla sua morte per avvelenamento fanno invece riferimento a due libri di Guerri, ossia D' Annunzio. L' amante guerriero e La mia vita carnale. L' aspetto dove però il film è impareggiabile è nell' immortalare la tragica e disperata grandezza dell' ultimo D' Annunzio: un poeta minato nel fisico, deluso e amareggiato per la sua emarginazione politica, e segnato da debolezze, ossessioni e dipendenze, come l' abuso di cocaina e la vita erotica sfrenata. E nondimeno un uomo ancora capace di slanci lirici e trascinato da un' insopprimibile passione civile. Un intellettuale che, per quanto in esilio, non poteva fare a meno di manifestare la sua posizione sulle vicende dell' Italia contemporanea, di esprimere il suo disappunto per la rozzezza di certi militanti fascisti, da lui definiti «camicie sordide», e anche per la «prepotenza» del Duce e dei suoi gerarchi, da cui ben sapeva di essere spiato. Con quella stessa lucidità D' Annunzio palesava la sua diffidenza rispetto alla guerra coloniale in Etiopia e alla partecipazione dell' Italia a sostegno dei franchisti, e soprattutto la sua contrarietà all' alleanza con la Germania di Hitler, per lui niente più che «un ridicolo nibelungo truccato alla Charlot», a causa del quale l' Italia sarebbe andata «verso il baratro». Una preveggenza che D' Annunzio avrebbe comunicato a Mussolini in un incontro nel 1937 alla stazione di Verona, dicendogli: «Sei andato a Berlino a scavarti la fossa». Un' intuizione lungimirante che potrebbe però essergli stata fatale. Nel film si racconta infatti come D' Annunzio possa essere stato ucciso dalla governante-infermiera-amante altoatesina Emy Heufler, probabilmente una spia inviata dal Terzo Reich per accelerare la fine di un uomo ormai debole e nondimeno scomodo ai fini dell' alleanza fascismo-nazismo. La Heufler avrebbe non solo accresciuto la dipendenza del Vate dalla cocaina ma gli avrebbe somministrato anche del veleno, fino alla dose letale del 1° marzo 1938. Naturalmente, a sostenere questa ipotesi, non ci sono prove. Ma è una curiosa coincidenza il fatto che, dopo la morte del Vate, la Heufler sia passata al servizio di von Ribbentrop, ministro degli Esteri nazista. Così come è ragionevole pensare che il fascismo abbia visto la morte del poeta come una liberazione, tanto che all' annuncio della dipartita di D' Annunzio, in una conversazione telefonica tra il Duce e il prefetto Rizzo, si sentì pronunciare l' espressione «Finalmente!». Inviso a Hitler, sopportato con fastidio da Mussolini, emarginato dalla sua patria negli ultimi anni di vita, il Vate torna, anche grazie a questo film, a guadagnarsi a pieno l' amore degli italiani. Il cattivo poeta mostra l' umanità di un gigante in cattività, depurandone l' immagine da ogni presunta cattiveria.

Giordano Bruno Guerri per “il Giornale” il 19 maggio 2021. Prima biografo di Gabriele d' Annunzio, poi presidente della meravigliosa casa che donò agli italiani, negli ultimi anni ho dedicato molte energie per rendere la casa e il parco sempre più belli e visitati. E per liberare l' immagine del poeta dalla patina di pregiudizi che lo avvolge (sempre meno). Figurarsi la mia allegria quando, nel 2018, arrivò la richiesta di girare un film su d' Annunzio proprio al Vittoriale degli Italiani. Le carte che la produzione metteva sul tavolo erano eccellenti. Sergio Castellitto è un attore colto, e sa interpretare i personaggi da dentro. Il regista Gianluca Jodice, giovane e all' esordio con un lungometraggio, aveva già dato prova di maestria. Il produttore Matteo Rovere aveva appena girato, anche come regista, lo straordinario Il primo re, racconto non convenzionale e realistico della nascita di Roma. Restava da leggere la sceneggiatura, ma alla fine mi brillavano gli occhi, come in trasparenza al testo luccicavano le tesi che avevo esposto in D' Annunzio, l' amante guerriero e in La mia vita carnale. Il Vate venne bollato come perversamente stravagante dalla borghesia piccina e provinciale dell' epoca per i suoi amori liberi, la sua passione per il lusso, il suo passaggio politico di fine Ottocento da destra a sinistra. Il marchio gli è restato, anche se era, da bravo genio, un precursore: noi oggi amiamo il consumismo, desideriamo il lusso e rivendichiamo la libertà sessuale anche grazie a lui.

Quanto ai passaggi politici. Nel 1921 quando arrivò in quello che sarebbe diventato il Vittoriale, cento anni fa d' Annunzio era anche stato un supereroe di guerra, aveva conquistato una città senza sparare un colpo e l' aveva tenuta per sedici mesi, primo e unico poeta al comando di uno Stato, sfidando il mondo intero e tentando una rivoluzione globale. La costituzione che scrisse per Fiume è una delle più avanzate e democratiche del Novecento. Ma Mussolini lo tradì e Giolitti lo prese letteralmente a cannonate. Decise di ritirarsi, e assistette incredulo al trionfo del duce, che lo considerava «come un dente guasto, o lo si estirpa o lo si copre d' oro», mentre d' Annunzio gli ricordava che «sei vetro contro acciaio». La sua presunta adesione al fascismo è un falso storico: rispetta il duce, il demiurgo che ha saputo conquistare il potere, ma non ama i fascisti («camicie sordide») e detesta il fascismo, accettandolo soltanto per il comune nazionalismo e perché lo onora in ogni modo. Però la misura è colma quando, nel 1937, si avvia l' alleanza con la Germania nazista. Il Vate definisce Hitler «ridicolo imbianchino». E qui comincia il film, che non mente: la sua influenza, ancora enorme, mina i piani del regime e Achille Starace ordina al giovane federale di Brescia, Giovanni Comini (un eccellente Francesco Patanè), di aggiungersi alle molte spie che Mussolini ha messo intorno a d' Annunzio. Di inventato ci sono una storia d' amore di Comini e l' anfiteatro del Vittoriale, che vedrete quasi completo ma che allora non c' era, l' abbiamo terminato l' anno scorso. Per il resto è tutto vero e ben raccontato: l' architetto Gian Carlo Maroni, Luisa Baccara padrona di casa e compagna in bianco da molti anni, l' oggetto del desiderio Aèlis Mazoyer, governante e amante, e la cameriera-amante-infermiera Emy, arrivata da poco, che si sospetta sia stata messa lì dai tedeschi per neutralizzarlo in qualsiasi modo, sesso, droga e forse veleno. Non farò lo sgarbo si raccontare il resto, concludo con i miei timori prima di decidere se dare il permesso. Si trattava di chiudere il Vittoriale per quasi un mese, tranne le domeniche, ma gennaio-febbraio è il periodo di minore afflusso. Occorreva anche lasciare che una vastissima schiera di tecnici invadesse una casa che contiene fitti fitti, uno sopra l' altro ventimila oggetti, molti preziosi di per sé, tutti per il loro valore storico, ognuno ormai unico e irripetibile. Una notte, prima della firma, ebbi un incubo: «Ahò, passame er cavo», diceva un elettricista, e nell' impeto abbatteva una fila di splendidi elefanti orientali in ceramica di antica e raffinata fattura, precipitandoli sulla scrivania nella stanza della Zambracca, dove d' Annunzio morì il 1° marzo 1938. Reclinò il capo, gli caddero gli occhiali, e gli occhiali sono ancora lì, niente è stato più toccato da quel giorno, se non per pulire meticolosamente e rimettere tutto a posto. Dopo l' incubo, la realtà non fu da meno. Per girare un dialogo in una stanza, prima ne svuotavano metà, poi la rimettevano com' era, e svuotavano l' altra metà, in un groviglio di cavi e macchinari, ordini e pericoli. Ebbene, però, ogni cosa è tornata a posto, non c' è stato il minimo danno, e lo dobbiamo alla cura di chi ha lavorato sul set, i tecnici del cinema e i miei collaboratori, che vegliavano l' eredità degli italiani come chiocce sui pulcini. Adesso, con un anno e mezzo di ritardo, anche Il cattivo poeta ha battuto il covid. Andate a vederlo, poi venite a vedere il Vittoriale - o viceversa - e vi sembrerà di fare un sogno nel sogno.

Francesco Perfetti per "Il Giornale" il 19 aprile 2021. In una bella giornata della primavera del 1921, uno dei fedelissimi di Gabriele D' Annunzio, il giornalista e scrittore Mario Carli, che aveva fondato e diretto il giornale dei legionari fiumani La Testa di Ferro, si recò a trovare il Comandante da qualche mese ritiratosi nella casa di Cargnacco destinata a diventare Il Vittoriale degli Italiani. La visita aveva per scopo di ottenere un avallo del poeta a una nuova iniziativa editoriale, un mensile di «vita, arte, lavoro» intitolato L' Ardente, che Carli aveva in animo di pubblicare affidandone la direzione a Luigi Cipriano Diverio dal quale si era fatto accompagnare. Quella visita Carli la raccontò in un articolo che avrebbe dovuto essere pubblicato sul primo numero, quello del luglio 1921, della rivista, ma che, conservato negli archivi del Vittoriale, rimase inedito perché bloccato dal Comandante. Carli ne fece pervenire al poeta la bozza di stampa: si trattava di un articolo di colore nel quale, fra l' altro, erano narrati, sotto forma di intervista, il drammatico rientro dell' aereo pilotato da Natale Palli dopo il volo su Vienna e la tentazione di D' Annunzio di suicidarsi per evitare il pericolo di cadere in mani nemiche quando il motore entrò in avaria. Lette le bozze, il 30 maggio, il poeta scrisse questa lettera: «Mio caro Carli, Le chiedo un sacrifizio all' Amicizia. Ella sa quanto io sia schivo d' interviste e di articoli aneddotici. Speravo che questa volta sarei stato salvato dalla sua eleganza mentale. Io l' ho qui accolta cordialissimamente sempre, con la certezza ch' Ella avrebbe rispettato la mia casa e la mia familiarità. Non posso consentire la pubblicazione di questo articolo. Se L' Ardente lo pubblicasse io dovrei rompere ogni relazione con L' Ardente e con lo (...) (...) scrittore. Fino a che io non sua rassicurato, non posso né permettere la riproduzione della Chiesa né mandare le righe di accompagnamento. Mi perdoni la franchezza: è l' aroma dell' amicizia vera. Il suo Gabriele D' Annunzio». Carli rassicurò subito per telegramma della «soppressione articolo» e sollecitò l' invio della «dedica promessa» che avrebbe dovuto accompagnare la riproduzione del manoscritto su La Chiesa di Doberdò. E, in effetti, la rivista uscì come aveva voluto il Comandante, con la riproduzione del manoscritto ma senza l' articolo-intervista di Carli, che, come sempre, aveva obbedito senza lamentarsi. La sua devozione a D' Annunzio era, infatti, inossidabile. Nato nell' ambiente del futurismo, in particolare fiorentino e romano, Carli era stato anche un uomo d' azione. Arruolatosi in un esercito che non lo voleva per la sua miopia, era entrato a far parte dei primi reparti d' assalto degli arditi dei quali avrebbe fondato il giornale e l' associazione nazionale. A Fiume, dove s' era presentato all' improvviso, s' era guadagnato il nomignolo di «uomo dinamite» e sul suo settimanale, La Testa di Ferro, aveva portato avanti una linea rivoluzionaria, anticonformista e libertaria con una simpatia tutt' altro che celata nei confronti dei soviet: una linea poco controllabile politicamente e certo scomoda per il poeta-soldato. Non è un caso, perciò, che il 10 aprile 1920, D' Annunzio facesse pervenire «Alla Direzione del giornale La Testa di Ferro» questo preciso ordine: «In considerazione della speciale delicatezza della situazione politica, e della superiore necessità che tutti i difensori della causa, coordinino ogni loro atto, ogni manifestazione pratica dei loro pensieri politici, alle mie direttive e all' opera che io svolgo, determino che, a cominciare dal prossimo numero, nessun articolo possa essere pubblicato su codesto giornale senza la mia approvazione, che io trasmetterò per il tramite della mia segreteria, alla quale dovranno essere consegnate, prima della pubblicazione, le bozze di stampa». Non è neppure un caso il fatto che, di lì a breve, nel giugno dello stesso anno, venisse imposto a Carli di trasferire a Milano il suo giornale: un modo, evidentemente, per tenerlo lontano da Fiume. Tuttavia D' Annunzio gli rilasciò un biglietto autografo, quasi una sorta di avallo o lasciapassare, che riconosceva l' importanza del giornale e dava atto della fedeltà del suo direttore alla causa fiumana: «Il capitano degli Arditi Mario Carli trasporta a Milano la pubblicazione del giornale La Testa di Ferro: giornale del fiumanesimo. Egli si propone di divulgare in Italia le grandi idee essenziali che inspirano la nostra lotta di oggi e guideranno la nostra lotta di domani. Sarò grato agli amici che assisteranno nel suo nuovo compito difficile questo ardente e fedele servitore della nostra causa.Egli è degno della più larga fiducia. Ha intera la nostra. Fiume d' Italia, giugno 1924. Il Comandante. Gabriele d' Annunzio». La fedeltà di Carli a D' Annunzio rimase sempre inalterata. Nel gennaio 1921, insieme a un gruppo di «monarchici di pura fede», egli decise di fondare l' Associazione Monarchica Italiana che avrebbe avuto come organo ufficiale il settimanale Il Principe da lui diretto insieme a Emilio Settimelli, ma al tempo stesso pensò di scrivere una biografia del Comandante, più esattamente un libro sulla sua «vita di guerra». Ne parlò a Colseschi che riferì subito a D' Annunzio, Il poeta, il 2 febbraio, scrisse a Carli ringraziandolo e rinviandolo ai tanti «documenti ufficiali», ma aggiunse che poiché difficile «dar note su tanti episodi ignorati» riteneva «più utile una nostra conversazione sul soggetto» in occasione di una sua prossima venuta a Milano. Nella stessa lettera, però, D' Annunzio mostrò tutta la sua meraviglia per la svolta monarchica di Carli: «La subitanea illuminazione monarchica in chi ha professato con tanta audacia il ribellismo, certo, mi sorprende. Ma non sono io che pongo limiti ai mutamenti mentali». Ma la prova più significativa della fedeltà di Carli a D' Annunzio è contenuta nella Antologia degli scrittori fascisti (1931) che egli compilò insieme al suo grande amico Giuseppe Attilio Fanelli e dove volle inserire con risalto la figura del Comandante togliendo, invece, quella di Giovanni Gentile.

“Si fermò il motore. Tirai fuori il veleno. Poi il miracolo”. Mario Carli pubblicato su “Il Giornale” il 19 aprile 2021. Per raggiungere la villetta di Cargnacco, da Gardone, la strada non è lunga: dieci minuti di salita. Ma per penetrarvi, la faccenda è più seria. L' imprudente che osasse battere senz' altro alla porta - che ha l' aspetto bonario di un ingresso di casa rustica - vedrebbe schizzare dall' ombra dello spiraglio socchiuso i due occhi tra di mastino e di assassino del buon Dante, il cameriere bianco-guantato e inflessibile, che vi rimanda giù a Gardone, a percorrere la fatale via gerarchica della segreteria. Il provvedimento si è reso necessario per il fatto che la persona di d' Annunzio, anche nell' isolamento attuale, è un obbiettivo costante di pellegrinaggi svariati, da parte di gente che viene dalle più assurde lontananze per vederlo e per parlargli, quasi sempre con poca utilità del Comandante. Questa volta però, a noi non fu difficile l' accesso. Venivamo, non già per affliggerlo con inopportuni consigli di politica o per spingerlo verso qualche decisione disastrosa, ma per presentargli, Diverio ed io, questo bel sogno di lavoro e di bellezza, di ardimento e di ardore, che si chiama L' Ardente. È la prima volta che io posso conversare con Gabriele d' Annunzio senza l' incubo degli affari di governo, in una serenità pacata e armoniosa di rifugio intimo. Davanti alle finestre, non più la visione di un porto armato di terribili ordigni di guerra e di un mare d' acciaio covante minacce ed insidie senza numero; ma il tessuto chiaro e domestico di un mite lago che fu amato dai poeti, in ogni tempo. «Suso in Italia bella» ha detto uno di questi. Ebbene, noi non dubitiamo che sia proprio così: oggi, la bella Italia, la vera Italia è forse solo su questa quota fresca e verdissima in cui il massimo spirito della nostra razza veglia ed attende la sua ora, vagliando il passato e meditando il futuro, condensando la sua potenza per la più fortunata resurrezione della nostra terra. Il nostro Capo è stranamente ringiovanito. La dolcezza del soggiorno lacustre, il riposo, le cure, la libertà (chi è più schiavo di un «tiranno»?), gli hanno cancellato dal volto quell' espressione affaticata e troppo intensa che a Fiume gli avevano conferito l' eccesso di lavoro, l' insonnia e la tensione nervosa. Veste un costume grigio, giovanile, elegante, nel quale / ritroviamo il suo aplomb di gran signore. Tutte le sue movenze indicano una energia vivacissima, una salute di ferro, un rinnovato amore alla vita istintiva e sensitiva. Lo interroghiamo sul suo lavoro di poesia, sulle nuove fatiche letterarie. Il Notturno, il poema della sua cecità di mutilato, è in gran parte nelle mani dell' editore, ma deve essere completato. C' è un finale che non può ancora scrivere, a causa dei troppi visitatori che lo assediano. «Figuratevi che, appena giunto quassù, di notte, in automobile, col volto coperto da uno scialle, fui preso d' assalto da un manipolo di legionarii trentini, giunti da Riva in una barca da congiurati, per comunicarne l' arresto del capitano Piffer! Un altro giorno, verso il crepuscolo, uscivo nel giardino, che è circondato da un muro notevolmente alto, quando vedo un uomo che si lascia calare misteriosamente dal muro e si slancia per entrare in casa dalla finestra. Lo affronto: è un capitano legionario, che confuso si piazza sull' attenti, e balbetta delle scuse. Aveva saltato la via gerarchica, col rischio di rompersi il collo. L' ho dovuto ricevere». Qualcuno di noi obbietta: «Perché non si dà alla latitanza? Perché non va ogni giorno sul lago, a fare del canottaggio, o anche a scrivere?» «Già - ci risponde - ma il difficile è arrivarci, al lago. Non posso mettere il naso fuori di casa senza cadere nella rete di un assedio tanto affettuoso quanto inestricabile. Sono costretto alla guerra di posizione, dove l' arma più terribile è il telefono». Qualche domanda sulla sua dimora. La villa è grande, comoda, ben alta sul lago. È di proprietà di un certo Tode, tedesco, erudito, ricchissimo, notevole per il suo cattivo gusto. C'era, nelle sale principali, del gran rosso alle pareti e del gran bianco ai soffitti. Il poeta italiano ha lavorato a colpi di tappeti, di tende, e di cuscini, per riparare al pessimo arredamento di quelle sale; ha graduato le tinte, variato la configurazione, alleggeriti i contrasti con correzioni sapienti. Ormai questo appartamento è quasi degno del suo raffinato gusto estetico. Il tedesco ha lasciato però la sua magnifica biblioteca, dove ho trovato cose interessantissime, fra cui molti libri italiani e latini. C' è anche uno stupendo pianoforte a coda che fu di Liszt, dal quale è ancora possibile trarre qualche divina armonia. Ci inchiniamo al piano di Liszt, e alla sua interprete attuale, la geniale e gentile Luisa Bàccara, legionaria ardentissima che restò al fianco del Comandante anche durante le Cinque Giornate. A questo punto riappaiono gli occhi di Dante, addomesticati ma vigili, dall' alto di una giubba abbottonatissima: «È servito!». Attraverso la biblioteca, passiamo in sala da pranzo. Come sempre, il Comandante siede voltando le spalle della finestra. La colazione comincia allegramente. È colorata di fiori, di gentilezza e di sorrisi. Non si vorrebbe parlare di politica. Si mangia col forte appetito delle mense militari, quando ci si apprestava ad una battaglia. Qualcuno elogia la squisitezza dei cibi. «Dopo i lunghi mesi di sobrietà fiumana - dice d' Annunzio mi pare di esser diventato un epicureo. C' è della gente che mi manda delle ghiottonerie da ogni parte d' Italia. E dire che, venendo qui, io mi preoccupavo del carovivere!»  Tiene soprattutto a farci apprezzare la sua frutta: che consiste in un elisir d' arancio, - senza scorza, senza pelle, senza acini - confezionato dalle sue stesse mani con una pazienza da certosino: «È iniquo macellare l' arancio come fanno tutti, e mangiarlo con le scorie non è piacevole. Io lo scortico semplicemente: qui tutto è da mangiare. È il sublimato d' arancio». «È un' operazione che richiederà molto tempo...». «Ah, non meno di tre ore!»  «E poi si lamenta che non le resta tempo per scrivere!» La colazione è finita. Scendiamo a prendere il caffè nel giardino, in una conca di rose straripanti in cui facciamo un sontuoso bagno di profumo. Luisa Bàccara ci precede associando la snellezza della sua figura di musa greca a quella di Krissa, la levriera elegantissima e affilata come una prora. Si parla dell' Ardente. Il Poeta, che ha promesso per il primo numero un suo dono intellettuale, qualche pagina di lirismo che interpreti l' ardore con cui nasce la rivista, vorrebbe accontentarci subito. Egli possiede uno scritto del tempo della guerra, che è completamente ignorato perché non ne furono tirati che pochissimi esemplari numerati. Vorrebbe darcelo; ma dove trovarlo? A queste parole, Luisa Bàccara si alza, scompare in silenzio. Dopo qualche minuto, ella ritorna col poemetto della Chiesa di Doberdò. Le sue mani di fata hanno divinato, scoperto, portato alla luce il rarissimo autografo. Ma il dono signorile è accompagnato da un dono ancor più prezioso. Il Poeta ce lo vuol leggere. E nel silenzio intento del giardino e dei colli e del lago, che chiama a raccolta le sue rive e le restringe in quel solo punto in cui lo spirito umano si dona prodigalmente, Gabriele d' Annunzio scandisce con voce contenuta, quasi interiore il suo bellissimo Salmo. Dopo, vorremmo ringraziarlo, ma quella visione dei nostri morti divini che tante volte abbiamo visti così, ci opprime un poco, ci dà una bizzarra commozione. Sentiamo che, in quel momento, quella voce pacata e sicura, ha promesso a quei morti che il futuro d' Italia sarà degno di loro. Riceviamo il dono del Capo con una gioia mal dissimulata. Egli è dunque, ormai ne siamo certi, la meravigliosa mascotte della nostra impresa: che non potrà essere se non vittoriosissima. A proposito di questa sua fama di mascotte, egli ci racconta alcuni episodi della sua vita d' aviatore. Chi aveva volato con lui, ed era uscito miracolosamente illeso dai più terribili rischi, non voleva volare più solo: nella sua squadriglia, quando si erano fatte delle imprese senza di lui, la fortuna non aveva arriso quasi mai. Passiamo così in rivista alcuni tipi di compagni dell' aria. Diverio, che ha istruito dinante la guerra una schiera non comune di aviatori, accenna a qualche particolare di Pagliano e Gori che sono stati fra i suoi migliori allievi e che furono carissimi al Comandante. Dal suo volto traspare un senso profondo di commozione. Egli rievoca alcune gesta dei due compagni, ricorda infine altri morti gloriosi e si sofferma sul più grande e caro: Natale Palli. Di lui ci narra un episodio, che ne mette in rilievo l' eroismo calmo e volitivo: «Al ritorno dal nostro volo su Vienna, il nostro apparecchio, rimasto isolato, ha tutt' ad un tratto un guasto: il motore si ferma. Siamo su territorio nemico. Per me, cadere prigioniero avrebbe significato essere sottoposto alle peggiori torture. Per questo motivo, io portavo sempre in tasca una scatoletta con un veleno fulminante. Vedendo che il motore non riprendeva, io metto prontamente una mano in tasca, e volgendomi verso il mio compagno, gli accenno con la mano un saluto supremo. Egli, senza scomporsi, mi risponde, pure con un cenno, di aspettare. Io, che pure non avevo alcuna speranza, rimango in attesa. E subito il motore riprende. Pieno di meraviglia abbandono il veleno, sospendo le operazioni di suicidio. Ma più tardi, sulla selva di Ternova, il motore si arresta di nuovo. Rimetto la mano in tasca e ripeto l' addio al pilota. Ma questi, ancora una volta, senza tradire la minima emozione, risponde di aspettare, spingendo la palma della mano verticale in avanti. Attendo ancora. Egli dirige l' apparecchio verso il mare, sperando di trovarvi qualche nave italiana in vedetta. Difatti troviamo la torpediniera ch' era stata inviata di scorta per il nostro volo. Natale Palli scende con l' apparecchio nella scia della torpediniera, e sta per toccare l' acqua, allorché il motore riprende a funzionare. Riprendiamo quota e filiamo a tutta velocità su Venezia. Atterriamo presso Mestre, salvi per un prodigio». Il Comandante s' interrompe un momento, e prega la signorina Bàccara di portargli il mazzo dei suoi talismani. In mezzo a un grappolo di medaglie, medagliette, corni, schegge, pallette, falli e scarabei, egli ci mostra un piccolo cerchio di ferro, scavato intorno. «Questo scavo, prodotto dall' attrito - ci spiega - era 1'origine degli arresti al motore. Sé l' attrito avesse finito di corroderlo (e non mancava che uno strato sottilissimo) noi saremmo stati perduti. Ma quello che io non dimenticherò mai, è il gesto tranquillo, ripetuto due volte, con cui quel compagno eroico e imperterrito mi fermò nel momento in cui stavo per darmi la morte». L' ora è ormai avanzata. Stiamo per prendere congedo da Gabriele d' Annunzio. Prima di partire, gli domandiamo quando terrà il discorso su Dante a Firenze. «La data non è ancora decisa, ma sarà forse a settembre. Io non farò un discorso. Parlerò dalla ringhiera del Lanzi, ai piedi del Perseo ai miei legionarii e al popolo che si adunerà in Piazza della Signoria. Sarà uno dei miei soliti colloqui con l' anima generosa della folla. Ormai non più sale o teatri, ma l' Arengo, sempre e dovunque».

Da fusoliera a scudetto i termini inventati dal Vate. Gabriele D’Annunzio e le 10 parole inventate dal poeta che tutti utilizziamo ogni giorno. Elisabetta Panico su Il Riformista l'1 Marzo 2021. Tutti conoscono Gabriele d’Annunzio in quanto scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista e patriota italiano. Venne soprannominato il Vate ovvero “poeta sacro, profeta“. La sua arte, infatti, fu talmente determinante per la cultura di massa italiana che ne influenzò gli stessi usi e costumi. Gli storici gli hanno dedicato anche il periodo del XX secolo definito appunto Dannunzianesimo. Il 1° marzo ricorre la data di morte di D’Annunzio che è stato anche inventore di alcune delle parole più usate nel vocabolario italiano, come riportato da Focus.it. Tutte le squadre italiane di calcio aspirano ad avere cucito sulla loro maglia uno scudetto. Ma forse sono in pochi a sapere che fu proprio Gabriele d’Annunzio a creare questo termine nel 1925. Infatti il simbolo del vincitore del campionato di calcio italiano si ispirava allo “scudetto” che il poeta aveva voluto applicare alla divisa indossata dagli italiani in una partita di calcio organizzata durante l’occupazione di Fiume. È sempre grazie a D’Annunzio che oggi abbiamo la possibilità di chiamare con un termine italiano i sandwich inglesi. Infatti, la parola “tramezzino” nacque a Torino, per la precisione, presso il caffè Mulassano nel 1925 quando il poeta esclamò durante una visita allo storico bar torinese: “Ci vorrebbe un altro di quei golosi tramezzini”. Il termine deriva probabilmente dalla parola “tramezzo” ovvero secondo la definizione del vocabolario Treccani sta a significare “Elemento situato in mezzo a due o più altri elementi“. Gabriele D’annunzio non era solo un abile poeta ma anche un esperto aviatore e fu proprio lui a chiamare “velivolo” le navi a vela. Nel 1910 durante una conferenza sul “Domino dei cieli”, il poeta spiegava dettagliatamente: “Che va e par volare con le vele“: questo è il significato della parola velivolus (velivolo). La parola è leggera, fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti; di facile pronunzia, avendo una certa somiglianza fònica col comune veicolo, può essere adottata dai colti e dagli incolti”. Inoltre, all’inizio la parola automobile era declinata quasi dappertutto al maschile. Nel 1926, dopo che lo fece per prima la Francia, anche D’Annunzio dichiarò il termine automobile femminile. Giustificò così la decisione: “Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità d’una seduttrice; ha, inoltre, una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza. Ma, per contro, delle donne ha la disinvolta levità nel superare ogni scabrezza”. Il poeta coniò anche il nome Ornella nome che diede alla protagonista della tragedia “La figlia di Jorio” (1904). Tuttavia, secondo il Dizionario Storico dei Nomi italiani della Utet, all’anagrafe italiana risultava già nel 1900 una persona registrata con quel nome. Un’altra curiosità lascerà sbalorditi tutti gli amanti dello shopping. I famosissimi centri commerciali della Rinascente si chiamano così dopo che d’Annunzio li ribattezzò. Il primo negozio venne aperto nel 1865 dai fratelli Luigi e Ferdinando Bocconi, in via Santa Radegonda a Milano ma nel 1917 il grande magazzino viene distrutto da un incendio e quando venne ricostruito e per l’occasione Gabriele d’Annunzio lo ribattezzò appunto Rinascente. In Italia nel 1935 venne creato il Corpo Nazionale per svolgere servizio antincendio e di protezione civile, e il termine “pompieri” deriva dagli omologhi francesi. Se oggi il nome esatto per definire un pompiere è “vigile del fuoco”, termine propriamente italiano, è perché nel 1938 in piena autarchia culturale il francesismo fu abbandonato e sostituito da questa terminologia. L’idea fu di Gabriele D’Annunzio, che si ispirò ai cosiddetti “vigiles” dell’antica Roma. Una parte del romanzo del 1910 “Forse che sì, forse che no” cita: “ immaginò di ritrovarsi nella lunga fusoliera che formava il corpo del suo congegno dedàleo tra i due vasti trapezii costrutti di frassino di acciaio e di tela, a, dietro il ventaglio tremendo dei cilindri irti d’alette, di là dai quali girava una forza indicibile come l’aria: l’elica dalle curvature divine“. Ancora oggi la parte centrale di un aeromobile destinata a equipaggio, passeggeri e carico viene quindi chiamata fusoliera grazie al Vate. Saiwa è una delle prime industrie di prodotti da forno italiani. Nata a Genova nel 1900 e famosa per i sugar wafer e biscotti inglesi, nel 1922 oltre a cambiare sede, su suggerimento di D’Annunzio, cambiò anche nome e diventa la Società Accomandita Industria Wafer e Affini, l’acronimo SAIWA. Infine, dal 1921, viene definito Milite ignoto il militare italiano non identificato, caduto nella Prima Guerra mondiale, sepolto presso l’Altare della Patria a Roma. Alcuni attribuiscono a D’Annunzio anche questa definizione. Non esistono, tuttavia, documenti che provino che l’espressione sia stata effettivamente coniata dal poeta, mentre è accertato che proprio D’Annunzio abbia svolto un ruolo fondamentale nella scelta, tra le salme non identificabili recuperate nei campi di battaglia, di quella che sarebbe poi diventato il simbolo di tutti i caduti e i dispersi del primo conflitto mondiale.

Così il Vate indagava la vita di Gesù. Alla ricerca di un Dio, ma molto umano. Ecco gli appunti di D'Annunzio per tratteggiare una biografia di Cristo. Giordano Bruno Guerri - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. L'immagine che ci viene sempre sottoposta di un Gesù soltanto dolente o al meglio - amorevolmente sorridente, è una forzatura religiosa al pari di quella del Buddha sempre di buonumore. Occorre cercare di immaginare Gesù, uomo, che viveva e si comportava secondo le regole e le abitudini del suo tempo, del suo luogo e della sua condizione economica. Che si lavava diverse volte al giorno seguendo i rituali ebraici, che chiedeva alla madre di rammendargli la tunica e al padre consigli per il lavoro. Gli evangelisti non descrivono il suo aspetto, dunque certamente ne aveva uno normale, da ebreo del suo tempo, inconciliabile con il volto che ci ha tramandato l'iconografia: naso vistoso, pelle olivastra, capelli neri più ricci che lisci, piccola statura. Com'è avvenuto per il viso di Cristo, la teologia cristiana prima e quella cattolica dopo hanno caricato il suo messaggio con addobbi, paramenti, complicazioni e distinguo, ma è la semplicità del messaggio a colpire la mente e il cuore degli uomini sensibili all'uomo, religiosi o no che siano. Non credente, Gabriele d'Annunzio vede in Gesù e nella sua vita terrena «una meravigliosa materia d'arte» ricca di «stimoli artistici», per la modestia della sua vita e l'altezza della sua parola. Se ne interessò fin da ragazzo e a trent'anni, nel 1893, scrisse al suo editore di avere finalmente messo in programma «una Vita di Gesù che medito e preparo, e alla quale mi darò con ardore nell'estate prossima». Il progetto, come tanti conservati negli archivi del Vittoriale, non si realizzò, ma gli scritti adesso raccolti e curati da Angelo Piero Cappello (Studi su Gesù. Appunti, Taccuini, Parabole, Ianieri Edizioni, 200 pagine, 10 euro) dimostrano quanto profonda e continua sia stata l'idea di uno scritto sulla vita del Galileo. In queste pagine preziose e quasi sconosciute il poeta vede in Cristo la vetta dell'uomo e della parola, là dove si nasconde l'ansia di eterno e di infinito che fa di ogni uomo un dio: «Figlio, non v'è dio se non sei tu quello», scrisse nel Forse che sì forse che no. E, quando per la prima volta racconta di avere incontrato Gesù, ci parla di due uomini, l'uno di fronte all'altro, ognuno dei due consapevole della propria straordinaria identità umana e divina: «Incontro per la prima volta il Maestro in un palmeto di Gerico, dove io sono intento a raggiungere i frutti che gravano la cima d'un palmizio Egli mi guarda e si tace. L'oro del sole cribrato dai palmizi tremola sopra di noi. Mi pare egli preso nella mia finzione e nella mia tentazione come in una rete splendente Egli è solo, senza onniveggenza, senza onnipotenza, senza incanti, senza prodigi, solo con la sua midolla di eroe nel suo fragile ossame, solo con la severa sua immortalità nel suo corpo morituro. E solo io sono il suo seguace». A unire i due uomini, eroi immortali compresi nel loro fragile ossame di morituri, è la parola, quel che dicono e sanno dire al mondo. E Gabriele, in questo, sa di essere anche lui Maestro: «Se la lotta è arte, l'arte è lotta. Lo so... traudire, travedere sono gli indizii della mia infermità immortale». Tutta la deità dell'uomo sta nel rendere con le parole quell'infermità immortale.

 Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 26 febbraio 2021. Un Gesù bambino a cui piace operare miracoli eclatanti, ma che è pure crudelmente vendicativo; un figliol prodigo ammirato come un vip ante litteram perché non ha esitato a vivere tra lussi, agiatezze e raffinatezze, lasciando che il fratello e il padre conducessero una vita rozza e sacrificata. Il ricco Epulone che convince il povero Lazzaro ad abbandonare il paradiso e a scendere fino all' inferno per stare ad ascoltare le mirabolanti avventure di dissolutezza e sperpero del riccastro condannato alla pena eterna; le vergini stolte, sempre nella visione dannunziana, hanno fatto bene a preferire la gioia del canto e della danza anziché controllare l' olio nelle lampade come invece virtuosamente hanno fatto le vergini savie. E il Figlio di Dio viene definito «il bellissimo Nemico». Certo il Cristo raccontato e raffigurato da uno come Gabriele D' Annunzio non può essere fedele al dettato evangelico e alla tradizione cristiana. Confina sempre pericolosamente con la blasfemia, ma rende testimonianza di un interesse sincero, profondo, lirico e poetico. La questione torna alla ribalta grazie all' interessante operazione editoriale messa in campo dalla Ianieri Edizioni, da lungo tempo impegnata nell' approfondimento dell' opera di D' Annunzio che ha appena mandato in libreria il volume Studi su Gesù. Appunti, Taccuini, Parabole, (168 pagine, 16 euro).

La prefazione. «Le pagine che seguono, con il loro profilo antologico, dimostrano quanto profonda e perseverata fu, nella mente di Gabriele d' Annunzio, l' idea di uno studio in forma artistica sulla vita meravigliosa del Galileo»: nell' acuta prefazione Giordano Bruno Guerri descrive la straordinaria importanza del lavoro di curatela svolto da Angelo Piero Cappello, uno studioso con oltre trent' anni di studi dannunziani sulle spalle, che qui raccoglie le pagine di D' Annunzio dedicate al tema cristologico: frammenti di scritture, parabole, articoli, appunti, riflessioni, che nei progetti dello scrittore avrebbero dovuto essere ordinati, lavorati, composti fino a diventare un vero e proprio racconto della vita di Gesù, che l' autore stesso, molto anni più tardi, definisce, nei suoi intenti, come «sacro e sacrilego». Questi scritti fino ad oggi non erano mai stati presentati e ordinati secondo un criterio di continuità tematica e sviluppo cronologico e stanno a testimoniare, dunque, questa seria determinazione a comporre un' opera tutta dedicata a Gesù. Un' idea audace, per uno i cui libri sono stati messi nell' Indice delle pubblicazioni proibite dalla Chiesa fino al 1966. Il progetto non arrivò mai a concretizzarsi, ma esisteva, cosa non conosciuta dai più comuni lettori, seppure appassionati. Questo volume, dunque, aggiunge un tassello al mosaico della multiforme personalità dannunziana. Ecco allora profilarsi l'immagine di uno scrittore tutt' altro che dedito al compiacimento estetizzante, piuttosto lontano dagli stilemi eroico-erotici. Vi si rivela invece un d' Annunzio attratto dalla duplice natura di Cristo, Dio e uomo, profondo conoscitore del racconto biblico, dei vangeli apocrifi e copti. Viene testimoniato il suo grande lavoro sulla parola, sull' essenza lirica e misterica, in un certo senso, della parola stessa. Spiega ancora Guerri nella prefazione, che lo scrittore «è tutto compreso nella sua opera: un puntiglioso e profondo lavoratore della parola, dotato di una "etica" del lavoro profonda, seria, e rigorosa. E insieme, tutt' altro che un superficiale cantore del vitalismo senza ragione, di un umanesimo integrale e senza dio, di un panteismo o di un panismo senza fede e senza credo: la profondità della parola, nella sua opera, è inscindibilmente legata alla profondità della ricerca». Una "tentazione", quella per il cristianesimo, comunque disseminata lungo la sua strada. Grazie alla figura di Gesù, appunto, e a quella di San Francesco. L' incontro di D' Annunzio con il grande santo avviene, in un certo senso quasi fisicamente, nel settembre 1897, quando il poeta si reca in visita ad Assisi e dintorni in compagnia di Eleonora Duse. «La preghiera», annoterà poi nei Taccuini, «riempie i chiostri... L' anima del serafico si diffonde per tutta la valle, benedice tutte le soglie, conforta tutti i focolari...». Ma nessuna reale conversione: molta ammirazione e afflato lirico.

San Francesco. Nel 1898 rivela che vorrebbe scrivere una tragedia francescana nei modi della poesia popolare umbra e delle antichissime laudi drammatiche, intitolata Frate Sole. Nello stesso periodo comincia a concepire il progetto di scrivere una biografia di Gesù Cristo, non solo sul piano storico, ma anche su quello della conoscenza e dell' indagine filosofica, nonché su quello più prettamente religioso, perché sostiene di sentire «continua sopra il mondo» la presenza del sacrificio di Cristo. Fino al sentimento doloroso del mistero della morte, di cui sono intessute così intensamente le bellissime pagine del Notturno. In una foto presentata nel volume D' Annunzio è ritratto nel meraviglioso monastero di Maguzzano (località del Garda) con due padri trappisti. Un sorriso sereno aleggia sui volti dei religiosi, su quello del poeta il sorriso è meno accennato, più enigmatico. Forse lo sguardo di chi non ha trovato quello che cercava, tuttavia ancora lo ricerca, in preda ad una grande sete, «ho sete, ho sete e non so di che».

Dagli arditi di Fiume al pitale: Keller, il pirata che fece la Storia. L'impresa di Fiume, la conquista della città che affaccia sul Carnaro e fu sogno rivoluzionario per 500 giorni non ebbe solo Gabriele d'Annunzio come protagonista: c'era anche Guido Keller asso dei cieli e spirito libero. Davide Bartoccini, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Non fu solo Gabriele d'Annunzio a "fare" Fiume: un sogno rivoluzionario che ancora fa eco dopo cento anni dall'impresa. Furono altri uomini straordinari, degni d'essere illustrati da Alan Moore, se li avesse conosciuti. Uno di loro era Guido Keller. Un pirata dei cieli. Compagno di squadriglia di Baracca, l'asso degli assi, il nobile milanese di origini elvetiche arrivò a Fiume il 12 settembre del 1919 alla testa dei legionari comandati dal Vate, e ci rimase per tutti i cinquecento giorni di quella storica impresa. Creando un circolo di spiriti liberi che sarebbe sopravvissuto al tempo di quell'impresa: il Gruppo Yoga. Esso era, o mirava ad essere, una "unione di spiriti liberi che miravano alla perfezione". Un circolo di ribelli, socialisti, arditi, avventurieri, dandy, sognatori, e visionari; che disquisivano di esoterismo, metafisica, criticando l'alienazione delle masse operaie che nell'epoca moderna erano destinate a diventare "inumane". Il loro simbolo, passato alla storia come presagio di morte, era la swastika. Non inclinata come quella del pittore dilettante austriaco che avrebbe conquistato il potere in Germania 13 anni dopo, ma l'antico simbolo del sole impiegato nell'antichità dalle più remote culture eurasiatiche. Occhi vispi e nerissimi, capigliatura da tigre di Mompracem, Keller è uno dei grandi protagonisti intellettuali della città-stato creata da d'Annunzio. E da animo ribelle, non potrà fare altro che escogitare la "beffa del pitale" quando viene firmato il Trattato di Rapallo del novembre 1920. Così sale su un aeroplano e con la destrezza dell'asso che era stato nella Grande Guerra, vola su Roma. Lì lancia una pioggia di rose rosse sul Vaticano "per Frate Francesco" e sul Palazzo del Quirinale "alla Regina e al Popolo". Poi su Palazzo Montecitorio un pitale di ferro. Un messaggio emblematico. Quando l'avventura di Fiume, la città del Sole dei giovani ribelli in uniforme che anticipano il '68 di quarant'anni e la vittoria di "ogni" battaglia dei diritti civili di quasi un secolo, Keller si trova perso e spaesato. Come tutti quei reduci che si trovano a disagio nella vita di tutti i giorni, dove manca l'azione e l'epica della cavalleria. Sprofonda, ma in realtà già sprofondava, nel vortice della cocaina, che nella festa mobile di Fiume era divenuta palliativo in voga. Il suo declino personale e psicologico è evidente e va a caccia di avventure prima in Turchia, poi nell'America Latina, alla ricerca della leggendaria Eldorado. Sperpererà i suoi ultimi risparmi, quelli che aveva ereditato dalla sua ricca famiglia e quelli che si era guadagnato sul campo come aviatore asceta. Tornato in Italia vivrà sulle spalle degli amici, che nonostante il fallimento della sua folle spedizione e in parte della sua esistenza, non perderanno mai la stima per il superuomo che si cela in lui. Si stabilisce alla porte di Roma, a Ostia, di fronte al mare. Muore il 9 di novembre 1929. Correndo in una Fiat di grossa cilindrata, diretto in Umbria per una scampagnata goliardica con degli amici, tra loro era anche l’eroe di guerra Vittorio Montiglio. Da allora le sue spoglie riposano accanto a quelle del Vate, nel Vittoriale degli Italiani. La sua anima indomabile non è dato saperlo.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 29 maggio 2020. Ogni artista deve compiere un parricidio rituale. Per dimostrarsi all' altezza dei suoi predecessori o addirittura superarne la gloria, deve recidere la testa del gigante sulle cui spalle sta seduto. È quanto fece un giovane Filippo Tommaso Marinetti, allorché non era ancora futurista né famoso e il panorama letterario italiano era dominato dalla figura ingombrante di Gabriele D'Annunzio. In alcuni scritti, pubblicati tra fine '800 e inizio '900 sulla rivista francese La Vogue e quindi raccolti in un libro dato alle stampe dall' editore Sansot nel 1906, Marinetti si faceva beffe del poeta, descrivendolo come uno snob dai modi effemminati, nonché come un «poetino» che plagiava i testi dai francesi e profanava i grandi del passato, credendosene erede. In due parole, un «ciarlatano». Quell' antologia di articoli al curaro ora viene per la prima volta pubblicata in italiano sotto il titolo di D' Annunzio intimo. Gli dei se ne vanno, D' Annunzio resta (pp. 232, euro 25, in uscita oggi), grazie alla meritoria azione dell' editore Aspis e alla traduzione di Camilla Scarpa. Gli scritti testimoniano un misto indissolubile di «ammirazione e odio profondo», come scrive Guido Andrea Pautasso nell' Introduzione, una sorta di ossessione che induce Marinetti a cercare D' Annunzio anche dove non c' è, o a seguirlo nelle sue uscite pubbliche su e giù per l'Italia. Ecco che allora Marinetti si reca al funerale di Giosuè Carducci nel 1907 e, mentre commemora la grandezza del poeta toscano, si accorge dell' assenza di D' Annunzio: «Ha commesso un inelegante passo falso, davvero imperdonabile», commenta, a maggior ragione che il Vate aveva profanato il nome di discepolo, coll' essersi proclamato erede di Carducci, dopo aver già avuto «l' ardire di proclamarsi l' unico erede di Dante», pur non essendone altro che «una caricatura».

IL COMIZIO A ORTONA. Ma già da tempo Marinetti aveva iniziato a fare le poste al poeta abruzzese, per metterne alla berlina il carisma da oratore. È il 1897 quando colui che diventerà il padre del futurismo si reca in Abruzzo per assistere a un comizio di D' Annunzio a Ortona, dove era candidato. In una sala «appestata da straccioni alcolizzati» appare la figura di questo «cantore aristocratico» dalla «sensualità molle» e dai «gesti femminei» che tutto sembra meno che un uomo destinato a trascinare il popolo. Anche quando, poco tempo dopo, lo rivede a Milano a un banchetto di letterati, D' Annunzio continua a sembrargli «un giovane snob» caratterizzato da «esaltazioni puerili» come il desiderio di «assoggettare le folle a un formidabile impero di Roma, di cui egli sarebbe l' imperatore». Il Vate, annota Marinetti, «sogna di stravolgere il mondo con un giro di frase» e «attribuisce al libro una diretta influenza sulle masse», ma non ha capito che «le folle vivono nell' ignoranza più completa dei poeti». Così, ogniqualvolta crede che ogni sua parola avrà una ricaduta politica, rischia di apparire solo come un «ciarlatano». Marinetti si sofferma, a mo' di scherno, anche su alcuni episodi della biografia del Vate, che ne mettono in luce le vanterie sterili, quei gesti frivoli e comportamenti eccentrici, da lui costruiti ad hoc per far credere che la propria vita sia un' opera ad arte. Vedi allora D' Annunzio vestirsi «tutto di bianco (stivali, panciotto, cravatta, cappello), inerpicato su un cavallo più bianco del marmo di Carrara», evidentemente allo scopo di far «le prove per il suo monumento equestre». E poi lo ritrovi impegnato in un bizzarro processo contro il suo fattore, accusato di avergli ucciso un levriero: stavolta D' Annunzio si presenta «tutto vestito di nero», ostentando a favor di giornalisti il «lutto per il suo cane». Poi lo trovi coinvolto in un duello contro il direttore del giornale L' Abruzzo, reo di averlo attaccato in una rubrica: la spavalderia, che lo aveva portato a chiedere quello scontro per vendicare l' onore ferito, viene meno nel bel mezzo del duello, allorché D' Annunzio viene scalfito alla tempia. A quel punto la singolar tenzone si interrompe, per codardia di uno dei due sfidanti. Colui che sarebbe diventato il Poeta-Soldato non è che all' inizio brillasse per coraggio.

LO SCANDALO DEI PLAGI Non meno feroce è l' attacco di Marinetti sui meriti artistici del Vate. Ricorda quando D' Annunzio venne coinvolto nello «scandalo dei plagi», sostenendo che lui si serviva «dai migliori sarti del simbolismo francese!», in sostanza riprendeva interi passi dai poeti transalpini; trova le sue opere caratterizzate da «lirismo soffocante» e «assenza di originalità», da «rammollimento del fraseggiare» e da un «fuoco di fila di banalità». Ragion per cui, come sosterrà anni dopo, D' Annunzio rappresenta per la poesia un «peso morto», «dannosissimo ai giovani». Tempo sarebbe passato prima che Marinetti rivalutasse il Vate arrivando a considerarlo il «precursore» del futurismo e «il più grande Poeta del mondo». Ma a inizio '900 D' Annunzio gli appariva niente più che come «un arrivista tenace» connotato dallo «strisciare sinuoso di un verme». Uno che aveva addirittura barattato la chioma con l' ambizione: «Giacché la gloria l' ha afferrato per i capelli con troppa violenza», chiosa Marinetti con sarcasmo fulminante, «Gabriele d' Annunzio è rimasto calvo in tenera età».

·        Galileo Galilei.

Bruna Magi per "Libero quotidiano" il 4 febbraio 2021. Incarna la scienza al suo livello più alto, ma è anche lo specchio nel quale si riflette l' ottusità umana: Galileo Galilei, l' uomo che cinquecento anni fa "vide" la conformazione della luna così come nel 1969 l' avrebbe descritta "a contatto diretto" l' astronauta Armstrong, e per queste ed altre inoppugnabili teorie e scoperte fu processato come eretico dalla Chiesa, davanti al Tribunale dell' Inquisizione. Un' onta alla conoscenza e alla scienza, sconfessata da papa Giovanni Paolo II soltanto nel 1992! Dopo 359 anni, 4 mesi e 9 giorni, con una cerimonia solenne, fu cancellata l' accusa di eresia, che Galilei fu costretto ad ammettere con l' incubo della tortura e per non finire vivo sul rogo. Pare che dopo l' abiura del suo trattato Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, messo all' indice, avesse mormorato, come trasognato, a bassa voce, "Eppur si muove!", riferendosi al ruotare della Terra su se stessa e intorno al sole, teoria che smentiva la tesi aristotelica e le Sacre Scritture, secondo le quali la terra era piatta. Ma (incredibile) c' è chi lo crede ancora oggi, vedi le affermazioni dei "terrapiattisti", rigurgiti medioevali, che anche oggi affiorano prepotenti, tipo l' ostinazione cieca dei "no vax".

Come einstein. E proprio il parallelo con il passato costituisce l' incipit di un saggio possente e rigoroso, e anche di piacevole lettura, Galileo-Contro i nemici del pensiero scientifico (Rizzoli, pag.390, euro 20), autore l' astrofisico israeliano Mario Livio, che per una vita ha lavorato presso lo Space Telescope Institute di Baltimora, l' ente responsabile del programma scientifico del telescopio spaziale Hubble, vale a dire il bis-bis-bisnipote del telescopio ideato tra il 1609 e il 1610 da Galileo, l' uomo che aveva rivoluzionato la nostra prospettiva delle leggi fisiche, alla pari di quanto avrebbe fatto in seguito Albert Einstein. Lui, padre delle innovazioni, come Copernico, Newton, Darwin. Tardivo riconoscimento post mortem, la sepoltura a Firenze in Santa Croce, di fronte alla tomba di Michelangelo. Mario Livio ci conduce con partecipazione totale, quasi ci prendesse per mano, nella vita tortuosa e affollata di Galileo, partendo da una elementare constatazione stupefatta: «Usando un semplice cilindro cavo con due lenti fissate all' estremità, Galileo è riuscito a rivoluzionare la nostra comprensione del cosmo e del posto che in essa occupiamo». Infatti, il principio fondamentale del più grande fra gli astronomi era «Non basta guardare, occorre guardare con occhi che vogliono vedere, che credono in quello che vedono». Nota per sorridere: la madre (per la quale non era il figlio prediletto), a volte gli rubava le lenti per donarle al genero, il marito della figlia. La signora Giulia Ammannati in Galilei era una donna colta, ma dal carattere difficile, proveniva da una famiglia di commercianti di lana e vestiario, a Pisa proseguì con questa attività per arrotondare lo scarno budget di famiglia. Il padre, Vincenzo, era un musicista fiorentino di nobili origini, ma la loro situazione economica restò sempre poco florida, e per tutta la vita Galileo, in quanto primogenito avrebbe dovuto provvedere alle sorelle minori.

La sopravvivenza. Costretto quindi a una continua ricerca di denaro, Galileo non disdegnava di elaborare su richiesta oroscopi personali, prezzo "60 lire venete", un successo, legato anche al grande interesse per gli astri suscitato dall' apparizione, nel 1604, di una nuova splendente Supernova: a dimostrazione che l' universo non era statico come sosteneva Aristotele. Per quanto concerne la "sua" vita privata, Galileo ebbe una lunga convivenza con la padovana Marina Gamba, ma non la sposò mai. Ebbe da lei tre figli, il maschio Vincenzo e le femmine Virginia e Livia. Riconobbe solo il primo, le due povere ragazze furono costrette a farsi monache, presero i nomi di suor Maria Celeste e suor Arcangela. Ma fu Virginia a curare la casa, ad Arcetri, quando lui fu imprigionato dall' Inquisizione, e poi ad assisterlo quando divenne cieco, prima di morire giovanissima. E fu soltanto allora che Galileo, addolorato, con grande rammarico, ne riconobbe le doti, lodandone l' intelligenza. Ecco, questo lato buio ci addolora nel prezioso e folgorante scrigno di intelletto che fu il cervello di Galilei. Ma del resto le usanze crudeli nel relegare le figlie "inutili" in convento erano quelle dei tempi della monaca di Monza. Guarda caso, pure lei si chiamava Virginia. De Leyva.

·        George Orwell.

1984, il capolavoro di George Orwell ora in una graphic novel. Marco Valle il 6 aprile 2021 su Il Giornale. Emilio Cecchi, grande, grandissimo critico letterario del Novecento, non ebbe dubbi. Alla sua uscita definì “1984”, «Libro memorabile. Libro di una tristezza disperata, ossessiva, che definitivamente colloca George Orwell in uno dei primissimi posti dell’odierna letteratura inglese». Un giudizio netto e fulminante che dispiacque a gran parte del panorama intellettuale dell’epoca molto invaghito del socialismo reale e per nulla entusiasta di questo capolavoro anti-utopistico che annunciava un mondo cupo, plumbeo, senza speranza. Troppe le analogie con il “paradiso sovietico”, troppe le similitudini tra l’onnipresente “Big brother” e l’onnisciente compagno Josif Stalin. Non a caso Palmiro Togliatti liquidò il romanzo orwelliano come «l’ennesima freccia della borghesia al suo arco sgangherato».  Nel Regno unito, per gli snob filocomunisti di Oxford e cenacoli contigui — per l’Happy society nei Quaranta e Cinquanta il marxismo fu un divertente socio di società e a volte un diletto spionistico… — George fu nulla più di un “tory anarchist”, un anarchico conservatore.  Un rompiscatole da evitare. Uno scrittore da non leggere. Fortunatamente gli esorcismi comunisti e le ubbie degli “utili idioti” albionici (e non solo),  risultarono vani. Inutili. Da più di settant’anni “1984” resta uno dei libri più letti (e, spesso malamente, citati…) al mondo. Una vittoria postuma per il tubercolotico George, morto il 21 gennaio 1950 all’età di soli quarantasei anni, dopo una vita turbolenta tra India (era nato a Motihari nel 1903), Inghilterra, Birmania coloniale, Francia, Spagna e di nuovo Gran Bretagna, l’ultima tappa. Fondamentale fu il passaggio iberico nel corso della guerra civile dove assistette, a Barcellona nel 1937, alla mattanza stalinista contro gli anarchici del Poum, il pittoresco partitino anarco-sindacalista della Catalogna. Una tragedia nella tragedia che gli fece comprendere come i presunti “paladini” degli oppressi, una volta cacciato l’oppressore, si sarebbero rivelati i peggiori tiranni: in nome delle loro “virtù”, ogni potere doveva essere delegato al partito unico, un’autorità assoluta, disumana che avrebbe vegliato e controllato cose, parole, sentimenti. Vite. Da qui “Omaggio alla Catalogna” e, soprattutto, “La fattoria degli animali”, una allegoria feroce quanto sublime sul regime dei Soviet, il luogo in cui «tutti gli animali sono liberi, ma alcuni sono più uguali degli altri». Fu poi la volta di “1984”, l’impossibile rivolta di Winston e Julia nel mondo dominato dal Socing (acronimo per “socialismo inglese”), partito padrone di Oceania, il superstato dell’emisfero occidentale. Entriamo nel racconto. Qui ogni pensiero, ogni parola sono vagliati dalla psicopolizia e dai vari ministeri, da quello dell’Amore, da quello della Verità, dell’Abbondanza etc..In Oceania il passato viene continuamente riscritto attraverso la “Neolingua”, un idioma basico destinato a sostituire l’”Archelingua”, il linguaggio dei ricordi. Tutto deve essere cancellato e riscritto come vuole l’autorità. Nessun dubbio è ammesso. Ai membri del partito è imposta una disciplina inesorabile: chi non si adegua, chi tentenna, chi non capisce, chi ha un barlume d’intelligenza, viene vaporizzato. Eliminato. Cancellato. Agli adepti del Socing è perfino negata una vita affettiva e, tanto meno, sessuale. L’amore è una bestemmia. Anzi, un’offesa al leader supremo, il “Grande fratello” che si erge, sopra tutti e tutto. Un’immagine che appare attraverso teleschermi (un’altra intuizione geniale) nelle piazze, negli uffici, nelle case. Ovunque. Il golem che sovrasta la vita pubblica e privata di ognuno. Il moloch che tutto vede e nulla perdona. L’incubo — o la visione — di Orwell è oggi, grazie alle matite dell’artista francese Xavier Coste, una splendida graphic novel, un perfetto racconto su nuvole parlanti assolutamente fedele al testo originale. Cosa non facile dopo lo splendido film di Michael Radford con Richard Burton (la sua ultima, toccante apparizione) e John Hurt. Eppure l’effetto è impressionante quanto coinvolgente. Coste ha ricostruito con audacia e rigore le ambientazioni — una Londra sudicia punteggiata da inquietanti palazzi ministeriali, interni claustrofobici e tristi giardinetti — dando vita ai personaggi principali e al loro miserabile contorno umano — i due amanti, i burocrati, i proletari, gli sbirri e le spie —; un gioco sapiente che ha l’artista ha segmentato in quattro gamme di colori che ritmano perfettamente lo svilupparsi della trama. L’album, editato in Francia per Sarbacane, è ora uscito anche in Italia per Ferrogallico editrice (Milano, 2021. Ppgg. 240, euro 25,00) con la preziosa prefazione di Stefano Zecchi. Nella sua densa nota il professore avverte «”1984” è un’atroce denuncia non solo del totalitarismo, della comunicazione globale e del Grande Fratello che ci osserva instancabile da chissà dove», scrive Zecchi, «ma, in particolare, della stupidità e della miseria dell’uomo. Di un uomo incapace di credere in se stesso, di avere coraggio, di pensare in grande, di un uomo in grado di difendere soltanto la propria miserabile (spiritualmente) mediocrità, pauroso di perdere la sanità del corpo, vile e traditore. Una lucida, drammatica descrizione di un’umanità indifferente e vile, disposta a consegnare la propria persona a chiunque pur di liberarsi dal peso della responsabilità di scegliere e decidere con la propria testa. Questo è “1984”: una spaventosa e inappellabile accusa dell’essere umano». Al solito il docente veneziano ha ragione. Ci sia consentito d’aggiungere, alla luce della sconfortante attualità che ci circonda e afflige, un piccolo appunto.  L’opera, milleottocentoquantaquattro, è molto di più (come ancora si sostiene) di un libro anticomunista e Orwell non è soltanto un critico affilato, giustamente spietato, del sovietismo ma è molto, molto di più. Orwell é un annunciatore di verità profonde quanto inquietanti. Tutte scomode. Fastidiose. Orwell è terribilmente attuale. Voce solitaria, già sette decenni fa lo scrittore comprese come la tecnologia al servizio dell’ideologia (qualsiasi essa sia) dà luogo e forma a una miscela tanto efficiente quanto soffocante e disumana. Estremamente crudele e anonima. In uno scritto poco conosciuto del 1946 — “Second thoughts on James Burnham” —, George ammoniva come il pericolo fosse in agguato (anche o soprattutto)  in quelle entità statuali che (ieri come oggi) si narrano e si autorappresentano come democrazie compiute, rispettose dei diritti, delle leggi, delle costituzioni. Del patto sociale. «Se non combattuto il totalitarismo può trionfare ovunque».  Un avvertimento più che mai valido in questo primo scorcio di millennio, quando in tutto l’Occidente sono in corso derive — accelerate, non a caso, dalla pandemia, un dato sanitario trasformato in isterismo mediatico — che mirano sempre più a restringere le libertà individuali, modificare linguaggi e rapporti sociali, imporre nuovi schemi lavorativi e, soprattutto, riassemblare ideologicamente la Storia. L’obiettivo finale, la vera scommessa d’ogni progetto totalitario, poichè «chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato». Orwell dixit.

·        Giacomo Leopardi.

Leopardi, lo scienziato che vide l'infinito. Massimiliano Parente il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Pubblicati due testi giovanili che svelano quanto la storia naturale influì nella formazione del poeta. Era prima che la cultura umanistica si separasse dalla cultura scientifica (già c'erano le prime avvisaglie), le due culture si parlano e si nutrivano l'una dell'altra, ma è anche vero che sto per parlarvi di Giacomo Leopardi, un genio infinito come il suo infinito, e con lui non c'è mai da sorprendersi, e non era esattamente un letterato normale. Insomma, il suo Compendio di storia naturale (appena ripubblicato da Mimesis, insieme a un altro saggio giovanile dello scrittore di Recanati: un Saggio di chimica e storia naturale), un quadernetto del 1812, dimostra tutto l'interesse per la scienza del giovane Giacomo, indispensabile per capire l'universo (mentre i letterati odierni hanno deciso di fregarsene, preferiscono occuparsi del loro ombelico). Regno animale, regno vegetale, regno minerale, Leopardi divora tutto, vuole sapere tutto. Chiedendosi se farà mai niente di grande, e paragonandosi a un orso in gabbia: «Farò mai niente di grande? Né anche adesso che mi vo sbattendo per questa gabbia come un orso?». Studia le formiche e le api e ne elogia l'organizzazione sociale, superiore a quella umana, la quale «manca di unità». Osservando come «la società non è già propria del sol uomo, le formiche la fanno per trasportar pesi, le api hanno un loro governo». Ma già qui si intravede la visione leopardiana dell'esistenza, perché un giardino è bello visto da lontano ma osservato nel piccolo è una lotta per la sopravvivenza, di «offese e difese». Non esiste idillio che non nasconda sofferenza biologica, la spietatezza della natura. Gli studi scientifici lo portano a approfondire ogni argomento, perfino la chimica e l'arte culinaria (e il senso dell'umorismo, sentite qui), come testimoniano due lettere indirizzate al padre Monaldo e al fratello Pierfrancesco nel 1827 e nel 1828 riguardo una ricetta per delle schiacciate di Pasqua e le sue ricerche sullo zucchero: «Io ne manderei una per posta a Paolina (perché è roba che ci entra il zucchero), ma bisogna mangiarle calde, e io non posso mandare per la posta anche il forno» Dario Bressanini (scienziato autore di numerosi libri sulla scienza in cucina, apprezzerà l'approccio chimico del genio di Recanati). Leopardi appare anticipatore perfino delle moderne neuroscienze, rispetto a molte credenze filosofiche dell'epoca, nel valutare il pensiero in funzione della materia, e prodotto dalla materia. Il 18 settembre del 1827 annota infatti: «Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto perché noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascuno di noi sente che il pensiero è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di sé, cioè col suo cervello». Tanto neuroscienziato, che si interessava ai minicervelli degli insetti, ragni, vespe, calabroni, mosche, zanzare, grillotalpe, perfino ai «mirmicoleoni», che altro non sarebbero che i formicaleoni tanto cari al neuroscienziato Giorgio Vallortigara (ne parla nel sul libro più rednte: Pensieri della mosca con la testa storta, edito da Adelphi, che sarebbe piaciuto molto a Giacomo). Del resto, Leopardi così scrive nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri: «Osservando insieme con alcuni altri certe api occupate nelle loro faccende, disse: beate voi se non intendete la vostra infelicità». Stessa cosa vale per gli umani: per Leopardi sono beati gli antichi, perché erano più ignoranti e potevano essere felici. E pensare che Leopardi muore nel 1837, ben prima della teoria dell'evoluzione di Charles Darwin, che avrebbe rotto definitivamente l'equilibrio tra scienziati e umanisti, cosa a cui non erano riusciti neppure Copernico, Galileo e Newton. Non per altro il principale avversario di Darwin fu il reverendo William Paley, esponente della «teologia naturale». La Terra, ai tempi di Leopardi, aveva ancora qualche solo migliaio di anni, secondo la narrazione biblica, e i fossili erano reputati resti del Diluvio Universale. Ma non possiamo incolpare Leopardi di non saperlo. Da lì a poco meno di un secolo quel migliaio di anni sarebbero diventati miliardi, e noi, come avrebbe scritto Mark Twain, rispetto alla storia della vita sulla Terra paragonata alla Torre Eiffel, solo la vernice che ne ricopre la punta, niente. Con Charles Darwin si apre un baratro da cui gli umanisti si terranno ben lontani e che porterà alle conferme dei fossili, del DNA, della biologia molecolare (per non parlare delle scoperte astronomiche e poi atomiche e subatomiche), e a togliere all'uomo (e all'universo) qualsiasi finalità metafisica. Ma in fin dei conti, per Giacomo, sarebbe cambiato poco, perché resta ancora valido, anzi ancor di più, il suo «tutto è nulla, solido nulla». Poi di solito arriva un letterato a protestare: nichilista! Massimiliano Parente 

La Casa di Leopardi a Recanati e le stanze private aperte per la prima volta al pubblico dopo 190 anni. Un patrimonio di raffinatezza, cultura, educazione e genialità. Carlo Franza il 3 marzo 2021 su Il Giornale. Le stanze private di Giacomo Leopardi, ai piedi del Colle dell’infinito, dove il poeta contemplava le vaghe stelle dell’Orsa, aprono  al pubblico dopo 190 anni.  La data è fissata al 21 marzo 2021, giorno d’inizio della primavera.  Fissata a marzo, ma rinviata proprio a causa della pandemia, l’inaugurazione del percorso “Ove abitai fanciullo” è un’idea del conte Vanni Leopardi, morto lo scorso anno, e della figlia Contessa Olimpia Leopardi, discendente diretta del poeta di cui custodisce da sempre le memorie nell’antico palazzo di famiglia, La dimora storica della famiglia Leopardi è stata restaurata, consentendo di riportare all’antico splendore le decorazioni parietali grossolanamente ridipinte nel 1937, anno di nascita del Centro Studi Leopardiani. Oltre alle stanze private del poeta, mai aperte al pubblico e, dal 1830, custodite nel ricordo del poeta ed escluse dall’utilizzo domestico, si possono ammirare lo scalone d’ingresso settecentesco e il salone azzurro con i dipinti degli antenati, oltre ai giardini di ponente e di levante, e il salottino dei fratelli Leopardi. affacciato sulla Piazzola del Sabato del Villaggio, a Recanati. Ripercorrendo quelle stanze, che come Giacomo scrisse “non sono altro che una rimembranza della fanciullezza”, si possono ammirare anche la collezione di libri di Giacomo, gli oggetti d’arte le medaglie e le monete del padre Monaldo, l’arazzo rosso con lo stemma dei Conti Leopardi di San Leopardo e ancora le casse di legno rivestite in cuoio con le iniziali degli sposi, che contenevano il corredo della madre Adelaide. Un tuffo, da batticuore,  nel passato in luoghi che sembrano coincidere col linguaggio dell’anima. La Contessa Donna Olimpia Leopardi  è l’attuale Custode morale e la Proprietaria dell’immenso patrimonio di Casa Leopardi. La sua straordinaria sensibilità artistica, ma soprattutto umana, non fanno altro che ricordarci la forte somiglianza con l’indimenticabile scrittore italiano. La raffinatezza, la cultura, l’educazione e la genialità del suo emerito antenato. Lo straordinario impegno e la perfetta conservazione di tutti gli ambienti di Casa Leopardi traspare nella storica struttura. Con grande emozione  subito ci si trova davanti  lo scalone d’onore della Residenza e si entra  nella sala contenente l’immensa libreria/biblioteca. Qui sono custoditi oltre ventimila volumi, dodicimila di questi raccolti dal padre  di Giacomo il Conte Monaldo, figura illuminata, lungimirante e cardine della formazione del giovane poeta, il quale creò l’immensa biblioteca di scritti filosofici, politici, religiosi che fu a disposizione dello studio dei suoi figli e di tutti i cittadini recanatesi. Monaldo ebbe anche il merito di debellare il vaiolo offrendo gratuitamente alla popolazione di Recanati il vaccino (Che esempio per i nostri tempi!). La biblioteca contiene anche i libri proibiti, volumi il cui possesso, consentito solo attraverso una speciale concessione da parte del Pontefice. “Monaldo chiede il permesso di averli per sé e per la figlia Paolina, a cui dà la stessa educazione dei figli maschi – spiega Olimpia Leopardi – Proprio Paolina diviene la prima giornalista italiana, traducendo gli articoli dal francese all’italiano. Tra Monaldo e Giacomo c’è un conflitto generazionale forte, tipico tra padre e figlio. Uno è un genio, l’altro no, si confrontano su territori culturali diversi. Monaldo ha un erede con un’intelligenza modernissima, superiore alla propria, che si scontra con l’epoca. “Lei è il padre del grande Giacomo?” gli viene chiesto spesso. Procedendo nel percorso si intravede lo scrittoio di Giacomo.  “Lo studio matto e disperatissimo” del giovane filologo avveniva su un tavolo piccolissimo di Casa Leopardi. Qui lo studioso divorava senza sosta volumi di lettere, filosofia, storia. Si stima che in sette anni di studio folle, dai 14 ai 21 anni, Giacomo abbia letto oltre 8.500 volumi. Una media di tre libri e mezzo al giorno di almeno 1000 pagine ciascuno. “Da piccola quando entravo nella Biblioteca mi facevo di corsa tutti i saloni e riscendevo veloce per le scale. Volevo dimostrare a me stessa che potevo farcela. Giacomo era pur sempre un ragazzo e quindi immagino che, sebbene fosse un enfant prodige, dopo aver letto l’epica classica, sfidasse a spada i suoi fratelli e che andasse a giocare nel Giardino che gli ispirò i versi della poesia “Le Ricordanze” (1829). Sicuramente Giacomo ai suoi maestri disse di fare un ripasso di greco antico. Ben presto lui superò i suoi educatori che andarono da Monaldo dicendogli che non avevano altro da insegnare al figlio”, afferma con orgoglio Olimpia Leopardi. “Mio padre Vanni mi è stato vicino nella cura del Museo fino allo scorso novembre, quando purtroppo è venuto a mancare. È a lui che devo l’amore e il senso di responsabilità che un Palazzo del genere richiede”; dopo qualche istante, con fermezza, continua: “Nel 1995 ho iniziato a prendermi cura di Casa Leopardi, prima ho viaggiato molto soprattutto all’estero. Ho restaurato le cantine, creato il Museo, ristrutturato la Casa di Silvia, sistemato il telaio, realizzato il bar per i visitatori, tutto solo con le nostre forze. In trentacinque anni abbiamo fatto tanto. Mio padre è stato per me un grande sostegno. E proprio a Lindos, Rodi, dove andavo ogni estate con lui, conobbi i Pink Floyd. Vanni era più amico di Richard, io di Dave. Vennero a farci visita a Recanati. Ricordo i nostri piacevoli pomeriggi nel Salone Azzurro e nella Galleria. Qui ho ricevuto anche ben quattro Presidenti di Stato: Cossiga, Scalfaro, Napolitano e Mattarella, quest’ultimo lo scorso anno. Napolitano e Mattarella, in particolare, sono profondi conoscitori del pensiero leopardiano.” Così ebbe  a dire la Contessa Leopardi in una intervista. Ora il Salone Azzurro, l’ingresso al piano nobile, è finalmente fruibile a tutti i visitatori. Alle pareti possiamo scorgere i dipinti dei membri della Famiglia Leopardi, tra cui il “Ritratto del conte Giacomo Leopardi” e il “Ritratto della Contessa Rosita Carotti“, bisnonna degli attuali discendenti di Casa Leopardi. Troviamo anche l’albero genealogico realizzato da Monaldo, l’arazzo rosso con lo stemma dei Conti Leopardi di San Leopardo, costituito dal leone rampante con corona comitale e dalla croce di Malta. Nella Galleria la Famiglia ha intrattenuto persino il Principe Carlo d’Inghilterra, ma anche i poeti Carducci, Pound, Ungaretti, Luzi, e personalità della cultura e dello spettacolo come Carmelo Bene e Vittorio Gassman. Nella magnifica Galleria si trovano due grandi casse di legno che contenevano il corredo nuziale della Marchesa Antici, madre di Giacomo. Compaiono anche una serie di quattro tele raffiguranti animali al pascolo attribuite al noto pittore tedesco Philipp Peter Roos, detto Rosa da Tivoli. Ed è proprio in questa parte della Residenza che, per spezzare la noia della quotidianità, il Conte Monaldo organizzava piccole recite teatrali sulla base di commedie scritte da lui o da Giacomo stesso. Continuando nell’inedito percorso “Ove abitai fanciullo” raggiungiamo finalmente le stanze private del poeta: “Le Brecce”, un’infilata di tre camere da letto. C’è il salottino in cui i fratelli Leopardi trascorrevano il tempo libero, la camera di Carlo, fratello di Giacomo, e in fondo, più ampia, la stanza del fratello maggiore Giacomo. Dice la Contessa Olimpia Leopardi: “Abbiamo terminato a maggio i lavori più importanti della struttura. Quando sono state rimosse le impalcature ho potuto ammirare gli affreschi originari. I soffitti hanno un’altezza di 5 metri, le stanze sono ampie circa 50 mq. Immagino il freddo che abbia potuto soffrire Giacomo, ciò sicuramente non avrà giovato alla sua salute così precaria. In queste stanze Leopardi compose i versi per Gertrude, il suo primo amore. Con Fanny Targioni Tozzetti e Maria Belardinelli, Giacomo ha i contatti per la prima volta con il sesso femminile. Queste donne stimolano fortemente l’immaginazione di Giacomo, non solo la celebre Silvia“. Ma oltre l’amore anche l’amicizia è stata  importante per il giovane Poeta. Giacomo intrattiene dei rapporti di profonda fiducia e stima con Antonio Ranieri. “Ranieri, anche lui scrittore, capisce subito la luce che emana Giacomo e quest’ultimo vede in Ranieri ciò che non potrà mai essere: un tombeurs de femmes, un Don Giovanni, un viveur. Giacomo vive l’amicizia come una sorta di amore, o meglio come il sentimento che lui può permettersi maggiormente, a cui dà un tono enfatico, passionale. Noi Leopardi siamo fatti di fuoco” ha  affermato in un’intervista  Donna Olimpia che continua: “Anche Pietro Giordani è una figura cardine per Giacomo Leopardi, da cui trae un grande coraggio. Monaldo si ingelosisce di questa nuova amicizia, incolpando Giordani dei cambiamenti di vita del figlio. Raniero incoraggia Giacomo a dedicarsi alla prosa, anzichè alla poesia. Leopardi prende coraggio e scrive così “L’Infinito”. Casa Leopardi è stata nel 2014 persino il set de “Il Giovane Favoloso” , il film diretto da Mario Martone che vede il talentuoso Elio Germano nei panni di Giacomo Leopardi. La pellicola fa vincere a Germano il David di Donatello nel 2015 come miglior attore protagonista, a Martone il Nastro D’Argento, il Globo d’Oro e il Ciak d’Oro come miglior film dell’anno, oltre che a Giancarlo Muselli il David di Donatello come migliore scenografia;  la Contessa Olimpia  Leopardi  ebbe a ricordare  un aneddoto riguardo l’opera: “Carlo Degli Esposti, produttore della pellicola e mio caro amico, a fine lavori mi disse: “Giacomo era la brace sotto la cenere, è bastato solamente soffiarci sopra”.  Carlo Franza

·        Giampiero Mughini.

Giampiero Mughini per Dagospia l'1 dicembre 2021. Caro Dago, Enrico Varriale è un giornalista televisivo molto noto al grande pubblico e dunque è del tutto ovvio che i mass-media ci inzuppino il pane su questa sua allarmante vicenda di una donna (con cui lui aveva un tormentato rapporto sentimentale) che lo accusa di averla scaraventata contro il muro, di averla stretta alla gola, di averla colpita anche con dei calci. Bruttissima vicenda personale ancor prima che penale, ovvio. Ho detto vicenda personale a marcare quanto sia difficile per la legge e per i suoi codici entrare in questo reame, di quel che accade ogni volta tra gli esseri umani, in particolare tra gli uomini e le donne. Lo dico dopo aver letto l’intervista che Varriale ha rilasciato a Marco Mensurati sulla “Repubblica” di oggi. Un’intervista dove ogni parola, e stavo per dire ogni virgola, eccome se aveva il suo peso. Varriale ammette le sue colpe diciamo così fisiche, d’esser andato di forza contro una donna, ma nega di essere “un mostro”. In linea di principio lui è della linea che “le donne non si battono neppure con un fiore”, la linea che per quanto mi riguarda sta all’articolo uno della mia Costituzione personale. E con tutto ciò racconta la dinamica - personale, personalissima - del suo rapporto con questa donna che lo accusa pesantemente. Una donna cui lui (un single perfettamente libero sentimentalmente) teneva molto, non voleva che fosse un rapporto fugace ed estemporaneo. Si incontravano e si scontravano. Lei c’era, e poi in certi momenti non c’era più. Lui era cortese e cavaliere, in altri momenti lo era di meno. C’erano tra loro parole azzeccate e parole che li mettevano in conflitto. Tensione dopo tensione arrivano a un momento deprecabile dove lui effettivamente le mette le mani addosso e se ne approfitta del fatto che nella media un uomo è più forte di una donna. Starà ai giudici capire la sequenza dei loro atti vicendevoli, soppesarne la natura, decidere. Non credo sia facile. Ciò che è delle persone è intriso di sfumature, ammette raramente il bianco e nero. Al tempo della mia giovinezza ci fu un caso clamoroso a Milano. Un professore di liceo rinomatissimo a sinistra venne accusato da una sua fidanzata/amica di averla stuprata a casa sua. Lui andò in cella. Il giornale per cui lavoravo mi chiese di occuparmi della faccenda. Chiamai la notissima avvocata che tutelava la ragazza. Le chiesi com’è che, per essere stata la violenza di un uomo su una donna, i collant della ragazza risultavano intatti. Mi disse che la ragazza aveva avuto paura che se avesse tentato di difendersi le cose per lei sarebbero andate ancor peggio. Il professore di liceo è stato poi assolto. L’ho incontrato molti anni, nella casa milanese del mio amico Alfio Caruso. Perdonatemi, ma non ho avuto dubbi che di violenza in quel tormentato rapporto tra un ragazzo e una ragazza di trent’anni prima di violenza non ce ne fosse stata. C’era stato molto altro, di tanto più complesso, su cui la legge ha difficoltà a intervenire, a sentenziare. E’ difficile metter becco nei rapporti fra uomini e donne. Trenta e passa anni fa venne a casa mia una donna che conoscevo da tempo. Eravamo amici. Lei era single, io ero assolutamente single. Cenammo l’uno di fronte all’altro e poi andammo in un’altra stanza di casa mia, lei seduta su una poltrona, io seduto sulla poltrona di fronte. Ci conoscevamo da tempo, eravamo amici, eravamo single entrambi, le parole tra noi erano calde. A un certo punto io mi avvicinai di dieci o quindici centimetri verso la sua bocca con l’intenzione di baciarla. Lei alzò un dito a opporsi, non più di un dito. Immediatamente io mi ritrassi. Parlammo ancora a lungo. Dopo di che l’accompagnai alla sua macchina posteggiata lì vicino, la mano sulla sua spalla, e la baciai in fronte nel salutarla. Qualche anno dopo, mentre stavo parlando con una che lavorava nello stesso giornale in cui avevo lavorato io e la mia amica di cui ho detto (la chiamerò “Tizia”), lei mi disse che “Tizia” le aveva confidato che io con lei ci avevo “provato”. Usò questo termine ignobile, “provato”. Una tale ingiuria, una tale bestemmia, una tale porcheria che lei dopo una serata che era stata interamente nostra e soltanto nostra, nella quale non era avvenuto nulla di efferato nei confronti della sua femminilità, lei si “vendesse” al primo venuto che io l’avevo importunata. Ricordo che a quel racconto ne diventai verde di rabbia, di una tale menzogna, di una tale ingiuria, di una tale volgarità. E ancor oggi ne fremo di rabbia. “Tizia” non l’ho mai più reincontrata. Per sua fortuna?

Dagospia l'8 ottobre 2021. Mughini parla di “Compagni Addio” in una puntata di "Mixer cultura" e risponde alle domande di Arnaldo Bagnasco: "Cosa mi ha fatto di male la sinistra? Di male nulla. Sono cresciuto in essa e attraverso di essa. Ma le immagini del 68 che mi ha mostrato sono immagini che sento lontane un secolo perché è passato un secolo da quel ’68. Noi tutti siamo cambiati, siamo diversi, siamo cambiati. Con altri problemi, con altri incubi. In un’altra Italia. - Mughini: "Il ’68 non è piccolo. È un anno che dura 18 anni. Dal luglio 1960 alla morte di Moro. Altrimenti non saremmo qui a parlarne..."

Francesco Curridori per "il Giornale" l'11 agosto 2021. Giornalista, scrittore e opinionista televisivo. Giampiero Mughini, autore di oltre 40 libri (l'ultimo Nuovo dizionario sentimentale: Delusioni, sconfitte e passioni di una vita), imperversa da decenni nelle varie trasmissioni televisive con le sue argute e pungenti osservazioni. A 80 anni compiuti, il giornalista d'origine siciliana ricorda gli anni della giovinezza trascorsa a Parigi nel vivo della Contestazione del maggio '68 e i suoi esordi nel mondo della carta stampata come redattore di Paese Sera. 

Perché decise di intraprendere la carriera giornalistica?

«Mi ero accorto subito che non avrei saputo fare qualcosa di serio, tipo il chirurgo o l'architetto o il pilota di caccia. E invece imparai presto a battere alla macchina da scrivere Olivetti. Appena arrivato a Roma, nel gennaio 1970, mi chiesero difatti di battere alla macchina da scrivere un articolo. Mi pagarono. Cominciò da lì non la mia carriera giornalistica (che non ho mai fatto) e bensì i circa quarant' anni in cui ho tratto il mio reddito dai giornali». 

Cosa hanno rappresentato per lei gli anni della Contestazione?

«Sono stati anni fortunati, in cui ho abbellito la mia condizione di ventenne senza arte né parte con le favole che mi raccontavo sulla Cuba di Che Guevara o sulla Cina di Mao. L'essere stato prima dentro quelle favole o poi averle raschiate via dalla mia pelle è stato l'atto fondamentale della mia formazione intellettuale e morale».

Ha un ricordo particolare del Maggio francese del '68?

«Ne ho moltissimi, perché quei mesi sono stati fra i più intensi della mia vita. Ad esempio il ricordo una bellissima ragazza parigina intruppata con noi in un corteo che riempiva un intero boulevard. Mentre mi vergogno ancora del momento in cui presi a scagliare dei pavés contro i poliziotti francesi, che erano lì a guadagnarsi il pane, e che mi vennero addosso rompendomi una mano com' era nel loro pieno diritto. Per essere quello uno psicodramma non poteva avere scenario migliore». 

Lei ha interpretato la parte dell'intellettuale nel film Sogni d'oro di Nanni Moretti. Lei si sente un radical-chic di sinistra?

«L'intellettuale che interpretavo era sommerso dall'autoironia. Io radical-chic? A vent' anni vivevo in una casa di borghesia impoverita dove non avevamo di che acquistare una bottiglia di vino né tantomeno il televisore. Quando sono arrivato a Roma avevo cinquemila lire in tasca. Quando mi sono dimesso dal quotidiano Paese Sera perché non ne potevo più di stare in un giornale comunista, e avevo già 37 anni, non sapevo come pagare l'affitto il mese successivo. Non vedo proprio quali attinenze avrei potuto avere con l'antropologia dei radical-chic, ai miei occhi la più squallida di tutte». 

Da metà anni '80 in poi sono iniziate le sue incursioni nel mondo della televisione. Si è trovato meglio in Rai o in Mediaset?

«Da quelle che lei chiama incursioni nel mondo della televisione ho imparato non poco quanto alla mia attività fondamentale, lo scrivere sui giornali e lo scrivere libri. Tanto a Rai che a Mediaset ho avuto a che fare con gente di talento e con dei cretini. Con i primi mi sono trovato benissimo, con i secondi mi sono detto che dovevo pur campare. Non mi chieda di fare dei nomi».

Veniamo alla politica. Prima della pausa estiva è stata approvata la legge Cartabia e, in materia di giustizia, è in corso la raccolta delle firme per i referendum promossi dalla Lega e dai Radicali. Lei li firmerebbe?

«No, perché ritengo che i problemi molto complessi della giustizia si possano affrontare a partire dal sì o no a un referendum. Il problema della giustizia in Italia si è sedimentato in decenni e i problemi sono complicatissimi e intrecciati tra loro. Il referendum, per me, resta quello del divorzio. Sì o no al divorzio è un quesito semplice, mentre la giustizia è dieci volte più complessa».

Calcio. Si aspettava la vittoria dell'Italia di Mancini agli Europei?

«No, non mi aspettavo la vittoria dell'Italia agli Europei da quanto mi sembrava fosse divenuto mediocre il nostro torneo di serie A. Mancini è stato geniale nell'attingere i giocatori migliori di quel torneo e trasformarli in un undici pressoché irresistibile». 

Come nasce la sua passione per la Juventus?

«A dieci anni, giocando con le figurine Panini: mi piacquero in modo particolare quelle che raffiguravano Giampiero Boniperti e Ermes Muccinelli, che era piccolo e nervoso come lo ero io a dieci anni». 

Chi pensa che vincerà il campionato?

«La squadra migliore nell'arco delle 38 partite». 

Come ha vissuto il periodo del lockdown?

«L'ho vissuto come ho vissuto tutti gli ultimi anni della mia vita, in casa mia tra i miei libri e i miei dischi».

Ha mai avuto paura di viaggiare sotto pandemia?

«Assolutamente no». 

A tal proposito, un'ultima curiosità: dove ha trascorso le vacanze quest' anno?

«Sono stato dieci giorni in Puglia, che quanto alle vacanze è tra le regioni più belle e ospitali d'Italia. E quando il sud è bello, è veramente meraviglioso». 

Da scrittore, c'è un libro in particolare che consiglierebbe di leggere sotto l'ombrellone?

«Sicuramente non consiglierei a nessuno i miei libri perché richiedono un po' di applicazione e la lettura in generale dovrebbe essere un'attività da svolgere con molta applicazione».  

Mughini incontenibile contro Boldrini, Saviano e grillini: «Mezza calzetta», «banale», «inesistenti». Gabriele Alberti lunedì 30 Novembre 2020 su Il Secolo d'Italia. Si parte da Diego Armando Maradona, poi l’intervista dilaga a 360 gradi. Giampiero Mughini, giornalista, scrittore, intellettuale, in una lunga e bella intervista rilasciata al quotidiano “La Verità” non fa sconti ad alcuno. Con la consueta onestà intellettuale non teme il mainstram dilagante. Sul grande fuoriclasse scomparso si è espresso anche Roberto Saviano, che ha scritto: «Non pensavo Maradona fosse mortale e non un Dio». La zampata di Mughini non si fa attendere: «Ho letto queste sue frasi, incredibilmente banali, in cui il napoletanista sopravanza così tanto l’intellettuale. Del resto, non so dire quanto Saviano valga come intellettuale». E’ la risposta. Ma non finisce qui con l’autore di Gomorra.

Mughini su Saviano: “Non so quanto valga come intellettuale”. Non crede alle minacce della camorra nei suoi confronti? Lo incalza il giornalista de La Verità: «I tribunali hanno registrato le testimonianze di mafiosi che dicevano che quelle minacce non sono mai esistite. Falcone non è che lo minacciarono, lo fecero saltare in aria». La reazione di Mughini alla domanda successiva è tutta un programma. Sembra di vederlo e ascoltarlo, quando si passa ad analizzare il “boldrinismo”.

“Boldrini? Mezza calzetta”. La domanda verte infatti sull’ex presidente della Camera, sul suo femminismo politicamente corretto e sullo scivolone con Mattia Feltri. Attacca lo scrittore, con la consueta sincerità: «Per carità, abbiamo parlato di un protagonista immenso come Maradona. Non passiamo a parlare di una mezza calzetta». Poi l’affondo implacabile. «Siccome sono un uomo che per 365 giorni l’ anno onora la donna e il femminile, ai miei occhi il femminismo porta il nome di Carla Lonzi, non certo quello della Boldrini. La quale voleva che Mattia Feltri pubblicasse un suo insulso articolo contro Feltri padre. Per dire di Vittorio Feltri quello che si merita, nel bene e nel male, ci vuole ben altro che le risorse intellettuali di cui dispone la Boldrini».

L’omicidio Calabresi. Un capitolo a parte nell’intervista è dedicato all’omicidio Calabresi e al ruolo degli intellettuali in quegli anni. Argomenti, come si sa, sui quali Mughini ha scritto molto, soprattutto per essere stato testimone di fatti e circostanze. Mario Calabresi, non ha dato la mano a tre persone coinvolte nell’ omicidio del padre. Mughini d’impeto ha risposto così: «Ha fatto benissimo Calabresi, e io neppure sotto tortura dirò chi penso siano quei tre, due dei quali so benissimo chi sono. Uccidere un commissario di polizia in un agguato al centro di Milano fu un’operazione condivisa da almeno 20 persone, senza contare le rispettive fidanzate». Molti duro lo scrittore e giornalista sugli intellettuali “omertosi”, e su chi oggi avrebbe la pretesa di dare lezioni di civismo ex cathedra. «A quel tempo ce n’ erano caterve – rammenta- Oggi si limitano a tacere per vigliaccheria, perché se metti becco in un argomento del genere, ti fai dei nemici. E parlo per testimonianza diretta. Io su questa storia ci ho scritto un libro: a parte l’amico Cazzullo, non ne parlò nessuno. Anzi, venni querelato da un paio di militanti di Lotta continua». Sul motivo del permanere di tanta omertà dopo tanti anni Mughini non ha dubbi. «Ci sono carriere da difendere, soprattutto nell’ editoria e nella comunicazione. Intendiamoci, non che io oggi voglia inchiodare una persona alla sua eventuale responsabilità morale per un episodio di quarant’ anni fa. Basterebbe però dire semplicemente: ho approvato, ho applaudito, mi dispiace di averlo fatto». Ragiona Mughini: «Ognuno risponde di sé stesso. Ho sempre pensato che, in fatto di moralità, non si possano dare lezioni. I sacerdoti del Bene, e Saviano è uno di questi, per me sono insopportabili. Humphrey Bogart non dava lezioni di coraggio: era il coraggio». Poi ne ha per tutti: per gli intellettuali che dispensano pillole di politica in tv («Molti sono dei pagliacci, ma non tutti. Molti»); per coloro che firmarono «Il famoso appello dell’Espresso contro Calabresi del 1971. Fu un gesto idiota, di cui in pochi si sono pentiti. Uno di loro, il mio amico Paolo Mieli». E gli altri? «Non vogliono rovinare il loro pubblico potenziale. Cialtroni da due soldi». Ce l’ha con “l’invenzione” dell’antifascismo: «La mia generazione – spiega -ha avuto la fortuna pazzesca di non dover combattere una guerra, e di vivere in un Paese con reddito in crescita. Anziché ringraziare il cielo, ci siamo inventati una guerra psicotica, l’antifascismo degli anni Settanta, che non aveva senso poiché il fascismo venne seppellito dalle bombe americane del ’45». E quando gli si chiede conto della pandemia per la quale spesso il coronavirus viene descritto come una guerra, Mughini esplode: «Non cadiamo nel ridicolo. Ci sono 53.000 morti in Italia ma è altra cosa di una guerra. Nel 1944 io bambinetto accompagnavo mia madre a prendere l’acqua alla fontana. Alzavo lo sguardo e vedevo gli aerei alleati che si avventavano su Firenze, dove vivevamo». Insomma, non scherziamo.

Mughini: “I cinquestelle? Non so chi siano veramente”. Poi entra nello specifico della politica e dei personaggi che la animano. Caustico sul premier: «Conte va in televisione 10 volte al giorno, mille iscritti al suo partito li trova. Poi cosa possa rappresentare un partito di Conte non ne ho la più pallida idea». E per rendere più chiaro il concetto affonda: «Ai miei occhi non è interessante, difatti su di lui non ho mai scritto una riga. La cosa pazzesca è che lui prima era capo di un governo “ics”, oggi è capo di un governo “ipsilon”». Godibilissimo, al solito, quando si esprime sui cinque stelle: «Non ho mai capito chi siano davvero. L’ unico elettore dei 5 stelle che ho conosciuto in carne e ossa era una giovane avvocatessa. Mi disse: ho votato i 5 stelle perché ho litigato con il fidanzato». Poi la chiosa: «Se trovassi per strada un 5 stelle, lo toccherei per verificare di quale materiale è fatto, se esiste davvero oppure no». Un’intervista tutta da leggere.

Mughini, la crosta dell’imbecillità spezzata senza il raglio dei signorsì. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 25 aprile 2021. Uno come Mughini gli altri non ce l’hanno. Nel panorama culturale europeo, per dire, uno così di testa aperta, neanche sanno immaginarselo. Neppure a Madrid, figurarsi a Berlino. Uno che si fa carico del Novecento per farne magma e viva vena nella contemporaneità sua, tutta di segni e salti mentali oltre il banale ideologico, non esiste. E i suoi ottant’anni sono incredibili perché – a sentirlo parlare, a leggerlo, a goderselo – Giampiero è quanto di più distante dalla vecchiezza del risaputo, della gnagnera acculturata e dal raglio proprio dei signorsì. Ha appena fatto ottanta anni ed ecco tutte le pagine che ha scritto, tutti gli articoli del suo essere stato giornalista quando il mestiere era un blasone, con quella sua franchezza che lo rende speciale. Ecco il suo ultimo titolo: “Nuovo dizionario sentimentale” (Marisilio editore, 18;00 euro). Un libro di cognizione dell’immanenza del vivere, tutto di scrittura eretta e orgogliosa, coerente con le storie di cui è prodigo, come quella dell’ebreo polacco Matityahu Shmuelevitz quando, innanzi al tribunale, rivendica di averle avute con sé una bomba e una pistola, di avere anche sparato a un poliziotto inglese per chiamare al banco degli imputati – accanto a sé – la Gran Bretagna per avere tradito il mandato attribuito dai cinquantadue Stati che costituivano le Nazioni Unite: “Perché non mi fucilate e non se ne parla più?”. È un biglietto di auguri – questo nostro – non una recensione. Un evviva recapitato col comodo del dopo festa, quando la fetta di torta è più che digerita. Ed è sempre uno smottamento di faglie nel planare dell’esistenza quello dei lettori verso i loro autori, da sempre guide nel cammino della memoria di tutti. Fa proprio questo, Mughini, accompagna chi legge – lo incammina – e il lettore è sempre grato di ritrovarsi dentro pagine che sono rocce in movimento, sovrascorrimenti di sogni, giorni e sconfitte, perfino. Come la pipa di René Magritte non è una pipa, così il Mughini di se stesso non è Mughini, è un capolavoro surreale fatto di carne, ossa e messa in opera di parola, scrittura e stile. E Mughini davvero mai – ma proprio mai – ha lisciato il pelo dal verso giusto, anche votando il Pd che è il lasciapassare di tutte le carriere, Mughini che a differenza di tutto il comparaggio di regime non è mai stato in ogni istante della sua vita un comunista, la pensa al modo tutto suo – con la liberalità propria dell’uomo di genio – spezzando la crosta d’imbecillità e conformismo, quella stessa che da sempre ottunde gli italiani, come già Leonardo Sciascia gli disse a proposito di Leo Longanesi: “Spezzava la crosta d’imbecillità e conformismo da cui era dominata l’Italia negli anni del fascismo”. Una catena logica e illogica al contempo questa che mette in fila Longanesi-Sciascia-Mughini. Una sequenza elettrizzante odorosa di pagine, inchiostro di china e serigrafie e nessuno pensi a chissà quale coincidenza geografiche tra sangue di Romagna e zolfatare di Sicilia perché sia il Maestro di Racalmuto, sia Giampiero – di Marradi per parte di padre, catanese per parte di madre – non possono essere ricondotti al pittoresco siciliano, anzi, sono proprio francesi nell’essenza. Da Diderot al Maggio parigino, in lungo e in largo, s’intrecciano le loro esistenze. Altro che ciuri-ciuri. E Mughini, ebbene sì, se non l’erede, è il successore dell’autore de L’Affaire Moro. C’è un tenace concetto tutto di contropelo, infatti, tra il vecchio e il giovane. Nella fatica dell’intellettuale – nel dovere del discorso di verità – Mughini lavora nella stessa vigna che fu di Sciascia. Ne prende il metodo. Non foss’altro per avere scandagliato – il nostro Giampiero – il Caso Calabresi, prendendo di petto il sussiego complice dell’Italia altolocata, indifferente al sangue di un Commissario. Come già aveva fatto Sciascia – nel metodo, appunto – col Caso Moro. Per accusare tutto un sistema cui faceva comodo un Aldo Moro morto. Ma a mille ce n’è di storie, con Mughini. E mille di favole. Tutte di colori e manufatti che solo lui sa vivere e svelare, e sempre al modo dello sciamano. Con quelle sue mani, le mani sue con promana la fabula ipnotica di essere Giampiero. Giampiero Mughini coi suoi ottant’anni è l’unico personaggio popolare su cui la definizione di “intellettuale” non stride, anzi. Più si mette in gioco, ancor più rende merito alla missione del dotto che non è quella di starsene nel bozzolo della conventicola – tra i ragli dell’io-io-io – ma col pubblico di Rete4 che è l’Italia reale alla quale la sua cultura risulta acqua pulita, fresca, squisita. Come quando dice “atte” in luogo di “appropriate”, “idonee” o “confacenti”. Come lo dice lui “atte” nessuno. E uno come Mughini, appunto, nessuno mai.

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 16 aprile 2021. Scrittore, giornalista, opinionista, conduttore tv. Nessuno di questi termini è in grado di esaurire quel che rappresenta Giampiero Mughini per il panorama culturale del nostro Paese. Ce n’è solo uno che si avvicina allo scopo. E nonostante in pochi attualmente amino vederselo attribuire, lui ne va particolarmente fiero: «Sono un intellettuale dall’età di 19 anni». Oggi che di candeline ne spegne 80, lo è più che mai. Così come un amante insaziabile dell’arte. Nella sua casa romana, infatti, conserva gelosamente 25mila libri (moltissimi antichi), oltre all’oggettistica più svariata: dalle tavole originali di fumetti storici a vinili rarissimi, fino ai mobili simbolo del design made in Italy. Per questo c’è chi considera la sua abitazione nel quartiere di Monteverde un museo (definizione che lui non ama), anche se sarebbe più corretto presentarla come un tempio. Al culto dell’arte in ogni sua forma ed espressione ha dedicato l’intera esistenza, così come tutti i soldi che ha guadagnato. Non a caso, nella lunga chiacchierata che ci ha concesso, a un certo punto ammette: «In questo momento sul conto corrente ho diecimila euro. Ma solo in vista del prossimo acquisto». Ricordando che ha incassato tanto perché «ritengo di valere molto e quindi chiedo di essere pagato al meglio possibile», la stima in qualche milione di euro dedicato al collezionismo è presto fatta. Ma non c’è nessun rimpianto nei suoi ricordi. Neppure quando ripercorre le conseguenze dell’abiura al comunismo con il libro Compagni, addio: lettera aperta alla sinistra, che lo portò ad essere etichettato come «un intellettuale borghese» – quindi allontanato da certi salotti – oppure le critiche durissime ricevute per le numerose apparizioni televisive, dal Maurizio Costanzo Show a Controcampo. E persino sull’omicidio del commissario Calabresi, nonostante in molti preferiscano ancora tacere, rimane uno dei pochi ad aver cercato di comprendere meglio una delle pagine più nere della storia italiana. E se oggi incontrasse Adriano Sofri, di certo sarebbero ancora scintille: «Lo ritengo uno dei talenti della mia generazione, ma dopo averlo scritto mi ha insultato. Per cui lo prenderei a calci in culo facendogli fare il giro di Piazza Navona».

Qual è il suo primo ricordo d’infanzia?

Quello di un bambino molto timido. Figlio di genitori separati quando avevo 6-7 anni, in un’epoca in cui non era usuale come oggi. Un bimbo che ha vissuto nella famiglia dei nonni, con mia madre. Una famiglia di una borghesia fortemente impoverita. I miei cuginetti avevano un apparato di benessere che noi avevamo perso. In più, ero anche fisicamente esile, quindi con tutte le stimmate di uno che non se la passava granché bene.

Che cosa ha poi formato il suo carattere?

Lo sport, che ho iniziato a praticare verso i 13 anni. Sport agonistico in un campo duro come la ginnastica attrezzistica. È stato il momento formativo essenziale della mia vita. Mi ha fatto comprendere che ti devi far valere, che le sfide si affrontano lealmente, che stringi la mano all’avversario prima e dopo la gara e che talvolta vinci ma talvolta puoi anche perdere. Tutto quello che so l’ho imparato lì. A scuola invece un bel niente.

Come mai?

Ho frequentato un “liceo bene” della mia città, visto che i miei genitori pensavano ne valesse la pena. Era gestito da sacerdoti e l’ho definito in seguito l’Auschwitz della mia gioventù.

Suo padre era originario di Marradi, il paese toscano di Dino Campana. Per caso c’è qualche relazione con il poeta?

La casa di mio padre distava 60 metri da quella della famiglia di Dino Campana. Un giorno uno studioso mi ha chiamato per dirmi che, da un certo documento che lui aveva in mano, risultava che Dino Campana avesse dettato i versi del suo poema a un certo Mughini che batteva a macchina. Quel Mughini, a quanto pare, ogni tanto sbagliava e Campana si infuriava terribilmente. Tenendo conto che i Canti Orfici sono del ’14, mio padre avrebbe avuto 15 anni. Lui diceva di aver sostenuto il poeta nel pubblicare il libro, ma io non penso affatto che sia andata così. A casa di papà i Canti Orfici non c’erano, e a me pare improbabile che a quell’età mio padre avesse del denaro da donare per realizzare quell’opera.

Che uomo è stato suo padre?

Era un sovrano nel suo lavoro. Quando è morto a Catania, un’intera pagina del quotidiano La Sicilia venne dedicata ai necrologi in sua memoria. Lui era stato fascista, e a casa ricordo i libri dell’edizione completa Hoepli delle opere di Mussolini. Quindi dai 15 ai 17 anni il mio panorama librario era: zero libri dai miei nonni materni e a casa di mio padre solo quelli su Mussolini. Mio nonno, che era stato un ardente comunista, aveva relegato in soffitta quattro-cinque libri che ho poi recuperato, fra i quali le conversazioni di Palmiro Togliatti con Maurizio e Marcella Ferrara. Molti anni dopo, io scriverò un libro-intervista con Maurizio Ferrara, il padre di Giuliano, che si intitola Da Ferrara con furore.

Quindi lei venne influenzato più dal nonno che dal papà, almeno inizialmente, nelle convinzioni politiche?

Niente affatto, io sono stato influenzato solo da me stesso. Il nonno era un comunista retorico, carducciano. Non era un intellettuale, gli piacevano le donne. Dietro al suo tavolo da lavoro aveva dei ritratti in rame di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Gramsci. Dopo il XX Congresso del Pcus tolse il ritratto di Stalin e sulla parete restò una macchia incancellabile.

Lei si è detto spesso molto lontano dalle sue origini siciliane.

Io sono italiano, non siciliano. Vivo da cinquant’anni a Roma, tifo per una squadra di Torino e il 90% del mio lavoro ha avuto a che fare con giornali, case editrici e reti televisive di Milano. E non c’è altro da dire.

Forse si sente più parigino, avendo partecipato in quella città alle manifestazioni studentesche del ’68?

Esatto, è la terza città della mia vita, o forse la seconda dopo Roma. Ci ho vissuto due anni da laureando in Lingue e letterature straniere con specializzazione in francese. È stata la città che ho amato fin da quando, a vent’anni, ho cominciato a leggere libri. I libri sono stati il perno decisivo della mia vita.

Come si spiega che oggi in molti rifiutino di definirsi intellettuali?

Uno che è idraulico rifiuta la parola idraulico? Non credo. Uso la qualifica di intellettuale esattamente come userei quella di idraulico. Ma non che sia meglio essere intellettuale che idraulico, per carità. Mentre invece non mi sono mai sentito giornalista, pur avendo lavorato e collaborato a metà dei giornali italiani. Alcuni attribuiscono valenze negative all’essere intellettuale: uno che ha la testa fra le nuvole, vede tutto in modo astratto o attacca pippe all’umanità su qualsiasi argomento. Io apro bocca solo quando mi pagano per sapere come la penso.

L’immagine che le rimane impressa di quel ’68 parigino?

Era la notte delle barricate, c’era un ragazzo che distribuiva le bottiglie molotov e mentre lo faceva mi passò davanti e mi sorrise. Eravamo tutti e due attori di una pièce teatrale. Io non le presi quelle bottiglie perché non le sapevo usare, utilizzai invece dei sassi da lanciare, per i quali chiedo ancora scusa alla polizia francese. Va ricordato che, dopo quella notte, duecento poliziotti francesi colpiti dai pavés che piovevano dal quarto o quinto piano di rue Gay-Lussac non furono in grado di tornare mai più al lavoro. Lo dico perché sono un intellettuale e dunque devo tener conto di tutto.

Poi è arrivato a Roma con poche lire in tasca.

Da Parigi sono tornato a Catania nel dicembre del ’68 e ho contato i giorni per fuggirne via. La sera del 5 gennaio 1970 sono sbarcato alla stazione di Roma con cinquemila lire in tasca.

E poco dopo diventa direttore responsabile di Lotta Continua.

Non so perché lei sottolinei un fatto talmente marginale della mia vita. Ho offerto la mia firma di direttore responsabile di alcune loro pubblicazioni perché era giusto che uscissero e andassero in edicola. Per avere offerto quella firma ho sofferto 26 processi e tre condanne, e mi sono anche pagato le spese processuali. Detto questo, dovessi rifarlo domattina lo rifarei senz’altro.

Su questo si è già espresso molto, ma se oggi incontrasse Adriano Sofri di persona in giro per Roma, che cosa gli direbbe?

Premetto che non credo che lui sia stato uno degli organizzatori dell’assassinio, perché lui in quel momento stava a Napoli. Beninteso, sapeva benissimo quel che i suoi “compagni” stavano architettando. E quando, la mattina del 17 maggio 1972, la notizia del riuscito agguato arrivò alla redazione romana del quotidiano a via Dandolo, è come se ce l’avessi innanzi agli occhi la discussione che ne seguì, se rivendicare le due pallottole alla testa e alla schiena del commissario trentatreenne o farne un elogio più soft. Prevalse la seconda ipotesi, e Sofri venne incaricato di scrivere quella porcata in prima pagina, che la classe operaia si sarebbe rallegrata di quelle due pallottole. Detto questo, reputo Sofri uno dei talenti intellettuali della mia generazione, assieme a Paolo Mieli, Ernesto Galli della Loggia e Massimo Cacciari. Questo giudizio l’ho scritto un anno fa sul Foglio, e all’indomani Sofri mi riempì di insulti tra i più beceri su quello stesso quotidiano. E dunque, se lo incontrassi domani, gli direi: “Mi ripeti gli insulti che mi hai rivolto un anno fa?”. Dopodiché, ove lui lo facesse, gli farei fare il giro di Piazza Navona a calci in culo.

Perché dopo tanti anni c’è ancora questo risentimento?

Lui mi vive male perché sa che, a differenza di altri, a me non la può raccontare. Lo so a puntino quel che eravamo e quel che erano loro. Da Lotta Continua venne Prima Linea, un’organizzazione criminale del terrorismo rosso non inferiore alle Br. Lui la racconta costantemente ai 25-30mila adoranti ex militanti di Lotta continua tuttora impegnati nel rammemorare quelli che ritengono essere stati gli anni memorabili della loro vita, A loro sì, a me no: perché c’ero.

Lo scrittore Erri De Luca era a capo del servizio d’ordine di Lotta Continua. Secondo lei come mai non ha ancora deciso di fare i nomi?

Eppure, De Luca è stato leale perché quando loro, a cominciare dal retore massimo Gad Lerner, dicevano “che cosa c’entriamo noi con l’assassinio di Calabresi”, lui ha invece dichiarato: “Chiunque di noi avrebbe voluto ammazzare Calabresi”.

Come ha ricordato, lei ha scritto per moltissime testate giornalistiche. Poi, però, ha rotto con tutti. Perché a un certo punto sbatte la porta?

Il giornalismo è un lavoro in cui è coinvolta la tua anima. Beninteso, può succedere di scrivere su un giornale di cui non condividi la linea: una cosa è quello che tu scrivi, un’altra quelli che ti scrivono accanto. Per dirne una, una quindicina di anni fa mi telefonò Vittorio Feltri per chiedermi di collaborare al suo Libero. Gli risposi che la mia posizione era diversa da quella del suo quotidiano. Al che lui mi disse: “Ma che c’entra, scriverai quello che vuoi, punto e basta”. E difatti collaborai a lungo a Libero, peraltro pagato benissimo. A un certo punto pensai che fosse impossibile continuare a scrivere su un giornale i cui lettori si aspettavano tutt’altro da quello che io pensavo e scrivevo.

Mi sembra una costante quella degli ottimi pagamenti…

Penso di valere molto nel mio campo, e quindi chiedo di essere pagato al meglio possibile. C’è qualcosa di strano? Detto questo, tutte le volte che mi sono congedato da un giornale ho rinunziato a un reddito certo senza avere un’alternativa e senza pensarci un attimo.

Per esempio?

Ho cominciato a fare il giornalista professionista a Paese Sera, che era un giornale comunista. Ma io comunista non lo sono mai stato un istante della mia vita, e questo rendeva le cose difficili. Io ero adibito alla curatela della terza pagina e un giorno arriva un pezzo del corrispondente del giornale di Parigi che aveva fatto un’intervista a François Mitterrand e voleva che venisse titolata più o meno così: “Mitterrand sì che è marxista a differenza di Craxi”.  Ora, di Mitterrand si può dire che sia stato di tutto, ma marxista non un solo giorno della sua vita. E dunque ho cominciato a gridare che non era possibile mettere un titolo così idiota oltre che falso, e questo finché il direttore, che era un mio amico, non mi ha chiesto di mettere quel titolo come un favore personale nei suoi confronti. Solo che la tensione tra lui e me continuava, e a un certo punto ci ho messo due minuti a scrivere la mia lettera di dimissioni dal giornale. Era il settembre del 1978, non ero più un ragazzo e non sapevo come avrei pagato le bollette di casa il mese venturo.

Poco dopo arriva la tv. Qui il rapporto è ben diverso rispetto ai giornali. Come mai?

Perché la tv non ti chiede l’anima, e forse è giusto così. All’inizio ho fatto delle cose fra le più belle della mia vita. Su Rai 2 in prima serata sono molto fiero del documentario Nero è bello: ecco, lì l’anima ce l’ho messa, eccome. È stata la prima volta che in tv i ragazzi appartenenti alla destra missina e rautiana venivano trattati in modo non offensivo, come tipi che avevano tre narici. Pino Rauti, prima che andasse in onda il documentario, mi fece mandare una lettera di diffida dall’avvocato. Ma, dopo che fu trasmesso, mi spedì una lettera personale dicendo: “La stimo, lei è un avversario, ma leale”. Tanto che sono rimasto amico della sua famiglia pur dopo la sua morte.

La critica, però, non le ha mai perdonato di partecipare a trasmissioni popolari, come il Maurizio Costanzo Show o Controcampo.

Le trasmissioni televisive che amo frequentare sono esattamente le trasmissioni popolari, quelle che dietro la telecamera hanno l’Italia reale e non quelle delle conventicole o dei clan. Le trasmissioni dove vai incontro all’attesa e al giudizio al minimo di 500-600mila persone, al massimo di 4-5 milioni di persone. Fa differenza rispetto ai libri del tenore saggistico che è il mio, libri che quando arrivi a venderne cinquemila copie è un gran risultato.

Cosa ha imparato nel frequentare così tanta televisione?

Mi sono divertito come raramente altre volte nel Controcampo condotto da Sandro Piccinini, la più bella trasmissione televisiva italiana mai dedicata al calcio. Il calcio è il più gran romanzo popolare italiano. “Ma volete paragonare il calcio al teatro?”, diceva Carmelo Bene, e voleva dire che il calcio è cento volte più teatrale dello stesso teatro. Quanto al Costanzo Show, ci sono stato in tutto novanta volte, e ogni volta era una gran commedia umana di volti e di personaggi, con Maurizio che bastava mi lanciasse un’occhiata e io capivo che quello era il momento di mettere becco. Tra parentesi, io non scrivo mai di tv perché non sarebbe elegante parlare di gente con cui ho lavorato, di quelli che sono stati i miei compagni sul palco televisivo.

Perché la criticavano, secondo lei?

Perlopiù chi scriveva di televisione lo faceva per insultarmi. Dapprima Beniamino Placido, che pure era stato un mio amico, e per tanti anni Aldo Grasso, lui non più adesso. Grasso non ho mai capito perché, dato che quello che lui scrive di tv e del mondo io lo condivido al 99%, tranne quell’un per cento residuo, essendo costituito dagli insulti che un tempo mi rivolgeva. Una spiegazione alla sua domanda però c’è….

Quale?

I rapporti correnti fra i giornalisti e gli intellettuali sono rapporti al confronto dei quali i cannibali sono dei vegani. Siccome conosco tutti per il diritto e per il rovescio, so bene quali miserie di invidia e di rivalità ci sono dietro certe apparenti schermaglie intellettuali. Roba talvolta da fogna. Se è per questo, io non scrivo mai un articolo contro qualcuno. Se un libro non mi piace non lo leggo, se un film non mi piace non lo vado a vedere, se una trasmissione televisiva non mi interessa non la guardo. Di tanti film italiani odierni ambientati in un condominio popolare non scriverei mai una riga, dei film di Clint Eastwood cento e cento volte.

Oggi d’altronde i giornali non pagano più come un tempo. Sarà per quello che il clima si è ancor più incattivito?

Un giorno mi chiamano da un quotidiano per dirmi che avevano piacere a che io collaborassi al loro giornale. Viene a casa mia il vicedirettore, al quale rispondo che mi farà molto piacere scrivere sul loro giornale, al quale avevo già collaborato in passato. Quanto alla retribuzione, gli faccio presente che c’è il precedente costituito da quella collaborazione, pagata 1000 euro a pezzo. Non s’è mai più fatto sentire. Con i budget dei giornali di oggi, era grasso che cola se mi avesse offerto 150 euro a pezzo. Mai più sentito, mai più una sua parola, mai più una sua spiegazione.

Ormai mancano anche le buone maniere?

Solo che le buone maniere sono l’essenza del vivere civile, altrimenti che cosa ti differenzia dai selvaggi? Dell’ideologia puoi fare a meno tranquillamente, delle buone maniere no. Un po’ come l’arte, che lei colleziona in ogni sua forma. Però recentemente ha venduto la sua amata collezione sui Futuristi, come mai?

È stato un lutto. Era trent’anni che li collezionavo e li leggevo, però il rapporto con quel mondo si era esaurito. I libri futuristi erano inerti sugli scaffali e mi sono detto: vendo la collezione e nel farlo gli do una nuova identità. Infatti gli amici della libreria Pontremoli hanno realizzato un catalogo che è uno dei più bei libri che portino la mia firma. Un volume palpitante di storia della cultura e dell’avanguardia italiana. I soldi che ho ricavato li ho usati quasi tutti in una nuova passione collezionistica, il libro d’artista. Detto questo, il lutto rimane.

Riesce a quantificare quanto ha speso per l’arte nella sua vita?

Ho speso tutto quello che ho guadagnato, tutto. Sul conto corrente in questo momento ho diecimila euro, ci sono momenti in cui ne ho tremila. Ho speso tutto per le mie varie collezioni. I libri rari del Novecento, le tavole originali degli illustratori a fumetti, i vinili del progressive-rock, i mobili del design italiano anni Cinquanta. Avendo lavorato molto ed essendo stato pagato molto bene il più delle volte, ho speso cifre importanti. Milioni e milioni di euro negli anni. Beninteso, dopo aver pagato al fisco ogni volta la metà del mio reddito imponibile, tanto che figuro come uno dei migliori centomila contribuenti italiani.

E quando lei non ci sarà più, che ne sarà di tutte queste collezioni?

Ho pregato Michela, che l’anno scorso è divenuta mia moglie, di vendere tutto ciò che mi appartiene nelle ventiquattr’ore successive alla mia dipartita. E con i soldi ricavati di farsi tanti di quei viaggi per il mondo che lei ama tanto.

Non aspira a lasciare in eredità un museo?

Ma che dice? I collezionisti ricchi lasciano di che fare delle Fondazioni, ma io non sono ricco nemmeno un po’. Detto questo, preferisco che i miei libri rari vadano a un privato che li ami quanto li ho amati io anziché andare a marcire nello scantinato di una qualche biblioteca pubblica. Quando ho venduto i miei libri futuristi, ho voluto che la libreria Pontremoli vendesse a quattromila euro e non uno di meno la mia copia con dedica de La cucina futurista di Marinetti e Fillia. Il pomeriggio che nella libreria Pontremoli venne presentato il catalogo della mia collezione, ho conosciuto il ragazzo che aveva comprato quel libro e non aveva affatto l’aria di essere un gran riccone. Ricordo disegnata sul suo volto la gioia dell’avere quel libro che probabilmente aveva acquisito non senza un qualche sacrificio. Ecco, spero che quella stessa gioia sia sul volto di tutti quelli che un giorno compreranno il ben di dio che io ho raccolto in tanti anni. E che sarà l’oggetto del mio prossimo libro che si intitola: Quel che resta di una vita.

Come mai ha deciso di sposarsi soltanto adesso?

Perché altrimenti Michela avrebbe dovuto pagare un fottio di tasse su tutto quello che è mio e che andrà a lei. Detto questo, il matrimonio non ha cambiato di una virgola il nostro rapporto, le nostre giornate. È solo una forma di tutela contro le angherie della burocrazia. Perché se sei moglie erediti e paghi poche tasse, se sei solo compagna invece no. A proposito di burocrazia le racconto un aneddoto…

Volentieri.

Quando dovevo sposarmi, ho chiesto un certificato di nascita al Comune della città dove sono nato, Catania. Solo che su questo certificato c’era scritto “Gianpiero” anziché il “Giampiero” che io sono. Perché correggessero la “n” in una “m” c’è voluto un anno intero. Delinquenti. Altro che i mafiosi, quelli almeno rischiano la vita per essere i delinquenti che sono.

Com’è stato il suo rapporto con le donne?

Altalenante, talvolta drammatico, in altre quanto di più sollecitante. È un discorso complicato. Ho imparato tanto dallo sport, tutto il resto dalle donne. Con un’ambivalenza costante fra inferno e paradiso. Con Michela, no. Inferno non ce n’è stato mai, o forse sì: una volta, e per colpa mia.

È fedele nei rapporti di coppia?

No, non è che in trent’anni io sia stato monogamo al cento per cento, se è questo cui lei allude. Sì, ci sono state altre avvisaglie femminili, tentatrici la loro parte. È umano che sia così.

Però lei è forse uno dei pochi intellettuali che candidamente ammettono di apprezzare e di usufruire della pornografia.

Vorrei ben vedere che a uno non piacesse fare scorrazzare la sua immaginazione erotica. Le ricordo che gli utenti della pornografia sono al 50 per cento uomini e al 50 per cento donne. Su questo terreno è bravissima Barbara Costa, una delle ragazze più intelligenti che abbia mai conosciuto, la quale ne scrive intelligentemente su Dagospia.

Fra non molto conosceremo anche il nuovo Premio Strega. Lei segue il dibattito che ogni volta si accende intorno a questa manifestazione?

Assolutamente no. I premi letterari, ma come si fa a parlarne? Come parlare del Nobel quando non è mai stato dato a Philip Roth. Come parlare del Goncourt che un certo anno non venne dato a Céline. Le persone serie non parlano di premi letterari e non li commentano. Beninteso, faccio i miei migliori auguri a quelli che li vincono. Quando ero giovane ho vinto parecchi premi, vuole sapere perché?

Sono curioso di saperlo…

C’è stato un momento in cui ero vicino intellettualmente al partito socialista craxiano. Partecipavo alla realizzazione di Mondo Operaio, la più bella rivista politica degli ultimi anni ’70 e dei primi ’80. Così, una volta mi hanno dato il premio Saint-Vincent per il giornalismo, ma solo perché in giuria c’era il socialista Vittorio Emiliani, che era amico mio. Un’altra volta ricevetti un premio letterario per Compagni addio, e questo perché lo sponsor era un socialista. Da allora, non ho mai più vinto un premio. E dire che, in fatto di libri, non c’è alcun dubbio che il mio ultimo, Nuovo dizionario sentimentale, sia uno dei più belli tra quelli scaturiti dalla mia generazione.

Qual è la classifica personale dei suoi libri migliori?

Nuovo dizionario sentimentale, l’ho detto. Poi A via della Mercede c’era un razzista. Lo strano caso di Telesio Interlandi, che ho ripubblicato tale e quale un paio d’anni fa. E ancora Che belle le ragazze di via Margutta del 2004, così come In una città atta agli eroi e ai suicidi: Trieste e il “caso Svevo” del 2011, ma anche La collezione, che ho pubblicato da Einaudi nel 2009 e che è stato il primo dei tre o quattro miei libri centrati sulla bibliofilia. Se è per questo, so anche qual è il più brutto dei 33 che ho pubblicato…

A questo punto ce lo potrebbe confessare.

Un romanzo scritto quando la Rizzoli mi aveva sollecitato a farlo. Ho scritto una gran cazzata. Non tutti i miei amici sono di questo parere, ma io sì. Ogni tanto mi è tornata la voglia di dimostrare che sarei in grado di scriverne uno migliore di quello, però non ne vale la pena. La mia vena è quella della saggistica narrativa, i libri in cui le idee e i fatti assumono la valenza di un romanzo pur essendo fatti assolutamente reali e accaduti esattamente in quel modo. Come avviene ad esempio nel capitolo del Nuovo dizionario sentimentale dedicato ai gruppi terroristi dalle cui imprese nacque lo Stato di Israele.

So che della politica non parla volentieri, o sbaglio?

Per carità… ma vuole chiedermi se preferirei andare a cena con Matteo Renzi o con Giuseppe Conte?

Glielo volevo appunto chiedere…

Con Matteo Renzi tutta la vita. A parlare, per esempio, di quel suo recente viaggio negli Emirati Arabi. Renzi rimane l’ultimo politico che cattura il mio interesse. Poco tempo fa sono stato al Costanzo Show e c’era “la ducetta”, Giorgia Meloni, e devo dire che è molto brava. È lontanissima da me, però se la cava bene. Sono molto interessato da chi è diverso da me, sennò morirei di noia.

Però Giuseppe Conte non l’ha incuriosita, a quanto pare.

Quando sono stato ospite un paio di settimane fa della tv del Fatto, ho constatato che lì sono ancora a lutto per la caduta politica di Conte. Marco Travaglio, che è un ragazzo intelligente, porta proprio il lutto al braccio. Mi aspettavo che si mettesse a piangere. Parla uno che sa cos’è il lutto, il lutto per la morte di Leonardo Sciascia o per i miei libri futuristi che non sono più a casa mia.

Giampiero Mughini crede in Dio?

No, assolutamente no. Sono stato a scuola dai preti e probabilmente questo ha influito ha influito negativamente. È una favola che non mi ha mai detto nulla. Purtroppo, polvere siamo e polvere ritorneremo.

E ci ha mai pensato a come vorrebbe morire?

Nel sonno, tranquillamente. Me ne vado e tolgo il disturbo. E, beninteso, Michela deve dare la notizia un mese dopo, altrimenti, e nella sciagurata ipotesi che lassù ci fosse il paradiso, mi troverei nella sconcertante situazione di leggere uno di quegli articoli in morte dei giornalisti che sono scritti tutti con lo stampino, tutti eguali, tutti animati da una falsa commozione.

Giampiero Mughini per Dagospia il 14 aprile 2021. Caro Dago, succede che un’università italiana mi chieda una piccola prestazione professionale. Al che io chiedo una piccola retribuzione, roba da colf pagata a ore. Nessun problema. Al che comincia il supplizio. Sotto forma di una quantità inverosimile di moduli che debbo riempire dove scrivere che sono italiano, che sono nato a Catania, che sono ancora in vita. Nessun problema. Ci metto lo stesso tempo che ci metterei a scrivere un gran bell’articolo ma lo faccio coscienziosamente. Al che mi arriva la richiesta di presentare un curriculum professionale e qui davvero mi incazzo, e rispondo che se è per questo possono stampare la voce che mi riguarda su Wikipedia, dov’è accuratissima la lista dei titoli corrispondenti ai 33 libri che ho scritto. C’è niente da fare, i miei rapporti con l’università in quanto istituzione sono stati e resteranno procellosi. Ho giurato che non ci avrei più messo piede il giorno della mia laurea (110 e lode) in Lingue e letterature moderne, specializzazione francese. Una laurea di cui sapevo che mi ci sarei pulito le scarpe (non ho mai avuto il diploma di laurea). Lo facevo per mio padre, che da ragazzo i soldi per studiare all’università non li aveva avuti e che viveva come una sorta di riscatto le lauree di mio fratello Lanfranco (un fuoriclasse in fatto di laurea e innumerevoli docenze), di mio fratello Beppe (una laurea brillantissima) e adesso la mia. Papà era venuto in aereo da Catania per assistere alla mia laurea alla Sapienza di Roma. E dunque quando, a pochi minuti dell’inizio della seduta, arrivò qualcuno che mi disse che ero richiesto in Amministrazione, mio padre impallidì. Temeva un intoppo. Mi precipitai in amministrazione dove trovai una signora seduta a un tavolo che aveva innanzi a sé un enorme registro e che, indicando la pagina sinistra del registro, mi disse testualmente: “Ma com’è che lei, iscritto alla facoltà di Legge di Catania vorrebbe laurearsi oggi in Lingue e letterature moderne all’Università di Roma?”. Per quanto rimanessi allibito, era tutto vero. C’era stato un tempo della mia vita in cui ero stato iscritto alla facoltà di Legge di Catania e c’era stato un tempo successivo in cui ero stato iscritto a Lingue e letterature moderne per poi trasferirmi all’Università di Roma. E del resto tutto questo era indicato correttissimamente nella pagina di destra del registro, e lo vidi subito e lo indicai all’idiota che mi stava seduta di fronte. Naturalmente non è vero nulla che uno vale uno, come sostenevano quelle nullità che rispondono al nome di 5Stelle. C’è chi non vale uno ma sottozero, come il caso di quell’impiegata dell’amministrazione universitaria della Sapienza, e c’è chi vale cento o mille come Giuseppe Prezzolini e Piero Gobetti. A parte questo episodio surreale, al liceo io non ho imparato nulla di nulla e all’università neppure un decimo di quello che so e di cui mi vanto. Al liceo l’unico professore per me importante fu il professor Montalto, il professore di ginnastica che mi insegnò i movimenti di base alle parallele, e il professor Librando, il professore di Storia dell’arte che dimenticava immancabilmente il registro a casa e che anziché fare lezione ci raccontava (benissimo) il film che aveva visto la sera prima e noi lo ascoltavamo in un religioso silenzio. All’università e, a parte le lezioni del grandissimo professore Giuseppe Giarrizzo (un fuoriclasse), la situazione delle facoltà umanistiche era cupa dal mio punto di vista prima che arrivasse il professore di Storia e letteratura italiana, il mio amico e maestro Carlo Muscetta. La Facoltà era dominata dal professore di Letteratura greca e noi, iscritti a Lingue e letterature moderne, avremmo dovuto fare non ricordo più quanti esami a studiare i verbi irregolari greci. L’esame di Letteratura italiana moderna ci era precluso, non rientrava nel progetto di laurea. Io lo feci, presi trenta e lode, e cominciai a gridare come un ossesso in amministrazione finché non me lo convalidarono. All’università non ho imparato nulla di ciò che mi preme, la storia e la cultura del Novecento, il design, l’arte moderna, le avanguardie, il cinema, l’erotismo, la fotografia. Nulla di nulla. Tutto questo l’ho imparato da solo, seduto al tavolo della mia scrivania e dopo aver destinato all’acquisto dei libri il 100 per cento della più che buona paghetta mensile che mi pagava papà. Altro che l’istituzione universitaria.

Luca Beatrice per Mowmag.com il 13 aprile 2021. Diversi anni fa, nel suo secondo libro dedicato alla Juventus, Giampiero Mughini parlò di me per un paio di pagine, usando un’espressione così bella che la rimando spesso a mente: “dove lo tocchi, suona”. Aggiungendo poi che le mie eventuali qualità intellettuali e le mie curiosità culturali si vanificano in un istante se si parla di calcio, dove divento tifoso accecato dall’ideologia e dalla partigianeria. Frequentassi più spesso Roma avrei maggiori occasioni per incontrarlo e visitare la sua splendida casa, tra Stazione Trastevere e Monteverde, da dove comincia questo dialogo che MOW mi ha commissionato per festeggiare il suo ottantesimo compleanno. 

Giampiero, cominciamo dal libro del 2014, Una casa romana racconta, in cui parli appunto della tua bellissima casa. Bene o male finisce per assomigliarci. Cominciamo da qui: in questi 14 mesi di isolamento è cambiato il rapporto con la tua casa?

In nulla, il mio isolamento non è stato maggiore rispetto agli altri mesi e anni della mia vita recente. Non vado da nessuna parte, non frequento nessun salotto, me ne sto appartato nella stanza dei libri e produco da qui quel poco di reddito che mi serve per pagare le tasse e bollette. Quelle volte che ci sono entrato ho percepito che ogni dettaglio fosse stato concepito come la parte di un autoritratto assai complesso. La casa è stata un luogo dell’anima e ciascun chiodo è stato piantato con l’intento di ripercorrere le tracce del Novecento. Le tracce disseminate hanno la forma di collezioni, anche se il termine, detto da un poveraccio che non è François Pinault, pare eccessivo. Con quel poco che mi resta compro le cose che mi piacciono, libri, fotografie, oggetti di design, vinili d’epoca. La casa non è un deposito, ma il luogo dove tutto ciò prende una forma e svela una vita.

Ovviamente restai impressionato dalla collezione del Futurismo che, nel frattempo, è stata alienata: perché? Ti sei allontanato da quella passione che hai alimentato nei decenni attraverso ricerche forsennate di prime edizioni e rarità?

Erano trent’anni che lo collezionavo, lo studiavo, però quell’avventura intellettuale si era consumata. Guardavo i libri sui ripiani della biblioteca e mi sembravano inerti. Tra trattenerli così e farne un bellissimo catalogo edito dalla libreria Pontremoli di Milano e con il ricavato della vendita avviare una nuova avventura collezionistica incentrata sul libro d’artista del secondo Novecento, ho preso questa seconda decisione. L’amputazione di queste ottocento voci è stato però il gran lutto della mia vita.

Un’altra considerevole parte è dedicata all’erotismo. È ancora lì? 

Ma certo, senza l’erotismo si può vivere? Senza l’immaginario che si deposita su un oggetto, sul lavoro, non dico su un’amicizia… è qualcosa che brucia dentro in senso positivo e la donna lo è per eccellenza. Come scrisse Leonardo Sciascia, quanto più l’erotismo si accende tanto più la donna reale è assente. Sono stato particolarmente sollecitato dall’immaginario erotico negli anni in cui vivevo da solo, dai trenta ai cinquanta, quando la femminilità per me era immaginata, sognata, il che rendeva straordinariamente improbabili i rapporti con le donne reali che non corrispondevano a quell’immaginario o se vi corrispondevano era proprio un disastro.

Hai comprato qualcosa di interessante recentemente?

Alcune tavole di Guido Crepax, che in Italia è il maggior cantore dell’erotismo, in particolare quella da cui origina la copertina del 33 giri di progressive rock  Nuda dei Garybaldi, uscito nel 1972, probabilmente la  più bella mai pubblicata su un vinile italiano. Ci tenevo tanto.

Da cacciatore di rarità tra antiquari e librerie, usi anche il web per i tuoi acquisti?

Ho imparato, in particolare per i libri. In effetti dovrei erigere un monumento a Jeff Bezos: per esempio ho cercato a lungo il catalogo di una mostra sui Lettristi francesi del 1988 e l’ho trovato in rete da un libraio tedesco.

Almeno due libri tuoi sono dedicati all’eros. L’omaggio a Brigitte Bardot e Sex Revolution. Ora, di questi tempi, non ce la passiamo troppo bene a tal proposito, dacché l’erotismo è costretto a passare attraverso l’ondata di neo-moralismo pericolosissimo. Che ne pensi?

Io però li disprezzo. C’è un limite a tutto. Non sono disposto neppure ad avviare un ragionamento. Non si può guardare un’immagine femminile e pensare sia un atto pruriginoso. Ti racconto questa storia: per strada accanto a casa c’erano lavori e il passaggio si restringeva giusto per far passare una sola persona. Nella direzione avversa alla mia veniva una giovane donna, mi sono fatto di lato e l’ho lasciata passare. Lei è divenuta rossa in viso e mi ha sorriso, ha capito che era un omaggio alla sua femminilità. Se finissero questi omaggi sarebbe la fine del mondo. Così come non permetto a una sola donna di parlare genericamente di uomini quando si parla di stupri e violenza. Ciascuno risponde di sé stesso, solo di sé stesso.

Hai più volte ribadito che BB è la donna più bella di tutti i tempi, ma ti sei espresso anche in favore di Kate Moss. Oggi, c’è un nuovo sex simbol, ovviamente femminile?

Belle donne tante, però con un potere magico come loro, no. Oggi è molto diverso perché tutto si consuma nello spazio di cinque minuti. Pensa alla politica, Matteo Renzi aveva il 40% dei consensi e dopo poco il 2%. Togliatti, Andreotti, De Gaulle, duravano ben di più.

Un dato biografico. Tuo padre era originario di Marradi. Ti è giunto lo spirito di Dino Campana, in qualche modo?

Lo spirito è dir poco. Mio padre abitava a ottanta metri dalla casa dei Campana che era importante, sul fiume e a metà strada c’era la tipografia che avrebbe dovuto stampare le mille copie dei Canti orfici, ma Campana non credo ne abbia pagate più di cinquecento. Mi chiamò uno studioso del poeta secondo il quale da una carta del Comune di Marradi sembrava che Campana avesse dettato i suoi Canti orfici a un certo Mughini che però faceva errori di battitura e lui s’incazzava. Papà nel 1914 avrebbe avuto quindici anni. È pensabile che fosse stato lui quel dattilografo? Sì, possibile, ma a casa sua non c’era l’edizione originale che invece ho comprato tanti anni dopo.

E la politica. Hai detto più volte che non voti da anni, forse da decenni… Però tutti sanno che sei stato tra i fondatori del Manifesto e direttore responsabile di Lotta Continua e che te ne sei andato dopo poco. Allergia da redazione o ci fu dell’altro? 

Politica?! Oh Dio mio, mi sto sentendo male. Chiamami un medico (ride). No, solo qualche volta non ho votato, recentemente pensando proprio a Renzi ho votato PD. In quanto a LC, non avevo rapporti particolari, mettevo la mia firma per far uscire il giornale in edicola come fecero anche Pasolini e Pannella. Nelle redazioni ho lavorato per trent’anni a tempo pieno a Paese Sera e divenni giornalista professionista, all’Europeo, a Panorama che all’epoca vendeva 600mila copie per diciotto anni, non proprio poco. Però è vero, non mi sono mai sentito un uomo di redazione. Giornalista è una qualifica che non sento, ho tratto il mio reddito dai giornali e di questo li ringrazio ma non più che questo, non ho il senso della notizia di giornata e non mi interessa.

Considerandoti tu un uomo del Novecento sono tentato di usare due categorie che oggi non esistono più: sinistra e destra. Ma fino a pochi anni fa c’erano eccome. E tu, che hai certamente una matrice culturale da progressista e radicale, sei stato tra i pochi a consumare un’eresia: scrivere per “Libero”, il quotidiano diretto da Vittorio Feltri. Altro che “compagni addio…”.

E ho fatto benissimo, intanto non è che ci fosse il Washington Post a cercarmi, ero rimasto senza lavoro nei giornali, mi ero dimesso da Panorama, Vittorio - che conoscevo da una vita - mi telefonò dicendomi che avrei potuto scrivere quel che volevo, in totale libertà e pagato benissimo. Oggi non sarebbe pensabile. Ti racconto l’ultima: mi ha chiamato il vicedirettore di un giornale, “avremmo piacere di una sua collaborazione”, avendo un precedente con la stessa testata gli comunico che il mio cachet era di 1.000 euro a pezzo. Non si è mai più fatto vivo, capisco che oggi quella cifra non la darebbero neppure a Borges, però almeno fatti vivo, dì che non interessa o ne te lo puoi permettere, tra uomini si fa così. Da 1.000 a 200 euro proprio no: se io non posso pagare cinque volte in meno quello che compro, perché allora il mio lavoro deve valere cinque volte meno? La produzione intellettuale non ha più valore… Mi chiamano a una trasmissione tv, “noi abbiamo previsto un cachet”, no guardi della cifra ne discute con me, perché uno non vale uno. Questa è una cosa di ferro… uno non vale uno.

Dagli anni ’80 si sviluppa e cresce il tuo rapporto con la tv. Anzi, si può dire che è stata la televisione a offrire inedita popolarità agli intellettuali “non organici” come te, Roberto D’Agostino e Vittorio Sgarbi, spesso parlando d’altro, di calcio, costume e politica. Un’onda lunga durata molto ma che oggi pare in via d’esaurimento perché la tv generalista sta scomparendo ed è assai meno influente sulla vita sociale rispetto all’affermazione di Mediaset. Oggi rispetto a ieri, che rapporto hai con la tv?

A certi livelli essere intellettuale è solo d’impaccio… Una volta ho citato Togliatti, gelo nello studio, la metà del pubblico non sapeva chi fosse e forse neppure il conduttore. Vanno bene le influencer che se non aprono bocca meglio è. In ogni caso dal lavoro in tv ho imparato rapidità, prontezza, sintesi. Se protrai un ragionamento oltre quaranta secondi il pubblico ti lascia e questa è una bella scuola, il batti e ribatti, il ping pong mi piace. Certo, la mia anima raramente è coinvolta ma ringrazio il cielo, senza la tv non avrei pagato bollette e tasse. Vado dove mi vogliono, sono come gli idraulici, quando mi chiamano vado a sturare i lavandini.

Altra nota biografica. Il documentario “Nero e bello” del 1980 dove indagavi l’ambiente della destra neofascista. Mi pare fosse stato Pino Rauti a parlare della teoria degli opposti estremismi, per chi viene dalla sinistra insomma non è poi così innaturale.

È uno dei lavori di cui vado più orgoglioso. L’espressione opposti estremismi sta in piedi, negli anni ‘70 si sono misurati due opposti fanatismi con morti innocenti da una parte e dall’altra. Poi non c’è discussione, fascismo e comunismo sono le due grandi tragedie del Novecento, nate l’una dall’altra, la rivoluzione d’ottobre del 1917 ha innescato la reazione che ha generato nazismo e fascismo. Poi che tutti i nostri amici fossero di sinistra e non di destra non cambia molto. Anche se a ben vedere qualcuno dei migliori, come Stenio Solinas, stava con Rauti e Paolo Isotta, un’intelligenza elettrica, veniva da destra. Divisioni che oggi non hanno nessun senso, viviamo un presente di cui nessuno sa nulla, nessuno sa come verranno pagate le pensioni in Italia tra dieci anni, tanto per dire una cosa banale. Tornando a “Nero è Bello”, orgoglioso perché su Rai2 in prima serata nel 1980 era la prima volta che qualcuno da sinistra parlava dei ragazzi della destra come se avessero due narici e non tre. Da nero è bello a bianconero è bello. Ai farisei non riusciremo mai a far capire che tifare Juventus è una grazia dal cielo che ci ha evitato periodi della vita tristi e infelici, ma sempre carichi di successi con gli occhi colmi di bellezza. A dieci anni vivevo a Catania e tra i pochi giocattoli avevo le figurine dei calciatori. Due mi piacquero enormemente, Giampiero Boniperti perché si chiamava come me, ed Ermes Muccinelli, l’ala destra, piccolo e nervoso com’ero in quegli anni, e allora ho preso la decisione di tifare Juve ed è stata la più importante della mia vita per due ragioni, perché mi ha dato grandi gioie e molto reddito, la Juventus ha mercato molto più che l’Atalanta, per dire di un’ottima squadra. Sì, una grazia dal cielo.

Una volta mi dicesti che Michel Platini fosse stato il più forte di tutti i tempi, la sintesi cartesiana dell’esprit de finesse e dell’esprit de geometrie. È ancora lui, oppure CR7…

Se tu in questo momento sulla bilancia mi offri Platini, cinque anni alla Juve e tre volte capocannoniere, e il Cristiano Ronaldo di oggi, prendo Platini perché lui era giocatore per la squadra mentre Cristiano di sé stesso, formidabile nella giocata individuale, la penetrazione, il tiro. Platini riceveva il pallone spalle alla porta e lanciava Boniek a 40 metri.

Dopo nove scudetti di fila, quest’anno dovremmo accontentarci. Pazienza. Meno pazienza, da 25 anni, un quarto di secolo, non vinciamo niente in Europa. Perché proprio non ce la facciamo, oltre confine?

Perché gli altri sono più forti. La Champions l’abbiamo vinta un paio di volte, una caterva di finali perse, alcune per sfortuna. Ora ci fermiamo agli ottavi. Il calcio italiano questo è, non possiamo far finta che non sia così. Se vai a vedere la Juve che innervava nel '78 la Nazionale: c’erano Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Causio, Bettega e Paolo Rossi che giocava ancora nel Vicenza e juventino lo diventerà nel 1982. C’è bisogno ripeta questi nomi a lungo… dai..

Per quanto… Chiellini, Bonucci…

Due. E poi nel calcio il caso gioca un ruolo notevole. Nel tennis non è così, sì ci può essere una palla che schizza sulla linea, ma una.

Ho letto che ti piace Jannik Sinner.

Un gran bel giocatore ma non mi trafigge l’anima. Un giocatore di forza, violenza, continuità agonistica, ma se mi metti sulla bilancia di prima Nicola Pietrangeli, non ci può essere gara. Detto questo iddio ce l’ha dato guai a chi ce lo tocca, purché si sappia che è tedesco, non parla quasi l’italiano e scrive su twitter in inglese.

Che pensi di Andrea Pirlo allenatore? Pensi ritornerà Max Allegri?

Lo lascerei lavorare tranquillo, Andrea è intelligente, può solo migliorare e poi non si cambia allenatore ogni stagione. I miei amici dicono che dovremmo andare in ginocchio da Max Allegri e io non ho nulla contro questo punto di vista.

È uscito da poco il Nuovo dizionario sentimentale, quasi trent’anni dopo il primo pubblicato nel 1992. Perché riscriverlo? Cosa c’è di nuovo? 

Il titolo era azzeccato già allora perché voleva sottolineare che le cose decisive nella vita sono i sentimenti, non le ideologie, amicizia, lealtà, amore, fedeltà alla parola data. Qui ci trovi la Parigi delle librerie tanto amate, Israele che si batte per diventare una nazione, il ricordo di mia madre, i miei adorati cani.

I ritratti di Marco Pannella e Clint Eastwood. Ultimi eroi di un tempo che non c’è quasi più?

Il politico più rilevante e l’uomo che mi commuove solo a vederlo, che non ha bisogno di aggiungere nulla perché c’è in lui tutto ciò che apprezzo della vita, il coraggio, l’affrontare viso aperto gli avversari, non mentire. Altro che Mao Tze Tung.

E per (quasi) finire. Ti trovo un uomo elegantissimo. La scelta di abiti e accessori mi risulta una vera e propria ricerca di cui vorrei conoscere principi, passioni e idiosincrasie.

Amo la scuola giapponese, a cominciare da Yoshi Yamamoto, che ha rotto certe convenzioni dalla giacca diversa da come la portano i politici italiani, morbida, ti sta addosso, non ti impaccia, che dice qualcosa ma non più del necessario, non posso pensare che i politici siano tutti vestiti allo stesso modo. Basterebbe questo per dire cos’è la politica. Ciascuno deve raccontare una storia e loro no, indossano una divisa.

Tu, Giampiero, nel vestire e negli accessori, racconti tante storie, a cominciare dal colore.

Spero, ma non tutti sono intelligenti come te e lo capiscono. Il colore è nella storia della cultura italiana, pensa a Memphis, a Ettore Sottssass.

Ti sei sposato lo scorso 11 settembre con Michela Pandolfi. State insieme da una vita. Non ti chiedo le ragioni di una scelta così “meditata”…

Dopo trent’anni, passiamo tutta la giornata insieme, quando io schiatterò lei dovrà pagare un fottio di tasse. Però matrimonio è un termine che mi sta… pesante.

Il 16 aprile come festeggerai il tuo ottantesimo compleanno?  

In nessun modo. Massimo due amici a cena. Non vado mai in luoghi dove ci siano più di sei persone, eccezion fatta per il salotto di Roberto D’Agostino. Dago è un fratello, le regole con lui non valgono, ma è l’unico caso.

Concetto Vecchio per “la Repubblica” l'11 aprile 2021.

Giampiero Mughini, i suoi si lasciarono quando lei aveva sette anni. Come visse la separazione nella Catania del 1948?

«Come un marchio. A scuola ero l' unico figlio di separati. Andai a vivere con la mamma dai nonni».

Perché si divisero?

«Mio padre era di una durezza spaventosa, tra lui e mamma c'erano vent' anni di differenza. Ma più di così non saprei entrare nel dettaglio. Si sono separati male».

Che ricordo le è rimasto?

«Mia madre dopo un po' cominciò a frequentare un altro uomo, "lo zio Aurelio". Anche lui era separato dalla moglie. Un giorno eravamo al cinema, io, la mamma e la nonna.

Non appena si spensero le luci, si avvicinò a noi una donna, che nel buio della sala cominciò a insultare mia madre: era la moglie dello zio Aurelio. "Usciamo", disse mamma, senza ribattere alla signora. Sgattaiolammo in silenzio, persi il film. Questa era l' Italia di allora».

Che rapporto aveva con suo padre?

«Lo vedevo ogni quindici giorni, in tutta la vita non mi ha rivolto più di trenta parole: ma sono state quelle decisive. Insieme a Clint Eastwood ha rappresentato il modello di uomo per me».

Che famiglia era la sua?

«Borghesia impoverita, che è peggio di essere proletari. I soldi per i quaderni me li dava mio padre, il ragionier Mughini: a Catania lo conoscevano tutti, perché era il commercialista più bravo della città. Quando morì, nel 1973, sul quotidiano La Sicilia venne salutato con un'intera pagina di necrologi».

Suo padre che idee politiche aveva?

«Era stato fascista, mentre io ero un ragazzo che faceva la contestazione. Una volta scrissi un pezzo in cui mi scagliai contro le squadracce fasciste. "Lo sai che ne facevo parte?" disse. Non era vero. Non aggiunse mai altro sul mio essere di sinistra».

Nel 1987 ha scritto "Compagni addio", un libro con cui ha divorziato dalla sinistra.

«Mi sono dimesso dall'estremismo di sinistra. Non ne potevo più dei partitini di Mario Capanna, di Lotta Continua implicata nel delitto Calabresi, di Luciano Lama cacciato dall'Università. Volevo chiudere con un mondo che giustificava i terroristi come compagni che sbagliano».

Non ha salvato proprio nulla, però.

«Non è vero. Mi avvicinai ai socialisti che erano usciti dal Pci dopo i fatti d'Ungheria, nel 1956. Stimavo Antonio Giolitti, Luciano Cafagna, Giorgio Ruffolo, Giuliano Amato. E Bettino Craxi».

Divenne socialista?

«Sì, anche se non ho mai avuto tessere di partito. Sono stato anticomunista, ma ho frequentato molti personaggi del comunismo italiano, da Piero Ingrao a Giorgio Amendola, da Alfredo Reichlin a Paolo Bufalini. Quando entravo nella stanza di Bruno Trentin alla Cgil mi sembrava di mettere piede in un tempio, tale era il suo carisma. Sono stato amico di Emanuele Macaluso, una figura leggendaria. Erano uomini di una statura incomparabile se confrontata con i politici di oggi».

Molti a sinistra non le hanno mai perdonato il Bar sport in tv, da ultrà della Juventus.

«Non mi hanno m ai perdonato i miei guadagni in tv, è diverso».

Non l'accusavano di fare il guitto?

«Invece ero me stesso. Facevo Mughini. Ho avuto successo. Mentre loro perdevano tempo a criticarmi, io scrivevo un libro all'anno. Ne ho pubblicati 33. La verità è che il mondo degli intellettuali e dei giornalisti è pieno di invidie, i cannibali al confronto sono dei vegani».

È diventato ricco con la tv?

«Non mi lamento. Nell'ultimo anno, a Controcampo mi davano sei milioni di lire a puntata, anche se metà se ne andavano in tasse. Mi sono sempre fatto trattare bene. Aldo Biscardi al Processo del lunedì mi offriva 500mila lire per sedere accanto a Gianni Brera, quando mi chiamò Maurizio Mosca chiesi il quadruplo. Indro Montanelli mi propose 250 mila lire a pezzo per la rubrica L'invitato sul Giornale . "Facciamo 300mila lire", replicai. Ovviamente li ebbi».

Oggi per chi vota?

«Pd. Vorrei votare per Renzi, che è l'unico fuoriclasse sulla scena del centrosinistra, il suo partito però è inesistente».

Cosa pensa di Enrico Letta?

«Non capisco come si possa dire che servono due donne capigruppo. La Thatcher è diventata tale perché era la più brava di tutti. E lo stesso Nilde Iotti, Emma Bonino, Hillary Clinton. Credo che Elsa Morante e Marguerite Yourcenar si sarebbero sentite offese di fronte a un discorso di quote».

Non esiste una questione femminile?

«Nel lavoro non ho mai distinto tra un uomo e una donna, ho avuto spesso donne come superiori. Quando mi dimisi dal Centro universitario cinematografico, che a Catania editava Giovane critica, indicai una donna al mio posto: la professoressa Silvana Cirrone».

Come valuta i primi passi di Draghi?

«È uno che può dire che Erdogan è un dittatore senza prendere pernacchie. Ho sempre reputato Conte un avvocaticchio che se la cava, ma la cui autorità è zero».

Conte non ha il merito del Recovery?

«Quei soldi li avrebbero dati anche a me e a lei».

Che Paese è oggi l'Italia?

«Rovinato dalla frattura provocata da Tangentopoli. Ha distrutto le storie politiche che avevano innervato i partiti a cui dobbiamo la ricostruzione del Paese, la Dc, il Pci, il Psi: un periodo strepitoso».

Non ci siamo più ripresi?

«Dopo sono arrivate figure modeste, è rimasta la protesta di Bossi e Grillo. Non capisco come il 32 per cento abbia potuto votare per i Cinquestelle. Se uno vede Di Battista e Di Maio capisce che è gente che non ha una storia. L'80 per cento dei neoeletti grillini nel 2013 non aveva mai compilato una dichiarazione di redditi».

A 80 anni cosa ha capito degli italiani?

«Siamo il popolo che osannava Mussolini e che il 26 luglio si scoprì antifascista».

Ha sempre guardato con curiosità alla destra. È un debito verso suo padre?

«Per nulla. È una cultura con cui fare i conti, la destra ha contato qualcosa, basti vedere Céline, Pound, Jünger».

Che ricordi conserva di Lotta Continua?

«Per tre anni sono stato il loro direttore responsabile, mi prestai perché volevo che andassero in edicola: prima di me lo fecero Marco Pannella e Pier Paolo Pasolini. Presi tre condanne».

Pensa che i dirigenti di Lotta continua abbiano stretto un patto di omertà sull'omicidio Calabresi?

«D'acciaio. E lo hanno fatto per proteggere le loro carriere. Ma a me non la raccontano. Li conosco uno per uno. E ho letto tre volte le 600 pagine della sentenza di primo grado: Marino è credibile. Tutto questo non mi fa velo nel riconoscere il grande talento intellettuale di Adriano Sofri».

È rimasto amico di Nanni Moretti?

«Ho recitato in due suoi film. Lo stimo come regista, meno quando dice banalità politiche. Ci furono delle incomprensioni tra noi.Lo incrociai anni fa e gli proposi di mettere da parte ogni rancore. Lo invitai a cena. "Va bene" disse. Mai più sentito».

Quanti libri possiede?

«Circa 25mila».

Cosa ha cercato nei libri?

«Il giro del mondo. Da ragazzo era un modo per fuggire dal piccolo cortile di Catania».

La follia più grande fatta per un libro?

«Ho pagato 55milioni di lire le due litolatte dei futuristi».

Cinquantacinque milioni?

«Pagai con degli assegni postdatati».

Come mai non sta su Twitter?

«Perché io mi faccio retribuire per le mie opinioni espresse in pubblico».

Scrive spesso del suo rapporto con le donne.

«È stato complicato. Ho avuto un paio di volte dei no che sembravano dei ni, e alla fine ho capito che il ni è un no più sofisticato e diabolico» ( Ride ).

Cosa ne ha dedotto?

«Che la donna lo fa per vanità, per un briciolo di indecisione, e perché non vuole precludersi ogni possibilità. Giusto così. È parte del fascino femminile».

Ha sofferto molto per amore?

«La mia parte l'ho fatta. Sennò che uomo sei?».

Come mai si è sposato soltanto a 79 anni?

«Con Michela stiamo insieme da trent' anni, "metti che schiatto" le ho detto un giorno».

Le dispiace di non avere avuto figli?

«No, perché sono sempre stato troppo preso da me. Non sarei stato un buon padre».

Miti, illusioni, desideri del disincantato Mughini intellettuale inattuale. Ricordi privati e memorie collettive del '900 nel racconto di un protagonista. Tra arti e idee. Stenio Solinas - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. L'idea che alla metà degli anni '60, il ventiquattrenne Giampiero Mughini ritenesse indegno appassionarsi al gioco del calcio è una di quelle curiosità di cui è pieno il suo Nuovo dizionario sentimentale (Marsilio, pagg. 282, euro 18) e che mi strappano un sorriso divertito, se si pensa quanto e come il football gli abbia poi condizionato la vita. Mughini ha scritto una ventina di libri, tutti ben rifiniti e pieni di idee, tutti con un buon successo di vendita, ma ogni volta che prende un taxi o va a bersi un caffè non c'è taxista o barista che non gli chieda del calcio mercato o dell'ultima partita della Juventus, la sua squadra del cuore. È indubbio che in Italia ci siano più baristi e più taxisti che lettori, ma mi ricordo che una volta a Perugia, dove eravamo in tandem a parlare di non so più cosa, ma di certo roba pesante e probabilmente noiosa ai più, al termine della serata spuntò finalmente un lettore e, mentre si faceva autografare la sua copia, ne approfittò per chiedergli di Platini. «Di calcio parlo solo in televisione e solo a pagamento» gli rispose bruscamente, ma sorridendo. «È la legge del contrappasso» gli dissi poi. «Sei il solito coglione» fu la replica. Avevamo entrambi ragione. In quella metà degli anni '60, il giovane Mughini non era comunque il solo a pensarla così. Il calcio era uno sport popolare, ma tranne le doverose eccezioni che confermano la regola, all'intellighentia di sinistra, l'unica deputata a ritenersi intelligente, il calcio puzzava di oppio dei popoli e, naturalmente, di fascismo. La parola patria aveva ceduto il posto al più anodino Paese e qualche frammento di «nazione» sopravviveva nelle sostantivazioni brachilogiche del linguaggio sportivo, «la nazionale di calcio», «la nazionale di nuoto», e lì sorvegliata con occhio censorio anche da intellettuali intelligenti e fuori dagli schemi come Ennio Flaiano, il cui lungo sonno durante il fascismo gli aveva lasciato incubi antifascisti. In un film di Marco Tullio Giordana, La meglio gioventù, uno dei protagonisti, perfetto esempio del di lì a poco sessantottino contestatore, applaude con gioia al coreano Pak-do-Ik che elimina l'Italia dai mondiali del 1966. Oltre a disdegnare il calcio, in quel 1965 Mughini era già il fondatore e direttore di una rivista che si chiamava Giovane critica, allora molto considerata, ed era, insomma, al suo meglio, un concentrato della «passione determinante in quegli anni, la passione per le idee del dibattito politico e culturale». Un'altra curiosità che spunta dal Nuovo dizionario sentimentale conferma questo «ritratto di un intellettuale di sinistra da giovane» ed è il non aver letto, da ragazzo, I tre moschettieri di Dumas, che per me ragazzo non è stato un romanzo, ma un'estetica della vita: la fedeltà alle amicizie e non alle idee, o, peggio, alle ideologie, il mantenere sempre la parola data, il gusto di fare banda a parte, la sprezzatura del comportamento Sottolineo tutto questo perché rende ancora più chiaro l'incredibile salto mortale (del resto da giovane Mughini è stato un buon ginnasta) di cui successivamente sarebbe stato capace nel rimettere in ordine criticamente le sue idee, il suo mondo, le sue chiavi di lettura del mondo «altro», in breve lo sterminato e spesso sconsiderato continente della sua generazione. Da questi salti mortali, quando riescono, si esce in piedi, si esce vittoriosi, ma si esce soli. E così è stato. Per evitare a questo punto il rischio della retorica, non mi resta che ricorrere all'ironia bonaria del fascista Longanesi nei confronti del Giovanni Ansaldo un tempo oppositore di Mussolini: «Badi che lei si è salvato per un miracolo, all'ultimo momento, dall'essere il solito antifascista fesso! Da giovane aveva preso una brutta strada». Nuovo dizionario sentimentale fa il verso nel titolo al Dizionario sentimentale che Mughini scrisse ormai trent'anni fa e che, fossimo la Marsilio, ripubblicheremmo pari pari, magari cambiandogli nome, che so, Alfabeto del Novecento, tanto ancora oggi è pieno di vita Questo appena uscito si differenzia completamente nella sua struttura, perché allinea due lunghi saggi, uno sui moti parigini del febbraio 1934, il cosiddetto «68» della destra d'allora; l'altro sulla nascita dello Stato di Israele, un concentrato di terrorismo e di violenza non indifferenti. C'è inoltre un bel profilo di Clint Eastwood, una lunga intervista con Leonardo Sciascia, le ultime ore di Marco Pannella, un capitolo doloroso dedicato alla figura materna, un capitolo allegro dedicato ai cani di casa, due setter, i cui nomi, Clint e Bibi, rimandano a due miti, non solo cinematografici, mughiniani: Eastwood e Brigitte Bardot. Ci sono poi altre cose, che lascerò al lettore il piacere di scoprire, perché poi una recensione non è la lista della spesa, ma quel che viene fuori dall'insieme è un sentimento particolare, che non saprei ben definire, che non ha a che fare con la nostalgia o con il rimpianto, ma con l'inattuale, una specie di disagio rispetto al mondo che gli è toccato in sorte. Non che Mughini sia un antimoderno, tutt'altro, figlio esemplare semmai del modernismo novecentesco e post novecentesco, dal design alle serie tv satellitari alla moda, ma prendiamo questa sua annotazione, a chiusura di quel lungo saggio sulla destra francese prima citato: «Sensuali dell'attualità, uomini dalle cento revisioni e sempre disposti a giocare tutto se stessi, gli uomini dei trenta sono forse i fratelli maggiori della generazione europea dei sessanta, impegnata anch'essa nella revisione dei teoremi precedenti e nell'esplorazione di territori inusitati. Solo che sulla nostra scena intellettuale c'erano soltanto i metalmeccanici di Mirafiori e l'ospedale psichiatrico di Gorizia, Oreste Scalzone e Renato Curcio, qualche trockista di mezza età e qualche abatino ebbro della Rivoluzione culturale cinese. Nella scena intellettuale della generazione dei trenta ci fu l'agonia e la morte di una certa Europa». Infine, si colga questo passaggio al volo: «Se per caso qualcuno mi invita a cena e lì c'è gente che non conosco, per tutta la sera parlano di se stessi. Non esiste più nessuno che mostri curiosità per gli altri, voglia di ascoltarli, magari di imparare qualcosa. Dicessi che ho un tumore e che fra tre ore sarò morto, passerebbero immediatamente all'argomento successivo». Inattuale, sì. E come dagli torto?

Giampiero Mughini per Dagospia il 2 febbraio 2021. Caro Dago, come tu ben sai io non ho alcun account che sia uno dell’intero universo digitale. Succede che qualcuno mi scriva, mi mandi un messaggio, mi chieda un’informazione. In questi casi e sempre rispondo a spron battuto. Mi ha appena mandato una mail un amico, lieto di aver trovato un vecchio e grande libro, il “Togliatti 1937” di Renato Mieli, il padre di Paolino. Era un libro che metteva Togliatti spalle al muro quanto alle sue responsabilità morali e politiche nell’avere accettato la barbarie staliniana nei confronti degli stessi dirigenti di Partiti comunisti europei, uno su tutti il Partito comunista polacco, che venne annientato. Né Togliatti né nessun altro leader comunista hanno mai saputo replicare con una sola riga a quel libro invincibile. Tutto questo l’ho scritto all’amico, due minuti dopo aver ricevuto la sua mail. Sono invece bersagliato da amici (ma anche da gente che non conosco) che dispongono di una mailing list dove c’è il mio nome. Sono subissato da messaggi in cui loro promuovono sé stessi e il loro lavoro, copertine di libri, articoli che li incensano, appuntamenti oratori, suntini di cose che loro hanno scritto o hanno fatto o faranno. Vanterie su vanterie su vanterie. Una di cui sta per debuttare una sua trasmissione televisiva mi tempesta quotidianamente di messaggi dov’è scritto che mancano 15 giorni, 14 giorni, 13 giorni, 12 giorni al lietissimo evento. Avessi avuto voglia di vederla quella trasmissione, mi sarebbe già passata. Una volta che questi stessi promotori di sé stessi 24 ore su 24 mi mandino un segno di attenzione umano e professionale? Nel 99 per cento dei casi mai, mai, mai. Che faccio, mi cancello da queste mailing list? Mi sembrerebbe un gesto sgarbato, un gesto aggressivo, ciò che non è minimamente nelle mie intenzioni. Vorrei soltanto che fosse un po’ più diffuso il gusto del silenzio, l’eleganza del fare un passo indietro piuttosto che un passo avanti, l’accuratezza di gestire un rapporto personale al modo di uno scambio in cui si dà qualcosa e si riceve qualcosa. Uno scambio. Il nostro è divenuto un mondo in cui queste qualità sono divenute rarissime o forse inesistenti. Da inorridire. Ps Lo sai che per nessuna ragione al mondo io tormento qualcuno con la promozione delle cosine che faccio di tanto in tanto. Nemmeno con te, me ne darai atto, e seppure ti giudichi un fratello.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 12 febbraio 2021. Solo tre Olivetti e poi la tastiera dei computer, «una meraviglia» che non arriva a scrivere da sé buoni articoli e bei libri, ma «ne averi scritto certamente di meno e probabilmente di più brutti». E dunque "Macchine da scrivere come me" avrebbe potuto chiamarsi, alla maniera di Curzio Malaparte, la prima voce del Nuovo dizionario sentimentale di Giampiero Mughini. Non lo strumento «nudo e crudo», ma la tastiera-autoritratto: dalle due dita che a 14 anni componevano veloci e «senza neppure un errore di battitura» alle sei dita che oggi «non beccano più il tasto giusto, maledizione». Errori di vecchiaia subito corretti, precisa Mughini, che ha scritto i suoi «ventiquattro o venticinque libri» direttamente in bella copia, e vuol dire che non c' è traccia di pentimenti e di varianti: non crescono pidocchi su questi leoni. Né le lacrime sporcano più gli inchiostri, benché non siano asciutte le minchionerie del cuore: per l' amore che B. finalmente gli nega al telefono, per l' aborto di una bionda in casa di una mammana catanese, per la mamma che muore in una casa di riposo: «Madre, madre mia, che avrei dovuto fare per te, che avrei potuto fare per te che non parlavi più?». E cambiano per addizione e mai per sottrazione i libri letti e riletti, e mutano i colori prediletti, che una volta erano il bianco e il nero e oggi sono le infinite sfumature. E dunque "libreria come me", a partire da quella che a Catania si chiamava la Cultura, raccontata da Giampiero come una vicenda alla Amici miei, ma con Lenin e Stalin al posto della Supercazzola. E poi "Parigi come me": il maggio del 1968 e il febbraio del 1934, quello radioso dei ragazzi di destra con i bastoni da passeggio e da combattimento a Place de la Concorde per il memorabile (ma chi ne ha memoria?) affare Stavisky. Sono pagine di storia, con una straordinaria bibliografia ragionata, che Mughini racconta meglio di Hobsbawm, perché contaminano l' Identità Politica, la quale, si sa, è la disciplina che più ha studiato. E forse è anche la sua ossessione, nevrosi da mancanza di risarcimento, visto che lasciò, prima di tutti gli altri, l' ideologia dove aveva militato - "Compagni addio" - senza mai precipitare nell' altra e diventare di destra, dove i vecchi compagni cercano ancora di cacciarlo. Non c' è solo commedia umana nelle somiglianze e nei rovesciamenti. Perciò appassiona la voce sulla nascita dello Stato di Israele, quando i terroristi erano loro: "Terrorista come me". E c' è via Rasella che, oggi più che nel 1944, disorienta la sinistra perché la storia non si può guardarla in faccia mentre avviene e ti ruba le azioni. Nei risarcimenti mancati ci stava già il mondo radicale. E qui c' è il racconto dell' ultima visita in casa di Marco - "Pannella come me" - che lo accoglie gelido benché, qualche anno prima, gli avesse inutilmente offerto la candidatura: «Non dire mai». È un gioiello letterario l' omaggio a Sergio Tofano, ed è antropologico quello a Clint Eastwood, che è «la summa dell' essere maschio» come Brigitte Bardot è «la summa dell' essere femmina », generi che, anch' essi, si contaminano e certo a Mughini piacerebbe la riposta che diede Montale quando fu interrogato sulla femminilità: «Non so cos' è, è una qualità che hanno alcuni uomini». Bibi e Clint sono i nomi dei due cani che sono stati i figli che Mughini e Michela, la sola a cui si è dato prigioniero, non hanno voluto. Mughini prende forma da questa antologia solo quando la chiudi e te ne allontani come dai quadri divisionisti di Giuseppe Segantini o del suo amato Boccioni, ma prefuturista, puntini colorati che solo da lontano diventano figura, con tutti quei popolarissimi tic letterari: gli occhiali di Mughini come il berretto di Saba, i maglioni colorati come il "fifi" di Bruno Zevi, le giacche come la pipa di Simenon. Mughini in tv è carattere, un vulcano sempre attivo. Ma la scrittura, mai eccentrica né barocca, esce indenne e persino rafforzata dalla popolarità e dal calcio, dai «perbacco» che in tanti anni non lo hanno mai reso volgare. E Mughini spiazza la critica televisiva, che dalle riflessioni di Eco, dalla ritrattistica di Saviane e dall' ironia di Placido ha fatto solo passi indietro: Mughini è la negazione del personaggio televisivo che loro hanno raccontato come campione della gente comune. Al contrario Mughini in tv è come un marinaio a cavallo o un cavaliere in barca e sarebbe piaciuto a Gadda quel suo tirare fuori, e in maniera appropriata, Heidegger o Jünger per sedare una rissa sconclusionata a proposito di un gol di testa michelangiolesco. C' è, bellissimo, "ladro come me", il primo furto, che non si scorda mai, nella libreria di Maspero, un bel tipo al quale, incontrandolo anni dopo, Mughini non ebbe l' animo di confessare il delitto: «Ancora me ne vergogno ». Eppure, chissà, forse Maspero gli avrebbe risposto che un libro trafugato dagli scaffali suscita nuove curiosità e nuove letture invece che nuovi furti e nuovi crimini. Mughini per esempio rubò pure Le Mouvement communiste en France di Trotzkij che lo aiutò poi a comprare l' Hommage à Natalia Sedova-Trotsky. Ci sono un furto e una tastiera (magica) all' origine del Trotzkij che qui Mughini ci racconta con la forza e la grazia di Fenoglio: "Trotzkij come me". Il libro Nuovo dizionario sentimentale di Giampiero Mughini (Marsilio, pagg.288, euro 18)

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 2 febbraio 2021.

Giampiero, dopo la pubblicazione di Memorie di un rinnegato, dicesti che, probabilmente, era il tuo ultimo libro. A distanza di quasi due anni, cosa ti ha fatto cambiare idea?

«Era la preoccupazione che potesse essere il mio ultimo libro, nel senso che ho un’età in cui ho percorso molti sentieri attraverso oltre trenta libri. E dopo “Memorie di un rinnegato” mi sono invece detto che avrei potuto bissare un libro che avevo scritto più di trent’anni fa, “Il Dizionario sentimentale”, quando avevo circa cinquant’anni. Era un libro fatto di spezzoni, di tante voci, rapsodico, e a me piace molto la rapsodia. Mi piace mettere assieme cose le più diverse, a creare un’identità, un’identità soprattutto sentimentale, perché io non credo ad un’altra identità possibile, e non certo ideologica. Ed è venuto fuori questo libro un po’ sofferto per via del Covid, perché la prima pubblicazione era prevista circa sei mesi fa».

Sì, ma qual è stata la molla che ti spinto a scrivere questo nuovo Dizionario sentimentale?

«Semplice: l’amore per la scrittura, perché non so fare altro».

Nel libro parli di delusioni e sconfitte. Qual è stata la sconfitta, tra le tante che hai avute, che non riesci a dimenticare?

«È stata una sconfitta nei giornali in cui ho lavorato e da cui più volte mi sono dimesso; è stata una sconfitta i compagni della mia generazione che mi hanno tolto il saluto; è stata una sconfitta il rapporto con la mia città d’origine – Catania – da cui sono fuggito; è stata senza dubbio una sconfitta il declino della civiltà della carta da cui ero nutrito – i giornali e i libri – una civiltà distrutta e soppiantata dai clic e dalla loro filosofia. Questa è stata la sconfitta decisiva, aggravata, nel caso mio, dal fatto che io non uso alcun account digitale; e oggi, non stare su un account, significa essere esclusi dalla civiltà contemporanea».

Come mai nel libro hai dedicato così tanto spazio e fatica intellettuale alla questione Israele?

«La nascita d’Israele, com’è nato Israele, è uno dei grandi temi del Novecento. Ero stato in Israele qualche anno fa, ma solo per pochi giorni. Ma già il mettere piedi su quella terra, è qualcosa di particolare, di molto forte. Un amico, poi, mi aveva detto di andare a vedere il museo dell’Irgun, e allora io non sapevo che l’Irgun fosse stato un movimento terroristico così formidabile. E allora ho cominciato ad studiare. Ho impiegato sei mesi per scrivere quel capitolo fondamentale del Dizionario. E ritengo che la il capitolo su Israele sia una delle due o tre cose più belle che abbia mai scritto».

A chi ti senti più vicino, ai palestinesi o agli israeliani?

«Sono stati i palestinesi a far sì che il loro conflitto con gli israeliani diventasse per questi ultimi una questione di sopravvivenza. Nelle guerre dell’immediato dopoguerra avessero vinto gli arabi, per gli ebrei della Palestina sarebbe stato come vivere l’ennesimo pogrom. Laddove i palestinesi possono vivere benissimo nell’Israele di oggi, tra l’altro sono rappresentati in quanto tali nella Knesset. Del resto io in tutto il libro non sto mai a sentenziare nemmeno con una sola riga. Racconto i fatti, quanti sono stati ogni volta i morti assassinati e come sono morti, allibisco ogni volta innanzi a una tale ferocia. E’ la sola volta della storia del Novecento in cui il terrorismo abbia conquistato una tale e plateale vittoria politica col buttar fuori dalla Palestina la potenza mandataria, l’Inghilterra».

Quali sono, secondo te, le parti deboli, se così vogliamo definirle, di questa ultima fatica letteraria?

«Penso assolutamente nessuna. Ogni capitolo è una roccaforte del pensiero e dell’intelligenza».

In una sorta di mea culpa pubblico, chiedi perdono a tua madre. Ti definisci vigliacco, ma il dover combattere la vita – così scrivi in sostanza    – mi portava da un’altra parte. Ti chiedo: era proprio impossibile conciliare l’amore per una madre e le tue legittime ambizioni?

«Le “ambizioni” non c’entrano nulla. Il punto era se far trascorrere gli ultimi anni della vita di mia madre a Catania dove era nata e aveva amici e parenti, o farla venire in una casa di Roma da dove io mi assentavo due o tre volte a settimana per motivi di lavoro. Pagavo sino a quattro persone che assistessero mia madre a casa sua. Poi la feci trasferire in un a casa di riposo, dove lei sopravvisse nemmeno due mesi. Che cosa avrei potuto e dovuto fare? Allestire una casa di cura per anziani a casa mia? Forse sì. Di certo quella resta per me una vergogna, un ago della memoria conficcato nella mia anima».

Emil Cioran diceva che lui, quando si metteva davanti ad un foglio bianco, scriveva per sé tesso. Per te, è la stessa cosa? O scrivi, come dici sempre nelle tue letterine che Dagospia pubblica, per i tuoi 25 lettori?

«Ovviamente scrivo per me stesso. Mi fa piacere, poi, se ci sono due o tre amici che hanno inteso il senso di quello che ho scritto».

Esserti dimesso da Panorama, dopo 18 anni, a causa di una nota spesa che ti era stata contestata, non pensi sia stato un gesto estremo oltreché inutile? È come, secondo il mio modesto punto di vista, averla data a quel misirizzi, come poi l’hai apostrofato…

«Ma come potevo restare in un giornale in cui mi trovavo di fronte un tale semianalfabeta? No, non potevo reggere una situazione professionale talmente conflittuale. Ogni cosa della vita ha un suo tempo. Nasce, a un certo momento muore»

Chi era il direttore di quel Panorama?

«Non facciamo nomi. Posso solo dirti che all’epoca si era professato un mio amico».

Tra tutti i libri che hai scritto, di quale vai maggiormente fiero? Pensi anche tu, come il sottoscritto, che la Collezione sia il più bello libro da te licenziato?

«Non sono d’accordo, perché, per certi versi, la Collezione è stato un libro più facile da scrivere. Credo che i miei libri più belli siano stati quello su Telesio Interlandi (il libro che avrebbe voluto scrivere Leonardo Sciascia se non fosse morto), Che belle le ragazze di via Margutta (il libro sulla Roma degli anni Cinquanta), il libro sulla Trieste di Italo Svevo e adesso il Nuovo dizionario sentimentale».

E quali, invece, se tu potessi, rifaresti daccapo?

«È una domanda appropriata. Anni fa Edmondo Aroldi, il celeberrimo editor della Rizzoli, mi chiese di scrivere un romanzo; ne venne fuori un brutto romanzo. Il libro aveva per titolo La ragazza dai capelli di rame. Perché venne fuori un brutto romanzo? Non mi accorsi di star scrivendolo con la lingua e le valenze espressive di un saggio. Ho anche pensato di riscriverlo, ma poi ho lasciato perdere. Su Amazon c’è un lettore – l’unico che l’ha recensito – che lo insulta o lo denigra, e fa benissimo. Beninteso ci sono alcuni miei amici che lo hanno letto e non la pensano come lui».

Di solito, quando escono i tuoi libri, e mettendo da parte i vari Feltri, Cazzullo e Dagospia, il silenzio sui giornali regna sovrano. Non pensi che, al di là del tuo essere un po’ eretico e dissacratorio, ci si anche una sorta di antipatia epidermica che, magari, susciti negli altri. Te lo sei mai chiesto?

«Non c’è dubbio, specie se la parola “antipatia” la declini contemporaneamente alla parola “invidia”. Vale quello che ho scritto nel libro, e cioè che quando si tratta di addentare a sangue le carni di un rivale, a confronto dei giornalisti i cannibali sono dei vegani».

Ricollegandomi alla domanda precedente, dopo la pubblicazione di Compagni, addio, intorno a te si è creato il vuoto, l’emarginazione, così ha scritto. Cosa avrei potuto ottenere di diverso rispetto a quello che, poi, la vita ti ha regalato? Sei un insoddisfatto cronico?

«Al contrario, sono pienamente soddisfatto della mia indipendenza, della mia libertà intellettuale, del fatto che ho giocato sempre da solo e che non ho mai appartenuto ad una gang, ad una tribù, ad un salotto, ad una mafia».

Quanto conta, oggi, una recensione, un elogio fatti su un giornale o un’ospitata in televisione?

«Assolutamente nulla, i libri sono divenuti un cibo la cui commestibilità si riduce a una porzione ridottissima della popolazione. Quando io lavoravo all’ Europeo e uscì il mio Compagni, addio, Indro Montanelli ne scrisse entusiasta sull’Europeo, dove aveva una rubrica. L’editor del mio libro, Giordano Bruno Guerri, mi disse che il pezzo di Montanelli era valso 400 copie vendute il giorno dopo. Oggi un pezzo su un settimanale di un qualche giornalista di rilievo potrebbe valere al massimo due o tre copie vendute».

E in tivù? Da Fazio, per esempio?

«Da Fazio, il discorso cambia. Un tempo una presentazione riuscita da lui valeva migliaia di copie. Oggi non so».

Come mai, negli ultimi anni, hai lasciato Bompiani per Marsilio? Ti senti più coccolato?

«Se c’è uno che non chiede coccole a nessuno, sono io. L’elemento decisivo del mio rapporto con la Marsilio (con la quale ho pubblicato quattro libri) è il rapporto intellettuale che ho con il redattore principe della sua saggistica, Ottavo Di Brizzi, che credo sia oggi il miglior redattore editoriale italiano. Allo stesso modo, mi sono sempre trovato benissimo alla Bompiani prima con Elisabetta Sgarbi e poi con la Beatrice Masini che ne ha preso il posto. E proprio per la Bompiani, tanto per dire, sto lavorando al mio prossimo libro che dovrebbe uscire entro il 2021».

Come mai non sei finito con Adelphi? Io La collezione, ad esempio, l’avrei visto benissimo con la casa editrice di Foà, Calasso, Bazlen…

«Purtroppo non è mai nato un rapporto d’amore tra me e Roberto Calasso, di cui ho grande stima…»

Quando scrivi un libro, cosa predomina maggiormente in te, la vanità o l’ego?

«È una domanda lievemente offensiva. Prevale semplicemente lo spirito di verità».

Balzac scriveva i suoi capolavori perché assediato dagli usurai e creditori. Tu, invece, perché lo fai?

«Soprattutto all’inizio è successo che abbia scritto dei libri per poterne acquistare con il ricavato dei libri rari. Ma, e come ti avevo detto, è l’unica cosa che so fare e voglio fare. Battere alla macchina da scrivere è l’unico modo che ho di avere un rapporto alto con me come persona, come coscienza di me stesso».

Ti senti migliore quando scrivi?

«Sì, mi sento un tantino più in alto del solito».

Che metodo hai quando scrivi? Sei come un impiegato che, tutti i giorni, si mettere davanti ad un computer, o, invece, scrivi in maniera irregolare, solo quando hai un’idea valida?

«Mi metto a vangare la terra e vedo cosa ne viene fuori, di un racconto, di un personaggio, di una situazione, di un ambiente culturale, di una città. E, piano piano, il libro prende corpo, forma e sostanza».

Hai ancora tanti lettori sparsi per lo Stivale? O gli ammiratori, negli anni, si sono sempre più assottigliati?

«Un lettore come si deve è una specie rara Io li annovero uno a uno.  Ho un amico/lettore molto intelligente a Padova, il quale mi ha raccontato di una sua amica che mi aveva in antipatia. E lui le fa: guarda che ti sbagli. E le regala una copia di quest’ultimo mio libro. Al che la sua amica le ha poi mandato dei commenti molto intelligenti e pertinenti su quello che aveva letto. Ho chiesto al mio amico che lei gli spiegasse le ragioni della sua antipatia originaria. Era un’antipatia a pelle, alimentata dai “passaparola” di altrettali antipatizzanti, tutta robaccia che non aveva alcun nesso con quello che io sono e come persona e come scrittore».

Qual è stato il tuo momento più basso in televisione?

«Anche questa è una domanda a dir poco offensiva. Di certo il contesto televisivo in cui io mi trovo di volta in volta non lo decido io, ed è quel contesto a determinare il valore televisivo di quell’occasione o di quell’appuntamento. Per quel che mi riguarda, io sono sempre Mughini, niente di diverso da questo. Certo può capitare di sbagliare una battuta o di allungare oltremodo un ragionamento, e in questi casi la televisione è implacabile nel punirti».

Prima, a proposito di un tuo libro, La ragazza dagli occhi di rame, mi hai detto che è stato un brutto libro; cosa ti manca per scrivere un’opera di narrativa? Incapacità, scarsa immaginazione, amore per l’immanente, pigrizia intellettuale?

«Non so inventare delle storie e non mi interessa farlo. Sono troppo preso dalla realtà e dai suoi personaggi».

Nel Pantheon della letteratura italiana, quali sono i tuoi punti di riferimento assoluti?

«Quella contemporanea, la pratico poco . Se, invece, andiamo indietro nel tempo, ti posso dire di Sciascia, Gadda, Parise, Fenoglio, Calvino,  giganti assoluti. E di Scerbanenco, quello che scritto in Italia dei romanzi “gialli” quando nessuno li scriveva. Non come oggi che ne escono a centinaia ogni mese».

Non pochi siciliani colti, sostengono che Bufalino sia più grande di Sciascia. Come mai, secondo te?

«Qui cogli nel segno. Con Gesualdo Bufalino sono un po’ in debito perché negli anni avo letto solo un paio dei suoi libri e, in tutto e per tutto, lo avevo sentito solo una volta al telefono per pochi minuti. Da un anno a questa parte sto accumulando le prime edizioni di molti dei suoi libri e per pochi minuti. Da un anno a questa parte, sto accumulando tutte le prime edizioni di tanti i suoi libri e quando li avrò finalmente letti, allora risponderò alla tua domanda».

Mi puoi spiegare quale differenza c’è tra “sicilianità” e “sicilitudine”. E’ mero campanilismo linguistico?

«Io non sono toccato dalla “sicilitudine”, alla maniera di Sciascia, il quale nelle conversazioni private usava talora sapientemente il dialetto, laddove io non so usare una sola parola di dialetto siciliano. Io non volevo essere siciliano e bensì italiano, da quanto soffrivo il vivere in una provincia remotissima del profondo sud dove i libri arrivavano con 20 giorni di ritardo rispetto a Milano e Roma. Non ho più rapporti reali con la Sicilia dal giorno in cui sono stato a Catania per seppellire mia madre. Di tutti gli amici catanesi della mia gioventù me n’è rimasto uno solo, il professor Tino Vittorio».

Hai conosciuto più la solitudine intellettuale, sociale o sessuale?

«Sono tre solitudini di una natura molto diversa. Sentimentalmente, sono stato un single per una ventina d’anni. Erano anni in cui ero preso totalmente da me stesso e non mi riusciva facile pagare il prezzo dovuto a una relazione stabile e duratura. La solitudine sociale non mi ha mai fatto né caldo né freddo: mi strabasta la decina di amici che ho. Cento persone non varrebbero il rapporto fraterno e la solidarietà intellettuale che ho con Roberto D’Agostino. La solitudine intellettuale è stata la mia forza: avessi dovuto aspettare che altri la pensassero come me, avrei scritto Compagni addio venti o trent’anni dopo. La solitudine sessuale era la più complessa, perché dovuta al fatto che sono stato fedele a un paio di donne che esistevano solo nella mia testa, a una in particolare, un’ingannatrice professionista che mi aveva ammaliato. Poi è entrata nella mia vita Michela. Con la quale ho fatto il primo passo dopo un anno che ci frequentavamo e andavamo assieme al cinema o a cena».

Come mai? Timidezza, imbranataggine?

«Un misto di timidezza e di orgoglio, che sono poi le due facce della stessa medaglia. Un misto di timidezza e orgoglio».

In un tuo libro, parli dell’amore che hai per Bibi e, in ultimo, per Clint, i tuoi due amatissimi cani. Come mai questo amore non l’hai mai riversato nei confronti di un figlio.

«Bibi e Clint, quanto alla loro gestione, chiedono un decimo del tempo e dell’impegno morale di quello che richiede un figlio. E tanto più che io sono il figlio di me stesso, ossia quello di cui mi prendo cura 24 ore al giorno. Mi sono sempre chiesto, ad esempio, come avrei reagito al fatto di avere un figlio che non amasse i libri. No, mai un solo momento della mia vita ho pensato di essere padre».

Qual è stata la più grande creazione dell’universo, la donna o i libri? E, per te, quale delle tue entità – divine le definisco io – ha avuto il dominio assoluto?

«Quantitativamente il dominio assoluto lo hanno avuto senz’altro i libri. Qualitativamente tutto quello che so dello stare al mondo l’ho imparato dalle quattro o cinque donne della mia vita che mi hanno detto “sì” o “no” o tutt’e due le cose assieme. Tu mi chiedessi i nomi di ciascuna di quelle donne, neppure sotto tortura te lo direi. Ho solo disprezzo per tutti questi misirizzi del nostro tempo che vendono e svendono per 24 ore al giorno tutti i particolari della loro vita privata. Miserevoli».

Alla soglia dei tuoi ottant’anni, quali sono i tuoi progetti letterari? Cosa bolle nella tua mente?

«Sto scrivendo un libro per la Bompiani, come ti ho detto, e neanche sotto tortura ti dirò di che cosa si tratta».

I libri, secondo me, oltre ad essere un piacere, uno svago, sono anche una sorta di medicina naturale. Non ti hanno protetto, però, dalle due recenti depressioni che hai avuto.

«I libri, purtroppo, non ti proteggono dalla depressione. E io, in questo, ho bissato le depressioni che ha avuto mia madre».

Eri quasi un predestinato, quindi?

«Sì, ero in parte un predestinato».

L’emarginazione professionale pensi abbia influito?

«Ho vissuto come un’offesa il fatto che per cinque o sei anni non ho avuto un giornale di carta su cui scrivere. E tanto più che nella mia professione me ne metto dieci in ciascuna tasca».

Più che giornalista, ti ho sempre considerato un intellettuale a tutto tondo. Cosa ti manca per essere considerato un intellettuale cosmopolita alla maniera di Arbasino.

«Per essere Arbasino mi manca il particolare talento che aveva Arbasino e da saggista e da scrittore, mi mancano i suoi viaggi costanti e indefessi, mi manca il fatto che non c’era città o museo d’Europa dove lui non fosse di casa. Ma è sbagliatissimo chiedermi che cosa mi manca per essere Arbasino, mi devi chiedere invece che cosa mi manca per essere Mughini».

Ti manca qualcosa per essere Mughini?

«Assolutamente nulla».

Come nacque quell’intervista, poi confluita nel libro, con Sciascia?

«Nell’autunno 1978 era appena uscito il libro sull’affare Moro. Durante una riunione di redazione della rivista Mondoperaio, mi pare sia stato Claudio Martelli a suggerirmi di fare una lunga intervista a Sciascia. All’epoca ero disoccupato, perché mi ero appena dimesso da Paese Sera. Ci lavorai quindici giorni o forse più a preparare quel colloquio. Andai a Palermo, dove Leonardo mi aveva dato appuntamento alla casa editrice Sellerio. Dopo l’intervista andammo a pranzo con i coniugi Sellerio che purtroppo non ci sono più. Dio mi chiedesse di rifarla quella intervista, non ne cambierei una virgola».

Cosa non ti piaceva di Sciascia?

«Io, al posto suo, non avrei avuto talmente tanta fiducia nel Pci da presentarmi alle elezioni in una lista del Pci e seppure come indipendente. Io ero molto vicino a Craxi in quel momento e pensavo che l’anticomunismo di Bettino fosse salutare per il nostro Paese, per una sinistra possibile nel nostro Paese. Poi, com’è giusto che sia, ognuno fa quello che vuole nella sua vita».

Hai pensato a chi donare questi oltre 20 mila volumi presenti a casa tua?

«Neppure un solo momento. Ho dato mandato a Michela di chiamare, dopo la mia morte, i librai antiquari giusti a preparare dei cataloghi di vendita, talvolta a prezzi elevati. I libri non devono andare ad ammuffire negli scantinati delle biblioteche pubbliche e bensì nelle case di chi li ama e fa dei sacrifici per comprarli, come ho fatto io durante tutta la mia vita. Trenta o quarant’anni fa mi trovavo a Parigi per una breve vacanza e in una libreria dell’usato vidi la collezione completa nella Pléiade delle opere di Honoré de Balzac. Ne chiedevano all’incirca l’equivalente di 100mila lire d’allora. Saltai due o tre pasti per accumularle. Quando andai alla libreria parigina, li avevano già venduti. Li avrei comprati una decina d’anni dopo a Roma, al prezzo di 400mila lire».

Giampiero Mughini e il suo Nuovo dizionario sentimentale”. Pagine vive e coraggiose di un giornalista, lucido intellettuale che si misura con la storia. Carlo Franza il 30 gennaio 2021 su Il Giornale.

E’ arrivato in libreria il  “Nuovo dizionario sentimentale” (Marsilio)  di Giampiero Mughini,  un giornalista  di lucida intellettualità, che si racconta e racconta di Pannella, Aron, Resistenza, Israele, ecc. con ben 282 pagine. Compreso il racconto del grande amore per i cani. Poi il breve capitolo dedicato alla vita, alla malattia e alla morte della madre  che ne segnano un  vertice drammatico fuor dal comune. E il rimorso per la morte solitaria della madre è una  pagina che lascia vivere un’accorata memoria,  mi ha riportato al romanzo “Un altare per la madre” di Ferdinando Camon uscito nel 1978 : “Il lunedì all’ora di pranzo una voce femminile mi chiamò a dirmi che “mia madre non ce l’aveva fatta”. Ho il ricordo di quella telefonata e di quella voce come la più grande vergogna della mia vita. Ho lasciato che mia madre se ne morisse in una stanzetta in cui non c’era nulla di suo, in cui non ravvedeva nulla che le fosse familiare, in cui non le era accanto nessuno o meglio non le ero accanto io, la sola persona al mondo che per lei contasse. Ero stato talmente vigliacco da lasciare che questo accadesse. E anche se non so esattamente che coscienza mia madre avesse di tutto questo in quegli ultimi mesi del suo vivere senza parole e senza alcuna comunicazione possibile. Sono passati vent’anni da quella telefonata del 2001, e non riesco a darmene pace, a non provare vergogna di me stesso. Madre, madre mia, che avrei dovuto fare per te, che avrei potuto fare per te che non parlavi più? Quali gesti avrei potuto compiere ad alleviare la tua agonia?” Il libro  e i capitoli sono un mosaico di storie, Mughini  in parte racconta se stesso,  in parte  racconta i grandi eventi in cui si è ritrovato. Pagine scritte con una scrittura formidabile, catturante, umana, capace di coinvolgere in modo totale il lettore che si immerge  nella  narrazione  in  cui  storia, cronaca, politica, letteratura e tutte le arti del mondo  sono svelati in modo completo.  Ci si trova davanti a un susseguirsi  di eventi e personaggi dello spettacolo e della politica,  dove privato e pubblico  si intrecciano, zoomando su  fatti  che appartengono già alla memoria collettiva del Paese, o su altri che incorniciano  figure di chiara fama; ecco raccontare Marco Pannella nei suoi ultimi giorni di vita quando tutta la sua casa di via della Panetteria “sapeva di morte”, il lato politico di Clint Eastwood, i protagonisti della Resistenza italiana, la sapiente voce di Leonardo Sciascia, la cronaca del conflitto tra Israele e Palestina. Giampiero Mughini ci racconta i fatidici  anni Sessanta e Settanta della storia italiana, ricco com’è di cultura e del vero vivere, essendo  “un uomo – come si definisce lui stesso – con i capelli completamente bianchi”. Tutto appare  in un procedere silenzioso e avvincente, caldo e partecipe, dove memoria, ricordi e puntelli morali e sentimentali  corrono di pari passo con furori  e disillusioni. E’ l’Italia che esce allo scoperto,  assolutamente senza censure, nei suoi momenti più drammatici e nei suoi  più partecipi momenti di gloria. Politica, partiti, ideologia  avvolgono il racconto. E non solo,  a ben conoscere in che modo è entrato nella sua quotidianità il nuovo cane Clint, Mughini lo affianca subito con l’immagine dell’altro cane di famiglia, che si chiama Bibi come Brigitte Bardot, e come la Bardot “non è più una ragazza. I suoi anni di cane corrispondono più o meno ai miei anni di uomo… Per l’età che abbiamo io e Bibi, forse sì e forse no mi toccherà il dolore insopportabile di vederla morire, un dolore il cui solo pensiero mi annienta e dopo il dolore lancinante provocato dalla morte di mio padre, poi di mia madre, e infine dei due miei fratelli che erano parecchio più grandi di me”. Pesante e amaro l’addio ai giornali, in cui Mughini ha trascorso una vita;  avvince non poco  il paragrafo in cui rievoca la sua rottura con il settimanale “Panorama” («per quella nota spese da centottanta euro», e per un anonimo vicedirettore). Nel capitolo sul “Sessantotto della destra”, dedicato alla rivolta contro la Terza Repubblica che sconvolse Parigi nel 1934, è messa in scena la morte di Raymond Aron, fulminato da un infarto mentre lascia il Palazzo di Giustizia dopo aver preso le difese, quasi cinquant’anni dopo, di uno dei protagonisti di quella remota stagione, Bertrand de Jouvenel.  Belle le partole su Sergio Tofano, l’inventore del signor Bonaventura, “lui che era un figlio del Novecento lo sapeva che se Leonardo fosse nato in questo secolo avrebbe girato degli spot pubblicitari o dei videoclip”. Mentre Sciascia — cui si deve la distinzione dei tre gradi dello stendhalismo: quello in cui si crede che il più bel libro di Stendhal sia Il rosso e il nero, quello in cui ci si convince che sia La certosa di Parma, e il grado finale in cui si realizza che il vero capolavoro di Stendhal è la Vita di Henry Brulard — ammonisce che si comincia a morire quando si cominciare a dare via i libri. Che pagine quelle su Sciascia,  che lezione quell’intervista, un modo di fare giornalismo unico,  con quel modo di porgere le domande.  Grande Mughini,  giornalista di spessore, dentro ogni pagina del libro ci sono gli cchi di Mughini che hanno visto e vissuto, amato  e  “sentimentalmente” ricostruito  donne, uomini, libri, fumetti, film, partite di calcio, case, cani, oggetti, amori. Tutto pare ripartire dall’altro Dizionario  uscito da Rizzoli nel 1992. E  prima ancora mi sovviene quel suo “Compagni, addio” del 1987, ove gli sussurrava  quel verso di Modugno“ ma come non ti accorgi di quanto il mondo sia meraviglioso”. In questo libro tutto pare vivo ancora, un libro, una cena, una fotografia, un dolore, una persona che non c’è più, tutto appare, alla soglia dei suoi ottanta letti bene sul  viso, con una riflessione disincantata.  Ecco perché questo nuovo dizionario sentimentale recita  come sottotitolo “delusioni, sconfitte e passioni di una vita”. Eccolo Mughini, una persona viva e coraggiosa, un grande giornalista,  un combattente del pensiero e del sapore della libertà.

Giampiero Mughini (Catania 1941), narratore delle vicende politiche e sociali del nostro paese (Addio compagni, 1987; Gli anni della peggio gioventù, 2009; Addio gran secolo dei nostri vent’anni, 2012). Giornalista  è stato tra i fondatori del “Manifesto”, ha collaborato con “L’Europeo”, “Panorama”, “il Giornale” di Montanelli, “Libero”, “Il Foglio”. Dalla fine degli anni Ottanta si è distinto come opinionista sul piccolo schermo. Per Marsilio ha pubblicato Era di maggio. Cronache di uno psicodramma (2018) e A via della Mercede c’era un razzista. Lo strano di caso di Telesio Interlandi (2019).

Carlo Franza

Vittorio Feltri, plauso a Giampiero Mughini: "Un intellettuale eretico che mette alla frusta se stesso e la pochezza dei compagni".  Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2021. Questo libro non ha una trama, somiglia allo zibaldone della vita. Giampiero Mughini, alle soglie dei suoi 80 anni, regala a sé stesso e a chi gli vuol bene il Nuovo dizionario sentimentale: Delusioni, sconfitte e passioni di una vita,(Marsilio, pp. 288, euro 18). Non credo che Giampiero si renda conto di quanto numerosi siano coloro che gli vogliono bene, e queste pagine sono destinate a moltiplicarli. Somiglia a una autobiografia, ma non è così, è un ritratto per schizzi della «nostra condizione umana» e di questo Paese. Ciascuno si identificherà per la sua parte. Specchiandosi oppure ritagliando le proprie differenze, perché ciascuno è unico, canta lo stesso partito, ma ogni voce è inconfondibile. E quella di Mughini di più. Generosamente mi riconosce nell'elenco dei suoi direttori con cui ha lavorato bene e nel mutuo rispetto. Dico subito: Giampiero non fa nulla per rendersi simpatico, la sua gentilezza, il garbo che mostra per tutti, vanno insieme alla percezione che non riesce e non vuole occultare della propria superiorità quanto a cultura, gusti, intelligenza. Il fatto è che ha ragione, e queste pagine lo dimostrano una volta di più. Egli però cerca di rimediare proprio scrivendo, offrendo cioè - non gratis, il lavoro si paga - l'arte che magnificamente possiede, quella del giornalismo come racconto. Non ha mai preteso l'oggettività. Il mondo che lui inchiostrava un tempo con la macchina per scrivere (lui dice «da scrivere» e lo fa dire anche a Leonardo Sciascia) e oggi con il computer è quello che attraversa il suo sguardo contaminante. Il suo sguardo mi piace.

LA «SICILITUDINE». Il volume è rapsodico. Si passa da quanto più squisitamente intimo sia accaduto all'autore alla saggistica. L'asse portante del libro, e credo della vicenda intellettuale cioè esistenziale di questo catanese trapiantato a Roma ma come Sciascia traboccante di «sicilitudine» (e guai a confonderla con la sicilianità), sono due capitoli dedicati alla grande storia. Nel primo Mughini ci accompagna nelle vicende culturali e politiche della Francia Anni Trenta, crepitante di intelligenze e moti giovanili sorprendenti, i cui protagonisti sono stati liquidati stupidamente come fascisti o comunisti, collaborazionisti dei nazisti o eroi della Resistenza, mentre in realtà tutto era intrecciato. Mughini sceglie come giorno e data chiave il 4 febbraio del 1934 a Parigi, place de la Concorde. Si affrontano in uno scontro violentissimo giovani di destra e di sinistra. Sicuro fossero così diversi? Intervenne la polizia a riportare l'ordine. Ma che ordine era? Di certo la classe politica non capì nulla. Errore costante. Che ora in Italia non è soltanto di chi sta tra i rappresentanti del popolo ma - a differenza di allora - nella massa amorfa degli intellettuali e dei giornalisti, ottusamente piegati a schemi che porteranno alla catastrofe. Scrive Mughini: «La Terza Repubblica francese, (è) esempio lampante di come una democrazia parlamentare, se lasciata in preda allo sfrenarsi del gioco dei partiti e delle corride ideologiche, possa costruire da se stessa la propria agonia politica e militare: un'agonia di cui i fatti del febbraio 1934 sono assieme l'anticamera e la rivelazione. Le ragioni e i rancori sconfitti a Place de la Concorde riemergeranno difatti e cercheranno di che appagarsi nel luglio 1940, quando i carri armati tedeschi erano appena entrati in una Parigi attonita. E allora, la Francia messa in ginocchio in poche settimane a causa di un'impreparazione militare che nella storia del decennio precedente aveva le sue origini, il demone della lacerazione interna del Paese, il demone del 1934 come del 1936, trionfò». Da leggere, si impara tanto. Quante fucilazioni di innocenti perché stavano con Vichy e Petain, fucilazioni morali che si ripetono ancora, un plotone d'esecuzione di ciechi ma che mirano benissimo. Un tempo era stato tra costoro.

NESSUN GIUDIZIO. Con questo magnifico testo Mughini paga il debito al suo essere stato parte di una schiera di compagni conformisti, che gli tolsero il saluto quando nel 1987 fece i conti con sé stesso e pubblicò, grazie a Giordano Bruno Guerri, Compagni addio. Altro capitolo di sorprendente bellezza e profondità storica e intuizione sul cuore di un popolo è quello dedicato alla formazione dello Stato di Israele. Alla ferocia con cui gente coraggiosa - «ebrei che avevano imparato a sparare» - lo volle far nascere dal niente. Certo, erano terroristi e uccisero un sacco di gente innocente i vari Stern e Shamir, Begin e Cohen. Erano le avanguardie insediatesi in Palestina nei primi decenni del Novecento. Agirono da esuli senza patria per costringere durante la seconda guerra mondiale e subito dopo di essa in particolare gli inglesi ad abbandonare quei territori e consentire la nascita dello Stato degli ebrei. «Costi quel che costi». Valeva il sacrificio di madri uccise con i loro bimbi al seno? Mughini non giudica. Racconta. Tutto. Non occulta l'orrore e la tenerezza. Le varie fazioni del sionismo. Gli assassini. Il farsi la forca reciprocamente. Sciuperei riassumendo. Trascrivo il sugo della storia: «Di sicuro c'è che se alcune migliaia di militanti ebrei pronti a tutto non avessero ragionato e minacciato con tale forsennata veemenza, gli inglesi non avrebbero lasciato che già il 14 maggio del 1948 il leader del partito laburista David Ben-Gurion proclamasse l'indipendenza di Israele da un appartamento di Tel Aviv, e dunque che per la prima volta dopo due millenni gli ebrei di tutto il mondo avessero una loro casa e una loro terra». Sul resto ci medito, e così farete voi. Sulla vecchiaia. Sugli affetti. Su che cosa sia degno d'essere vissuto. Le passioni certo. Ma anche il decoro. Descrivendo Clinton Eastwood esterna in poche parole un'idea di stile, un'estetica che è l'essenza dell'etica: Esiste una «responsabilità morale che incombe su ciascuno di noi e in ogni momento del nostro vivere. In guerra o in pace, o meglio in quella particolare guerra quotidiana che noi chiamiamo pace. Esattamente come accadde al Walt Kovalski di Gran Torino, cui toccò la responsabilità di proteggere dai prepotenti quella brava gente che erano i suoi vicini di casa. La responsabilità, le leggi che ognuno di noi si dà, la parola data, l'onore dei piccoli quanto accurati gesti che pure distinguono ogni uomo da tutti gli altri, la nobiltà del silenzio rispetto alla volgarità andante, l'uomo senza nome (di Per un pugno di dollari)che è venuto da lontano e che guarda dritto in fronte un avversario che mai e poi mai colpirebbe alle spalle. Che altro c'è di importante nella vita?». Mi piacerebbe comporre una antologia ritagliandola dalle varie voci del Dizionario. Pagine struggenti e di alta letteratura. Il rimorso verso la madre che dovette (dovette?) affidare a una casa di riposo. La totale comunione con il proprio setter di nome Clint, la gioia di sapere che lui, almeno lui, di certo serberà la sua memoria. E le dita incerte sulla tastiera. Ma temo che se lo facessi Giampiero mi manderebbe una salata parcella. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 2 gennaio 2021. Caro Dago, ci sono dei momenti in cui ho l’impressione di appartenere a una razza inadatta al presente. Prendiamo questi ultimissimi giorni del dannatissimo 2020 in cui piovevano sul mio computer sfilze di auguri e laddove io per nessuna ragione al mondo invio degli auguri a qualcuno. Vengo e mi spiego. Il 90 per cento degli auguri che ricevevo erano palesemente dovuti al fatto di stare io in una mailing list di non quante decine e decine di individui. L’autore degli auguri batte al computer una formuletta qualsiasi, clicca, e in un batter di ciglia la formuletta arriva ai suoi amici, o forse ai suoi clientes. Ecco, di questi auguri io mi ci pulisco le scarpe e mai e poi mai ne invierei di similari. Poi ci sono quelli che mandano auguri accompagnati da foto della bottiglia di champagne che si accingono a bere o dell’albero di Natale addobbato a casa loro. Non li guardo nemmeno. Uno che peraltro è un uomo intelligente mi ha mandato una mail in cui mi raccontava tutto quello che aveva fatto durante l’anno, scendendo nei dettagli. L’ho letta con piacere, non ho risposto. Ripeto, io non mando una mail di auguri a fine anno o per le feste comandate nemmeno morto. La mia politica è completamente diversa. In uno qualsiasi dei 365 giorni all’anno se mi capita l’occasione mando un messaggio strettamente ad personam e strettamente relativo al lavoro e all’identità di quella persona. Dopo avere letto un loro articolo, mando un evviva a Fabrizio Roncone, a Michele Masneri e Simonetta Sciandivasci del “Foglio”, ad Alessandro Ferrucci del “Fatto”, più e più volte al mio fraterno amico Mattia Feltri e ovviamente a sua moglie, la pirotecnica Annalena Benini. Se Alfio Caruso scrive un suo libro, subito gli scrivo che attendo con impazienza di leggerlo. E siccome non mi perdo una delle risposte ai lettori di Aldo Cazzullo nella sua rubrica sul “Corriere della Sera”, più e più volte gli scrivo a dirgli la mia consonanza con quello che ha scritto. Naturalmente scrivo due parole a Dago quando mette talmente bene un mio pezzullo, al punto da renderlo cento volte più attraente. C’è che io sono interessato agli altri, mi interessa il loro lavoro e sono felice di farglielo sapere. In generale mi piace ascoltare, mi piace impararare, non sentire me stesso che da trent’anni ripeto la solita solfa. Nemmeno sotto tortura manderei una foto della bottiglia che sto per bere o promoverei una mia cosuccia scaraboccchiata da qualche parte. Ps. C’è stata un’eccezione al mio silenzio sul mio lavoro. La volta che ho invitato Mattia a dare un’occhiata a un mio scrittarello dov’era un cenno a suo padre. Con il quale ho lavorato tanto e mai una volta che mi avesse detto di spostare di un centimetro una virgola. Sì, a Vittorio Feltri voglio bene. Ci tenevo che Mattia lo sapesse.

DIALOGO CON UN AMICO CHE MI VUOLE BENE: INTERVISTA CON WILLIAM GORI. Estratto del libro “Nuovo Dizionario Sentimentale” di Giampiero Mughini pubblicato da Dagospia il 20 gennaio 2021.

WILLIAM GORI: Ciao Giampiero, mi fa piacere rivederti. Ci conosciamo da cinquant’anni ma in questi ultimi tempi non ci eravamo più sentiti né visti. D’altra parte io me ne sto a Como per i fatti miei, e non frequento più nessuno…

GIAMPIERO MUGHINI: Anch’io frequento una decina di amici e non più che quelli. Nemmeno morto andrei a uno di quegli appuntamenti pubblici che Dagospia inchioda nella sua rubrica dal titolo “Cafonal”, congreghe di ruffiani che si incontrano a darsi pacche sulle spalle in favore di camera fotografica e a promuoversi a vicenda. E a non dire che se per caso qualcuno mi invita a cena e lì c’è gente che non conosco, per tutta la sera parlano solo di sé stessi, di quello che hanno mangiato il giorno prima, dove sono stati negli ultimi mesi, che cosa faranno nei loro rispettivi mestieri. Non esiste più nessuno che mostri curiosità per gli altri, voglia di ascoltarli, magari di imparare qualcosa. Dicessi che ho un tumore e che fra tre ore sarò morto, passerebbero immediatamente all’argomento successivo. Mi ricordo invece del tuo messaggio di solidarietà quando mi cancellarono dall’Albo dei giornalisti professionisti. Ne ricevetti pochissimi di quei messaggi. Da Luca Ricolfi, Gianni Mura, Claudio Sabelli-Fioretti. Non uno da quelli con cui avevo lavorato diciotto anni a “Panorama”. Semmai mi spiace che su Wikipedia sta scritto che io sono stato “radiato” dall’Albo e chi legge non può non pensare che l’avessi fatta grossa per meritare un tale provvedimento. Una mia cara amica, Viviana, una volta me lo chiese con un’aria leggermente affranta: “Perché ti hanno radiato?”. Temeva che io le rivelassi una qualche mia indecenza che l’avrebbe delusa della nostra amicizia. Se è per questo molti anni fa ti avevo mandato una lettera in cui ti dicevo che a suo tempo mi era piaciuto molto il tuo “Dizionario sentimentale” del 1992, quel libro in cui davi talmente maggiore importanza ai sentimenti individuali che non alla muffa delle ideologie.

WILLIAM GORI: E anche in quel caso eri stato fra i pochissimi a farlo, se non l’unico. Quel libro venne come circondato da una barriera di filo spinato costruita a forza di odio ideologico. Il settimanale in cui lavoravo, “l’Europeo”, pubblicò la recensioncina di un imbecille che provava a sfottermi.

GIAMPIERO MUGHINI:“L’Unità” pubblicò un’articolessa in cui un misirizzi mi descriveva moralmente e intellettualmente quale una sorta di lebbroso da scansare. Era un articolo talmente feroce e aggressivo che dopo averlo letto lo nascosi, per impedire che la mia compagna (Michela) lo leggesse e se ne addolorasse. Lei a quel tempo non capiva perché subissi attacchi di tale veemenza. Al momento in cui uscì il mio libro del 1991 su Telesio Interlandi, sulla “Repubblica” era apparso un articolo in cui era scritto che il libro stava andando talmente male quanto a copie vendute che alla Rizzoli ne erano preoccupatissimi. Telefonai al responsabile commerciale della Rizzoli, e lui mi disse che se tutti i loro libri stessero vendendo come il mio loro avrebbero fatto salti di gioia. Mandai perciò una lettera a Eugenio Scalfari dove smentivo in punta di fatto quel che era stato scritto sul suo quotidiano. Dopo due mesi mi rispose che non l’avrebbe pubblicata, perché quelle cose al suo giornalista le avevano riferite e perciò lui aveva tutto il diritto di scriverle. Era il prezzo che stavo pagando all’aver scritto nel 1987 un libro dal titolo Compagni addio, un libro che nessuno mi avrebbe pubblicato non fosse che in quel momento a capo della saggistica Mondadori c’era Giordano Bruno Guerri, e quel prezzo l’ho pagato per almeno una ventina d’anni. Venti e passa anni durante i quali era inimmaginabile che su uno dei giornali che volgevano a sinistra qualcuno parlasse positivamente del mio lavoro, innanzitutto dei miei libri. Succede. Ero uscito fuori dal mio ambiente naturale, dalle amicizie e dalle complicità generazionali che erano state le mie e non avevo più un pubblico intellettuale di riferimento. Di quel segmento della mia vita sono uso parlare come di una “traversata del deserto”. Più lunga ancora di quella patita da Charles de Gaulle, e se è lecito paragonare il piccolo al grandissimo.

WILLIAM GORI: Epperò in quegli stessi anni un personaggio d’eccezione compare sul tuo orizzonte professionale. Indro Montanelli, il più grande giornalista italiano del secondo dopoguerra, ti invita a collaborare al quotidiano da lui fondato e diretto.

GIAMPIERO MUGHINI: Le cose sono andate così. Nei primi anni Ottanta avevamo messo in piedi una squadretta da serie A a “Pagina”, la rivista mensile fondata da Aldo Canale. C’eravamo io, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Mieli, Massimo Fini. Ne traemmo un mensile “terzista” nel senso che non si schierava con nessuno dei due schieramenti in lotta, quello di centrosinistra e quello di centrodestra. Eravamo anticomunisti ma non sferravamo al Partito italocomunista dei colpi sotto l’ombelico. Eravamo ammirati da certe opzioni di Bettino Craxi, ma non ci piaceva nemmeno un po’ l’arroganza del vertice dirigente craxiano. Se a “destra” (italiana e non) si muoveva qualcosa di intellettualmente originale e stimolante, ne eravamo curiosissimi. Gente della “nuova destra” come Marco Tarchi e Stenio Solinas avrebbero potuto scrivere su “Pagina”, e mi pare che uno dei due lo abbia fatto. Stessissimo discorso per Indro, di cui noi tutti eravamo lettori accaniti. Era un “borghese” che a noi piaceva moltissimo, senza per questo approvarne tutte le valenze. Ciò che sarebbe ridicolo di chiunque. E siccome avevamo ideato una rubrica sotto forma di una “lettera” che inviavamo numero per numero  a personaggi comunque interessanti, decidemmo di inviarne una lui. La scrissi io. Era la primissima volta che su un giornale relativamente di sinistra degli intellettuali che provenivano dalla sinistra si rivolgessero a lui con ammirazione, meglio ancora con affetto. Dopo qualche tempo Indro mi telefonò a chiedermi di collaborare al “Giornale” su cui lui s’era inventato una rubrica a mia misura dal titolo “L’invitato”. Una collaborazione che sarebbe durata quattro o cinque anni, durante i quali Indro mi aumentò la paga per ben tre volte, ed è un argomento cui io sono sensibile, ossia che la qualità si paga. Ero un “invitato”, eppure Indro mi piazzava spesso in prima pagina. Ricordo la volta che scrissi una sorta di “lettera aperta” all’allora ventenne figlio del commissario Luigi Calabresi e futuro direttore della “Repubblica”. Gli dicevo che ero quanto di più commosso dalla sorte di suo padre ma che avevo forti dubbi sulla reale colpevolezza del commando di “Lotta continua”. (In realtà non conoscevo gli atti del processo. Dopo aver letto tre volte le 600 pagine della sentenza di primo grado, di dubbi sulla loro colpevolezza non ne ho avuti più.)

WILLIAM GORI: Che impressione ti faceva trovarti sulle pagine di un quotidiano dove immagino fossero molti gli articoli che stavano accanto al tuo e che non condividevi?

GIAMPIERO MUGHINI: Non è che in un giornale devi stare come al calduccio e stringerti a chi ti è attiguo. Un giornale più è un calderone di opinioni diverse e meglio è. Premesso che Indro né nessun altri hanno mai obiettato a dov’era un mio punto e virgola, la mia era purtroppo la sensazione di essere un “ospite” e non più che questo, di rivolgermi a un pubblico che in larga parte diffidava di uno con le mie origini. Del resto è stata la sensazione che ho avuto cento e cento volte nell’essere invitato a tante trasmissioni televisive, ossia di trovarmi in un ambiente cui ero fondamentalmente estraneo. Per dirtela chiara e tonda, nessuno di quelli che frequentavo quarant’anni fa leggeva il quotidiano di Montanelli. Una mia amica con cui ero andato un paio di volte al cinema mi disse “Ma come fai a scrivere su un giornale fascista?”. Ecco perché dell’essere un solitario, uno fuori dai cori, uno che come unica tessera della sua vita ha avuto quella che ti fa viaggiare sugli autobus, uno che quando avvia un ragionamento non sa come lo concluderà, uno che ovunque vada non si toglie l’impermeabile perché ben presto andrà via, ne ho fatto una religione e questo fin da allora. Al punto da reputare dei perfetti imbecilli quelli che a tutt’oggi infiocchettano il loro dire con i termini “fascista” e “antifascista”, termini che nel terzo millennio non significano nulla di nulla. Neppure sotto tortura darei del fascista” a Matteo Salvini, uno con cui ho discusso civilmente le volte che me lo sono trovato di fronte in uno studio televisivo. Lui era altrettanto civile nei miei confronti, mi chiamava “dottor Mughini”.

WILLIAM GORI: Hai citato per la prima volta l’espressione “trasmissione televisiva” dopo un’ora che stiamo chiacchierando. Eppure sei uno di cui dicono che è “un personaggio televisivo”. E’ un fatto che sul piccolo schermo compari in continuazione, e che in questi ultimi anni della tua vita il tuo pane è venuto da quello e infinitamente meno dai giornali che sono ridotti allo stremo e che pagano degli spiccioli.

GIAMPIERO MUGHINI: A volerne cogliere tutte le implicazioni, ci vorrebbe un libro a rispondere alla tua domanda. Sì, non ci fosse stata la televisione in questi ultimi dieci/quindici anni della mia vita dubito che sarei riuscito a pagare le bollette inerenti alla casa piuttosto grande in cui abito. Da quando nel 2005 è finita la mia avventura nel giornalismo a pieno tempo, ossia da quando mi sono dimesso dal “Panorama” di cui ero stato per 18 anni un inviato speciale, il mio rapporto con i giornali di carta è stato striminzito se non peggio. Dopo la fine del mio “Uffa” quotidiano sul “Foglio”, nel 2006, in tutto e per tutto ho avuto una collaborazione di 4/5 anni con il “Libero” diretto prima da Vittorio Feltri e poi da Maurizio Belpietro, una collaborazione molto ben pagata e nella quale ero liberissimo di dire tutto quello che mi passava per la testa. Al passivo di quella collaborazione, se così posso dire, c’era il soprassalto che mi coglieva nel leggere alcuni titoli di prima pagina o nel leggere quello che scrivevano i lettori di “Libero”, gente con cui purtroppo avevo in comune solo il fatto di respirare. A un certo punto mi sono chiesto se valeva la pena continuare a rivolgersi a un pubblico talmente lontano dalle mie latitudini preferite, e mi sono risposto di no. Sono andato via in punta piedi, dopo avere scritto due righe a Maurizio, che è un amico e che fa benissimo il suo lavoro. Sarà stato il 2013 o il 2014. Da allora e fino all’ottobre del 2019, quando il direttore del “Foglio” Claudio Cerasa mi ha chiesto di bissare la rubrica “Uffa” e seppure questa volta in forma settimanale (più distesa, più ampia, più saggistica), non uno straccio di giornale di carta mi aveva chiesto una collaborazione. E questa la reputo la più grande offesa professionale che mi sia stata mai fatta. Che non era attutita dal fatto di mandare un paio di volte a settimana delle letterine amicali al Dagospia di Roberto D’Agostino, mio amico fraterno da quarant’anni, e inventore del più suggestionante format giornalistico online.

WILLIAM GORI: Hai risposto a una parte della mia domanda, ed è una risposta amara, forse amarissima…

GIAMPIERO MUGHINI: Amarissima senz’altro. Appartengo a una generazione per la quale la carta dei giornali ha un sapore speciale. Restarne fuori è stato come ricevere un calcio in faccia, almeno così io l’ho sentito in questi anni. Da quando sono tornato a scrivere per il quotidiano di Cerasa, sono felice come una pasqua. Non vedo l’ora che arrivi il martedì con il mio pezzullo in seconda pagina in basso. La carta canta…

WILLIAM GORI:Lavorare per la televisione non ti dà nemmeno una parcella di questa felicità?

GIAMPIERO MUGHINI: Non ho mai pensato un solo istante che quello che faccio in televisione sia un lavoro. E’ un‘occasione per fare quattro chiacchiere fra amici e trarne un reddito, e per giunta è molto divertente. Io guardo poco la televisione, perché è troppo lenta per i miei gusti, ma mi diverto moltissimo a farla. I tipi e le tipe che ti sono attorno (a molti dei quali non affideresti il tuo cane perché lo portassero a passeggio), donne che non hanno un giornale in mano nemmeno a ucciderle e che stanno nella poltrona del trucco e parrucco un’ora e mezza, viceversa donne che ti fa piacere averle accanto perché sono vive e vitali (Hoara Borselli per dirne una), le parole e gli sproloqui che ti volteggiano addosso, la velocità con cui devi intervenire e ribattere, l’improvvisazione continua di cui devi essere capace, l’idea che a casa sta il pubblico il più diverso e il più lontano di cui devi conquistare l’attenzione, il sapere che se un ragionamento lo protrai per oltre 40 secondi quel pubblico ti seppellisce.

WILLIAM GORI: Dato che in televisione ci vai talmente spesso che ne pensi di quelli e quelle che sui giornali vengono chiamati “opinionisti” e questo per il fatto che aprono bocca a dire la loro.

GIAMPIERO MUGHINI: Sono solito dire che se qualcuno mi definisce “opinionista” per le volte che vado in tv, lo querelo. E’ successo in questi ultimi anni che il talk-show, ovvero lo show fatto di parole e basato sulle parole, sia divenuto lo spettacolo il più frequente nel palinsesto televisivo di tutti i canali e questo per il fatto semplicissimo che è lo spettacolo a più basso costo di tutta la tv. Chi accusa il mio amico Fabio Fazio di costare troppo alla tv pubblica non sa che qualsiasi altro spettacolo di prima serata al sabato o alla domenica costerebbe alla tv pubblica due volte quello che costa il lavoro di Fabio. E dunque talk-show a tutta forza animati da personaggi di cui è importante che il pubblico li riconosca, uomini o donne che siano, e meglio ancora se pronunciano esattamente quel che il pubblico si aspetta da loro, ovverosia porcate inenarrabili, meglio ancora se alimentano “il telescazzo”. Durante una trasmissione condotta da Maurizio Costanzo sentii dire una volta da Alessandra Mussolini che la Lolita di Vladimir Nabokov era “un romanzo pornografico”. Alla fine della puntata mi avvicinai a lei e le dissi che mi stupivo che da un nonno talmente intelligente fosse venuta una come lei.

WILLIAM GORI: Nel dirmi questo ti stai riferendo innanzitutto alla televisione popolare, quella che raccatta i personaggi più andanti o più patetici…

GIAMPIERO MUGHINI: Esattissimo. Sto parlando della televisione popolare, quella che a me piace fare, non quella di mezzanotte e passa a Rai3 dove si fa il riassunto delle grandi vicende del mondo: per quelle ci sono i libri e le riviste e i giornali. No, no, a partire dalla magnifica esperienza del 1987-88 a fianco di Loretta Goggi su RaiUno, io ho sempre fatto la televisione popolare, con Maurizio Costanzo, con Sandro Piccinini a “Controcampo” (la più bella trasmissione calcistica degli ultimi 40 anni), più e più volte con Piero Chiambretti, alla serata finale di un Sanremo con Pippo Baudo, una serata da Paolo Bonolis, che è un fuoriclasse. Beninteso, oggi vado con piacere anche da due dame quali Barbara Palombelli e Veronica Gentili a commentare la cronaca pubblica del nostro Paese.

WILLIAM GORI: Ma il tipo di televisione che frequenti e preferisci non rischia di fare talvolta a pugni con il tipo di libri che scrivi?

GIAMPIERO MUGHINI: E come potrebbe essere diversamente?, sono due universi oggettivamente lontani. Carlo Emilio Gadda avesse partecipato a una “Prova del cuoco”, l’indomani per la strada la gente gli avrebbe chiesto di come cucinare la pasta alla carbonara e non del suo libro su Benito Mussolini, Eros e Priapo. Per quanto mi riguarda arrivo a temere che il frequentare la televisione popolare nuoccia ai libri che scrivo e che i miei editori propongono, anzi ne sono sicuro. Mi hanno riferito quel che va dicendo in giro Vincenzone Mollica, che è un mio caro amico e che ha fatto in televisione dell’ottimo giornalismo culturale: “Lasciate perdere il Mughini che vedete in televisione. Il Mughini vero è un uomo di cultura smisurata”. Il che significa che a Vincenzone, uomo di gran gusto, il Mughini televisivo appare tutt’altra cosa che il Mughini dei libri e degli articoli. Me ne spiace molto di un tale giudizio, specie se espresso da un uomo della qualità di Vincenzone, e anche se non so spiegarmelo. Non c’è un sorriso o un ghigno di quando vado in televisione di cui non sarei in grado di rendere conto innanzi a Dio o a chi per lui. Non c’è un mio sorriso o ghigno televisivo fatto per “piacere” o per arrivare più facilmente all’anima del telespettatore. Non c’è un sorriso o un ghigno fatto per dimenticare il dolore del vivere, l’arduo compito in cui consiste il comunicare tra esseri umani. Tu che ne pensi?

WILLIAM GORI: Sì, credo di non avere mai visto sul tuo volto la dimenticanza del dolore cui fai riferimento. Ma io ti sono amico, il mio giudizio è partigiano. In questi tanti anni che ci conosciamo mi è capitato un paio di volte di sentire persone che ti spregiavano. Per dirne di una che conoscevo bene, Angelica Savinio, la figlia di Alberto Savinio, che pure è stata una bravissima gallerista d’arte a Roma. Per non dire delle tante volte che su un giornale quello che scriveva di televisione ti beccava senza pietà.

GIAMPIERO MUGHINI: Dei tanti anni che vado in televisione ricordo soltanto due giudizi favorevoli al mio lavoro espressi su  un giornale, uno di Edmondo Berselli e uno di Oreste Del Buono. Sì, io sto antipaticissimo ai miei colleghi che scrivono di televisione sui giornali. Resta per me misterioso il caso più eclatante, quello di Beniamino Placido, che per anni ha tenuto una seguitissima rubrica televisiva sulla “Repubblica”. Conoscevo bene e stimavo Beniamino, così come conoscevo e stimavo sua moglie Nadia Fusini, un’intellettuale di gran classe. Quando stavo nella redazione di “Mondoperaio”, la più bella rivista italiana tra ultimi Settanta e primi Ottanta, avevo chiesto e ottenuto che ci collaborasse Beniamino. Ebbene, negli anni seguenti al mio debutto nella televisione popolare se Beniamino nella sua rubrica pronunciava il mio nome lo faceva seguire da un insulto. Questo per anni. Mai ho replicato per iscritto. Solo una volta che ho incontrato Nadia in banca le ho detto che se mi fossi imbattuto in Beniamino,  gli avrei fatto fare il giro di Piazza Navona a furia di calci in culo. Era solo un modo di dire. Aveva una tale classe intellettuale che volevo bene a Beniamino. Era stato un totem per uno degli amici più cari della mia giovinezza, il Franco Moretti fratello di Nanni che è poi andato ad insegnare letterature comparate negli Usa e che adesso abita in Svizzera e pagherei non so quanto per rivederlo. Nanni mi conosceva per il fatto di essere amico di suo fratello, e per questo mi mise nel cast di un paio dei suoi bellissimi film. Anche lui adesso non lo incontro più, e me ne dispiace tanto.

WILLIAM GORI: La tua è una collezione di ricordi amari, di amicizie rotte, forse di rimpianti…

GIAMPIERO MUGHINI: Nessun rimpianto, William. Quello che è successo è successo né poteva succedere altrimenti. Grazie a te di volermi bene dopo così tanti anni. Salutami Como, la città in cui ha vissuto ed è morto il mio grande amico Ico Parisi, un genio del design italiano degli anni Cinquanta al quale è dedicata la casa in cui vivo.

·        Giancarlo Dotto.

Francesco Melchionda per lintellettualedissidente.it il 31 gennaio 2021. (…)

Giancarlo Dotto, da tempo, ormai, leggo le sue interviste, e sul Corriere dello Sport e su Vanity Fair. Se non erro, però, la sua carriera, inizialmente, aveva preso un’altra strada, quella del teatro. Ci può raccontare i suoi inizi?

«Negli Anni Settanta Roma era un grande laboratorio creativo a cielo aperto, cantine, soffitte e buchi maleodoranti trasformati in luoghi di forsennate sperimentazioni teatrali. In quel contesto ognuno poteva immaginare di trovare il suo posto all’umido. Cominciai facendo l’attore per Valentino Orfeo. l miei primi ruoli? Un improbabile brigante del meridione e un più credibile untuoso cardinale. La mia carriera di attore finì con una parodia in rosa del celebre assessore Nicolini, l’artefice dell’estate romana. In scena con un abito rosa, ogni volta che parlavo facevo cadere su di me una pioggia di coriandoli. Anni generosi, ci si amava, ci si sballava. Nel mio caso recitare era un paradosso miracoloso, fino a 20 anni quasi non potevo parlare per un grave disturbo della parola. Ero un balbuziente grave. Emettevo suoni incomprensibili».

Carmelo Bene è stato, nel mondo del teatro, il suo mentore. Com’è nata la vostra collaborazione?

«Ero uno studente di Lettere, senza fissa dimora e senza grandi prospettive, studente universitario senza troppa convinzione. Proposi al mio relatore, professor Marotti, una tesi sul teatro shakespeariano di Carmelo Bene, “Il Principe dell’assenza”. Pochi mesi dopo la laurea mi arriva una telefonata di Bene, che per me era una specie di mostro mitologico anche minaccioso. Mi da appuntamento al teatro Quirino, dove stava provando il “Pinocchio”. Vado con tutti i tremori del caso.  Aveva in mano due libri, erano la mia tesi pubblicata dall’editore Giusti di Firenze, una delle quali in oro. Dopo mezz’ora: mi fa: “Vai in teatro e dirigi le prove degli attori”. Dopo un’ora, al bar: “Che fai nella vita?”. Avevo vinto un concorso in Rai, una fortuna indicibile per uno sbandato, ragazzo padre, balbuziente, che sbarcava il lunario facendo lo scaricatore allo scalo merci di San Lorenzo. “Che cazzo fai? Vuoi perdere la tua vita in quel baraccone! Parti con me in tournée col Pinocchio”. Mandai la disdetta alla Rai e partii».

Nel frattempo sei guarito dalla balbuzie…

«Un miracolo abbastanza inspiegabile. Feci alcune costose terapie pagate da mia madre con i suoi magri risparmi. Soldi buttati. Ero un ragazzo molto avvenente. Quando stavo con le ragazze nella posa del seduttore le parole mi uscivano fluenti e copiose, come farfalle che evadono da una gabbia di filo spinato. Parlavo per delle ore, Diventavo un logorroico micidiale. Stremavo le ragazze con le parole. Le più insensibili di loro mi mollavamo per questo. Evidentemente ho trasformato il mondo, dove ho potuto, in un gigantesco harem di belle ragazze, nessuno escluso».

Eravate amici, se amici si poteva essere, con Bene?

«Rapporto bellissimo e divorante.  Ovviamente burrascoso e inesorabile come tutti i rapporti veri di Carmelo. Carmelo era un magnifico forsennato. Dormiva di giorno, dopo essersi imbottito di sonniferi, e viveva di notte. Con lui non c’era tregua, si stava sempre sull’ottovolante. Non ci si annoiava, ma ti consumava. Carmelo ti portava sempre al limite, negli atti e nelle parole. Era una sfida permanente. C’è stata grande intimità tra noi. Ci siamo stretti la mano pochi giorni prima che morisse e detto cose che non c’eravamo mai detti. Per me, è stato un privilegio unico aver condiviso tanti anni, tanti momenti, con questo genio, questo amico, questo complice irripetibile di vita. Devo a lui la mia formazione».

Molti lo considerano un grande Maestro. Ma a me, onestamente, interessa sapere altro. Cosa non sopportava dell’attore pugliese?

«Di lui non sopportavo che mi costringeva a fare i conti con i miei limiti e con la pericolante baracca del mio fragile ego».

Era così detestabile come molti lo raccontano?

«Sapeva essere detestabile come pochi ma, nell’essenza, era un uomo di una dolcezza infinita».

Chi era il più grande: Strehler, Albertazzi o Bene?

«Non sono equiparabili. Strehler era il classico grande regista domatore, amava addestrare i suoi attori con severità asburgica ai confini del sadismo. Carmelo non amava gli attori. Lui era un artefice, nel senso elisabettiano del termine. Assumeva su di sé tutti i ruoli del teatro. Albertazzi era un discreto attore. Carmelo non aveva una grande stima di Albertazzi e lui ne soffriva. La grande rivalità a teatro, in realtà, era tra Gassman e Bene. A volte litigavano di brutto, ma come litigano due che si amano e si rispettano profondamente».

Ci racconti qualche dettaglio rissoso dei due…

«La celebre lite al teatro Argentina è una delle più gettonate su Youtube. Io ero presente al fianco di un Carmelo quel giorno svogliato davanti a una platea in calore, ragazzi per lo più. Arrivò Gassman e partì una memorabile disfida pubblica. Vittorio era venuto per fare giustizia sommaria, da padre ferito. Il giorno prima Carmelo aveva maltrattato suo figlio Alessandro in camerino».

Si è mai sentito un incompreso tra i teatranti?

«Non sono mai stato un teatrante. Ho bazzicato il teatro come tanti perché era un eccitante casino, una festa per i sensi. Dopo di che, il mio teatro sono stati gli anni con Carmelo Bene che è qualcosa di più, molto di più, che teatro.

Si fa la fame nel teatro? E’ stato così anche per lei?

«Mai fatta la fame a teatro. Carmelo ci pagava regolarmente ogni settimana. La mia indigenza veniva da lontano, dalle mie origini».

Da veneto, a che età è avvenuto il suo sbarco nella Capitale?

«A tre anni, quando i veneti erano allora i pezzenti d’Italia ed emigravano in cerca di fortuna. Mio padre, un uomo per niente banale, trovò lavoro come portiere di condominio. Vivevamo praticamente in un sottoscala e a tavola planavano solo enormi piatti di pastasciutta. La carne era un lusso. Quella era un’epoca in cui, per fortuna, ci si poteva inventare la vita».

Che rapporto ha con la città? Anche lei la considera una grande meretrice che strega, corrompe e poi abbandona?

«Questo valeva soprattutto negli anni Sessanta, la Roma raccontata da Fellini e da Flaiano. Oggi non è neanche più una battona  da spenderci due centesimi. E’, semplicemente, un’ex magnifica suggestione stuprata da mille cose, a cominciare dagli amministratori incapaci e corrotti. Appena posso, scappo. Il tasso di volgarità e di violenza della gente sta superando il livello di guardia. La mia soglia di sopportazione è molto bassa, la mia quota zen pure, non voglio diventare un killer per motivi futili».

Come mai, poi, la sua scrittura è finita nel mare magnum del giornalismo, in primis cartaceo?

«Tutto si ricollega sempre al nome di Bene. Il mio destino. Dopo anni di collaborazione intensa e stremante, sfiorammo in un’occasione la rissa fisica al Teatro dell’Università dove stavamo provando il Macbeth. Precario più che mai e consunto dall’esperienza carmelitana, due giorni prima avevo proposto a Gianni Melidoni, all’epoca prestigioso capo della redazione sportiva del Messaggero, quando i giornali erano ancora potere, un’intervista esclusiva con Carmelo su temi calcistici. Melidoni accettò. Due giorni dopo, la rissa. Che fare? Non avevo una solida etica alle spalle, nessuno me l’aveva insegnata. Decisi di consegnare lo stesso l’intervista, a insaputa di Carmelo. Insomma, la mia storia giornalistica iniziò al Messaggero con un clamoroso falso in prima pagina, anche se poi non era propriamente un falso. Con Carmelo passavamo ore a delirare sui nostri miti calcistici. Diciamo che era un’intervista non autorizzata».

Come reagì Carmelo bene alla pubblicazione?

«Il giorno dopo, euforico, andai da Melidoni per ringraziarlo. Lui, mangiandosi la cravatta, era un suo vezzo, mi disse che l’aveva appena chiamato Carmelo Bene, protestando di non aver mai rilasciato quella intervista. In quel momento volevo solo una cosa: sprofondare nel sottosuolo del Messaggero, farmi inghiottire per sempre. La mia storia di giornalista era finita prima di cominciare. Melidoni non colse per fortuna il mio cupio dissolvi. “Sai, era palesemente ubriaco, ho fatto finta di dargli retta…”. Devo molto, forse tutto a Melidoni. Con tutte le mie turbe, senza di lui sarei forse oggi a vendere violette ai semafori».

Come andò a finire?

«Che iniziai a fare il giornalista, non avendone la minima attitudine. A me interessava solo scrivere, la mia terapia da sempre di ragazzo afasico e disadattato. Ho solo avuto la fortuna di aver trovato negli anni persone che apprezzavano la mia scrittura».

In quanto a Carmelo?

«Una settimana dopo eravamo più amici di prima. Lui, che era il più grande corsaro, apprezzava gli atti corsari. Mi disse solo che Antognoni lo aveva sfidato a duello a causa di quella intervista».

Oltre alla scrittura, si riconosce qualche altro talento o qualità?

«Ritengo che bisogna darsi un nome solo dopo i cinquanta. Il mio nome da adulto è Rabdo Man. L’uomo che trova l’acqua o i metalli preziosi sotto la superficie. Per il resto, so fare il caffè napoletano e canto discretamente le canzoni di Elvis Presley. Sono anche un discreto giocatore di ping pong. Diciamo un giocatore anomalo. Costringo i miei figli Gian Maria e Carlotta a interminabili sessioni».

Quali sono stati, agli inizi della sua avventura giornalistica, i suoi maestri?

«Diciamo ispiratori più che maestri. Tra i giornalisti, Antonio Ghirelli il primo su tutti, lo stesso Gianni Melidoni, mi piacevano molto Brera, Arpino e Ormezzano».

Qual è la stata l’esperienza peggiore vissuta nei giornali?

«La vita di redazione era una specie d’inferno per me. Ero una talpa. All’interno di questi open space dove si diffondevano spesso dinamiche sordide e rumori inaccettabili scavavo le mie tane invisibili. Oggi, che sono uno svolazzante libero professionista, è la condizione perfetta. Orgasmo puro».

Con quali direttori ha avuto pessimi rapporti?

«Più che pessimi, direi uno scarso feeling. Ma spesso era colpa mia, della mia riottosa orsaggine. Pessimo fu il rapporto con Ettore Rognoni a Mediaset. Il suo sadismo aveva una matrice torva che mi paralizzava. Con Pietro Calabrese non ci siamo presi al Messaggero, ma poi mi chiamò a Panorama e il nostro rapporto è diventato buonissimo. Devo molto all’amico caro Giuseppe di Piazza, che mi precipitò nella vertigine del glamour e delle star femminili con il mensile Max e poi con Sette. Ma il mio direttore, senza ombra di dubbio, è Giulio Anselmi. Mi portò con sé all’Espresso, dopo esserci conosciuti al Messaggero. Oggi è uno dei miei migliori amici».

Cosa ha apprezzato di più di Anselmi, quando è stato il suo direttore, dapprima al Messaggero e, poi, all’Espresso? Che qualità e capacità, a distanza di anni, gli riconosce?

«Forse il più importante direttore italiano del dopoguerra. Fu lui da co-direttore a gestire la scabrosissima e bollentissima patata di Tangentopoli al Corriere della Sera. Rigenerò e salvo dal fallimento il Messaggero. Fece benissimo anche alla Stampa, con la riforma grafica del giornale».

Oggi, presidente dell’Ansa, tutti gli riconoscono di aver pilotato al meglio una delle più importanti agenzie europee nella transizione dal vecchio al nuovo delle moderne tecnologie. La sua qualità più grande?

«Almeno tre: l’indipendenza ai limiti dell’autolesionismo, il senso della notizia e la capacità di gestire macchine complesse come i quotidiani».

Come mai, nel corso della sua carriera giornalistica, ha girovagato tra una testata e l’altra? Insoddisfazione, interesse economico, scarsa libertà, nomadismo intellettuale?

«Il mio nomadismo ha un solo movente. Sono sempre andato dove il mio istinto di rabdomante mi portava. Ho sempre seguito le persone più che le testate, a volte sbagliando. Per il resto, ammetto che anche quello economico è stato qua e là un movente. Comprensibile, per uno cresciuto in un sottoscala».

Le fa più schifo la censura o l’autocensura?

«Penso che l’autocensura sia necessaria, ma non certo nel senso di amputare le proprie risorse, caso mai liberarle. Se tu ami scrivere, devi avere una forte autocensura. Riconoscere quando la tua scrittura ha delle falle o quando subisce i fatali passaggi a vuoto, la meccanicità odiosa dell’inerzia. In quel caso, il super Io deve agire inesorabile. Se sbrachi una volta, ti concederai di farlo una seconda e poi una terza, e via degenerando. L’inizio della fine».

Si è mai autocensurato?

«Nei termini in cui ho descritto l’autocensura, sì, sempre, ogni giorno. M’impongo che la scrittura abbia sempre un margine di avventura. Anche quando scrivo le mie interviste per i settimanali femminili».

Ha mai avuto una notizia scottante e l’ha riposta nel cassetto?

«Beh, sì, è capitato. Per inadeguatezza delle prove o perché, magari, investivano degli amici, ho preferito non pubblicare».

Per lei la notizia non è sacra, non si dà a tutti i costi?

«Assolutamente no! Da questo punto di vista, devo avere qualche antico ceppo meridionale. L’amicizia, per me, è sacra. Non me ne frega niente della notizia. Sono solo coriandoli insignificanti del rumore del mondo. Più del vero è interessante il verosimile, soprattutto se mai accaduto».

Qual è stata la peggiore toppa nella quale è incappato?

«Ero sull’Himalaya con altri due o tre giornalisti al seguito della spedizione di Messner per la conquista del suo decimo 8mila metri e mancai la sua conferenza stampa in cui annunciò d’aver incrociato lo Yeti. Ero in albergo al caldo, probabilmente nudo, ad ascoltare l’ultimo cd di Nick Cave. Il mio giornale uscì senza yeti. Mai stato portato per la notizia. Sono stato, da questo punto di vista, un pessimo giornalista».

Chi stima, oggi, tra i giornalisti?

«Stima assoluta per Giuliano Ferrara, anche se definirlo giornalista è molto ma molto riduttivo. Quando scrivevo per il Foglio, lui direttore, ho goduto di una libertà totale e ho scritto, forse, i miei pezzi migliori in assoluto. La sua intelligenza mi seduce. Apprezzo molto anche Massimo Fini. La stessa libertà l’ho ritrovata solo anni dopo scrivendo per Roberto D’Agostino e il suo Dagospia».

Uno degli articoli di cui, forse, va più fiero, è l’inchiesta sulla prostituzione infantile, raccontata, se non erro, per l’Espresso. Come nacque quel lavoro?

«Sulle orme di Anselmi, mi ritrovai a dover fare il giornalista vero all’Espresso, all’epoca un grande settimanale. Non ho mai avuto dalla mia l’accanimento petulante dei giornalisti d’inchiesta. Capitai quasi per caso a fare quell’inchiesta. Fu più che altro un pretesto per tornare in Brasile, a Rio, dove ho anche vissuto e avuto una casa. Ciò non toglie che venne, alla fine, un’ottima inchiesta. Non so perché sono stato spesso individuato nei settimanali come autore per questi reportage sul sesso viziosetto. Sono finito a Praga sulle tracce di un pedofilo e in Moldavia dove mi sono spacciato per un italiano che cercava la moglie giovane e avvenente nei cataloghi delle agenzie. Fui anche forse il primo giornalista rimborsato per una fellatio subita a Torino da una massaggiatrice cinese nel quadro di una mia inchiesta sul tema, regolarmente finita nella nota spese».

Sincero: è mai stato attratto dal sesso mercenario?

«Beh, lascerei il concetto di sincerità per questioni più scabrose, come il rapporto con i propri demoni. In quanto al sesso mercenario, mi ha sempre colpito di più la sua rappresentazione visiva, la sua messa in scena, come si addobbavano e come ti adescavano le signore dei marciapiedi o anche quelle che ti accolgono nelle alcove private. Isabella Biagini, amica geniale purtroppo scomparsa, mi raccontava quando usciva di notte in macchina con Fellini e Mastroianni e andavano nella pineta di Ostia a farsi raccontare morbosamente le storie dalle puttane».

I trans: l’hanno mai incuriosito?

«A proposito di adescamento loro sono inarrivabili. Quel loro giocare con il feticcio della femminilità, quel gioco di prestigio di far apparire e sparire arnesi smisurati sotto la gonna, spesso falsi, li accostava a delle perturbanti divinità. Per alcuni anni le vie di Milano e anche di Roma, di notte, pullulavano di queste figure mitologiche, code di macchina in fila di uomini, quasi tutti etero insospettabili in fila ad aspettare il loro turno. Ne ho intervistati diversi di questi trans. Anime a volte delicatissime. Altri, mercenari spietati. Di alcuni sono diventato amico».

Da intervistatore seriale, chi è l’intervistatore che apprezza di più?

«Ne ho fatte più di mille, quindi, sì, ammetto, sono seriale. Più che altro mi piace collezionare le voci dei miei intervistati. Un giorno monterò uno spettacolo teatrale. Beh, direi i soliti noti, negli anni, ho apprezzato Sabelli Fioretti, Perna, Lorenzetto. Mi piace molto anche Malcom Pagani».

Di quale intervista va più fiero? E quale, invece, se potesse, rifarebbe daccapo?

«Vita di Carmelo Bene, pubblicata da Elisabetta Sgarbi per Bompiani fu una sterminata intervista. Molti la tengono nel comodino accanto al letto come un oggetto taumaturgico. Tra le più di mille dovrei citarne troppe, così a braccio ricordo quelle a Tomas Milian, il pugile Tiberio Mitri (morto suicida), Ornella Vanoni, Lucio Dalla, Patty Pravo, Susan Sarandon, la stessa Rosalinda Celentano e Amanda Lear. Rifarei quella con Toni Servillo. Era il nostro primo incontro. Ne è uscita, per colpa mia, un’intervista un po’ accademica. I titolisti e il redattore della Stampa di allora fecero uno scempio con tagli e titoli».

Le sarebbe piaciuto lavorare nel cinema e scrivere delle sceneggiature? Come mai non è accaduto? Non si sentiva all’altezza?

«Mi è capitato di collaborare a un soggetto cinematografico sul mondo degli Ultras, mai andato in porto. Credo sia un mestiere, un artigianato della scrittura come altre. Semplicemente non è mai capitato».

Qual è il regista italiano che apprezza di più?

«Germi, Fellini, un certo Monicelli, e tutto Tinto Brass. Tra gli stranieri, Bresson e Malick solo oltre il cinema».

E attuali?

«Sorrentino».

Lo dice per amicizia?

«No, no. Lo dico perché lo penso. Tra l’altro, mi piace molto anche come scrittore».

Non trova che in Paolo Sorrentino ci sia una sorta di autocompiacimento nelle storie che racconta?

«Qualora ci fosse, e non capisco bene cosa s’intende, non mi disturba. Se ti compiaci di quello che scrivi significa che non potevi fare di meglio e dunque sei probabilmente destinato a compiacere anche il lettore».

Come nascono le sue partire a ping-pong con il regista napoletano?

«In realtà le mie prime partite a ping-pong risalgono a Carmelo Bene, nella sia villa di Forte dei Marmi. Lui interpretava un ping pong tutto suo. Immaginate Pinocchio con la racchetta che volteggia con la leggiadria un po’ legnosa della marionetta. Il che non gli impediva d’infilare clamorose e imprendibili schiacciate. Con Paolo e con Malcom Pagani abbiamo giocato una volta sola, a casa mia, in Maremma. È decisamente un ottimo pongista, Paolo, un po’ discontinuo. Ama attaccare, chiudere i colpi».

Ha tratto insegnamenti di vita dal ping-pong? Se sì, quali?

«A parte l’esercizio fisico che, portato all’estremo può spaccarti la schiena, è come tutti gli sport individuali una sfida cerebrale a disinnescare le virtù degli avversari e mascherare i tuoi limiti. Per chi la legge, tutti sanno la sua passione, morbosa, per Federer».

Non pensa che, invece, i più grandi, i più estrosi e divertenti, siano i stati tennisti alla Agassi, Lendl, Edberg, Becker, Ivanisevic?

«Come provocazione non è nemmeno divertente. Non lo penso naturalmente, a eccezione di Edberg che, sotto rete, era grazia allo stato pure. Federer è grazia pura in ogni centimetro del campo. Inarrivabile. Il tifo per Federer sconfina quasi sempre nella patologia. Come accade quando si è al cospetto della bellezza incomprensibile. Con Giampiero Mughini ci scambiamo messaggi morbosi, euforici o desolati quando gioca Federer».

Dalla sua scrittura, si evince una passione per i libri. È un bibliofilo come Mughini o un semplice divoratore di libri?

«No, no, non sono affatto un bibliofilo come Mughini. Sono uno che ha letto tanto, soprattutto da giovane. Per il resto, ho i miei libri feticcio, come una vecchia edizione dell’Assommoir di Emile Zola».

Quali autori hanno lasciato un’impronta indelebile nella sua vita?

«Tra tutti, Celine, Zola e Pynchon.  Aggiungo Lovecraft e Poe. Certamente Cervantes e Rabelais. Inevitabili i Salinger e i Fante. Aggiungo Philip Dick. Mi piacciono molto anche David Foster Wallace e i noir di Mickey Spillane».

·        Giordano Bruno Guerri.

Alessandro Rico per la Verità il 10 maggio 2021. Giordano Bruno Guerri, storico, saggista ed editorialista, presiede la Fondazione Vittoriale degli italiani. E alla monumentale residenza di Gabriele d' Annunzio sul lago di Garda, che ha compiuto 100 anni, ha dato nuova linfa, arrivando praticamente a raddoppiare il numero dei visitatori. Da qualche settimana, ha ottenuto dal prefetto di Brescia il permesso di riaprire il parco, «per evitare assembramenti altrove». Ma ormai sono ripartite anche le visite al complesso museale.

Come sta andando l'affluenza?

«L' inizio è stato abbastanza buono, nonostante le giornate di pioggia: sono venute in media 200 persone al giorno. Certo, niente rispetto al 2019».

Purtroppo, era prevedibile.

«Il 4 maggio, martedì, abbiamo avuto 120 visitatori. Il 7 maggio 2019, sempre un martedì, ne avemmo 1.155. Dieci volte di più».

Nel frattempo, avete provveduto ad alcuni restauri?

«Abbiamo aperto sei cantieri. Abbiamo completato il Parlaggio, cioè l'anfiteatro. Abbiamo pulito la piazzetta Dalmata e la piazza dell'Esedra, i cui marmi erano diventati neri. Ora sono tornati rosa. E abbiamo ridipinto le facciate».

Avete risistemato anche l'aereo del volo su Vienna?

«Esatto, l'Ansaldo Sva».

Il 20 maggio uscirà il film con Sergio Castellitto su d' Annunzio.

«Sì. Ma ancor prima, il 15, avremo l'inaugurazione del roseto, con la rosa Gabriele d' Annunzio, che abbiamo creato dopo anni d' innesti e che ha già vinto due premi internazionali, per la rosa più bella e per la rosa più profumata».

Come si sarebbe comportato, il Vate, dinanzi alla pandemia?

«I paragoni storici sono sempre azzardati. Ma c' è un parallelo interessante».

Ovvero?

«Nel settembre 1920, a Fiume arrivò una nave cinese e si scoprì che era infestata da topi che portavano la peste».

Guarda caso, nave cinese. E che successe?

«Vennero subito presi provvedimenti drastici. D' Annunzio stesso comandò uno sterminio dei topi.

Si figuri: c' erano 10.000 legionari armati che s' annoiavano Partì una caccia al topo tremenda. E l'epidemia fu fermata subito».

Più efficace la Reggenza del Carnaro, di molti governi contemporanei «Be', con i fucili».L' arditismo di d' Annunzio potrebbe insegnare qualcosa a un' Italia che, almeno per metà, è ancora terrorizzata dal virus?

«C' è il motto "Memento audere semper", ricordati di osare sempre. Però una cosa è la guerra, un'altra è questo nuovo nemico, che si combatte solo con alcuni dei provvedimenti che sono stati effettivamente presi. Certo, i provvedimenti appaiono spesso tagliati con l'accetta, piuttosto che con il bisturi».

Ad esempio?

«Il coprifuoco mi sembra una misura eccessiva. E anche la disposizione sul pubblico nei teatri all' aperto, che ci danneggia moltissimo».

Perché?

«Il decreto dice che potrebbero essere ospitate fino a 1.000 persone, il che andrebbe bene. Ma poi specifica: "Massimo la metà della capienza". E quindi, nel nostro caso, i posti si riducono a 750. Una penalizzazione incomprensibile».

A metà mese il coprifuoco dovrebbe essere rivisto. Ma nel frattempo, nell' incertezza sulla regola che vigerà in estate, teme che i turisti stranieri evitino l'Italia?

«La mossa di Mario Draghi, di dire "venite in Italia", è stata molto buona, perché ha fatto capire che le restrizioni diminuiranno. Però, indubbiamente, l'incertezza è un freno. Noi non sappiamo ancora a che ora potremmo cominciare i concerti».

Dovrete anticipare?

«In genere iniziavamo alle 21. Bisognerà iniziare almeno alle 20. E comunque, la gente avrà il problema del rientro a casa».

Cioè?

«Il nostro festival vende biglietti in tutto il mondo, fino alla Nuova Zelanda. Ma magari ci sono persone che arrivano da Torino, o da Firenze, ed è difficile che riescano a tornare a casa entro le 22 o le 23».

Quando occupò Fiume, d' Annunzio redasse una Costituzione sorprendentemente libertaria per l'epoca. Centouno anni dopo, discutiamo di ddl Zan e di come limitare la libertà d' espressione, nel nome della lotta alle discriminazioni. Non è paradossale?

«Ripeto, i paragoni storici sono un azzardo. Certamente, la Carta del Carnaro era estremamente liberale, tanto che alcuni spunti sono finiti anche in Costituzioni del dopoguerra. L' omosessualità, a Fiume, era tollerata e praticata».

C' è una differenza tra tollerare o praticare e provare a imporre l'ideologia Lgbt?

«Be', a Fiume c'era uno spirito libertario, ma la libertà aveva dei limiti anche lì» (sorride).

E nella società di oggi, esiste, se non una dittatura, una «dictablanda» del pensiero unico?

«Il politicamente corretto. Uno dei drammi di questa epoca, perché conduce a eccessi spaventosi, a una formazione del pensiero statica, a limitazioni della libertà d' espressione. E, come conseguenza, ha anche quell' altro fenomeno, ancora peggiore, che è la cancel culture. Un abominio storiografico e intellettuale».

D' Annunzio, della cancel culture, sarebbe un bersaglio perfetto.

«Sì, anche se tutto il mio lavoro di questi anni è stato un tentativo di liberarlo dalla damnatio memoriae del fascismo».

In che senso?

«Benito Mussolini ha fatto credere per 25 anni che d' Annunzio fosse fascista. Ma lui non lo era. E contrariamente a quel che accade di solito - la storia scritta dai vincitori - in questo caso sono stati i vinti a imporre la loro versione. Così, l'Italia repubblicana e democratica ha lungamente continuato a credere a Mussolini, sul d' Annunzio fascista».

Il regime guardava con estremo sospetto al Vate, no?

«Con estremo sospetto, diffidenza, controllo. Questo è proprio il tema del film Il cattivo poeta, con Castellitto».

Ci dia qualche anticipazione.

«Si parla di un'altra spia, oltre a tutte quelle che d' Annunzio aveva già intorno, voluta espressamente da Achille Starace».

Chi era?

«Il federale di Brescia, che lo sorvegliava perché il Vate era su chiare e manifeste posizioni antinaziste».

Di Adolf Hitler, D' Annunzio ne disse di ogni.

«"Imbianchino", "buffone", "Charlot"». Qualche anno fa, lei affermò che gli allarmi sul ritorno del fascismo erano ridicoli, e che, tuttavia, si sarebbe manifestato un «fascismo economico», fondato sull' imperativo del lucro. A cosa pensava?

«Pensavo alle grandi multinazionali della comunicazione, come Facebook e tutti i monopoli del controllo sociale. L'abbiamo visto bene con l'oscuramento di Donald Trump».

Torniamo a Draghi. Ha fiducia nel premier, o crede che si sia infilato nel labirinto delle difficili mediazioni tra partiti?

«Se c' è uno che può superare questi inghippi è proprio Draghi, che gode di autorevolezza e prestigio e, in una fase in cui i problemi diventeranno sempre più economici, ha anche gli strumenti per risolverli».

Lo vedrebbe bene al Quirinale?

«Sarebbe uno splendido presidente della Repubblica. Ma credo abbia ambizioni europee».

L' Europa, con l'allentamento dei vincoli di bilancio e il keynesismo del Recovery fund, è davvero cambiata?

«Mi auguro abbiano capito che l'Europa deve marciare unita, in modo meno impiegatizio, burocratico e stringente. Da un lato, bisogna prendere decisioni davvero comuni, ma dall' altro lasciare più autonomia alle nazioni».

Lentezze ed errori sui vaccini, a paragone con il successo della campagna d' immunizzazioni nella Gran Bretagna post Brexit, hanno demolito quella narrativa del «nulla salus extra Europam»?

«Indubbiamente. È detto talmente bene, che non c' è altro da aggiungere».

Il tramonto di Angela Merkel aprirà una guerra di successione alla leadership europea. Chi potrebbe spuntarla?

«Se vincerà la presidenziali, Emmanuel Macron».

Per noi, sarebbe una buona notizia?

«I nostri rapporti con la Francia non sono mai stati idilliaci. Siamo due Paesi in competizione l' uno con l' altro. Per cui, decisamente non la vedrei come una buona notizia. Si salterebbe dalla padella alla brace».

Andrea Scanzi sostiene che la destra non ha uno straccio d' intellettuale da 300 anni. Che bisogna rispondergli?

«Di studiare» (risata).

A parte d' Annunzio, che consigli di lettura possiamo dargli?

«Se non vogliamo citare i soliti, come Luigi Pirandello, io direi Filippo Tommaso Marinetti: ha compiuto una rivoluzione culturale nei rapporti fra arte e vita, che ha investito tutto il mondo e sulla quale campiamo ancora oggi».

E la destra politica che prospettive ha? Andiamo verso un nuovo arco costituzionale, da cui Fdi è già fuori e dal quale qualcuno vorrebbe eliminare anche la Lega?

«L' arco costituzionale fu un errore che ha impedito all' Italia di avere una destra normale. Ora che la destra normale esiste, sarebbe uno sbaglio clamoroso escludere Fratelli d' Italia. E della Lega non parliamo neppure: è un partito con qualche eccesso verbale, ma normalissimo».

In questi giorni ha tenuto banco la polemica su Fedez. È possibile immaginare un influencer alternativo al mainstream? Un influencer «dannunziano»?

«D' Annunzio stesso lo sarebbe.

E con molta più sostanza degli influencer fatti solo di manifestazione esteriore, visiva, rapida».

Insomma, d' Annunzio oggi userebbe Instagram?

«Non lo so. Ma sarebbe di sicuro un grandissimo comunicatore».

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 2 marzo 2021. La storia è una di quelle materie che noi, più di ogni altro popolo al mondo, trascuriamo bellamente. Ne abbiamo avuta una talmente ricca che, forse, questo ci porta a sentirci come gli antichi romani descritti in Gli italiani sotto la Chiesa e cioè dei “newyorkesi annoiati” dalla nostra opulenza. Poi ci sono le eccezioni, come quella rappresentata da Giordano Bruno Guerri: storico, scrittore, intellettuale a tutto tondo e dandy “di una sciatteria non casuale”. Solo lui, probabilmente, avrebbe potuto scrivere un libro, quello sopra citato, che va “Da San Pietro a Twitter” come riporta il sottotitolo. Quasi 800 pagine – appena uscite per La Nave di Teseo – che scorrono veloci a partire dall’avvento dei primi cristiani nell’antica Roma fino ai giorni nostri. E grazie a questo tomo, imponente ma fluido e a tratti persino ironico, capiamo meglio vizi e virtù (più i primi delle seconde) che abbiamo ereditato dalla presenza sul suolo patrio della Santa Sede. Ma non solo, perché con lui abbiamo ripercorso anche i motivi che hanno portato gli italiani alla loro proverbiale doppia morale (a volte tripla), così come alcune questioni di attualità che sono diretta emanazione del nostro passato di convivenza con il Vaticano. Come “l’attesa dell’uomo miracoloso” incarnato in queste settimane da Mario Draghi che “non è certo da popolo maturo”, anticipata da quello “scherzo della storia” che è stato Giuseppe Conte, una figura politica tutta nuova che “finirà nel teatro delle maschere”. E ancora, il perché Papa Francesco sia tanto amato quanto odiato fino a sconfinare nel fanatismo da “un conservatorismo cattolico deprecabile”, passando per la “fiducia nella magistratura” declamata da ogni imputato più per paura che per vero rispetto, fino al “politicamente corretto” che in fondo in fondo è “il vero male del nostro tempo”. Intanto, a tutto ciò si aggiunge una pandemia che rischia di affossare quel che di meglio ci ha lasciato la nostra storia. Il Vittoriale, che Giordano Bruno Guerri dirige, “nel 2020 ha perso 2 milioni di euro su 3 di fatturato”. E così, non ci resta che aggrapparci agli insegnamenti dei grandi che ci hanno preceduto come, appunto, Gabriele D’Annunzio: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza”.

Nel suo libro parte dalle origini, descrivendo i primi cristiani come fanatici che andavano contro la legge e spesso provocavano disordini. È sbagliato associarli all’estremismo islamico che tanto ci preoccupa in questi anni?

«Non è perfettamente coerente il paragone, perché l’Islam è una religione aggressiva e punitiva verso gli infedeli. Il cristianesimo non si è sviluppato in questo modo. I primi cristiani venivano combattuti dai romani per la loro passività, non perché aggredissero o volessero convertire gli altri con la forza. Erano rivoluzionari pacifici».

Mentre invece i romani li descrive come dei “newyorkesi un po’ annoiati”.

«Erano la massima potenza mondiale, quindi si comportavano di conseguenza. Il cristianesimo cresce in un periodo di loro decadenza, che si accompagna a una certa noia di essere così potenti».

Paragone per paragone, sembra di vedere descritti gli attuali Stati Uniti e il loro apparente declino.

«I paralleli storici sono sempre azzardati quanto affascinanti, ma in questo caso direi di sì. C’è una curva nel potere, per cui si sale e a un certo punto inizia la discesa. È accaduto così per tutti gli imperi e sta accadendo anche agli Stati Uniti. Ma è solo l’inizio».

In Gli italiani sotto la Chiesa lei fa risalire certi vizi che ci caratterizzano proprio a quegli anni. In particolare un certo opportunismo, come quando ci si convertiva al cristianesimo solo in punto di morte per assicurarsi la vita eterna.

«È il nocciolo del libro, a parte la constatazione ovvia che il Vaticano ha combattuto e impedito per lungo tempo il formarsi di uno stato nazionale unitario. È un danno enorme e se siamo indietro rispetto ad altri paesi come Francia e Gran Bretagna è anche per questo motivo. E l’opportunismo è dovuto alla doppia morale, visto che la Chiesa stessa ha sempre agito, semplificando, al motto di “predica bene e razzola male”. Un esempio negativo. Chiarisco all’inizio che la Chiesa ha avuto anche dei meriti enormi nell’aiuto ai poveri e ai bisognosi e nel favorire e conservare la bellezza e la cultura. Di questo va ringraziata, ma purtroppo in generale ci ha fatto vivere come Arlecchino servitore di due padroni, che poi in realtà erano tre: il potere ducale, dell’imperatore e del Papa. Barcamenarsi fra questi tre poteri richiedeva dosi tali di opportunismo, di furbizia e di spirito di sopravvivenza che ha condizionato il carattere nazionale».

Per quello dopo l’unità d’Italia per 40 anni il primo partito è stato la Democrazia cristiana e ancora oggi ci sono politici che si appellano al cuore immacolato di Maria?

«A parte questi casi eclatanti, la Chiesa condiziona ancora molto la politica. La prima cosa che fa un presidente del governo è chiedere udienza al Papa. Vedremo cosa farà Draghi. È vero che viviamo in un periodo di laicizzazione, però sono fenomeni che richiedono tempi lunghissimi».

Altro aspetto interessante che mette in evidenza in questa sua “antistoria” è un certo anticlericalismo degli stessi cattolici. Da cosa deriva?

«È legato alla fede in Dio, in Gesù e più spesso nei santi o nei loro rappresentanti in terra, anche se poi si capisce che spesso non sono santi. Gli stessi Papi non hanno dato un buon esempio, a partire dal periodo della “pornocrazia papale” fino a errori enormi di papi recenti comunque fatti santi».

Facendo un balzo in avanti, mi sembra sia stato piuttosto indulgente con Papa Benedetto XVI. La sua decisione di abbandonare la ritiene dettata da problemi personali o dall’impossibilità di far fronte a certi scandali che erano in corso nella Chiesa?

«Quello lo definisco un capitolo di cronaca, perché la storia ha bisogno di sedimentare, di documenti e che gli episodi siano conclusi. Comunque, sulle dimissioni ci varie sono ipotesi. Quella che sia stato costretto perché accerchiato e in difficoltà, così come quella che non ce la facesse più ad andare avanti. Da uomo colto e tedesco in ogni fibra, forse si è reso conto che non riusciva più a tenere le redini di una macchina così complessa. Nel complesso, però, è stato un Papa importante che ha avviato riforme che lo stesso Francesco sta proseguendo. C’è una continuità fra i due, nonostante le apparenti differenze».

Papa Francesco ha invertito la tendenza: amatissimo da chi prima era distante dalla Chiesa e criticatissimo dai cattolici più intransigenti. Anche questo è un bel paradosso.

«Perché è un Papa di rottura, quindi ha provocato una divisione. Ma ho l’impressione che venga amato da certi ambienti più per i suoi aspetti esteriori. Mentre non c’è dubbio che dia molto fastidio per un rinnovamento effettivo che sta imprimendo alla Chiesa. Sia sull’aspetto finanziario, dove sta facendo uno sforzo di chiarezza, sia sul fronte della pedofilia, dove invece ha tirato un po’ il freno. È anche vero che viene attaccato fino a sfiorare il fanatismo da chi ha a che fare con un mondo di conservatori che io trovo deprecabile. Nello stesso tempo, il futuro del cattolicesimo è in Africa e in Asia, per cui credo che lui abbia una visione molto più ampia rispetto all’Occidente, dove intendiamo la figura del Papa in modo tradizionalista, ancor di più in Italia».

Nel suo libro arriva fino a Mario Draghi, che è stato salutato come il salvatore. L’ennesimo di una lunga lista, che poi purtroppo non hanno portato i risultati sperati. Da dove nasce questo bisogno di un “uomo forte”?

«Abbiamo da sempre un atteggiamento di attesa messianica del salvatore, che sia l’uomo forte, il superuomo, il santo, il miracoloso, comunque qualcuno che ci salvi dai nostri guai. Quindi con una attesa e una fiducia smisurata che provoca altrettanto odio, ferocia e cattiveria. Questo è un atteggiamento da popolo non maturo. L’attesa del salvatore è l’abbattimento del medesimo».

Un riferimento puramente casuale a Giuseppe Conte?

«Conte è uno scherzo della storia. È un personaggio, senza fare considerazioni sulla persona ma sulla sua vicenda, che finirà nel teatro delle maschere. Il simbolo di qualcosa di nuovo, cioè di qualcuno che arriva al potere per caso. Quasi tirato a sorte. Ma anche di chi ha avuto l’abilità a mantenere quel potere a lungo, gestendolo persino in un modo non disastroso. Credo che avremo a che fare ancora con Conte, nonostante sia una figura davvero teatrale».

D’altronde la politica non sembra essere l’unico “teatrino”. Ricordo che lei, in tempi non sospetti, dichiarò che era in atto un “imbarbarimento della politica” riferendosi ai processi che erano stati istituiti verso Matteo Salvini. E poi è scoppiato il “caso Palamara”, con tutte le rivelazioni che ne sono conseguite… forse già era a conoscenza di qualcosa?

«Non ero informato, solo che la nostra magistratura è influenzata in modo tremendo dalla politica e anche dai nostri vizi nazionali. Che sono della furbizia, la camarilla, il formare i gruppetti, insomma siamo ancora ai “furbetti del quartierino”. Come di un prete ci si aspetta che il suo operato sia “limpido”, così ce lo si aspetta dalla magistratura. In realtà nessuno ci crede, ma quando ci si sbatte il naso in modo così clamoroso ecco che arriva lo sconforto. Una delle più grandi menzogne nazionali alla quale assistiamo è l’imputato che dichiara “ho fiducia nella magistratura”. Non è vero, nessuno ce l’ha, ma lo dicono per paura della magistratura».

Nel frattempo l’Italia, con tutti i problemi che lei ha descritto, combatte la sua battaglia contro la pandemia e uno dei settori più in difficoltà è quello della cultura. Da direttore del Vittoriale degli Italiani, quali sono i maggiori problemi che ha riscontrato?

«Le dico solo che il Vittoriale nel 2020 ha perso 2 milioni di euro su un fatturato complessivo di 3 milioni e 400mila euro. E questi primi due mesi del 2021, aprendo il 2 febbraio con molte limitazioni, ci hanno portato dai 20mila visitatori dell’anno scorso ai 2mila attuali».

Cosa chiede alle istituzioni?

«Intanto è abbastanza stupefacente il cambiamento di visione che questa pandemia ha generato sul mondo della cultura. Ci siamo sempre lamentati che gli italiani non vanno a teatro, nei musei, al cinema, in biblioteca, ed è vero, solo che da un giorno all’altro sono diventati luoghi affollatissimi, come un qualsiasi aperitivo. È un assoluto controsenso, perché sono posti, come le scuole, dove gli ingressi possono essere regolamentati, vigilati e le distanze mantenute. C’è questa scissione mentale sorprendete. Noi per esempio non possiamo aprire il sabato e la domenica, le sembra normale?»

Per cui, più che aiuti economici avreste bisogno di maggiore libertà di manovra?

«Io ho privatizzato il Vittoriale, come chiedevano i governi a tutte le Fondazioni dagli inizi degli anni ’90 in poi. Così facendo ho rinunciato al denaro pubblico in cambio di una maggiore agilità di gestione. Ci sostentiamo con i biglietti che vendiamo e le nostre iniziative di noleggio. Per questo, non voglio chiedere soldi, ma che vengano estesi certi aspetti sì. Come la cassa integrazione che sarebbe necessario duri più a lungo di marzo, che si possa riaprire in sicurezza anche il sabato e la domenica e che vengano ridotte le tasse come Imu e Tasi. I musei sono delle aziende. E il Vittoriale è una azienda particolare, dove ho letto che lei sente ancora la presenza del Vate circolare fra le stanze. Hanno un po’ enfatizzato questa mia dichiarazione. Non mi aspetto di incontrarlo, volevo dire che si sente la sua presenza».

Ma oggi esiste una figura come quella di Gabriele D’Annunzio?

«Magari ci fosse! Sono figure che capitano ogni qualche secolo, quindi sperare di averne un’altra a distanza di cento anni è difficile. Lui è stato straordinario perché era un genio rinascimentale piombato fra ‘800 e ‘900. Un uomo che fa molte cose diverse, un poeta, un guerriero, un amante, un esteta, un innovatore, un modernizzatore e che porta avanti tutto al massimo grado. Sono figure, purtroppo, molto rare».

Qual è il più grande insegnamento che ha tratto da D’Annunzio?

«Posso riassumerlo in due frasi, che non sono le più famose. “Non chi più soffre ma chi più gode conosce” che è una profondissima verità e si riallaccia a quello che dicevamo prima della Chiesa perché siamo cresciuti con una educazione sostanzialmente penitenziale. Non solo noi come popolo, ma anche come individui. La sofferenza e la rinuncia visti come dei meriti, mentre invece il godimento è la ricchezza. Non solo inteso nel sesso, ma nel piacere della bellezza, della natura, della libertà. Contro la cultura del cilicio, tanto per intenderci. L’altra frase è questa: “Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza”. È difficilissimo, però è necessario sforzarsi di essere liberi soprattutto nel pensiero».

Non è facile in tempi di politicamente corretto.

«Non mi parli di questo, perché il politicamente corretto è il vero male della nostra epoca. L’appiattimento sulla convenzione è una cosa tremenda. Oggi per esempio basta una parola per essere epurati dalla Rai e non solo. Lo definirei “puritanesimo”, questa è la parola giusta. Si parte da una idea sostanzialmente esatta e poi la si persegue esasperandola agli eccessi più smisurati. È una forma di pensiero talebana. Il politicamente corretto equivale al sanitariamente corretto, per cui ci troviamo con regole come quelle di chiudere i musei al sabato e alla domenica, che sono un paradosso di quel che si vuole ottenere. Non si salveranno le donne impedendo di dire a una “gallina”, non si salveranno i neri non definendoli “negri”, ma lo si accetta per convenzione e questo porta sempre a un blocco mentale, a chiusure artificiali. Ma ciò che si impedisce di dire alla gente in pubblico poi lo pensa nell’intimo».

Lei è considerato un dandy. Si sente di aderire a questa definizione?

«Da qualche tempo mi sento nel dandysmo. Qualcuno mi ha definito “di una sciatteria non casuale”. Io sono volutamente sciatto, perché ho scoperto in seguito che è una ricerca mia personale di eleganza, per essere non convenzionale».

E da qualche anno ha scoperto quella che ha chiamato la “monogamia felice”. Come l’ha convinta sua moglie?

«Ho trovato una donna straordinaria come Paola Veneto, che ha doti tali per cui non vale assolutamente la pena spendersi in cose minori».

Ai suoi figli cosa vorrebbe insegnare?

«Riprenderei gli insegnamenti di D’annunzio: libertà e gioia».

·        Giorgio Forattini.

Luca Telese per tpi.it il 14 marzo 2021. Negli ultimi giorni si è riaperto il dibattito sulla libertà di stampa in Italia, dopo che Matteo Renzi, senatore e leader di Italia Viva, ha annunciato azione civile contro La Stampa e TPI per due articoli nei quali si riferiva del suo recente viaggio a Dubai per motivi sconosciuti. Ne abbiamo parlato con Giorgio Forattini, maestro di vignette e di satira, in occasione del suo 90esimo compleanno.

“Io per la mia libertà mi farei impiccare”.

Anche oggi la libertà è a rischio?

“Scherzi? Vedo, a partire dalle querele di Renzi, una quantità infinita di persone, oggi, che usano la causa civile per infliggere bavagli”.

E cosa ne pensi?

“Sono tutti imitatori del D’Alema, che fece causa a me. Ma quando un politico invoca la censura per mettere un bavaglio alla stampa vuol dire che ha già perso”.

Parliamo di Forattini prima di Forattini.

(Sorriso ineffabile e forattiniano). “Sono diventato disegnatore satirico per puro caso. Grazie a Panorama. E a… una donna”.

Detta così, tutto diventa subito interessante.

“Avevo già 43 anni, lavoravo, come ti spiegherò tra breve, a Paese Sera”.

Come grafico. Ma disegnavi?

“Pubblicavo, ogni tanto, strisce di costume che apparivano, con qualche fatica, nelle pagine interne”.

E cosa succede?

“Mi fidanzo con una bellissima ragazza”.

Ah, bene.

“Lene, una danese affascinante che aveva occhi verdi, sangue blu e un nome da fotoromanzo: Lene De Fine Licht”.

È stata lei il contatto con Panorama?

(Sospirone). “È più complicato. Lene viveva a Trastevere, con sua sorella. E io ho avuto, come talvolta capita nella vita, una storia anche con la sorella”.

Ah. A me non è mai capitato.

“Lascia perdere e seguimi: questa sorella era amica della moglie danese di Luigi Melega, una delle principali firme del prestigioso Panorama di Lamberto Sechi”.

E cosa accadde?

“Iniziammo a frequentarci con i Melega, finché un giorno lui, vedendomi disegnare non mi disse: ‘Tu devi assolutamente disegnare delle vignette di satira politica per noi!'”.

E cosa gli hai risposto?

“’Ma io non ne ho mai fatta una!’, obiettai”.

E Melega?

“Fu incrollabile: ‘E che vuol dire? Studia, leggiti la satira dei giornali francesi, esercitati, prova’”.

Aveva avuto premonizione del tuo talento. Sembra incredibile.

“È vero. Ma per me suonò molto persuasivo”.

Al punto da metterti davvero a studiare?

“Sì. Iniziai a comprare, nelle edicole di via Veneto, dove arrivavano, Le Monde, Liberation, Le Canard Enchainè: scoprii un mondo!”.

E disegnasti la tua prima vignetta?

“Sì. Credo che fosse un Andreotti a cui qualcuno appendeva un pesce d’aprile sulla schiena”.

Fatalità. Lo stesso Andreotti che raccontava: “I miei figli mi chiedevano: ‘Perché non quereli Forattini?'”.

“E lui rispondeva: ‘Che posso dire di Forattini? Forattini mi ha inventato!'”.

Geniale, e vero. Il più bel complimento possibile.

“Senza dubbio: anche perché, a parte Andreotti, Spadolini e Berlinguer, tutti gli altri mi hanno querelato”.

Chi?

“Craxi, quattro volte. De Mita, per un miliardo, Orlando addirittura annunciò quattro miliardi, poi per fortuna non diede seguito. D’Alema, per la famosa vignetta del bianchetto. E fui condannato per i rubli…”.

Orlando, però, lo avevi rappresentato con la Coppola da mafioso!

“La satira è iperbole, sarcasmo feroce, libertà. Sai che mi sono pentito solo una volta di una vignetta che ho fatto? Sul suicidio di Gardini”.

Torniamo per un attimo al 1974. La vignetta su Panorama ha successo?

“Straordinario. Me ne chiedono una a settimana”.

Ottimo, dunque.

“Però si arrabbia Giorgio Cingoli, direttore di Paese Sera, che mi dice: “’Lavori qui e per noi queste vignette non le fai?’”.

Giusto.

“Così inizio a disegnare anche per Paese Sera, e nasce la serie dei fiaschi”.

Ogni insuccesso politico disegnavi Fanfani, che era un pittore amatoriale, mentre dipingeva i suoi fiaschi politici.

“Finché non arriva la sconfitta del divorzio e ribalto tutto: Fanfani espulso come un tappo dalla bottiglia del No”.

Geniale. E che accade?

“Prima pagina, apoteosi. La vignetta fa il giro del mondo, viene riprodotta ovunque, diventa icona, e io da quel giorno per tutti divento "Forattini"”.

Giorgio Forattini compie novant’anni. Avevo già avuto la fortuna di intervistare il Maestro della satira italiana nella sua bellissima casa di Milano (una delle tre, oltre a quella di Roma e Parigi). Ed era stato come entrare nella pinacoteca di un museo. Giorgio Forattini quel giorno spiegava: “Ho comprato quadri dei pittori più svariati, uniti da un particolare: sono quasi tutti ritratti”. Era tre anni fa. Giorgio è sempre in forma splendida. Oggi ha una chioma ormai candida, e dice: “Ho combattuto tanto per difendere la mia libertà, ora devo farlo per conservare la mia memoria”.

Ogni tanto, quando meno te l’aspetti, Giorgio ti fulmina con una freddura o una battuta in simil-romanesco: “Ahó, m’hai già fatto due foto, devi pagà!”. Oppure, per contrario, con l’understatement: “Eri un Don Giovanni?”, chiedo. Sorriso: “A me non risulta”. Il filo conduttore nella sua biografia sono il viaggio del Talento a cavallo fra tre repubbliche e un frammento importante di storia italiana. Oggi un video celebra la sua fantastica avventura, la sua lotta contro mille censure, più che mai attuale. Come la sua storia, perfetta per un romanzo. Quello di un uomo che dice: “Io per la mia libertà mi farei impiccare”.

Tua madre era nobile.

“Sì, si chiamava Matilde Merlino: piemontese di origina istriana. Sua madre era austriaca, suo padre Federico era stato ministro delle Finanze e poi presidente della Corte dei Conti”.

E tuo padre?

“Era emiliano, aveva partecipato alla marcia su Roma: industriale”.

Tu sei romano.

“Senza dubbio, in tutto e per tutto figlio di quella città eterna e scanzonata. Ho trascorso molti anni in collegio, al San Giuseppe de Merode, Piazza di Spagna. Ma ho passato l’infanzia a Milano e gli anni più belli della mia giovinezza a Napoli, dove ho fatto tirocinio di ironia nella più grande accademia del mondo”.

Quando cominci a disegnare?

“Da bambino, prima di iniziare a scrivere. A scuola facevo le caricature dei professori che poi protestavano con i miei”.

E ti creavano problemi?

“Papà era un uomo straordinario ma con un carattere fortemente autoritario. Forse mi sono autocensurato”.

Perché?

“Ho iniziato a lavorare con lui, e dai venti ai quarant’anni non ho mai impugnato la matita”.

Che lavori hai fatto?

“Di tutto. A diciotto anni esco di casa. Mi iscrivo all’Accademia di teatro, dove i tra miei compagni c’erano Lina Wertmuller e molti altri che diventeranno celebri”.

Ad esempio?

“Sofia Scicolone, non ancora Loren”.

Hai raccontato a D’Orrico di aver avuto un flirt con lei.

(Sorriso). “Io lo ricordo. Lei, a quanto pare no. E sai cosa accade, molti anni dopo?”.

La re-incontri?

“Sì, invitati entrambi in una cena da Armani. Io, contento, le dico: ‘Ricordi? Eravamo all’Accademia insieme!'”.

E Sofia?

“Mi fulmina con uno sguardo gelido: "Impossibile, io sono molto più giovane di lei"”.

Ah ah ah. Fai studi irregolari?

“Mio fratello si laurea subito e diventa ambasciatore. Io frequento Architettura e poi Giurisprudenza. Per molti anni faccio il rappresentante di commercio”.

Nel settore petroli, con tuo padre.

“Aveva venti stazioni di servizio soprattutto al sud”.

E tu giravi. Migliaia di chilometri, in una Cinquecento ripagata con detrazioni dalla busta paga.

“Come ho fatto a sopravvivere non lo so. Ma fu un periodo felice”.

Il tuo romanzo di formazione?

“Ho potuto raccontare tutta l’Italia, poi, perché già la conoscevo, da prima”.

La Sicilia a forma di coccodrillo, e protestò l’Ars.

“Bellissima”.

La Sardegna a forma d’orecchio, dopo l’amputazione del sequestro Getty.

“Ricevetti minacce di morte, venne la Digos a casa, e io che amavo la Sardegna e ci sono andato in vacanza per 18 anni consecutivi”.

Tanti.

“Ne ho trascorsi metà a Li Capanni, con una camionetta dei carabinieri davanti all’albergo”.

La società di tuo padre era a Napoli e si chiamava – incorrendo in molte ironie partenopee – DIOm, con una emme minuscola.

(Risata). “Non era blasfemia, solo un acronimo. Stava per Deposito Industriale Olii minerali”.

Sede in via Mergellina.

“E deposito autobotti a Poggioreale, vicino al carcere. Ti faccio un esempio di napoletanità”.

Quale?

“Visto che papà era stato cacciato dal cane a sei zampe dell’Eni, scelse come simbolo un gatto nero”.

Che c’entra?

“I venditori della Campania dicevano: ‘I napoletani protestano!’. Mio padre fece diventare grigio il gatto e il fatturato aumentò”.

Primo stipendio della tua vita?

“Sei grandi banconote da mille: le stesi in terra davanti alla porta di casa per dire a papà, che si vantava di non sapere quanto mi davano i contabili: ‘Ora sono indipendente!'”.

Perché tuo padre non ti voleva in azienda.

“Mi pretendeva impiegato di banca! Non diventarlo è stato il primo grande successo della mia vita”.

E poi ti sposi contro il suo volere.

“In accademia mi ero innamorato di una compagna: Licia Casassa. Io avevo 22 anni, lei 28. Mi sono sposato di nascosto. Per punirmi lui mi spedisce a Cremona, in una raffineria, e mi degrada”.

Nientemeno. E cosa vai a fare?

“L’operaio specializzato: pensa, controllavo con la pala il grado di viscosità dell’olio”.

Finché?

“Nel 1956, con la crisi di Suez, l’azienda tracolla. Il deposito di Poggioreale viene svenduto a un certo Paul Getty”.

E tu?

“Mi salvo passando a vendere elettrodomestici Triplex. E poi con la pubblicità: serviva qualcuno che disegnasse gli storyboard e io lo facevo presso lo studio in Trastevere di Guido Vanzetti”.

E poi?

“Entriamo nei favolosi anni Sessanta e mi reinvento discografico: prima alla Bluebell Records e poi alla Ricordi”.

Ma come fai??

“Ehhh… Grazie al solito talento. Inizio disegnando etichette e finisco facendo il talent scout, il grafico e il produttore. Ero anche bravino”.

Investi su te stesso con l’Accademia di pittura.

“Segnale premonitore: iniziavo a copiare un ritratto classico e finivo facendone la caricatura senza volerlo, con il professore che – giustamente – mi rimproverava”.

La svolta è l’ingresso a Paese Sera?

Avevano indetto un concorso per illustratori, e mi invento un personaggio malinconico, Stradivarius, che suona il violino e però per vivere fa l’agente di commercio”.

Togligli il violino dalla mano, mettigli la matita…

(Sorriso). “Infatti: Stradivarius ero il me che stavo archiviando”.

Entri negli anni Settanta con la busta paga di Paese Sera.

“Siamo nel 1971: bei tempi, a chiudere il giornale in tipografia veniva Giampiero Mughini, e noi due – entrambi libertari – prendevano in giro gli ortodossi. Mio collega era Franco Bonvicini, che con lo pseudonimo di Bonvi, diventerà poi il geniale autore di ‘Sturmtruppen’. Guadagnavo 900mila lire al mese”.

Che raddoppiano quando Scalfari ti sceglie per fondare Repubblica.

“Anche lì mi presenta Melega. Passai a un milione e mezzo, ma la cosa più importante, è che partecipai al progetto grafico: le colonne di Repubblica sono "mie"”.

Il tuo rapporto con Scalfari è un romanzo: dimmi almeno i titoli dei capitoli.

“Ho persino un epistolario, bellissimo, tra noi. Scalfari è un genio, con me è sempre stato generoso e protettivo”.

Da chi?

“Dal popolo dei suoi ufficiali, burocrati, caporedattori e affini, perennemente incazzati con me”.

Addirittura?

“Pensa che io nei ristoranti mi metto sempre spalle al muro, ancora oggi, per un "trauma": si affacciavano al mio box, dietro, per vedere che vignette disegnavo”.

Addirittura?

“Era pieno di aspiranti censori e spioni. Eugenio, che lo sapeva, un giorno affigge un foglio su quella parete: "Silent Genius at work"”.

Ah ah ah. Amava le tue vignette?

“Molto. Anche se non ha un grande senso della satira e soffriva quando colpivo i suoi amici. Non voglio sembrare immodesto, ma Repubblica l’abbiamo fatta noi. Lui l’ha fondata, io l’ho arredata!”.

Per sfotterlo disegni te stesso, carcerato, mentre sotto il tiro di Scalfari scolpisci un monumento a Berlinguer.

“Questo era nulla. Un giorno si incazzò via interfono: "Giorgio, io ho due amici in politica oggi: Natta e De Mita. Tu in questo mese hai fatto 28 vignette, e tutte contro loro due!!!!"”.

E tu?

“Gli dico: "Begli amici che hai!"”.

E poi non era vero, perché erano gli anni di Craxi in stivaloni: ti penti?

“Ma scherzi? Fosse vivo gli chiederei un vitalizio per l’immagine che gli ho regalato”.

Appeso stivalato a testa in giù, stile piazzale Loreto!!!!

“Questa è bella, senti. Mi manda Spadolini come ambasciatore: ‘Bettino non può sopportare l’accostamento al fascismo!'”.

E che hai risposto al presidente del Senato?

“’Presidente, lei è storico: è un Mussolini ma socialista’. Spadolini volle crederci, ma ovviamente era una balla. Durò poco, poi quattro querele. Repubblica uscì con un giochino, "Portfoglio"”.

E tu gli mettesti in bocca: “Da quando c’è il Portfoglio lo prendo tutti i giorni”.

“Craxi andò su tutte le furie: "Mi sta dando del ladro!"”.

Spadolini lo disegnavi sempre nudo, non protestò?

“Non sarebbe stato elegante. Lui mandò avanti Suni Agnelli”.

Per dire cosa?

“Ah ah ah: "Perché gli fai il pisellino mignon? Lo hai visto nudo?". E io: "No, ma sono certo, lo ha così. È un putto". Rimase interdetta”.

Sei stato fidanzato con Samaritana, nipote di Agnelli.

“Per sei anni, grande storia. E qui c’è una scena da film”.

Perché?

“Quando ci lasciamo l’Avvocato mi invita a pranzo e mi fa: "Forvattini lei per me è Il Talento, deve lavorare nel mio giornale. E per meritare la mia offerta principesca dovrà fare sette vignette a settimana, e tutte in prima!"”.

Non sapeva che era Scalfari a pubblicartene solo cinque, e quasi sempre dentro.

“Già! Ma io chiedo: "Principesca che significa?". E lui: "Un miliavdo di lire"”.

Era come un milione di euro di oggi.

“Molto di più. Infatti rimango senza fiato. Lui, che aveva standard economici diversi dai miei, pensò che avessi dei dubbi. E aggiunse: "Ma Fovattini! È quinquennale, quindi sono cinque!"”.

Lasci Repubblica e nasce la campagna contro Forattini: “miliardario”, “mercenario”, “rinnegato”, “venduto”. “Ha la casa a Parigi”!

“Non sono mai riuscito a difendermi da tutta questa cattiveria. Della casa a Parigi, poi sono orgoglioso”.

Come mai proprio lì?

“Me la fece prendere Renzo Piano, uno dei miei migliori amici: dove l’aveva lui, nel Marais”.

Cattiveria, dici?

Sono stato colpito da odio, invidia, menzogna: ho girato molti giornali perché inseguito da querele e veti”.

Hai rinnegato la sinistra?

“Io non sono mai stato comunista. E neanche di sinistra. Mi considero un borghese ribelle”.

A cosa?

“Alla mediocrità. In un mondo di conformisti sentirsi liberi significa essere ribelli”.

Perdi una causa contro D’Alema, 500 milioni di lire.

“Allora non lo dicemmo a nessuno, ma pagò tutto Panorama. La libertà di stampa è questo”.

Ti sei vendicato disegnando D’Alema, per anni, senza volto.

“I giudici mi hanno condannato spesso per diffamazione a mezzo stampa: Codice Rocco, codice fascista mai cancellato. In Francia, Inghilterra e nei paesi democratici la satira è libera, vola. In Italia se non sei schierato sei "fascista", "qualunquista"…”.

La sinistra ama la satira.

“Se non viene colpita sì”.

Lerner raccolse 40 firme contro una tua vignetta in cui la morte aveva una falce con scritto: “1968”. E disse: “Forattini deve tutto al ‘68!”.

“Ridicolo: nel ’68 lui aveva 14 anni, io 37! Non dovevo nulla al ’68, che oltretutto considero, assieme ai sindacati, una disgrazia italiana, la tomba del merito”.

Però nel 1993 vai in tv e dici che la candidatura di Fini a sindaco di Roma, con il Msi, non ti scandalizza.

“Lo ripeterei paro-paro. Anche se pagai un prezzo umano enorme”.

Quale?

“Con "Satyricon", un quartino che dirigevo a La Repubblica, scoprii tanti talenti: Staino, Ellekappa e uno di cui diventai amico: Emilio Giannelli”.

“Scoperto”?

“Era direttore l’ufficio legale del Monte dei Paschi di Siena. Mi invitava ogni anno a vedere il Palio”.

Ma che c’entra con Fini?

“Quando il Corriere mi fece un’offerta io declinai, e dissi: "Prendete lui". È ancora lì”.

Non capisco il legame.

“Dopo quelle parole su Fini, Giannelli mi disegnò sul Corriere, in prima, vestito da balilla, il faccione di Berlusconi e la scritta ‘Sola che sorgi’. Fu un dolore”.

Però avevi trovato la donna della tua vita.

“Vero. Mi chiama una signora dell’ufficio stampa Mondadori per promuovere "Pagine gialle". Mi dice: "Sono Ilaria". Ci siamo visti a Venezia ed è stato subito amore: la fortuna della mia vita”.

Perché?

“È l’unica donna con cui condiviso tutto, satira compresa. Senza di lei non sarei diventato quel che sono”.

E i tuoi grandi amici?

“Oltre Renzo? Purtroppo uno è morto, Umberto Veronesi. E poi Giancarlo Giannini, ridiamo come matti. E in Francia Plantu, vignettista di Le Monde. Vivevamo tre o quattro giorni al mese a Roma, dieci a Parigi, il resto a Milano. Ma ora, da anziano, mi muovo meno”.

Che tipo sei?

"Allegro, ma con un fondo di tristezza. Ho vissuto troppo tempo da solo e in troppi posti”.

La satira risente dell’umore?

“La mia prima moglie mi ha portato via i figli quando erano piccoli. Stavano a Chiavari, e io ero disperato”.

E poi?

“Mio figlio Fabio è morto improvvisamente, di infarto. Dolore immenso. Da allora sono l’ultimo Forattini”.

Sei cambiato?

“Molto. Mi sono immerso nel lavoro, senza trovare sollievo. Le vignette si erano incattivite”.

Una delle tue raccolte si intitola: “Una idea al giorno”. È difficile?

“Ho avuto una fortuna: la vignetta arrivava sempre. Talvolta le sognavo di notte, e me le dimenticavo la mattina. Così giravo con taccuino e matita, anche sul comodino”.

Sei stato fortunato?

“Sono stato molto, molto censurato. Ma, se un direttore mi diceva no, io non disegnavo più: ‘Oggi mettici la tua foto'”.

Un altro tuo titolo choc: “Kualunquista”.

“Con la K: meglio che ragionare per partito preso! Io mi considero, con tutti i miei guai, un vincitore”.

Poi torni a La Repubblica.

“Scalfari e Caracciolo vengono a Milano. Andiamo a cena. All’Hotel Et de Milan”.

Un’altra offerta.

“Ottengo la prima pagina di Repubblica e l’Espresso. Caracciolo mi fa: "Costi tanto voglio anche gli originali"”.

E tu?

“"Sei matto? Quella è roba mia"”.

Nel 2002 disegni su La Stampa un carro armato con la stella di David che punta il cannone verso una mangiatoia. Un bambino impaurito, con l’aureola esclama: “Non vorrete mica farmi fuori un’altra volta?!”.

“Stupenda. L’avevo dimenticata”.

Possibile? Protestarono la comunità ebraica e Amos Luzzatto!

“Ah sì! Per la prima volta mi chiamo Agnelli: "Fovattini, questa mi metteva in difficoltà". Mi spiacque per lui, non per Luzzatto”.

L’ultimo che ti seduce è Berlusconi.

“Nel 2006, al Cipriani per il premio Campiello mi fa: "Devi vieni a Il Giornale. Se hai un sogno te lo realizzo"”.

E lo avevi?

“Sì! "Mi manca solo una cosa, la vignetta animata in tivù". Mi guarda: "La avrai. Lo dico a Mentana"”.

E così sei andato a Il Giornale.

“Proprio con Belpietro, Ma la vignetta animata, malgrado Mentana fosse d’accordo, non partì mai. Costava troppo all’epoca!”.

Ma nasce il merchandising forattiniano: non solo i libri, ma penne, carte, orologi, tazze…

(Sorride). “Sono arrivato a guadagnare anche 150mila euro a libro. Ne ho fatti sessanta, 3,5 milioni di copie!”

Vedi che un po’ avido sei?

(Serio). “I soldi erano solo uno strumento per essere libero. Potevo dire no a chiunque, in qualsiasi momento. E l’ho fatto”.

E lasci anche il Giornale.

“Un giorno, dopo le dimissioni di Maurizio, disegnai Berlusconi nudo con un mappamondo tra le gambe che faceva un gesto eloquente con le dita. Mi dissero di no. E io: "Addio"”.

Hai mai risentito il Cavaliere?

“Questa è bella. Mi chiama: "Mi spiace per il Giornale, non ne sapevo nulla, che brutto!". E io, stupito: "Grazie!". E Silvio: "Senti… ti chiamavo per un’altra cosa: puoi rifare la copertina del tuo prossimo libro Mondadori?". E io: "Ma perché?". E lui: "Mi disegni che bacio D’Alema e scrivi: inciucio!"”.

Ah ah ah.

“Non me lo ricordavo più. Ma non ritirai la vignetta”.

Hai lavorato anche al Qn.

“I Cdr pubblicavano comunicati di fuoco a mia insaputa, senza darmi possibilità di replica”.

Cosa unisce tutta la tua carriera?

“Bene o male ho sempre disegnato per la libertà: la mia libertà intellettuale intendo. E la libertà si paga”.

È vero che non disegni più cose nuove?

“Il forattinismo in sintesi è stato la dissacrazione della politica. Intuivo subito il tallone d’Achille dei leader, e li trafiggevo con la mia matita. Ora i casi sono due”.

Quali?

“O non c’è più sacralità, oppure io sono diventato molto vecchio e non la vedo. In ogni caso non mi ispira più satira”.

E Grillo?

“Per me è sempre e solo un comico”.

E Di Maio, Salvini, il populismo?

“Non mi piace il populismo: dentro di me sono un vignettista aristocratico”.

E chi voteresti?

(Occhi sgranati). “Se riesco ad arrivare vivo al seggio? Per Berlusconi”.

Davvero?

“Per lui mi resta simpatia. E la certezza che ha cambiato l’Italia”.

Ti piace perché è ri-ri-ri disceso in campo?

(Ultimo sorriso forattiniano, freddura romanesca). “Ma che stai addì? Mi ha aiutato molto: è il politico che ho disegnato più di tutti”.

Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 13 marzo 2021. Giorgio è stato l'inventore della satira liberale. Finché sembrava di sinistra e ben omologato, la parola d'ordine era: quanto è bravo Forattini, quanto fa ridere Forattini, è il migliore Forattini. Poi cominciò a dirazzare. Io lo so bene perché ero con lui a Repubblica, piazza Indipendenza, Roma. Lui lavorava con le sue matite nella stanza dei grafici e Eugenio Scalfari pretendeva benché lui fosse già un monstre della satira internazionale, un autore mondiale, una figura di totale rispetto che Giorgio dividesse il suo tempo con gli impaginatori facendo il lavoro umile di squadra e pennarello sui menabò. Era già caduto in disgrazia. Ma che fa Forattini? Ma è diventato scemo Forattini? Ma è impazzito Forattini? Diventammo amici in quello spazio ricavato dalle quinte di plastica che dividevano lo stanzone dei grafici dallo studio del direttore che spesso lo chiamava con ululati modulati: «Giorgiioooooo!!!». Lui andava e gli attriti e le incomprensioni crescevano. Scalfari voleva l'ultima parola sulle vignette da pubblicare e Forattini resisteva e alla fine se ne andò e nessuno lo trattenne. Era diventato ambientamene incompatibile. Giorgio gli portava la sua vignetta, ma la vignetta del compagno Forattini non era più in linea come una volta. Anzi, non lo era mai stata, malgrado le fantasiose coincidenze. Tutti parlavano ormai di lui come di un mostro, peggio: un traditore. Peggio ancora, un venduto. «Chi ti paga?» era sempre stata la domanda d'accusa nei processi politici che ancora si svolgevano malgrado le apparenze. Chissà, forse gli era cresciuta la coda, forse una cresta da lucertolone sulla schiena, non era ben chiaro. Certo è che Forattini non era più lo stesso Forattini che avevano applaudito a Paese Sera, grande quotidiano comunista romano. Quando Scalfari nel dicembre 1975 cominciò a selezionare insieme ad Andrea Barbato (che poi si tirò indietro e non venne) i giornalisti da portare a Repubblica, Giorgio Forattini fu la star, il fiore all'occhiello. Per lui era stato preparato il menabò di quello che sarebbe diventato di lì a poco il primo tabloid italiano: formato piccolo e misterioso, niente terza pagina culturale e nel centro della prima pagina, lui: la vignetta per eccellenza di Giorgio Forattini. Ne aveva fatte di magnifiche con una matita educata su tanti modelli, ma forse Walt Disney più di tutti. Ma quella che fece il botto e lo rese magnifico e superiore a tutti, fu la famosa vignetta in cui da una bottiglia di champagne saltava un tappo con la faccia di Amintore Fanfani il quale, essendo molto basso, era chiamato «il tappo», e perché aveva promosso la crociata di un referendum per abrogare il divorzio che era ormai legge dello Stato. E che perse sonoramente. Di qui la grande festa laica e il grande applauso a Forattini che aveva fatto saltare il tappo-Fanfani con la sua vignetta. Champagne, l'Italia laica brinda. Non si può raccontare con parole o riassumere l'attività satirica e sarcastica di Giorgio Forattini scatenata contro il potere, contro tutti i poteri. Se volete, sta tutto su internet. Ma certamente fu il beniamino della sinistra finché disegnò Bettino Craxi come il Duce, con gli stivaloni lucenti ispirandosi a Pietro Gambadilegno della saga di Topolino. Gambadilegno era l'icona del gangster e dunque andava benissimo, viva Forattini. Poi però cominciò a dare segni fastidiosi di anticomunismo. Scherzava a sinistra e le sue vignette cominciarono a far incazzare gli altri satiri ortodossi di sinistra che si riunirono in mugugno permanente per sputacchiare comunicati e proclami che ripetevano lo schema delle vecchie vignette di Giovannino Guareschi che aveva inventato la serie «Contrordine compagni». In quelle vignette pubblicate sul Candido, uno strillone dell'Unità avvertiva i compagni di un deplorevole errore di stampa: «Contrordine compagni, il suggerimento pubblicato sull'Unità di portare i bambini a fare i bagni di sale conteneva un errore». E si vedevano le mamme comuniste con tre narici che immergevano attoniti pupi dentro barili di sale anziché esporli al sole... Forattini diventò rapidamente «di destra» per quel pubblico di sinistra e le sue uscite provocavano allergie e borbottii nei corridoi, e poi riunioni nella stanza di Scalfari che, quindi, ammanniva a Giorgio ponderate lezioni sull'uso della satira. Lui diceva che avrebbe pubblicato quel che gli pareva. C'era da dire che imperversavano satiri della matita non sempre divertenti ma politicamente allineati al Pci e suoi succedanei, dopo la Bolognina. Poi Forattini mollò tutto e passò alla Stampa e alla Fiat. Ciò avvenne anche per motivi umani. Per anni fu legato a Samaritana Rattazzi, figlia di Susanna Agnelli, e in breve ebbe l'incarico più grandioso e fortunato che potesse nutrire col suo genio non solo di vignettista, ma di pubblicitario e fu la campagna per la Punto della Fiat. Senza offesa, la Punto che ha imperato sulle strade e le autostrade non era la più geniale delle macchine, ma aveva un aspetto friendly, amichevolmente italiano per la stessa media borghesia che nell'infanzia era partita per la Cinquecento, la Seicento e poi la popolarissima Millecento. Giorgio ebbe anche la rivoluzionaria idea di inventare parole per la pubblicità, un po' come aveva fatto Gabriele d'Annunzio quando aveva creato la «Rinascente». Inventò l'aggettivo «puntoso» per indicare tutto ciò che è cool, fico, morbido e desiderabile con un proliferare di parole col suffisso «oso». Per non mostrarsi troppo deferente alla famiglia aveva disegnato l'Avvocato Agnelli vestito da arbitro con scarpini e fischietto, mentre diceva a Moratti dell'Inter di aver comprato Ronaldo con acquisti «risparmiosi», alludendo ai boatos secondo cui la Juve barava sugli arbitraggi. Nessuno si offese. Si offese invece, con fiero cipiglio, Massimo D'Alema quando Forattini lo disegnò uniforme nazi-sovietica nell'atto di «sbianchettare» i nomi del famoso «Dossier Mitrokhin». Giorgio provò un discreto trauma perché D'Alema chiese un miliardo di lire di danni e la sinistra si interrogò sul nuovo tema: è giusto e da bravi compagni rivolgersi ai giudici per decidere quel che è lecito e quel che non lo è nella satira? Poi credo che ci sia stato un accomodamento. Giorgio Forattini, che veniva da una famiglia molto austera, ebbe un grande successo anche economico alla Fiat e quando tornava da Torino e lo aspettavamo a cena si presentava sempre con una grande scatola di cioccolatini Peyrano. Poi andò in volontario esilio a Parigi dove aveva stabilito la sua residenza, dedicandosi a collezionare ritratti. Un giorno mi fece vedere la sua collezione di magnifici quadri ad olio di ogni epoca e mi disse che se ne infischiava delle nature morte e dei tramonti, aveva curiosità ed occhi solo per la commedia umana e i suoi protagonisti. Oggi Giorgio - che compie in questi giorni 90 anni - vive molto ritirato con la moglie che ne ha grande e tenera cura. L'ultima volta ci siamo visti in casa d'amici per celebrare il compleanno dello stilista Osvaldo Testa. Festeggiammo onorando la vecchia abitudine in redazione di unirci e dire tutti insieme le più volgari banali parolacce che dicono i ragazzini, come piccola e innocua manifestazione libertaria. Il suo genio è stato nel frattempo messo nel cono d'ombra che immerge nell'oblio chiunque non faccia parte della grande corrente certificata e «de sinistra», sicché fa bene ricordare la sua matita geniale e potente, perché ha fatto incazzare tutti, ma proprio tutti e questo è il segno più forte di amore per la libertà. Paolo Guzzanti.

·        Giovannino Guareschi.

Brescello e "Il piccolo mondo" di Guareschi: così Don Camillo e Peppone sono diventati una favola vera. Cristina Nadotti su La Repubblica il 19 aprile 2021. Lo scrittore Guido Conti spiega la grandezza dei personaggi del prete e del sindaco comunista: "Nelle loro vicende quotidiane è condensata tutta la nostra umanità". E il Cristo parlante del film è diventato un oggetto di culto. Nel parlare di Giovannino Guareschi e dei suoi personaggi Guido Conti si infervora. A ragione. Lo scrittore non è soltanto cultore della materia, vincitore del Premio Hemingway per la critica letteraria con Giovannino Guareschi, biografia di uno scrittore (Rizzoli, 2008), è, si può dire, "cultore della Bassa Reggiana", la terra che ha celebrato con il libro Il grande fiume Po: una storia da raccontare (Mondadori, 2012) e tanti altri. Nella serie Mondo piccolo e nei racconti che hanno come protagonista Don Camillo, Guareschi non cita Brescello. Perché però proprio questo paese è diventato la patria dei suoi personaggi?

"Lo si deve al cinema - spiega Conti - perché la produzione del primo film del 1952 (si intitolava Don Camillo, n.d.r) setacciò in lungo e in largo la  Bassa per trovare un paese che si adattasse alle descrizioni dei racconti. Guareschi a sua volta si era inventato il paese di Don Camillo e Peppone, ma aveva dato descrizioni precise di un municipio con la chiesa di fianco. La produzione trovò proprio nella piazza di Brescello la location ideale".

Guareschi approvò?

"In realtà fece buon viso a cattivo gioco, il suo rapporto con la produzione dei film fu sempre complicato. Anche se lavorò alla sceneggiatura, non era mai soddisfatto di come le sue indicazioni venivano realizzate nelle riprese. I film danno una chiave di interpretazione conflittuale tra il prete e il sindaco, mentre nei racconti di Guareschi non c’è mai contrapposizione tra due personaggi, inoltre il Cristo è altrettanto importante in quanto vero deus ex machina nella soluzione delle vicende, delle quali riassume la morale".

È una morale ancora attuale?

"Anche se ora leggiamo Guareschi in modo diverso perché è caduto il comunismo, i suoi racconti sono attuali perché sono "favole vere". La forza di Guareschi è stata di trovare con il prete, il sindaco comunista e il Cristo la metafora perfetta in questo "mondo piccolo" del mondo grande e delle tensioni che lo attraversano. È un autore straordinario perché in quelle vicende così quotidiane ha condensato tutta la nostra umanità".

Brescello è un comune in provincia di Reggio Emilia che si trova "in quella fetta di Pianura padana fra il Po e l’Appennino”, come scrisse Giovannino Guareschi. In effetti, basta digitare su un motore di ricerca "Don Camillo" per rendersi conto di quanto i film ambientati a Brescello siano ancora un cult.

"Guareschi è lo scrittore italiano più tradotto in assoluto, di recente sono uscite edizioni delle sue opere in coreano e non è un caso che a innamorarsi di Don Camillo per il cinema siano stati primi fra tutti i francesi. Le sue storie e i suoi personaggi sono fenomeni popolari e letterari talmente straordinari che hanno toccato il cuore degli uomini. Guareschi aveva un’idea di letteratura come forza per consolare i cuori: siamo nel Dopoguerra, la guerra civile aveva dilaniato il Paese, le sue favole vere servivano a conciliare le parti opposte in Italia, a insegnare che in piazza ci si potevano dare le botte, ma poi si mangiava la pastasciutta insieme".

È in quanto fenomeno popolare che Brescello è diventato meta di un turismo specifico di Guareschi?

"Come si diceva, di un vero culto. Guareschi, scrittore profondamento cattolico, attinge all’anima della religiosità del territorio e la sua tradizione letteraria diventa cinema. Si pensi che il Cristo in croce usato sul set, da oggetto di scena è diventato appunto oggetto di culto. Se lo sono litigati e sebbene avesse ben poco di un simulacro, con la sua testa di legno intercambiabile a seconda che nel film dovesse ridere o piangere, è diventato un arredo della chiesa, ricoperto di ex voto. È il miracolo di Guareschi, che ha attinto dalla tradizione della sua terra e della sua anima religiosa, ha portato le sue storie al cinema mitizzandole e poi le ha restituite alla devozione popolare".

In questo passaggio dalla letteratura al cinema che cosa hanno guadagnato i racconti di Guareschi?

"Due facce incredibili, le espressioni e la recitazione di Fernandel e di Gino Cervi, che in realtà all'inizio doveva fare il prete. La stessa cosa è successa con il successo televisivo del Montalbano di Camilleri, che ormai ha il viso di Luca Zingaretti. Guareschi alla fine scriveva con in mente la faccia di Fernandel. Peppone ha la fisicità di uno dei più grandi attori del Novecento: Gino Cervi e Fernandel sono insostituibili, tanto è vero che ogni tentativo di remake non ha funzionato. Non si tratta però soltanto degli attori, ma anche del fatto che quella era un’italia in bianco e nero che si è persa. Tuttavia, il tema della favola ha una sua continuità: molti preti si ispirano a Don Camillo, c’è gente in giro nella Bassa che fa il sosia di Peppone. Sono gli scrittori che inventano gli immaginari, solo Camilleri ha reinventato così e ripensato la Sicilia. Sono i poeti che rendono vera Itaca, altrimenti sarebbe solo uno scoglio. La Bassa è Guareschi".

A chi non conosce Guareschi, da cosa suggerisce di iniziare?

"Sono tutti libri antropologici, racconti per capire il mondo in cui si vive. Proprio ora sarebbe utile leggere il primo Don Camillo del 1948, uscito a marzo di quell'anno perché ad aprile erano previste le prime elezioni della nuova Repubblica e Guareschi voleva influenzare le votazioni. Chi altro c’è riuscito tra gli scrittori italiani? Quando ho cominciato a studiarlo molti mi hanno chiesto perché lo facessi, in tanti non gli perdonano di aver avuto fortuna. Nonostante tutto è diventato un classico moderno, capace, nel secolo del nichilismo, di far parlare Cristo, cosa appunto che un certo tipo di filosofia non può sopportare".

Inaugurato il 16 aprile 1989, il Museo “Peppone e Don Camillo” è uno spazio in cui potersi immergere nel passato, lasciandosi guidare dalle locandine originali dei film, dalle fotografie in bianco e nero, dagli oggetti dei set cinematografici e dai racconti degli informatori turistici.

Scomodo, "fassista", libero. Ecco perché leggere Guareschi. In vita, e soprattutto in morte, fu liquidato come scrittore reazionario e "facile". Ecco come si è preso la rivincita. Luigi Mascheroni - Sab, 20/03/2021 - su Il Giornale. Ogni tanto in alcuni giornali, quando si sentono certi fatti, quando si vedono certi politici, si dice «Ci vorrebbe un Guareschi per raccontarli». In tutti gli altri si continua a dire: «Guareschi? Un fascista». È da quando era vivo, e poi soprattutto dopo morto, nel 1968, che si liquida Giovannino Guareschi come fascista.

Peggio: fassista. «La verità invece la sa chi lo conosceva bene. E cioè che non era né fascista, né democristiano, né comunista. Era Guareschi, che andava a letto con una luna, si svegliava con un'altra, e in mezzo scriveva quello che voleva, e basta», racconta uno che lo conosceva bene davvero: Beppe Gualazzini, 78 anni, per una vita inviato del Giornale di Montanelli e che oggi vive a Genova - «per affari sentimentali» - ma che è cresciuto nella Bassa. I Guareschi erano di Fontanelle, al di là del Taro, la famiglia di Gualazzini di Sissa, al di qua del fiume, a una distanza - all'epoca - di 100 lire: il costo di una tratta di barchino. Stessa terra, stessa gente. «Coi Guareschi eravamo anche mezzo imparentati... Comunque quando avevo 25 anni, mentre insegnavo e non facevo ancora il giornalista a tempo pieno, portavo le scolaresche a Roncole, dove c'è casa Verdi e lui aveva il ristorante, e lo vedevo seduto davanti al camino con la moglie Ennia, donna esplosiva, straordinaria... Divenni amico dei figli. Carlotta e Alberto. Leggevo le sue cose, lo seguivo, volevo scrivere come lui...». E alla fine Beppe Gualazzini scrisse su di lui. Una biografia che uscì nel 1981 per la Editoriale Nuova, che era la casa editrice del Giornale, e poi, anni dopo, riveduta e corretta, fu ripubblicata da DeAgostini, e oggi, riveduta, corretta e ampliata, a 40 anni dalla prima edizione, esce per Luni: Il furente Giovannino. Eccolo il libro che, in qualche modo, ha fatto da spartiacque fra la sfortuna e la fortuna di Giovannino Guareschi, scrittore scomodo e unico, detestato dalla critica e amato dai lettori. In Italia càpita che i due mondi non vadano d'accordo. «Capitò che sei anni dopo la morte di Guareschi firmai sul Giornale, che era appena stato fondato, nel '74, un pezzo per ricordarlo. Apriti cielo. Un giornale che rimpiange quel fascista di Guareschi non può essere che fascista, scrisse Lamberto Sechi, intellettuale della peggior sinistra italiana, al quale Montanelli rispose come solo lui sapeva fare: Guareschi, due anni di lager nazisti per non avere accettato di aderire a Salò, 400 giorni di durissimo carcere italiano per non abiurare alle sue battaglie per la vera democrazia, è solo e sempre Guareschi, se stesso, mai portato il cervello a nessun ammasso. Chi passa accanto alla sua tomba sa chi c'è sotto, cosa ha fatto, cosa gli hanno fatto, ma passando accanto a Sechi, cosa mai potrà dire, cosa, mio Dio?». Del resto il giorno dopo la morte di Guareschi l'Unità uscì col titolo «Morto lo scrittore che non è mai nato». E i suoi funerali furono disertati dalla politica e dalla cultura: c'erano solo Angelo Tonna, il sindaco socialista di Fontanelle, il direttore della Gazzetta di Parma Baldassarre Molossi, Giovanni Mosca, Carlo Manzoni, Nino Nutrizio, Enzo Biagi e Enzo Ferrari. Non c'era niente da fare. Guareschi era un reazionario, un fascista, un impresentabile. E così su di lui scese il silenzio. La critica lo ignorava. I film su don Camillo si proiettavano nelle parrocchie. Il suo nome dimenticato.

Ecco: la biografia di Gualazzini - leggibilissima, come erano stati la narrativa e il giornalismo di Guareschi - aprì uno spiraglio nel muro dell'oblio. E piano piano, grazie allo straordinario lavoro dei figli Alberto e Carlotta, Giovannino risorse. A morire, lentamente, in realtà aveva iniziato dopo l'affaire De Gasperi, quando finì nel carcere di Parma per 409 giorni, fra il 1954 e il '55. «Lo chiusero in una cella di due metri per tre. Ci entrò baldanzoso, pensando forse che la prigione potesse essere un'altra medaglia. Era convinto che rispetto ai due anni passati nei lager tedeschi in Polonia e poi in Germania, dopo l'8 settembre del '43, fosse una passeggiata. E invece. Là come compagni di cella aveva militari, Giuseppe Novello, Roberto Rebora, il filosofo Enzo Paci... poteva scrivere, pensare, fare un giornaletto clandestino... Qui era con i criminali comuni. Per uno come lui, che lavorava come un matto, tutto il giorno, fu un colpo da cui non si riprese. Quando uscì iniziò a mangiare fette di culatello spesse tre dita e bere più whisky che Lambrusco. Gli ultimi anni furono tristissimi. Lo avevano piegato. A Enzo Biagi, che gli era stato molto vicino, disse: Non credevo che le carceri italiane potessero essere più crudeli di quelle naziste». Morì di malinconia, di delusione, di rabbia. Non di cinismo. Finita la sua avventura terrena di scrittore, giornalista, disegnatore e umorista (straordinario: basta andare a rivedere le sue vignette politiche), continuò il pregiudizio. E sì che non era stato per nulla fascista, solo convintamente anticomunista. Ma bastò. Magari chi frequentava le sezioni del Pci andava anche a vedere Don Camillo e si divertiva, ma le gerarchie del Partito lo vedevano come il fumo degli occhi. Il suo non era un nome né dignitoso né gradito. «E invece a Guareschi non fregava niente né della destra né della sinistra né del centro. Non sopportava i politici in generale, combatteva tutte le dittature, e anche tra i Savoia, pur proclamandosi monarchico, non vedeva alcuna figura autorevole». Passò l'idea dell'uomo di destra, del contadino rabbioso e poco acculturato, dello scrittore per palati facili. Per dire: Giorgio Bocca, ormai vecchio, una volta sollevò il problema del conformismo culturale italiano in un famoso botta e risposta su Repubblica con Beniamino Placido, chiedendosi il perché del silenzio riservato dagli intellettuali a due scrittori di successo ma non di sinistra, Giovannino Guareschi e Gianna Preda. La sua conclusione fu: «Qui si tratta di mettersi una buona volta d'accordo su che cosa s'intende per intellettuale: se è uno che deve fare il suo esercizio sul trapezio e basta o se deve pensare con la sua testa e dire la verità». Nel caso di Guareschi, che rifiutò sempre, ovunque e con chiunque, i guinzagli di certa cultura e di certa politica, mantenendo liberi anima e cervello, vale la seconda. E il tempo, alla fine, pagò. Oggi, nemesi letteraria ed editoriale, è l'autore italiano più tradotto nel mondo, i titoli della saga di Don Camillo e Peppone sono longseller, mentre ancora ogni volta che un film della serie viene trasmesso in tv, fa il pieno di share. Perché? «Perché i suoi personaggi sono universali. Le sue storie divertenti. E soprattutto perché pensava in dialetto parmigiano, e poi traduceva in italiano. E quello che veniva fuori era una lingua semplice, asciutta, senza fronzoli, con un vocabolario che conta sì e no duecento parole, le stesse che adopera ogni giorno la gente comune per comprendersi e sopravvivere in questa Torre di Babele dove sono stati inventati milioni di parole per cancellare i fatti. Basta?». Ce lo faremo bastare.

Guareschi, un emarginato da Nobel per la letteratura. Nel 1965 l'Accademia di Svezia voleva premiarlo. Per i conformisti di casa nostra invece non era degno di nota..., scrive Daniele Abbiati Mercoledì, 06/01/2016, su “Il Giornale”. Sarà provinciale dirlo, ma molto spesso il Nobel per la Letteratura è un premio al milite ignoto (o quasi). Quando poi si pensi che esiste un esercito di generali, condottieri e in qualche caso autentici eroi del romanzo che non lo hanno vinto, tipo Tolstoj, Proust, Borges e compagnia scrivendo...Un provinciale ben più nobile di noi (da Nobel, appunto...), anzi il provinciale per eccellenza, di penna e di gloria, ahinoi e ahilui quasi tutta postuma avrebbe potuto vincerlo, il premio dell'Accademia Svedese. Lo rivelano proprio gli archivi del sancta sanctorum scandinavo risalenti a mezzo secolo fa, anno di disgrazia (per il Nostro) 1965. Ebbene sì, Giovannino Guareschi figurava nelle nominations, accanto a nomi grossi come Anna Akhmatova, Marguerite Yourcenar, Ezra Pound, Georges Simenon, Giuseppe Ungaretti e molti altri. Il suo sponsor? Mario Manlio Rossi, all'epoca professore di filosofia e letteratura all'Università di Edimburgo. Non a caso, un italiano all'estero. Perché l'Italia di cinquant'anni fa, l'Italia poverella del boom economico e ricca d'inventiva ma governata dai monocolore democristiani, l'Italia della commedia all'italiana, aveva messo la sordina al dramma del papà di Peppone e Don Camillo. In fondo, dieci anni prima era stato in galera per la nota questione del «Ta-pum del cecchino» non gradita a De Gasperi, e dunque non era percepito come uno stinco di santo, nonostante l'intercessione del suo amico parroco. Pensate, in occasione della sua messa al gabbio, durante un'allegra cena conviviale al «Bagutta» di Milano affollato di bella gente, s'era addirittura brindato alla lieta novella, presente fra gli altri, come relazionò Indro Montanelli sul Candido, il sommo poeta Eugenio Montale. «Guadagnati coi libri dei quattrini - ricordava nel '65 Guareschi - ho tentato di fare l'agricoltore e l'oste, con lacrimevoli risultati per me, per l'agricoltura e per l'industria turistico-alberghiera del mio paese. Adesso sono pressoché disoccupato, perché nessuno in Italia, eccettuato un amico di Roma, ha l'incoscienza di pubblicare i miei articoli e disegni politici. Ma io non mi agito e mi limito ad aspettare tranquillamente che scoppi la rivoluzione». Alle Roncole aveva aperto un piccolo ristorante e collaborava con la Paul Film scrivendo testi per i caroselli pubblicitari...Morirà tre anni dopo, Giovannino, il 22 luglio del '68 (22 luglio, come Indro). E Baldassarre Molossi, sulla Gazzetta di Parma, fu tra i pochissimi a ricordarne come si doveva la grandezza: «Giovannino Guareschi - scrisse il 25 luglio - è lo scrittore italiano più letto al mondo con traduzioni in tutte le lingue e cifre di tiratura da capogiro. Ma l'Italia ufficiale lo ha ignorato. Molti dei nostri attuali governanti devono pur qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali, ma nessuno di essi si è mosso. Nessuno di essi si è fatto vivo . Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L'abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita di due mani». C'erano infatti Nino Nutrizio, Enzo Biagi, Enzo Ferrari. Gli altri, non pervenuti. L'infarto che si era portato via il deus ex machina di un Mondo piccolo ma anche grande era stato derubricato a lieve infreddatura, giudicando dai titoli di alcune testate. «Malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto», borbottò in stile trinariciuto l'Unità. Ma i cattolici non furono da meno, tutt'altro. Il Nostro Tempo, espressione diretta della curia di Torino, lo omaggiò con l'elegantissimo titolo «Guareschi diede voce all'italiano mediocre». L'articolista, Elidio Antonelli, incominciò così il suo pezzo: «Era un uomo finito». E lo concluse così: «Fu in definitiva un corruttore». Evidentemente, contava di cavarsela con due Ave Maria e un Pater noster. Poco lungimirante, oltre che poco informato, don Lorenzo Bedeschi sull'Avvenire: «Peppone e don Camillo sono premorti al loro autore». Insomma, prima di ringraziare a posteriori l'oscuro professor Mario Manlio Rossi per la candidatura di Giovannino, e prima di chiederci se ce lo siamo davvero meritati, uno scrittore come Guareschi, testimone e custode di un'Italia orgogliosamente provinciale e onesta di qualsiasi colore fosse, il nostro Bernanos al lambrusco, il nostro Turgenev in bicicletta, dovremmo chiederci che cosa abbiamo fatto di male per aver avuto questi tromboni che suonavano lo spartito del regime. Del resto, se le colpe dei padri ricadono sui figli, quelle dei nonni mettono ko i nipoti. Nel '65, il premio Nobel per la Letteratura andò al russo Michail Aleksandrovic olochov, autore di Il placido Don. Il Don sarà anche placido, ma il Po è ancora lì che piange la morte di Guareschi.

Don Camillo bombarolo fa esplodere i comunisti. Avversari sempre, nemici mai. Nelle sceneggiature inedite un'Italia divisa ma rispettosa, scrive Egidio Bandini Domenica, 26/07/2015, su “Il Giornale”. «Al caro amico Guareschi/ sperando che un eventuale quarto/ Don Camillo lo possa compensare/ delle delusioni dei primi tre», firmato: Angelo Rizzoli. Data: 20 ottobre 1955. Questa dedica, che il commendator Rizzoli scrisse di suo pugno sulla copertina dell'opuscolo fotografico dedicato al film Don Camillo e l'onorevole Peppone, pubblicato dall'ufficio stampa della D.E.A.R. Film, basterebbe da sola a far capire, pure al più sprovveduto dei lettori, quali fossero i rapporti fra Giovannino Guareschi e il cinema. La dedica, tra l'altro, suona quanto mai inadeguata perché fu proprio l'eventuale quarto Don Camillo a far andare Giovannino su tutte le furie, sino a dare le dimissioni dal Candido e provocare, indirettamente, la chiusura del settimanale satirico più famoso d'Italia. Ma perché Guareschi cercò, sempre senza successo, di ribellarsi a produttori, sceneggiatori e registi per come venivano tradotti in immagini i suoi racconti di Mondo piccolo? E, soprattutto, perché Giovannino se la prese tanto con quelli che chiamava, poco amichevolmente, i «cinematografari», visto che i film ebbero un successo straordinario, capace di far ricredere chiunque sulla loro validità, al punto che, ancor oggi, a 60 anni di distanza, fanno ascolti da record ogni anno sulle reti televisive nazionali? Occorre procedere con ordine: sin dal 1951 Guareschi scrisse di proprio pugno - meglio, di proprie dita, visto che usava la macchina per scrivere - le sceneggiature originali dei film, su richiesta dello stesso «Commenda» e le scrisse, non solo scegliendo fra i racconti pubblicati sul Candido o nei volumi della serie «Mondo piccolo», ma addirittura inventando nuove storie, nuove situazioni, in grado di reggere la trama di un lungometraggio, dove i protagonisti dovevano essere, sempre e comunque, il pretone e il grosso sindaco della Bassa. L'intento di Guareschi era quello di far giungere agli spettatori lo stesso, identico messaggio che era giunto a milioni di lettori con i racconti della saga di Peppone e don Camillo, come egli stesso scriveva, spiegandone le motivazioni: «In un mondo carico d'odio, la gente sogna di poter vivere lottando, sì, ma in modo che gli uomini, pur rimanendo avversari fierissimi, non diventino nemici. E, all'ultimo momento, la passione politica sia vinta dal buon senso. E l'ultima parola, in ogni conflitto, sia quella della coscienza». Per coscienza, Giovannino intendeva, naturalmente, la voce del Cristo dell'altar maggiore, quella che egli stesso definiva «la voce della mia coscienza». Tutto ciò, evidentemente, urtava con gli intendimenti di Angelo Rizzoli e dei vari registi che si succedettero alla guida dei film: Julien Duvivier per i primi due, Carmine Gallone per il terzo e il quarto, Luigi Comencini per il quinto, l'ultimo girato Guareschi vivente. Sta di fatto che leggendo, come ha fatto il sottoscritto, le sceneggiature originali, scritte da Giovannino per ognuno dei film di don Camillo, si scopre qualcosa di assolutamente nuovo, cinque film mai visti, da immaginare con gli immancabili Fernandel e Gino Cervi nei panni di don Camillo e di Peppone: cinque storie per la maggior parte del tutto inedite, insomma, un Don Camillo scritto da Giovannino Guareschi e che nessuno ha mai letto. Innanzitutto la scaletta, la successione degli episodi, completamente diversa da quella che abbiamo visto anche in questi giorni in tv: ad esempio, il ritorno al paese di don Camillo nel secondo film, che Giovannino aveva immaginato a seguito dell'alluvione e che, invece, nel lungometraggio sceneggiato da René Barjavel arriva giusto alla fine del film. Poi gli episodi stessi, le scene, alcune escluse da registi e sceneggiatori, alcune addirittura girate e non montate all'interno del film, come quella che pubblichiamo, per gentile concessione di Alberto e Carlotta Guareschi, ovvero la scena della «bomba pasquale», realizzata per il film Don Camillo e l'onorevole Peppone e non inserita da Gallone. A provare il fatto la prima locandina del film (non utilizzata) e la foto di scena di don Camillo che solleva la bomba per lanciarla ai piedi di Peppone & Co. Stessa sorte nel quarto film, Don Camillo monsignore, ma non troppo toccherà alla scena del trattore sovietico, inserita a viva forza da Guareschi ne Il compagno don Camillo dal quale, però, Comencini epurò la vicenda del «compagno padre», cui Giovannino teneva moltissimo. A proposito, poi, del film Don Camillo e l'onorevole Peppone, girato mentre Guareschi era in carcere a Parma, è illuminante quanto scriveva, dalle patrie galere, lo stesso Giovannino ad Alessandro Minardi: «Accordo per il 3° Don Camillo da realizzare su soggetto e sceneggiatura di Giovannino Guareschi sotto il titolo: L'on. Peppone ... alle seguenti condizioni: Soggetto, “sceneggiatura base” e dialoghi dovranno essere opera del sign. Guareschi e solo del sign. Guareschi. La lavorazione del film in parola potrà essere iniziata solo e quando la “sceneggiatura tecnica” definitiva, elaborata dal regista, abbia la approvazione del sign. Guareschi. Il film non potrà essere proiettato al pubblico qualora non abbia l'approvazione del sign. Guareschi. Il titolo del film dovrà essere quello proposto dal sign. Guareschi e precisamente L'onorevole Peppone ... Il comm. Angelo Rizzoli, e non il Regista o altri, è responsabile di ogni violazione del presente accordo». Le cose, come sappiamo, andarono in modo diverso, ma Giovannino, nonostante tutto si limitò, dopo aver assistito alla prima del film a «dire alcune cose sgradevoli al signor Gallone». E questo è soltanto un assaggio di ciò che furono i rapporti di Guareschi con il mondo del cinema: un confronto (per non dire un conflitto) fatto di rinunce, prese di posizione, lettere e telegrammi che, davvero, servirebbero a scrivere una storia nella storia, un romanzo di «cappa e spada» con protagonisti Giovannino Guareschi nei panni del moschettiere D'Artagnan, Angelo Rizzoli in quelli di Richelieu e, volta a volta, Julien Duvivier, Carmine Gallone, Luigi Comencini, René Barjavel e gli altri sceneggiatori nelle vesti delle guardie del cardinale, eterni nemici di D'Artagnan e soci. Mancano, però, tre personaggi a questo novello romanzo di Dumas: Athos, Portos e Aramis. Sì, perché nessuno, almeno all'interno di tutto il variegato mondo che girava attorno a Cinecittà, prese mai le difese di Guareschi.

Leo, Curzio, Indro e Giovannino I film girati con la mano destra. Tra il 1943 e il 1963 Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi furono registi della loro prima e unica pellicola, raccontando con originalità momenti cruciali della storia d'Italia, scrive Giancarlo Mancini Domenica 23/08/2015, su “Il Giornale”. Il grande racconto dell'Italia del dopoguerra, anche al cinema, l'hanno realizzato quattro conservatori doc come Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi. Intellettuali che per tutta la vita sono stati indisponibili a raccontare quello che i grandi partiti o i salotti volevano far sapere al grande pubblico. Erano anticomunisti, certo, ma non per questo erano disposti a lesinare critiche ai partiti di governo. Parteggiavano per la borghesia ma verso quella italiana nutrirono perplessità e ne rilevarono le mancanze. I loro film (Dieci minuti di vita, Cristo proibito, I sogni muoiono all'alba e La Rabbia) messi assieme vanno a formare un racconto inedito, scritto con la mano destra anziché con la sinistra, della storia italiana nel ventennio che va dal 1943 al 1963. Si tratta di quattro «opere prime» rimaste tali. Ognuna affronta un nodo nevralgico della nostra storia recente, dalla caduta del fascismo alla guerra civile, dai fatti d'Ungheria con i loro tragici risvolti per la sinistra italiana al boom economico. Snobbati dai manuali di storia del cinema, spesso ignorati dai divulgatori «ufficiali», questi film non solo ci raccontano la Storia con la S maiuscola da un'altra angolazione, ma sono una vera contro-scuola di pensiero libero. Ma come mai questi intellettuali, così impegnati nel giornalismo, nella scrittura, nella comunicazione, decidono ad un certo punto di fare un film? Partiamo da Longanesi, il cui interesse per il cinema inizia molto tempo prima di girare Dieci minuti di vita. Siamo verso la fine degli anni Venti. L'autore del Vade-mecum del perfetto fascista e del motto «Mussolini ha sempre ragione» si concede la libertà di dire che se il fascismo vorrà davvero imporsi come un modo nuovo di vivere e di guardare le cose, se si vorrà completare la rivoluzione iniziata con la Marcia su Roma, allora il regime (e Benito Mussolini in primis) dovrà radicalmente ripensare al ruolo del cinema. Con una serie di articoli pubblicati su L'Italiano, la rivista da lui fondata e diretta, Longanesi avvia una martellante campagna per il rinnovamento del cinema italiano. Scrive Longanesi: «Avete mai visto un film italiano? Vi siete mai accorti che i nostri attori escono dalle risse, dai temporali e dalle battaglie più cruente sempre con l'abito nuovo? Per loro ciò significa “conservare la linea”». Via i dandy alla Gastone, via gli estetismi dannunziani, via gli orpelli, le baracconate da fiera circense, la proposta di Longanesi è orientata verso il cinema dal vero: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si perde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una “sua verità” che il cinema assai di rado riesce a mostrarci». La straordinaria capacità intuitiva porta Longanesi a «pronosticare» con parecchi anni di anticipo alcuni dei capisaldi del neorealismo, poetica su cui la sinistra edificherà la propria egemonia, ponendo anche un'ipoteca politica che ha avuto esiti disastrosi per il cinema italiano. Ma le radici del neorealismo, evidentemente, affondano negli anni del regime...La passione di Longanesi per il cinema non si esaurisce, anzi, inizia a scrivere brevi soggetti, collabora con sceneggiatori come Ivo Perilli e Piero Tellini, medita di andare negli Stati Uniti per apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Insomma, ci sono tutte le premesse per diventare regista, cosa che avviene nel momento più delicato per la vita dell'Italia, del fascismo e di Mussolini. Siamo nell'estate del 1943 e mentre il regime sta crollando a pezzi, Longanesi è finalmente pronto per girare il suo primo e unico film, una satira sull'Italia di quegli anni. Protagonista è un anarchico scappato da un manicomio che, minato un palazzo, vuole osservare come ogni inquilino spenderà i suoi ultimi minuti di vita terrena. C'è il gerarca che si è arricchito in modo abbastanza equivoco, ci sono gli estenuati amanti dannunziani che si crogiolano sul modo migliore per togliersi la vita, c'è il marito che trovata la moglie a letto con l'amante... la lascia nell'appartamento che sta per esplodere. Con la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943 e l'imminente occupazione delle truppe tedesche di Roma, Longanesi decide di fuggire a Napoli, lasciando incompleto il film di cui, dopo varie peripezie, sono sopravvissuti appena 36 minuti praticamente inediti al di fuori di una ristrettissima cerchia di cultori. Ma è un lascito che unito ai suoi scritti cinematografici è oggi fondamentale riscoprire e rivalutare. Passano pochi anni e tocca a Curzio Malaparte, altro intellettuale non etichettabile secondo i rigidi canoni del dopoguerra, raccogliere il testimone lasciato da Longanesi e mettersi dietro la macchina da presa. Dopo aver scritto i suoi due libri più conosciuti (La pelle e Kaputt ), nel 1950 lo scrittore toscano si mette al lavoro su un tema che come pochi altri brucia sulla pelle degli italiani: la guerra civile. L'argomento è tabù, né la Democrazia cristiana al governo né le sinistre hanno voglia di rievocare quei giorni in cui si sono susseguiti i rastrellamenti, le vendette incrociate, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, le foibe. Il protagonista di Cristo proibito si chiama Bruno, è appena tornato dalla Russia, al suo arrivo a casa scopre che il fratello è stato fucilato dai fascisti. Da quel momento una sorta di demone della vendetta si impadronisce di lui. Nonostante i genitori lo spingano a dimenticare, Bruno non riesce a mettere da parte il desiderio di conoscere il nome della persona responsabile della morte del fratello. Malaparte non si accontenta di raccontare l'Italia del dopoguerra con i suoi tormenti e le sue ferite; vuole metterne in risalto anche i valori che la possono far rinascere. «È un fatto - dice Malaparte - che il popolo italiano reagisce alla Storia di cui è protagonista in modo molto diverso da quello di altri popoli. Vi reagisce anche sul piano morale oltreché su quello del costume. Coloro che parlano di amoralità del popolo italiano non capiscono l'Italia e gli italiani». Il film è ambientato nella sua Toscana, si vede la piazza di Montepulciano, Cetona, il gioco della croce, un rito antico di secoli dove un vecchio contadino dopo aver a lungo portato la croce cerca tra la folla qualcuno che possa sobbarcarsi il sacrificio di espiare le colpe di tutti. Il significato cristiano del film è in effetti il lascito di quest'opera di Malaparte in cui sacrificio, perdono, compassione sono valori di cui è impregnata la carne viva dei personaggi. Presentata al festival di Cannes del 1951, la pellicola riceve una accoglienza positiva ma questo non la protegge dalle accuse della stampa di sinistra. Infatti, nonostante Malaparte in quegli anni si sia pubblicamente avvicinato al Partito comunista italiano, e in particolare a Togliatti, le riviste capofila del marxismo ortodosso come Cinema nuovo non risparmiano critiche al film e al regista. Pochi sembrano disposti a «perdonare» a Malaparte la libertà di rappresentare un Paese diviso tra chi si illude di poter dimenticare la morte dei propri figli e chi cerca a tutti i costi la vendetta. Passano una decina d'anni ed eccoci al terzo capitolo del nostro racconto. Stavolta è Indro Montanelli a mettersi dietro la macchina da presa. Il film è I sogni muoiono all'alba, realizzato nel 1960 con l'ausilio tecnico di Mario Craveri ed Enrico Gras. La sceneggiatura è tratta da un dramma teatrale scritto dallo stesso giornalista qualche tempo prima e ambientato in un albergo di Budapest durante i giorni della rivolta che nell'ottobre del 1956 venne schiacciata dall'Urss con l'invio dei carri armati. Protagonisti sono quattro giornalisti italiani inviati nella capitale magiara per raccontare quello storico momento e rimasti intrappolati in albergo a causa dell'incrudelirsi degli scontri tra quanti sono rimasti fedeli a Mosca e quanti invece sostengono il programma riformista di Imre Nagy. Il titolo riprende quello di una canzone che i patrioti ungheresi, ostili alle intromissioni di Mosca, cantavano in quei giorni tremendi e crudeli. Sergio, Franco, Alberto ed Andrea non sono solo quattro giornalisti, sono degli uomini con passioni politiche e umane. Mentre discutono, litigano, si accapigliano, vengono rievocati alcuni snodi cruciali del nostro dopoguerra, le epurazioni nei giornali (evento che aveva riguardato lo stesso Montanelli), le delazioni, i tradimenti. Nella capitale ungherese il sogno di molti patrioti sta per scontrarsi con la dura repressione dei sovietici. «Ci avete rintronato la testa con questi sogni ma la volete guardare in faccia questa realtà?», dice ad un certo punto uno dei personaggi. Montanelli non nasconde la simpatia per i rivoltosi ungheresi. Altrettanto sincero, ma impietoso, è il suo giudizio verso le ipocrisie, le reticenze, le bugie di cui molti, sia fra i giornalisti sia fra i militanti del Pci, si servirono per «giustificare» l'invasione dell'Armata rossa. Anche in questo film, come in quelli di Longanesi e Malaparte, Montanelli vuole aiutare lo spettatore a guardare oltre i luoghi comuni e a raccontare quello che sta succedendo davvero, senza accontentarsi delle versioni ufficiali, né delle verità preconfezionate. Quando molti anni dopo un lettore gli chiese come mai avesse deciso di realizzare I sogni muoiono all'alba, il giornalista di Fucecchio rispose così: «Io non mi proponevo di fare un film spettacolare di bombe e sangue, ma soltanto di dimostrare due cose: che quella rivolta non era nata fuori, ma dentro il Partito comunista, e quali effetti aveva sortito sulla coscienza degli osservatori comunisti (parlo, si capisce, di quelli in buona fede) che si trovarono coinvolti in quell'avvenimento». E infatti I sogni muoiono all'alba è importante oggi proprio perché ci aiuta a capire il peso che gli eventi del 1956 hanno avuto nel nostro Paese. Nonostante gli sforzi di Togliatti di giustificare l'intervento sovietico anche in Italia in molti iniziarono a rendersi conto di quello che significava vivere oltre la cortina di ferro. Dentro al Partito comunista serpeggiava un dissenso che esplose pubblicamente e portò alle prime fuoriuscite. Era iniziato il lungo cammino della sinistra italiana verso la verità sui regimi dei Paesi socialisti. L'ultimo tassello della nostra storia è l'episodio de La Rabbia di Giovannino Guareschi. Un film di montaggio in due parti, una affidata a Pier Paolo Pasolini e l'altra, appunto, all'inventore di Don Camillo. Siamo nel 1963, l'anno di massimo splendore della rinascita italiana, in pieno boom economico. Anche in Italia come nel resto del mondo occidentale si sta aprendo l'era del consumo di massa. Frigoriferi, lavatrici, televisori. La sfida all'Unione sovietica si gioca anche sulla capacità delle democrazie occidentali di diffondere il benessere in modo capillare. Dal punto di vista politico siamo in un clima sospeso tra il rinnovamento portato da Kennedy negli Stati Uniti, gli ambigui tentativi di Krusciov in Urss e il crescere di nuove tensioni razziali e politiche. Guareschi osserva con preoccupazione al nuovo mondo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ama i giovani che si dibattono freneticamente sulle piste da ballo, la corsa al consumismo, la crisi di istituzioni come la famiglia. Le sue sono le parole di uno scettico radicale: «Tutto è facile. Per farsi una famiglia basta consultare un catalogo di elettrodomestici, c'è una macchina per ogni cosa eccetto purtroppo quella per educare i figli. È facile farsi una famiglia, è facile disfarla. Il benessere che, facendo entrare 13-14 mesi in un anno, ci ha dato il mese corto, ci ha dato anche il matrimonio corto. È l'ora dei miracoli, il miracolo automobilistico, per cui camminare a piedi è diventato un lusso, il miracolo petrolifero per cui dai pozzi emiliani sgorga petrolio russo così l'Italia ha il suo carburante nazionale». Il suo film è una rivisitazione dei grandi rivolgimenti avvenuti dalla fine della guerra al 1963. Guareschi, che è stato imprigionato in un campo di concentramento tedesco, commentando le immagini di piazzale Loreto e il vituperio sui corpi di Mussolini e della Petacci, parla di una «vendetta barbara». Ma non mancano gli affondi pieni di ironia e di sarcasmo, degni dell'inventore di Don Camillo e Peppone, le due maschere simbolo dell'Italia del dopoguerra. A Louis Aragon poeta comunista e stalinista non pentito, Guareschi dice: «Krusciov non gli ha ancora detto quale criminale fosse da vivo l'uomo del Cremlino». Questo film, come gli altri che abbiamo ricordato, non godrà di una eccessiva fortuna al botteghino, forse le verità e le idee di questi quattro grandi intellettuali erano troppo laceranti per l'Italia di quegli anni. La loro lezione di libertà e di coraggio è sempre utile. Per questo sarà giusto ricordare accanto ai loro libri e articoli anche queste quattro opere rimaste per tanto, troppo tempo, nel dimenticatoio.

Quando gli eredi di Don Camillo misero in carcere Guareschi. Fu recluso per 409 giorni nel carcere di Parma per aver pubblicato due lettere, attribuite a De Gasperi. La sua difesa presentò una perizia calligrafica, ma non fu ammessa. Condannato per diffamazione a 12 mesi rifiutò di fare ricorso: «Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume», scrive Luciano Lanna il 26 ago 2016 su “Il Dubbio”. Quando nel 1967 Luciano Secchi, più noto col nom de plume di Max Bunker e come creatore di Alan Ford, fonda la rivista Eureka ha l'idea di arruolare nello staff Giovannino Guareschi, uno scrittore e un vignettista che nei decenni precedenti aveva fatto epoca. Era stato una delle firme e delle matite del Bertoldo, aveva fondato e diretto Candido, i suoi romanzi su Don Camillo e Peppone erano stati tradotti in quasi tutte le lingue. Guareschi, prima di morire, nel 1968, pubblica infatti in esclusiva su Eureka - la rivista che lanciò in Italia Andy Capp e le Sturmtruppen - il suo bel racconto "Gerda". Tanto che Secchi, successivamente, ebbe modo di esprimere tutta la sua riconoscenza: «Guareschi non era di sinistra. Ma la sua colpa agli occhi di tanti intellettuali di elezione, e questa è una colpa anche maggiore e imperdonabile agli occhi dell'élite della jet-society della letteratura è quella di aver venduto parecchie migliaia e migliaia di copie dei suoi Don Camillo, tradotti praticamente in tutte le lingue politicamente occidentali ma anche in quelle che non rientrano in tale definizione. Uno scrittore lo si valuta per quello che ha dato e conveniamo - concludeva Secchi - che parte della critica si è invece lasciata deviare dalla sua obiettività proprio per una questione politica?». Una cosa è certa: Guareschi è stato uno degli scrittori italiani del '900 più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie, nonché lo scrittore italiano più tradotto in assoluto in tutte le parti del globo. Certo, quando Giovannino morì d'infarto a soli 60 anni, in una mattina di luglio del '68, l'indomani L'Unità titolò: "È morto lo scrittore che non era mai sorto". Si trattava, senza tema di dubbio, dell'uomo che con le sue vignette anticomuniste sul Candido era stato determinante - sul piano propagandistico - per il risultato del '48. Eppure, paradossalmente, Guareschi dovette scontare tredici mesi di carcere per un eccesso di polemica antidemocristiana: «Giovannino - ha rievocato Carlo della Corte - si lasciò impegolare, nel trasporto polemico verso la Dc, persino nella persona di Alcide De Gasperi, in una vicenda di lettere apocrife, che egli pubblicò, attribuendo a De Gasperi varie colpe: tra cui quella di avere invocato sull'Italia i bombardamenti alleati per disfarsi di Mussolini». Insomma, in questo caso i comunisti non c'entrano proprio nulla. Fu infatti per via dei democristiani che Guareschi è stato l'unico giornalista nella storia dell'Italia repubblicana a finire in galera per avere attaccato il potere politico. Mai, infatti, si è arrivati da parte di un direttore di giornale agli oltre 400 giorni di carcere che l'autore di Don Camillo dovette scontare all'apice del successo. Giovannino entra nel carcere San Francesco di Parma il 26 maggio '54 per uscirne solo il 4 luglio dell'anno successivo, dopo ben 409 trascorsi sotto la più stretta sorveglianza. Cosa era successo? Sul Candido il 24 e il 31 gennaio '54 Guareschi aveva fatto pubblicare due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e che risultavano firmate da De Gasperi, il quale ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano. Si trattava di due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, chiedendo il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma, "per infrangere l'ultima resistenza morale del popolo romano" nei confronti di fascisti e tedeschi. Il 15 aprile il processo arrivò alla sentenza, davvero a tempo di record e con un'intensa attività diplomatica parallela di cui solo recentemente abbiamo appreso. Al termine, Guareschi, a cui non fu concesso di mettere agli atti la perizia prodotta da quella che all'epoca era un'autorità della grafologia, Umberto Focaccia, venne dichiarato colpevole di diffamazione. Il giornalista rifiutò di fare ricorso o di chiedere la grazia: «No, niente appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente». Molti dei risvolti di quella vicenda restano ancora misteriosi, a partire dall'origine delle lettere che appartenevano a uno strano faldone nascosto in Svizzera da un ex tenente della Rsi, Enrico De Toma, legato ad ambienti dei servizi segreti, così come recentemente è stato raccontato dallo storico Mimmo Franzinelli in Bombardate Roma! Indagine su un giallo della Prima Repubblica (Mondadori). Indro Montanelli, grande amico di Guareschi, era scettico su quelle lettere: «Io sapevo - ha raccontato - che non erano vere, e mi buttai in ginocchio da lui, e a un certo punto commisi anche una scorrettezza per cercare di impedirne la pubblicazione di cui prevedevo gli effetti nefasti. Andai da Rizzoli, che era il suo editore, ma anche l'editore dei miei libri, e glielo spiegai». Ma Rizzoli non si frappose: «Il direttore del giornale è lui, se lui lo ha deciso, pubblichi». E al riferimento delle conseguenze, aggiunse: «Pagheremo le conseguenze!». D'altra parte, Montanelli confermava la totale buona fede di Guareschi: «Lui era convinto dell'autenticità di quelle lettere. Ci voleva credere perché lui non poteva perdonare alla Dc l'ingratitudine. Guareschi era infatti un uomo assolutamente disinteressato, ma almeno un ringraziamento lo avrebbe meritato per la campagna del '48, gli spettava perché la vittoria si doveva in gran parte a lui?». Franzinelli ha spiegato alcuni retroscena di tutta quell'operazione: «Per De Gasperi la questione era fondamentale, di fronte ad un attacco del genere non aveva altra via che la querela. Appunti e riflessioni coeve al processo dimostrano che sul tema ci fu una sua intima sofferenza». E Franzinelli non ha dubbi sull'esistenza di manovratori occulti che misero la "polpetta avvelenata" nelle mani di Guareschi: «I servizi non erano un corpo omogeneo, c'erano cordate concorrenziali. Una di queste usò Guareschi per colpire De Gasperi». I due documenti, che il leader democristiano dichiarò falsi, facevano infatti parte di un voluminoso corpus di carteggi che comprendeva il famoso epistolario tra il Duce e Churchill. Fatto sta che gli inizi del febbraio '54 De Gasperi sporge querela. Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a 12 mesi di carcere per diffamazione. Invano, nelle quattro udienze del processo, il direttore di Candido presenta una perizia calligrafica che dichiara autentiche le lettere, e chiede al tribunale di ordinarne pure un'altra d'ufficio. I giudici rispondono che non c'è n'è bisogno. «Mi hanno negato - protesterà lo scrittore - ogni prova che potesse servire a dimostrare che non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato». Perché in tribunale, la perizia calligrafica avanzata dalla difesa sulle due lettere non venne mai ammessa. Le lettere saranno dichiarate ufficialmente false solo nel 1959, al termine di un altro processo contro alcuni ex ufficiali della Rsi. Il 15 aprile '54 comunque Guareschi viene condannato a dodici mesi di carcere ma si trova costretto a doverne scontare venti per l'aggiunta di un'altra diffamazione che ci riporta indietro di altri quattro anni. Sul numero 25 di Candido del '50 era infatti apparsa una vignetta che ritraeva il presidente della Repubblica Luigi Einaudi mentre sfila tra due ali di corazzieri molto particolari: sono bottiglie di vino che recano un'etichetta con scritto "Nebiolo - Poderi del Senatore Luigi Einaudi". Si procedette per vilipendio del Presidente della Repubblica contro Carletto Manzoni, autore della vignetta, e Guareschi, direttore responsabile della testata. I due erano stati assolti in primo grado ma poi condannati in appello a otto mesi con la condizionale, che veniva annullata dalla nuova sentenza. Cominciano, certo, le pressioni perché Guareschi vada in appello, dove la faccenda si potrebbe forse accomodare. Lui però è un uomo che non scende a compromessi e risponde sul Candido: "No, niente appello". Il 26 maggio 1954 prepara lo zaino, lo stesso che aveva nel lager tedesco in cui era stato deportato ed entra nel carcere di Parma. Ne uscirà il 4 luglio '55 con una carta precettiva che gli impone di non allontanarsi per altri sei mesi dai comuni di Busseto, San Secondo, Soragna, Polesine Parmense, Zibello e Roccabianca. Guareschi vittima in buona fede di una manovra ordita da altri? Molti ne sono convinti. Anche se Guareschi restò persuaso fino alla fine che le lettere erano autentiche. Di certo pagò un prezzo altissimo. «Il Guareschi, uscito dalla galera - ammetterà Montanelli - non era più lui. Il suo fisico era già minato dal lungo campo di concentramento subito in Germania. In prigione era popolarissimo, gli offrivano qualche alleggerimento di pena. Ma lui no, non ne volle nessuno, volle essere trattato come il peggiore dei delinquenti rinchiusi lì dentro. Andò così, lui non fu più lo stesso dopo?». Tutti lo abbandonarono, solo su La Notte di Nino Nutrizio e sul Borghese di Leo Longanesi riuscì a scrivere qualche articolo. D'altra parte, come apprendiamo dai documenti desecretati e studiati da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in Colonia Italia (Chiarelettere, 2015), De Gasperi dovette rivolgersi direttamente a Churchill per ottenere la certificazione dell'inautenticità di quelle lettere in un momento assai critico della sua parabola politica. Il 16 febbraio 1954, infatti, un suo emissario, il funzionario della Farnesina Paolo Canali, raggiunge subito la capitale britannica. Ma gli inglesi temporeggiano e fanno perdere tempo: «La loro tattica - si legge in Colonia Italia - è chiara: non potendo sbattere la porta in faccia al leader del maggior partito italiano, cercano di tenerlo sulla corda il più a lungo possibile. Forse sperano che si logori, nell'attesa che a Roma maturino le condizioni per una sua definitiva uscita di scena". A Londra Canali aspetta e aspetta. Solo a fine febbraio potrà rientrare a Roma con la documentazione che consentirà all'ex premier italiano De Gasperi di affrontare serenamente il processo contro Guareschi. Prima, però, Churchill ha convocato Canali al numero 10 di Downing Street, all'improvviso, a quattrocchi, lontano da occhi indiscreti: «Ma cosa? Alla data, gli archivi di Kew Gardens non conservano traccia alcuna sui contenuti di quel misterioso colloquio tra l'ottantenne Sir Winston e il giovane diplomatico della Farnesina. Sappiamo invece che qualche giorno dopo, il 3 marzo '54, da piazza del Gesù, De Gasperi invia una calorosa lettera di ringraziamento a Churchill». L'affaire si avvia comunque a conclusione solo dopo questi incontri: il 15 aprile, come abbiamo visto, a Milano, Guareschi viene condannato e l'onore del leader democristiano è salvo. «Ma la sua definitiva uscita di scena - è la conclusione del capitolo sul "processo Guareschi" di Colonia Italia - è ormai imminente. Prima dalla politica: sconfitto in giugno al Congresso della Dc, a Napoli, deve lasciare ad Amintore Fanfani la segreteria del partito. Poi dalla vita: in agosto muore per un attacco d'asma, malattia insorta qualche tempo prima. De Gasperi se ne va il 19 agosto, lo stesso giorno in cui, un anno prima, era stato deposto Mossadeq a Teheran».

·        Gipi.

Nicola Mirenzi per huffingtonpost.it il 2 marzo 2021. Il successo l’ha ottenuto con “La mia vita disegnata male”, un fumetto che si muoveva tutto intorno all’io, l’io che raccontava, l’io che si metteva a nudo, l’io che si drogava, l’io che subiva violenza, l’io che aveva problemi d’erezione. Io, io, io, io, io. Il pronome personale che oggi Gipi detesta di più. “Da qualche anno”, dice, “vivo l’uso che ho fatto dell’autobiografia come un difetto, non solo come uno stile di racconto. Non mi pento delle forme che ho dato ai libri, in termini di parole, racconto, disegni. Mi riferisco alle motivazioni segrete che stanno alla base di quel che ho fatto. Alcune le ho scoperte, e non mi hanno fatto piacere, né mi piacciono. Sono disposto a riconoscermi una sola attenuante: allora i social network non avevano ancora conquistato il mondo e le persone non raccontavano se stessi ventiquattro ore su ventiquattro”. Mi dice Gipi che, dopo aver attraversato il cancello di casa sua, che è nella campagna che si apre appena fuori Roma, verrà a prendermi “un vecchio signore con un camice da lavoro blu e pantaloni mimetici”. Lo vedo arrivare in lontananza, dopo aver percorso una strada sterrata, e quando è ormai a pochi passi mi accorgo che il “vecchio signore” è in realtà lui, uno dei fumettisti più apprezzati d’Italia, l’unico che è stato candidato due volte al Premio Strega, sicuramente il meno riposante. “Ho il terrore di ripetermi. Dopo La mia vita disegnata male avrei potuto farne altri dieci di libri così. La vita che ho fatto da giovane me lo permetterebbe. Ma guardami ora. Vedi dove sto? Vivo in questa bella casa. Ecco la vista sui Castelli Romani che c’è. Ho il giardino recintato, due cani, ho come vicino di casa il nuovo ministro della pubblica amministrazione. Sono diventato un borghese, integralmente. Come diavolo faccio a raccontare di quando vivevo per strada? Non c’è più alcun rapporto tra il me stesso di oggi e il me stesso di allora. Capisci? Quando ho lavorato con l’autobiografia ero uscito da cinque minuti dal mondo dei morti di fame di provincia. Ero vivo per miracolo. Ho rischiato di morire per stupidità una decina di volte. Tante persone con cui ho fatto la strada non ci sono più. C’era stato un disastro tra i miei amici. Pensavo che meritasse di essere raccontato. Oggi non vivo alcun disastro. Tranne quello interiore, di cui non voglio parlare, che è la vecchiaia”. Mi accorgo solo ora di non avergli chiesto come ci si possa sentire vecchi all’età che ha lui, cinquantasette anni. Sono stato distratto dal fatto che mi ha portato nel posto dove lavora, al tavolo dove sta scrivendo e disegnando una storia western che non sa ancora se diventerà un libro, e sono incantato nel vedere la tavola che ha disegnato oggi che si sta ancora asciugando: “Non so niente del West, non sono mai stato nemmeno in America. L’ho scelto come ambientazione anche perché così diminuisco il rischio di ritrovarmi a dire la mia sul mondo moderno”. La legge ad alta voce e sembra che la stia solfeggiando. “Il ritmo è l’elemento più bello da gestire in una storia a fumetti, quello che dà più carattere. Ho sempre un tempo musicale in testa nelle storie. Ricerco la cadenza, gli accenti, le pause, come credo farebbe un rapper”. Gipi ha suonato le tastiere in un gruppo punk (“non è che servissero a molto”), ha cantato in uno punk-hardcore, ha suonato il basso in una band reggae e i sintetizzatori in un altra formazione della quale dice che facevano musica “stranissima” e che prendevano molti psicofarmaci. La musica e il fumetto sono vicinissimi anche qui nello studio dove lavora. Ha il vinile di “Q: Are we not men?” dei Devo (“un disco che mi ha cambiato la vita”) e poi una Fender Telecaster impolverata, due chitarre acustiche, un basso anch’esso acustico, una tastiera, una pedaliera multieffetti, un sintetizzatore Moog Sub Phatty. “Amo disperatamente la musica. Purtroppo non sono ricambiato. Altrimenti avremmo fatto cose incredibili insieme”. L’ultimo libro che ha pubblicato l’ha solo scritto. I disegni sono di Luigi Critone. Si chiama “Aldobrando” (Coconino Press).

Perché non sei più tu il protagonista del libro?

«Non volevo tornare a raccontarmi nelle storie. Ero riuscito a togliermi di mezzo con “La terra dei figli” e ne ero proprio contento. Ma poi è morta mia madre e il lutto mi ha spinto a parlare di nuovo in prima persona in “Momenti straordinari con applausi finti”. Non avrei voluto farlo, ma stavo troppo male e speravo che raccontare, come era accaduto in passato, poteva farmi stare meglio. Però, davvero, avrei preferito non farlo. Non mettere in scena un personaggio che, di nuovo, mi rappresentava».

Ma perché?

«Diciamo che se chiedi alle persone di pagare per quello che racconti gli devi dare qualcosa che valga il prezzo di copertina. Il reporter di guerra non lo paghi per la bella scrittura o la bella foto. Lo paghi perché va in posti in cui tu non andresti. In piccolo, con l’autobiografia, io facevo quello. Andare dentro di me, magari nei posti peggiori, e raccontare quello che vedevo era diventato il mio mestiere. Ma in quegli anni i social network non avevano ancora conquistato il mondo mentre adesso questa attività è diffusissima, e non vedo perché qualcuno dovrebbe pagarmi per fare quello che fa già da sé: guardare se stesso e raccontarsi, mettersi in posa, nel peggiore dei casi».

Be’, non mi pare che tutti possano fare quello che fai tu, né che tu ti sia messo in posa.

«E invece sì, anche la super modestia, il dire “ehi, guardate cosa è successo a questo coglione”, il rappresentarsi come un idiota era una posa, una forma di narcisismo, anche se inconsapevole. Ero sincero quando lavoravo in quel modo. Ero convinto di essere autentico. Lo facevo proprio per questo: per una ricerca di autenticità. Ma con gli anni ho perduto questa fascinazione per “l’autenticità”. Nelle storie mi sono messo nella posizione del debole, dello scemo, della vittima pure, e solo dopo anni ho capito che era anche quello un modo per chiedere amore agli sconosciuti. Come fanno tutti, ogni giorno. E di chiedere amore agli sconosciuti ci si dovrebbe un pochino vergognare. Io, quantomeno, oggi me ne vergogno».

È comodo essere vittime?

«Quando sei vittima di qualcosa di serio non è comodo affatto, te lo porti dietro tutta la vita. Mia sorella è stata violentata quando ero piccolo e io, che stavo con lei nella stessa stanza, indirettamente, ho subito roba molto brutta. Ma non ne ho mai tratto motivo di fierezza. Forse, se sei vittima di offese molto superficiali può capitare di utilizzare queste offese per darsi un’identità, un senso, per fare squadra e trovare un motivo di lotta. È una cosa che vedo succedere tra molti ragazzi giovani. Come se le asperità dell’esistenza, invece di essere affrontate e risolte, potessero essere piegate in una ennesima forma di narcisismo, in una affermazione di sé. Però neppure questa condizione mi sembra comoda, più “disperata” se proprio dovessi dargli un aggettivo».

Ti senti un sopravvissuto?

«No. Però da ragazzo non pensavo che sarei vissuto così a lungo. Ero sicuro che sarei morto prima dei trent’anni. Oggi sto molto meglio di come stavo da giovane. A tratti sono quasi in pace. È molto strano. Da ragazzo ricordo che immaginavo il capodanno del 2000 e rabbrividivo all’idea che lo avrei vissuto da vecchio. Ora da quel capodanno sono passati altri 21 anni. Ero davvero convinto che levarsi di mezzo finché giovani fosse una cosa onorevole. Occasioni per riuscirci ne ho avute. Alcune molto serie. Altre buffe, come questa. Una sera, a Lucca, ero talmente alterato da un mix di sostanze chimiche che credevo di volteggiare sopra la scalinata di una chiesa con i miei perfetti salti mortali. In realtà saltavo quattro scalini di marmo e atterravo di nuca o di faccia. E poi risalivo gli scalini strisciando come un verme e ripetevo l’acrobazia. C’erano persone intorno che applaudivano. Al tempo non c’era il web per guardare persone che si spaccano la testa, quello show era un’eccezione. Ero veramente molto stupido. In termini darwiniani proprio. Il problema era che ritenevo inaccettabile divenire, un giorno, un uomo di mezza età. Invece eccomi qui. L’esistenza è una cosa buffa perché è difficilissima da abbandonare, anche nei momenti in cui, magari, ti fa sinceramente schifo».

Ti fa ancora schifo?

«Il giorno in cui mi sono sposato, sei anni fa, ero sulle Dolomiti. Mi alzai all’alba e uscii a camminare. Guardavo le montagne innevate e per la prima volta nella mia vita mi sono sentito di essere esattamente dove dovevo essere, quando ci dovevo essere, a fare la cosa che dovevo fare. E tutti i casini fatti, visti da quel punto finale, sembravano quasi avere un senso, erano serviti a portarmi lì. Da quella sensazione è nata anche l’idea di “Aldobrando”, la storia più luminosa che ho scritto finora».

Che però è anche l’unica che non hai disegnato.

«Luigi Critone è un disegnatore eccezionale e perfetto per quella storia. Era giusto che lasciassi le matite a lui. Però non è stato facile. A me piacciono parole e disegni. Le parole ti parlano alla testa, mentre il disegno ti prende la pancia. Mi capita spesso di avere pronta una sceneggiatura e di distruggere con il disegno quello che ho scritto a tavolino. Succedono sempre delle cose che sfuggono al mio controllo quando disegno, e questo fenomeno è quello che amo di più del mio mestiere».

Puoi descriverlo?

«Provo a dirtelo così. Quando ero più giovane dicevo spesso, come al solito facendo un po’ il furbo, che la mia massima ambizione era “arrivare a disegnare come John Coltrane”. Però Coltrane suonava il sassofono. Era un jazzista. Non faceva fumetti. Quello che intendevo è che speravo un giorno di avere quelle possibilità di improvvisazione. Voglio dire: non credo che Coltrane pensasse alle note che suonava quando improvvisava. Coltrane suonava e basta. Tutto quello che era nella sua disponibilità, semmai, veniva da discipline applicate prima che suonasse. Cioè, tu studi come un matto, ti eserciti come un ossesso, per arrivare al punto in cui, grazie a quello che hai acquisito, riesci a staccarti da te stesso e andare altrove. Nel caso di Coltrane, oltre il mondo terreno. Nel caso mio, più umilmente, per assistere, a volte, al manifestarsi di un mistero: quello di vedere accadere qualcosa che non avevi previsto, che non sapevi, che non è il tuo io a determinare e che anzi è potuto esistere proprio perché il tuo io è svanito per un po’. In altre parole, sono soddisfatto di qualcosa che ho fatto solo quando la guardo e mi sembra che non sia opera mia».

Allora perché la firmi tu, se non è opera del tuo “io”?

«Perché io posso perdere il controllo, ma comunque sempre dentro i confini di quello che conosco, delle tecniche che ho imparato, delle parole che sono nel mio vocabolario, dei limiti della muscolatura della mia mano destra. C’è il mio nome perché sono io che ho dedicato l’esistenza a questa follia, mia è la gobba spuntata stando al tavolo da disegno. Mie le diottrie lasciate sui fogli.

Coltrane era un musicista spirituale. Lo sei anche tu?

«In un solo momento della mia vita ho ipotizzato l’esistenza di qualcosa di superiore: quando ho disegnato un albero dal vero per la prima volta e la quantità di bellezza che ho visto era così sconvolgente che ho pensato: “Non può essere un caso”. È una sensazione che è durata solo un pomeriggio, perché sono cresciuto con i cani e so che i cani hanno le pulci, mentre le pulci non sanno che esiste un cane, come i parassiti delle pulci, a loro volta, non sanno che esistono né le pulci, né il cane. Eppure credo che sia le pulci, sia i parassiti delle pulci, guardando i peli del cane, in certi momenti, possono intravedere in essi una grazia superiore, fatta apposta per loro. Mentre noi sappiamo che si tratta solo dei peli di un cane. Qualsiasi spiegazione di Dio prevede che in un universo in continua espansione egli abbia una particolare attenzione – guarda caso – per quello che faccio io e che, guarda un po’, ha stabilito anche un sacco di regole che sembrano proprio scritte da uomini. Ecco: per i miei canoni, questo Dio che sta a sorvegliare le mie attività, sessuali e non, è un’idea un po’ troppo impiegatizia».

Credi davvero che sia questo il Dio di Coltrane?

«Non ho idea di quale fosse l’idea di Dio di Coltrane. Se devo essere così presuntuoso da ipotizzare come la spiritualità possa prendere un posto tanto importante nella vita di un artista, allora ti dico che forse di fronte a tutta la grazia che c’è nell’esistenza si può essere travolti da un tale sentimento di riconoscenza e insieme di terrore da essere spinti a dare a questa vertigine il nome di Dio. Magari a lui è andata così: ma come posso saperlo?»

Perché hai cancellato il tuo account Twitter?

«Perché mi faceva male».

Cosa ti faceva male?

«Mi sono accorto di due cose stando sui social: la prima è che qualsiasi puttanata scrivessi c’era sempre qualcuno che comunque, molto gentilmente, mi diceva che ero un "genio"».

E qual è il problema?

«Che quando qualcuno ti dice che sei un genio, anche se sai che non è vero, una parte di te ci crede. E quando a uno che fa il mio mestiere gli si insinua il dubbio di essere un genio è finito.

E la seconda cosa che hai capito?

«È legata alla prima: i like, i retweet, hanno un effetto immediato, ti rafforzano nelle tue convinzioni, ti scaldano il cuore, ti fanno sentire parte di una comunità, di una tribù. Io avevo centomila follower e sapevo abbastanza bene come avrebbero reagito ogni volta che scrivevo una cosa. Sapevo che se li avessi scatenati contro qualcuno, segnalando una qualche bestialità, probabilmente mi avrebbero seguito. Non tutti, ma almeno un migliaio sì. Lo sapevo; ma lo facevo lo stesso. Perché non c’è niente da fare: per quanto uno odi il potere, come lo odio io, se lo hai, lo eserciti».

Ma perché ne sei uscito?

«Più volte i fascisti mi hanno minacciato di corcarmi di botte, erano cose che mi aspettavo facessero, di cui non mi sono mai troppo curato. I dispiaceri veri li ho avuti dall’altra parte, da quelli di sinistra. Per qualche motivo a me ignoto riuscivo a soffrire per quello che dicevano, forse perché dentro mi dicevo: “Ma non vedi che sono dalla tua parte?”. E ogni volta che ho ingaggiato una discussione con loro più cercavo di spiegarmi più mi azzannavano, con le solite accuse, il “maschio bianco”, il “privilegiato etero cisgender eccetera”. Molte persone diverse usavano le stesse parole. Era triste avere a che fare con persone che risultavano sovrapponibili e sostituibili le une con le altre, che avevano rinunciato alla loro individualità, che sarebbe stata sicuramente interessante, per prestare la loro voce all’ideologia in voga al momento. Comunque sia, rispondevo a tutti, discutevo con tutti. Finché un giorno mi ritrovo con questo cazzo di telefono in mano a dire: “Sta succedendo di nuovo”».

Stava succedendo cosa?

«Stavo riattivando dentro di me il meccanismo che si era innescato la notte in cui è stata violentata mia sorella. Quando, anche se ero piccolo, cercavo di convincere quell’uomo a lasciarci stare e non capivo che lui, invece, era venuto lì apposta per farci del male. In pratica, si stava ripetendo in me lo stesso processo ma traslato su un social network. Quelle non erano persone con le quali potevo parlare, era gente che voleva solo sfogare la propria aggressività, e io ci cascavo tutte le volte, come il coglione che sono. Quando me ne sono accorto, ho chiuso gli account».

Non potevi semplicemente spegnere il telefono?

«Se fosse così facile i proprietari delle piattaforme non sarebbero multimiliardari. I social network sono ingegnerizzati per agevolare il conflitto. Il conflitto genera “engagement” come lo chiamano loro. Il tuo tempo, in parole povere. Quel tempo viene poi convertito in tariffe per gli inserzionisti. I social sono costruiti in modo che, se non hai un carattere forte, possono renderti una persona peggiore. E più tempo ci stai, e più diventi peggiore. E più diventi peggiore, e più fai fatturare soldi. Sono un’impresa che funziona alla perfezione, fondata sostanzialmente su una malattia».

Qual è la malattia?

«L’esigenza di esprimere la propria opinione su qualsiasi argomento, di processare, giudicare, mettere all’indice qualcuno, ogni giorno della settimana».

Sei ammalato anche tu?

«Lo sono sicuramente stato».

Ora sei guarito?

«Probabilmente no. Ma, al momento, forse, ho trovato il modo di starne alla larga».

·        Giorgio Strehler.

Giorgio Strehler servitore di due passioni: la politica e il teatro. L’amore per il palcoscenico. E l’impegno politico vissuto sulla scena prima ancora che in Parlamento. Uniti negli scritti del geniale regista, nato il 14 agosto di cento anni fa. Francesca De Sanctis su La Repubblica l'11 agosto 2021. Proviamo ad immaginarcelo nel buio di una sala teatrale, mentre balza su e giù dal palcoscenico, con un corpo agile quasi come il suo Arlecchino. Indossa pantaloni a lupetto nero e morbidi calzari. Dirige i suoi attori. A volte li terrorizza con le sue sfuriate, per poi tornare calmo subito dopo, come se niente fosse accaduto. Intanto continua a sviscerare il testo da mettere in scena. E ogni opera che sceglie di rappresentare è già un atto politico, dalle storie goldoniane sulle ingiustizie subite dai più umili alle vicende nobiliari raccontate da Čechov. Giorgio Strehler faceva politica lì, in teatro. Era un convinto socialista (o almeno lo è stato fino ad un certo punto), ma si sentiva un politico non certo per la sua esperienza di parlamentare europeo nelle fila del Partito socialista o per la sua candidatura al Senato nelle liste indipendenti del Pci, né per aver parlato tante volte di Resistenza e antifascismo, lui che aveva combattuto da partigiano, o per i tanti discorsi e i comizi elettorali. Lo era in senso più ampio, per quel suo modo che aveva di intendere il mondo. E quindi anche per la sua visione di teatro, per i suoi spettacoli. All’epoca di Tangentopoli aggiunse una battuta al suo Arlecchino: «Beati i tempi in cui gli uomini erano onesti». Pochi attimi di pausa e poi giù applausi. Era un personaggio scomodo, certo. Un padre ingombrante, a volte. Ma soprattutto era un indiscutibile maestro della scena (Le Monde lo definì «il più grande regista del Novecento»), un eterno ragazzo che ha immaginato e poi costruito, spazzando via i capocomici per dare spazio alla figura del regista, con una visione europeista ante-litteram del teatro. E agli attacchi subiti in diversi momenti della sua vita ha sempre tenacemente resistito, dalle accuse di blasfemia dei cattolici alle contestazioni del ‘68, fino agli insulti della destra che lo costrinsero negli ultimi anni a «dimettersi da italiano». «A me la politica non fa paura. Io credo alla politica come all’uomo, animale politico. Credo alla dialettica della storia che “si fa politica”. Detesto la politica che diventa sottogoverno», scriveva nel 1971 (da “Nessuno è incolpevole”, a cura di Stella Casiraghi, Melampo, 2007). Chissà cosa direbbe oggi osservando il nostro Paese, i suoi politici, l’arrivo della pandemia, il suo amato e disastrato teatro. Certe sue frasi sono ancora così attuali. Basta leggere il ricordo inedito di Sandro Pertini, in cui si interroga sulla «sincerità della politica». O scorrere tra le righe di articoli, appunti, riflessioni che stanno per confluire nel volume “Lettere agli italiani” (a cura di Giovanni Soresi, con introduzione di Ferruccio de Bortoli), il primo di una collana editoriale progettata dal Teatro Piccolo di Milano–Teatro d’Europa in collaborazione con la casa editrice Il Saggiatore. Il suo ricordo di «zio Sandro» (come lo chiamava spesso) confluirà proprio in quel volume, che raccoglierà una ventina di contributi politici apparsi su alcuni dei principali quotidiani italiani fra il 1984 e il 1992. Il volume uscirà in autunno, ma la raccolta degli scritti politici fu ideata dallo stesso Strehler. Venne anche messa a punto a dicembre 1992, ma non fu mai pubblicata. Fra quelle pagine ci sono le riflessioni sul futuro della Sinistra italiana e sui suoi principali partiti, il Pci e il Psi, dei quali intuisce la crisi e la futura frammentazione in correnti; c’è la delusione di fronte all’avanzata di una classe politica priva di ideali e assetata solo di denaro e di potere; e poi ci sono l’impegno instancabile per la stesura di una legge sul teatro, la preoccupazione per il nuovo assetto geopolitico dopo il crollo del Muro di Berlino e la perestrojka di Gorbaciov, l’amore per Milano e il sogno di un’Europa unita. «Oltre agli scritti strehleriani, la nuova collana editoriale pubblicherà drammaturgie inedite italiane e internazionali legate alle produzioni del Piccolo Teatro, antologie di nuovi testi teatrali provenienti da varie parti d’Italia o di taglio monografico per autori/autrici internazionali, studi e ricerche di natura storico-critica», ci anticipa Claudio Longhi, neodirettore del Piccolo, pronto a rendere omaggio al suo fondatore nel centenario della nascita con tantissime iniziative: un nuovo sito internet a lui dedicato (giorgiostrehler.it), una mostra (“Strehler e i palcoscenici milanesi”), un grande festival di teatro internazionale in primavera, una serata speciale il primo ottobre intitolata “Il mio mestiere è raccontare” e tanti altri eventi. Sarà una festa lunga un anno, Strehler100, a partire dal 14 agosto, giorno del suo compleanno. Giorgio Strehler era nato a Barcola, periferia marina di Trieste, da madre slovena e padre austriaco. Ma è a Milano che si è formato e lì ha vissuto per quasi tutta la vita. D’altra parte, amava quella città. L’unica cosa di cui sentiva la mancanza era il mare. Si era diplomato presso l’Accademia dei Filodrammatici. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale si rifugiò in Svizzera e quando tornò in Italia fondò, con Paolo Grassi, il Piccolo Teatro di Milano, primo teatro stabile pubblico in Italia, un teatro d’arte popolare, con una platea piena di giovani provenienti da officine, scuole, uffici. Morì la notte di Natale, come Charlie Chaplin. Era il 1997. La sera prima, nella villa a due piani che guardava verso il lago di Lugano, aveva decorato con palline e nastri d’argento un albero nel suo giardino e poi aveva trascorso la serata con degli amici. Pochi mesi prima, su un bigliettino aveva scritto: «Niente rumore, se muoio». Il rumore, in realtà, è stato inevitabile. Ma nessun discorso il giorno del suo funerale, solo la musica del suo amatissimo Mozart.

Nel mezzo, tra la nascita e la morte, il Teatro. Sono oltre duecento gli spettacoli che portano la sua firma e che raccontano cos’era per lui il teatro: utopia, arte, divertimento. Dall’ “Albergo dei poveri” di Gor’kij, scelto come spettacolo di apertura del Piccolo nel 1947, a “Così fan tutte”, che sarebbe stata la sua prima regia nella nuova sede di largo Greppi (morì un paio di settimane prima dell’inaugurazione), passando per “Il Servitore dei due padroni” di Goldoni (storico allestimento ripreso tante volte in tutto il mondo e interpretato prima da Marcello Moretti, poi da Ferruccio Soleri), “Il giardino dei ciliegi” di Cechov, “I giganti della Montagna” di Pirandello, “La tempesta” di Shakespeare, “Vita di Galileo” di Bertolt Brecht, con un corteo di carnevale che diventa parodia della processione, e poi Mozart e Verdi. Per ripercorrere visivamente i suoi spettacoli, vale la pena sfogliare le pagine di un bellissimo volume pubblicato qualche anno fa e dedicato al suo storico scenografo: “Ezio Frigerio. Cinquant’anni di teatro con Giorgio Strehler” (Skira). «A parecchi registi le scene che inventavo andavano subito bene», ricorda Frigerio. «A Strehler invece non andava mai bene niente e così nascevano infinite discussioni, a volte divertenti, a volte no, perché erano la conseguenza dell’incontro diverso che avevamo avuto con quella certa epoca e con il suo mondo». Tutti i dettagli della vita privata e lavorativa di Strehler, completa di aneddoti gustosissimi, sono contenuti, invece, nella biografia pubblicata di recente da La Nave di Teseo, “Giorgio Strehler. Il ragazzo di Trieste. Vita, e morte e miracoli” di Cristina Battocletti, un volume prezioso in cui annegare piacevolmente fra storie, personaggi e genesi di tanti spettacoli e che chi ama il teatro adorerà. Il più grande merito di Giorgio Strehler? «Sicuramente aver portato il teatro di regia in Italia, che nel nostro Paese è arrivato tardi rispetto al resto d’Europa», ricorda Longhi. «Il suo modo di intendere il teatro ha cambiato tutte le regole del gioco. E oggi più che mai è necessario riflettere su quel modello di Teatro pubblico da lui ideato con Paolo Grassi: il teatro non come pratica fine a se stessa ma come necessità. E sul terreno estetico ricordiamoci che ha introdotto nuove drammaturgie: da una parte, dopo il regime, ha portato in scena i testi di Bertolt Brecht, dall’altra ha reinventato il grande repertorio classico, da Goldoni a Pirandello». E ogni volta che debuttavano i suoi spettacoli era un evento. «Il mio unico incontro con Strehler fu nei primi anni Novanta, ero all’inizio della mia carriera. Lo incontrai a Roma, dove lavoravo come assistente alla regia di Luca Ronconi. Ricordo solo l’aura di autorevolezza che lo circondava. Era il Maestro, avevo la sensazione di avere di fronte qualcuno che stava cambiando qualcosa». Il Maestro, già. Una specie di re che viveva nel suo tempio. Guai a tradirlo, come fece una volta Ottavia Piccolo, che ancora minorenne preferì lavorare con Visconti anziché aspettare una risposta da Strehler. Ma l’ex partigiano scrisse alla madre, dicendole che sua figlia non avrebbe più lavorato in alcun teatro italiano. Naturalmente poi le cose andarono diversamente, Strehler aveva il suo bel carattere. Ma era pur sempre il “mago dei maghi”, artefice ogni volta di nuovi prodigi. Il più grande, forse, è l’averci insegnato a guardare meglio il mondo e a immaginarcelo migliore. Tra i 300 telegrammi ricevuti alla sua morte, ce n’era uno di Raf Vallone che parafrasava García Lorca: «Tarderà molto a nascere, se nasce, un genio così puro, così ricco di eleganza».

GIORGIO STREHLER FU UN GENIO? Masolino D'Amico per "la Stampa" il 22 aprile 2021. «Per ricreare l' orizzonte tremolante del suggeritore goldoniano che sussurra "Si era sul Canal Grande con riflessi di luna", riprende il lavoro di rifrazione del mare sugli edifici bianchi e sui mosaici del palazzo delle Assicurazioni Generali. "Metti un secchio d' acqua in quinta, puntaci sopra il riflettore e muovi l' acqua con il dito", ordina a un tecnico, e l' effetto è strabiliante». Per Giorgio Strehler le luci erano fondamentali, la vera vita di uno spettacolo. Le provava per molte ore prima delle prove, e poi ancora con gli attori sul palco. Diffidava dell' elettronica e delle attrezzerie moderne e contava solo sul proprio occhio e sulla propria manualità. Un' altra volta i tecnici non riescono a dargli la luce fredda come la vuole lui. Alla fine Strehler scopre in quinta certe assi di legno che malgrado tutto immettono ancora una minima gradazione di calore. E le elimina.

Fu vero genio? Con l' accento su questa fissazione del grande regista proprio all' inizio del suo denso, ben documentato libro Giorgio Strehler - Il ragazzo di Trieste (La Nave di Teseo)- particolarmente tempestivo in questo anno centenario del nostro, nato nell' agosto 1911 - Cristina Battocletti offre subito la chiave per spiegare a noi fortunati che vedemmo tante realizzazioni strehleriane dal vivo, quanto del loro incanto le pur preziose registrazioni non riescano a recuperare. Fornisce, anche, argomenti per rispondere a una domanda che qua e là si pongono alcuni dei molti personaggi intervistati. Giorgio Strehler fu un genio? Tra quelli che a caldo venivano travolti dal suo fascino di incantatore, soprattutto attori (si sa quanto gli attori abbiano bisogno di amore, coccole, rassicurazioni, e lui fu un supremo dispensatore di bastoni e carote) qualcuno tende retrospettivamente a prendere le distanze. Sì, lì per lì così sembrava, ma forse... Oziosa questione, naturalmente. Nata anche dal curioso pregiudizio secondo cui bisogna distinguere tra creatori e interpreti. Il primo a denunciarlo fu Oscar Wilde, quando sostenne, contro l' idea comune, che il critico - l' interprete - è superiore all' artista: questo lavora sulla vita, che è imperfetta, e l' altro sull' arte, che l' ha migliorata. Strehler stesso fu per qualche verso insoddisfatto di sé. Avrebbe voluto essere autore, e progettò film e narrazioni originali, ma senza andare fino in fondo. Ma un interprete non può essere un genio? Toscanini, Maria Callas, non lo furono forse? Trarre il meglio dal passato a beneficio di una nuova generazione non è operazione ammirevole? E dopotutto, che altro fa un creatore, se non costruire su materiali preesistenti? Esisterebbe Picasso senza i duemila anni di pittura che lo precedettero? E non ha detto qualcuno che il genio consiste nell' instancabile cura dei particolari? Certo, nessun libro può riprodurre l' effetto che degli spettacoli ebbero sul pubblico per cui nacquero. E' il teatro, bellezza. E nel raccontare l' uomo non si può evitare l' aneddotica, tanto più che Strehler fu contemporaneamente umile nell' arte e narciso nella vita: maniacale sul lavoro, dispersivo negli amori, indifferente al denaro, sprovveduto fino al punto di pagare la coca con assegni firmati, e di lasciare due vedove a disputarsi una casa gravata dal mutuo. Gli anni più felici furono quelli della fondazione del Piccolo di Milano, nato quasi dal nulla, in un ex cinemino disastrato già adibito a camera di tortura dai nazifascisti; e poi quelli successivi, con la sala di via Rovello dove una compagnia stabile infondeva nuova vita nei classici a beneficio di una comunità da cui poi si estese un modello ammirato e imitato in Italia e in Europa. La fase in cui si espresse al meglio il talento così multiforme del regista, capace di captare nuove risonanze e malinconie in Goldoni come di farsi portavoce del sardonico messaggio civile di Brecht, fu l' alleanza col non meno appassionato ma lui sì sagacissimo amministratore Paolo Grassi. I dioscuri, lui e Paolo Grassi Il binomio funzionò al meglio negli Anni 50, poi forse cominciò a prendersi troppo sul serio, per esempio col rito quasi sacrale del Galileo di Brecht, sette ore al debutto nel '62 (io c' ero), ridotte di 45' già alla prima replica. Poi, avvicinandosi il '68, la contestazione prese di mira anche il Piccolo, assurdamente denunciato come strumento del Potere. Strehler, sempre sensibilissimo alle critiche, se ne andò. I dioscuri si separarono. Grassi resse la barra da solo, poi passò alla Scala e Strehler tornò, ma fu Pinocchio senza il Grillo Parlante. Continuò a fare spettacoli memorabili e a scavare brillantemente nei testi, però con una lenta deriva verso l' autoaffermazione. Nel macchinoso Faust del 1989 si espose, incautamente, come protagonista, rivelando di essere, lui maestro di recitazione incomparabile, «solo» tecnicamente bravo. Agiva, anche, nei teatri lirici, e all' estero, mantenendo la stessa qualità; impostava o sublimava, e spesso amava, primedonne (Vanoni, Cortese, Milva, Jonasson). Era, a conoscerlo, di grande simpatia, con i suoi scatti e le sue insofferenze concitate, ma al pettegolezzo esponeva un personaggio dalla vanità un po' ingenua, capelli inazzurrati e pettinino sempre in tasca, scarpe col rinforzo, maglioncini dolcevita, e l' eloquenza torrenziale, alimentata ahimé da quella polvere bianca che alla lunga rende gli affabulatori logorroici, ricordiamo Walter Chiari, e bisognosi ogni tanto di disintossicarsi. Negli ultimi anni entrò in conflitto con l'amministrazione leghista che intralciava i lavori del nuovo teatro, e quando morì improvvisamente, a Natale, la piaga non si era sanata. La biografa parla del funerale di un re e di una città in gramaglie, ma le cose non andarono proprio così (ero anche lì, quel 26 dicembre '97). Milano non si era ancora ripresa dalle esequie, a luglio, di un altro sovrano più in sintonia con le frattanto subentrate leggi del marketing globale, ovvero Gianni Versace.

·        Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa: Il Gattopardo da qui all'eternità. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 3 gennaio 2021. Come il suo Principe di Salina, in tempi diversi ma in contesti simili, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha assistito, nel corso della sua vita, al tramonto di un mondo che era sempre stato, fino a un certo tempo, così come l’avevano conosciuto lui e i suoi avi, eredi di una tradizione che poneva al di sopra di ogni cosa, anche dello stesso vivere individuale, il valore della Conservazione. Come sacerdote di quella divinità, Tomasi visse molti fallimenti: vide il mondo di allora sgretolarsi sotto i colpi di due guerre mondiali, che non poterono più restituire agli uomini che le avevano vissute lo spirito del prima; subì la perdita di ciò che aveva di più caro, il palazzo di Palermo, la sua casa e insieme il santuario di quella Conservazione familiare cui era stato chiamato; assistette, infine, al fallimento del suo romanzo, più volte rifiutatogli dagli editori, nel quale aveva riposto la speranza di resurrezione di quella fiamma che illuminava tutto ciò che la sua casuale nascita di sangue e la sua naturale indole gli avevano imposto di salvare. Due giorni prima di morire, Tomasi di Lampedusa fece ancora in tempo a ricevere la seconda lettera di rifiuto del suo manoscritto, questa volta da parte dell’Einaudi. Entrambe le lettere portavano la firma di Elio Vittorini. Per comprendere la natura dello scontro irriducibile tra il mondo dei viventi di Vittorini e il mondo dei vinti di Tomasi, bisogna occuparsi del contesto nel quale cadeva la stesura e la proposizione del manoscritto. Era la seconda metà degli anni ‘50 del Novecento, in Italia vi era un gran fermento sotterraneo che premeva per venire a galla, mentre i conservatori di vario genere cercavano di fermare l’inevitabile cambiamento che stava per investire ogni ambito della vita italiana, sociale, culturale, politico, di costume. Vittorini era sempre stato, nella sua lunga e militante storia, un progressista, fautore del cambiamento, dell’evoluzione e soprattutto del miglioramento sociale. Quando ecco che, quello sconosciuto antico che era Tomasi di Lampedusa, che fino ad allora aveva viaggiato in tutta Europa e osservato la storia e la vita senza lasciarsene però distrarre, aveva scelto lui proprio per porgli tra le mani il suo testo che parlava di qualcosa che Vittorini non poteva accettare: dall’alto della natura dell’uomo e della storia dei popoli, ogni cosa è immutabile e, quando sembra che muti, è per tornare in un tempo lento, lungo a volte decenni a volte secoli o millenni, allo stato originario. Tomasi trascriveva nella storia e nella prosa eccezionali del suo testo una verità arcana: le forze eterne, immutabili, inesauste che scorrono negli uomini, scorrono sempre e comunque nel sangue di tutte le epoche, di tutti i siciliani, di tutti gli italiani, di tutti i popoli. Vittorini, nel primo rifiuto, scrisse che mancava qualcosa al romanzo. Tomasi pensò che mancasse un finale. Mite, riflessivo, profondamente consapevole, di una sapienza antica e di una pazienza secolare, aveva ripreso su la penna e aggiunto due capitoli. Ma questo non gli valse comunque l’approvazione di Vittorini. Forse quello che Vittorini non poteva perdonare al Gattopardo era la totale assenza nel libro della considerazione del futuro, la mancanza del tempo, come se Tomasi non credesse in nessuno dei due e, al pari di una divinità vecchia e stanca, vedesse ogni cosa dall’inconclusione della sua eternità. Hanno accusato in seguito Vittorini di aver respinto Il Gattopardo per motivi politici. Ma forse sarebbe più corretto dire che l’abbia respinto per irriducibili motivi umani. Vittorini voleva poter credere alla possibilità di cambiamento, anche se minuscolo, della condizione umana. Mentre gli esseri umani nel Gattopardo erano visti come qualcosa di bellissimo e già perduto, come un cucciolo di cane morto sulla strada. Qualcosa di apparentemente puro ma irreparabilmente corrotto, perché destinato alla decomposizione. Anzi, già in decomposizione da millenni. Vittorini, nelle sue lettere di rifiuto, riconobbe sempre la bellezza del libro: i luoghi polverosi e sabbiosi, gli uomini stanchi e condannati, gli arazzi e tappeti e cannocchiali che puntano sempre al cielo del Gattopardo hanno il passo incontestabile e altissimo del capolavoro. Di quegli affreschi che sono scoperti a marcire dietro una mano di intonaco e poi, portati alla luce, sono di uno splendore passato, stinto, che mozza il fiato. Così la riconobbe Bassani che, poco dopo la morte di Tomasi, ricevette il testo incompleto da Elena Croce, figlia di Benedetto Croce, e volle fortemente e con insistenza che il libro vedesse la pubblicazione con l’editore Feltrinelli per cui lavorava, arrivando a recarsi lui stesso dalla vedova dello scrittore a prendere nelle mani il suo manoscritto originale. Quando il libro vide finalmente la luce, anche Sciascia, come Vittorini, si ritrovò a schierarsi per un netto rifiuto di tutto ciò che il Principe di Salina andava dimostrando. Non era il testo che i due intellettuali siciliani contestavano ma il messaggio che vi leggevano e che temevano: quello dell’inutilità di qualsiasi spinta al progresso, al cambiamento e all’innovazione. Perché, nonostante le smentite della Storia e della Natura, agli uomini che sono nel proprio tempo deve essere lasciata la debolezza di sperare di essere il sale della Terra, il desiderio di credere che i giorni passino sopra i giorni, che il tempo sia quel tempo che si butta in avanti e là rimane, che si possa fare qualcosa con questa imperfetta, mobile, corrotta, stupida, disastrosa materia umana. Solo nel 1989, poco prima della sua morte, Sciascia ammise che “Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo, sull’idea che lo informava, oggi è portato a riconoscere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricusare o tentare di ricusare, come legittimo era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle”. Il tempo aveva, per l’attimo della vita terrena di Tomasi, vinto sull’eternità. Ma l’eternità sa attendere. Tomasi di Lampedusa è diventato, dopo la morte, uno dei più noti scrittori nel mondo e le sue parole sono per sempre salvate dallo scorrere del tempo e dalla dimenticanza.

·        Grazia Deledda.

I 150 anni della nascita. Chi era Grazia Deledda, la Nobel dimenticata. Angela Azzaro su Il Riformista il 2 Ottobre 2021. Nata a Nuoro il 27 settembre del 1871, Grazia Deledda è una scrittrice di primati. È la seconda italiana dopo Carducci ad aver vinto il premio Nobel, la seconda donna a livello mondiale, la prima e l’ultima scrittrice del nostro Paese. Ma è un primato anche il fatto che la fama internazionale la raggiunge a partire da una piccola cittadina, ai suoi tempi ancora più minuscola, come il capoluogo della Barbagia. Sarda, donna, scrittrice di provincia e vincitrice nel 1926 – lo ritira l’anno dopo – del prestigioso premio. Eppure l’essere sarda, donna e scrittrice di provincia è anche una maledizione che ha impedito a Deledda di avere – ancora oggi – il giusto riconoscimento da parte di chi, critici e professori, costruisce il canone letterario. Come mai questa sottovalutazione? Perché nonostante il Nobel non è mai entrata a far parte del cerchio magico degli scrittori italiani? Su questo mancato riconoscimento pesano vari fattori. Prima di tutto è una donna, e questo – nonostante tutti i cambiamenti nel corso del Novecento – non le viene mai perdonato. Lontana dai salotti letterari, anche quando si trasferisce a Roma dove muore il 15 agosto 1936, Deledda inizia la sua avventura di scrittrice dando alle stampe alcuni romanzi rosa. Ma presto e in maniera dirompente emergono il suo stile e la sua poetica che con un’analisi puntuale sono stati talvolta paragonati a quelli degli autori russi. Cenere, Elias Portolu, Canne al vento, La madre, Marianna Sirca, L’edera, La Chiesa della solitudine, Colombi e Sparvieri…: in tutti i suoi romanzi i protagonisti sono gli ultimi, gli umili, uomini e donne alle prese con il destino e con il peccato. E come in Fëdor Dostoevskij il perdono arriva per tutti e arriva, ancora prima che dalla religione comunque per lei un faro, dalla capacità di Deledda di osservare con amore tutti gli esseri umani, qualsiasi siano le loro scelte e i loro sbagli. Tutto merita rispetto: anche la flora e i paesaggi della sua amata Sardegna che lei descrive nel dettaglio con una capacità e una raffinatezza che ricordano alcune pagine del Marcel Proust della Recherche. Ma mentre Proust e Dostoevskij sono considerati – giustamente – Dei nell’Olimpo della letteratura mondiale, Deledda non è mai entrata a far parte neanche dell’Olimpo nazionale. All’essere donna si aggiunge l’essere sarda, nata nella provincia più lontana da chi detiene il potere di decidere o meno la grandezza di una scrittrice o di uno scrittore. Il racconto della Sardegna, proprio per la sua diversità, viene di fatto tacciato di essere mero folclore, narrazione di un mondo che non assurge mai alla dimensione universale. Ma è un’accusa ingiusta, deplorevole. Basterebbe rileggere i suoi romanzi per ritrovare, a partire dal racconto del suo mondo, la capacità di descrivere l’animo umano nel profondo, nelle sue pieghe più recondite, nei suoi dubbi, nelle sue disperazioni, in quel vacillare che coglie chiunque davanti al mistero della vita e della morte. Una grande. Ma una grande dimenticata, sottovalutata anche per avere reso protagonisti dei suoi romanzi gli uomini e le donne di un mondo arcaico che però lei racconta nel suo sfaldarsi, nella sua trasformazioni a partire dall’incrinarsi dell’ordine patriarcale. Bisognerebbe fare con lei, quello che gli studi post coloniali hanno fatto con gli scrittori e le scrittrici dei Paesi non occidentali, bistrattati da chi deteneva il potere, dai quei vincitori che anche nella cultura dettavano legge. Bisognerebbe rileggerla, studiarla di più e meglio nei licei, come esercizio di grande letteratura, come allenamento ad altre culture, a sguardi diversi da quelli che costruiscono il mainstream. Gli studi post coloniali hanno fatto questo per tante letterature sottovalutate: li dovremmo applicare anche a tanti filoni che in Italia sono stati sminuiti per la loro appartenenza a realtà considerate residuali. Deledda a saperla leggere rovescia il canone letterario, ribalta gli stereotipi, mette a tacere l’accusa di provincialismo. La sua vita è un ribaltare tutto. Quando, invisa anche al suo mondo, inizia a scrivere: lei autodidatta, di famiglia benestante ma colpita da varie disgrazie, non si fa fermare da niente e da nessuno. Rileggete Cosima per credere. È il suo romanzo autobiografico, pubblicato postumo. Bellissimo. Commovente. A tratti quasi giocoso, a volte drammatico, ma sempre venato da quella nostalgia che sembra una cifra comune agli scrittori di Nuoro. È la stessa nostalgia che ritroviamo in Salvatore Satta, il giurista autore dello straordinario romanzo – anche questo postumo – Il Giorno del giudizio. Qui la nostalgia diventa disperazione, ma sia in Deledda che in Satta c’è la stessa attenzione alla vita, c’è lo stesso sguardo amoroso di chi osserva con stupore e pena la commedia umana che ci circonda. Una volta, durante un’intervista, Andrea Camilleri mi disse che Il Giorno del giudizio di Satta era il vero caso letterario del Novecento. Secondo lui anche più del Gattopardo. Se non lo avete ancora fatto, correte a leggerlo. Anche Grazia Deledda è un caso. Ma al contrario. Poco letta, poco studiata, non abbastanza celebrata se non nella sua cittadina dove si trova anche la bellissima casa-museo in cui sono state ricostruite le stanze come descritte in Cosima. Poco, troppo poco si parla di lei, si racconta di lei. Destino condiviso con altre scrittrici che con difficoltà sono riuscite ad affermarsi. Deledda va riletta, cantrice di un mondo che forse non c’è più ma di cui nei suoi romanzi si ritrova la bellezza.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

·        J.K. Rowling.

Maria Latella per "il Messaggero" l'11 novembre 2021. J.K. Rowling non è solo l'autrice della saga di Harry Potter, la scrittrice che con i suoi libri ha fatturato oltre un miliardo di sterline, la britannica di successo che a differenza di molti e famosi connazionali (persino l'ex premier Tony Blair è nella lista dei sospettati) non ha voluto ricorrere a escamotage legali per eludere le tasse. J.K. Rowling non è solo la suddita di sua Maestà che ha pagato allo Stato 48,6 milioni di tasse, fatto cospicue donazioni al partito laburista, fondato un'associazione che aiuta le famiglie in difficoltà, lottato contro la Brexit ma anche contro l'uscita della Scozia dal Regno Unito. Una donna generosa e di buon senso, direste voi, scorrendo questo incompleto elenco di chi è J.K. Rowling. Macché.

OBIETTIVO In tempi in cui l'estremismo del politicamente corretto sta sfuggendo di mano (ne sa qualcosa il comico Dave Chappelle che intervenuto in suo favore nel suo show su Netflix) J.k. Rowling è diventata in Gran Bretagna l'obiettivo di una campagna degli attivisti trans. Per molti lei è una TERF, temibile acronimo che sta per Trans Exclusionary Radical Feminist. Cioè una femminista radicale che limita i diritti delle persone trans. Tutto è cominciato con un tweet, riassume un articolo del New European del 4 novembre. L'autrice di Harry Potter aveva espresso la sua solidarietà a Maya Forstater, ricercatrice presso un think thank, licenzata per le sue critiche contro il gender. La Rowling in un tweet si schierava con Maya: «Licenziare qualcuno perché difende l'idea che il sesso è una cosa reale?» Da lì, l'escalation. Qualcosa che in parte è legata alla tendenza del momento, ossequiosa verso tutto quel che può inserirsi nel circuito del politicamente corretto. In parte è dovuta all'essere J.K. Rowling la scrittrice di culto della Generazione Z, la generazione che, almeno in Gran Bretagna, è apertamente, dichiaratamente, la più sessualmente fluida della storia britannica. Così almeno la vede l'articolo del New European: «Essendo la creatrice del protagonista piu amato da una generazione c'era la sensazione che lei (J.K. Rowling ndr) in qualche modo appartenesse ai suoi fan. Non aver assunto la linea richiesta è stato visto come il tradimento da parte di una madre simbolica». Forse preoccupata per le reazioni dei suoi fan e certamente interessata a chiarire le sue posizioni, a un certo punto j.K. Rowling ha deciso di spiegarsi da sola. Di raccontare perché teme che lasciare i bagni aperti senza distinzione tra uomini e donne, comporti dei rischi: ci sono stati casi di ragazze violentate da uomini che si sentono donne pur rimanendo sessualmente attivi come maschi.

SENSIBILITÀ Lei che è stata sposata a una persona violenta e ancora oggi ha reazioni legate alle paure di quella tremenda stagione confida di essere particolarmente sensibile al tema. Ribadire che nessuno deve essere licenziato perché ha il coraggio di esprimere le sue idee non significa andare contro le ragioni dei movimenti trans, scrive la Rowling citando i numerosi incontri e contatti avuti con esponenti del movimento. «Perché parlo, perché non continuo tranquilla le mie ricerche e tengo la testa bassa?» J.K. Rowling lo spiega punto per punto: «1) perché ho fondato un trust che sostiene le donne vittime di violenza sessuale e alcune battaglie degli attivisti trans puntano a erodere la definizione legale di sesso, sostituendola con quella di gender. Questo potrebbe avere un impatto significativo su molte delle cause che sostengo. 2) sono un'ex insegnante e ho fondato un'associazione a sostegno dei bambini. Sono preoccupata circa l'effetto che il movimento per i diritti dei trans può avere sia sull'educazione che sui bambini (e su questo punto sarebbe stato interessante approfondire che cosa la preoccupa ndr). 3) sono una scrittrice e in quanto tale interessata al freedom of speech, la libertà di parola che ho pubblicamente difeso anche ai tempi di Trump». L'elenco continua e J.K. Rowling non manca di esprimere preoccupazione per il crescente numero di ragazze che chiedono di entrare in transition verso l'altro sesso e poi decidono di tornare indietro, ma a quel punto «con danni non più riparabili come la perdita della fecondità». In Gran Bretagna, spiega la scrittrice, oggi il numero delle donne che vuole cambiare sesso supera il numero degli uomini che desiderano diventare donne. La Rowling cita una studiosa americana, Lisa Littman, che ha scritto di come negli Stati Uniti il fenomeno dell'identificazione transgender arrivi a riguardare interi gruppi di amici. Le ragazze con problemi di autismo sono ultra presenti. Littman è stata molto attaccata per le sue posizioni. «Gli attivisti trans sostengono che se si impedisce ai ragazzi e alle ragazze la transizione, questi stessi soffriranno di ansia, disordini alimentari, fino a tentare il suicidio. Più leggo i loro report e più mi chiedo: Se fossi nata trent' anni dopo forse oggi anche io sarei una ragazza che penserebbe alla transizione sessuale. Ma ai miei tempi sono stati i libri e la musica ad aiutare me e tante teen ager a superare quella fase. Sono stati i libri delle scrittrici e le canzoni di tante musiciste a rassicurarmi: era ok sentirmi confusa e insicura».

ANNI 80 Bei tempi, sembra la conclusione di J.K. Rowling. Bei tempi gli anni 80. «Oggi stiamo vivendo il più misogino dei periodi che ho sperimentato. Ovunque alle donne viene detto stai zitta e siediti. Se parla (è il sottinteso, ndr) le danno della TERF. Ma lei zitta non starà». «Ho un passato complicato e non lo dimentico, così come non dimentico la complessità interiore quando si tratta di parlare delle persone trans. Chiedo solo che con altrettanta empatia si ascoltino le preoccupazioni di milioni di donne. Senza minacciarle».

·        James Hansen.

Giancarlo Perna per "La Verità" il 14 aprile 2021. Ci aspetta in libreria l'antologia delle famose note diplomatiche che James Hansen fa uscire da anni in forma di newsletter e che attirano ogni settimana diecimila lettori. Si intitola proprio così: Nota diplomatica e lo pubblica Biblion edizioni. Chi legge i giornali o si occupa di comunicazione sa che Hansen è un asso dell'arguzia mista a riflessioni, corroborata dalla statistica, arricchita di curiosità. Ti domandi come faccia a darti ogni venerdì un quadro del mondo in 50 righe che non troverai mai altrove. Poi ti dici che viste le origini, le lingue che sa e la vita eccentrica che ha condotto, lui arriva dove a noi è precluso. Statunitense di Seattle, dove il vento del Pacifico affila i cervelli, Hansen ha prima provato con il teatro, ha deviato sul giornalismo che gli è affine e ha poi messo la testa a posto, entrando in diplomazia. Come destinazione di esordio, aveva chiesto l'esotico Madagascar, come raccontò in un'intervista a Goffredo Pistelli. Si trovò invece vice console Usa a Napoli, città parimenti adatta agli spiriti avventurosi, specie allora, metà degli anni '70. Non ha più lasciato l'Italia imparandone la lingua nel modo magnifico che ogni lettore di questo libro gusterà. Prese le misure al Paese che lo ospitava, James divenne inarrestabile. Lasciò l'amministrazione americana e si buttò nelle nostre pubbliche relazioni, diventando di seguito la voce di Olivetti, Fininvest e Telecom di cui diresse gli uffici stampa. Aprire questo libro, è come togliere il coperchio a una scatola di cioccolatini. Viene subito la gola. Ma vi avverto: va piluccato senza fretta. Sono 153 note diplomatiche, che spaziano dalla storia alla geopolitica, redatte, settimana per settimana, dal 5 gennaio 2018 al 18 dicembre del 2020. Si leggono di un fiato, strappano un sorriso o un'esclamazione di meraviglia e si andrebbe avanti a oltranza. Non fatelo. Se vi prendete una pausa, elaborando la lettura, vedrete che ci sono più chiavi, una miniera di notizie e molte nozioni che vale la pena di mandare a memoria. Ne riceverete un' idea più larga del mondo. Hansen, procede come Lucrezio, lirico latino del I secolo A. C. Come lui, afferra un particolare e ne slarga la veduta ancorandolo a un principio. Ricordate quando nel De rerum natura, il poeta descrive, dopo il sacrifico rituale di un vitellino, l'affanno della giovenca in cerca del figlio perduto, per sottolineare come il dolore degli animali sia pari a quello dell' uomo? James, con più ironia, fa lo stesso. Prendiamo la nota del 20 ottobre 2020. La intitola «Troppi vecchi» e riflette su un cambio di prospettiva introdotto dal coronavirus. In Svizzera, «paese sicuramente civile», come sottolinea, si è deciso nell'emergenza di togliere alcune cure ai più anziani e malati per salvare i più giovani e sani. Per cui, niente terapie intensive ai vecchi malconci. Eppure, osserva Hansen, gli anziani in passato «erano stimati e protetti, anche per il loro valore sociale come garanti delle tradizioni e portatori di saggezza. Erano loro che comandavano». Cos'è dunque successo? Che oggi i matusa sono troppi, risponde James. In un mondo invecchiato, il vecchio non è più né raro, né prezioso. È la legge del mercato: l'abbondanza svilisce il valore. In un'altra nota, l'autore, prende lo spunto da Napoleone, per una carrellata sulla statura dei politici, despoti e no, nel corso dei secoli. Una vera chicca. Al Bonaparte fu attribuita un' altezza inferiore ai suoi effettivi 1,69, che erano nella media del tempo. Forse per una malevola confusione fra francesi e inglesi, gli uni che ragionavano in centimetri, gli altri in pollici. Era dunque alto come Mussolini, più di Churchill, 1,67, mentre Stalin come Lenin si fermò a 1,65. Franco misurava 1,63 e Benito Juarez, l'ottocentesco presidente messicano, 1,37. Ci sono poi i giganti: De Gaulle, 1,96; Bin Laden, 1,95; lo zar russo, Pietro il Grande, 2,03. Non mancano conclusioni generali: gli alti sono percepiti come più autorevoli, i minuti sarebbero invece più iracondi. Il mio cioccolatino preferito s'intitola «Vendetta Vendetta» e pare a sua volta un rimprovero dell'autore ai suoi concittadini d'oltreoceano ormai incanagliti nell'odio tra democratici e repubblicani. Quando il pupillo di Bill Clinton, Al Gore, perse le elezioni contro George W. Bush (2000), i clintoniani devastarono la Casa Bianca, prima di lasciarla all'avversario. Scrive James: «Quando i "nuovi" si presentarono, trovarono scritte oscene sui muri, le etichette tolte dai telefoni, le tastiere dei computer con rimossa la W che sarebbe servita per scrivere il nome di George «W» Bush». Sparirono i pomelli delle porte, furono spezzate le chiavi nelle serrature, si rovesciarono nei corridoi bidoni di spazzatura e molti lasciarono i propri escrementi negli angoli e sui tappeti. Si spesero 15.000 dollari per il ripristino dai danni. Tutto il mondo è paese, sembra dire Hansen col tono lieve di chi corregge sorridendo. Ho già detto di assaporare la lettura. Dirò di più. Fissatevi nella mente i passi salienti. Fateli vostri e, passata la pandemia, col ritorno alla conversazione, ravvivate le serate con i tanti argomenti che Hansen ci ha donati. Una miniera di aneddoti che i più giovani possono utilizzare per favorire la conquista di una dama come penso abbia fatto anche James sussurrando le sue note diplomatiche a qualche gentile orecchio.

·        John Le Carré.

Erica Orsini per “il Giornale” il 2 aprile 2021. Era inglese di nascita, ma morì da irlandese. Il figlio minore dello scrittore John Le Carré, scomparso di recente, ha rivelato che il padre aveva chiesto la cittadinanza irlandese in segno di protesta contro la Brexit. Poco prima di andarsene, lo scrittore di spionaggio più famoso del mondo aveva criticato con forza l'aggressività dei sentimenti nazionalistici che si celavano dietro la Brexit. In un'intervista rilasciata a Cbs News, descrivendo se stesso come «inglese nel profondo», aveva aggiunto che «la mia Inghilterra sarebbe stata quella che si riconosceva all'interno dell'Europa». «Questo Paese che sta tentando di portarci fuori dall'Unione Europea non lo voglio nemmeno conoscere». Così, disilluso dalle azioni del suo governo, aveva deciso di chiedere la cittadinanza irlandese che gli era stata concessa poco prima della sua morte nello scorso dicembre. A raccontare questa parte quasi sconosciuta della sua vita è il figlio più giovane dello scrittore, Nicholas Cornwell, all'interno di un documentario della Bbc dedicato a Le Carré. «Per il suo ultimo compleanno gli avevo regalato una bandiera irlandese- spiega Nicholas - e in una delle ultime foto che ho di lui, mio padre se ne sta seduto alla sua scrivania avvolto in questa bandiera. È morto da irlandese». L'autore di capolavori come La spia che venne dal freddo e La talpa aveva scoperto le sue seconde radici soltanto verso alla fine della sua vita. La possibilità di avere un passaporto irlandese gli era derivata da sua nonna, Olive Wolfe, che era nata nella Contea di Cork e le sue connessioni con questa terra erano divenute estremamente importanti per lui. «Quando l'archivista della cittadina di Skibbereen, che gli dava una mano a fare delle ricerche, gli disse Bentornato a casa si commosse moltissimo» racconta il figlio nel documentario. «Quella visita a Cork fu catartica - conferma Philippe Sands, l'autore del documentario che di Carré era vicino di casa e amico per tutta la vita -, ha contribuito a una vera e propria presa di coscienza di una parte della sua storia a cui era sfuggito per tutta la sua vita». Le Carré, nacque nel 1931 con il nome di David Cornwell e intraprese la carriera di agente sotto copertura dopo la conclusione dei suoi studi a Oxford. Entrò in contatto con i servizi di spionaggio nel 1940, mentre si trovava in Svizzera per studiare il tedesco. Dopo una parentesi dedicata all'insegnamento a Eton, entrò nel British Foreign Service con l'incarico di reclutare, addestrare e gestire gli agenti dietro la cortina di ferro. Il suo ufficio si trovava nel vecchio edificio dell'MI5 di Londra in Curzon Street. Ispirato dalle storie dei suoi colleghi cominciò a scrivere sotto lo pseudonimo di John Le Carré. La sua carriera spionistica finì tre anni dopo, dopo che il suo nome fu inserito nella lista degli agenti doppiogiochisti data all'Unione Sovietica. Questo incidente ispirò la trama di uno dei suoi romanzi più popolari, La talpa da cui è stato tratto anche uno splendido film. La vittoria del Leave, nel 2019, rafforzò il suo disincanto verso il Paese natio. «Penso che la Brexit sia una cosa totalmente irrazionale - confessò allo scrittore irlandese John Banville - la prova di una squallida politica da parte nostra e di un comportamento diplomatico vergognoso. Credo che i miei legami con l'Inghilterra si siano estremamente allentati in questi ultimi anni. In un certo senso è una sorta di liberazione - aveva concluso - anche se una cosa molto triste».

·        Jorge Amado.

La doppia vita di uno scrittore. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 14 marzo 2021. Quando Jorge Amado morì nella sua casa di Salvador de Bahia, il 6 agosto 2001, quattro giorni prima di compiere 89 anni, il Brasile proclamò tre giorni di lutto nazionale. Solo poco più di sessant’anni prima, il 19 novembre del 1937, davanti alla Escola de Aprendizes Marinheiros, vennero bruciati, come riportava un giornale locale: “808 esemplari di Capitani della spiaggia , 223 esemplari di Mar Morto, 89 esemplari di Cacao, 93 esemplari di Sudore, 267 esemplari di Jubiabá, 214 esemplari de Il Paese del Carnevale.” Tutte copie dei libri che Amado aveva pubblicato fino a quell’anno. Il Brasile è stato, ed è tutt’ora, un Paese di contraddizioni violente. Un luogo del tempo e dello spazio dove convivono sincreticamente mescolanza ed esclusione, celebrazione della vitalità e repressione, carnevali dell’anima e torture dei corpi, o viceversa. È lo stesso Paese cantato due volte da Jorge Amado che, come il protagonista di uno dei suoi racconti, Le due morti di Quincas acquaiolo, ha due storie, due realtà e due percorsi nella sua esistenza, quelli che attengono alle versioni ufficiali, riconosciute dalle convenienze, supportate dalla logica, e quelle che vivono al di sopra e al di sotto di esse: la dimensione dell’invenzione, del sentimento, della tradizione popolare, dell’immaginazione, dell’incontro, della mistura. Quincas l’acquaiolo muore due volte: una volta come si vorrebbero le convenienze, l’altra volta come vuole lui. Chi siamo noi, si chiede Amado in ogni suo libro, per decidere dove sia effettivamente la realtà? La prima volta di Amado scrittore è, da giovanissimo, l’esordio realista de Il Paese del Carnevale. Ma il vero riconoscimento gli arriva con Jubiabá, dove il protagonista è nero e, per la prima volta nella letteratura brasiliana, vive da eroe delle sue vicende e ama una donna bianca, siamo nel 1935, gli echi razzisti e fascisti dell’Europa rimbombano in Brasile e si rifrangono sulle camice verdi di Plìnio Salgado che sfilano per le strade di Bahia. Amado, figlio di un proprietario terriero che aveva perso tutto a causa di una cattiva annata ed era finito bracciante, aveva conosciuto il Brasile bianco, post schiavismo, arroccato a difesa dei propri privilegi che vedeva minacciati da ogni dove, e aveva poi ascoltato i racconti delle piantagioni, era andato a studiare a Salvador e lì aveva girato ogni vicolo e anfratto, visitato ogni mercato e bordello del porto, “vivevo dappertutto, nel mercato di Agua dos Meninos, al mercato di Sete Portas, mangiavo sarapatel e maniçoba. Frequentavo bordelli, feste popolari, feste di strade, mangiavo pesce con i marinai.” Ed è in quei giorni, lungo quelle strade che lui, nativo di Itabuna, diventa lo scrittore bahiano per eccellenza, (“Non ho desiderato altro che essere uno scrittore del mio tempo e del mio Paese. Non ho preteso e non ho mai tentato di fuggire dal dramma che viviamo. Non ho mai preteso di essere universale se non essendo brasiliano e sempre più brasiliano. Potrei anche dire, sempre più baiano”). Portano con sé, quegli splendidi primi libri, tutto il peso della sofferenza taciuta, dello sdegno sociale, delle morti evitabili, di lavoro e di fame, delle discriminazioni razziali. Li hanno definiti libri di denuncia sociale, libri politici, li hanno bruciati nelle piazze. È il periodo del realismo amadiano, che danza con le storie popolari, i racconti degli Orixàs, i riti sincretici, ma ne rimane a parte: i due mondi della realtà e delle storie sono ancora distinti ma si chiamano l’un l’altro. La seconda vita di scrittore di Amado avviene dopo più di vent’anni dalla prima. Si sono succeduti, in quel lasso di vita dello scrittore, molti rovesciamenti di potere, la Academia dos Rebeldes contro la letteratura tradizionale assuefatta e condiscendente, molti arresti ed esili, le collaborazioni e direzioni di riviste, una stagione da costituente per il partito comunista, il matrimonio con la scrittrice Zélia Gattai, di discendenza italiana e anarchica, le fughe all’estero, gli anni in Russia, altri libri di denuncia sociale, l’allontanamento dal partito, il ritorno in Brasile e la pubblicazione di un nuovo libro, completamente diverso da tutto quello che aveva fatto fino ad allora: Gabriella, garofano e cannella. Gabriella ha la pelle dorata e la bocca di more, cammina a piedi nudi, affonda le mani negli impasti in cucina, liberamente ama come un uccello leggero, come corpo caldo. Amado racconta la sua apparizione a Ilhéus, la sua città di origine, tra latifondisti dai ventri grassi e cervelli a forma di registratori di cassa e le vecchie beghine appassite che la spiano dalla finestra e si scandalizzano, si rodono, rispettabili e feroci, mentre il siriano Nacib cerca di ballare con lei la sua danza, si rialza e cade, perché nessuno eccetto lei può farlo al suo ritmo. Gabriella, garofano e cannella svolge lo stesso ruolo delle parole franche e dure dei libri della vecchia vita di scrittore di Amado, ma lo fa in un modo nuovo: un modo in cui non si avverte più cesura tra realtà e invenzione, ma ogni cosa vive di quella doppia vita che non si può scindere perché non si sa dove cominci l’una e termini l’altra. È il 1958, le donne brasiliane si scandalizzarono a sentire quel canto di liberazione di Gabriella, che scioglieva, come lasciato troppo al sole, il legame tra sesso e peccato. Denunciarono Amado che aveva macchiato la loro reputazione e che non poté per molto tempo rimettere piede nella sua città. Nella seconda vita di Jorge Amado, scrittore di lungo corso, le verità giocano a nascondersi in corpi caldi e profumati, in voglie sensuali e infuocate, in piatti e spezie della cucina Bahiana, in seni di spuma e capelli d’alghe delle divinità sincretiche e nei ritmi incalzanti delle percussioni dei terreiros di candomblé. Dona Flor, Gabriella, Santa Barbara, Teresa Batista sono l’incarnazione della complessità della vita umana, vissuta a cavallo di piccolezze e vastità, godimenti e sofferenze, piccole rivoluzioni fatte a mano e rovesciamenti di ipocrisie domestiche dei benpensanti. E se ci sono, in quei libri, amori cocenti che sovvertono il mondo, mariti morti che tornano a visitare gli anfratti umidi delle loro vedove, se ci sono dee della guerra che animano i passi di ragazze vendute bambine dalla famiglia, se ci sono uragani che puniscono gli uomini per avere preferito verità piccine alla grandezza dell’invenzione umana, ristabilendo l’ordine di importanza, chi siamo noi per smettere di ritenerli reali? “Dove si trova la verità? Mi rispondano per favore – chiede Vasco Moscoso Aragão, Capitano di lungo corso, in uno dei racconti più belli di Amado –: nella piccola realtà di ciascuno o nell’immenso sogno umano?”

·        I fratelli Marx.

L'attualità dei fratelli Marx così anarchici e moderni. In un libro, la vera storia della "famiglia" simbolo della risata del '900. Con tanta gavetta alle spalle. Cinzia Romani, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Il marxismo va ancora di moda, nonostante tutto. Ma non quello del tedesco Karl Marx, autore de Il Capitale (1867), tomo che nei Settanta del secolo scorso troneggiava in ogni biblioteca rispettabile e adesso è facile trovare sulle bancarelle, bensì quello di quattro fratelli americani, noti come «i fratelli Marx», nati per far ridere. È il marxismo «tendenza Groucho», che in questi tempi di tristezza planetaria, causa Covid, torna alla ribalta grazie a un bel libro di Chantal Knecht, produttrice e regista, ora autrice di Les Marx Brothers par eux-mêmes (Robert Laffont, 30 euro). Si tratta di un regesto corposo, che va dalla «A» di «attore» alla «Z» di Zeppo, il nome d'uno dei quattro ragazzi Marx, figli dell'alsaziano Simon, anche detto «The Frenchie», il francese. In oltre 760 pagine, piene di aneddoti, pazzie, lettere e fantasie, si leva un inno alla banda dei quattro commedianti, ritenuti i più grandi comici del cinema sonoro. E in tale abbecedario tematico è dato conoscere meglio, da vicino, ovvero in ogni loro sfumatura all'apparenza demente, Groucho, Chico e Harpo, sorpresi nei diversi «Marx attack» pensato per sopravvivere all'assurdità del mondo. Allora ecco Chico, in realtà Leonardo, colui che faceva il pianista con la tecnica del «dito revolver», picchiato con furia maniacale sui tasti; poi viene Harpo, nato Adolph, identificabile come pagliaccio muto: il suo soprannome viene dal dio greco del silenzio e dei segreti, Arpocrate, sempre avvolto in un mantellone pieno zeppo di utensili da cucina; quindi Zeppo, che nome faceva Herbert, «uno come tutti» e infine il grande Groucho, il più conosciuto dei fratelli, nato Julius: uno ossessionato dal sesso. Ma non bisogna dimenticare Gummo, ovvero Milton, che fungeva da impresario della banda. I fratelli Marx avevano schiere di ammiratori illustri: da Charlie Chaplin allo scrittore Francis Scott Fitzgerald, passando per il compositore George Gershwin e il pittore Salvador Dalì, che aveva un vero e proprio culto per Harpo, ritenendolo sufficientemente bizzarro per i suoi gusti. Per quanto strano possa sembrare, tra i fan sfegatati dei Marx figura anche il poeta francese Antonin Artaud (1896-1948), che dei fratelli svalvolati notava «l'esercizio d'una sorta di libertà intellettuale, dove l'incoscienza di ogni personaggio, compressa dalle convenzioni, si vendica e vendica anche noi». Di fatto, i quattro attori sono stati i primi a trasformare la replica incongrua in opera d'arte, deformando la realtà a colpi di effetti. Oggi tutto è permesso, sulla scena comica, ma quando i Marx esordirono, nell'America benpensante ci fu una specie di terremoto, fin dal loro primo film Humor Risk (1921). Nel libro di Chantal Knecht, tra l'altro, si rileva l'importanza d'una certa parentela artistica con Charlie Chaplin, Buster Keaton e Stanlio & Ollio, anche se i fratelli Marx hanno imposto l'elemento burlesco e l'assurdità, visibili in film come Una notte all'Opera (1935), o Il bazaar delle follie. Ma chi è il «Lider Maximo» della filosofia marxista alla burlona? Sicuramente Groucho, come dimostrato in una scena di La guerra lampo dei fratelli Marx (1933), quando la proprietaria d'un negozio lo accoglie a braccia aperte e lui fa: «A che ora chiudete?». Stessa impronta umoristica per l'epitaffio che Groucho voleva sulla propria tomba: «Avrei potuto vivere più a lungo. Ma adesso è troppo tardi». Quella dei Marx è anche la storia d'una famiglia di emigranti europei, ebrei sbarcati a Manhattan alla fine del XIX secolo e diventati americani. Una storia di figli e di fratelli, attivi sia al cinema che a teatro. Gente che, una volta in scena, dimenticava le ristrettezze in cui viveva a Yorkville, quartiere povero della Grande Mela, per regalare buonumore e pazzia, tra il 1921 e il 1957. Purtroppo si sono perse le tracce di Humor Risk, il primo film del quartetto marxiano , firmato da Richard Smith e mai proiettato in sala. Mentre Una notte a Casablanca (1946) di Archie Mayo si ricorda anche perché la Warner, credendo che i Marx facessero la parodia irriverente del celebre Casablanca di Michael Curtiz, con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, minacciò di trascinare i quattro in tribunale. E per sapere se l'umanità è buona o cattiva, basterà rivedersi L'inferno ci accusa (1957), l'ultimo film dei fratelli Marx, con Harpo che fa Newton. Burlesco e assurdo: i due aggettivi che, dai primi anni Venti, connotavano i successi dei Marx a Broadway, finiscono per indicare una nuova filosofia: il marxismo. Quell'umorismo anarchico e liberatorio che adesso ci vorrebbe come il pane.

·        Leonardo Da Vinci.

Pierluigi Panza per il Corriere della Sera il 29 settembre 2021. Esattamente cinquecento anni fa, l'artista milanese Cesare Cesariano pubblicò a Como, con un ricco apparato di immagini da lui ideate, la prima traduzione italiana del De architectura di Vitruvio, il testo fondativo di tutta la cultura architettonica occidentale. Vitruvio era un architetto latino del I secolo a.C. e si vuole che presentò la sua summa in «dieci libri» (oggi consideriamoli capitoli di un trattato) all'imperatore Augusto. È in questo testo che, per la prima volta, compaiono i tre ordini di architettura - quello dorico paragonato all'uomo, quello ionico alla donna e quello corinzio a una fanciulla - e i primi archetipi dell'arte di edificare: l'architettura nasce intorno a un focolare e i capitelli nascono dalle foglie d'acanto spuntate in un cestino dimenticato da una fanciulla...Il 7 e 8 ottobre il Centro studi vitruviano di Fano (dove Vitruvio aveva costruito una basilica, unica sua opera) ricorderà questo fondamentale avvenimento nella storia della letteratura artistica in un convegno che prevede interventi di insigni studiosi come Howard Burns, Werner Oechslin e Pierre Gross. Il De architectura è l'unico testo latino di architettura giunto integro (senza disegni). Copiato da vari amanuensi, fu conosciuto alla corte di Carlo Magno e poi da Petrarca e Boccaccio, ma riemerse ufficialmente solo grazie all'umanista Poggio Bracciolini, che ne avrebbe scoperto la copia conosciuta nel 1414 nel monastero di Montecassino (ma questo è il mito). Raffaello - studioso di antichità e primo «sovrintendente» di Roma - chiamò in bottega presso di sé l'erudito Fabio Calvo per tradurla (un'altra parziale traduzione fu tentata da Francesco di Giorgio Martini ed è il Codice Magliabechiano 141 della Biblioteca Nazionale di Firenze). Ma Cesariano bruciò sul tempo le altre traduzioni stampando la propria nel 1521, l'anno dopo la morte dell'Urbinate. Questa traduzione diede vita alla cosiddetta «tradizione vitruviana» che spopolò nell'Italia del Rinascimento e dopo: nacquero da essa i trattati di Alberti, Serlio, Scamozzi, Vignola, Palladio insomma tutto il pensiero di quello che lo storico John Summerson chiamò Il linguaggio classico dell'architettura e che durò fino al Neoclassicismo e anche nella modernità. E che, proprio con il trattato di Palladio, si affermò anche in Inghilterra e in America. Tutte baggianate? Sì per l'età della globalizzazione, digitalizzazione e finanziarizzazione che non lascia spazio allo studio della tradizione europea nemmeno in quelle che sarebbero le più qualificate Scuole di Architettura, per cui mandiamo i nostri laureati nel mondo, o riceviamo studenti cinesi e giapponesi, senza che leggano una riga dell'italianissima tradizione vitruviana: si laureano senza sapere chi siano Vitruvio, Alberti e Palladio. Importa solo l'insegnamento della tecnologia, che dovrebbe assicurare un lavoro e un posto nel mondo scelto da altri. Anni fa uscì un bel libro di saggi d'architettura intitolato Dimenticare Vitruvio. Ecco, penso che dovremmo invece ricordare la tradizione vitruviana e far sì che quella linfa scorra nelle vene dell'architetto europeo, dell'architetto latino verrebbe da dire, che deve portare nel mondo questo testo come un vessillo. Il che non significa progettare con i capitelli (!), bensì comunicare e coniugare la storia europea all'engineering, alle smart city , ai fondi di investimento e all'ecologismo non facendosi beotamente risucchiare dal conformismo internazionale.

(ANSA il 6 luglio 2021) - La caccia al Dna di Leonardo Da Vinci fa un balzo in avanti grazie al nuovo e più completo albero genealogico della sua famiglia: frutto di decenni di ricerche documentali, ricostruisce di padre in figlio 21 generazioni, dal 1331 a oggi, e identifica ben 14 discendenti in linea diretta maschile attualmente viventi, di cui 13 finora sconosciuti. Il risultato, pubblicato sulla rivista Human Evolution da Alessandro Vezzosi (fondatore del Museo Ideale Leonardo da Vinci) e Agnese Sabato (presidente dell'Associazione Leonardo Da Vinci Heritage), aiuterà a ricostruire il profilo genetico del genio rinascimentale. "Nel 2016 avevamo già individuato 35 discendenti viventi di Leonardo, ma erano per lo più indiretti, frutto di parentele parallele anche in linea femminile, come nel caso più noto del regista Franco Zeffirelli: dunque non erano persone che potevano darci informazioni utili sul Dna di Leonardo e in particolare sul cromosoma Y, che viene trasmesso ai discendenti maschi e rimane quasi invariato per 25 generazioni", spiega Vezzosi all'ANSA. La svolta potrebbe arrivare ora dai nuovi discendenti diretti in linea maschile (derivanti dal padre ser Piero e dal fratellastro Domenico) e attualmente in vita: "hanno un'età compresa tra 1 e 85 anni, vivono non proprio a Vinci, ma in Comuni limitrofi fino alla Versilia e fanno mestieri comuni, come l'impiegato, il geometra, l'artigiano", precisa Vezzosi. Il loro Dna sarà analizzato nei prossimi mesi per contribuire alle ricerche della task force internazionale 'The Leonardo Da Vinci DNA Project', presieduta da Jesse Ausubel (della Rockefeller University di New York) e sostenuta dalla Fondazione Richard Lounsbery. Il progetto coinvolge il J. Craig Venter Institute di La Jolla, in California, e diverse altre università e centri di ricerca di alto profilo, tra cui il Dipartimento di Biologia dell'Università di Firenze diretto da David Caramelli.

Trovati i discendenti viventi di Leonardo da Vinci. Orlando Sacchelli il 6 luglio 2021 su Il Giornale. Vi cambierebbe la vita sapere, con certezza, di essere discendenti di Leonardo da Vinci? Probabilmente no però sarebbe quantomeno curioso poter vantare un simile antenato. Ora si apprende che sono almeno 14 i discendenti viventi del genio toscano. Sono stati individuati da un gruppo di scienziati del J. Craig Venter Institute di La Jolla (California) e dell’Università di Firenze. I risultati della loro indagine sono stati pubblicati sulla rivista Human Evolution (Pontecorboli Editore). Guidato da Alessandro Vezzosi e Agnese Sabato, il gruppo di scienziati ha ricostruito la linea genetica di Leonardo da Vinci, riuscendo a individuare un albero genealogico che abbraccia 21 generazioni per un totale di 690 anni. Il capostipite risale al 1331, Michele da Vinci, mentre il pronipote Leonardo, nato nel 1452, rappresenta la sesta generazione. Ad oggi i rami che sono stati identificati sono cinque. I discendenti trovati, spiega Vezzosi, “hanno un’età compresa tra 1 e 85 anni, vivono non proprio a Vinci, ma in comuni limitrofi fino alla Versilia e fanno mestieri comuni, come l’impiegato, il geometra, l’artigiano”.  Al di là della legittima curiosità a che può servire una ricerca del genere? Va a colmare alcune lacune esistenti e migliora le conoscenze sulla discendenza del genio italiano. I cinque rami della famiglia sono tracciati dal padre di Leonardo, ser Piero (V generazione), e dal fratellastro Domenico (VI). A partire dalla quindicesima generazione sono stati raccolti dati su oltre 225 individui più direttamente connessi con la discendenza diretta. L’attenzione degli studiosi si è concentrata sul cromosoma Y, questo trasmesso ai discendenti maschi, che rimane quasi invariato per 25 generazioni. Confrontare il cromosoma dei discendenti maschi viventi con quello dei loro antenati nei siti di sepoltura antichi e moderni può permettere di verificare sia la linea familiare ininterrotta sia individuare il marcatore del cromosoma Y di Leonardo. Se si riuscisse a individuare il Dna di Leonardo potrebbero essere fatti degli studi importanti sul genio toscano, a partire da alcune informazioni sulla sua prestanza fisica, la salute ed eventuali malattie ereditarie, magari riuscendo a trarre altre informazioni utili. “Il confronto dei dati biologici – chiarisce il professore Vezzosi – potrebbe inoltre servire a verificare l’autenticità di altri reperti e materiali, aprendo così le prime connessioni tra biologia e arte”. Orlando Sacchelli

Niccolò Zancan per "la Stampa" il 7 luglio 2021. Ad esempio, Gianni Vinci, 63 anni, geometra in pensione da Montelupo Fiorentino: «Mi facevano sempre la battuta "Parente di Leonardo?". "Meglio", rispondevo. Mai avrei pensato di poter dire un giorno, seriamente, sì». Dopo una vita curiosa e tranquilla, un matrimonio e una figlia, la cura per l'edilizia del suo paese come tecnico comunale e viaggi in mezzo mondo, anche in bicicletta, il signor Vinci ha ricevuto la notizia più inaspettata: «Eravamo in piena pandemia, quando il professor Vezzosi e la professoressa Sabato mi hanno annunciato quello che avevano appena scoperto». Ci sono quattordici discendenti maschi viventi del genio del Rinascimento, e uno di questi è lui. La scoperta è stata annunciata ieri con uno studio pubblicato sulla rivista «Human Evolution». L' indagine di Alessandro Vezzosi e Agnese Sabato, leonardisti accaniti, attraversa 690 anni di storia, 5 rami famigliari, 21 generazioni: «Possiamo documentare con certezza la continuità di linea maschile della famiglia Da Vinci, dal capostipite Michele del 1331, al nipote Leonardo nato nel 1452, e fino a oggi». Eccolo allora, ancora Gianni Vinci, uno dei quattordici: «Io coltivavo un po' di fascinazione per la storia della mia famiglia. Ma ero arrivato a mio bisnonno Dionisio, che ebbe dieci figli e pure essendo un contadino annotava ogni cosa su un libretto che mi è stato tramandato da nonno Tito e poi da mio padre Otello. Era una persona del popolo, ma aveva una scrittura molto alta. Le ricerche sulla mia famiglia si erano fermate a lui, e poi certo: ero stato a Parigi al museo del Louvre e anche a Cracovia, dove si può ammirare "La dama con l'ermellino". Ma l'ho fatto solo perché amo viaggiare, mai avrei creduto a una lontana parentela». Che effetto le fa? «Mi emoziona. Sono curioso. Ho messo tutto quello che potevo a disposizione di questo studio. Compreso il mio Dna». È il prossimo obiettivo. Una ricerca biologica e scientifica, dopo quella storica. Il «Leonardo Da Vinci DNA Project» è presieduto da Jesse Ausubel della Rockefeller University di New York e sostenuto dalla Fondazione Richard Lounsbery. Spiega ancora Vezzosi: «Il cromosoma Y, trasmesso ai discendenti maschi, rimane quasi invariato per 25 generazioni. Il confronto del cromosoma Y dei discendenti maschi viventi di Leonardo Da Vinci con quello dei loro antenati antichi e moderni può verificare la linea familiare ininterrotta e potrebbe individuare il marcatore del cromosoma Y di Leonardo.  Una volta individuato il dna di Leonardo, gli scienziati prevedono di poter esplorare le ragioni della sua genialità, di trovare informazioni sulla sua prestanza fisica e l'invecchiamento forse precoce, il mancinismo, la salute ed eventuali malattie ereditarie, di spiegare particolari percezioni sensoriali, come la straordinaria capacità visiva e la sinestesia». Il signor Gianni Vinci potrebbe servire quindi, oggi, per capire le ragioni di una delle massime espressioni di genialità del mondo: «Mi verrebbe voglia di dire che mi sentivo addosso una piccolissima parte di quel genio, ma non è vero. Posso dire, però, che ho già dato la mia disponibilità per continuare le ricerche». Ora la nuova genealogia, secondo i due studiosi, ha riscontri nella storia e nei luoghi, nei paesi della Toscana, nei diari di viaggio, nelle lettere ritrovate, nelle documentazioni acquisite negli uffici e nelle biblioteche. Così: sono quattordici. Paolo Dalmazio Vinci, XIX generazione, ramo A, 85 anni, pilota d' aerei, barche e auto sportive: «Pareva impossibile che ci fosse una discendenza diretta, anche se circa 60 anni fa, all' età di 25 anni, in occasione di una visita al museo di Vinci, mi fu accennata questa possibilità. Per me averlo accertato è motivo di grande orgoglio». Bruno Vinci, XIX generazione, ramo B2, cioè discendente diretto del padre e di un fratello: «Sono onorato! È difficile dire quello che provo. Sono anche molto orgoglioso di aver avuto due figli e quattro nipoti maschi che proseguono la discendenza». Milko Vinci, XIX generazione, ramo D, appassionato di musica heavy metal e di buona cucina: «Ci si sente piccoli e impreparati di fronte a notizie del genere. Leonardo non è paragonabile a nessun altro uomo per capacità, ingegno, intuito e arte. Mi piacerebbe tanto capire cosa scatenava la sua fame insaziabile di conoscenza, il continuo cercare risposte attraverso l'arte e la tecnica». Sono loro. Quattordici pronipoti di Leonardo Da Vinci. Discendono direttamente dall' epoca più meravigliosa della storia italiana. Offriranno il loro dna per cercare di andare avanti. Intanto, adesso, chiediamo a Alessandro Vezzosi se sia fatto un'idea del perché di quel genio unico. «Non ho certezze. Solo un'ipotesi: Leonardo probabilmente era figlio di una donna venuta da molto lontano, due differenti caratteri che si sono incontrati e che potrebbero aver generato qualcosa di tanto straordinario».

Da "Il Messaggero" il 4 febbraio 2021. Il Salvator Mundi, tuttora il dipinto più caro della storia (450 milioni di dollari), non sarebbe tutto opera di Leonardo, secondo un paio di nuove ricerche riportate da The Art Newspaper. Gli studi, uno dei quali di esperti del Louvre, concordano sul fatto che il quadro fu concepito inizialmente come una testa e le spalle, con la mano destra alzata in segno di benedizione dipinta successivamente. Un'indagine dello scienziato informatico Steven Frank e dalla moglie, la storica dell'arte Andrea Frank, arriva a sostenere che queste parti sono chiaramente «non di Leonardo». Usando algoritmi di riconoscimento delle immagini, gli studiosi hanno determinato che solo la testa e il busto del Cristo sono di Leonardo. L'esame del Louvre è più indulgente in quanto concorda che il braccio benedicente è stato realizzato più tardi senza escludere che sia stato Leonardo a dipingerlo. Gli esperti del museo notano che la sezione superiore della mano destra, a differenza di altri elementi, è stata dipinta direttamente sullo sfondo nero del quadro, dimostrando che «Leonardo non aveva previsto di dipingerlo all' inizio del progetto». Il quadro fu acquistato all'asta da Christie's nel 2017 per 450 milioni di dollari da un anonimo compratore che si rivelò poi essere un amico e alleato del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman.

La vita di Leonardo tra passioni segrete e morti misteriose. Arriva su Raiuno la fiction in otto episodi dedicata al genio del Rinascimento. Paolo Scotti - Sab, 20/03/2021 - su Il Giornale. Un genio universale, universalmente noto. E un uomo impenetrabile, praticamente un enigma. Come raccontare, allora, la storia di un unicum sfuggente come Leonardo da Vinci, che tutti conoscono ma della cui umanità si sa ben poco? Anzichè intimidire, questo paradosso ha finito per fare il gioco degli sceneggiatori di Leonardo (fastosa produzione Lux Vide e Sony: tre anni di lavoro e cinque mesi di riprese per 30 milioni di euro di spesa) che seguendo la nota, e spesso abusata, logica secondo cui «una fiction non è un documentario», hanno sfruttato le molte lacune sull'uomo Leonardo per colmarle con la loro immaginazione. Tutte le quattro serate dello serie - in prima mondiale su Raiuno da martedì 23 - ruotano infatti attorno ad una elaborazione fantastica. Una finora ignota Caterina da Cremona, nella realtà una semplice modella il cui nome appare sui contratti con cui fu ingaggiata da Leonardo, diventa la musa, la migliore amica, anzi il vero amore del genio vinciano, intendendo per amore (data la presunta omosessualità del Nostro, generalmente accettata dagli storici) «non quello sessuale ma quello fatto di amicizia, comprensione, accoglienza come spiega lo sceneggiatore Frank Spotnitz- che durò tutta la vita dell'artista». Però Caterina finisce assassinata, il sospetto omicida è proprio Leonardo, e l'inchiesta condotta lungo gli otto episodi assieme alla storia della creazione di otto opere leonardesche- aiuta a illuminare il mistero che avvolge l'umanità del genio. Siamo, per intenderci, lontani anni luce dall'esemplare rigore culturale della Vita di Leonardo di Renato Castellani, che cinquant'anni fa conquistò (e acculturò) l'Italia televisiva. Qui si trattava di fare soprattutto spettacolo, «di accattivare un pubblico che deve essere soprattutto intrattenuto», come precisa il produttore Luca Bernabei. Meglio ancora se sulla scia delle sontuose e romanzesche ricostruzioni de I medici, prodotto dalla stessa Lux: evidentemente, in termini di audience, il Rinascimento in stile velluti e pugnali tira, soprattutto all'estero (dove Leonardo è già stato venduto a 120 paesi). Magari ci sarebbe da aggiungere che le invenzioni, spesso necessarie nella fiction, e comunque legittime, quando però riguardano un personaggio storico di fama globale dovrebbero essere un po' più caute. Ma forse è pretendere troppo. «Abbiamo letto biografie di Leonardo in numero esagerato ribatte Spotnitz- consultato esperti e visionato materiali d'ogni genere. Tutto per arrivare all'essenza che ci eravamo proposti: dire qualcosa di vero, attraverso la finzione». «Noi attori raccontiamo delle favole aggiunge Giancarlo Giannini (che interpreta il Verrocchio)- Cosa importa sapere se Leonardo disse realmente, o realmente fece, tutto ciò che noi mostriamo? Noi lavoriamo nella finzione. E ciò che non sappiamo ce lo inventiamo». Ecco allora la Firenze e la Milano del '500 riccamente ricostruite in studio e al computer; ecco interpreti noti come il protagonista Aidan Turner (già visto in Poldark e Lo Hobbit) o il Freddie Highmore di The Good Doctor, affiancati a talenti nostrani come Matilda De Angelis (Caterina) e Giannini stesso. «Tutti personaggi -spiega ancora Spotnitz- cui viene assegnato il ruolo di traghettatori dalla realtà alla fantasia». «Come ho fatto a dare un'anima ad una icona di questa portata? si chiede Turner- In realtà ogni ruolo è uno scambio fra l'anima del personaggio e quella dell'interprete. Per me è stato molto importante poter visitare in completa solitudine una mostra sul grande pittore, aperta al Louvre due settimane prima dell'inizio delle riprese. Un'esperienza epifanica». L'immagine che del Leonardo ventenne dà l'attore irlandese nei primi due episodi è quella di un giovanottone confuso, perennemente incerto e inspiegabilmente afflitto: «Ma proprio in questo sta la modernità del personaggio conferma Spotnitz- I demoni interiori che Leonardo deve contrastare somigliano a quelli contro cui combattono molti nostri contemporanei». Dei suoi lavori non si poteva certo (e nemmeno interessava) illustrare un' opera omnia dai confini praticamente illimitati: «Così abbiamo scelto solo otto opere, una per episodio, in base alle storie nascoste dietro la loro realizzazione. Storie che sono diventate la spina dorsale del racconto complessivo. La prima sarà l'angelo che Leonardo dipinse all'interno del Battesimo di Cristo del Verrocchio». Quanto al mistero, cioè a cosa si nasconda dietro lo sdegnoso isolamento del sommo artista, alla sua curiosità inesausta, all'ossessiva ricerca della perfezione, «alla fine capireteannuncia sibillino lo sceneggiatore- perché abbiamo dato tanta importanza al personaggio di Caterina. E per quale motivo non avevate mai sentito parlare prima di lei».

La fiction su Rai1. Leonardo Da Vinci, la fiction tra l’omosessualità e Caterina da Cremona. Vito Califano su Il Riformista il 30 Marzo 2021. Ha fatto e sta facendo molto discutere la fiction della Rai ispirata alla vita di Leonardo Da Vinci. Una storia, quella ripresa in Leonardo, romanzata secondo alcuni o proprio innestata di sana pianta su alcune direttrici della biografia dell’artista. “Questa produzione è stata ispirata da eventi storici reali”, si legge alla fine delle puntate e quindi le critiche e le osservazioni sulla veridicità del prodotto si sono sprecate. Otto puntate, quattro prime serate. Protagonisti gli attori Aidan Turner e Matilda De Angelis. Accanto a questi anche Giancarlo Giannini e Freddie Highmore. Non un biopic, ma una serie tv crime, mistery e thriller. O almeno questo è quello che si propone. L’omicidio è quello di Caterina da Cremona, assassinio e giallo da risolvere proprio in apertura della fiction. A interpretare Caterina da Cremona è Matilda De Angelis. L’attrice italiana del momento dopo l’ottima figura al Festival di Sanremo da madrina e conduttrice della prima serata, e dopo il film L’incredibile storia dell’Isola delle Rose e la serie tv The Undoing con Nicole Kidman e Hugh Grant. Caterina però è un personaggio inventato di sana pianta. Leonardo Da Vinci conobbe una cortigiana chiamata Cremona, come ricorda lo storico Giuseppe Bossi, ma dopo il 1513. La donna interpretata da De Angelis è sorta di musa, più di una migliore amica, una specie di amore platonico. Il Corriere della Sera ha definito “ridicolo” il turbamento di Leonardo per la sua omosessualità e il rifiuto della stessa Caterina. Perché Leonardo Da Vinci, secondo le ipotesi di molti studiosi, era omosessuale. Non risultano relazioni con donne, non si sposò e non ebbe mai figli. Probabilmente ebbe delle relazioni con gli allievi Melzi e Caprotti. Sigmund Freud, nel suo Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, ha interpretato una nota di Leonardo come la fantasia di un atto di sesso orale. Un’analisi che diede il via a una re-interpretazione di tanti altri episodi della vita dell’artista. Quello che è certo è che Leonardo Da Vinci affrontò un processo nel 1476 per sodomia insieme con altri quattro giovani fiorentini, tra cui due di famiglia patrizia. Il processo si concluse con un ammonimento ed è stato ricostruito anche nella fiction – tuttavia non per la denuncia di un pittore ma per una denuncia anonima. Non manca chi dice che quel processo fu basato su calunnie che volevano screditare l’artista. Il produttore Luca Bernabei, ad di Lux Vide, ha difeso il suo prodotto in un’intervista a Il Corriere della Sera: “Di base abbiamo cercato espedienti per esplorare la sua mente e il suo animo. Siamo stati rispettosi, proponendo scenari plausibili. Infatti sono arrivati i complimenti di Franceschini e la Rai ci ha chiesto la seconda stagione. Non è una lezione di storia. Ma per fare chiarezza su tutte le discrepanze, abbiamo lanciato un podcast che sta già andando molto bene”. La serie è stata comprata anche da Amazon Uk e negli Stati Uniti.

Vittorio Sgarbi per il Giornale il 7 aprile 2021. Ha fatto discutere, e fa discutere, per il successo di pubblico e per le licenze, la serie tv Leonardo diretta da Dan Percival e Alexis Sweet e interpretata da Aidan Turner e Matilda De Angelis (con Freddie Highmore, Giancarlo Giannini, Robin Renucci). Già la presenza di una figura femminile deuteragonista, Caterina da Cremona, che Leonardo avrebbe ucciso, crea perplessità, come altri arbitri storici per accrescere e potenziare l' interesse narrativo. La cosa non piace per esempio a Corrado Augias: «Leonardo arrestato per omicidio è solo un bel titolo da prima pagina. Tanto più che il vecchio binomio tra amore e morte ha sempre funzionato. Questa volta però a danno dello stesso protagonista, falsandolo in modo così grossolano da mandare in malora anche l' utilità sociale dell' opera romanzesca che per i romantici giustificava le licenze narrative». È un commento severo. A me disturbano piuttosto i disegni e i dipinti improbabili, invece di convincenti fac simili, di facile elaborazione, e gli interni del Castello Sforzesco con affreschi e cortili di epoca successiva a quella di Leonardo, pur nel racconto in costumi e ambienti ricercati. L' esperienza del volo, per esempio, avviene in un cortile circolare di metà Cinquecento, trent' anni dopo la morte di Leonardo. A un certo punto si vede una scala a spirale di disegno manieristico, nello stile del Vignola (1507-1573). Ma sono, nel vivace e animato racconto, particolari di interesse marginale, peccati veniali, e non compromettono una sceneggiatura sapiente e serrata, che intende illustrare la psicologia di un uomo versatile, curioso e appassionato che, attraverso la pittura, cerca di interpretare il mondo e comprenderne le ragioni ultime. È un modo per rendere la storia appassionante oltre le fonti dell' epoca. Vasari ci dice di Leonardo tutto quanto è utile per capirne il carattere, il temperamento, l' umore, e ci racconta anche la sua continua ansia di fare altro. Scrive Vasari: «volse la natura tanto favorirlo, che dovunque e' rivolse il pensiero, il cervello e l' animo, mostrò tanta divinità nelle cose sue». Ecco, la parola «divinità». La competizione di Leonardo è con Dio, e la «divinità» delle sue creazioni è quello che pare immediatamente agli occhi di Vasari: «che nel dare la perfezzione, di prontezza, vivacità, bontade, vaghezza e grazia, nessun altro mai gli fu pari». È un' ammissione importante per Vasari, allievo di Michelangelo, ostile a Leonardo, che Vasari considerava il più grande degli artisti. Michelangelo, per quanto grande, aveva il limite della sua perfezione. Leonardo invece aveva una visione così ampia e così aperta che «nessun altro mai gli fu pari». «Trovasi che Lionardo per l' intelligenzia de l' arte cominciò molte cose, e nessuna mai ne finì». Leonardo non voleva portare a termine, realizzare un pensiero, riprodurre una realtà in modo meccanico, con una mimesi perfetta, «parendoli che la mano aggiugnere non potesse alla perfezzione de l' arte ne le cose che egli si imaginava»: la perfezione era nella sua mente, la mano poteva trascrivere l' essenziale di quello che lui aveva sentito e intuito, non tutto, non era importante riprodurre tutto. «Con ciò sia che si formava nella idea alcune difficultà tanto maravigliose, che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse mai». Le mani non erano sufficienti a raccontare il suo sogno, la sua visione, la sua ansia d' infinito. Tutto questo è già chiaro nella perfetta definizione di Vasari, che aveva colto la vera attitudine di Leonardo, così diversa da quella di ogni altro artista, accanito nel cercare la perfezione. Quando il primo sistematore della grande pittura del Rinascimento, Bernard Berenson, alla fine dell' Ottocento iniziò ad affrontare Leonardo, anche lui, come Vasari, colse una diversità evidente: «Leonardo è l' unico di cui si possa dire, e in senso assolutamente letterale: nulla toccò che non tramutasse in bellezza eterna». Anche Berenson ci pone la questione di Dio: «Qualunque cosa tocchi Leonardo diventa bellezza eterna, che si tratti della sezione di un cranio, della struttura di una foglia, dell' anatomia di muscoli, col suo istinto della linea e del chiaroscuro egli li trasfigurò per sempre in valori che creano la vita». È l' obbiettivo dichiarato della serie tv, che lo trasferisce nella interpretazione umanissima e sensibile di Aidan Turner. I disegni di Leonardo concorrono con la vita, sono vivi. Leonardo crea vita, non riproduce la realtà. E Sebastiano Serlio, il grande studioso di architettura, conclude con una definizione che rispecchia quanto ho fin qui descritto: «Nel vero la teorica sta nell' intelletto, ma la pratica consiste nelle mani». Intelletto per i pensieri, pratica nelle mani: «perciò lo intendentissimo Leonardo Vinci non si contentava mai di cosa ch' ei facesse, e pochissime opere condusse à perfettione: e diceva sovente la causa esser questa: che la sua mano non poteva giungere all' intelletto». È il limite che ci trasmette lo sceneggiato. C' è una perfetta concordia nell' interpretazione di Leonardo con le fonti storiche. Nel ricostruire la sua vita, Vasari ci racconta alcuni altri passaggi fondamentali. «Adunque mirabile e celeste fu Lionardo, figlio di Ser Piero da Vinci, che veramente bonissimo padre e parente gli fu, nell' aiutarlo in giovanezza. E massime nella erudizione e principii delle lettere, nelle quali egli arebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario et instabile». Leonardo poteva essere un grande scrittore, un grande letterato, ma era «vario et instabile». Appena cominciava a fare qualcosa, subito si distraeva e pensava di fare altro: «percioché egli si mise a imparare molte cose e, cominciate, poi l' abbandonava». Torna costantemente questa idea dell' incompiuto, dell' imperfetto che nel film è fragilità, instabilità: «Ecco nell' abbaco egli in pochi mesi ch' e' v' attese, fece tanto acquisto, che movendo di continuo dubbi e difficultà al maestro che gl' insegnava» - è tipico di Leonardo il dubbio, creare difficoltà, generare incertezza in chi gli insegna - «bene spesso lo confondeva». Il maestro si confondeva davanti a un allievo tanto critico. «Dette alquanto d' opera alla musica»: e qui emerge il suo mestiere primario, il cantautore. Leonardo sa che la musica è la prima espressione della creatività dell' uomo. La scrittura, l' alfabeto hanno seimilacinquecento anni, la pittura dodici-quindicimila, la musica invece è il primo modo con cui, attraverso la voce, l' uomo esprime un' emozione, un sentimento. Il dipinto rimane sulla pietra, nel mondo primitivo, la musica e la danza si esauriscono nell' hic et nunc, accadono nel momento in cui le vediamo, poi spariscono, non rimangono. Sono due arti straordinarie, effimere, come l' uomo. È difficile raccontarlo; per questo la serie tv si arricchisce di spunti narrativi avventurosi in cui l' azione e le relazioni (anche quelle inventate), come dire i tempi di Leonardo, siano lo scenario per le sue idee, anche diminuendo la dimensione intellettuale dell' artista e dello scienziato che fece parlare Benedetto Croce e Giovanni Gentile di un Leonardo filosofo, quale possiamo trovare nel volume appena pubblicato da La nave di Teseo. All' inizio della quarta puntata, le sceneggiato restituisce a Leonardo la pienezza del suo pensiero, efficacemente parafrasato: «Ho passato tutta la mia vita cercando di avvicinarmi alla verità di Dio, attraverso la bellezza, cercando di definire e comprendere gli aspetti dell' anatomia umana con la precisione di un' equazione matematica. Ho studiato innumerevoli volti, cercando di non cogliere solo l' apparenza, ma chi sono realmente. Ho cercato nella verità di Dio anche la mia. Ho sentito la bellezza di Dio in fugaci momenti e sono convinto che viva in tutti, eppure non l' ho ancora trovata in me». Questi pensieri chiedono di calarsi in un racconto per umanizzare Leonardo, non renderlo astratto e volto solo al pensiero e all' arte, ma dentro la vita, in una plausibile rappresentazione. È un' interpretazione discutibile, ma coerente sul piano narrativo, nel tentativo di restituire il genio alla quotidianità, ai rapporti con il potere, ai tempi della vita. L' obiettivo è trasferire il genio nell' umano. Senza diminuire la tensione assoluta del rapporto con Dio. Ma il Leonardo di Dan Percival e Alexis Sweet è un uomo con le sue debolezze. Si consoli Augias. Non si vede il ridicolo. Questo Leonardo è umano, troppo umano.

Dagospia il 14 aprile 2021. L'INTERVENTO DI LUCA BERNABEI A "RTL102.5".

LUCA BERNABEI: “ Volevo raccontare una cosa che non si fa mai: rompo il muro di omertà che c’è in Italia. Ho chiesto l’autorizzazione e mi hanno detto che non dovevo farlo, ma lo farò per il mio amico Suraci, che ama le polemiche (non è vero… ora Suraci non sarà più mio amico… e Federica Gentile non mi ospiterà mai più!). Vi racconto quello che è successo. Lo sport nazionale in Italia è parlarsi addosso (noi siamo il paese più bello del mondo, e lo dico qui a Viva l’Italia, che è un bellissimo titolo per un programma). Tutti scrivono “Questa cosa non va bene… questo non è esatto…”, e io rispondo a tutti quelli che scrivono gli articoli. Il Corriere mi scrive una pagina contro? Ed io chiedo una pagina per diritto di replica. Posso rispondere, questo fa la stampa inglese. Sono stato intervistato dal Times (sì, ho avuto questo onore da “italianuzzo” di Roma di essere intervistato dal Times!) e ho capito questa cosa. Lo stesso succede con Repubblica. Repubblica mi scrive due articoli contro. Chiamo il capo degli spettacoli e dico “Scusami ma potrei avere diritto di replica? Potrei rispondere a questi due articoli?” e loro “Certo! Facciamo una bella intervista”. Questo accade giovedì scorso. Venerdì non esce, sabato non esce, domenica non esce, lunedì non esce. Ieri sera alle 20 (quando ormai era impossibile reagire) mi dicono non uscirai più. E mi dicono una cosa interessante ”Noi sai siamo sulle notizie”. Ed io: “Beh, L’ultima serata di Leonardo, finale di stagione, mi sembra una notizia” Stamattina apro il giornale e trovo due pagine (una cosa mai successo nella mia vita sulle mie serie e sono trent’anni che faccio il produttore) su un’altra serie. Una serie bellissima, fantastica, di un collega. Ma nemmeno una riga su Leonardo. Ecco, io su questo voglio fare polemica. Perché di Leonardo ha parlato bene Franceschini, perfino Sgarbi, il più grande esperto in Italia su Leonardo (ha scritto un libro bellissimo che vi consiglio).

FEDERICA GENTILE: ”Parliamo quindi di una vicenda accaduta con il quotidiano “La Repubblica” dove tu chiedi il diritto di replica.

LUCA BERNABEI: “Sì, parlo come amministratore delegato della Lux e chiedo diritto di replica al Direttore di Repubblica. Sono consapevole che sarà tardi ormai, perché stasera andrà in onda l’ultima puntata. Ma proprio per questo guardatevi l’ultima puntata di Leonardo, per capire qual è il meccanismo del parlar bene e del parlar male. Come dicevo all’inizio, siamo un paese che non ha ancora imparato a parlar bene di sé stesso e di quello che di bello ha e fa. Anzi, a questo proposito, concludo annunciandovi che il Metropolitan Museum inaugurerà la sua prima mostra post covid sui Medici. E faranno una personale sui Medici perché la curatrice del Met è una fan dei Medici, la nostra serie!”

Dagospia il 14 aprile 2021. Di seguito l'intervista realizzata da Repubblica con il produttore Luca Bernabei, che sarebbe uscita ieri sul nostro sito se lo stesso Bernabei non si fosse opposto alla pubblicazione. In seguito, in altre sedi, il produttore ha parlato di censura di Repubblica nei suoi confronti. Per correttezza verso i nostri lettori abbiamo deciso di pubblicare l'intervista.

Silvia Fumarola per repubblica.it il 14 aprile 2021. Un risultato l'ha ottenuto: è la serie più discussa dagli studiosi, che hanno criticato le scelte degli autori Frank Spotnitz e Steve Thompson. Antonio Forcellino (autore del libro Leonardo. Genio senza pace, edito da Laterza), ha smontato la costruzione del kolossal televisivo Leonardo (martedì 13 aprile su Rai 1 l'ultima puntata) interpretato da Aidan Turner, Matilda De Angelis e Freddie Highmore. Ma il produttore Luca Bernabei, che con LuxVide ha coprodotto la serie, non ci sta: "Gli autori si sono basati sulle carte e i documenti ma il nostro non è un documentario, noi facciamo intrattenimento televisivo".

Bernabei, partiamo da Caterina da Cremona. Concordano tutti: non è esistita. Lei come replica?

"Caterina è un personaggio storico realmente esistito come testimonia l'autore inglese Charles Nicholl nel suo saggio in cui parla della 'Cremonese', dicitura che si trova in diversi schizzi, tanto che l'ipotesi più accreditata è che si tratti di una cortigiana che per un periodo ha posato per Leonardo e per i suoi allievi".

Ma non se ne innamorò e non è vero che fini in galera per lei.

"Si vedrà nell'ultima puntata. Come faccio a far entrare il pubblico nella mente di uno degli uomini più complessi del Rinascimento? Trovo una chiave narrativa e sicuramente l'indagine era una di queste. Tentare l'esplorazione della mente con la detection è una soluzione. Forcellino paragonava Leonardo a una rockstar, ed è giusto. Anche in Bohemian Rhapsody Freddie Mercury racconta la sua vita a una musa che gli era accanto. Si creano queste figure con cui il protagonista si confida, è un espediente narrativo e drammaturgico. Noi non siamo documentaristi, ripeto: facciamo intrattenimento televisivo".

Quali sono i limiti?

"A me interessa che milioni di italiani sappiano che, ad esempio, per un capolavoro assoluto, L'ultima cena, Leonardo non usò la tecnica dell'affresco e volle cambiare. Ha ha usato una tecnica mista per cui ora l'opera si sta sfaldando, è bello sapere che anche un genio come lui sbaglia. Questo è tutto drammatizzato nella fiction. Essendo stato abbandonato dal padre, il suo riscatto lo spingeva a essere il migliore. I limiti sono delicatissimi ovviamente, ma cosa faccio come narratore di storie televisive? Riempio gli spazi neri in mezzo agli spazi bianchi, devo raccontare qualcosa che colleghi gli avvenimenti conosciuti".

Giancarlo Giannini, che interpreta Verrocchio, il maestro di Leonardo, lo dichiarò subito: "È una favola per adulti".

"Ha ragione, noi raccontiamo favole. E cerchiamo di farlo nel modo più accurato possibile. È chiaro che il personaggio di Caterina da Cremona è stato ricamato".

Non sarà invece che siccome Leonardo era omosessuale qui serviva una donna?

"Qualcuno mi ha accusato di aver raccontato pure troppo l'omosessualità. Leonardo fu condannato per sodomia, molti dicono che a quel tempo lo accusarono per danneggiarlo. Sicuramente il più grande storico ad averlo raccontato è Vasari, ma nessuno ha esplorato l'anima di Leonardo. A quei tempi c'erano comportamenti sessuali meno codificati".

Cosa le è dispiaciuto di più delle critiche?

"Mi è dispiaciuto che noi italiani facciamo le pulci a una serie che fa il giro per il mondo. Basta spararci addosso, abbiamo storie meravigliose da raccontare o dobbiamo continuare con questo continuo borbottio? Dobbiamo imparare a glorificarci, voglio fare come i francesi".

Perché questo dibattito, che approda sul web e sui giornali, non si può fare in tv? Avete avuto come consulente il professor Alessandro Rovetta dell'Università Cattolica di Milano, che vi diceva?

"Ogni tanto Rovetta ci rimproverava: 'Ma questo non era proprio così'. Però, ripeto, non dovevamo fare un documentario. Ha capito le nostre esigenze. Quale serie al mondo ti racconta in ogni puntata com'è nato un capolavoro? Quale serie ti fa vedere i bozzetti, i modellini?

Quando costruivano la statua equestre ero curioso io stesso. Sarebbe bello un confronto tra Sgarbi, Rovetta e Forcellino. Sa che il Metropolitan Museum farà una mostra sui Medici e ha chiesto al nostro costumista Alessandro Lai un'intervista da mettere nell'audioguida? Tra l'altro Lai quando ha lavorato su Leonardo ha usato le stesse parole del dottor Forcellino: 'Facciamone una rockstar perché lui è la rockstar del Rinascimento'".

Ma Forcellino notava che era vestito in modo dimesso, con una tunichetta.

"È chiaro che quando è nella bottega del Verrocchio lo vestiamo da apprendista. Ma Lai in altre occasioni ha usato velluti pazzeschi. E i gioielli sono stati fatti a Firenze, con tutti i dettagli".

Dagospia il 14 aprile 2021. Riceviamo e pubblichiamo. Caro Dago, riporti una intervista a Luca Bernabei nella quale il manager afferma: “Il Corriere mi scrive una pagina contro? Ed io chiedo una pagina per diritto di replica”. Ancorché, e lui non lo dice, con squisita cortesia il direttore del “Corriere” lo abbia fatto intervistare, la NON ERA DOVUTA ALCUNA REPLICA poiché l’articolo al quale il Bernabei si riferisce, da me scritto in qualità di studioso di Leonardo, rispondeva alla semplice domanda: cosa è vero e cosa è inventato di ciò che si vede nella serie tv “Leonardo”. Io ho scritto, senza alcuna smentita ovviamente, cosa era vero e cosa era inventato non dando alcun giudizio sulla fiction tantomeno sul produttore. Dunque, non necessitava replica. Che il caro amico Vittorio Sgarbi sia “il più grande esperto in Italia su Leonardo” lo lasciamo dire a un non esperto come il dr.Bernabei: dopo la morte di Carlo Pedretti l’ambita palma va forse a Pietro Marani; poi ci sono esperti internazionali come Carmen Bambach o Martin Kemp. Ecco, se un suggerimento posso offrire al dr.Bernabei è quello di cambiare consulente storico. E magari, anziché fare un film inventato su Leonardo, farne uno vero sul “Salvator Mundi” attribuito al maestro: sarebbe una storia avvincente, con Leonardo, allievi, ma anche re decapitati, viaggi, guerre, oligarchi, belle donne, mostre, soldi che vanno e che vengono e un quadro su Cristo che finisce alla “Mecca”: non c’è bisogno di inventare, basta scegliere bene gli argomenti e seguire i fatti per essere avvincenti.  A volte la storia supera la fantasia. Pierluigi Panza

UNA MINCHIATA TIRA L'ALTRA. Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 24 marzo 2021. Costruire una serie sul genio del Rinascimento, sull' uomo che concepì l' arte e la scienza come attività armonicamente complementari nella perenne scoperta delle leggi della natura e di tutto l' universo è impresa titanica. Nel 1971 la Rai tentò un' operazione brechtiana, con lo sceneggiato di Renato Castellani, basato sugli scritti del Vasari. Giulio Bosetti era il narratore guida che conduceva per mano lo spettatore nei «luoghi» leonardeschi, lasciando poi a Philippe Leroy l' immersione storica e drammaturgica (meno interessante la serie «Da Vinci Demons», 2013-15). Lux Vide propone ora una serie internazionale in otto episodi, «Leonardo» (un' alleanza fra Rai, France Télévisions e ZDF), creata da Frank Spotnitz e Steve Thompson e diretta da Dan Percival e Alexis Sweet (Rai1). Milano, 1506. Leonardo da Vinci (Aidan Turner) viene arrestato con l' accusa di avere avvelenato Caterina da Cremona (Matilda De Angelis). Dopo aver dichiarato la sua innocenza a Stefano Giraldi (Freddie Highmore), ufficiale del Podestà, Leonardo ricorda i suoi giorni da apprendista nella bottega di Andrea del Verrocchio (Giancarlo Giannini) dove incontra per la prima volta la modella Caterina. Raccontare un genio non è facile e se è vero che molte sue opere sono rimaste incompiute perché non erano all' altezza che Leonardo si era prefisso, si capisce perché la serie debba continuamente fare i conti con l' inadeguatezza. Ogni episodio è incentrato su un' opera del Maestro, in quel difficile compito di raffigurare la relazione tra vita e opera d' arte, e nel tentativo di umanizzarne la figura (la condizione di figlio illegittimo, l' omosessualità, l' invidia degli altri allievi, il rapporto con Caterina) a volte si partecipa empaticamente al mistero del processo creativo, a volte si scivola negli stilemi della soap. Ma è inevitabile, il period drama vuole che la Storia si dipani in tante storie, una combinazione di fatti, sentimenti e rivelazioni.

Il Leonardo televisivo, un kolossal di fake news. Il Da Vinci televisivo non è solo un’occasione persa per raccontare la vita straordinaria di un genio italiano e del contesto in cui è vissuto. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Marzo 2021. Il kolossal su Leonardo da Vinci, annunciato da giorni, l’altra sera è andato in onda. Un successo strepitoso con quasi sette milioni di telespettatori e il 28,2 per cento di share. Del resto con quegli attori, con quel regista e soprattutto con un soggetto che resta uno dei pilastri della cultura mondiale non poteva essere diversamente. La trama è data da una serie di ricordi che affiorano mentre Leonardo è in cella con l’accusa di aver assassinato Caterina da Cremona, ex modella e sua amica. Per discolparsi o quantomeno per cercare di dare una spiegazione innanzitutto a se stesso, Leonardo parla a lungo col capitano delle guardie che l’ha arrestato, una figura a metà fra Montalbano e Irma Tataranni. Gli attori sono bravi, a cominciare da Giancarlo Giannini che interpreta Andrea del Verrocchio, grande pittore nonché maestro del giovane Leonardo. I costumi e la fotografia sono quanto mai accurati e d’effetto, riuscendo a rendere in maniera assai realistica il racconto, così come sono azzeccate le ambientazioni e i luoghi. Bene, si dirà, allora tutto perfetto, successo meritato e non solo frutto della lunga campagna pubblicitaria, inclusi anche gli annunci durante i principali tg Rai. Purtroppo non è così. La chiave introspettiva scelta dagli autori e dal regista può essere un modo originale per capire la genialità di Leonardo e di riproporlo al grande pubblico. Ma nel Leonardo televisivo siamo di fronte a una gigantesca fake news, anzi a una serie di fake news. Leonardo non è mai andato in prigione, non è stato mai accusato di omicidio e tale Caterina da Cremona avrebbe forse posato per lui una volta. Soprattutto non esiste alcuna «maledizione» sul capo del genio di Vinci, maledizione che nel kolossal Rai addirittura viene fatta risalire alla predizione di una megera fatta quando Leonardo nacque e che lo tormenterà per tutta la vita. E questo della «maledizione» è il filo rosso che lega tutti gli episodi narrati. Gli autori hanno ammesso di aver lavorato di fantasia per riempire i tanti buchi nella biografia del genio vinciano. Peccato che si sia andati però in una sola direzione: inserire un po’ di mistero, di noir e di sesso per rispondere in pieno ai canoni narrativi americani e ai desideri del pubblico. È vero che il Leonardo televisivo non poteva essere un docufilm, ma è altrettanto vero che non poteva essere inserito in un contesto così ricco di americanate. Leonardo non sono I Medici, con cui è stata fatta la stessa operazione. Perché Leonardo lo conoscono tutti e ieri è stata sconvolta l’idea che ciascuno ne aveva. Anche uno sceneggiato, una fiction contribuiscono a diffondere fake news, non solo i social o i giornali. E la cosa è più grave se fatta dalla Rai, che dovrebbe svolgere un servizio pubblico, e se avviene durante un periodo in cui tutte le scuole sono in Dad. I ragazzi vanno in confusione e non credono più ai loro docenti che non gli hanno mai parlato della maledizione, dell’arresto, dell’omicidio e chissà di che altro scopriremo nelle prossime puntate. Alla fine il Leonardo televisivo non è solo un’occasione persa per raccontare la vita straordinaria di un genio italiano e del contesto in cui è vissuto. La storia dell’Italia di oggi ha le sue radici là. Indagare su Leonardo e raccontarlo non è solo una lezione di storia dell’arte, è andare anche alla ricerca della storia di un popolo, delle radici politiche di una divisione fra governo e regioni che dura da secoli e che forse oggi è la stessa che mette in crisi la lotta al Covid. Invece bisogna accontentarsi solo di una serie di insidiose fake news per fare audience, alla faccia della verità.

Pierluigi Panza per il Corriere della Sera il 26 marzo 2021. «Questa produzione è stata ispirata da eventi storici reali» si legge alla fine delle puntate della serie tv «Leonardo» in onda su Raiuno. Vediamo quanto di reale c’è e quanto di ispirazione nelle prime due puntate.

Sostanzialmente è una storia inventata innestata sulla vita di Leonardo. Leonardo fu arrestato per omicidio a Milano? No. Nel film, una delle prove della sua colpevolezza sarebbe il non esserci quadri con ritratta la modella amante trovata morta: «Non lo trovate strano?» chiede l’accusatore. Veramente no: i quadri erano su commissione, molto raramente si faceva il ritratto di una modella.

Fu imprigionato? Non risultano documenti secondo i quali fu in prigione al Castello Sforzesco, dove organizzava feste. Strano che la confessione di Leonardo sarebbe richiesta insistentemente «dal Governatore francese», Charles D’Amboise, che lo ha sempre protetto.

Caterina da Cremona era una modella esistita? È un personaggio inventato. Secondo lo storico Giuseppe Bossi, segretario di Brera, Leonardo conobbe «una cortigiana chiamata Cremona», ma a Roma dopo il 1513. Nel film si vede Caterina sepolta in un prato. Ma i cimiteri a Milano (descritti da Bernardino Corio) erano solo presso le chiese e sul retro del Duomo. Nel cremonese, a San Giovanni in Croce, finì invece Cecilia Gallerani (la «Dama con l’ermellino») dopo che il Moro la fece sposare al Bergamino.

Leonardo era omosessuale e fu processato per sodomia? I documenti del processo per sodomia sono negli «Ufficiali di notte e conservatori dell’onestà dei monasteri»: il 9 aprile 1476 ci fu la prima udienza ma non, come dice il film, per denuncia del pittore Tommaso («Sono stato io a tradirti e andare dal podestà»). Fu una denuncia anonima (presentata al «tamburo»). La vittima si chiamava effettivamente Iacopo Saltarelli, garzone di 15 anni. Accusati Leonardo e altri tra i quali Lionardo Tornabuoni, grazie alla cui influenza il processo si estinse.

Fu portato dalla madre da una maga? È una invenzione. In un documento al Catasto di Firenze del 28 febbraio 1458 il nonno Antonio scrive: «Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legittimo nato di lui e della Chaterina che al presente è donna d’Achattabriga di Piero del Vaccha da Vinci»: la madre, Caterina fu presto allontanata e fatta maritare, dopo la nascita di Leonardo, a questo contadino di Vinci. Nel film Piero di Vinci porta Leonardo dal nonno a circa cinque, sei anni: sbagliato, dai documenti notarili dell’Archivio di Stato di Firenze si intuisce che sta presso il nonno, il quale muore nel 1458!

Lavora nella bottega del Verrocchio? La presenza dal Verrocchio è certa, attestata anche nelle «Vite» del Vasari: «...gli portò ad Andrea del Verrocchio che era molto amico suo... onde egli ordinò con Lionardo che dovesse andare a bottega di Andrea». La maquette del Duomo che si vede in bottega è precedente al modello di Brunelleschi; la cattedrale di Firenze non era rivestita come si vede nel film: è così dall’intervento del 1887 di Emilio de Fabris. Verrocchio non colloca la sfera dorata e la croce insieme sulla lanterna. Corretto l’angelo dipinto da Leonardo sul «Battesimo di Gesù».

Ginevra de’ Benci amava Bernardo Bembo? Ginevra viene ritratta per il matrimonio del 15 gennaio 1474, a 17 anni, con Luigi di Bernardo di Lapo Nicolini. Effettivamente c’era una «relazione» tra lei e Bernardo Bembo ambasciatore di Venezia: il motto del Bembo è sul retro della tavola. Leonardo viene pagato con un libro: dovrebbe essere il «Liber de medicina veterinaria» di Girolamo Ruffo (alla Laurenziana).

Era un alchimista? È una affermazione genericamente lecita: Leonardo faceva studi sui metalli.

Leonardo ha lasciato scritti sull’amore e sui baci? Alcuni discorsi di Leonardo nel film riprendono, semplificandoli, passaggi dai suoi codici. Ma alcune affermazioni sono ridicole per l’epoca: Caterina: «Adesso dovresti baciarmi» / Leonardo: «Davvero? Che genere di bacio avresti in mente»… / Caterina: «Ho frainteso quello che c’era tra me e lui». Ginevra Benci non può donare un libro a una serva (con quel che costavano!) dicendole: «Sono certa che scoprirai che Ovidio arricchisce più dell’oro».

Michela Tamburrino per "la Stampa" il 24 marzo 2021. Leonardo da Vinci come non lo abbiamo mai visto. E come non lo avremmo mai potuto neanche immaginare perché frutto di altrui immaginazione. Un Leonardo pop forse più vicino al gusto internazionale fatto di intrighi, crime e misteri. Un classico di Frank Spotnitz, lo sceneggiatore che già così si era regolato con I Medici. É partito ieri sera su Rai1 il kolossal televisivo, frutto di una coproduzione europea incentrato sulla figura di Leonardo. O meglio sulla figura romanzata del genio rinascimentale. La fiction si apre con il povero Leonardo recluso e accusato d' omicidio per aver ammazzato la sua musa ispiratrice e migliore amica, tale Caterina da Cremona. Lo interroga un detective astuto. Da lì, per flashback si racconta la vita di un uomo descritto come cupo, colpito alla nascita da una maledizione, incattivito dall' abbandono, prima materno poi paterno, detentore di mille segreti. «Di tutto può essere accusato Leonardo fuorché di omicidio - sorride la direttrice del museo e della biblioteca leonardiana con sede a Vinci Roberta Barsanti -. Leonardo era uomo di relazioni, abituato a vivere a corte, prima da Ludovico il Moro, poi dai Medici e Roma dunque dal re di Francia, aveva sviluppato una conversazione amabile e profonda. Dunque, l' importante è che non ci siano fraintendimenti tra realtà e finzione». Leonardo è un pretesto ma il difficile sta nel distinguere il confine tra verità e fantasia, un lavoro che il telespettatore medio di una tv generalista non dovrebbe essere chiamato a fare. Per fare chiarezza meglio affidarsi a quanto scritto dai biografi, il critico d' arte Giorgio Vasari che lo ritrasse nel 1550, Carlo Vecce, docente all' Università Orientale di Napoli, Giovanni Battista Venturi, filosofo italiano e la studiosa Lauretta Colonnelli. Anzi, quest' ultima, a tal proposito ha avuto modo di dire a Gigi Marzullo: «Non c' è nulla da inventare. La vita di Leonardo è un film da sola, soprattutto oggi che gli storici hanno ritrovato particolari e scritti sulla sua vita». Figlio illegittimo, certo, però mai abbandonato dal padre, molto amato dal nonno e soprattutto dallo zio Francesco che non avendo avuto figli maschi gli lascia la sua parte di eredità. Certo non ripudiato dalla madre Caterina perché «affetto» da maledizione. La madre lo svezza prima di andare sposa e si ritiene che abbia sempre mantenuto contatti con il figlio tanto da raggiungerlo a Milano, una volta rimasta vedova. Tanto da ispirare il ritratto della Monna Lisa, come sostenuto da Freud. Inventata la protagonista Caterina da Cremona, suo amore e poi sua musa e migliore amica, interpretata in fiction da Matilda De Angelis, l'attrice che ha avuto modo di dire che, senza le invenzioni, «la storia di Leonardo sarebbe stata noiosa». Inventata lei e inventato l'omicidio che la riguarda, inventato il detective e l'orrore che i frati ebbero alla vista della prima bozza dell'opera da loro commissionata, L' adorazione dei Magi, capolavoro mai compiuto per altri motivi. Vero è l'arresto per sodomia e la scarcerazione, vero è Tommaso Masini che però si guardò bene dall' essere invidioso di Leonardo tanto da tradirlo a ripetizione. Perché Leonardo era adorato dai suoi allievi e dai suoi amici ci tramanda Vasari. «Meravigliosamente dotato di bellezza, grazia e talento in abbondanza», era anche spiritoso, giocherellone, gran barzellettiere, mondano, attento alla moda e alla sua figura, eccentrico, generoso e vanitoso caratteristiche che tratteggiano una figura contemporanea più che moderna. Soprattutto, scrive Vecce, Leonardo aveva «una concezione modernissima dell'arte. Le sue opere in movimento venivano sviluppate dagli allievi». Quello che accadeva nella bottega di Andrea del Verrocchio dove Leonardo giovane si era formato e come la serie restituisce. Realmente esistita è Ginevra De Benci che Leonardo ritrasse ma senza il collerico intervento paterno come si racconta in fiction. E anche Bernardo Bembo che pare quel ritratto avesse commissionato, segue altre strade. Forse nella ricostruzione in fiction c' entra The Economist che mette in crisi l'idea del genio supremo e accusa Leonardo di troppa curiosità e poca autodisciplina, caratteristica che lo porta a non completare i suoi lavori. Infatti la sua produzione artistica si limita a circa 20 opere ma sono molto di più quelle lasciate a metà per una complessità di personaggio qui solo sfiorato.

·        Leonardo Sciascia.

Amici del Dubbio, quella prefazione di Sciascia è anche una lezione sulla responsabilità dei magistrati. Nella prefazione a un libro di Raffaele Genah e di chi scrive: “Storie di ordinaria ingiustizia” “saltato” il finale capoverso. Valter Vecellio su Il Dubbio il 5 dicembre 2021.  Un’ossessione. Per Leonardo Sciascia l’amministrazione della Giustizia è questo. Si sente simile allo scrittore francese Andrè Gide, cui capita l’” avventura” di essere giudice popolare; ne ricava indelebile esperienza; dopodiché inaugura per l’editore Gallimard una collana intitolata “Non giudicate”. Non a caso Sciascia cura per la Sellerio la pubblicazione de “Il caso Redureau” dello stesso Gide: un adolescente che massacra senza comprensibile motivo la famiglia presso cui presta servizio. «Il problema della giustizia è sempre esistito; e chi c’è andato dietro ne ha scoperto le assurdità, le corruzioni, insomma tutto quello che noi sappiamo, che è inerente al funzionamento della giustizia», dice Sciascia; e si «sente» come un sospiro di rammarico per dover fare qualcosa che non si vorrebbe, e che in fondo al cuore ripugna: una dolorosa, inevitabile, «necessità». Il 1 dicembre Il Dubbio ha pubblicato uno scritto di Sciascia: la prefazione a un libro di Raffaele Genah e di chi scrive: “Storie di ordinaria ingiustizia”: collezione di incredibili vicende consumate in nome del popolo italiano; e qui basti citare il caso di una donna per lungo tempo detenuta per illegale detenzione d’arma: e si trattava della pistola giocattolo ( di plastica), del figlioletto. E’ il 1987 quando chiediamo a Sciascia una sua riflessione da usare come prefazione. Operazione meritoria, quella del Dubbio, di riproporre un testo che nulla ha perso della sua inquietante attualità. Peccato solo sia “saltato” il finale capoverso, importante forse più oggi di quando è stato scritto: «Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di “religione”».

Passaggio importante non solo perché, Corte Costituzionale permettendo, a primavera si voterà per sei referendum per una giustizia più giusta ( ne tenga conto, chi deve: penosamente, ma inevitabilmente, chi giudica sarà giudicato). Soprattutto perché occorre cercare di recuperare quel senso di coscienza, di “religione”, perduto.

Conviene, a questo punto, rileggere un libro di Sciascia del 1976: “Il contesto”. Il colloquio tra il commissario Rogas e Riches, presidente della Corte Suprema. Parlano della giustizia, di come viene amministrata. Dice il giudice Riches: «… Prendiamo la messa: il mistero della transustanziazione, il pane e il vino che diventano corpo, sangue e anima di Cristo. Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo».

Timidamente il commissario obietta: «E i gradi di giudizio, la possibilità dei ricorsi, degli appelli…». Riches non ammette obiezioni: «Postulano, lei vuole dire, la possibilità dell’errore… ma non è così. Postulano soltanto l’esistenza di un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia. Un’opinione che sta al di fuori. Ora quando una religione comincia a tener conto dell’opinione laica, è ben morta, anche se non sa di esserlo. E così è la giustizia, l’amministrazione della giustizia…». Uno sfacelo da attribuire agli illuministi, in particolare a Voltaire, al “Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas”: il punto di partenza dell’errore: dell’errore che potesse esistere il cosiddetto errore giudiziario: «… la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra… la sola forma possibile di giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo. Non ci potrà essere altro modo di amministrare la giustizia. Dico di più: non c’è mai stato. Ma ora viene il momento di teorizzarlo, di codificarlo…».

In magistratura abbonando i giudici alla Riches; più oggi di ieri. Ha fatto scalpore “Il sistema”, il libro colloquio di Luca Palamara e Alessandro Sallusti: ma quanti l’hanno davvero letto e capito, voluto capire?. Più di recente, di un altro libro si è scritto e parlato; e male: perdendo di vista il cuore dei problemi che pone. Il libro è “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, dell’ex magistrato Ilda Boccassini. L’attenzione, un po’ da guardoni, si è concentrata sul quarto capitolo, racconto di una intima storia con Giovanni Falcone: di fatto “distrae” dalla sostanza delle questioni.

La sostanza è il racconto di anni e anni di storia di magistrati, del loro questo sì discutibile operare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: il quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta; il lato meschino, vanesio, di “toghe” famose; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Una scena e mille retroscena, deprimenti: giustificano quello che probabilmente Boccassini neppure si sogna: la campagna referendaria per una giustizia più giusta. Eppure di tutti i capitoli del libro, solo il quarto, pare abbia catturato l’attenzione e l’interesse di quanti se ne sono occupati. Una “indifferenza” che la dice lunga sul quotidiano, diffuso, smarrimento di “coscienza”, di laica, sciasciana, “religione”.

Quel confine tra diritto e letteratura che Sciascia consacrò al dubbio. Nel libro, curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti, giuristi autorevoli rileggono alcune tra le più celebri opere di Leonardo Sciascia. Il Dubbio il 15 novembre 2021. «È stato naturale pensare ad un volume della Biblioteca di cultura giuridica dedicato al rapporto di Sciascia con la giustizia, tema sul quale tutta l’opera dello scrittore di Racalmuto torna in continuazione. Ed è nato così il libro che il lettore ha tra le mani: un libro che interpreta al meglio la filosofia della collana, collocandosi sul confine tra letteratura e diritto, un confine meno definito di quanto si creda, in cui si incrociano riflessioni e sentimenti che segnano le nostre vite». È quanto scrive il Primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, direttore della collana, nella sua presentazione al volume “Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia” (Cacucci Editore, pp. 158). Nel libro, curato da Luigi Cavallaro e Roberto Conti (che firmano l’introduzione di cui qui riportiamo un estratto), giuristi autorevoli rileggono alcune tra le più celebri opere di Sciascia, cercandone insegnamenti per chi il diritto lo pratica per mestiere. Chiudono il volume una riflessione di Paolo Squillacioti, curatore delle opere di Sciascia per Adelphi, e un testo dello scrittore siciliano. «Che due magistrati curino un libro scritto da giuristi di varia appartenenza – accademica, forense, giudiziaria – è un fatto piuttosto comune nella prassi, e non meriterebbe di per sé nessuna specifica spiegazione che non sia quella indirettamente ricavabile dal tema che è oggetto dell’opera. Ma trattandosi, nella specie, di un libro scritto da giuristi che riflettono su11’opera di uno scrittore che giurista non fu, due parole in più sono forse opportune, se proprio non necessarie. Non si deve alle radici isolane che pure accomunano i curatori allo scrittore. Benché per ragioni diverse la figura di Leonardo Sciascia sia stata per entrambi presente fin dall’infanzia, lo stesso potrebbe dirsi di quella di Pirandello come di Brancati, di Verga come di Tomasi di Lampedusa: e mai essi avrebbero pensato di poter dedicare un omaggio a costoro, come invece hanno inteso fare allo scrittore racalmutese per il centenario della sua nascita. Il fatto è, piuttosto, che i curatori di questo libro hanno vissuto appieno, nella loro esperienza di giudici e cultori del diritto, la crisi della capacità ordinatrice della fattispecie legale di matrice statuale, sotto la cui ombra rassicurante avevano intrapreso i primi passi della loro formazione. (…) Entrambi i curatori di questo libro sono testimoni di un tempo in cui la legge sembra aver perduto ogni pretesa di verità e in cui, di conseguenza, al giudizio non può più essere ascritta quella funzione di disvelamento che era presupposta dalla tranquillizzante immagine del sillogismo. Ed è proprio qui che essi hanno incontrato la figura di Leonardo Sciascia e il suo inquieto confrontarsi con gli schemi di percezione propri del romanzo giallo: anch’esso nato all’insegna della fiducia nelle capacità di discernimento e rivelazione della ragione e nell’opera sciasciana ridotto invece ad espediente formale per raccontare di una società in cui la verità e la giustizia paiono diventate impossibili. Fu Sciascia stesso, in effetti, a confessare a Claude Ambroise che tutto, ai suoi occhi, era “legato al problema della giustizia” (“in cui s’involge quello della libertà, della dignità umana, del rispetto tra uomo e uomo”); ed è facile constatare come, nell’intera sua opera, l’anelito per la giustizia costituisca l’autentico pendant delle innumerevoli “ingiustizie” (alcune reali, altre immaginate, altre spinte volutamente all’eccesso, al paradosso, alla parodia, alla parabola) di cui sono invece popolate le sue pagine. D’altra parte, se è vero che da queste pagine emerge uno spaccato per nulla edificante del “pianeta giustizia” e dei suoi attori – giudici, avvocati o investigatori che siano: quasi tutti intenti a fabbricare le menzogne di cui si alimenta una “verità giudiziaria” fasulla, ancorché “verosimile” — non è meno vero che, per lo scrittore racalmutese, nella scrittura questo problema può ancora trovare “strazio o riscatto”: ossia ritrovare quella “verità” che un’umanità dolente inutilmente attendeva, a fronte delle fallacie e delle pervicaci e ostinate illogicità ammannitele dalla giustizia “ufficiale”. Ciò che Sciascia critica in radice, dunque, non è la possibilità “in sé” della verità, ma piuttosto il concreto modo in cui è amministrata la giustizia, intesa come insieme delle istituzioni preposte all’applicazione della legge, a dicere ius: che è conclusione particolarmente interessante per i giuristi, perché alimenta la speranza – affatto assente, invece, in quell’a1tro “giallista” sui generis che è Friedrich Dürrenmatt – che il tempo difficile che pure stiamo vivendo non sia conseguenza di un’irredimibile “crisi della ragione” e sia ancora possibile (oltreché auspicabile) che il giudizio raggiunga non “una” verità qualunque, ma precisamente quella verità che possa dirsi anche “giusta”. Non è però semplice traguardo. (…) Sovviene qui la battuta di Laudisi al commissario Centuri, nel “Così è (se vi pare)” di Pirandello: “Vogliono una verità, non importa quale; pur che sia di fatto, categorica? E lei la dia!”. E si potrebbe perfino cogliere una contraddizione nel pensiero sciasciano, lì dove sembra attribuire all’incedere della giustizia un passo che è “nella totalità dei casi di impressionante lentezza e di atroce peso per coloro che vi si trovano implicati”, salvo poi stigmatizzare gli esiti “non veritieri” di quelle inchieste che si chiudono “con rapidità impressionante”; e legittimamente chiedersi se, ai suoi occhi, l’opera di bilanciamento tra opposti valori alla quale è spesso chiamato il decisore giudiziario sia da condannare come sintomatica di opaci compromessi al ribasso o testimoni invece di quel !ragionare” che egli esige da ogni decisore pubblico, politico o giudiziario che sia. Né ciò è tutto. Si può agevolmente dimostrare che l’equazione tra diritto e ragione espressamente postulata da Sciascia in più luoghi della sua opera presuppone che il termine “ragione” venga a sua volta declinato come sinonimo di ratio, e dunque come “bilanciamento” tra le istanze intrinsecamente conflittuali della libertà individuale e della giustizia sociale. Ma quando lo scrittore insiste sul “ragionare” che sta dietro alla “giustizia” del caso concreto, a quale “diritto” sta pensando? (…) La “verità” e la “giustizia” del diritto sono per Sciascia suscettibili di “conoscenza”? Dove si colloca la “verità” quando si debbono ricostruire i diritti delle persone, sempre più condizionati da una protezione proteiforme che un sistema integrato qual è quello odierno rende complesso individuare? Fino a che punto i valori immanenti alla coscienza sociale storicamente data possono penetrare nell’astratta formula legislativa per riportarla al caso concreto e alle necessità di tutela che esso reclama? C’è o non c’è del metodo in quel “ragionare” che, riempiendo di senso il testo di una disposizione di legge, produce la sua trasformazione in norma? E se il diritto non è suscettibile di un “ragionare” metodologicamente fondato, dove mai si potrà collocare quella differenza tra “verità” ed “errore” che pure si deve postulare, salvo inconsapevolmente parodiare il cinismo con cui il Presidente Riches proclamava che tutte le sue sentenze erano “giuste”? Queste le domande che i curatori di questo libro si son posti sin dai primi concistori in cui ha preso corpo la scommessa che a queste pagine è consegnata. Che vorrebbe essere, né più e né meno, una riflessione a più voci che provi finalmente a prendere sul serio gli interrogativi sul diritto, sulla verità e sulla giustizia che attraversano l’opera tutta di Leonardo Sciascia». (…)

"Vi racconto lo Sciascia grande critico d'arte e scopritore di talenti". Matteo Sacchi il 3 Luglio 2021 su Il Giornale. Lo scrittore siciliano aveva fiuto: "Non si lasciava forviare dalle mode e dalle ideologie". Domani, nell'ambito del caleidoscopico programma della Milanesiana 2021 (ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi), a partire dalle 21, la piazza del Duomo di Monza diventerà molto siciliana. La serata - a fare gli onori di casa sarà proprio Elisabetta Sgarbi - sarà infatti dedicata a Leonardo Sciascia e l'arte. Ci sarà una lettura di testi del grande scrittore di Racalmuto, la voce sarà quella dell'attrice Sabrina Colle, e una lectio di Vittorio Sgarbi intitolata: «Sciascia critico d'arte». Sgarbi poi tornerà a parlare di Sciascia il 5 luglio alle 21 in Piazza del Kuerc a Bormio, sempre nell'ambito della Milanesiana, in una serata dal titolo Leonardo Sciascia. A futura memoria (se la memoria ha un futuro), questa volta in compagnia di Pietrangelo Buttafuoco. Abbiamo, quindi, chiesto al critico di anticiparci, chiacchierando con noi, alcuni dei moltissimi temi dei sui interventi.

Sgarbi, perché Leonardo Sciascia che noi conosciamo soprattutto come scrittore è importante anche per la critica d'arte?

«Sciascia aveva una spiccatissima sensibilità verso l'arte contemporanea. Aveva con la critica un rapporto che potremmo definire di preterizione. La capacità di cogliere il valore di artisti che da parte della critica ufficiale erano negletti. Ovviamente ha compiuto anche interventi di grande importanza relativamente all'arte moderna, basti ricordare la sua attenzione al furto della Natività di Caravaggio nel 1969 che ha ispirato Una storia semplice o il suo accostamento fra il Trionfo della Morte di Palermo e Guernica di Picasso, sfruttato per la difesa dei beni culturali nel suo intervento in Parlamento del 1983 sul restauro del dipinto. Ma la sua capacità di guardare dove la critica non guardava è ciò che conta se parliamo di Sciascia. Era curioso, colto, corsaro. Senza pregiudizi».

Mi faccia un esempio...

«Io e Sciascia abbiamo iniziato a frequentarci in maniera più intensa quando Gesualdo Bufalino, che era suo amico, vinse il Campiello nel 1981, quindi ho seguito da vicino il suo percorso quando iniziò a pubblicare alla Bompiani, grazie a mia sorella. E proprio con Bompiani ha pubblicato Invenzione di una prefettura, nel 1986. Si tratta del contributo fondamentale per la riscoperta e la valorizzazione degli affreschi di Duilio Cambellotti. Gli affreschi erano di epoca fascista e, quindi, venivano, follia, addirittura coperti con dei teli per non mostrarli, erano vittime di un insensato tabù. Sciascia con Invenzione di una prefettura ha analizzato quel progetto figurativo senza alcun pregiudizio ideologico, è stato capace di rompere il tabù... Ma non solo, Sciascia ha contribuito alla riscoperta di moltissimi artisti come Alberto Savinio, che alla fine, prima del suo intervento veniva considerato quasi soltanto il fratello scemo di Giorgio De Chirico... Lui ne ha colto in pieno il valore. E ha colto il valore di molti artisti che si sono mossi poi sulla linea di Savinio. È stato il massimo studioso di Fabrizio Clerici, altro artista con venature surrealiste, rimasto ai margini dell'interesse della critica diciamo così ufficiale. Senza l'interesse di Sciascia non sarebbe sopravvissuto nella memoria. Così come è stato importante nel cogliere tutto il potenziale dell'arte di Guttuso. Guttuso, dal punto di vista commerciale, era certamente un artista di successo ma la critica lo trascurava, in quanto figurativo. Sciascia ha colto il suo essere una sorta di Van Gogh Italiano. Ma siamo debitori a Sciascia anche per l'attenzione verso Karl Plattner e la sua vena molto espressionista. Tutti questi artisti venivano messi ai margini rispetto ai Burri o ai Fontana, rispetto alle avanguardie. Ma lui era capace di coglierne il valore».

Una sorta di supplenza alla critica d'arte portata avanti da un grande scrittore?

«Sì, esattamente, creava un ponte tra la letteratura e l'arte così come faceva il poeta Giorgio Soavi, altro scrittore capace di cogliere il genio di Giacometti o quello di De Chirico. E infatti è un peccato che gli scritti d'arte, le introduzioni, i cataloghi di Sciascia non siano mai stati raccolti in volume... Non si è mai riusciti anche se io ho insistito sia con la famiglia che con la Fondazione. Al momento l'unico testo esistente sul tema è il libro di un giovane studioso che si chiama Giuseppe Cipolla. Si intitola Ai pochi felici Leonardo Sciascia e le arti visive un caleidoscopio critico. Ovviamente cita molti stralci di testi di Sciascia ma è, per me, incomprensibile che non ci sia una pubblicazione completa dei testi di Sciascia relativi all'arte... Le sue sono meravigliose azioni corsare purtroppo come dicevo quasi dimenticate».

Aveva un legame viscerale anche con la fotografia?

«Certamente, era in primo luogo uno scrittore fotografico a partire proprio dal suo stile narrativo: era uno scrittore oggettivo. Ovviamente, questa sua attitudine lo ha portato a collaborare con grandi fotografi come Enzo Sellerio e soprattutto Vittorio Scianna con cui ha prodotto una serie di monografie illustrate. Del resto è stato recentemente pubblicato da Mimesis, a cura di Diego Mormorio, Sulla fotografia, che ci mostra alcuni degli scatti dello stesso Sciascia e raccoglie alcuni dei suoi scritti più interessanti su questo tema. Era attento anche al mondo delle stampe e della grafica. Voleva coinvolgermi negli anni '80, mi riteneva la persona più adatta, nel progetto di ripubblicare, con Franco Maria Ricci con cui io collaboravo, una rivista di arte liberty, ricca di stampe e di disegni che si chiamava Fiammetta... Un progetto rimasto nel cassetto per la sua morte».

Al momento leggere direttamente lo Sciascia che parla di arte resta un'operazione quasi impossibile per il grande pubblico.

«Che non si facciano pubblicare i suoi scritti o da Adelphi o anche dalla casa editrice di mia sorella è incomprensibile. Il testo di Cipolla è interessantissimo ma dovrebbe essere l'introduzione a una pubblicazione. Sono tantissimi gli artisti su cui Sciascia ha dato un contributo fondamentale. Lui è stato il più sensibile lettore di Piero Guccione e di tutti i grandi pittori della scuola di Scicli. Lo stesso per un artista come Giuseppe Modica o uno scultore come Emilio Greco. Sempre al di fuori degli orientamenti prevalenti della critica... Era un presidio di cultura». 

Matteo Sacchi.  Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano.

Leonardo Sciascia, “Professionisti dell’Antimafia”, Corriere della Sera, 10 gennaio 1987. “Prendiamo, per esempio, un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi - in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei - come antimafioso: anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra (che sono tanti, in ogni paese, in ogni città: dall'acqua che manca all'immondizia che abbonda), si può considerare come in una botte di ferro. Magari qualcuno molto timidamente, oserà rimproverargli lo scarso impegno amministrativo; e dal di fuori. Ma dal di dentro, nel consiglio comunale e nel suo partito, chi mai oserà promuovere un voto di sfiducia, un'azione che lo metta in minoranza e ne provochi la sostituzione? Può darsi che, alla fine, qualcuno ci sia: ma correndo il rischio di essere marchiato come mafioso, e con lui tutti quelli che lo seguiranno”.

Cento anni fa la nascita di Sciascia, i suoi tre valori di vita: la Verità, la Giustizia e la Dignità dell’uomo. Giovanni Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 7 gennaio 2021. IL RAPPORTO CON I PUGNALATORI DI PROFESSIONE. La mafia esiste. No, non esiste. Tutto è mafia, non c’è solo mafia. Quando ero una studentessa di Giurisprudenza, alcuni anni fa, mi appassionai alla Procedura penale. Volevo essere scrittrice e il processo era il più teatrale dei luoghi giuridici. Sul palco del processo, personaggi e drammi umani della più diversa natura si incontravano e capitava molto spesso che la verità rimanesse inconosciuta, come se non fosse quello il fine ultimo di tutta la dolorosa messinscena. Sentii quello stesso smarrimento che provavano molte delle persone coinvolte nei procedimenti penali, convinte di essere lì per ristabilire una verità violata, ma che si ritrovavano a guardare ogni cosa attraverso un specchio infranto i cui frammenti rimandavano ognuno una propria parziale e personalissima verità. Fu allora che decisi di leggere Sciascia. Leonardo Sciascia nacque a Racalmuto l’8 gennaio del 1921, se una malattia logorante non lo avesse portato via a 78 anni, festeggerebbe in questi giorni il suo centesimo compleanno. Scrittore prolifico, eterogeneo, notissimo in vita e in morte, fu inviso a tanti, a causa della fermezza delle sue opinioni e dell’impossibilità di inquadrarle nell’una o nell’altra corrente, che fosse politica, letteraria o sociale. Di sé diceva: «Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia, e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile; ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità». Man mano che lo leggevo, nelle pause dello studio, Sciascia mi insegnava questo: che lo scrittore, per usare una terminologia giuridica, è, prima di ogni cosa, un collaboratore di verità, “un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice.” Ricordo che, alla fine, scrissi al margine del libro di Procedura penale questa frase: non giudice né imputato ma testimone sempre. Le sue parole, nel corso di tutta la sua vita e anche in seguito, furono contestate, travisate e strumentalizzate. Poche figure di intellettuali hanno attirato tanto odio e così radicato che tutt’oggi mi capita di imbattermi, nei commenti agli articoli che lo riguardano, in insulti feroci nei suoi confronti, sebbene i fatti e gli uomini per e contro cui si è battuto in vita siano stati ormai coperti dalla dimenticanza e dal passato. L’eretico, come veniva chiamato allora, era ancora oggetto di condanna a distanza di decenni. “L’eresia di per sé è una grande cosa, – aveva scritto nel 1979 – e colui che difende la propria eresia è sempre un uomo che tiene alta la dignità dell’uomo. […] C’è sempre, nel potere che si costituisce in fanatismo, questa paura dell’eresia.”

Se il potere è ortodossia, l’intellettuale è naturalmente un eretico, in quanto non è capace di allinearsi alla narrazione imposta. E Sciascia sempre fu dalla parte opposta e contraria, in rigorosa, ostinata, ricerca della sola cosa che gli interessava davvero: la verità. Nei romanzi “gialli”, nell’Affaire Moro, in Todo modo, sostenne posizioni che lo fecero escludere da molti consessi che lo avevano in precedenza corteggiato, tirato dalla propria parte. Di fronte alla sua figura mi viene allora da chiedermi: dove sono oggi gli eretici? Gli intellettuali che con il rogo delle convenzioni, degli schemi, degli allineamenti, dei luoghi comuni, illuminano le contraddizioni del potere? E dove si annida il potere stesso? L’ultima raccolta Sciascia l’aveva intitolata: A futura memoria (se la memoria ha un futuro). Mi sento chiamata in causa anch’io, in quanto “futuro” depositario di quella memoria, come si sentono chiamati in causa gli uomini e le donne che oggi scrivono insulti allo scrittore sotto gli articoli che lo riguardano. Ripenso all’immagine della verità in frantumi di quando studiavo il processo e credo che i miei dubbi e la ferocia degli insulti dei commentatori di internet abbiano in fondo la stessa matrice e, per quanto diametralmente opposti, siano prodotti dalla stessa incertezza, figlia di questo tempo: la sfiducia nella verità. Siamo nell’epoca delle post-verità, così è stata definita, nella quale imperano le credenze che fondendosi con altre cento, mille credenze simili si cementificano e simulano la durezza della verità. Oppure, al contrario, lo scetticismo incontrollato e non verificato squalifica talmente tante verità da non riuscire più a ricostruirne alcuna. Anche il potere ha imparato a non avere una Verità, ma a moltiplicarsi in tante quante sono le teste dei suoi seguaci. In questa mutazione del potere che non impone più la verità ma anzi la stigmatizza, anche essere eretici è diventato complicato, si rischia di essere scambiati per un adepto di una certezza che lotta contro altri adepti di differenti certezze, ognuno con la stessa legittimazione.

Qual è allora la differenza? Nel 1977 Sciascia diceva che l’intellettuale è uno che esercita nella società “la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa – principalmente e insopprimibilmente – dall’amore della verità, gli consentono di svolgere.” Questi punti delineano una sorta di mappa per il futuro intellettuale eretico: fatti, intelligenza, conoscenze, verità. Hanno detto di Sciascia che fosse eretico, scettico oltre ogni dire, profondamente pessimista. Nessuno però è riuscito mai a dire che fosse cinico. Quando sapeva di stare per morire indicò come suo epitaffio queste parole: ce ne ricorderemo, di questo pianeta. Comprendo a questo punto anche l’ultima delle parole indicate da Sciascia nel suo breviario dell’eresia: amore. Non un amore sentimentale o erotico, ma un amore per l’essere umano che si declina nel più semplice dei significati: quello di tenere all’oggetto dell’amore. E allora c’è un’ulteriore importante connotazione nell’eretico che va al rogo: che non lo fa solo e unicamente per la verità fine a se stessa. La necessità di quella verità non è mai slegata dall’amore per l’umanità, non solo quella presente ma intesa anche come posterità. Sciascia ci teneva, ci ha sempre tenuto, alla verità e all’umanità. L’intellettuale eretico aveva come fari tre grandi valori: quello della verità (positiva), quello della giustizia (terrena) e quello della dignità dell’uomo, il cui rispetto è la più importante forma d’amore tra sconosciuti. “Ritengo che rispettando il prossimo mio come me stesso (e magari di più), amando la verità, affrontando tutti i rischi che comporta il dirla, in definitiva io viva religiosamente”.

L’amore reciproco tra Sciascia e la Puglia. A 100 della nascita dello scrittore siciliano, nel libro di Antonio Motta alcune testimonianze di intellettuali pugliesi che con Sciascia hanno avuto a che fare o che lo hanno intervistato. Raffaele Nigro su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Marzo 2021. Rinnova la sua amicizia e il ricordo per Leonardo Sciascia nel suo centenario della nascita, Antonio Motta, un intellettuale che non ha mai smesso di progettare studi e indagini sulla cultura del Gargano e che allo scrittore siciliano ha dedicato un fondo che fa di San Marco in Lamis non solo un ponderoso archivio della letteratura del Novecento ma che di Sciascia conserva ogni traccia creativa documentale e critica. Dopo aver provato a mettere in piedi a Rodi Garganico un premio dedicato a Giuseppe Cassieri, mi sorprende con un libro edito dalla Progedit di Gino Dato che ha per titolo Nella crepa di un muro. Sciascia, Moro e la Puglia. Un libro che mette insieme quindici testimonianze di intellettuali pugliesi che con Sciascia hanno avuto a che fare o che lo hanno intervistato per qualche circostanza sul tema dei rapporti con la Puglia. Tra gli interventi di molti anni orsono, il più antico mi pare un ricordo di Vittore Fiore, il nostro dimenticato meridionalista. Era il 1955 quando Vito, allora giovane poeta, fece visita a Vito Laterza: ”gettai sul suo tavolo ‘Nuovi Argomenti’ con queste parole di sfida: leggi, questo è il racconto. L’autore si chiama così e così, è un poeta. Anzi, sai che ti dico? Fra due ore, nel salone soprastante il teatro Petruzzelli, leggeremo le sue poesie. Se la cosa ti va, vieni che te lo presento”. Quando Vittore, con un leggero ritardo, arrivò a teatro, vide in un angolo che Laterza e Sciascia confabulavano. Un anno più tardi usciva per i tipi dell’editrice barese le Parrocchie di Regalpetra, con dedica a Vittore e Tommaso Fiore. La storia vera - La faccenda era andata così. Italo Calvino aveva indirizzato all’editore Carocci che pubblicava “Nuovi Argomenti”, un racconto di un giovane maestro siciliano, Leonardo Sciascia, Cronache scolastiche. Il libretto uscì dopo altri tre romanzi di giovani scrittori italiani, uno di Pasolini, uno di Angelo Romanò e un terzo di Roberto Roversi. Fiore aveva invitato Sciascia a presentare il libretto al Petruzzelli di Bari e nella circostanza, Laterza concordò l’edizione di un volume più corposo nella collana “I libri del tempo”, dove avevano trovato asilo Scotellaro, Giovanni Russo e lo stesso Tommaso Fiore. Passò qualche tempo e Sciascia lasciò l’Einaudi e Vittorini con cui era in predicato l’edizione delle Parrocchie e firmò il contratto con Laterza. ”Caro Dottor Laterza, Le restituisco firmata una copia del contratto – e La ringrazio moltissimo. In settimana le spedirò la prima parte delle cronache. Poiché i riferimenti a persone e a fatti sono in qualche modo evidenti, ho pensato di chiamare il paese ‘Regalpetra’ e il libro intitolarlo R come Regalpetra .- o soltanto Cronache regalpetresi. Lei che ne dice?”. Raffaele Crovi mi disse più tardi che Sciascia non aveva condiviso i tagli che gli aveva proposto Vittorini. Il libro vide la luce a Bari nella primavera del 1956. Un secondo momento importante per il rapporto tra Sciascia e la Puglia lo racconta Valter Vecellio e riguarda l’incontro tra Giuseppe Giacovazzo e lo scrittore siciliano. Allora responsabile delle pagine culturali de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Giacovazzo invitò Sciascia a pubblicare per il quotidiano barese. Tra il gennaio e il settembre del 1962, Sciascia pubblicò 7 elzeviri. Poi Giacovazzo emigrò in Rai e tornò al quotidiano solo negli anni ’80 come direttore. Questa volta Sciascia decise di collaborare con un articolo alla settimana, dal 7 giugno 1981 al 23 maggio 1982, come “L’angolo di Sciascia”. Grazie a Giacovazzo Leonardo Sciascia ebbe l’opportunità di sapere molte cose del carattere di Aldo Moro. E L’affaire Moro ebbe un profondo aiuto grazie a quell’amicizia. Sciascia accettò l’invito di Giacovazzo a trattenersi nel trullo della valle d’Itria. “Con Sciascia abbiamo parlato a lungo di Moro nella primavera del 1981, a Locorotondo, in Puglia - ricorderà lo stesso Giacovazzo- Dai miei trulli al ristorante ‘Casa mia’ sono appena cinquanta passi. Là ci aspettava Vincenzo, il Cagliostro della gastronomia pugliese. Più si accaniva a fargli domande,più si esaltava a portargli leccornie”. Sciascia si meravigliava come padre Sorge e Pietro Scoppola non avessero riconosciuto l’autenticità delle lettere che Moro scriveva dalla prigionia. Perché l’umanità di quell’uomo che per Leonardo era morto “con dignità e da eroe” era sconosciuta a tutti. Amicizie e incontri - Un terzo elemento che tocca la figura di Sciascia è l’amicizia con Gianfranco Dioguardi. Il razionalista pugliese che si è occupato della mente barocca ha avuto lo scrittore siciliano come direttore della collana nella quale ha pubblicato Un avventuriero nella Napoli del Settecento, quindi il Gioco del caso e il Viaggio nella mente barocca. Balthasar Gracian ovvero le astuzie dell’astuzia. “I nostri incontri avvenivano generalmente a Roma o a Milano, qualche volta a Bari, dove venne a trovarmi anche per appagare la sua curiosità riguardo alla festa di San Nicola. Girammo molto, quella volta, tra la folla festosa, commentando eventi che a lui ricordavano le sagre popolari delle sue terre”. Ma altri incontri interessanti sono quelli avvenuti tra Sciascia e Nico Perrone, che gli fu vicino nel momento in cui i suoi interventi sulla vicenda dell’omicidio di Enrico Mattei gli recarono non pochi contrasti. E infine l’incontro dello scrittore con la poesia e la narrativa di Tommaso Di Ciaula. Era il 1970, ricorda Enrica Simonetti, quando Sciascia parlò sul “Corriere della sera” della raccolta di versi Chiodi e rose del poeta operaio di Bari. “Una poesia, disse Sciascia, che ha radici contadine, quelle immagini, che ancora istituisce con il mondo un rapporto magico”. 

Leonardo Sciascia. Cento anni fa la nascita di Sciascia, Lui e il cinema, quel grande amore ricambiato da registi e attori eccellenti. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 7 gennaio 2021. Buio in sala, schermo acceso. In una sorta di retrospettiva virtuale scorrono i titoli dei film legati a Leonardo Sciascia. Legame a doppio binario: da un lato il grande schermo ha tratto ispirazione da alcuni romanzi o racconti dello scrittore di Racalmuto, dall’altra la passione di Sciascia per il cinema coltivata sin da ragazzo. Una storia questa che somiglia a certe novelle antiche raccontate nelle sere d’inverno ai bambini prima del bacio della buonanotte. “Tra le grandi innovazioni che nel 1929 travolsero la piccola Racalmuto, il cinema colpì Leonardo Sciascia più di tutte, segnando l’inizio di una grande passione che, accesa dalle prime proiezioni racalmutesi, trovò poi espressione più compiuta nel periodo di formazione a Caltanissetta […] tanto più che lo scrittore nel piccolo cinema di Racalmuto godeva di un posto d’eccezione: suo zio era infatti l’addetto alla gestione dello stabile e Leonardo Sciascia, ancora bambino, otteneva così di sedere sempre nel “palco del podestà”, postazione che abbandonava solo per sgattaiolare nell’attigua sala di proiezione, dove si divertiva a esaminare le pellicole e a ritagliarne i fotogrammi per collezionarli”. A ricostruire l’incontro tra il cinema e lo scrittore ancora ragazzino figura, ad esempio, Gina Bellomo sul magazine online Il Chiasmo, Treccani. Ma, traccia viva e palpitante si trova anche in “Fatti diversi di storia letteraria e civile” la raccolta di ventitré saggi che Sciascia, pubblica nel 1989 con Sellerio poco prima di morire. Uno si intitola “C’era una volta il cinema”. Non un caso, dunque, la commozione con cui – si racconta – lo scrittore siciliano assistette a Milano ad una proiezione di “Nuovo Cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore. Pellicole, cinema, celluloide e film. Registi come Elio Petri, Damiano Damiani, Gianni Amelio, Francesco Rosi sono stati ispirati dalle pagine scritte da Sciascia. Nel cartellone figurano: “A ciascuno il suo” di Petri, “Un caso di coscienza” di Grimaldi, “Il consiglio d’Egitto” di Greco, “Il giorno della civetta” di Damiani, “Porte aperte” di Amelio, “Una storia semplice” di Greco, “Todo modo” di Petri con le musiche di Morricone. E ancora “Cadaveri eccellenti” di Rosi. Difficile raccontarli tutti. Si può provare a riproporne tre, immaginando di essere in un cinematografo. Magari in Sicilia! “A ciascuno il suo” del 1967 è il primo dei film tratti dalle opere di Sciascia firmato dal regista Elio Petri. Sceneggiatura a quattro mani con Ugo Pirro. Le musiche sono dell’argentino Luis Bacalov. Il cast è da palmarès, a cominciare da Gian Maria Volonté (Paolo Laurana) e Irene Papas (Luisa Roscio). In un paese siciliano vengono uccisi due uomini: il farmacista Manno e il dottor Roscio. Le indagini seguono la pista del delitto d’onore. Paolo Laurana, un professore di liceo, giunge invece ad altre conclusioni. “Soltanto un professorino, Paolo Laurana, un po’ astratto, un po’ nevrotico, un po’ curioso, vuole vederci chiaro, andare sino in fondo. Crede di essere un crociato, un pioniere della verità, ma al primo incontro con la vedova Roscio, è già dentro nella trappola[…] ”, scriverà Alberto Pesce,  Cineproposte, La Scala, 1978.  Tante le curiosità e le discussioni intorno alla pellicola. Qualche anno fa fece parlare anche un inedito carteggio tra Sciascia e Petri. Lo scambio epistolare conservato nell’Archivio della Bibliomediateca del Museo Nazionale del Cinema di Torino, è pubblicato – riferì l’Adnkronos il 4 febbraio del 2016 – a cura di Gabriele Rigola dell’Università di Torino sulla rivista internazionale di studi sciasciani “Todomodo” (Olschki editore). “Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto.  […] ”, scriveva Sciascia l’8 settembre 1966 a Petri che stava per iniziare  le riprese del film. “Il giorno della civetta”, non può mancare nella nostra retrospettiva il film del 1968 diretto da Damiano Damiani. Sicilia, 1961, l’ufficiale dei carabinieri Bellodi, parmense ed ex partigiano, in servizio in un piccolo paese, si trova ad indagare sull’omicidio di Salvatore Colasberna… La pellicola girata a Partinico e a Palermo contava tra l’altro su un cast di prim’ordine: Franco Nero, Claudia Cardinale, Lee J. Cobb, Serge Reggiani e Nehemiah Persoff. “Si era deciso di filmare Il giorno della civetta e partii per Palermo per conoscere Leonardo Sciascia. Non avevo idea di come potesse essere, non era allora un uomo fotografato. Poteva essere alto e sicuro, oppure grassoccio e ciarliero. Venne avanti invece un uomo minuto, gentile, silenzioso, profondamente civile. Che cosa rimpiango oggi? Di non aver mandato a buon fine il desiderio che subito mi fece nascere di conoscerlo più a fondo, come persona, trascinato via subito dal trambusto cinematografico. Lo rividi altre volte, ma avrebbero dovuto essere di più […] ” commenterà Damiani ricordando quell’incontro. E c’è ancora Volonté nel cast di “Porte aperte”  di  Gianni Amelio  del  1990 con Ennio Fantastichini e  Renato Carpentieri. Nella  Palermo  degli  anni Trenta, Volonté interpreta il ruolo  del giudice Vito Di Francesco. Visi, storie, parole, personaggi, colonne sonore … È un attimo: le luci in sala si accendono, lo schermo si spegne. Non il ricordo dello scrittore di Racalmuto.

100 anni fa nasceva Leonardo Sciacia, il maestro venuto dalla luna. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 5 Gennaio 2021. Otto gennaio 1921, Racalmuto, Agrigento. 100 anni fa, Leonardo Sciascia apparve sulla terra, in un luogo senza sbocchi sul mare, e lui un bagno non lo fece mai, restò spalle al Mediterraneo, isolato in un deserto lunare. Ed è sulla luna che immediatamente andò a vivere, lontanissimo dalla Terra eppure con la possibilità originale di scrutarne ogni suo angolo. Questa sua fortuna e sfortuna geografica lo ha reso unico, rende ancora adesso speciale e insuperata la sua voce: lui non scrive, dalle sue opere sorgono parole che appaiono malferme, azzoppate da un accento siciliano che è magia, parole semplici che sembrano dover durare la frazione del secondo e diventano cammino infinito attraverso una umanità in travaglio. È un maestro elementare che evoca, che sa di parlare a un popolo bambino, popolo che prende dalla classe quinta e lo accompagna alla classe quarta, e ancora indietro in un curioso caso di Benjamin Button. Sciascia comprende subito che una lettura utile del mondo non passa attraverso le profezie, le intuizioni su ciò che avverrà, che Orwell sarebbe morto prima dell’84. Il mondo torna indietro a causa di un futuro arcaico, che già è passato, la rivoluzione sta tutta dentro una lingua, quella meridionale, che non conosce il futuro nei verbi: il siciliano, come il calabrese, non possono essere declinati al futuro, hanno verbi solo al presente, soprattutto al passato. Sciascia ci spiega il mondo da una prospettiva aliena, utilizzando l’intuizione lessicale del siciliano, la sua verità diventa inoppugnabile perché ha visto tutto ciò che accadrà, perché tutto già è avvenuto nella sua visione distante, sovrumana. Lui non può sbagliare perché non deve vaticinare, solo raccontare quello che ha già visto, è avvenuto. E lui che un bagno non lo ha mai fatto è il figlio perfetto del mare, il frutto di una cultura che è arrivata da lì: è Xaxa prima che Sciascia e non può vedersi altro se non arabo, in cresta a uno tsunami biblico e coranico che ha spostato le palme fino al polo nord. Nasce figlio unico perché certe stagioni sono ripetibili solo se torni a frequentarle e non se ne cerchi di nuove: non puoi pensare di ritrovarti alunno di Vitaliano Brancati nel futuro, di essere notato e recensito da Pasolini e Calvino, di sederti accanto a Pannella, stare su una sedia insieme a Bufalino e Consolo o dare avvertimenti a Borsellino e Falcone. Devi saperlo come si appicciano i lumi per accendere una lampadina nuova. E tutto, forse, sta tornando indietro perché non ci sono più i maestri elementari, gli esseri alieni che con parole semplici, malferme, cariche di inflessioni dialettali, siano in grado di sporcarsi nel male che sorge in un deserto e appartiene al mondo. È la convinzione che il centro sia il centro del mondo che è sbagliata, è lo sguardo fisso nel futuro che acceca, priva di prospettive, di capacità di comprensione. Sciascia dimostra ancora che dall’angolo si possa vedere tutto, che si può stare dentro l’acqua vivendo tutta la vita nel cuore del deserto. Si stanno spendendo parole e parole e pagine e pagine sui 100 anni di Sciascia. Le migliori, per chi ha avuto la fortuna di vederlo in anteprima, sono quelle contenute nel documentario di Marco Ciriello, che SkyArte manderà in onda l’8 gennaio alle 21,15; perché sono le parole di Sciascia stesso, che escono dalle bocche di Emanuele Macaluso, di Marcelle Padovani, di Fulvio Abbate, di Emma Bonino, di Giuseppe Ayala. È lo sguardo di uno scrittore alieno che si fa regista, pervicacemente fermo sulla luna, allunga ancora lo sguardo della telecamera sulla terra, fa discendere la propria parlata fra gli uomini e tiene acceso un lume che aspetta un passaggio di testimone di cui non si avvertono i passi.

Sciascia politico: l’intellettuale che odiava il potere. Filippo La Porta su Il Riformista il 29 Novembre 2020. In un convegno romano, “Sciascia primo, ultimo e postumo” (undicesimo Colloquium, curato da Franco Contorbia e dagli Amici di Sciascia), si è tra l’altro discusso “dell’itinerario politico” dello scrittore, testimoniato dal suo impegno politico diretto, ma anche dalla tensione ideale che anima tutti i suoi libri. Da una parte quell’impegno si è tradotto in alcune esperienze concrete (dal 1975 al 1983: schierato con il fronte del referendum sul divorzio, poi indipendente nella lista del Pci alle elezioni comunali palermitane, infine deputato radicale al Parlamento) e dall’altra percorre l’intera sua opera – narrativa, saggistica, giornalistica -, e si potrebbe riassumere in una continua, inesausta meditazione sul potere, sorretta dall’idea che tra potere e verità vi sia incompatibilità. Il potere vuole solo una cosa: autoconservarsi, con ogni mezzo. L’unica verità che gli interessa è una verità efficace, utile a tale fine (non si tratta tanto di un giudizio moralistico quanto di una realistica presa d’atto). Nella radicalità di questa formulazione Leonardo appartiene alla grande famiglia novecentesca degli intellettuali eretici del ‘900, a prevalente formazione libertaria, quella che comprende Simone Weil (per la quale i partiti hanno tutti una segreta vocazione totalitaria), Camus (si veda la polemica con Sartre a proposito della verità sull’Urss), Chiaromonte e Orwell (di cui scrisse uno splendido necrologio), fino a Pasolini (con cui Sciascia ebbe a fraternizzare in modo particolare). Il ritratto che fa di Moro (nell’Affaire Moro), un ritratto pure intriso di dolorosa pietas, è degno del suo Manzoni: «Preda della più antica stanchezza, della più profonda noia», dove perfino l’ironia era appannata da quella stanchezza e da quella noia; e soprattutto Moro aveva maturato una conoscenza «tutta in negativo» della natura umana. Viene in mente il famigerato aforisma andreottiano: «A pensare male degli altri si fa peccato, ma ci si coglie». Ora, mi chiedo, una antropologia di questo tipo non è la esatta negazione della politica? Non è l’essenza dell’antipolitica? La politica infatti, oltre ad essere una tecnica per la conquista e gestione del potere, si definisce come arte di creare amicizia, o almeno così la intendevano Aristotele e Cicerone. Per Aristotele l’amicizia serve a «tenere unite le città», mentre per Cicerone deve essere il fondamento della civiltà che rinascerà dopo la guerra civile, poiché la benevolenza genera società. L’amicizia, sottolineava Hannah Arendt, è un fatto politico, non privato: collaborazione, fiducia e lealtà, rispetto reciproco, relazione amichevole tra le persone sono alla base del legame sociale (non la diffidenza reciproca e il pensar male!). Ripassiamo ora velocemente i suoi rapporti con le due grandi “chiese” simmetriche della nostra politica, il Pci e la Dc. Emanuele Macaluso ci ha ricordato recentemente che Sciascia non aderì mai al Pci pur votando il partito che difendeva la povera gente, i minatori e i contadini. È nota la sua battuta: «Non c’è che la sinistra per fare una buona politica di destra»(nella intervista di Nico Perrone che uscì su il manifesto nel 1978, in seguito libretto Archinto, in versione integrale, 2015). Quale destra ha in mente? Direi soprattutto la Destra storica liberale e laica, quella del pareggio di bilancio, del senso dello stato, quella del rigore e del buon governo, che precede il trasformismo della Sinistra di Depretis. Quando si presentò alle elezioni siciliane lanciò la proposta del “buon governo a Palermo”. Poi, eletto, si dimette nel marzo del 1977, fortemente deluso dal compromesso storico. Da allora i rapporti di Sciascia con il Pci peggiorarono fino alla rottura. E fino alla candidatura nel 1979 nella lista di Pannella, e all’impegno in Parlamento che si conclude nel 1983. Anche nella sua narrativa, dal Contesto a Candido, lo scrittore prende sempre più di mira il Pci, le sue “ambiguità” e i suoi “giochi delle parti”, il suo spirito chiesastico e il suo dogmatismo – la sua indifferenza alla verità, cui sempre sarà da preferire la ragion di partito – e testimonia un avvicinamento alla tradizione libertaria. Per quanto riguarda la Dc, Sciascia si sofferma, nella intervista, e con toni insolitamente severi, sul cinismo di Andreotti: «Devo dire che Andreotti non mi piace. Non mi è mai piaciuto. Non credo nemmeno che sia l’uomo di grande intelligenza celebrato anche dai comunisti». Non dobbiamo qui processare nessun uomo politico, ma certo la durezza del giudizio di Sciascia colpisce perché va radicalmente contro alcune mitologie dell’epoca. L’itinerario politico di Sciascia si traduce in una critica della politica, o meglio di una politica esclusivamente machiavellica che, nel bene e nel male, ha come modello fondamentale la guerra, e nell’immaginare una politica ridefinita, basata sulla verità (senza la quale si possono anche raggiungere dei risultati pratici ma non c’è democrazia, come leggiamo nel Gorgia di Platone) e sulla amicizia (fonte di pace e di giustizia). A ben vedere una visione che lo avvicina alla migliore tradizione terzaforzista, a quel luminoso pamphlet che scrisse Bobbio nell’ultima fase, Elogio della mitezza, assumendo la mitezza come virtù sociale.

La lezione di Sciascia: la Giustizia senza pietà è maschera di vendetta. Filippo La Porta su Il Riformista il 30 Settembre 2020. Parafrasando Orwell a proposito dei santi si potrebbe dire che tutti i giudici sono colpevoli, fino a prova contraria. Per la ragione che si trovano a disporre di un potere “terribile”(Montesquieu), che li eleva – realmente ma anche illusoriamente – al di sopra di tutti gli altri uomini. E, come ha detto Sciascia, un giudice dovrebbe non tanto “godere” il potere che ha quanto “soffrirlo”. Proprio a Sciascia e alla giustizia è dedicato un ciclo di incontri, le “Lezioni Bordin”(in memoria del giornalista radicale), inaugurato qualche giorno fa a Bari e destinato a protrarsi in altre città, organizzato dall’Associazione Amici di Sciascia e dalla Unione Camere Penali Italiane, in collaborazione con l’editore Olschki e Radio Radicale. A Bari tra l’altro Sciascia esordì con Le parrocchie di Regalpetra, pubblicato da Laterza nel 1956. Sono intervenuti nella sala del Consiglio Regionale avvocati, docenti e storici del diritto, giornalisti, amministratori, etc., con la convinzione che la giustizia non è uno dei temi di Sciascia, ma il “suo” tema, così come il tema – poniamo – di Pasolini è stato il genocidio culturale (conseguenza della nostra convulsa modernizzazione) e il tema di Elsa Morante lo scandalo della Storia di fronte agli innocenti, alle vittime anonime. Sciascia ha affrontato questo tema come romanziere, come saggista, come direttore editoriale (diresse una collana Sellerio a ciò rivolta), come opinionista ed editorialista. Mi limito a citare Il contesto, che secondo il critico Claude Ambroise svela la struttura fondamentalmente inquisitoriale della giustizia (il giudice interroga non per accertare la verità ma per dimostrare una colpevolezza), e poi tutti gli ultimi titoli, La strega e il capitano (dedicato al Manzoni civile della Storia della colonna infame), 1912+1 (con una tirata contro le perizie), Fatti diversi di storia letteraria e civile, A porte aperte (sulla pena di morte), fino a gli articoli raccolti in A futura memoria, che uscì l’anno della sua morte, nel 1989. Per capire la posizione di Sciascia potrebbe essere utile un riferimento al tema della giustizia nella Divina Commedia. Lo scrittore non si è mai occupato esplicitamente di Dante, se non in alcuni articoli usciti su “l’Ora” di Palermo nel 1965, poi qui e là, nella conversazione con Borges del 1982, e in altri rari passi, però l’orizzonte dantesco non sembra del tutto estraneo alla sua riflessione. Com’è noto dall’Inferno al Purgatorio il passaggio è dall’etica aristotelica, del mondo pagano, per la quale il valore più alto è la giustizia, e l’etica cristiana, che invece assegna un primato all’amore. Nel Paradiso poi leggiamo che per l’imperatore legislatore Giustiniano, la giustizia – rappresentata con l’aquila imperiale – si trova ad essere intrecciata con la vendetta, in un modo inquietante: «Ché la viva giustizia che mi spira, / li concedette, in mano a quel ch’i dico, / gloria di far vendetta a la sua ira». La giustizia si fonda su una proporzionalità (bilancia, razionalità), l’amore – almeno inteso in senso cristiano – su una dismisura (gratuità, paradosso). E anche perciò l’amore cristiano dovette apparire a Luciano di Samosata, raffinato filosofo ellenistico – caro a Sciascia – , una incomprensibile follia. Nel regno della giustizia troviamo criteri ragionevolmente proporzionali, equivalenze, diritti, pene e compensazioni, procedure. La legge del contrappasso – corrispondenza tra pena e colpa per contrasto o somiglianza – richiama in qualche modo la legge del taglione , e nella sua astratta, “loica” razionalità ha qualcosa di inesorabile. Nel regno dell’amore abita invece la misericordia, che implica una “esagerazione”, o, nelle parole di papa Francesco, «un inaudito straripamento». I due termini – giustizia e amore – restano in Dante non del tutto conciliati tra loro, e certamente la giustizia divina, che a volte punisce chi in Terra aveva pur agito bene, avrà sempre per noi qualcosa di misterioso, di insondabile (anche perciò un giudice è sempre tentato da una hybris direi professionale).  Torniamo a Sciascia. Cose come l’amore, il perdono o la carità cristiana non possono essere formalizzate, né inserite in un master specialistico per diventare magistrati, ma Sciascia, che era uno spirito laico, benché più pascaliano e giansenista che volterriano (si autodefiniva “un ateo incoerente” e leggeva ogni giorno i Vangeli accanto ai suoi illuministi), sa che qualsiasi giustizia terrena, non trattenuta dalla pietà, è solo una maschera della vendetta. E soprattutto deve essere amministrata non solo con equilibrio e prudenza, ma soprattutto con una capacità di empatia (in una lettera a Pertini propose di far trascorrere a ogni futuro giudice tre giorni dentro un carcere!), con un senso del tragico della condizione umana, con la consapevolezza che la verità è sempre pirandellianamente sfaccettata, e che mettere paura a un essere umano – solitario, inerme – è la cosa peggiore che si possa fare. Probabilmente quel senso del tragico, quella empatia e quella consapevolezza possono essere acquisiti solo attraverso una assidua frequentazione della letteratura.

Leonardo Sciascia, l’eretico etico. Filippo La Porta su Il Riformista il 19 Novembre 2019. Nell’opera di Leonardo Sciascia è impossibile separare la letteratura dall’impegno, la scrittura dalle battaglie civili (perciò sbaglia Citati a respingerne l’ultima parte in quanto “politica”: anche le Parrocchie di Regalpetra – 1956 – sono “politiche”!). Per una semplice ragione: l’impegno è sempre impegno verso la verità – oltre ogni ideologia e perfino oltre ogni “eresia”, come il suo Candido – , e la letteratura è “figlia della verità”. Il suo stile – conciso, nitido, di sobria eleganza (ispirato a Manzoni, Stendhal, alla prosa d’arte e a Brancati) – è segretamente intessuto di barocco siciliano, benché si tratti di un barocco trattenuto, inesploso. Geometriche puntigliosità, digressioni, parentesi dentro parentesi, ellissi. Ed è un barocco diverso da quello, poniamo, di Manganelli, dove l’alchimia delle parole e il gioco estenuato della lingua servono a esorcizzare la morte, il nulla. No, Sciascia la morte intende guardarla in faccia, con serietà e compostezza, come il commissario Vice, protagonista del suo penultimo libro, Il cavaliere e la morte. In ciò vicino ai suoi scrittori spagnoli, ad esempio a Machado per il quale il colpo secco della bara che scende nella fossa è qualcosa di «maledettamente serio». È vero quello che ha detto il suo principale e simpatetico studioso, Claude Ambroise: i suoi personaggi si progettano tutti come uomini in rivolta, dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all’avvocato Di Blasi del (meraviglioso) Consiglio d’Egitto, dall’ispettore Rogas del Contesto fino allo stesso Moro in carcere, e tutti verranno ammazzati. In rivolta contro che? Contro il potere, che proprio sulla morte – limite oscuro dell’esistenza, destino inappellabile – costruisce il suo spaventevole edificio di bugie e soprusi. Il giudice, l’inquisitore, il boss mafioso, in fondo dando la morte si illudono di starne al di sopra, come il “tiranno” di cui parla Elias Canetti. Si credono immortali e vivono dentro la irrealtà, mentre Sciascia vuole restare fedele alla realtà, enigmatica, limitata eppure mai risolta. Di qui affiora un carattere di misteriosa incompiutezza della sua opera, rifinita ma inafferrabile. La contraddizione – che è parte costitutiva della realtà – non viene mai risolta, come invece nei labirinti ingegnosi e senza minotauro dell’estetizzante Borges (da lui amato). L’intera, multiforme produzione di Sciascia mi sembra cioè, come quella di Pasolini, felicemente esposta a un semifallimento. Gialli senza soluzione, romanzi spaesanti e metafisici travestiti da thriller, riscritture imperfette di classici, parodie spesso incomprese, pamphlet solitari e battaglie perdute. Libri di artigianale perfezione, lavorati all’estremo, ma anche aperti all’inconcluso della esperienza. Lo scrittore insegue la verità – ambigua, prismatica, cangiante – delle cose con piglio ostinato e illuministico. Un erede di Voltaire che ha letto Pirandello. Anche per questa ragione a me sembra che il genere letterario che più corrisponde alla vocazione di Sciascia sia quello del personal essay di Montaigne, autore da lui prediletto, un genere digressivo, antisistematico e divagante che schiude la modernità, e che – a ben vedere – troviamo al centro della tradizione italiana cinquecentesca, sia pure in una forma carsica, più nascosta, a partire da Machiavelli e dai Dialoghi di Tasso. Una volta parlando di Savinio, illustre esponente del genere, Sciascia evoca Guicciardini, cui Savinio somiglierebbe anche fisicamente, e che anticipa di qualche decennio lo stesso Montaigne con i suoi aforismi morali e politici. Nei Ricordi (ammonimenti) Guicciardini osserva che «è grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente assolutamente… perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circostanze». Ecco: lo stile di Sciascia sempre aderisce fedelmente alla varietà delle circostanze, alla unicità degli eventi, alla irripetibilità dell’esperienza del singolo.  Una volta ebbe a dire: «Credo di essere saggista nel romanzo e narratore nel saggio». Ma anche solo quella sua frase dimostra un primato del personal essay, poiché un saggio che comprende la narrazione è appunto il saggio moderno e “dilettantesco” di Montaigne, da lui travasato in libri popolari e di grande affabilità comunicativa. Benché amasse romanzi-fiume come il Chisciotte e Anna Karenina Sciascia optava personalmente per la “brevitas”, per una asciuttezza scandita tuttavia da pause interne, da uno sciame di chiose, digressioni e postille. E di ciò si sostanzia il suo illuminismo insulare, la sua alterità “saracena”, sorprendentemente capace di parlare a tutti, senza rimuovere il tragico e senza banalizzare il mistero.

Il paradosso di Sciascia: denunciò i professionisti dell’antimafia e gli diedero del mafioso. Valter Vecellio su Il Riformista il 19 Novembre 2019. Ricordare Leonardo Sciascia a trent’anni dalla morte… non è facile, non è semplice. Un modo, forse ne sarebbe contento, potrebbe essere l’invito del ministro dell’Istruzione Pubblica a tutte le scuole, agli studenti, ai professori, di dedicare qualche ora per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Credo proprio che gli farebbe piacere. Per lui un efficace impegno anti-mafia era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Un antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino.  Sciascia: poco dopo l’alba del 20 settembre, stanco, logorato da una malattia che non ha rimedio, finisce di soffrire. Un soffio; china la testa di lato. La lunga agonia finisce. Come parlarne, senza scadere nel cliché? Qualche sua pagina, appunto, sulla sua “ossessione”: la giustizia, su come viene amministrata. Per un libretto scritto con Raffaele Genah, Storie di ordinaria ingiustizia, gli chiedo un paio di cartelle da utilizzare come prefazione. Si viene afferrati da un senso di avvilimento, nel constatare quanto siano attuali. Scrive dell’errore giudiziario, e raccomanda di tener sempre a mente il monito di Manzoni: «…quasi sempre si tratta di “errori” ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: “trasgredir” le regole ammesse anche da loro…se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa…». Per dare spiegazione di come l’amministrazione della giustizia sia quella che è, spiega che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, a esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…». Un’altra citazione viene in soccorso da Una storia semplice, l’ultimo libro, scritto con grande fatica, straordinariamente lucido. Un vecchio professore è interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente. «Posso permettermi di farle una domanda?… Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». Può bastare per comprendere l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come (e da chi) viene amministrata.  Sul capo di Sciascia, in vita (ma anche dopo), si rovesciano una quantità di insulti. È una parzialissima, antologia di meschinità quella che segue: «Codardo»… «Sprazzi di autentica balordaggine»… «Amara e inutile vecchiaia»…«Lancia avvertimenti mafiosi»… «Precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese»… «Travolto dagli anni e da antichi livori»… «Stregato dalla mafia»… «La sua funzione è esaurita»… «Non ci serve più»… «Fa l’apologia della mafia… «Iena dattilografa»…«Trozkista»… «Quaquaraquà»… Ascolto, ma soprattutto osservo Emanuele Macaluso, da sempre amico di Sciascia. Gli ricordo che qualcuno ha detto che Il giorno della civetta è un libro che esalta la mafia. «Questa sciocchezza che purtroppo è stata detta da un parlamentare… della sinistra – sillaba Macaluso – è la stupidità più clamorosa che ho sentito su Leonardo. Quel libro fu il primo che fece capire cos’è la mafia: non una delinquenza comune, ma personaggi che avevano anche un rapporto politico con la politica, ma anche con la gente: la Grande Mafia, la mafia-mafia che ha contato, aveva un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: si prestava a risolvere i problemi, una specie di tribunale per le questioni… altrimenti non era mafia, era delinquenza…Per la prima volta Sciascia fa capire che cos’è la mafia: con un carattere, una storia…Perché altrimenti non si capisce perché la mafia c’è da più di cento anni, e si discute ancora del suo potere». Mafiologi ai quattro formaggi non sanno (non vogliono) cogliere l’essenza di quel romanzo: il “metodo” che anni dopo adottano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano e i tanti caduti nella lotta alla mafia. Il capitano Bellodi, a un certo punto si rende conto che il capomafia, grazie alle protezioni politiche, gli sta per scappare di mano; ha la tentazione di far uso di quei metodi al di sopra e al di là della legge del prefetto Cesare Mori, negli anni della dittatura fascista. Tentazione/illusione che subito rigetta, perché non bisogna uscire mai dai binari della legge, del diritto; sempre e comunque.  Piuttosto «…bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…». Questo è il romanzo che «fa piacere alla mafia e la esalta». Questo il destinatario del sanguinoso insulto «quaquaraquà», quando pubblica sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia”. Tra i non molti, lo difende Tullio De Mauro, il celebre linguista, fratello di Mauro, il giornalista de L’Ora, atteso da sicari mafiosi sotto casa: rapito, neppure il corpo viene mai stato trovato. Racconta Tullio: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fatto folcloristico siciliano. Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 con la scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…».  Mi confida Macaluso: «Una cosa ignobile. Una cosa vergognosa e ignobile del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo, dove c’erano alcuni personaggi che non voglio ricordare…Sciascia aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere…quando Leonardo individuò in quei metodi del Csm dei limiti e delle storture, credo che avesse ragione: i fatti recenti ci dicono che quelle polemiche non erano campate in aria o strumentali, ma avevano un fondamento…». Non solo il Csm, e i suoi metodi di nomina. Francesco Forgione, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è autore di un libro, I Tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti; utile, preziosa lettura, ricco com’è di fatti ed episodi che documentano come una parte dell’antimafia abbia fatto uso di un impegno di facciata per raggiungere ben altri. Per tornare a Sciascia: dopo aver consigliato la lettura di alcuni libri, presuntuoso, ne segnalo uno recentissimo, mio: Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto editore). Scritto con l’obiettivo di ragionare su un aspetto che si tende – non a caso – a omettere, ignorare: il suo essere stato scrittore politico, immerso consapevolmente e totalmente nella realtà; il suo aver voluto sempre fare politica in senso etico. Il motivo per cui, pur deluso da precedenti esperienze, dopo aver rifiutato gli inviti a candidarsi nelle liste del Psi e del Pli, accetta di farlo in quelle del Partito Radicale: un partito a cui era sempre stato vicino, come Elio Vittorini, Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini. Ma a candidarsi non ci pensa proprio, ed è ben intenzionato a dire un cortese “No, grazie” a Pannella, volato a Palermo per convincerlo. Vecchia volpe, Pannella sa trovare la chiave giusta: «Non ti chiediamo di aderire al nostro programma. Siamo noi radicali che aderiamo al tuo». È fatta: accende l’ennesima sigaretta, con lo sguardo osserva le volute del fumo; infine, passa dal “Lei” al “Tu”: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto».

Leonardo Sciascia difese il diritto ma fu diffamato: le sue battaglie garantiste sono ancora incomprese. Valter Vecellio su Il Riformista il 6 Gennaio 2021. Ovunque si trovi, par di vederlo, Leonardo Sciascia. Magari con attorno il gruppo di suoi amici: Gesualdo Bufalino, Bruno Caruso, Fabrizio Clerici, Vincenzo Consolo, Mario La Cava, Marco Pannella, Francesco Rosi, Roberto Roversi, Aldo Scimé, Elvira Sellerio, Enzo Tortora, Antonello Trombadori, Tono Zancanaro, gli altri del cenacolo romano da “Fortunato” al Pantheon, o alle gallerie d’arte di Palermo, o la libreria antiquaria “Palmaverde” di Bologna… la Benson & Hedges eternamente accesa e aspirata; e un sorriso misto indulgente e ironico…Accade che oggi di Sciascia parlino in tanti. Troppi. Quand’era in vita, in molti – e anche chi ora lo incensa – lo hanno ricoperto di insulti. C’è chi gli ha perfino dato del mafioso, per le sue coraggiose posizioni, rigorose e radicali, per la difesa del diritto e la giustizia giusta. Gli hanno perfino dato del quaquaraquà: l’ultima delle cinque categorie, la più infamante, con cui il mafioso Mariano Arena de Il giorno della civetta suddivide l’umanità. Sono arrivati a sostenere che quel romanzo esalta la Cosa nostra, che i mafiosi ne vengono celebrati, un po’ come negli ingenui romanzi di William Galt-Luigi Natoli. Emanuele Macaluso, storico dirigente del Pci, padre nobile della sinistra, da sempre amico ed estimatore di Sciascia, anche nelle polemiche che non sono mancate. Quando si parla di questo episodio, lo capisco dalle espressioni del viso, più ancora che dalle parole, ancora freme per l’indignazione, l’amarezza; un furore represso a fatica, il suo: «Questa sciocchezza che purtroppo è stata detta da un parlamentare… della sinistra; non ne voglio neppure fare il nome. È la stupidità più clamorosa che ho sentito su Leonardo. Quel libro fu il primo che fece capire cos’è la mafia: non una delinquenza comune, ma personaggi che avevano anche un rapporto politico con la politica, ma anche con la gente: la Grande Mafia, la mafia-mafia che ha contato, aveva un rapporto politico con il potere, ma anche con la popolazione: si prestava a risolvere i problemi, una specie di tribunale per le questioni… altrimenti non era mafia, era delinquenza…Per la prima volta Sciascia fa capire che cos’è la mafia: con un carattere, una storia…Perché altrimenti non si capisce perché la mafia c’è da più di cento anni, e si discute ancora del suo potere. I mafiologi ai quattro formaggi non sanno (non vogliono) cogliere l’essenza di quel romanzo: il “metodo” che anni dopo adottano Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Boris Giuliano e i tanti caduti nella lotta alla mafia. Il capitano Bellodi, a un certo punto si rende conto che il capomafia, grazie alle protezioni politiche, gli sta per scappare di mano; ha la tentazione di far uso di quei metodi al di sopra e al di là della legge del prefetto Cesare Mori, negli anni della dittatura fascista. Tentazione/illusione che subito rigetta, perché non bisogna uscire mai dai binari della legge, del diritto; sempre e comunque. Piuttosto «…bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America. Ma non soltanto le persone come Mariano Arena, e non soltanto qui in Sicilia. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere mani esperte nella contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende: revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto dietro le idee politiche o le tendenze, o gli incontri dei membri più inquieti di quella grande famiglia che è il regime, e dietro i nemici della famiglia, sarebbe meglio si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie, le mogli, le amanti di certi funzionari; e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso. Soltanto così a uomini come don Mariano comincerebbe a mancare il terreno sotto i piedi…». Questo è il romanzo che fa “piacere alla mafia e la esalta”. Questo il destinatario del sanguinoso insulto, “Quaquaraquà”, quando pubblica sul Corriere della Sera del 10 gennaio 1987 l’articolo redazionalmente titolato “I professionisti dell’antimafia”. Tra i non molti, lo difende Tullio De Mauro, il celebre linguista, fratello di Mauro, il giornalista de L’Ora, atteso da sicari mafiosi sotto casa: rapito, neppure il corpo viene mai stato trovato. Racconta Tullio: «I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fatto folcloristico siciliano. Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 con la scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in un’altra serie innumerevole di circostanze…». Ancora Macaluso: «Una cosa ignobile. Una cosa vergognosa e ignobile del cosiddetto Comitato Antimafia di Palermo, dove c’erano alcuni personaggi che non voglio ricordare… Sciascia aveva espresso un’opinione che non coinvolgeva tanto – era solo un esempio – Borsellino, quanto un metodo di affrontare la questione delle carriere… quando Leonardo individuò in quei metodi del Csm dei limiti e delle storture, credo che avesse ragione: i fatti recenti ci dicono che quelle polemiche non erano campate in aria o strumentali, ma avevano un fondamento…». Non solo il CSM, e i suoi metodi di nomina. Francesco Forgione, ex presidente della Commissione parlamentare antimafia, è autore di un libro, I Tragediatori. La fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti; utile, preziosa lettura, ricco com’è di fatti ed episodi che documentano come una parte dell’antimafia abbia fatto uso di un impegno di facciata per raggiungere ben altri, illeciti, scopi: «…Certo in una regione che dal 2001 al 2008 ha avuto un presidente condannato per mafia, l’antimafia è stata usata sia nelle lotte intestine interne ai partiti che per sostituire un blocco di potere a un altro…». Più recente, ma non meno istruttiva lettura, quella de Il sistema Montante dell’ex sindaco di Racalmuto Salvatore Petrotto (Bonfirraro editore). Libro curiosamente passato inosservato (pochissime le eccezioni). Come racconta il suo autore, si tratta di una “pentola maleodorante” su un sistema di potere il cui architrave era costituito «dall’ex presidente di Confindustria Sicilia e responsabile nazionale per la legalità di Confindustria Nazionale… Oggi risulta condannato a 14 anni di reclusione. Fino a qualche anno fa era ritenuto ed accreditato unanimemente un insostituibile ‘apostolo dell’antimafia’». Schivo, discreto, Sciascia incarna quel decoro e quell’eduzione che sono la cifra di un’Italia che si vorrebbe e che spesso non è. È nato cent’anni fa, a Racalmuto, un paese siciliano arroccato vicino ad Agrigento. Per tutta la vita la Sicilia, e quel paese gli rimangono nel cuore. Dice: «Incredibile è l’Italia; e bisogna andare in Sicilia, per constatare quanto lo sia». Ecco una sommaria antologia di “apprezzamenti” che patisce in vita (ma qualcuno anche da morto non ha mancato di dargli il calcio dell’asino): “Codardo”; ”Sprazzi di autentica balordaggine”; “Aspetto profondamente reazionario”; “Amara e inutile vecchiaia”; ”Lancia avvertimenti mafiosi”; ”Precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese”; ”Penoso”; “Travolto dagli anni e da antichi livori”; ”Gravissimi furono i suoi silenzi”; ”Stregato dalla mafia”; ”La sua funzione è esaurita”; ”Non ciserve più”: ”Fa l’apologia della mafia”; ”Non è più capace di immaginare un uomo vero”; ”Il suo credo: vendo, ergo sum”; ”Sta finendo piuttosto male”; ”Disfattista”; ”Arrogante”; ”Si riduce in misere polemiche sulle Brigate Rosse e l’antimafia”; “Trozkista”, “Nei suoi romanzi, qualunquismo e codardia civile”; “Iena dattilografa”…

Sciascia: uno degli scrittori più colti e raffinati del secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Con i suoi romanzi, i suoi racconti, con i suoi interventi ha saputo raccontare l’Italia e gli italiani; al pari di autori giustamente considerati “classici”: Alessandro Manzoni, Luigi Pirandello, Federico De Roberto… Per aver saputo dire tante, indicibili, verità è stato (ed è) tanto amato e detestato. Con l’aiuto di chi lo ha frequentato e conosciuto si proverà a raccontare l’uomo e lo scrittore Sciascia: che, al pari dell’amato Georges Bernanos, preferisce perdere un lettore, piuttosto che ingannarlo…Stefano Villardo, classe 1922, amico di Sciascia da sempre. Per Sellerio ha pubblicato un paio di libri che “devono” figurare in una biblioteca che si rispetti: Tutti dicono Germania Germania; e A scuola con Leonardo Sciascia, una lunga conversazione con Antonio Motta. A quindici anni frequenta la prima classe dell’Istituto Magistrale a Caltanissetta. Gli occhi gli si illuminano, quando racconta di questa fantastica amicizia: «Tutto nasce da una bocciatura…Una fortunatissima bocciatura, grazie alla quale diventai compagno di scuola, di banco prima, e per il resto della vita poi, di Leonardo. Era un ragazzo timidissimo che non sapeva rispondere; forse non voleva rispondere alle domande dei professori. Però i suoi temi erano stupendi. Il professore, Giulio Granata, si incaponì, e sprecò la nottata intera per capire dove Leonardo poteva aver copiato il tema. La mattina dopo le parlò con il preside Luigi Monaco, era davvero un ottimo preside. Lo ascoltò paziente, e poi gli disse: è inutile che cerchi, è Leonardo che scrive così. Granata non se ne capacitava: ma se quando lo interrogo non risponde mai alle domande… E Monaco: non risponde per timidezza. Leonardo è la timidezza in persona. Poi si è sbloccato… Stiamo parlando di uno dei più grandi scrittori del Novecento, non solo italiani. La sua prosa mi ha sempre affascinato, uno stile limpido, chiaro, diretto, preciso, profondo. Chi legge i suoi libri non può non riflettere sulle cose essenziali della vita. Leonardo era un vero uomo: di fede di ingegno, di rispetto…». Maurilio Catalano è un pittore titolare della galleria “Arte al Borgo” di Palermo. È lì che Sciascia ama trascorrere pomeriggi a conversare con gli amici. «Un giorno Sciascia viene nella mia galleria; io non lo conosco, lui non conosce me. Si presenta: ‘Sono Leonardo Sciascia, vivo a Racalmuto, sono qui a Palermo per caso, e sono venuto a trovarvi…’. Mi dice che è a conoscenza della nostra passione per la grafica che lui condivideva. Cominciò da quel giorno a venirci a trovare: guardava curioso, discuteva con noi… È cominciata un’amicizia vera, che ogni giorno si suggellava grazie a una colla particolare, che non è in vendita: io lo ascoltavo e lui mi ascoltava, ci si studiava… ci siamo trovati… veniva alla Galleria, si prendeva un caffè, si parlava. Era sempre molto cordiale e disponibile. Non dico che desse confidenza, ma ascoltava, era curioso di tutto… era estremamente semplice. Lui per esempio, ai giovani voleva molto bene, però non dovevano essere cretini…Lui andava contro il cretino. Perché un cretino non è interessante, perché a un cretino, diceva, non puoi rubare nulla…». Matteo Collura, giornalista, scrittore, autore di un’importante biografia di Leonardo Sciascia, Il maestro di Regalpetra (La nave di Teseo), gli è stato molto amico: «Sciascia è stato uno scrittore anomalo nella storia della letteratura italiana. Appartiene a una tradizione più francese che italiana: un’idea di letteratura che di cui fanno parte Emile Zola e prima ancora Voltaire. Mi riferisco al famoso “J’accuse…!” di Zola, il titolo dell’editoriale su L’Aurore, per denunciare i persecutori del capitano ebreo Alfred Dreyfus, e le irregolarità e le illegalità commesse nel corso del processo-montatura che lo vide condannato per alto tradimento, uno dei più famosi “affaires” della storia francese; e anche il “Caso Calas”, una vicenda giudiziaria del XVIII secolo a Tolosa, diventato famoso per l’intervento di Voltaire… Sciascia è stato protagonista di uno di questi casi, con L’Affaire Moro, e si iscrive in questa categoria letteraria. Ecco: Sciascia forse andrebbe ricordato in una sorta di appendice della letteratura francese: un’appendice che ha dei nomi che brillano, ma che francesi non sono: Manzoni e Sciascia… Non era uno scrittore cattolico, ma era animato da spirito autenticamente cristiano. L’epigrafe che vedrei sulla sua tomba è: cristiano senza chiesa, socialista senza partito… Le racconto un aneddoto che dà la cifra della persona, un episodio che ho visto con i miei occhi; era venuto a Milano, mi aspettava nella hall dell’albergo. Quel pomeriggio, prima di me, erano arrivati i rappresentanti di una grande casa editrice, ormai si può anche fare il nome, la Mondadori: erano disposti a dargli cinque miliardi di lire (ancora non c’era l’euro), per avere i diritti di tutta l’opera completa. Lui rifiutò. Schiacciando l’ennesima sigaretta fumata sul posacenere, me ne spiegò la ragione: ‘Ma cosa vogliono da me, per offrirmi tanti soldi?’. Ecco: quanti pensi che siano gli scrittori che avrebbero rifiutato tutti quei soldi, pur di restare uomini e scrittori liberi?». Ancora Macaluso: «Ho conosciuto Leonardo nel 1941, in pieno fascismo. Ero un po’ più giovane di lui, avevo già aderito alla cellula comunista di Caltanissetta. Leonardo era molto amico di un altro ragazzo che però studiava al liceo, Gino Cortese. Era un giovane comunista molto spiritoso, Leonardo con lui ha avuto un rapporto che è proseguito nel tempo. Lo stesso Leonardo racconta che proprio Gino lo introduce non solo all’antifascismo militante, ma nell’ambiente comunista, anche se non si è mai iscritto al Pci. Leonardo questo rapporto lo racconta in alcune pagine delle Parrocchie di Regalpetra; sono episodi anche divertenti, Gino era molto spiritoso. Leonardo, per esempio, racconta che Cortese andava al Gruppo Universitario Fascista, e lì declamava i discorsi di Stalin, ma dicendo che si trattava dei discorsi che aveva fatto un gerarca fascista; e quelli se la bevevano… C’è una cosa che mi preme, e la voglio dire soprattutto ai giovani, a chi certi giorni non li ha vissuti perché è nato dopo: Leonardo con i libri che ha scritto, anche con la sua produzione giornalistica, penso ai suoi scritti sul Corriere della Sera, su La Stampa, o L’Ora di Palermo, ci manca. Ora che non ci sono più, lui e Pier Paolo Pasolini, si avverte un grande vuoto. Sciascia e Pasolini hanno animato le battaglie politico-culturali nel nostro Paese, come nessun altro ha saputo fare. Non ci sono più “firme” come quella di Sciascia o Pasolini… Leonardo, in particolare, protagonista con i suoi libri e i suoi articoli di ‘polemiche’ su un terreno che ancora oggi considero fondamentale, quello della giustizia. Aveva l’autorità, il coraggio di sostenere queste battaglie garantiste sulla giustizia, la sua è stata una voce fondamentale. E ha avuto un valore fondamentale nella formazione politico-culturale del nostro Paese: in quegli anni, quei dibattiti sulla giustizia hanno avuto un carattere e un senso che oggi purtroppo non vedo più. Da questo punto di vista Leonardo non è stato solo un grande scrittore, ma anche un grande italiano; al tempo stesso un uomo dell’Europa, ha incarnato con i suoi scritti e le sue battaglie politico-culturali, il meglio che questo Paese poteva esprimere».

Buono, brillante e generoso: vi racconto il mio amico Leonardo Sciascia. Valter Vecellio su Il Riformista il 7 Gennaio 2021. Racconto, qui, il “mio” Leonardo Sciascia. Lo scrittore affermato che un giorno si trova tra le mani la lettera di un ragazzetto che gli propone di collaborare a una rivistina messa su alla bell’e meglio; e risponde che lo farà volentieri: perché è giunto il tempo di fare quello che Seneca diceva dovessero fare gli schiavi: cominciare a “contarsi”; e a onta del preteso pessimismo che gli si vuole incollare, si dice sicuro che si scoprirà, con nostra sorpresa, «d’essere più di quanti si crede»; isolati forse, ma non soli, e comunque sufficienti a opporre un’“opinione” alle “opinioni”. Racconto la persona che paziente insegna – letteralmente – a quel ragazzetto come leggere e capire I promessi sposi di Manzoni e William Shakespeare; che interrompe il suo lavoro, quando irrompo nella sua casa palermitana per chiedergli un paio di cartellette da usare per prefazione a un libro, Storie di ordinaria ingiustizia, che con molto anticipo raccontava le sventure di tanti signor “nessuno” che hanno patito calvari analoghi a quello di Enzo Tortora; e sono un paio di cartelle scritte in mezz’ora dense e sapide come solo lui sa; scrivo di un uomo “buono” nel senso più ampio e autentico del termine, che cerco di raccontare in un libro pubblicato da poco: Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto editore). Libro scritto con l’obiettivo di ragionare su un aspetto che si tende – non a caso – a omettere, ignorare: il suo essere stato scrittore politico, immerso consapevolmente e totalmente nella realtà; il suo aver voluto sempre fare politica in senso etico: il cosciente mescolare politica ed etica, nel tentativo di perseguire conoscenza e verità. Il motivo per cui, pur deluso da precedenti esperienze, dopo aver rifiutato gli inviti a candidarsi nelle liste del Psi e del Pli, accetta di farlo in quelle del Partito Radicale: un partito a cui era sempre stato vicino, come Elio Vittorini, Ignazio Silone, Pier Paolo Pasolini. Ma a candidarsi non ci pensa proprio, ed è ben intenzionato a dire un cortese “No, grazie” a Pannella, volato a Palermo per convincerlo. Vecchia volpe, Pannella sa trovare la chiave giusta: «Non ti chiediamo di aderire al nostro programma. Siamo noi radicali che aderiamo al tuo». È fatta: accende l’ennesima sigaretta, con lo sguardo osserva le volute del fumo; infine, passa dal “Lei” al “Tu”: «Hai bussato perché sapevi che era già aperto». Scrivo di uno scrittore che “segna” come pochi altri (Pasolini, Italo Calvino, Vittorini, Silone, Mario La Cava, Mario Soldati, Piero Chiara, Alberto Moravia), il secondo Novecento letterario italiano. Un ministro dell’Istruzione davvero dell’Istruzione ministro, avrebbe invitato tutte le scuole a dedicare qualche ora di lezione per leggere un paio di pagine tra i tanti libri che ci ha lasciato. Leggerle a voce alta, e commentarle, discuterle, criticarle, magari. Per Sciascia un efficace impegno anti-mafia, era magari una marcia in meno, ma leggere un libro di più. Antidoto simile a quello suggerito dal grande amico Gesualdo Bufalino: «Per combattere Cosa Nostra più maestri di scuola». La cultura, insomma. Contro la mafia, l’ignoranza, il cretino. Non sorprende che né il ministro né qualcuno dei suoi consiglieri abbia avuto questo riflesso. Il contrario, sì, quello avrebbe sorpreso. Parlo insomma dello Sciascia “ossessionato” dal problema della giustizia, e di come viene (malamente) amministrata. Nel testo che mi affida, scrive dell’errore giudiziario; raccomanda di tener sempre a mente il monito di Manzoni: «…quasi sempre si tratta di ‘errori’ ben visibili ed evitabili; e in particolare visibili ed evitabili proprio da parte di chi li commette: ‘trasgredir le regole ammesse anche da loro… se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa’…». Per dare spiegazione di come l’amministrazione della giustizia sia quella che è, spiega che «deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano l’arbitrio. Quando i giudici godono il loro potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto…». Merita, a questo punto, d’essere citato un passaggio che si ricava da Una storia semplice, l’ultimo libro, scritto con grande fatica, straordinariamente lucido. Un vecchio professore è interrogato dal suo ex alunno, diventato magistrato inquirente. «Posso permettermi di farle una domanda?…Poi ne farò altre, di altra natura…», dice ammiccante il magistrato. «Mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Una volta mi ha dato cinque: perché?». «Perché aveva copiato da un autore più intelligente», risponde il professore. Il magistrato scoppia a ridere: «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». Il professore fulminante: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare. Con meno italiano, lei sarebbe ancora più in alto». Può bastare, per comprendere l’amara, radicale, “visione” di Sciascia non tanto della giustizia, quanto di come (e da chi) viene amministrata. Molti si sono detti stupiti che Sciascia si sia “inteso” con un personaggio come Marco Pannella, e in sintonia con il Partito Radicale. Stupore senza fondamento. In più di un’intervista Sciascia dice che di volta in volta vota per il partito che più gli sembra in quel dato momento opportuno, ma che il suo voto più bello era stato, negli anni Sessanta, a una lista dello Psiup perché vi erano inseriti candidati radicali. Il perché di questa scelta è condensato in una dichiarazione del maggio 1979: «Parlando di politica, Borges diceva – in un’intervista di 15 anni addietro – che se ne era occupato il meno possibile, tranne che nel periodo della dittatura. Ma quella – aggiungeva – non era politica, era etica. Al contrario, io mi sono sempre occupato di politica; e sempre nel senso etico. Qualcuno dirà che questa è la mia confusione o il mio errore: il voler scambiare la politica con l’etica. Ma sarebbe una ben salutare confusione e un ben felice errore se gli italiani, e specialmente in questo momento, vi cadessero. Io mi sono deciso, improvvisamente, a testimoniare questa confusione e questo errore nel modo più esplicito e diretto del far politica; e col partito che, a questo momento, meglio degli altri, e forse unicamente, lo consente». “Semplice” (si fa per dire) la “filosofia” di Sciascia: «Bisogna rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto fra la stupidità e la violenza che si viene manifestando nelle cose italiane, rompere l’equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo; rompere le uova nel paniere, se si vuol dirla con linguaggio e immagine più quotidiana, prima che ci preparino la letale frittata». Leonardo “riposa” in una tomba che ha voluto semplicissima, accanto a quella della moglie Maria Andronico; è alle porte del cimitero di Racalmuto. «Ce ne ricorderemo di questo pianeta», è l’epigrafe che lui ha voluto. Una frase dello scrittore francese Auguste de Villiers de l’Isle-Adam. Il razionalista, l’illuminista, accetta così di partecipare alla scommessa di Blaise Pascal; al tempo stesso avverte che una certa attenzione questo mondo, questa vita, la meritano: in definitiva, un’ipotesi, una possibilità di sopravvivenza dopo la morte. Un “qualcosa” – è l’amico Bufalino a notarlo – legata a una insopprimibile volontà di memoria: finché saremo, in qualunque forma e natura, noi ricorderemo; e solo se ricorderemo, saremo. Noi siamo la capacità di ricordare, siamo memoria. Già in questa sola frase c’è molto, c’è tanto – e dell’essenziale – di Sciascia. L’uomo, l’artista: cerchiamo di vedere l’uno e l’altro (ammesso che si possa scindere l’uno dall’altro) con gli occhi di chi gli voluto bene: la figlia Annamaria; i nipoti Fabrizio e Vito. «Lo scrittore coincideva con l’uomo», dice Annamaria. «Un esempio da seguire. Una persona che dettava le regole senza parlare, non aveva bisogno di rimproverare. Bastava uno sguardo. Era una persona allegra. Partecipava a tutte le cose della famiglia. Un costante punto di riferimento. Lo hanno dipinto come taciturno, ombroso, silenzioso; ma a casa mio padre parlava molto, raccontava fatti, aneddoti. Andava al circolo di Racalmuto, seguiva tutte le vicende, poi ce le raccontava; e anche a Caltanissetta e poi Palermo… lui è cresciuto tra donne: unico uomo con tre zie e sei donne. Un universo femminile, e dunque amava i racconti, i pettegolezzi, tutto questo gli piaceva…». Fabrizio, Vito, vostro nonno vi voleva molto bene. Lo si capisce a guardare le molte fotografie in cui comparite con lui, lo sguardo, i piccoli gesti: si indovina che con voi aveva un rapporto speciale… Per voi chi era quest’uomo? Vorrei approfondire questo vostro legame… Fabrizio: «Può sembrare banale, ma per me, era un uomo come tanti altri, anche se al tempo stesso era palesemente diverso. Ecco: forse questa tipologia di intellettuale, oggi è molto difficile da trovare: persone capaci di estrapolare dagli eventi della società idee e concetti illuminanti; e al tempo stesso si comportavano come le persone normali. Mi veniva a prendere all’uscita della scuola, giocava con me… Le cose, insomma che fa un nonno con suo nipote. Al tempo stesso, vivendo in quella casa respiravo un’aria diversa; capitava di sentire discorsi con le persone che venivano a trovarlo, che certamente a 10-12 anni si capiscono e non si capiscono; ma in qualche modo, comunque, ti restano impressi, come se si appiccicassero alla pelle… Quanto al rendermi conto che mio nonno era Leonardo Sciascia: chissà, forse ne sono stato sempre cosciente. Sulla sua scrivania, per esempio, un posto d’onore l’aveva la fotografia di Pirandello. Mio nonno lo considerava una specie di padre. Già questa era una cosa fuori dal comune; che però io ho vissuto come normale. Tra noi si parlava anche in dialetto; e non solo il nostro, anche in altri dialetti. Lui mi leggeva le poesie di Trilussa, in romanesco: poesie, per inciso, che sono la perfetta metafora dello sfacelo di questo paese, di questo continente. Ho dei bei ricordi. I primi anni, li ho passati dai nonni, mamma e papà lavoravano, per un certo periodo mio padre a Catania; gran parte della settimana si stava con i nonni… c’erano due case, la grande e la piccola, e ogni tanto mi confondevo. Mio nonno aveva una collezione di sigilli, custoditi in una vetrina stretta e lunga, me li faceva toccare. Una passione che avevamo in comune. Nella lettera-testamento che ha lasciato, dispone che siano dati a me; non ho mai avuto il coraggio di toglierli da quella bacheca…». Vito: «Ai miei occhi appariva come una persona che conduceva una vita molto semplice. Siamo qui, nelle campagne di Racalmuto dove lui trascorreva le vacanze estive: si facevano le passeggiate nei campi, si raccoglievano fichi ed asparagi. Era una vita scandita da ritmi molto normali. Mio nonno era molto nonno: amava stare con noi nipoti; ci raccontava storie al focolare. Io chiedevo quelle con i briganti, dove c’era azione, avventura; e lui mi raccontava dei briganti del luogo. Nella vita domestica aveva fissato delle regole chiare, precise: nel primo pomeriggio, per esempio, non si dovevano fare schiamazzi. In generale, non amava la confusione. Però non aveva esigenze particolari. Per esempio, quando lavorava non ci imponeva il silenzio, la vita della casa procedeva normalmente. Capitava che andassi a vederlo mentre scriveva, nella sua stanza; lui non ci faceva particolarmente caso. Però non gli piaceva il disordine, il caos, lo schiamazzo». Giunti a questo punto, penso che per ricordare come gli sarebbe piaciuto essere ricordato, la cosa migliore sia quella di leggere i suoi libri; e/o rileggerli. Tutti, in ordine di pubblicazione, o come vengono, non importa. Sono un prezioso contravveleno; per dirla con un poeta francese, René Char, costituiscono una ‘fantastica amicizia’ da opporre ai “tempi dei monti furenti” che tocca vivere e patire.

Le zie di Sicilia:  Leonardo Sciascia intervistato da Franca Leosini. “Ritengo che molti mali della Sicilia siano imputabili al dominio femminile”, “La donna consiglia viltà, prudenza, opportunismo. E l’uomo obbedisce”... A cento anni dalla nascita (8 gennaio 1921), riproponiamo le parole del grande scrittore, pubblicate nel 1974 sull’Espresso. Invettive che provocarono polemiche. Affidate a una intervistatrice d’eccezione. Franca Leosini su L'Espresso il 7 settembre 2020. Nei suoi romanzi, fatta eccezione per "Gli zii di Sicilia", dove però la zia d'America è pur sempre un pretesto per descrivere un certo ambiente ed una certa atmosfera, Leonardo Sciascia colloca invariabilmente la donna in una posizione marginale. Soave compagna di viaggio in "Il mare colore del vino", presunta ispiratrice di delitti oscuri e irrisolti nel "Contesto" e in "A ciascuno il suo", moglie infedele nel "Quarantotto", la donna di Sciascia resta pur sempre sullo sfondo delle vicende che riflettono una sua "storia-ideale-eterna" della Sicilia.

Chiediamo a Sciascia il perché di questo: forse non le interessa la donna? Non ama indagarne la psicologia, o non la considera un soggetto da raccontare?

«Sì, credo che la donna non riscuota molta attenzione da mia. Ma ci sono tante ragioni. La prima, prima, che ho fatto un certo tipo di narrativa e di soggettistica impegnata sui problemi siciliani, particolarmente, oppure sui problemi politici italiani e non. E allora la donna entrava marginalmente in questo. Ci può anche essere una ragione più profonda, ed è che la Sicilia è un matriarcato. Io ho una certa avversione per questo tipo società matriarcale, perché ho visto sempre che le donne hanno comandato, e hanno comandato sempre annientando l'uomo. C'è tutta una tesi di Dominique Fernandez in "Madre mediterranea" in cui sostiene che persino la mafia nasce da questo matriarcato. È come una rivalsa che l'uomo opera fuori della famiglia. Sì. Forse la ragione profonda per cui non mi occupo della donna è questa avversione al matriarcato, al mammismo in genere».

Ma lei, Sciascia, è proprio convinto di questo matriarcato siciliano (perché è un matriarcato piuttosto sotterraneo dal momento che apparentemente la donna siciliana è succuba dell'uomo)?

«Ah, sì! Si! Apparentemente le cose stanno così, però nella realtà la donna siciliana comanda nel modo più subdolo e più negativo. Sì, io ritengo che molti mali della Sicilia siano imputabili a questo matriarcato. La donna ha sempre consigliato la viltà, la prudenza, l'opportunismo, l'interesse particolare, e l'uomo ha obbedito sempre. Ma credo che Brancati l'ha già messo in luce impareggiabilmente. In fondo questa virilità siciliana si riduce a ben poco».

Anche nei confronti della morte?

«Ad un certo punto della vita, quando non sempre, l'uomo siciliano è preso dall'idea della morte, da un'assidua contemplazione della morte. La donna siciliana la morte invece l'amministra, la gestisce, la maneggia come ne fosse immune. Nei miei ricordi (oggi forse non più) i tre giorni di lutto, il cosiddetto "visito" erano il suo teatro e la sua apoteosi».

Questo carattere matriarcale della società siciliana trova riscontro nella storia della sua famiglia, contribuendo quindi a questa sua visione?

«Indubbiamente sì. Una mia lontana proziaa, Mariuzza, nota per le sue stravaganze (dormiva fra l'altro con ìl capo poggiato su di un cuscino imbottito di salsicce), sentenziò: “Gli uomini di questa casa non servono”, convincimento che, come una regola, si è tramandato per generazioni nella mia famiglia. Le mie tre zie custodivano intatta l'eredità di questa convinzione. Mio nonno era un uomo eccezionale ed io lo ammiravo profondamente; ma di lui le zie dicevano - con una venatura di sottinteso rammarico - “Non ruba, non aiuta a rubare, contrasta la mafia”, e cosi il nonno viveva praticamente ignorato dal settore femminile della famiglie».

Ma è così anche ora in casa sua?

«No! Non lo sopporterei! Nella mia famiglia le donne (moglie e figlie intendo) vivono la loro vita in consapevole libertà. Di conseguenza, per quel che mi riguarda, in un clima di equilibrio e di rispetto reciproci. No! Il matriarcato in casa non saprei sopportarlo».

Potrebbe farmi qualche esempio di grandi matriarche siciliane?

« “I vicerè”, di Federico De Roberto, si apre che Teresa Uzada è appena morta. Ma tutti i destini dei figli saranno dominati e determinati dalla volontà di questa madre, da questo terribile personaggio assente. Ma non si possono fare esempi, indicare dei personaggi al di fuori di quelli che ci offrono gli scrittori siciliani; la forza del matriarcato sta appunto in questo: nel non scoprirsi, nel non mostrarsi. Al contrario di quello americano. Ricordo un saggio intitolato "Mom" in un numero della rivista di Sartre dedicato agli Stati Uniti. Non c'è niente di simile che riguardi il matriarcato siciliano: tranne quel che dice - ripeto - Dominìque Fernandez in “Madre mediterranea”, ma è appena una intuizione, un po' troppo, forse, svolta in psicanalisi».

Una società di tipo matriarcale c'è quindi anche in America. Se volessimo fare un paragone fra il matriarcato americano e il matriarcato siciliano, lei come lo stabilirebbe?

«Il matriarcato americano è più spietato, più sfrontato, più evidente. Quello siciliano è molto nascosto, molto subdolo, ma altrettanto tenace. Tanto per fare una differenza fra la “mom” americana e la “madre mediterranea”: ricordo un romanzo, pubblicato da Vittorini nei “Gettoni” di Morri's, se non ricordo male. La madre americana tende, appunto, ad essere la madre dell'eroe: quella mediterranea del mafioso, del camorrista. Che poi l'eroe non sia eroe è un altro discorso».

A suo avviso il matriarcato siciliano, attraverso l'emigrazione ha influito su quello americano?

«No. quello americano ha altre origini, irlandesi, quacchere».

Sciascia, lei è conservatore o progressista nei confronti della donna?

«Credendo nella famiglia come cellula prima della società, sono necessariamente un po' conservatore. Ma non lo sono nel senso che voglio che all'uomo sia permesso quello che non è permesso alla donna; vorrei che ci fosse una certa parità. Se la donna deve osservare certe regole, queste regole le deve osservare anche l'uomo».

Nei confronti della donna che lavora lei che atteggiamento mantiene?

«Sempre nel senso della conservazione familiare ritengo sia negativo il lavoro femminile. La donna, tra l'altro, non sa che perde di potere specialmente nella società meridionale. Questo processo di emancipazione femminile, questa parità che la donna sta conquistando può costituire la fine del matriarcato. Cioè, c'è speranza per l'uomo in Sicilia contro il matriarcato, oggi che la donna sembra debba essere più libera. Perché almeno si combatte ad armi pari. È un avversario che hai di fronte e non alle spalle».

Fra la donna italiana e la donna siciliana c'è stata sempre una certa differenza oltre che di atteggiamento anche di valutazione. Attualmente lei pensa che ci sia un livellamento in corso, oppure c'è ancora questa posizione più conservatrice sia della donna in quanto donna, sia della società siciliana verso la donna, sia dell'uomo siciliano verso la donna?

«Credo si stia arrivando ad un certo livellamento. Il costume, la morale pubblica sono mutati dovunque. E questo è per me deludente per quanto attinge agli aspetti civili della cosa. È come il passare la barriera. Quando una donna siciliana passa la barriera, la passa proprio nel modo più totale. C'è un rilassamento che va al di là di quello che può essere il fatto della morale sessuale. Il rilassamento della morale sessuale presuppone o si assimila ad altri rilassamenti. La Sicilia è un paese in cui non esiste la morale pubblica, ecco, e in questa misura si perde anche la morale privata. È anche un fenomeno provinciale. In una grande città la moda non è portata da tutti. In provincia è portata da tutti. Così, se è di moda avere amanti, avventure, in un ambiente socialmente più solido questa moda avrà ripercussioni minori che in un ambiente in cui ci sono strutture sociali più fragili. In effetti siamo sempre lì. La pratica della virtù, anche se ipocrita, era della classe borghese e quindi, dove non c'è stata una borghesia, dove non c'è, il costume risente più facilmente gli echi innovatori».

Lei vuole quindi affermare che la donna siciliana fa tutto in modo esasperato?

«Sì, fa tutto in modo esasperato e fa anche pesare quello che fa. Cioè, una donna, diciamo, della Val Padana fa quei servizi di casa che fanno le donne siciliane ma senza farli pesare eccessivamente, senza stare impiegata tutta una giornata a fare quei servizi. Io vedo che le donne settentrionali sono sempre più sbrigative; anche in cucina, dove cucinano più elaboratamente, si sbrigano più presto della donna meridionale, della donna siciliana».

Queste differenze lei a cosa le ascrive: a una maggiore abilita della donna del Nord?

«Le ascrivo ad una specie di politica della donna meridionale che vuole fare pesare proprio la sua fatica, il suo lavoro. È un modo, per la donna siciliana, di vendere la propria merce ad un prezzo più elevato e di esercitare il suo potere. C'è una bambina, figlia di un mio amico, che quando le domandano che cosa vuole fare da grande dice: “Voglio fare la comandiera”. Vuole comandare perché ha capito benissimo il meccanismo della faccenda».

C'è una corrente femminista in Sicilia?

«No. Il femminismo di associazione non c'è. Non mi pare ci sia neanche nelle grandi città. Questo è segno che non ce n 'è bisogno. Per quel che mi riguarda, siccome non riesco a concepire niente di simile da parte degli uomini , non lo capisco neanche da parte delle donne». Il gallismo? È anch'esso una forma di servitù alla donna (nell'accezione di Brancati) che si esaurisce nel parlare di lei: vagheggiamenti senza risultati concreti. Nel momento in cui si apre una certa libertà fra uomo e donna finisce il gallismo. In effetti il gallismo è in agonia proprio per la possibilità (con la parità) di portare alla realizzazione un fatto prima soltanto ipotizzato.

Sciascia, ma a lei piacciono le donne?

«Magari mi segneranno a dito, ma mi piacciono».

Che tipo di donna le piace?

«Un tipo di donna siciliano. E quindi viene fuori che sono un po' masochista».

In tema di masochismo: guardiamo all'Italia come ad una grande mamma. La mamma cosa chiede spesso ai suoi figli? Sacrifici, dedizione, rinunzie, in un rapporto masochistico del figlio verso la madre. Un matriarcato a livello politico, insomma: e tanto più chiede adesso che ad una crisi di valori si è aggiunta la crisi energetica.

«Io penso che sia tutta una finzione. Insomma, non ci credo poi tanto alla crisi energetica, almeno oggi. Nella prospettiva sì. potrà anche avvenire, ma oggi c'è una specie di giuoco della crisi. È un po' un giocare ai poveri. Di fatto la gente non è che ci creda poi tanto a questa crisi».

Ma ne paga il prezzo.

«Ne paga il prezzo, purtroppo, sempre quella gente che l'ha pagato e continua a pagarlo. Anche negli anni del benessere non è che la gente stesse bene, quella che oggi paga il prezzo della crisi. Giocano i governi alla crisi. In fondo i governanti hanno capito che la gente vuole sentirsi dire certe cose, vuole sentirsi chiedere dei sacrifici. Ieri sera ne parlavamo con Arbasino. In fondo quando l'uomo di governo, che è un dittatore anche se non lo è, dice: “Io vi chiedo fame, io vi chiedo lacrime e sangue, diventa popolare. Sì, è un fatto curioso, quando si chiedono dei sacrifici si diventa più popolari, e si induce il popolo a farli più allegramente che se non fossero conclamati».

È quindi ottimista sugli sviluppi di questa situazione?

«La crisi c'è. È mistificata, viene recitata. Potrebbe essere meno grave di come si va delineando. C'è questo fatto irreversibile che è l'avvento della massa. Mi pare che la massa impedisca quell'effettivo andare in avanti che viene dal pensare. È difficile sciogliere questo nodo. Abbiamo due sistemi che si fronteggiano immobilmente e sono come due recipienti al cui interno c'è un volume che cresce e potrà spaccarlo. Si spaccheranno tutti e due. Non ce ne sarà un terzo pronto in cui recuperare quello che resta dell'uno e dell'altro. Questo rende le prospettive della crisi d'un orizzonte assolutamente oscuro».

Quanto lei afferma adesso, non è in contraddizione con quanto ha detto prima sul “gioco della crisi”?

«No. Non c'è contraddizione, perché ci sono due livelli, uno in cui la crisi c'è veramente, uno in cui si recita. Il giuoco della crisi. Ma giocando la crisi c'è sul serio, specialmente la crisi dell'Europa che così giocando si riduce ad una pura espressione geografica».

Quindi, lei non crede all'avvenire di un'Europa unita?

«Non solo nell'avvenire, oggi come oggi. L'Europa ha troppa storia sulle spalle e ogni popolo europeo ha troppa storia che è diversa da quella del suo vicino. E allora diventa molto difficile. Certo, l'unità europea è nelle mie aspirazioni. Ritengo che De Gaulle sia stato, tutto sommato, un grande uomo; il fatto è che voleva fare un'Europa a modo suo, in cui ci fosse la supremazia della Francia, il prestigio culturale della Francia. E questo era anche giusto. Però penso che De Gaulle abusasse in questo senso. Aveva comunque idee chiare, una visione molto chiara. L'avere scavalcato tutti intavolando rapporti con la Cina è stato un gesto da grande politico. E difatti la Cina è oggi il paese, la grande potenza più interessata ad un'Europa unita. E De Gaulle aveva previsto questo».

Ma se non la facciamo quest'Europa, che possibilità abbiamo di sopravvivere?

«Ma non credo che si possa sopravvivere. L'Europa praticamente è stata divisa a Yalta, e questa divisione funziona ancora. In effetti l'equilibrio, quello che noi chiamiamo l'equilibrio, la pace, si fonda su questa divisione che le grandi potenze hanno fatto a Yalta nel '44 . Non c'è altro: questa è la zona di influenza americana, quella la zona di influenza sovietica. Se si turba questo equilibrio può anche essere la guerra. DI fronte a questo pericolo è preferibile tenerci questo equilibrio, per quanto difettoso e per quanto terribile esso sia».

Il nuovo libro che sta scrivendo ha attinenza con questi problemi?

«No. questo libro si svolge nel mondo cattolico-politico italiano. È un po' un "contesto" sotto specie cattolica. Prende spunto dai democristiani che fanno gli esercizi spirituali. Ero in un albergo e c'erano questi esercizi spirituali di un gruppo di politici cattolici. Gli esercizi si svolgono secondo le prescrizioni ignaziane».

Ha già un titolo?

« “Esercizi spirituali”, appunto. Non si parla solo della Democrazia cristiana, si parla di cattolici che fanno la politica».

Per questo libro le verrà addosso tutta la Democrazia cristiana, come è accaduto da parte dei comunisti per il “Contesto”.

«Non credo. I cattolici sanno che solo il silenzio può uccidere un libro. Ormai hanno capito che solo le scomuniche servono a farli leggere».

«Enzo e Sciascia parlavano la stessa lingua e si ritrovarono nel Partito Radicale». Francesca Scopelliti, compagna del conduttore, racconta il rapporto tra Enzo Tortora e Leonardo Sciascia tra letteratura e giustizia. Valentina Stella su Il Dubbio il 12 gennaio 2021. Leonardo Sciascia è stato tra i pochissimi a credere senza dubbio alcuno nell’innocenza di Enzo Tortora. Il loro rapporto di amicizia aveva radici profonde: era iniziato parlando di letteratura e si concluse discettando di malagiustizia. Ne parliamo con Francesca Scopelliti, storica compagna del conduttore, giornalista e politico radicale e presidente della Fondazione per la giustizia Enzo Tortora.

Come nacque l’amicizia tra Enzo Tortora e Leonardo Sciascia?

«Quando Sciascia pubblicò il libro “Gli zii di Sicilia”, Enzo gli scrisse un biglietto perché aveva trovato il testo davvero brillante. Enzo lo faceva spesso: quando un libro lo colpiva in modo particolare cercava l’indirizzo dell’autore e gli mandava un biglietto di apprezzamento. Sciascia non conosceva Enzo, perché credo non guardasse la Rai e forse faceva bene. Però il messaggio di Enzo gli procurò un’alta considerazione da parte delle sue figlie. E da lì iniziò il loro rapporto».

Sciascia è stato uno dei pochi a credere fin da subito nella innocenza di Tortora. Quanto è stato importante questo per Enzo?

«Ha significato tantissimo. Appena fu arrestato, Enzo subì una violenta e feroce campagna mediatica. Anche giornalisti quotati non persero tempo ad accusarlo sposando pedissequamente e acriticamente la tesi della Procura di Napoli. Quindi quando scrivevano Giorgio Bocca, Indro Montanelli, Enzo Biagi, Leonardo Sciascia per lui erano boccate di ossigeno. Enzo fu molto riconoscente a Sciascia. Entrambi parlavano un linguaggio molto simile perché, pur avendo una derivazione diversa, erano due uomini di grande cultura: Enzo era un liberale, Sciascia veniva da una esperienza politica di candidatura con la sinistra. E poi invece si ritrovarono insieme nel Partito Radicale. Un giorno Sciascia venne con la moglie a casa nostra a Milano: dopo pranzo lui ed Enzo rimasero ore a parlare; mi dispiace non aver registrato la loro conversazione perché sarebbe stata una bella testimonianza per i giovani di oggi».

Oggi chi è rimasto a difendere le garanzie giuridiche nel mondo dell’informazione?

«Piero Sansonetti perché ha una storia politico-culturale che gli fa cogliere molte sottigliezze delle nostre disfunsioni. E poi voi del Dubbio e non lo dico per piaggeria: conosco il vostro editore e so bene il valore e la competenza specifica che ha una categoria professionale come quella degli avvocati nella direzione di un giornale che vuole tutelare le garanzie di uno Stato di Diritto. Quindi viva il Dubbio».

Dall’altra parte invece abbiamo Travaglio.

«Se nell’87 ci avessero fatto il tampone sul garantismo saremmo risultati positivi. Non a caso in quell’anno il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu vinto con oltre l’80% di sì. Oggi quello stesso tampone risulterebbe positivo al virus del giustizialismo, perché mancano gli anticorpi. C’è ormai nell’opinione pubblica una miopia nel vedere oltre quello che dichiara certa stampa sulle inchieste dei magistrati, oltre a quello che dice Travaglio. I cittadini non riescono a crearsi una coscienza critica di civiltà giuridica perché influenzati da giornalisti come Travaglio, che è un j’accuse continuo».

A proposito di J’accuse, per molti Marco Pannella fu lo Zola d’Italia che denunciò il caso Tortora. Quanto sono urgenti in questo momento le battaglie radicali per una giustizia giusta?

«Se noi siamo in questa situazione è perché la politica non ha avuto il coraggio di affrontare una riforma strutturale della giustizia, soprattutto dal punto di vista penale. Non è mancato solo il coraggio, ma proprio la volontà di cambiare le cose: recentemente c’è stato il caso Palamara che ha aperto un vaso di Pandora e bisognava approfittarne di questa occasione per fare un profondo lavoro di autocritica e riformare seriamente la magistratura e il sistema giustizia. Quante volte abbiamo sentito Marco Pannella criticare i sistemi di elezione al Csm? Quante volte i radicali hanno denunciato la questione degli incarichi fuori ruolo dei magistrati? È passato, allora come oggi, tutto sotto silenzio; adesso tutti sono soddisfatti perché Palamara ha pagato da solo, senza riuscire a portare in un processo pubblico i magistrati che facevano parte del suo sistema. La magistratura come sempre si è voluta autotutelare e la politica non si è sdegnata abbastanza. L’unico che fa battaglie garantiste è Matteo Renzi».

Forse però Renzi ha un rapporto complicato con il garantismo, visto che voleva come ministro della Giustizia Nicola Gratteri.

«Quella fu una grossa gaffe di Renzi provocata, io penso, da quella campagna stampa che ancora oggi accompagna la figura di Gratteri come grande magistrato impegnato sul duro fronte della lotta alla ’ndrangheta. Io non vorrei più porte girevoli tra magistrati e politica».

Vogliamo parlare anche di Pietro Grasso?

«Ricordo che le negò la sala del Senato per presentare “Lettere a Francesca” di Tortora. Grasso ha offeso la memoria di Tortora dicendo che l’iniziativa non rientrava nelle finalità del Senato. Fu una giustificazione allucinante. Poi lui lì parlava non come Presidente del Senato ma come magistrato. È un vizio della nostra politica sponsorizzare magistrati per ricoprire importanti ruoli politici forse per tenerseli buoni».

Sciascia scrisse: Tortora “parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”. E invece è rimasta tale?

«L’espressione “Speriamo che non sia una illusione” l’ho voluta incidere sulla colonna che raccoglie le ceneri di Enzo al cimitero monumentale di Milano. Purtroppo dopo 32 anni dalla morte di Enzo ahimè la situazione è addirittura peggiorata. Per presentare il libro ‘Lettere a Francesca’ ho girato davvero tutta Italia: se si parla di Enzo sono tutti d’accordo nel dire che è stato ucciso dalla malagiustizia. Ma se si parla di altre inchieste questa consapevolezza comincia a svanire: e invece stiamo vivendo un momento in cui grandi inchieste che hanno coinvolto personaggi della politica, come Mannino o Bassolino, hanno bruciato intere carriere politiche. Poi dopo decenni gli imputati risulteranno innocenti. E allora io mi chiedo: ma può la magistratura ribaltare le sorti politiche di un Paese, prima rivoluzionando la vita di un personaggio pubblico e poi non pagando per l’errore di averlo perseguitato ingiustamente per anni?»

·        Lisetta Carmi.

Antonio Gnoli per “la Repubblica – Robinson” il 30 marzo 2021. Nel febbraio scorso Lisetta Carmi ha compiuto 97 anni. Ci conosciamo da anni con Lisetta e da anni vive a Cisternino, un paese della Val d' Itria in Puglia. Ma con la mente è ovunque. È nei luoghi che ha visitato, in quelli in cui è vissuta; è nelle persone che ha conosciuto, nei libri che ha letto, nella dedizione e compassione che ha, potrei dire da sempre, accompagnato i suoi tanti lavori. È stata eccellente pianista, viaggiatrice instancabile, fotografa meravigliosa e, infine, ha voluto reinventarsi in una sorta di dialogo religioso, aprendo un ashram in Puglia. Oggi Lisetta vive appartata. La pandemia non ne ha scosso le certezze e tra queste la fiducia innocente verso le cose e il mondo. «Le parole», dice, «dovrebbero essere stelle cadenti su cui poter esprimere desideri». Le parole di Lisetta sono semplici, vanno dritte al cuore di chi le ascolta. Essenziali e partecipi come le foto. Ho sfogliato con una certa emozione il catalogo della mostra (a cura di Luigi Fassi e Gianni Martini) in corso al museo Man di Nuoro. Sono foto bellissime che Lisetta scattò in Sardegna in diversi momenti tra gli anni Sessanta e Settanta.

Che ricordo hai di quella terra?

«Il ricordo non è offuscato dagli anni che sono trascorsi. È come se l' isola conservasse ancora vivida la sua presenza originaria: barbarica e leale, sospettosa verso gli intrusi e generosa, una volta che ne fai parte. La curiosità per quella terra mi venne leggendo il resoconto che una maestra ne aveva fatto, in una serie di articoli per Il Mondo di Pannunzio. Lei si chiamava, ma credo sia ancora viva, Maria Giacobbe. In quegli articoli raccontava la vita dell' isola, i problemi che gli abitanti dovevano affrontare, la bellezza dei luoghi, ma anche i primi tentativi di speculazione. In molte case non c' era acqua, né fogne nei paesi. Fu soprattutto un articolo a colpirmi. Parlava di un suo alunno, che non aveva neanche le scarpe tanto erano difficili le condizioni familiari. Era un bimbo con otto fratelli. Sul tema, che la maestra aveva dato, scrisse: "Che bella la luna è libera e non ha nove figli". Quel foglio macchiato di unto, rivelava una sensibilità, forse un talento».

A quel punto che facesti?

«Sul momento niente, oltretutto da quelle considerazioni erano passati alcuni anni. Ma Giovanni Piras, quel bambino dai capelli rosso fuoco, mi era rimasto impresso. Dov' era, cosa faceva? Riuscii a contattare la maestra e a farmi dare l' indirizzo dove abitava la famiglia Piras. Vivevano a Orgosolo. Spedii dei pacchi dono. Cui seguì uno scambio di lettere. Nel dicembre del 1962 partii per la Sardegna. Volevo conoscere quella terra, il mondo che aveva generato un bambino come Giovanni».

Tu già fotografavi?

«Avevo iniziato un paio di anni prima, per curiosità. Accadde che Leo Levi, un amico etnomusicologo, mi invitò ad accompagnarlo in Puglia, a San Nicandro Garganico. Voleva registrare alcuni canti ebraici. La cosa mi incuriosì e a quell' epoca avevo praticamente chiuso con il mio lavoro di concertista. Acquistai una piccola macchina fotografica, nella convinzione che valesse la pena raccogliere qualche "ricordo" da una terra bellissima. Quelle furono le mie prime fotografie, cui sarebbero seguite tutte le altre fatte in Sardegna».

Non sembrano neanche foto scattate da una che è all' inizio.

«Penso che la sensibilità che le mie mani avevano per il pianoforte si sia trasmessa allo sguardo. Anche un paesaggio, un volto, una situazione somigliano a una musica che va interpretata».

E dalla Sardegna che suoni ricavasti?

«Alcuni belli, altri stridenti e duri. Pochi giorni dopo che giunsi a Orgosolo ci fu, nelle campagne circostanti, un conflitto a fuoco dove un carabiniere restò ucciso. Fino ad allora mi ero limitata a fotografare il paesaggio con le sue bellissime montagne, qualche volto e il paese, una specie di cratere lunare irto di sassi e rocce. Pochi giorni dopo ci fu il funerale a Nuoro del militare. Fotografai l' esterno della chiesa, qualche funzionario infreddolito e in primo piano, ricordo, un bambino che scendeva dal sagrato. Sembrava uscito da un film di Rossellini o di De Sica. E fu tutto».

Che percezione avevi di quel mondo?

«Che fosse restato, come lo vedevo, lo stesso da millenni. Le donne vestivano di nero e gli uomini calzavano stivali, indossando la giacca da caccia e la coppola in testa. Erano le uniformi della tradizione. Ricordo, e la cosa mi colpì, che nella piazza caduti in guerra, accanto a un istituto professionale femminile, fotografai un murales di Antonio Gramsci».

Hai anche fotografato la rottura con la tradizione.

«A cosa ti riferisci?».

Alle tue foto al nuovo insediamenti edilizio di Porto Cervo.

«Mi dissero che sulla Costa Smeralda stavano nascendo nuove case. Qualcuno aggiunse per ricchi. Effettivamente trovai costruzioni volute dall' Aga Khan tutte in uno stile pseudo antico. Mi pare fosse il 1964. Ma poi tornai nel 1976 per vedere gli effetti di quella speculazione».

E cosa trovasti?

«L' insediamento era stato quasi del tutto completato. Mi domandai se la ricchezza avesse il diritto di impossessarsi di un paesaggio così bello e innocente. Mi dispiaceva che i sardi avessero venduto le loro terre vicino al mare perché qualcuno vi realizzasse villaggi vacanza. Pensai alle tante famiglie di pastori, di contadini e di piccoli artigiani tenute a un livello di mera sopravvivenza. Non è che la cosa mi andasse a genio».

E la visita alla famiglia Piras?

«Fu un' esperienza straordinaria che si è protratta nel tempo. Sia Giovanni che la madre vennero a trovarmi in seguito a Genova. E io accolsi per alcuni anni una delle sorelle di Giovanni, la Peppa. Durante il viaggio in nave incontrai Umberto Eco, che conoscevo bene perché era amico di mio fratello Eugenio. E Umberto restò colpito dalla bellezza di questa giovane, la cui treccia nera divideva perfettamente a metà la schiena».

A proposito di Eco, fu lui a farti avere un premio importante.

«Sì, il premio Niépce che andai a ritirare in Olanda. Mi emozionò la motivazione che scrisse Umberto. Diceva che il riconoscimento era per il mio lavoro e in particolare per una serie di foto che avevo fatto a Ezra Pound. Precisò che quei "ritratti" raccontavano molto più Pound che i centinaia di articoli che erano stati scritti su di lui».

Effettivamente erano foto che rivelavano qualcosa di segreto.

«Di rarefatto e unico. Andai a fotografarlo nella sua casa di Sant' Ambrogio, vicino a Rapallo. Non avevo appuntamento. Seppi solo che lì abitava un vecchio e importante poeta. Bussai più volte alla porta e, quando stavo per andarmene, lui aprì. Vidi una figura spettrale, lunga e asciutta, con i capelli irti, la barba e il volto corrucciato. Scattai varie foto. Sembrò ignorare tutti i miei movimenti. Lo sguardo fisso, altrove. In quegli istanti di presenza restò in silenzio. Poi rientrò in casa e accostò lentamente la porta. Ebbi la sensazione che fosse rimasto lì dietro. Ne sentivo il respiro. Fu tutto. Pochi interminabili minuti che equivalsero a una piccola eternità».

A che anno risalgono quelle foto?

«Era il 1966. L' anno prima avevo cominciato la serie sui "travestiti" di Genova».

Anche quelle sono foto straordinarie. Come ti venne in mente di fotografarli?

«All' inizio fu molto complicato, perché è difficilissimo entrare nel loro mondo, nelle case dove vivono, stabilendo dei rapporti veri. C' era molta diffidenza, soprattutto perché non volevano essere trattati come un fenomeno da baraccone».

Come riuscisti a vincerne le resistenze?

«Una persona che conosceva bene quel mondo mi invitò a una loro festa. Andai, con una piccola macchina fotografica. Trascorsi la serata in casa di uno di loro. Non ricordo se era un compleanno, ma c' erano dolci, del vino e un grammofono che suonava canzoni strazianti. Qualcuna ballava con il rispettivo fidanzato, qualcun' altra era mollemente distesa sui divani. Chiesi il permesso di scattare qualche foto. Cominciò così un lungo rapporto che andò avanti per anni. Mi affezionai ad alcuni di loro. Così libere e così indifese. Portavano nomi esotici. La "Gitana" era stata l' amante di De Pisis, la "Morena" aveva ispirato De André per Bocca di Rosa, un giorno mi confessò che avrebbe desiderato farsi suora. Ma questo te l' ho già raccontato. E poi c' era la Nevia, conturbante e ambigua come un androgino. Credo che sia l' unica ancora in vita».

Perché hai lasciato la musica per la fotografia?

«Non ho una risposta convincente. Potrei dirti che nel cambio non c' ho rimesso. Potrei aggiungere che forse ero stanca di girare l' Europa a fare concerti. Alla fine credo sia stata una questione di libertà. Una pianista deve rispondere a molte persone, seguire un programma, esercitarsi tutti i giorni, deve accarezzare quel demone che ha dentro come fosse il gatto di casa. Ho preferito la fotografia perché rispondevo solo a me stessa e alla mia coscienza».

Una coscienza politica?

«Anche politica. Ho girato il mondo. Sono stata nelle favelas venezuelane, in Messico, in Irlanda, a Belfast durante il conflitto con gli inglesi, in Afghanistan, tra i provos di Amsterdam e nei sotterranei di Parigi. Ho sempre cercato la stessa cosa: testimoniare il bello e il brutto della vita».

Ci sei riuscita?

«C' ho provato, ma non sta a me dire quanto mi sia avvicinata alla verità. So però che la verità nasce da un bisogno di giustizia».

Lo sai perché?

«Perché molte ingiustizie le ho vissute sulla mia pelle. Le mie origini sono ebree e so bene cosa è stato sopravvivere alla guerra, alle persecuzioni abbattutesi sulla mia famiglia, alla fuga. Fui espulsa a 14 anni da tutte le scuole d' Italia. Le ingiustizie mi hanno avvicinato al partito comunista. Ma negli anni che l' ho frequentato ho capito quanto forte fosse il peso dell' ortodossia e del conformismo».

Quando te ne sei liberata?

«Furono rivelatori alcuni giorni che passai alle Frattocchie, dove il Pci organizzava degli incontri ideologici. Nel mio caso si trattava di corsi di aggiornamento per giovani comuniste. Fui istruita a dovere insieme ad altre compagne. Alla fine il partito ci regalò il libretto Stalin e le donne. Fu l' assurda ciliegina su una torta indigeribile. Credo siano stati i sei giorni più noiosi e deprimenti della mia vita. Alla fine restituii la tessera del partito».

L' ultimo capitolo della tua vita è stato aprire un ashram in Puglia.

«Non vorrei darti l' impressione di una donna che sbanda a ogni curva che incontra. Ma questa esperienza religiosa, per me fondamentale, è nata dopo un viaggio in India nel 1976. Fu lì che incontrai il mio maestro spirituale».

Come lo conoscesti?

«I fedeli lo chiamavano Babaji. Ero a Delhi e sentii l' impulso di andare a trovarlo. Partii in autobus per Jaipur. Restai con lui quasi un mese, diceva: sii felice, se sei felice anche il mondo lo è. Ecco, l' ashram in Puglia è stato aperto con questo spirito».

In questo periodo come vivi?

«Ho avuto qualche problema di salute. Un pacemaker da riattivare. Ora va meglio. Esco di rado. Oltretutto sto ancora aspettando che mi facciano il vaccino. Non è giusto che a 97 anni sia ancora in lista di attesa. Sono vecchia, amico mio. Ma anche felice di poter tornare con la memoria agli anni in cui mi sembra di aver fatto qualcosa per me e per gli altri».

·        Luciano Bianciardi.

Massimiliano Castellani per "Avvenire" il 17 settembre 2021. Sarò sempre grato a quella penna di gran "classe" (accezione che poi approfondiremo) di Pino Corrias per avermi fatto scoprire e poi innamorare dei libri di Luciano Bianciardi attraverso le pagine di Vita agra di un anarchico (Baldini & Castoldi, 1993). Da quel libro in poi, ho letto tutto ciò che la grande mente di Maremma - Bianciardi nacque a Grosseto nel 1922 - era riuscito a scrivere in 49 anni di vita assai agra e tormentata (è morto a Milano il 14 novembre 1971). Per una volta, sfrutto un assist giocabile di Vittorio Feltri in merito a un suo scritto sul presunto "irregolare" delle patrie lettere, Giuseppe Berto. Così non definirò più Bianciardi il "più irregolare" tra gli scrittori del nostro '900, in quanto «i grandi artisti - scrive Feltri - non seguono le regole, le dettano». E Luciano Bianciardi è stato un grande artista della parola, lasciandoci una perla di romanzo come La vita agra (consigliato a tutti i liceali), insegnandoci da "storico militante" del Risorgimento con La battaglia soda (idem come sopra) e scavando in profondità con il Lavoro culturale nelle viscere dell'Italia del suo tempo. Fino ad illuminarci, da saggista e scrittore di giornali e settimanali, con la torcia dei suoi cari e sfortunati minatori di Ribolla (43 morti nella strage del 4 maggio 1954), alla stregua di un altro classe 1922, Pier Paolo Pasolini. E come Pasolini, Bianciardi è stato anche un "Poeta del gol", distinguendosi da attento osservatore della nostra Repubblica fondata, ieri come oggi, sul pallone. Nel derby dialettico del "calciolinguaggio" con Pasolini, Bianciardi scelse di giocare sul campo della provocazione, sulla fascia della naturale predisposizione talentuosa all'antiretorica. Così, si guadagnò la stima illimitata e la convocazione di Gianni Brera, allora direttore del "Guerin Sportivo" nella stagione che andava dal 28 settembre del 1970 al 15 novembre del '71 (per la cronaca, la stagione dell'11° scudetto dell'Inter). Bianciardi dettava le regole del gioco con una rubrica settimanale di botta e risposta alle lettere dei lettori. L'ultima missiva a cui rispose venne pubblicata il giorno dopo la sua morte, di cui Brera scrisse: «Per un morbo sicuramente insorto da una sua prostrazione sentimentale». E quegli scritti pieni dello spirito soavemente logico, quanto velenoso - "bianciardiano" - erano già stati raccolti da ExCogita, la casa editrice della figlia dello scrittore, Luciana Bianciardi, sotto il titolo corrosivo Il fuorigioco mi sta antipatico. Titolo di quella storica rubrica che ha stregato persino il tecnico - in questo caso assai irregolare - l'argentino Marcelo Bielsa, alias "El Loco" ("Il pazzo"). L'attuale mister del Leeds. nel periodo in cui allenava in Francia - il Lille, nel 2017 - aveva ottenuto dal monumentale quotidiano sportivo "L'Équipe" una rubrica inequivocabilmente bianciardiana fin dalla sua intitolazione: Il catenaccio mi sta antipatico. E come Bianciardi, anche Bielsa aveva riproposto la formula delle10 domande dei lettori (anomimi o celeberrimi, comprese donne "calciofile" del calibro di Sonia Gandhi - lettera spedita da Delhi - o l'attrice Fanny Ardant) per altrettante risposte da recapitare al mittente di turno. Uno scrigno di filosofia di cuoio quella dell'allenatore di Rosario che Marco Ciriello ha raccolto nell'omonimo Il catenaccio mi sta antipatico ( Magic Press Edizioni, 2017). Un omaggio a quello scialo di talento e genialità che è Marcelo Bielsa del quale Ciriello sottolinea: «Dopo quelle di Carmelo Bene, le sue conferenze stampa sono la massima espressione teatrale che conosca». Il milanista vanbastiano e bastian contrario Carmelo Bene era uno dei più fedeli lettori della rubrica di Bianciardi, al quale chiese in via epistolare: «Se Monzon li leggesse, gli piacerebbero i romanzi di Carlo Cassola?». Bianciardi ribattè caustico all'istrionico teatrante: «No di certo, Monzon salirebbe in bicicletta e correrebbe sul filo dei quarantacinque orari per arrivare presto a Donoratico (Livorno) e lì farebbe molta paura al grande maremmano; anche se poi non avrebbe l'ardire di sfiorarlo con un sol dito... Pace e Bene». Risposta da mattatore, quanto Vittorio Gassman che ritroviamo tra le lettere degli uomini illustri indirizzate a Bianciardi e ripubblicate ora nella raccolta Potevo fare il trequartista. Nella lettera il coscritto Gassman («come me Vittorio, lei è del 1922») gli chiedeva lumi in merito alla categoria parakantiana dei «campioni tristi». E dopo aver passato in rassegna mezzo universo olimpico, Bianciardi eleggeva come «il vero grande triste», il "Campionissimo", «Fausto Coppi: è forse stato il primo grande atleta a condividere la sorte (triste) dell'uomo contemporaneo. Badi bene Gassman, non soltanto del campione. Dell'uomo. E la pagò cara». Di quella tristezza coppiana, frutto della passione anarchica e della temerarietà dei sentimenti, Bianciardi portò le cicatrici impresse nell'anima. «Luciano è morto di sensi di colpa, prima di morire, ucciso dall'alcol e dai barbiturici», ha confessato Maria Jatosti. La poetessa, «la mia contessa polacca», l'ultima compagna di vita che gli ha dato Marcello (figlio che porta il cognome della madre) e che sostituì quella moglie che Bianciardi, con i suoi demoni, aveva lasciato a Grosseto, assieme ad altri due figli, Ettore e Luciana. Ma questa è, un'altra, "lunga storia d'amore", come canta il suo amico Gino Paoli, che chiede all'«Egregio Cavalier (antiquo), alcuni quesiti al suo parere illuminante, senza bolletta Enel per fortuna», in merito proprio «all'abolizione del fuorigioco». La replica: «Carissimo Gino: il fuorigioco mi sta antipatico, come tutte le regole, che limitano la libertà di movimento e di parcheggio. Vorrei che fosse abolito, anche per rendere meno monotono il gioco e gli schemi che gli allenatori definiscono "tattici"». Questa abolizione rimane un'utopia, come molte delle idee, spesso anche profetiche, che Bianciardi riuscì ad esprimere, anche negli spazi allora ristretti della stampa sportiva, che come Brera, aveva promosso al rango di massima serie. «Non esiste una stampa sportiva e quindi di serie B. Esiste il giornalismo e basta. La carta stampata quotidiana che si occupi di crisi sul Canale di Suez o di Milan-Cagliari non fa differenza». Lanci da trequartista puro che avrebbe meritato la maglia n. "10" della Fiorentina. La squadra che amava da grossetano che tornava a sentirsi toscano e di fede viola «solo quando gioco fuori casa, per esempio fra i longobardi di Milano», spiegava nella lettera di risposta all'attore Gianrico Tedeschi che lo solleticava sulla parola «tifo». Sono dribbling filosofici quelli di Bianciardi, dotato di quella «classe» che riconosceva a Gassman come a Mazzola, e di uno «scatto» artistico potente quanto quello che rintracciava in Gigi Riva e De Chirico. Epigoni amati e tratteggiati con l'ironia di chi, oltre alla Nazionale del fiorentino d'adozione Ferruccio Valcareggi, se ne era fatta una tutta sua, e di cui si sentiva il ct in pectore. La Nazionale degli scrittori a cui si veniva ammessi dopo previa votazione breriana. Pertanto il massimo il «dieci» pieno per Bianciardi spettava solo a Italo Calvino. «Nove» e ricambio l'assist feltresco: lo diede agli amati Giuseppe Berto, ma anche a Vasco Pratolini e Carlo Cassola, i quali sopravanzano di un punto, Mario Soldati, Dino Buzzati e Alberto Moravia. Bocciatura per l'inviso Alberto Bevilacqua per cui Bianciardi nutriva la stessa antipatia che gli suscitava il pugile Nino Benvenuti. E se il suo «Direttore» Giuànn Brera, del quale ammirava, forse senza troppa convinzione, il romanzo Il corpo della ragassa, era stato accostato sarcasticamente da Umberto Eco al «Gadda spiegato al popolo» degli stadi, Bianciardi invece ambiva pubblicamente ad emulare il "sommo lombardo" del Carlo Emilio, autore che aveva letto come pochi altri. Anche se poi, sempre sulle colonne della sua rubrica ammetteva candido: «Se non fossi Bianciardi vorrei essere Bertrand Russell, il cervello più lucido del nostro secolo». Volava alto il potenziale trequartista, che, tra un romanzo, una traduzione, un saggio e un elzeviro di denuncia contro quel boom economico che si sarebbe rivelato un boomerang con danni permanenti, poi riplanava su un terreno di gioco, come quello del suo «vero derby»: Piombino-Grosseto, del 1953. Una sfida da Strapaese in cui però lo scrittore già intravide tutti i germi futuri della dominante follia da ultimo stadio che, cinquant' anni fa, aveva già messo in fuorigioco: «Ci furono allora anche alcune revolverate fra le opposte e maremmane fazioni. E sui deprecati eccessi dei tifosi di oggigiorno torneremo un'altra volta...». Allora alla prossima, caro Bianciardi.

·        Luigi Pirandello.

Piero Melati per “il Venerdì di Repubblica” il 14 aprile 2021. “P. RANDELLO”: questa è la storia di un nomignolo velenoso, affibbiato dallo scrittore calabrese Corrado Alvaro al siciliano Luigi Pirandello, l'autore italiano moderno più famoso nel mondo. Il nomignolo divenne popolare nei circoli culturali già agli albori del fascismo: in origine fu uno scherzo tra colleghi, niente più che una battuta da corridoio. Ma presto lo scrittore divenne il personaggio di vignette "virali", come si direbbe oggi, apparse a raffica sul periodico antifascista Il becco giallo prima che fosse costretto alla clandestinità nel 1926. "P. Randello" era spesso la didascalia di disegni che ritraevano lo scrittore in camicia nera e fez. In una, accanto a un falò dei suoi libri, c'è Mussolini che gli porge un manganello: «Adesso, giovanotto, smetti di scrivere fesserie e fatti onore». Ma Pirandello fu davvero un fascista convinto? La critica successiva ne ha fatto un caso da Così è se vi pare. Si è parlato di una "adesione" al regime più formale che reale, dettata da questioni di mera convenienza, infine naufragata in una delusione finale. Uno slancio, insomma, poco condiviso dalla "persona" Pirandello, e invece cucito addosso al "personaggio" pubblico dello scrittore di grido, magari per bieca propaganda. Ora il "personaggio" Pirandello ha trovato un nuovo autore. Si tratta di un ricercatore e critico letterario, Piero Meli, che condivide con il drammaturgo la patria agrigentina, e che ha pubblicato un libro (Luigi Pirandello. «Io sono fascista», Salvatore Sciascia editore) con l'intento di riscriverne la biografia. E per farlo, ha condotto una inchiesta lunga quattro anni, tra ricerche di documenti inediti e giornali dell'epoca. «Da questa mia trincea agrigentina» aggiunge, come fosse una guerra, «perché oggi la critica genuina non esiste più». Le sue conclusioni? «Ho smentito le interpretazioni riduzioniste che del fascismo pirandelliano hanno dato Sciascia, Camilleri e lo stesso Alvaro» sostiene Meli. «Pirandello, al contrario, fu fascista fino al midollo, lo fu prima di prendere la tessera del partito e non lo fu mai per opportunismo. Non lo sostengo io, lo dicono i fatti». In questa storia c'è una scena madre. Anzi, un gesto teatrale. «Pirandello entra in scena proprio nel momento giusto, quando tutti pensano invece che sia il momento sbagliato. È il 17 settembre del 1924. Il cadavere di Matteotti incombe sul governo; il Paese è inorridito. Mussolini è isolato; il fascismo perde pezzi e sembra irrimediabilmente sull'orlo della crisi, quando il cinquantasettenne scrittore siciliano irrompe nella mischia, platealmente, con una lettera al Duce nella quale chiede di essere iscritto al Partito fascista». Questo l'incipit del volumetto di Meli. L'autore non potrebbe essere più chiaro: Giacomo Matteotti, segretario del partito socialista, era stato assassinato a Roma il 10 giugno, la situazione politica era quella descritta, Pirandello mise la sua autorevole adesione al fascismo su una bilancia dove dall'altra parte pendeva un omicidio politico. A questo punto, come in un giallo, entrano in scena altri due personaggi, il dottor Jekyll e mister Hyde. «Leonardo Sciascia, per liquidare il fascismo di Pirandello, afferma che un conto è la biografia, un altro l'opera» dice Meli. «Così avremmo un Pirandello bifronte, come il personaggio di Stevenson. E comunque, per Sciascia, il fascismo pirandelliano fu fittizio e dettato da opportunismo. Non è vero neanche questo». Dopo avere studiato giornali e discorsi di quel 1924, il critico-segugio sostiene che nell'autore di il fu Mattia Pascal di opportunismo non vi era l'ombra. È vero che Mussolini avrebbe voluto nominarlo al Senato immediatamente dopo l' endorsement, ma Pirandello rifiutò più volte. Fino ad aprire un personale contenzioso con il regime. Disse di no, ad esempio, all'uso del teatro per fare propaganda. «Era un fiero sostenitore dell'arte per l'arte, estranea alla politica» spiega  Meli. Ribadì sempre di non volere cariche («farò del bene alla Patria con la mia opera") e proprio per questo, alla lunga, i gerarchi gli preferiranno D'Annunzio. Tuttavia rimase fascista, tanto che il governo lo appoggiò per la conquista del Nobel per la letteratura del '34. «Fece un tour in Svezia, Finlandia e Danimarca a spese del regime, su consiglio del ministro Gentile, per preparare il terreno». Dopo Sciascia, e sempre a proposito del Nobel, un altro grande siciliano —Andrea Camilleri — ha spezzato una lancia in favore di Pirandello. Camilleri ha sostenuto che lo scrittore non tenne discorsi ufficiali dopo la premiazione proprio per evitare di dover elogiare Mussolini. Meli smentisce: «Mi sono procurato il volume di Fiammarion con i discorsi dei Nobel citato da Camilleri come prova. Manca quello di Pirandello, è vero, come ne mancano tanti altri. Ma solo perché, come poi avrebbe fatto anche Montale nel 1975, ci si poteva limitare a tenere un più informale "discorso del banchetto". Durante il quale, come scrissero tutti i quotidiani italiani e francesi, Pirandello brindò ugualmente a Mussolini e fece pubblica professione di fede». «Corrado Alvaro, poi, sembra Paolo di Tarso, fulminato sulla via di Damasco» aggiunge Meli. L'uomo che aveva coniato la battutaccia "P. Randello" alla fine abiurò («roso dai sensi di colpa» secondo il ricercatore) in favore del drammaturgo. Fino a sostenere che il suo testamento spirituale rappresentasse una estrema rottura col fascismo: «Volle essere seppellito ignudo» scrisse Alvaro, «cremato e senza funerali di Stato, per non dovere indossare la camicia nera e impedire così un discorso del Duce». Peccato, chiosa Meli, che, come ha dimostrato il figlio, quel testamento risalisse a una ventina di anni prima. Nell'ultima parte del libro, Meli ha raccolto gli «scritti sconosciuti» di Pirandello. Sono editoriali e interviste che, attraverso le contraddizioni di un grande scrittore, ci ripropongono an-che la vexata quaestio di un legame mai risolto: quello tra il fascismo e gli italiani.

Uno, nessuno e fascista: così Pirandello appoggiò il regime. Lorenzo Catania su La Repubblica il 24 marzo 2021. Il 17 settembre del 1924, nel momento storico in cui Mussolini appariva isolato e il fascismo perdeva colpi in seguito al rapimento e all'assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, Luigi Pirandello scriveva al Duce una lettera in cui chiedeva l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Con il peso della sua notorietà internazionale il drammaturgo veniva in soccorso del regime non ancora consolidatosi. Gli organi e la stampa di opposizione si mostrarono disorientati di fronte a un gesto che apparve estemporaneo e autolesionistico. In realtà la coraggiosa decisione di Pirandello era coerente con la biografia intellettuale di chi, figlio di un ex garibaldino, disprezzava la classe politica "liberale", rivelatasi non all'altezza delle idee e dei propositi di rinnovamento che avevano guidato il moto risorgimentale, e riteneva, con accenti non privi di qualunquismo, la democrazia, cioè il governo della maggioranza, la causa vera di tutti i mali, come si legge in un passo del romanzo "Il fu Mattia Pascal" ( 1904): " Perché, quando il potere è in mano d'uno solo, quest'uno sa d'esser uno e di dover contentare molti; ma quando i molti governano, pensano soltanto a contentar se stessi, e si ha allora la tirannia più balorda e più odiosa: la tirannia mascherata da libertà ". Per tanto tempo, intorno al rapporto tra Pirandello e il fascismo si è scritto molto, badando soprattutto a sottolineare che, pur senza esplicite prese di posizioni pubbliche, il drammaturgo apparve, negli anni del consolidamento del regime, sempre più distante da una reale partecipazione politica. Confuta, invece, questa tesi il recente libro di Piero Meli, Luigi Pirandello. " Io sono fascista" ( Salvatore Sciascia editore, 147 pagine, Caltanissetta- Roma, 2021), che mette a disposizione dei lettori una ricca messe di informazioni tratte da pagine di giornali d'epoca e notizie di cronaca dimenticate, e riscrive in maniera non reticente un tassello di quel capitolo di storia politico- culturale del nostro Paese che vide personalità di alto profilo come Giovanni Gentile, Alfredo Rocco, Gioacchino Volpe e lo stesso Pirandello dare il loro contributo quando Mussolini prese il potere. È vero infatti che qualche mese dopo la marcia su Roma, in una intervista apparsa sul "Giornale di Sicilia" nel dicembre del 1922, Pirandello si dichiarava un precursore del fascismo e affermava: " Io non sono un uomo politico e quindi esprimo un impressione piuttosto che un giudizio. Attribuisco un grande valore psicologico al trionfo del Fascismo e, per ciò stesso, al suo metodo di azione". Nell'ottobre del 1923, dopo essere stato invitato a colloquio da Mussolini ( sarà ricevuto poi per quattro volte tra il 1932 e il 1935), Pirandello andrà in America per presenziare il 1° gennaio 1924 alla inaugurazione della stagione pirandelliana organizzata dal Foreign Press Service, e qui si impegnerà, come farà in seguito quando sarà all'estero, con discorsi e conferenze nei circoli sociali e intellettuali per dissipare le diffidenze del popolo americano sul fascismo e sulla figura di Mussolini. E questo perché Pirandello trovava nel fascismo e nel suo fondatore l'ideologia politica più aderente al suo pensiero: "Io sono fascista perché credo soltanto nella creatività dei singoli e non in quella delle masse. L'umanità è fatta di creatori e di materia inerte. Le masse costituiscono la materia, non hanno né una volontà né una forza propria e sono soltanto materia nelle mani di un grande creatore. Il creatore imprime una forma e un movimento a questa materia inerte. L'Italia di oggi non è più quella di ieri, perché uno spirito l'ha ricreata". Allo scopo di ridimensionare l'immagine di Pirandello fascista, gli studiosi del drammaturgo ne hanno esaminato l'opera alla ricerca di allusioni, indizi, prove, episodi che potessero dimostrare il contrario. Lavoro sterile, dice Meli, perché non c'è niente di antifascista nella produzione letteraria di Pirandello ( a differenza di quanto credeva Leonardo Sciascia, che ha interpretato in questo senso la novella "C'è qualcuno che ride"), così come non c'è niente di fascismo, poiché Pirandello fu apertamente contro un'arte fascista. In quest'ambito lo scrittore rivendicò sempre la propria autonomia di fronte al regime e non si allineò alle sue direttive. " L'arte - diceva Pirandello - è il regno del sentimento disinteressato", pertanto "non si può per intenzione, fare dell'arte fascista; facendola, si fa della polemica e nient'altro". Pur avendo subìto qualche affronto dal fascismo, come quando Mussolini nel marzo del 1934 fece ritirare dal cartellone del teatro dell'Opera di Roma l'opera musicale di Gian Francesco Malipiero "La favola del figlio cambiato", su libretto di Pirandello, colpevole di avere creato un incidente diplomatico con il governo della Germania a causa della storia del bimbo brutto e nero, figlio del re di una Nazione cultrice della pura razza ariana, lo scrittore non prenderà mai pubblicamente le distanze dal regime, che con le sue istituzioni continuerà a fargli giungere riconoscimenti, ricambiati dall'artista con la sua militanza politica che registra episodi clamorosi: l'accettazione del ruolo di guardia d'onore al Palazzo delle Esposizioni nel 1935 e l'offerta della medaglia del Nobel contro le "inique sanzioni", senza dimenticare la sua adesione al manifesto degli intellettuali fascisti. In questo senso, a ulteriore prova della sua ostinata fede politica, è utile riportare quanto si legge nel libro dello storico americano John Patrik Diggins, "L'America, Mussolini e il Fascismo", Laterza, 1972: "Quando nel 1935 Pirandello arrivò negli Stati Uniti, parecchi commediografi, tra i quali Clifford Odets e John Howard Lawson, andarono a trovarlo nel suo appartamento al Waldorf Astoria. Essi cercarono di indurlo a sconfessare il fascismo e a ripudiare l'invasione dell'Etiopia. Ma Pirandello invocò l'autonomia dell'arte dalla politica, e il colloquio terminò in uno stato d'animo di reciproco rancore ( NyT, 24 luglio 1935)". Al momento della morte Pirandello, con le sue disposizioni testamentarie - far passare sotto silenzio la sua morte, carro di infima classe, divieto a parenti e amici di seguirlo, dispersione delle ceneri al vento - dribblava la "bella morte" fascista e lasciava uno sberleffo postumo e inaspettato a Mussolini. Ma qui Meli, instancabile esploratore del materiale pirandelliano, ci riserba una sorpresa: scrive che il presunto testamento " antifascista" dello scrittore era un foglietto ingiallito e sgualcito dal tempo che risaliva al 1911. Il grande commediografo ci dimostra così che la vita è, come lui la vedeva, " una cruda e buffa opera teatrale".

·        Louis-Ferdinand Céline.

Céline segreto: Amori, magia, bugie tra le nebbie di Londra. Éric Mazet il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. Assunto nel controspionaggio francese, lo scrittore si divertiva con Mata Hari. E sposò una ballerina. A Bedford Square, l'ufficio passaporti diretto dal Capitano Savy è incaricato di ricercare disertori o titolari di passaporti falsi. L'Ambasciatore di Francia a Londra è Paul de Cambon. Il Console generale di Francia: Louis de Coppet. L'addetto militare dell'Ambasciata: il visconte de la Panouse. Altri membri dell'ambasciata a Londra: il Generale d'Amade, Maurice de Seynes, Henry de Mannerville, Prosper Brugière de Barante, François de Monthoplon de Semonville. La particella nobiliare poteva far sognare il giovane Destouches. La Londra del '15-'16? Leggete Londres di Paul Morand: «Nel nostro (...) (...) consolato generale, periodici comitati di revisione vengono a rastrellare gli ultimi uomini validi, imboscati e approfittatori, spie di ogni tipo, principesse russe in fuga, avventurieri internazionali, cacciatori di dote intorno a vedove di guerra. I night club fanno fortuna. Nei teatri, i feriti vengono invitati a frotte. Murray's, Ciro's non si fermano un attimo nasce un nuovo passo chiamato fox-trot sulle note del ragtime...». Destouches condivide un appartamento con Georges Geoffroy al 71 di Gower Street e lavora al suo fianco al consolato nella stessa sezione. Si conoscono quindi molto bene. La testimonianza di Georges Geoffroy, che avrebbe avuto tanto da dire sul periodo londinese, è tuttavia piuttosto deludente e su di lui ne sappiamo poco o niente. «Conoscevamo bene Alice Delysia». Corista delle Folies Bergères, Alice Delysia aveva raggiunto Londra nel 1914. Animava delle organizzazioni benefiche, e aiutava molti rifugiati e orfani francesi ospitandoli a casa sua. Nel 1915, veniva portata in trionfo in More, rivista del teatro Ambassadors. «J'ai piqué mes trilles dans le music-hall anglais» («Ho pizzicato il mio ritmo dai music-hall inglesi»), dirà Céline a Hindus. «Louis mi trascinava nei music-hall per vedere i balletti. Adorava le ballerine». «Avevo ritrovato Aimé Simon-Girard che ci presentava ad alcune artiste». Nel 1914, dopo gli studi di giurisprudenza e un inizio da attore comico per le truppe, Aimé Simon-Girard aveva recitato in alcuni film. Nel 1916, si presentava al Palace di Londra sulla rivista Bric-à-brac. Geoffroy affermerà di aver cenato con Mata Hari, e Céline dirà a Lucette di esserci andato a letto. Testimonianza sospetta. È vero che Mata Hari passò da Londra, ma nel settembre 1916. Finisce in carcere a Scotland Yard il 13 novembre, e deve la sua liberazione alla sede diplomatica del suo paese confermando che è proprio lei la Sig.ra Zelle. Una volta libera, alloggerà all'Hotel Savoy. Il 29 novembre, viene condotta verso la Spagna. Il 1º dicembre 1916, si imbarca a Liverpool per raggiungere Vigo. Il seguito lo conosciamo. Ma perché legare Louis Destouches al passaggio di Mata Hari a Londra, lui che nel novembre 1916 era in Africa? Come molti testimoni, Geoffroy ci mette del suo, e alcuni biografi non verificano bene le date. «I magnaccia francesi e i loro protetti erano gentili con noi, sempre pronti a offrirci la cena». Céline pretenderà di essere stato un magnaccia, o preso sotto la loro ala da dei magnaccia. In Guignol's band evocherà i magnaccia della Saint-Jean, la poigne à pic, ma questo ricorda più il titolo di una java di successo che non un fatto reale. E nelle sue lettere a Garcin, confiderà di aver conosciuto poco i bassifondi di Londra. Il 19 gennaio 1916, Louis Destouches (4, Leicester Square), ventunenne, si sposa con Suzanne Germaine Nebout (475, Oxford Street), di anni ventiquattro. Matrimonio di convenienza per capirsi. Se è facile immaginare il favore che Louis Destouches rendeva a questa francese nubile nella società londinese, il favore fatto da lei al giovane riformato ha comportato alcune speculazioni azzardate, come la sua riforma. Sull'atto di matrimonio, Louis firma «Louis, Ferdinand des Touches» e si qualifica Tenente. Questo suo darsi un titolo di nobiltà può trovare spiegazione nel numero di impiegati con particella nobiliare del consolato. L'usurpazione del grado può essere spiegata con la voglia di promuovere Suzanne Nebout nella società inglese. Due nomi di testimoni appaiono sul documento: Carolina Ode e Édouard Bénédictus. Di Carolina, non sappiamo niente. Forse una ballerina di cabaret...Di Suzanne Nebout, Gaël Richard, ne L'Année Céline del 2006, ci ha detto quasi tutto quello che potevamo sapere di questa giovane donna, conosciuta all'epoca come una ballerina con il nome di Janine Nevers, proprietaria di un piccolo hotel, madre di una bimba di due anni, e la cui sorella maggiore Henriette si esibiva anche come ballerina di cabaret con il nome di Marie Louise Tardy. Una Janine Nevers viene registrata come attrice in una pièce di Tristan Bernard, Le Seul Bandit du village, messa in scena a Londra nel 1918, ma si potrebbe fare confusione con una certa Janine Revers. L'altro testimone non è una persona qualunque: Édouard Bénédictus. Da non confondere con suo zio Louis Bénédictus (Vienna, 1850; Dinard, 1921), pianista, musicista creatore di musiche orientali per l'Esposizione del 1900. Con il titolo «Édouard Bénédictus, lo spettacolo a colori», il sito del musée des Arts décoratifs presenta un dossier realizzato da Clara Rocca, conservatrice del patrimonio che ci dice molto su questo testimone. Un'omissione: accanto a Raphael Kirchner, Bénédictus fu uno degli illustratori di vignette anonime del Bandeau di Félicien Champsaur, libro leggero e divertente, «libro per i soldati», pubblicato «per far ridere le truppe». Scritto e illustrato nel 1914, ma stampato con una prefazione di sedici pagine datate 31 marzo 1916: «Da leggere in trincea»... Tema del libro: Riquette, sedici anni, «fiore di Montmartre», incontra un pittore che dipinge L'Abiura di Sant'Ignazio di Loyola. Un dettaglio: nella prefazione sono evidenziati i versi di Musset, «Quando ho conosciuto la Verità», che Louis Destouches ricopierà per Simone Saintu. Per molto tempo, di questo personaggio conoscevamo solo quello che aveva detto Céline: «Ho avuto un amico, Bénédictus, un ebreo che insegnava al Museo delle arti decorative. Per di più era un inventore e un mistificatore cabalistico e rocambolesco. Ha finito per essere impersonificato da Gémier in una pièce, M. Beverley, al teatro Antoine... Colui che è presente, ascolta tutto... pensando che nessuno sappia, e arriva, come apparso da Sirio, ecc.» (Lettera a Pierre Monnier, 1º aprile 1949). Gémier, Antoine, Beverley: dei nomi che potrebbero intrigare qualsiasi biografo celiniano...Édouard Bénédictus, nato a Parigi nel 1878 e di origine olandese, si pretendeva discendente di Spinoza. Fu tra le altre cose chimico, pittore, pubblicista e decoratore. Specializzato in un primo tempo nel cuoio intarsiato, partecipa all'Esposizione Universale del 1900 e diventa membro della Società degli artisti decoratori nel 1902. Brevetta nel 1909 un procedimento di fabbricazione di vetro laminato, infrangibile, e fonda la Società Vetraria Triplex nel 1911. Questa scoperta costituisce un vero e proprio passo avanti nell'industria automobilistica, innanzitutto per Ford. Il 10 maggio 1916, si imbarca a Liverpool sull'Accra in partenza per Douala. Sappiamo che il matrimonio con Suzanne Nebout non venne dichiarato al consolato francese, fatto abbastanza usuale e che fu onorato solo pochi giorni, tre settimane al massimo. Non valido quindi in Francia, ma valido in Inghilterra... Quale malattia spinse Suzanne a farsi curare in Olanda poi in Germania? Nell'aprile 1921, abbandonò la direzione del piccolo hotel londinese, ritirò sua figlia dal collegio, viaggiò in Francia per alcuni mercanti d'arte. Morirà a Aix-la-Chapelle il 17 settembre 1922. Gaël Richard ha confutato chi pretendeva di averla incontrata nel 1971. A Lucette Destouches, Céline avrebbe confidato che le due ballerine francesi, due sorelle, l'avevano coperto di soldi, volevano pagargli gli studi, che Suzanne era morta poco dopo la loro separazione. A Mahé, la ricorderà come una prostituta e dirà che si era risposata con un addetto dell'Ambasciata tedesca ed era morta poco dopo. Comunque, il soggiorno a Londra ispirerà Guignol's band, romanzo incompleto, e il personaggio di Sosthène de Rodiencourt, certamente in gran parte ispirato da Édouard Bénédictus. Altri amici di Céline sono diventati completamente fantasmi. Non sapremo forse mai, ahimè, a chi facesse allusione Louis Destouches quando, da Campo, in Camerun scriveva ai suoi genitori il 14 settembre 1916: «Ricevo un numero impressionante di lettere dall'Europa - Non mi sarei mai creduto così simpatico. Un gruppo di amici e amiche da Londra mi hanno appena inviato un fonografo sublime con 100 dischi del valore di almeno 1500 franchi».

La lingua di Céline? Uno spartito musicale. Valeria Ferretti il 4 Luglio 2021 su Il Giornale.  In lui la parola esonda dalla scrittura per diventare un elemento spettacolare. Qualche anno fa, intitolai uno dei miei articoli universitari «Céline italien: traduire entre le désir d'omnipotence et l'évidence de Sisyphe». Nessuna metafora è stata più appropriata per il mio lavoro di traduttrice nei confronti di cotanto scrittore. Céline non amava le traduzioni. E si capisce perché. Un autore come lui, che dell'innovazione stilistica più trasgressiva e provocatoria aveva fatto il suo punto di forza, non poteva non vedere nel passaggio a un'altra lingua un impoverimento e una banalizzazione intollerabili. Eppure, a partire dalla seconda metà del XX secolo, il suo successo letterario è andato sempre più amplificandosi a livello internazionale. Dello scrittore di Meudon, l'Italia ha tradotto quasi tutte le opere - marginalia inclusi - spesso negli anni rieditate (come i Colloqui con il professor Y). Céline e la traduzione italiana sono un binomio (direi un sodalizio) iniziato molto tempo fa. Un anno dopo la pubblicazione in Francia del Viaggio al termine della notte venne pubblicata la traduzione di Alex Alexis, pseudonimo di Luigi Alessio (1902-1962), uno scrittore di origini piemontesi. Costui, nel 1933, noterà già che la lingua di Céline darà del filo da torcere poiché l'italiano non ha un'esatta corrispondenza con l'argot, aspetto questo che rappresenta solo uno dei molteplici ostacoli della scrittura celiniana. La seconda traduzione fu quella di Bagatelle per un massacro nel 1938, contenente parecchi tagli. Poi, il silenzio per quasi trent'anni, una sorta di lunga quarantena. Ma fu grazie alla bella versione di Morte a credito ad opera di Giorgio Caproni che Céline venne investito di una nuova attenzione critica da parte degli intellettuali del Gruppo 63 ed altre personalità tra cui Giuseppe Guglielmi (futuro traduttore della Trilogia del Nord), decisamente più interessati agli aspetti stilistici e linguistico-sintattici che a quelli politico-ideologici. In effetti, avevano capito che lo sregolamento della tradizione letteraria prodotto da Céline trovava similitudini con gli scrittori italiani dell'epoca (uno su tutti, Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana) e che si poteva fare di Céline un potente mezzo di rinnovamento della lingua letteraria italiana. Ma soprattutto, si era capita la necessità di andare oltre la semplice trascrizione del parlato; come sottolineava Guglielmi, occorreva individuarne la «linea melodica» che si appoggia sul ritmo e la sintassi. Ed ecco che eravamo arrivati al nocciolo della questione traduttiva: la lingua di Céline è una lingua d'espressione e non solo un discorso narrativo. Céline stesso parla di una «trasposizione» dal linguaggio parlato nello scritto, che non vuole essere imitazione dell'oralità, sottolineando così lo stile artificiale che ne deriva. Ed ecco che abbiamo una dimensione extralinguistica della lingua: quello che Gianni Celati - traduttore tra le altre cose dei Colloqui, Il ponte di Londra, Guignol's Band I e II - chiama «supplemento di comunicazione» in un suo celebre studio che analizza, attraverso il voice and gesture del teatro elisabettiano, la ricerca linguistica intrapresa da Céline. La gestualità, le intonazioni di voce: proprio come la musica, la lingua di Céline è un sistema che trascende il linguaggio e, proprio come la musica, avrebbe bisogno di una partitura su cui indicare le note (il grado di enfasi), la chiave di violino (l'interpretazione comica, drammatica), il tempo. La parola detta diventa elemento spettacolare. Se consideriamo poi il lavoro degli artisti francesi nel corso degli ultimi venti anni sia in campo teatrale che editoriale (Jacques Tardi, Romeo Castellucci, Fabrice Luchini, Stanislas de la Tousche, la cui somiglianza fisica è impressionante), non sarebbe forse giunto il momento di parlare di adattamenti-transcreazioni piuttosto che di riproduzioni? A tal proposito, nel 1998, vorrei ricordare l'unica sperimentazione televisiva di una lettura teatrale del celebre addio a Molly fatta a tre voci (Alessandro Baricco-Ferdinand, Gabriele Vacis-un lettore e Stefania Rocca-Molly/alter ego femminile di Ferdinand) sulla base di due traduzioni sovrapposte del Viaggio (quella di Alexis e quella di Ernesto Ferrero). La mise en scène mostra la molteplicità delle voci latenti di un monologo in cui gli echi del mondo esterno si moltiplicano, situati in uno spazio universale, senza riferimenti strettamente topografici. Ritornando alla restituzione testuale, alcune domande che aprivano il colloquio «Tradurre Céline» dell'Università di Cassino risuonano costantemente nella mia testa: è più importante tradurre la componente semantica, oppure è l'energia scoppiettante dell'enunciato, la messinscena della parola, la spettacolarizzazione di una voce che si manifesta attraverso una gestualità fonica e verbale ad avere la meglio? La traduttologia moderna invita a considerare la traduzione letteraria come un processo che fa muovere e risplendere non originale e copia, ma due testi dello stesso valore artistico. Valeria Ferretti

·        Luis Sepúlveda.

Luis Sepúlveda, lo scrittore che credeva ancora nei sogni. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 5 aprile 2021. Gracias a la vida que me ha dado tanto/ Me dio dos luceros, que cuando los abro,/ Perfecto distingo lo negro del blanco/ Y en el alto cielo su fondo estrellado/ Y en las multitudes el hombre que yo amo. Grazie alla vita che mi ha dato tanto/ Mi ha dato due occhi, che quando li apro/ Distinguo perfettamente il bianco dal nero/ E in alto nel cielo il suo fondo stellato/ E tra la moltitudine l’uomo che io amo. La canzone cantata dalla voce morbida e melodiosa di Violeta Parro è stata da sempre la preferita di Luis Sepúlveda e Carmen Yáñez, sua moglie e nota poetessa. Sembra di sentire in canto la loro vita, vissuta tra forti passioni, formidabili dolori. Entrambi hanno conosciuto la lotta politica, l’impegno sociale, la necessità della letteratura di dare una voce a chi non ce l’ha o non riesce a farla ascoltare, la vicinanza con gli esuli, i sognatori, gli uomini di ventura, i diseredati, gli ultimi. Persone che sembrano lontane dal nostro mondo di accomodante e feroce consumismo, sembrano essere scomparse nella luce fredda delle terre selvagge e inospitali della fine del mondo dove vanno a morire le storie e gli idealisti. “Penso che la letteratura abbia una grande importanza sociale e lo scrittore un ruolo preciso: è l’accusatore di quella società malata che attenta alla dignità umana”, rispondeva Sepúlveda nelle interviste. E al mondo vivono tutt’ora molti accusatori della nostra società malata, non solo scrittori ma di ogni categoria. Come vivono ancora gli avventurieri, gli idealisti e chi lotta per una giustizia terrena, piccola ma fondamentale. Pochi anni prima di morire, Sepúlveda aveva fondato, insieme ad altri, una minuscola casa editrice che stampava brevi volumetti da un dollaro l’uno. “Vanno a ruba, c’è fame nei giovani di sapere”, diceva. Lui e gli altri vecchi avventurieri l’avevano chiamata Aún creemos en los sueños, Crediamo ancora nei sogni. Mi sono chiesta che cosa serva per credere alla concreta realizzazione degli ideali, tanto da ammettere il rischio della propria vita, del carcere, della tortura. Dos luceros, que cuando los abro perfecto distingo lo negro del blanco. Gli occhi scuri e caldi di Sepúlveda guardavano a questo modo il mondo, in qualsiasi posto li avesse posati a contemplare i crimini di Pinochet, la vita degli indios Shuar o lo scempio delle balene giapponesi. “Il volto umano non mente mai: è l’unica cartina che segna tutti i territori in cui abbiamo vissuto”, diceva il killer sentimentale di Sepúlveda. Così gli occhi. Carmen e Luis si erano conosciuti da adolescenti in Cile, nel clima esaltante ed esigente del ’68. Lui già scrittore, lei poetessa a soli 15 anni, entrambi militavano nei partiti socialisti e comunisti. Si sposarono, si amarono e poi si lasciarono per divergenze politiche. Non si divisero però. A dividerli fu l’arresto di entrambi, la tortura, il destino clandestino e l’esilio. Quando uscì dal carcere e seppe della cattura di Carmen Yáñez, Sepúlveda fece qualsiasi cosa per farla rilasciare, fino a minacciare di farsi saltare in aria davanti alla Vicaria de la Solidaridad, ma fu costretto a rinunciare e a fuggire. Carmen Yáñez fu torturata fino a essere creduta morta e gettata in una fossa come un sacco di rifiuti, un passante si accorse che era ancora viva, la raccolse, si prese cura di lei. Recuperarono i contatti in esilio in Europa, convivevano con altre persone, avevano altri figli. Ma l’amore riprese dove era stato interrotto, se ne accorse la moglie tedesca di Luis che invitò Carmen alla loro festa di divorzio, si propose per tenere i bambini, mentre Luis e Carmen andavano insieme a Parigi a ricostruire pezzo a pezzo “la màs bella historia de amor”. “Ogni giorno alle 13.30 dovevo attendere la chiamata dall’ospedale per avere informazioni dal medico che lo aveva in cura. Tutti i giorni alle 13.30 io ascoltavo le sue parole e poi le trasmettevo in un gruppo su whatsapp che avevo creato per gli amici più intimi. E la mia giornata praticamente finiva lì, ad aspettare le 13.30 del giorno successivo.” È il febbraio del 2020, la pandemia da Covid-19 imperversa già da mesi, Sepúlveda e Yanez, come milioni di altre persone, sono contagiati, vengono di nuovo divisi. Carmen Yáñez guarisce, aspetta, ogni giorno fino al 16 aprile, “la prova della tua vita per bocca d’altri”, come scrive nella sua ultima poesia, Eravamo così felici e non lo sapevamo, scritta per Sepúlveda ancora in vita. Le ultime parole che lui le dirà saranno “Buonanotte amore”, le stesse che le diceva ogni notte prima di chiudere gli occhi. “Sono morto tante volte. – Dice Sepúlveda a un suo intervistatore. – La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato; la seconda quando mi arrestarono; la terza quando imprigionarono Carmen mia moglie; la quarta quando mi tolsero il passaporto. Potrei continuare.” L’intervistatore gli chiede allora se ha paura di morire. “Ci ho fatto l’abitudine”, risponde lui “E poi la vera saggezza è sapere quando le cose finiscono.” Poi aggiunge, però, che “tutto finisce, ma niente è davvero definitivo.” Ho provato a immaginare la fine sfinita e solitaria di un uomo che aveva tanto goduto, rischiato e lottato, affabulatore e cantastorie, guerrigliero, ecologista, viaggiatore per “giorni estenuanti che sapevano di zaino e di vento”, ma anche un uomo sentimentale, che nelle sue favole parlava con grazia e tenerezza ai bambini e a chiunque volesse starlo ad ascoltare. “Si scrive per abitare nel cuore della gente migliore”, quando gli chiedevano perché scrivesse, citava spesso questa frase di Osvaldo Soriano, suo amico fraterno. C’è, nei suoi molti e differenti libri, un personaggio che gli assomigliava particolarmente, il rude, solitario, romantico Juan Belmonte, “tutti e due avevamo lo stesso passato, eravamo stati negli stessi posti e avevamo condiviso dolori e rabbie. Juan Belmonte, il mio personaggio, e io, eravamo fratelli di sconfitte, perdenti che sapevano perché avevano perso.” Con Belmonte condivideva anche una tenace e indistruttibile memoria, degli amori, dei dolori e dei compagni decimati, di coloro che avevano fatto con lui la “Storia non scritta.” Quando penso a Sepúlveda e a quello che ha rappresentato per la storia e la letteratura del secondo novecento, che ancora può rappresentare, mi viene in mente quello che scriveva su Juan Belmonte, nel caso in cui in futuro avrebbe avuto ancora bisogno di lui: “so che potrò andare a cercarlo ancora a Puerto Carmen. Sferzato dal vento della Patagonia, busserò alla sua porta e lui aprirà, mi guarderà negli occhi e mi dirà «andiamo», perché fra di noi non servono mai tanti discorsi.”

·        Marcel Proust.

Marcel Proust ritrovato: la "Recherche" ora ha 75 pagine in più. E noi le abbiamo lette in anteprima. Vengono finalmente alla luce “I settantacinque fogli” spariti per sessant’anni, avvolti nel mistero e poi riapparsi nel 2018. Li pubblicherà in Francia l’editore Gallimard. Una straordinaria avventura letteraria, alla base della “Recherche”. Anna Bonalume su L'Espresso il 26 febbraio 2021. Una straordinaria scoperta letteraria. La casa editrice francese Gallimard pubblicherà prossimamente i settantacinque fogli inediti di Marcel Proust. Spariti per sessant’anni e considerati perduti, gli appunti sono stati ritrovati nel 2018 a casa dell’editore Bertrard de Fallois. Si tratta delle bozze di “Alla Ricerca del Tempo perduto”, un elemento essenziale per la comprensione della genesi del testo. Come sono giunti fino a noi? La loro storia è avvolta nel mistero. Nel 1949, la nipote dell’autore francese Suzy Mante-Proust aveva affidato a Bernard de Fallois la classificazione della sua collezione di manoscritti, dopo averla ricevuta nel 1935 dal padre, il dottor Robert Proust, fratello minore di Marcel Proust, e dopo che lui stesso l’aveva ereditata alla sua morte nel 1922. Bernard de Fallois ne trasse allora due opere inedite: “Jean Santeuil” (1952), un romanzo che contiene le prime tracce della “Ricerca”, e “Contro Sainte-Beuve”, (1954), una raccolta di critiche letterarie che ispireranno la “Ricerca”. Decise invece di non pubblicare quelli che lui stesso menziona come “i settantacinque fogli” nella prefazione di “Contro Sainte-Beuve”, momento chiave in cui se ne intuisce l’esistenza. L’editore sussurra quasi distrattamente questo segreto: «Il “gruppo” [di manoscritti] è composto da settantacinque fogli molto grandi e comprende sei episodi, che saranno tutti ripresi nella Ricerca: la descrizione di Venezia, il soggiorno a Balbec, l’incontro delle ragazze, il momento prima di dormire di Combray, la poesia dei nomi e le due “parti”. Questo insieme è chiaramente designato da una nota nel diario.

Dopo “Jean Santeuil”, questo è il più antico stato della Recherche». Qualche anno più tardi, nel 1962, i manoscritti ereditati dalla famiglia Proust vennero raccolti dalla Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi. Non tutti, però. Curatori e ricercatori hanno scoperto con sorpresa che fra questi non erano inclusi i “settantacinque fogli” descritti nella prefazione di “Contro Sainte-Beuve”. Nacque un mito: dove sono finiti i fogli? Perché De Fallois non li ha pubblicati né consegnati alla Biblioteca. Nel 2019 in un articolo per Le Monde, il grande specialista e biografo di Proust Jean-Yves Tadié ha affermato: «Non c’è Proust prima di Proust, perché è un genio tardivo, rivelato all’età di 42 anni». Eppure Proust aveva 42 anni nel 1923: questo avrebbe escluso qualsiasi interesse letterario nei confronti dei fogli redatti già a partire dal 1908. Con il tempo Tadié si è ricreduto e oggi firma la prefazione dei testi pubblicati da Gallimard descrivendoli come un «momento sacro» della Ricerca: è qui che «si aprono le porte della creazione romanzesca». De Fallois ha creduto come Tadié che i settantacinque fogli non avessero valore letterario? Ipotesi da scartare. La lettura dei fogli è molto affascinante e per nulla aneddotica. Si tratta di sei scene distinte, intitolate dalla curatrice “Una sera in campagna”, “La parte di Villebon e la parte di Meséglise”, “Soggiorno al mare”, “Ragazze”, “Nomi nobili, “Venezia”. Alcune delle scene abbozzate diverranno momenti emblematici della Ricerca, riprese nel testo definitivo secondo un ordine completamente diverso. Rivestono un ruolo importante in quanto costituiscono il fondo dal quale Proust attingerà costantemente per ampliare la struttura del testo, come sottolinea Nathalie Mauriac Dyer, curatrice del testo per Gallimard, nota specialista dell’opera di Proust, di cui è pronipote, direttrice di ricerca al CNRS e autrice di più di sessanta articoli nella ricerca proustiana. Tra i fogli si ritrova la scena della nonna in campagna che sfuma in quella del bacio serale. Nel paragrafo “Una sera in campagna” Proust evoca la celebre nonna con uno stile che anticipa quello del testo contemporaneo: «La sua passeggiata era finita e anche la pioggia, era tornata a sedersi con noi ma naturalmente fuori dalla veranda. Anche se aveva fatto solo pochi passi e i sentieri non avevano avuto il tempo di inzupparsi, aveva orribilmente sporcato la sua gonna color prugna, perché è da notare che le gambe di chi è dotato di un’immaginazione ardente, di uno spirito elevato e senza contrappeso d’amor proprio, non smettono un attimo, mentre vanno in giro agitando mille pensieri, di raccogliere tutto il fango dai sentieri e, sembra anche di più, tirandolo su per le gonne, strofinandolo in modo che si diffonda bene su un’area abbastanza ampia e schizzandolo su parti del vestito o dei pantaloni che sono troppo lontane per essere raggiunte direttamente dall’alluvione». Comparando gli inediti al testo definitivo si osservano le evoluzioni del processo di creazione. Un tale Signor Bretteville è invitato a cena a casa del narratore bambino: la madre dovrà trascurare il rito del bacio della buonanotte provocando quello che diventerà il supplizio dell’abbandono. Dal Signor Bretteville e dalla figura dello zio si delinea quello che sarà un personaggio centrale del testo, Swann, un amico di famiglia appartenente all’alta società, personaggio immaginario.

Nella narrazione dell’incontro con le ragazze al mare non è ancora presente Albertine, personaggio chiave corrispondente nella realtà all’amante di Proust, Alfred Agostinelli. «Proust non parla ancora di omosessualità: dovrà inventare Monsieur de Guercy/Charlus l’anno successivo. Ma in due capitoli delle 75 pagine usa un modo obliquo e allusivo per evocare il suo autista Alfred Agostinelli, per il quale provò, come sappiamo, una grande passione dal 1907», osserva Dyer. I settantacinque fogli vengono pubblicati insieme ad altri manoscritti inediti: tra questi si ritrova la più antica versione conosciuta ad oggi dell’episodio che diventerà quello della madeleine. E si scopre che in una vita precedente la celebre madeleine è stata prima pane raffermo, poi una semplice fetta biscottata. Proust svela il processo che l’ha reso famoso: «Dare ogni giorno sempre meno valore all’intelligenza», poiché «solo al di fuori di essa lo scrittore può riconquistare qualcosa delle nostre impressioni passate, ovvero raggiungere qualcosa di sé stesso e la sola materia dell’arte» e prosegue come accade alle anime dei morti in alcune leggende popolari, ogni ora della nostra vita subito morta, si incarna e si nasconde in qualche oggetto materiale. Rimane prigioniera lì, per sempre prigioniera, a meno che non incontriamo l’oggetto». Racconta l’esperienza primitiva della memoria: «Ahimè, mi sono detto che tutta quella parte del mio passato è morta. Come potevo sapere che tutte quelle estati, il giardino dove le ho trascorse, i dolori che ho avuto lì, il cielo sopra, e tutta la vita della mia gente, erano passati in un cucchiaio di tè caldo o in una pentola bollente di pane raffermo». In un altro passaggio inedito scrive: «Allora mi ricordai: ogni giorno, quando ero vestito scendevo nella stanza di mio nonno, che si era appena svegliato e stava prendendo il tè. Ci immergeva una fetta biscottata e me la dava da mangiare. E quando quelle estati erano finite, la sensazione della fetta biscottata ammorbidita nel tè era uno dei rifugi dove le ore morte - morte per l’intelligenza – andavano a rannicchiarsi e dove non le avrei senza dubbio più ritrovate, se quella sera d’inverno, rientrato congelato dalla neve, la mia cuoca non mi avesse offerto la bevanda alla quale la resurrezione era legata in virtù di un patto magico che non conoscevo». Finché il pane raffermo e la fetta biscottata non diventeranno l’elegante madeleine, «quella piccola conchiglia di pasta, così grassa e sensuale, sotto la sua piega severa e devota». Lo stile dell’autore è già presente in potenza, ma la frase tipicamente proustiana che caratterizza la Ricerca qui ancora non c’è: la proposizione lunga e sinuosa che a un certo punto colpisce arriverà solo più tardi. Negli inediti le frasi sono piuttosto classiche: «La frase non possiede ancora la “dissolvenza” che anni di lavoro le porteranno, ma il suo unico potere di suggestione è già presente. Scopriamo inoltre che certe “formule” sono già state trovate, o quasi, e attraverseranno tutta la genesi», chiarisce Nathalie Mauriac Dyer all’Espresso. Questi fogli sono un contributo essenziale alla nostra conoscenza della Recherche: «Si è creduto a lungo che il romanzo di Proust fosse nato nel 1909 da un saggio critico che divenne un racconto, “Contro Sainte-Beuve”: in effetti, era piuttosto strano che il romanzo fosse nato da un testo di critica letteraria. Il romanzo era iniziato prima. Questo è ciò che apprendiamo dai Settantacinque fogli: Proust, dopo il fallimento di “Jean Santeuil” (intorno al 1899), era tornato al romanzo, alla fine del 1907 e nel 1908. I settantacinque fogli sono quindi le vere basi della Recherche». Questo ritrovamento permette di comprendere meglio le evoluzioni di stile del genio francese e le sue intuizioni mai abbandonate: «Scopriamo che Proust era ancora abbastanza vicino nei Settantacinque fogli a una scrittura autobiografica, perché usa i nomi dei suoi parenti più vicini (sua madre, sua nonna e suo fratello): questo è assolutamente unico in tutta la sua opera. Più tardi Proust cancellerà tutte queste tracce, o le nasconderà». La stessa arte della traccia di cui l’autore è diventato maestro. Rimaniamo ancora una volta attoniti di fronte alla meravigliosa miscela di plasticità, invenzione e memoria che l’opera di Proust svela di essere.

«Il mio amore per Proust, o forse per mio padre». di André Aciman su L'Espresso il 26 febbraio 2021. «Mia madre abbandonò la Recerche dopo due pagine. Lui invece me lo fece scoprire». La prima frase di Proust che mi capitò di leggere, la scrisse mio padre. E lo stesso discorso vale per tutte le altre frasi di Proust che lessi per la prima volta. Fu così che scoprii Proust, attraverso la grafia di mio padre. Ironia della sorte – che non mi sfugge nonostante siano trascorsi più di cinque decenni – è che, inspiegabilmente, il tratto di Proust richiama quello di mia madre, non di mio padre. La sua era una scrittura secca, spigolosa, rigida, mai un ghirigoro, caratterizzata da angoli improvvisi e irregolari, che cercava in ogni modo di apparire maschile, mentre la scrittura di mia madre somigliava tanto a quella di Proust, non altrettanto arzigogolata quanto un filo caotica, anonima, difficile da riconoscere, in più punti quasi la grafia di un bambino, acerba, pigra, malandrina. E non mi sfugge nemmeno un’altra ironia della sorte, che però va in tutt’altra direzione: mio padre lesse Proust finché ebbe vita; mia madre, già dopo mezza pagina di “Dalla parte di Swann” perse la pazienza. Oltre, non si spinse mai. Quando vidi per la prima volta il nome di Marcel Proust, avevo quattordici anni, e lo scoprii nel diario di mio padre, un pomeriggio, mentre lo leggevo di nascosto. Sapevo che da giovane se l’era goduta, e volevo conoscere i dettagli di quella vita piena. Nel suo diario, che iniziò nel 1932 all’età di diciassette anni, scoprii molte cose su di lui: le incertezze, i dubbi su se stesso, la timidezza, la mestizia, le storie d’amore, l’astuta e disincantata capacità di comprendere le persone. Ma soprattutto trovai elenchi di titoli che stava leggendo. Aveva la strabiliante abitudine di copiare sul suo diario brani di autori che ammirava. Pagine e pagine trascritte a mano e riportate da Plutarco, Dostoevsky, Stendhal, Flaubert, Marco Aurelio, ma soprattutto pagine e pagine fitte di passi di Proust. Quando, infine, gli confessai di avere scoperto Proust sbirciando sul suo diario, ciò che mi colpì in particolar modo fu una nostra conversazione in rue du Ranelagh mentre stavamo andando a trovare una zia. Descrisse le lunghe frasi di Proust, quanto fossero insolitamente musicali, liriche, eppure divertenti, e perspicaci non solo riguardo gli altri ma in special modo anche se stesso. È stato il più grande scrittore del nostro secolo, ma forse, aggiunse mio padre con il suo solito immancabile tatto, potrei anche dissentire. Io ero giovane e, di conseguenza, si supponeva avessi un animo ribelle, e poi, quello stesso anno, avevo da poco scoperto James Joyce. Arrivati a destinazione, passammo accanto a un vecchio portone da cui emanava uno strano odore stantio che mi risultò piuttosto familiare, poiché mi fece tornare in mente le vetuste tubature dell’acqua a casa di mio nonno quando si apriva il rubinetto in cucina. «Come fai a ricordartene ancora?» mi chiese mio padre. «Quando è morto, tu avevi solo due anni.» Parlando di profumi e ricordi, Proust sì che è stato il più grande, aggiunse. Dopo una visita insopportabilmente lunga a quella zia molto anziana e malaticcia, io e mio padre trovammo una libreria e lui comprò “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Alla mia età, secondo lui mi sarei ritrovato al volo nell’adolescenza di Proust. Iniziai a leggerlo quella sera stessa. Una trentina di pagine dopo, però, posai il libro. Perché? mi domandò mio padre l’indomani mattina quando lo informai. Mi toccava troppo da vicino, sembrava quasi che parlasse di me, gli spiegai. Ciò che evitai di rivelargli fu che non morivo dalla voglia di conoscere me stesso, almeno non ancora. Era anche il mio modo di evitare di raccontargli che ci aveva visto giusto, perché nulla di quanto avevo letto finora poteva rivaleggiare con Proust. Non cambiai mai idea su Proust. Ciò che non capirò mai è quanto di questo amore che dura da una vita sia per Proust o piuttosto per mio padre. Non lo voglio sapere.

Proust, lo scrittore che più assomiglia alla vita. Chiara Valerio scrittrice e saggista italiana su L'Espresso il 26 febbraio 2021. Ho incontrato Proust due volte. In fondo, non molte. La prima, come tanti della mia generazione, a 18 anni. Margherita, un’amica di mamma, mi aveva regalato l’edizione integrale Newton Compton della “Recherche” per la mia maggiore età e dunque, so di aver cominciato a leggere Proust il giorno dopo, il 4 marzo del 1996, di mattina. Ho concluso la lettura dei sette volumi prima dell’estate, d’altronde ero giovane, ero forte, e non dovevo occuparmi della vita pratica con le sue bollette, i suoi affitti, e i lavori per il sostentamento e per l’arte, mai lievi e mai facili. Ero libera, nel senso che i miei genitori provvedevano a tutto. Di quella prima lettura mi è rimasta l’idea eroica che io, insieme a un esiguo manipolo di eletti passati presenti e futuri, avevo portato a termine l’impresa. Avevo vinto, attraversato lo spazio e il tempo tra Combray e Parigi, tra borghesia e aristocrazia, ero sopravvissuta alle delusioni d‘amore, e probabilmente, a un certo punto, avrei anche scritto di ciò che mi ossessionava e mi appassionava: gli esseri umani e le loro strutture sociali. La prima lettura è stata elencativa e quantitativa, una vanteria, una sbruffonata, nessuna differenza tra leggere tutta la “Recherche” in tre mesi, e fare a gara a chi beve più birra senza vomitare: ero una provinciale, e probabilmente lo sono rimasta. Credo avessi capito ciò che potevo, e non era poi molto: non ero mai stata davvero innamorata, né mai davvero gelosa, non mi ero mai accorta delle differenze economiche esistenti tra la mia famiglia e certe altre di Scauri - il paese in cui sono nata -, ero una lettrice formidabile e dunque, come Charles Swann, avrei avuto accesso a salotti e sarei stata in grado di affrontare i miei amori, e dunque, come il narratore, avrei potuto ereditare una fortuna – qualsiasi cosa significasse, oltre il denaro – alla morte di qualche parente. Molti dei fratelli e delle sorelle dei miei nonni erano emigrati tra gli anni Dieci e gli anni Venti (periodo in cui Proust scriveva la “Recherche”), e dunque c’erano zii d’America i cui fantasmi, al contrario di quello del Natale passato in Dickens, potevano presentarsi, cigolando in corridoio, con una bisaccia di monete d’oro. A ripensarci oggi, non essendo stata la vita pratica un cruccio nemmeno durante i lunghi anni di studio, perché le borse di ricerca avevano sostituito i miei genitori nel sollievo dalle faccende pratiche, e le camere degli studentati ritardato l’incontro, sempre poco gradevole, con il mercato immobiliare, a ripensarci oggi, dovevo aver intuito nella “Recherche” una parabola per me: sono stata per i primi trent’anni della mia vita una giovane donna che viveva di rendita e non aveva problemi di alloggio. Non era così nelle cause, era così negli effetti. E dunque. Gli esseri umani mi ossessionavano e mi appassionavano perché ero stata precocemente delusa dalle formiche, forse, se non fosse successo ciò che sto per raccontare, sarei diventata entomologa. A dieci anni, in giardino, passavo ore accucciata sui talloni a osservare l’alacre lavoro di una colonia di formiche. Dopo qualche giorno, avevo rubato una pagnotta dalla dispensa, l’avevo sbriciolata e avevo lasciato una piramide di briciole accanto all’entrata del formicaio. Le formiche erano accorse in massa e piano piano ma continuativamente avevano trasferito la piramide di briciole sottoterra. Avevo stimato che quelle briciole sarebbero loro bastate per tutto l’inverno, e il pomeriggio successivo ero curiosa di sapere cosa avrebbero fatto nel tempo libero. Sarebbero diventate cicale? Le formiche cantavano? Il pomeriggio dopo, tornando da scuola, mi ero accorta invece del solito fermento accanto all’imbocco del formicaio. Le formiche erano intente al loro solito daffare, raccattavano briciole dovunque le trovassero e le trasportavano sottoterra. Ci ero rimasta molto male, mi avevano deluso, le formiche non erano in grado di sprecare, di perdersi in pigre osservazioni. Le avrei sterminate se mia madre, rientrando prima, non mi avesse fermato mentre con alcool e un fiammifero mi avviavo al formicaio. Ce le avevo anche prese. La prima volta che avevo letto la “Recherche” avevo capito che gli esseri umani potevano essere le mie formiche in grado di sprecare, l’avevo pensato come avessi dieci anni, mentre leggendo mi ricordavo del formicaio, e lo scrivo oggi come avessi dieci anni. Compiuti i trent’anni, ho cominciato a lavorare, e dunque a occuparmi della vita pratica, anzi, a esserne occupata. Subito l’ho disprezzata, subito mi sono sentita avvilita, poi, come un’illuminazione ho capito che poteva essere un sostegno creativo: limitando il tempo, potenziava l’immaginazione. Ed è nei miei trenta anni che ho incontrato Proust per la seconda volta. Per Ad Alta Voce di Rai Radio3, abbiamo registrato con Sandro Lombardi la lettura prima di “Un amore di Swann” (che è una sezione del primo volume de la “Recherche” e racconta l’innamoramento di Charles Swann per Odette de Crècy) e poi di “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Ed è stato educativo. Un po’ perché adattare un libro, o discuterne l’adattamento, come in questo caso, è un modo per conoscere un libro profondamente: è come vedere qualcuno che si muove in cucina mentre prepara del cibo. Un po’ perché ascoltare Proust è come stare seduti di spalle o di fianco a due o più persone che parlano di qualcosa di molto interessante anche per noi che dei soggetti di quel discorso non sappiamo nulla. “Un amore di Swann” è, in effetti, un romanzo nel romanzo e penso che vada detto chiaro e tondo che se non si pensa di avere diritto al tempo per leggere tutta la “Recherche”, almeno bisogna concedersi tre ore per leggere in tranquillità “Un amore di Swann”. Leggere questa novella di innamoramento, furbizia e gelosia è leggere Proust, che, come ogni cosa e essere umano, può essere preso anche a piccole dosi. L’idea di Proust come autore granitico è mondana. Non è stata granitica la stesura della “Recherche” che è durata più di quindici anni ed è avanzata per riscritture, correzioni, aggiunte ed emendamenti. In questo senso, in questa celebrazione del contrario della compattezza, e della decisione – del contrario delle formiche – Proust è lo scrittore che più somiglia alla vita, al nostro modo di riflettere sul tempo, di cercare di impiegarlo, e, soprattutto di perderlo. È una ricognizione e raccolta di amori sbagliati che, rivisti tutti insieme, si rivelano, quasi sempre, quelli che sono quasi tutti gli amori, che anche quando non finiscono ci rivelano di noi qualcosa che, in fondo, non vorremmo sapere. Dice, sussurra, Proust, che l’unica differenza di razza esistente tra gli esseri umani – che razze non ne hanno – è una differenza di censo. E tuttavia, nonostante questa differenza, l’odiosa e borghese Signora Verdurin può diventare Principessa di Guermantes. E dunque, alla fine, tra gli esseri umani non esiste nemmeno questa differenza. Siamo tutti uguali, tutti tendiamo alla luce dorata che proietta l’essere amati e l’essere alleggeriti dalla pur utile e creativa vita pratica.

Tutte le maschere di Marcel Proust. Nella “Recherche” desiderio e sospetto coincidono. E costituiscono la nevrosi dei personaggi dietro cui si nasconde lo scrittore. Eugenio Scalfari su L'Espresso il 14 dicembre 2018. Marcel Proust Ho riletto varie volte nel corso della vita “Recherche” costruita come un labirinto di specchi e di personaggi. Il personaggio che vi appare di continuo è proprio lui, Marcel Proust, dietro le più diverse maschere. Debbo dire che rileggere tre o quattro volte, come a me è capitato, in età diverse della vita propria, quel libro fa un’impressione variante perché viene da ciascuno dei suoi lettori impersonato in modi alquanto diversi dalla lettura precedente e questo è capitato anche a me. Ne parlo oggi perché è l’ultima lettura che ho fatto di quello splendido libro nel quale Marcel assume i più diversi atteggiamenti e comportamenti. A volte Marcel è usato come un nome di fantasia, un personaggio tra personaggi; a volte è soltanto la voce parlante che porta avanti il racconto, a volte è Swann, a volte è l’Autore, a volte è Charlus. Queste maschere a loro volta sono colte dagli specchi in vario modo: i loro vizi risultano in modo impietoso, oppure viene mostrata e descritta la loro mitezza, la loro generosità, talvolta il loro coraggio e talaltra la loro abiezione come gli specchi d’un labirinto che ti ritraggono fedelmente oppure deforme, nano o gigante, concavo o convesso nelle pieghe del volto e del corpo. Sappiamo tutti che la “Recherche” è un viaggio nell’inconscio, nelle nevrosi dell’autore. Un’autoanalisi attentissima e minuziosa in un’epoca in cui la psicoanalisi freudiana si era da tempo imposta come terapia psichica ma anche come racconto della psiche e delle sue deformazioni, incidendo profondamente sulla cultura novecentesca. Ma Marcel dà sempre fattezze femminili a un personaggio reale maschile e ai suoi amici omosessuali. Dico questo per segnalare l’ambiguità del testo e il fascino che quell’ambiguità emana. “Amore vuol dire gelosia” sono le parole di un vecchio tango di moda negli anni Trenta del Novecento e sono il nucleo centrale della nevrosi proustiana e del romanzo di cui stiamo parlando. Come è dolorosa la vita di quell’uomo in pena, chiuso in un corpo ammalato cui manca il respiro soffocato da un’asma che si confonde con l’ansia dell’anima, si macera nella gelosia, nel sospetto, nei desideri che è la stessa gelosia a suscitare; desideri impuri, come Marcel li definisce impietosamente. Naturalmente subì molti tradimenti dai suoi compagni tra i quali di volta in volta ne sceglieva uno ed era corrisposto per un periodo quasi sempre breve e quindi nella sua opera cambiava loro nomi e volti. Ad un certo punto del libro Proust ammette che l’amore è indissolubilmente legato all’apparato mentale che la sua gelosia gli ha costruito attorno e che svanirebbe d’un colpo nel momento stesso in cui il sospetto diventasse certezza e facesse scomparire la gelosia e il desiderio. Questo modo di pensare non è una malattia soltanto perché ci capita anche se siamo sani nella salute fisica e mentale ma guardiamo da vicino la nostra vita e il nostro Io che la conosce, la determina e la autocritica. Mentre rileggevo per la quarta volta nel corso della mia lunga vita la “Recherche” ho dato anche un’occhiata agli aforismi di Elias Canetti e ne ho trovati alcuni che integrano la lettura di Proust in una maniera letteraria totalmente diversa, ironica, paradossale, ma direi animata da uno stato d’animo e da una condizione mentale che somiglia molto a quella proustiana. Ne riferisco qualche parola. «Il rispetto per la propria donna, fidanzata o moglie che sia, è in gran parte rispetto per la propria controfigura. Ci si rispetta reciprocamente perché si è sempre insieme. Ciò che la donna guadagna così in autorità, lo perde in quanto donna. La sua condotta è parallela a quella dell’uomo e non le è consentito tralignare dal modo d’essere di quest’ultimo. Donna potrà ancora esserlo, tutt’al più, quando lui e lei non sono insieme; in tal caso ella guarda verso di lui, invece che procedere al suo fianco». «Chi adora il successo è comunque perduto: se lo ottiene, finisce per assomigliargli; se non lo ottiene, si strugge nel più falso degli aneliti». «In un’epoca meno commerciale il successo si chiamava ancora gloria; forse allora era più bello». «Io temo stelle che non conosco». Non vi pare che queste considerazioni di un autore così diverso da Marcel descrivono una mente e un personaggio che integra in modo completamente diverso il precedente? Naturalmente questo autoesame condotto in modi così diversi non è il solo. La letteratura moderna ne è gremita. Pensate a Novalis, a Schopenhauer, a Pascal, a La Rochefoucauld e soprattutto a Montaigne. In tempi come quelli che stiamo vivendo dovrei raccomandare la lettura di questi libri ai nostri uomini politici dei vari partiti che sono tra loro in fiera battaglia. La politica senza cultura vale molto poco, predominano gli intrighi e la passione del potere: senza una cultura che li assista somigliano più all’animale che all’uomo responsabile.

Proust e il quadro più bello del mondo. Il dettaglio di un “muro giallo” nella “Veduta di Delft”. Il dipinto di Vermeer affascinava lo scrittore tanto da far morire un personaggio. Bernardo Valli su L'Espresso il 5 marzo 2017. Ho fatto invano quattro ore di coda nel Louvre per rivedere il «più bel quadro del mondo». La malaticcia luce del febbraio parigino filtrava dalla piramide, voluta da Mitterrand e disegnata dall’architetto Pei, e illuminava il nome stampato a grandi lettere all’ingresso della galleria dedicata alle mostre: VERMEER. La folla dei visitatori era densa, impaziente come quella dei grandi magazzini Lafayette nei giorni di liquidazione. L’attrazione esercitata dal nome del pittore olandese prosciugava in quelle ore la clientela dei negozi sulle vicine rive della Senna. I suoi quadri banalizzavano la loro eleganza. Il loro lusso. Nella galleria immersa in una penombra rispettosa delle opere esposte ho cercato invano la “Veduta di Delft”, appunto «il più bel quadro del mondo». Non c’era e non ci doveva essere. Non avevo letto con attenzione il sottotitolo, pur ben visibile, sul manifesto che precisava “VERMEER e i maestri della pittura di genere”, cioè dei tratti della vita quotidiana. La “Veduta di Delft” era dunque esclusa, non era la sua mostra. Era rimasta all’Aia. La carezza di Vermeer la sentivi lo stesso. L’artista che trasforma «le occupazioni più ordinarie in riti miracolosi» era presente con dodici quadri (sui trentasette aggiudicatigli finora). L’epoca d’oro olandese, esplosa nel Seicento, finita la presenza spagnola, in questi giorni è testimoniata con una sintesi intelligente sulle pareti del Louvre. Se il più anziano Rembrandt è l’anima severa della pittura di quel tempo, Vermeer è l’esatto contrario: è la quiete, la vita quotidiana alla quale sa dare un valore destinato a essere eterno. Le sue opere sono accompagnate da almeno una sessantina di pittori della stessa epoca: Gerard Dou, Gerard ter Borch, Jan Steen, Pieter de Hooch, Gabriel Metsu... tutti impegnati a dipingere le figure umane più comuni, accanto a stoffe, tappeti, fili di seta, lasciati in un naturale disordine. È il panorama dell’epoca felice per l’arte olandese nelle città delle sette Province Unite, dove si è rifugiata la Ragione, ospite meno gradita nel resto dell’Europa. In Olanda Johannes Vermeer ha come coetaneo Spinoza, antesignano dell’illuminismo. E c’è un celebre esule, il più anziano Cartesio, il filosofo razionalista che morirà a Stoccolma dove ci sono meno teologi. Le immagini un tempo dedicate a temi sacri, a santi e madonne, raffigurano la vita domestica, con gli oggetti quotidiani: le seggiole di cuoio orlato con larghe capocchie dorate, l’arazzo persiano gettato sul tavolo, la brocca bianca, la carta geografica al muro nelle case di un paese di navigatori, la porta semiaperta che lascia intravedere un’altra stanza. Ma la visita alla mostra è stata in fondo un appuntamento mancato. Ritrovare a Parigi la “Veduta di Delft”, tante volte vista all’Aia, sarebbe equivalso a un ingenuo omaggio alla presenza di Marcel Proust davanti al quadro che riteneva «il più bello del mondo». Nella primavera del 1921 lo scrittore aveva letto che al Jeu de Paume c’era una mostra di Vermeer. Chiese a un amico di accompagnarlo. Era malandato di salute e non usciva volentieri di casa. Sarebbe morto un anno dopo. Proust conosceva benissimo il pittore olandese e, stando ai biografi, aveva già immaginato Bergotte, uno dei grandi personaggi del suo romanzo, davanti alla “Veduta di Delft”. Ne avrebbe poi raccontato la morte - dopo la visita al Jeu de Paume - nel quinto volume (“La Prisonnière”) della “Recherche”, che stava scrivendo. La visita al Jeu de Paume arricchirà di particolari l’emozionante pagina in cui è descritta l’agonia di Bergotte che moribondo sillaba davanti al quadro «…le petit pan de mur jaune…». Ricordare gli episodi della Recherche è un vizio di vecchi lettori, simile a quello dei vecchi combattenti. Può far sorridere, ma è difficile evitarlo, quando se ne presenta l’occasione. In Bergotte si tende a riconoscere Anatole France, ma forse nel personaggio sono riassunti altri scrittori, compreso lo stesso Proust. Bergotte è affascinato dal «petit pan de mur jaune», dalla «piccola ala di muro giallo». Si trova, rettangolare, a destra del dipinto, ed è luminosa tra i tetti di ardesia verde blu. Bergotte pensa che avrebbe dovuto scrivere così: dando numerose pennellate di colore per rendere le frasi dei suoi romanzi preziose come quello scorcio di muro giallo. Pochi secondi dopo si accascia morto sul divano. Senonché, come molti altri, ho constatato al Mauritshuis dell’Aia che quel muro giallo non è in realtà né un muro né giallo. È un tetto rosa, con sopra una finestra ad abbaino. La libertà di vedere in Vermeer quel che si vuole è sacrosanta.

·        Marcello Veneziani.

Mago, santo, uomo: le metamorfosi di Fiore. Marcello Veneziani è noto e apprezzato soprattutto per la sua attività giornalistica. Luca Gallesi - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Marcello Veneziani è noto e apprezzato soprattutto per la sua attività giornalistica: assunto in Rai all'inizio della carriera, ha fondato e diretto periodici battaglieri, collabora con importanti quotidiani e settimanali e, con cadenza annuale, pubblica interessanti volumi di critica della società. Sarebbe però riduttivo, e ingiusto, limitarsi a considerarlo giornalista: Veneziani è uno scrittore a tutto tondo, e soprattutto un pensatore raffinato, come dimostrano opere quali Sul destino (1992), La sposa invisibile (2006), Dante nostro padre (2020) e la sua ultima fatica, La leggenda di Fiore (Marsilio), impreziosito da una immagine di copertina di Franco Battiato. Abbandonati i toni critici del polemista uso a ridicolizzare il potere con efficaci e caustici giochi di parole, Veneziani indossa qui l'abito del narratore, o meglio, il saio del monaco, dato che il Fiore del titolo è un omonimo di quel Gioacchino da Fiore, teologo e filosofo che, nel XII secolo, da cistercense si fece eremita e predicò l'avvento di una nuova era; dopo l'età del Padre, simboleggiata dall'Antico Testamento e il primo millennio dell'era cristiana, l'età del Figlio, era giunto il momento della terza età, quella dello Spirito Santo. Il Fiore protagonista del romanzo, che incontriamo al momento della nascita e seguiremo fino alla morte, si muove in un non meglio specificato presente, fitto di risonanze mitiche e intrecci simbolici che rimandano a una dimensione spirituale dell'esistenza, quella, appunto, dominata dallo Spirito Santo. Se non si tratta di una colomba bianca, è comunque il Fato, o Destino, a guidare e ispirare le vicende terrene del nostro eroe, che, come il Fiore storico, abbandona tutto per avviarsi alla ricerca del senso della vita in un mondo che ha dimenticato persino di avere un senso. Come in un Bildungsroman, vediamo il giovane Fiore crescere, maturare e fiorire, per poi lasciare dietro di sé una traccia di petali, non solo spirituali, che, se non cambieranno il mondo, saranno stati utili a migliorare, anzi, a trasmutare, il protagonista, che, di volta in volta, diventa mago, alchimista, cenobita, naufrago, padre, figlio e, infine, uomo. La strada percorsa, a volte faticosamente, a volte gioiosamente, attraversa il Mediterraneo e si spinge a Oriente, terra di incontri con uomini straordinari, abitata da mistici carnali e popolata da animali totemici. Il lettore che ha familiarità con il pantheon culturale di Veneziani non faticherà a ritrovare i tanti accenni, più o meno espliciti, agli Imperdonabili cari all'autore: dall'Evola di Cavalcare la tigre al Nietzsche di Zarathustra passando per lo Jung chiosatore del Fiore d'oro e allo Scaligero dedito all'alchimia spirituale e così via, in un divertente carosello di filosofi mischiati a nani, ballerine e anche qualche prostituta, più o meno sacra, ma sempre più dignitosa di tanti intellettuali. Appare anche, trasparente metafora della confusione attuale, una coppia di Papi, Pietropaolo e Gesumino, il primo attivo nelle favelas e il secondo intrepidamente intento a difendere l'integrità spirituale di quel che resta di una Chiesa in macerie, abbandonata dallo stesso Pastore. Nelle parole di Fiore rivolte a dei ragazzini è esposto il credo del protagonista, alter ego dell'autore: «Adorate Dio, amate la patria, venerate la famiglia, ve lo dice uno che abbandonò la sua famiglia da ragazzo e non ne formò una nuova, lasciò la sua patria e fu inquieto con Dio e la religione. E soprattutto fate la cosa giusta anche quando non vi vede nessuno, perché vi vedono gli Dei: e l'onore è dar conto agli Dei».

·        Mario Rigoni Stern.

100 anni fa la nascita. Chi era Mario Rigoni Stern, tra i più atipici e originali scrittori italiani. Eraldo Affinati su Il Riformista il 29 Ottobre 2021. È stato lungo e faticoso il ritorno a baita di Mario Rigoni Stern, nato cento anni fa (1 novembre) ad Asiago e qui scomparso nel 2008 dopo una vita abbastanza atipica per uno scrittore, peraltro fra i più originali nel variegato panorama italiano: alpino combattente su tre fronti della Seconda guerra mondiale (Francia, Albania e Russia), era innanzitutto un uomo d’azione, che aveva studiato poco, potendo vantare soltanto lo scarno titolo di Scuola di Avviamento al Lavoro (la medie inferiori di oggi), eppure nella sua opera letteraria si conquistò con ogni merito i gradi, imprevedibili, sorprendenti, inaspettati, dello stilista più prezioso. Io che lo conobbi personalmente e gli fui amico, posso confermarlo a ragion veduta: non c’era nessuna cesura fra l’uomo e lo scrittore. Quando sull’Ortigara mi mostrava gli scheletri dei suoi penati (giovani militari trucidati sulle creste della Grande Guerra), avevo l’impressione che stesse componendo un testo. E se ancora oggi lo rileggo in certi scorci a me cari, ho l’impressione di ritrovarlo al mio fianco in Val Bersaglio dove mi portava a raccogliere i funghi: una volta trovammo un porcino. E lui mi disse: «Basta così, è sufficiente per condire la pasta. Abbiamo prelevato. Adesso torniamo a casa». Non c’era forse modo migliore per spiegarmi quale dovrebbe essere il rapporto armonico fra uomo e natura. Greta ante litteram. E tuttavia senza scrittura la vita non avrebbe senso. Se egli sopravvivrà nel canone sempre mobile e aureo del nostro Novecento, non sarà a causa della straordinaria avventura bellica che gli toccò affrontare, riuscendo a sopravvivere, sottufficiale della Tridentina, insieme agli uomini che gli erano stati affidati, al micidiale contrattacco sovietico, bensì per la qualità del suo dettato, al tempo stesso asciutto e carico di umori, in equilibrio permanente fra documento e fiaba, con un controcanto interno garantito dal respiro epico in presa diretta o differito nel filtro dolce della memoria. Difficile trovare nei suoi coetanei più celebrati un’uguale autenticità, nella conoscenza profonda, viscerale, dei temi trattati: guerra, prigionia, Resistenza, animali, montagne e boschi fin quanti ne vuoi. Scorriamo, ancora una volta, in una sintetica carrellata bibliografica, i titoli più significativi: Il sergente nella neve (1953), classico tradotto in tutto il mondo, sulla disastrosa campagna di Russia, massimo esempio di narrativa bellica anche nel confronto con altri campioni internazionali, da Ernest Hemingway a Norman Mailer; Quota Albania (1971), diario intimo e cronaca universale, nell’intreccio fantasmatico tra radici autobiografiche e dimensione collettiva; Ritorno sul Don (1973), composto a tasselli, come lo specchio più fedele del suo modo espressivo, perno strutturale dell’esistenza spezzata nella responsabilità del salvato; Storia di Tönle (1978), capolavoro di eccelsa stringatezza lirica, quasi un medaglione di cristallo, sullo sfondo di una civiltà al tramonto; L’anno della vittoria (1985) e Le stagioni di Giacomo (1995), tranche di vita vissuta nell’Altopiano dei Sette Comuni, con il fascino della cartolina popolare, dal 1918 alla nascita del fascismo; Sentieri sotto la neve (1998, dove c’è uno dei risultati più alti: Che magro che sei fratello!, sull’arrischiato ritorno a piedi da Graz ad Asiago), Inverni lontani (1999), Stagioni (2206), veri lasciti spirituali, nel momento in cui il vecchio sergente stava sentendo il tempo venirgli meno. Questa è, come dire, la spina dorsale. L’asse portante. Il nucleo primario. Ma poi ci sono i grandi racconti di taglio breve, la misura preferita, il suo passo di marcia, compresi in Il bosco degli urugalli (1962), Uomini, boschi e api (1980), Amore di confine (1986), Aspettando l’alba (1994), Tra due guerre e altre storie (2000), dove forse potremmo trovare le migliori sorprese. Alla fine di queste vicende di soldati e prigionieri, bambini e anziani, amici e reduci, cacciatori e vagabondi, nevi e malghe, api e cani, piante e foreste, a restare nella mente del lettore resta il timbro di voce del narratore: affettuoso, bonario ma tristemente consapevole del male umano, come di chi, alla maniera di Primo Levi, pur avendo visto la Medusa, non era rimasto impietrito. All’opposto: dopo aver sperimentato lo scempio, frutto dei totalitarismi ma anche della nostra tracotanza, aveva sentito l’urgenza e la responsabilità di raccontarlo: senza enfasi né retorica. Nella speranza, forse vana ma ineludibile, di rendere omaggio ai sommersi. Questo orientamento esistenziale protesse Mario Rigoni Stern da ogni cromatismo romanzesco legittimandone la pronuncia alta e solenne, eppure mai stentorea. A spiegarne l’attività non basta la nozione di realismo. Bisognerebbe tener presente la caratura etica della sua prosa nel rapporto profondo con l’esperienza evocata. C’è lo scrittore organico e naturale di Arboreto salvatico (1991), capace di ricavare intensità descrittiva da una semplice voce enciclopedica; il memorialista rivolto ai giovani, nei cui confronti nutriva una fiducia infinita, come volendo ad ogni costo consegnare a loro il testimone, di L’ultima partita a carte (2002). Siamo di fronte a un’opera solo apparentemente frammentaria, in realtà dotata di una grande coerenza. Quando si trattò di tirare le fila, nel tentativo di presentarla al pubblico per la prima volta in modo organico, Mario Rigoni Stern non indugiò neppure un istante nello scegliere, fra i possibili criteri, quello cronologico relativo agli eventi tematici: infatti nel Meridiano della Mondadori, che quasi vent’anni fa ebbi l’onore di curare, le sue opere non sono presentate, come di solito accade, nell’ordine di pubblicazione, ma secondo la sequenza dei fatti narrati. «Ritenni giusto mettere per primo Storia di Tönle», scrisse Mario nella nota introduttiva, «Infine quello che vado raccontando è come un unico libro. Di questo sono certo: la mia terra, la mia gente, la guerra e io dentro un’unica storia». Eraldo Affinati

·        Mauro Corona.

Maria Corbi per “Specchio – La Stampa” il 20 giugno 2021. Mauro Corona crea oggetti di legno. Ma non chiamatelo scultore: «Io sono un abile artigiano, come diceva Michelangelo. Da quando sentii Valeria Marini dire "noi siamo artisti" mi sono tolto da questa categoria». Per lui le mani sono molto di più di una parte del corpo, connesse intimamente all'anima, al pensiero, all'origine: «Toccare con le mani è istintivo, che sia un oggetto o la testa di un figlio, la spalla di una donna. Jean Giono disse che in pochi conoscono la divina capacità di fare qualcosa con le mani». Un talento naturale è sacrificato da un'educazione che non dà importanza al «saper fare». «Negli asili, alle elementari manderei a insegnare contadini, guide alpine, boscaioli, falegnami, per dare ai bambini il senso dell'uso delle mani, la capacità di farsi le cose da soli». In attesa di una riforma scolastica arriva in soccorso la «moda» del bricolage. «Più che moda definirei questa tendenza un recupero. Ma non per la nostalgia di un passato che non esiste E' l'assecondare questa naturalità che ogni essere ha. E' questo è il futuro, non per salvare un lavoro, un'etica, un mestiere, ma per salvare l'ultima cosa che rimane della natura nell'uomo: le mani». «Io ho 71 anni e quindi ho visto un passato in cui le mani e i piedi erano tutto», continua lo scrittore. «Ho iniziato con mio nonno che faceva sculture di legno, oggetti che poi vendeva d'estate. I miei genitori mi avevano abbandonato e io avevo solo questo vecchio a cui affidarmi. E mentre formavo oggetti con il tornio mi sentivo bene, non pensavo al dolore, alla malinconia».

Poi però non è diventato un falegname ma uno scrittore, un intellettuale che usa la testa, più che le mani.

«Lavorare con le mani guidate dal cervello è come scrivere. Io scrivo a mano perché sento l'idea che va giù dalla testa, passa dalle mani e si colora sul foglio. Io ho bisogno delle dita, poi ricopio in stampatello perfetto, faccio fotocopie e mando tutto alla casa editrice. Usare le mani mi toglie dalle insicurezze, dalla stanchezza dei giorni e della vita, dalla malinconia. Vorrei mettere in piedi una scuola manuale, e anche se Crozza mi fa il verso, lui ha capito che ho ragione. I bambini sono tristi perché gli fanno fare cose che la loro natura non sente. Oggi ci si vergogna a dire voglio fare il falegname, perché si deve fare il notaio, l'avvocato, il commercialista». 

Per Corona lavorare con le mani è una ragione di vita, per altri solo un hobby.

«Anche un contrappeso a tutta questa tecnologia che in qualche moda ci toglie il talento naturale. Ma non è una critica, attenzione, voglio solo ricordare che l'uso delle mani è importante anche per una soddisfazione personale, per la sicurezza. Ripeto, occorre insegnarlo ai bambini».

Lui con i suoi figli lo ha fatto: «Loro da bambini si sono fatti il presepe di legno, o di dash, sanno spaccare la legna, fare l'orto, ma vorrei insegnarlo anche a tuo figlio. Vorrei portare i ragazzi con me. Quando ero in collegio con i preti al Don Bosco c'erano 45 ore di lavori manuali, e anche alle scuole qui al paese. E ripeto, non per nostalgia ma perché è una cosa insita nell'uomo. Quando l'uomo si drizzò in piedi fu costretto a usare le mani, è nell'archetipo umano. Oggi orribilmente ci si saluta con un gomito, ed è di una banalità sconcertante, meglio farsi un cenno con la mano». 

La mano è meglio degli occhi perché ti dà contatto.

«Quando metti le mani su una pianta lei sente che gli dai calore. Da ragazzino andavo con mio nonno a fare gli innesti e quando incideva la pianta mi diceva "mettigli le mani intorno, così lei capisce che ci teniamo a lei, che non vogliamo farla soffrire"». 

Il tatto come senso di elezione.

«Al mio paese c'era un tornitore, Giacomo, che aveva fatto la guerra di Africa e che torniva quasi al buio. Io gli dicevo "metti una lampadina", ma lui rispondeva "a me non serve vedere, io sento". Io che ero un provocatore allora gli chiesi: "se devi leggere un giornale?" Lui mi disse, serenamente "non so leggere"». 

Corona torna continuamente al suo essere bambino, quando capì che per scalare le montagne e la vita aveva un solo alleato, le mani. E torna alla necessità di educare al tatto i bambini: «I bambini usano le mani sulle tastiere, ma è monotono. Toccare la plastilina, il legno l'argilla è toccare materia viva». 

Come fa lui nel suo laboratorio di Erto, poche centinaia di abitanti in Friuli Venezia Giulia nella valle del Vajont.

«Ultimamente da circa un anno e mezzo non faccio più sculture come opere d'arte, scolpisco gnomi, folletti, gufi, civette con il pino cembro e quando passa un bambino gliene regalo uno e vedo nel suo volto una gioia che ricorderà a vita. Quando saranno adulti ricorderanno quel vecchio con la barba bianca che gli regalò un gufo. 

Io da un paio di anni mi sono liberato della vanità. E' l'età. Sono stato anche io competitivo, nell'arrampicata, nella scultura, nella letteratura. È nell'animo umano, più si è stati bastonati dalla vita e più si cerca affermazione. Ma ho capito che ero sulla strada sbagliata, ero un guerriero che perdeva, o vinceva tutte battaglie perse, perché la società mi diceva che dovevo emergere. Volevo i premi letterari, ma oggi, ti giuro, che anche se venissero a dirmi che ho vinto il premio Nobel, non mi affaccerei nemmeno dalla porta. Ora sono un uomo pacifico, sereno, non felice. Non ho più venduto una scultura». 

Una l'ha regalata però alla sua "Bianchina", Bianca Berlinguer.

«Le ho mandato giù un gufo perché aveva bisogno di un porta fortuna. Faccio sculture che siano utili, se mi chiedi un ritratto di donna e lo metti in salotto dopo un mese non ti accorgi che c'è. Ma se ti scolpisco una sedia tu hai la scultura e anche la sedia. Ho fatto delle librerie piene di creature del bosco».

Le mani per fare e anche per arrivare in luoghi inerpicati nella propria anima o nella testa. «Quando ci si arrampica è tutto un tastare, toccare. La roccia non è morta. Io non arrampico per conquistare, ma per sentire, per palpare, per sfiorare. Ogni appiglio ha una sua struttura. Ogni centimetro è pieno di sensazioni, ogni metro mi propone la sua sensibilità, io ci chiacchiero con le mani. È come giocare a scacchi, a ogni mossa ne possono seguire migliaia, come nella vita».

Da liberoquotidiano.it il 15 dicembre 2021. Un commovente Mauro Corona svela in diretta a CartaBianca i dettagli più intimi e dolorosi della sua difficile infanzia. In collegamento con Bianca Berlinguer a Rai3, lo scrittore montanaro dopo aver mostrato alla telecamera le sue ultime opere da scultore in legno (dopo "L'Albero di Natale", ecco "Le finestre sul bosco") parte alla critica per una pubblicità che sta facendo il giro del web, quella dell’agenzia immobiliare extra lusso che sui cartelli in strada saluta chi non si può permettere le sue proposte con un sarcastico "ciao povery". "È un insulto a chi non ha da mangiare - incalza Corona -. Ormai nella pubblicità c’è un’anarchia per cui tutto va bene purché attragga l’attenzione". E qui l'opinionista entra nel personale: "Quando ero piccolo, a Natale mi davano solo cenere dicendo che ero stato cattivo. Solo anni dopo ho capito che in realtà lo facevano perché non c’erano soldi per farci i regali. Andavo anche a chiedere l’elemosina con mia nonna. Lì ho preso tanto coraggio". E una buona dose di ironia, come dimostra rivelando cosa gli scrivono gli ammiratori in privato: "Mi arrivano mail di persone che hanno perso il lavoro, di chi ha figli disabili. Una signora di 83 anni mi ha scritto che ha una pensione inferiore ai 500 euro e non riesce a vivere - poi, meno serio -. Chi mi scrive che sono bello? O non vedono o mentono!". Spazio anche per l'attualità politica. Impossibile non chiedergli una parola sul tema del giorno, il "patriottismo" evocato domenica ad Atreju da Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, per il prossimo presidente della Repubblica: "Per me la parola patriota ha un significato importante - sottolinea Corona -, penso ai caduti… a quelli che sono morti o sono imprigionati e torturati per la patria. Sul Monte Piana sono morti tanti giovani, il più vecchio aveva 24 anni. Per me questi sono i patrioti." 

Antonello Caporale per “il Fatto Quotidiano” il 7 giugno 2021. "La televisione ti propone di regredire, retrocedere alla condizione di un bufalo, bruciare con le parole il pensiero, far saziare il fanatico dicendo una castroneria, oppure lanciare una cattiveria perché in tv il peggio è persino un pregio. Richiama gente che dirà: ma guarda tu che stronzo è questo qui. Io accetto volentieri questa disfatta". È davvero un mistero glorioso il matrimonio di Mauro Corona con la tv. Narcisismo, voglia di vendere un po' di libri, perché i soldi possono servire a necessità familiari, a urgenze. Mauro Corona era uno scrittore di pietra e di legno. Destinato a una vita selvatica, perciò curiosamente popolare. È stato ingabbiato recentemente, da qualche mese è tradotto negli studi di Cologno Monzese. Erto è la mia spada, il mio fianco, la mia dimensione e il mio destino finale.

Temeva che senza la tv non sapessero della sua esistenza?

La tv ti droga e sei finito. 

Ancora non mi è chiaro perché sia finito da Del Debbio, a parlar bene della Meloni.

In tv ci sto perché sono narciso, perché voglio apparire. Dobbiamo dircele le cose. 

Lei è un devoto della verità.

Mio nonno diceva: se devi annegare allora vai in un mare grande.

La tv sarebbe il mare grande?

Esatto. 

Non ha bisogno di vestiti di scena, è barbarico, esonda oltre i confini della ragione.

Bisognerebbe dirsi anche un' altra verità: in tv devi andare senza aver bevuto e mangiato. Ti scappa una parola, a me ne scappano molte. 

Più ne scappano e più si alza lo share.

Mi voglio disintossicare, vorrei smettere. In autunno smetto. 

Condivido.

Se ce la faccio smetto, ma non sono sicuro. 

Ora è sotto contratto con Mediaset.

Vorrei tornare a Raitre. Quella è casa mia. Vorrei ritornare da Bianchina. 

Con la Berlinguer c' è una bella connessione.

Per fare la guerra a Bianchina il direttore di rete Franco di Mare (Frank Del Lago, lo chiamo) ha fatto fuori me. Quell' epiteto ("gallina!", ndr) di cui mi sono ampiamente scusato è stato il pretesto. 

Con la parola scritta ci sa fare bene perché rimpiazzarla con le urla?

Le cafonerie? 

Anche.

Devo dire che con Del Debbio c' è un bel rapporto. 

Devo dire che non si capisce niente. A volte.

Perché irrompo, non penso, dico anche ciò che non si potrebbe, o non mi faccio capire come dovrei. Per esempio: sono di sinistra ma se il centrodestra fa una cosa buona io dico evviva il centrodestra.

Si capisce e non si capisce.

Sono del Pd, sono comunista, ho votato Rifondazione. 

È dentro il flusso afflittivo?

Se non sei in tv muori e nessuno lo sa. 

Corona ci è andato da vivo.

Anche per soldi, diciamoci la verità. Nel senso che qualche libro in più lo vendi. 

La pagano poco?

Cinquecento lordi a puntata a Raitre, a Mediaset siamo a settecento. Togli le tasse e tutto finisce in spiccioli.

Disintossichiamoci.

Lo penso veramente. Chissà se in autunno ci sarò. 

Tra l' altro le sue montagne l' aspettano. La sorella roccia, il fratello abete. E poi il faggio, la roncola, lo scalpello.

Proprio adesso sono sceso dal monte. 

Erto.

Qua piove sempre. 

Perché si maltratta così?

Se faccio il cafone in tv non significa che sia cafone. 

La tv propone anche il senso cafonal della vita.

Ho letto due tir di libri. 

Nessuno se ne accorge se continua con le ospitate fisse.

La tv è la risacca di noi stessi. 

Senza la televisione saremmo un popolo?

È un popolo per lo più analfabeta. La televisione abbassa il rating dell' intelligenza.

Ma rende la conoscenza istantanea, diretta e orizzontale. 

Ma costringe al mascheramento, alla banalizzazione.

È il motore della democrazia. 

Lei è a favore o contro la tv?

Perché mi sa che i ruoli sono mutati. 

Era per fare l' avvocato del diavolo.

In autunno mi disintossico e smetto, come ho fatto con l' alcol.

Da "liberoquotidiano.it" il 14 maggio 2021. Mauro Corona è diventato un ospite fisso di Paolo Del Debbio da quando i vertici di Rai3 hanno deciso di farlo fuori. Nella puntata di Dritto e Rovescio andata in onda giovedì 13 maggio su Rete 4, il padrone di casa ha riservato una bella sorpresa allo scrittore montanaro, che non si aspettava di ricevere un messaggio di Bianca Berlinguer. Quest’ultima ha cercato di farlo reintegrare a CartaBianca, ma l’opposizione dei vertici è stata netta e quindi Corona ha dovuto cercare ospitalità altrove, trovandola da Del Debbio. “Ciao Mauro, mi hai tradito”, ha esordito ironicamente la conduttrice di Rai 3, che poi ha aggiunto: “Sei andato ospite fisso nella trasmissione di Rete 4, però ti perdono perché il tuo tradimento è stato per causa di forza maggiore ed è avvenuto né per la tua volontà né per la mia. Però comunque vai da un giornalista che con noi di Cartabianca è sempre stato gentile e disponibile. Ma come mi dici sempre tu a telefono, tanto prima o poi - ha chiosato la Berlinguer - io e te torneremo insieme. Un abbraccio a tutti e due”. Corona ha apprezzato il messaggio che lo ha colto di sorpresa: “Che Bianca abbia postato una cosa simile veramente mi ha spiazzato, da lei non me lo aspettavo”. Un’iniziativa di un certo peso, quella della Berlinguer, che già in passato aveva puntato il dito contro la Rai e in particolare il direttore Franco Di Mare, “colpevole” dell’epurazione dello scrittore montanaro contro la stessa volontà della conduttrice di Cartabianca. 

Massimo Falcioni per tvblog.it il 7 aprile 2021. C’è Corona a Cartabianca. Ma si tratta di Marianna, figlia di Mauro, allontanato dal programma ormai oltre sei mesi fa. “Do il benvenuto ad una persona speciale – ha esordito Bianca Berlinguer – questo cognome lo conoscete tutti , sapete che Mauro Corona è stato per tanto tempo con noi e ci dispiace di non averlo ancora”. L’occasione dell’ospitata di Marianna Corona è la pubblicazione di Fiorire tra le rocce, libro scritto da quest’ultima che nel 2017 ha affrontato e sconfitto un cancro al colon. Un confronto toccante, che però non ha impedito alla padrona di casa di allargare il campo e di tornare a parlare dell’ex compagno di viaggio: “Com’è essere sua figlia? Mauro è un padre ingombrante?”. Marianna ha sorriso e ha replicato con ironia: “Pensavo che fosse un papà normale, dopo ho capito la sua stravaganza, ma ero già grandina. Ci ho fatto l’abitudine”. Il rapporto tra la Berlinguer e Corona (che la definì “gallina” durante uno scontro in diretta nella puntata del 22 settembre) non si è mai interrotto, con continui riferimenti e messaggi affettuosi giunti da entrambe le parti. La giornalista ha più volte evidenziato come l’epurazione dello scultore non sia dipesa da lei, puntando il dito contro il direttore di Rai3 Franco Di Mare, mentre dall’altra parte Corona ha sempre omaggiato la sua ‘Bianchina’ nel corso delle sue ospitate lontane da Cartabianca. Dopo qualche apparizione a Stasera Italia Speciale, lo scrittore è diventato una presenza fissa a Dritto e rovescio dove duetta con Paolo Del Debbio nel blocco centrale di puntata. Nulla a che vedere con i siparietti esilaranti con l’ex direttrice del Tg 3, resi surreali dal plateale contrasto tra le due personalità. Un’alchimia unica, difficilmente riproponibile altrove, anche perché darebbe l’idea di una triste e brutta fotocopia.

Agostino Gramigna per il "Corriere della Sera" il 6 aprile 2021. «Mia figlia ha scritto un libro per sopravvivere». Mentre cerca il suo numero di telefono e gli scappa un' imprecazione, lo scrittore Mauro Corona sintetizza in un titolo l' esperienza del dolore vissuta da Marianna. Quattro anni fa sua figlia aveva 38 anni e ha saputo di avere un cancro al colon. Si è chiusa. Ha blindato come in caveau la sua innata riservatezza. Del presente non sapeva cosa farsene. Fino a quando non ha guardato in faccia la malattia. Ha iniziato a scrivere e ha trovato la radice di se stessa. Marianna è stata operata due volte. Adesso sta bene. «Il tumore mi aveva creato un disagio interiore. Ne sono uscita pian piano, ritornando a riconsiderare il corpo che sentivo distante, quasi repellente». Il corpo. Marianna l' ha sempre visto con gli occhi dell' atleta. Mai con i suoi limiti. «Noi montanari cresciamo con l' insegnamento che bisogna essere sempre duri e forti. Come la montagna. È un immaginario che tempra. Prima della malattia mi sentivo forte. Una forza che mi veniva da questo paradigma. Invece ero fragile».

Ha dovuto ricostituire il paradigma.

«La malattia l' ho affrontata in punta di piedi - racconta - partendo dalla base senza guardare la cima. "Non guardarla mai che pian piano arrivi" mi ha sempre detto mio padre.L' uomo che mi ha trasmesso la passione per l' aria aperta e lo sport».

Marianna racconta. I fiori tra le rocce, le pecore che pascolano, le galline e i conigli dei nonni, l' orto, le pareti da scalare, le storie dei grandi scalatori che facevano visita a suo padre. Nei piatti il riso e gli spaghetti rigorosamente integrali.

«Erano gli anni delle cucine alternative, l' ambiente di casa era pieno di arrampicatori, l' arrampicata sportiva stava crescendo e loro s' inventavano queste diete. Io non apprezzavo. Ma Manolo mangiava soltanto integrale e arrampicava da Dio. Ho pensato: mangio spaghetti integrali e voglio vedere se arrampico come lui».

Dopo l' operazione ha cominciato a guardarsi dall' interno.

«Che cosa significa in concreto? Si fa fatica a ritornare a camminare con lo stesso passo di prima. Così mi sono fermata. Osservavo come era fatta una pianta, gli insetti, le tracce lasciate da qualche animale di passaggio. Ho ridato dignità alla stanchezza. Ho ripreso confidenza con il corpo».

È stato in quel periodo che una casa editrice le ha proposto di scrivere il libro.

«Ho accettato con molti dubbi. Ho pensato di mollare. Non fa per me. Non sapevo come si racconta la malattia. Poi la creatività è come fuoriuscita. Durante il lockdown avevo solo un prato e io pascolavo anche due ore come una pecora. Il mio intestino aveva bisogno di camminate e leggevo mentre camminavo».

Nel libro ci sono le piante, i fiori, i pipistrelli, le marmotte, il fossile, le Dolomiti.

«La diagnosi è stata devastante, dolore allo stato puro, sofferenza. E richiesta di aiuto. Ho capito che se non si riesce a raccontare la propria sofferenza ci si arrocca nella paura. Il disagio mi aveva portato ad avere crisi di ansia, a sentirmi inadeguata a dire: ecco sono malata e tutto è finito».

Figurarsi poi l' idea di scrivere un libro...

«Già. Era l' ultima cosa che avrei voluto fare. In famiglia c' è già uno che scrive. Mi bastava... Che cosa ha detto mio padre? "Ti ho conosciuta di più in queste pagine che in tutta la vita". Sapeva del libro, chiedeva ma io restavo sul vago».

Un sospiro.

«Però da allora abbiamo iniziato a comunicare davvero, perché ho imparato a dirgli come sto attraverso gli sms. E anche lui si racconta e mi dice come sta. A voce non riusciamo a gestire l' emotività. Io sono riservata, chiusa, lui invece ha una personalità imperante. Meglio con gli sms. Lo smartphone? Non è capace di usarlo».

Ora Mariana dice che si scrive per sopravvivere.

«L' ho sperimentato in un anno distruttivo come il 2020. Anche se non pubblicherò più nulla scriverò sempre. È un bisogno fisico».

·        Michela Murgia.

Vita da Murgia: sempre contro per avere tutto. Luigi Mascheroni il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. Essere superata in classifica dal libro di Alessandro Sallusti era già qualcosa di intollerabile. Dal libro di Giorgia Meloni, poi... «Adesso anche quelli di destra leggono?», ha chiesto Michela Murgia al suo ufficio stampa. Di più. Scrivono. Michela Murgia scrive da quando era una ragazzina, a Cabras, regione del Campidano di Oristano, riva sinistra del meraviglioso stagno di Cabras, o Mari Pontis: terra acquosa di papere (tante papere), umidità (alta), bottarga (eccellente), nuraghi (all'incirca 75) e fenicotteri rosa. Metà maschi, e metà quote rosa, come tutto nella visione di una donna che prima di essere femmina è femminista e prima di essere scrittrice è militante. «Tutti gli uomini sono maschilisti». «Beh, insomma, parliamone...». «Stai zitto!». La Murgia, che detesta l'articolo determinativo prima dei nomi e la desinenza maschile alla fine di qualsiasi parola, non è Rosa Luxemburg e neanche Simone de Beauvoir. Ma una notevole intellettuale di lotta, di festival, di palco e di talk show. «Come conciliare la lotta al patriarcato con l'amore per la nuova canzone di Elettra Lamborghini che parla di un uomo vero? Ne parliamo stasera con Concita De Gregorio, Mariolina Sattanino e Michela Murgia...». Gli scrittori non ti salvano la vita, ma a volte ti svoltano la serata.

Ottima romanziera (Accabadora conquistò la critica, vinse il Premio Dessì, il SuperMondello e il Premio Campiello: è ancora un libro amato e vendutissimo), teologa così così (il suo trascurabile Ave Mary non convinse L'Osservatore Romano: «fatto di idee banali, rivela una preparazione decisamente insufficiente sulla storia della Chiesa, e in particolare su quella delle donne nella Chiesa»), politologa raffazzonata (diciamo che su Hamas e i generali dell'esercito ha idee un po' confuse) e superba ospite di molte trasmissioni televisive (in entrambe le accezioni dell'aggettivo «superba»), Michela Murgia - riconosciutasi da tempo in un'identità di genere non binaria: né di destra né di sinistra, dividendosi così l'antipatia di entrambe le parti - ha un immenso merito. Quello di essere sempre dalla parte giusta. La sua. Cosa che, non mettendosi mai in discussione, può essere molto consolatorio. Alter ego femminile, oltre che femminista, di Massimo Giannini, e sorella gemella di Tomaso Montanari (al quale lo accomuna l'invidiabile capacità di intervenire su qualsiasi argomento, dalla pandemia al fascismo) Michela Murgia eccelle in tutto (absit iniuria, che è latino, non sardo): nei romanzi, nel giornalismo, nella conduzione delle trasmissioni tv, nel presenzialismo ai festival se non c'è la Murgia in programma, non stampano neanche le shopping bags nel suo esser blogger, drammaturga, critica letteraria e opinionista. E soprattutto faziosa. Meraviglioso esempio di come se non hai idee su come allargare la facoltà di parola, ne trovi sempre di ottime per limitare quella degli altri. «Stai zitto! Ce l'ho io il murgiometro per misurare come va il mondo». Il punto è che il pensiero pubblico dell* Murgia procede sempre per parole chiave: fascismo, maschilismo, sessismo, razzismo e Fregula (ottima cucinata con le arselle). E se come password del wifi ha «Sàlv1n1-Pu77oNë» è solo accidentale. Michela Murgia, la più prolifica delle tricoteuses di Place de la République, attualmente della Stampa, pensa che il maschio bianco eterosessuale sia colpevole in sé e per sé, a prescindere. «Da cosa?», «Da tutto». Pensa che l'italiano sia una lingua discriminatoria, e così taglia le desinenze. Pensa che il femminile non esista, è solo un costrutto sociale, e fa del femminismo, di per sé non una cattiva idea, un'ideologia. Pensa che chiunque non si muova sull'asse Sinistra Italiana, Rifondazione Comunista, L'Altra Europa, La7, Feltrinelli, Repubblica, RaiTre, Salone del Libro di Torino, sia ips* fact* fascista, e fa così del fascismo la maggioranza. Insomma, il mainstream spiegato bene. «Noi decidiamo cosa è giusto, e democraticamente lo imponiamo agli altri». Per fortuna i sardi non sono cocciuti. Sacerdotessa di quella particolare forma di sharia occidentale che è il politicamente corretto Shewa, asterisco e #RestiamoUmani -, ormai più influencer politica che narratrice, inflessibile paladina dell'etica sull'estetica («La letteratura caro Walter Siti - è impegno, o non è!»), la scrittrice sarda - gonne a fiori, contratti disattesi e pacate riflessioni sul conflitto arabo-israeliano - è un'instancabile agit-prop delle giornate internazionali contro l'omofobia, la misogina, la bifobia, la lesbofobia, la transfobia, la binariofobia, la trenifobia, Trenitaliafobia, Italofobia e i passanti ferroviari. Caghinéri. Ma poi ecco il vero problema «Perché non c'erano #donne nella scena iniziale di Salvate il soldato Ryan?». Fedele al motto «Conosci il nemico e la vittoria sarà tua», Michela Murgia, studiando a fondo l'avversario, preparandosi come fosse sempre la sfida della vita, vivendo ogni confronto pubblico come un incontro di Istrumpa, di solito vince. Ma facendo danni devastanti. Il raffinato dibattito socratico sui testi di Franco Battiato le ha scatenato addosso una shitstorm biblica, che in sardo si dice Ti cagu a facci. Negando il femminile, ha permesso a Paola Ferrari di risponderle che «Il femminismo è il passato». Gridando ogni giorno al fascismo, rende gli antifascisti degli esaltati. E additando i privilegi di una supposta élite bianca, etero e maschile, fa della democrazia qualcosa che non è più di tutti ma delle minoranze che ne impongono la loro visione. Poi, dopo l'ideologia, c'è il business. Attivismo, provocazione e dinai. Se non fosse sarda, no logo, struccata, cattolica e così di sinistra, la Murgia sarebbe Chiara Ferragni. Tutto quello che tocca diventa oro, abracadabra, accabadora: romanzi, saggi, pamphlet, audiolibri, spettacoli teatrali, blog, conferenze, podcast... Murgia, vorremo essere come te. «Mi dia del Lei!». Aliena dai luoghi comuni che vogliono i sardi testardi, permalosi e vendicativi, in realtà Michela Murgia ha un raro senso dell'equilibro anche nei momenti dei peggiori scontri politici. Rosario, Azione Cattolica e Quattro mori, è rimasto alle cronache quando salutò cortesemente Matteo Salvini con l'indimenticato «Ti auguru de ci campai a 100 annusu: 99 annusu palasa a terra e un annu morendi». In inglese si dice hate speech. In italiano, murgismo. In fondo, rimane solo da capire come una donna fieramente indipendente e ancor di più indipendentista (sulla Sardegna è più sovranista di Salvini sulla Padania), che ha frequentato l'istituto tecnico industriale e ha cominciato a lavorare in un call center, così nobilmente identitaria e fedele ai propri principi di lotta di classe, si presti a lavorare per gruppi industriali (Gedi, che fa capo alla famiglia Agnelli-Elkann) e gruppi editoriali (la Einaudi-Mondadori di Berlusconi) che sono tanto lontani dai suoi principi ideali e morali. O come possa essere praticante di una religione, come il cattolicesimo, essenzialmente mansplaining. La Sardegna è un'isola stretta fra l'arcobaleno e il Vaticano. E per tutto il resto, visto che l'ironia non attecchisce molto sull'Isola, Sbattirindi. 

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legg…

Michela Murgia, "come è possibile?": cosa spunta dal suo passato e dal suo curriculum. Qualcosa non torna. Libero Quotidiano il 04 luglio 2021. Tutto quello che tocca Michela Murgia è oro. La scrittrice, oltre che essere tale, è anche "una notevole intellettuale di lotta, di festival, di palco e di talk show". È questo il ritratto che il Giornale le dedica spiegando che "se non fosse sarda, no logo, struccata, cattolica e così di sinistra, la Murgia sarebbe Chiara Ferragni". Proprio così perchè la più tendenziosa tra le intellettuali eccelle in tutto. Dove? Semplice: "Nei romanzi, nel giornalismo, nella conduzione delle trasmissioni tv, nel presenzialismo ai festival se non c'è la Murgia in programma, non stampano neanche le shopping bags nel suo esser blogger, drammaturga, critica letteraria e opinionista" prosegue il quotidiano. Ma soprattutto c'è una cosa che le riesce proprio bene ed è l'essere di parte. Insomma, "un meraviglioso esempio di come se non hai idee su come allargare la facoltà di parola, ne trovi sempre di ottime per limitare quella degli altri". Ma soprattutto c'è qualcosa che proprio non torna nel passato e nell'attuale curriculum della Murgia. Il Giornale infatti si chiede come mai "una donna fieramente indipendente e ancor di più indipendentista (sulla Sardegna è più sovranista di Salvini sulla Padania), che ha frequentato l'istituto tecnico industriale e ha cominciato a lavorare in un call center, così nobilmente identitaria e fedele ai propri principi di lotta di classe, si presti a lavorare per gruppi industriali (Gedi, che fa capo alla famiglia Agnelli-Elkann) e gruppi editoriali (la Einaudi-Mondadori di Berlusconi) che sono tanto lontani dai suoi principi ideali e morali". A saperlo. Forse per la stessa motivazione che muove il mondo.

Il delirio di Michela Murgia: "La penso come Hamas". Daniele Dell'Orco il 30 Giugno 2021 su Il Giornale. La paladina del femminismo, dei diritti LGBT e del Ddl Zan posta sui social una sua chat in cui si schiera con i terroristi. Poi rimuove tutto. Quando si dice lo spessore culturale delle argomentazioni. Michela Murgia, pseudo-scrittrice, letterata, influencer e opinionista tv su qualsiasi argomento dello scibile, e ovviamente senza averne alcun titolo, è riuscita nell'impresa di inventare una professione. Molto nobile, non avendone una che la possa definire. Ma la mansione che le consentirebbe davvero di insegnare ad Harvard è: la showgirl dell'assurdo. Da Salvini che avrebbe "trasformato il Mediterraneo in un cimitero", al Ddl Zan che potrebbe "cominciare a modificare la cultura nelle scuole" (detto da una ex insegnante di religione è ancor più inquietante), allo shock per la divisa indossata da Figliuolo, ai maschi che sarebbero come i "figli di un boss mafioso". Si potrebbe andare avanti all'infinito. Ma oltre ad avere una tendenza alla mistificazione totale della realtà verso una ben precisa causa ideologica, tutte le trovate della Murgia (che dispone evidentemente di un team di spin doctor di alto livello, visto che con le sue baggianate riesce a monopolizzare il dibattito per giorni) sono caratterizzate da un inquietante riduzionismo di fondo. Per la Murgia tutto è bianco o nero, ogni questione, anche la più complicata, si risolve in pochi minuti con una frase ad effetto, una tesi strampalata e senza la benché minima conoscenza del tema specifico. L'ultima trovata, in ordine di tempo, è se possibile il suo manifesto ideale. Poche ore fa, magari in preda alla noia, la Murgia ha postato tra le storie di Instagram uno screenshot (poi scomparso) di una vecchia chat su Whatsapp con un interlocutore misterioso che le chiedeva cosa pensasse del conflitto tra israeliani e palestinesi. Questi, già nella premessa, ritiene erroneamente di parlare con una persona molto profonda e consapevole, dalla quale poter acquisire qualche punto di vista inedito. E chiede: "…so che è una domanda complicata – scrive il mittente alla femminista – che è difficile capire dove stanno i torti e le ragioni, ma puoi anche non rispondere subito…". Turbo-Murgia però, al contrario, non ha proprio motivi per prendersi tempo. Del resto, si tratta di uno scontro per nulla ingarbugliato, che va avanti da appena 80 anni e che non richiede alcun tipo di delicatezza e di apertura mentale. Dopo tre minuti, di numero, risponde: "Non è affatto complicato. La penso come Hamas". E come se non bastasse, il tutto accompagnato da una didascalia dal tono rafforzativo: "Pulire le cartelle delle immagini e trovare vecchi screenshot di cui andare ancora fieri". Ma fieri di cosa? Il conflitto arabo-israeliano continua a mietere vittime, a costringere decine di migliaia di persone a vivere in un clima indecente, a creare spaccature ideologiche anche all'interno degli stessi fronti contrapposti. Ma per la Murgia è tutto semplice: basta pensarla come Hamas. Un movimento, è bene ricordarlo, che Israele ma anche Unione europea, Stati Uniti, Canada e Giappone, indicizzano come organizzazione terroristica. E che, in qualsiasi modo la si possa pensare sul conflitto in sé, ha una matrice fondamentalista islamica per nulla "petalosa" e nient'affatto amica dei diritti delle donne, degli omosessuali e in generale delle altre culture. Hamas, insomma, sconfessa in toto tutto ciò che la Murgia predica 364 giorni all'anno. Quando non è impegnata, in quello che avanza, a scandagliare le chat di Whatsapp e a riuscire nell'impresa di dire castronerie contrarie a quelle che professa di solito ma parimenti assurde.

Daniele Dell'Orco. Daniele Dell’Orco è nato ad Alatri nel 1989. Giornalista pubblicista, è laureato in Scienze della comunicazione presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Ha conseguito il Master in giornalismo Eidos e ha perfezionato gli studi presso la Cuny University di New York. Ha diretto la rivista trimestrale cartacea Nazione Futura. È stato editorialista de La Voce di Romagna ed è collaboratore del quotidiano Libero e del Giornale.it. Per il portale InsideOver ha realizzato reportage da dieci paesi del mondo. Nel 2015 ha fondato la casa editrice Idrovolante. Ha scritto 7 libri. 

Massimo Arcangeli per “Libero quotidiano” l'8 giugno 2021. Il 15 novembre 2017, in un articolo per l'Espresso, la scrittrice Michela Murgia propose di sostituire patria con matria per rimediare ai danni arrecati dal patriottismo nazionalista del maschio prevaricatore. Tra patria e matria, secondo lei, correva la medesima differenza esistente «tra una somma e una moltiplicazione: se la patria è il luogo che ti riconosce, la matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque». Un modo inutilmente antagonistico, e lessicalmente stravagante, per affrontare il tema. Ora Michela Murgia, usando lo schwa (?) nei suoi pezzi giornalistici, ci ricasca. In principio fu lo slash ("Caro/a collega"). Poi è arrivato l'asterisco ("Car* collega"). Quindi è stata la volta dell'ispanizzante chiocciolina informatica ("Car@ collega"), censurata dalla Real Academia al pari di vocali mediane (la e dito des, per todos e todas) e della x (todxs). Ora siamo alla proliferazione incontrollata: "Caro(a) collega", "Caru collega", "Carx collega", "Caro.a collega", "Caro -a collega", "Care collega", "Car3 collega" (3 è lo schwa "lungo"). Echi più ne ha più ne metta. Ecco l'ennesimo parto impazzito, spacciato per buona pratica d'inclusione, di un politicamente corretto i cui fanatici pretendono di "neutrificare" la lingua senza avere la più pallida idea di cosa significhi scrivere o parlare. "Car? collega", "Car3 collega" o "Caro -a collega", importate in un libro, un documento o un articolo di giornale, sono aberrazioni grafiche, associazioni grammaticali a delinquere. C'è chi sostiene che lo schwa, rispetto all'asterisco, si può pronunciare, e che la pronuncia in questione, indicando un suono vocalico intermedio, si presterebbe bene allo scopo di rendere il neutro: fra una o e una a ("Car? collega"), oppure fra una i e una e ("Car? collegh?"). Basterebbe già questo, ma qualcuno aggiunge che si tratterebbe solo di estendere all'Italia intera certi usi dialettali (chessò, dal napoletano) o di prendere esempio dall'inglese, che di suoni vocalici mediani se ne intende. E se vogliamo scrivere "Cari amici, care amiche"? Optiamo per "Car? amic(h)?, per dire a chi legge - il problema si pone anche per gli altri caratteri "jolly" - che l'h può esserci o no? Tanto varrebbe ripiegare allora su "Cari/e amici/che". Stiamo parlando di modi - non importa se ingenui, bislacchi o maliziosi - del tutto sbagliati per risolvere il problema dell'inclusione. Sono grammaticalmente peregrini, e per giunta, in contesti d'apprendimento, molto pericolosi. Se ne sono accorti ultimamente i nostri cugini francesi. Il 4 maggio scorso il ministro dell'Istruzione, Jean-Michel Blanquer, ha inviato ai direttori amministrativi centrali, ai provveditori agli studi e al personale ministeriale una circolare che vieta di usare forme grafiche colpevoli, specie ai danni di allievi dislessici, di complicare la lettura del francese. La storica Hélène Carrère d'Encausse, segretaria permanente dell'Académie française, e lo scrittore e critico letterario Marc Lambron, nella premessa al testo, hanno accusato i paladini dell'écriture inclusive di brutalizzare, in modo totalitario e arbitrario, i ritmi naturali dell'evoluzione linguistica. Nel 2017 un'altra circolare (22 novembre), emanata dal primo ministro Édouard Philippe, aveva invitato i membri del Governo a rinunciare al la scrittura inclusiva, per intelligibilità e chiarezza, nei documenti ufficiali destinati al pubblico. Uno dei principali imputati era, ed è ancora, il "punto mezzano" (point médian). Immaginiamo che qualcuno un certo giorno ci dica: «Senti, da oggi in poi non parlare più di me dicendo lui o lei. Usa loro». Qualcosa di simile è in realtà già accaduto. Il 19 maggio scorso Demi Lovato, che si è dichiarata bisessuale al primo stadio, genderfluid al secondo e non -binary al terzo, nell'inaugurare un nuovo pod cast (4D With Demi Lovato) ha annunciato di aver deciso di abbandonare per sé, da gender neutral o non -conforming, i pronomi soggetto e oggetto dell'inglese per dire "lui" (he/him) o "lei" (she/her). Non per sostituirli con it ("esso, essa"), il neutro corrispondente, bensì con they/them ("loro"). D'ora in poi, per gentilezza, ci si dovrà rivolgere alla cantautrice americana, quasi fossimo al cospetto di un concentrato di tutte le identità possibili, col pronome personale di terza plurale. Intanto, nell'attesa che qualche buontempone proponga anche da noi un bel loro, una soluzione è già bell'e pronta. Bocciato l@i, inadatto al di fuori dell'alternanza o/a, scartati gli antieconomici luie e lei, lu.e.i e le.u.i, lu(e)i e le(u)i, giubilati gli ancor più sovrabbondanti lu.le.i, lu(/e)i o le(/u)i, e silurati anche i "muti" e poco perspicui l*i e lxi, il candidato perfetto è l?i. Anzi, secondo i titolari di un sito per l'inclusione, potremmo usare ? per il singolare il/lo/la l?; andato/a andat?) e 3 per il plurale (i/gli/le l3; andati/e andat3). Ho parlato di buontemponi, ma avrei dovuto dire intelligentoni

Murgia sconfitta in tribunale ma continua a pontificare in tv. Michela Murgia, la Greta Thunberg della letteratura italiana, la regina del Tua culpa, la rivoluzionaria della messa all'indice, del giustizialismo social, è stata condannata da un tribunale. Gian Paolo Serino - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. Michela Murgia, la Greta Thunberg della letteratura italiana, la regina del Tua culpa, la rivoluzionaria della messa all'indice, del giustizialismo social, della difesa di tutto quel che le occorre per poter attaccare qualcuno, è stata condannata da un tribunale. No, non come Strega (intendiamo il Premio, anzi «la Premia», per rispettare la sua battaglia oggi rivolta all'uso del femminile assoluto). La pasionaria della televisione italiana, sempre imbronciata, continua a predicare allo specchio: qualunque polemica lei si batte per diventare una Saviana. La sua missione è essere critica per essere visibile, la sua posizione è quella di mitragliatrice di banalità sinistrate. La mitragliatrice può usarla solo Lei, come ha confessato inconsapevolmente a Di Martedì da Floris accusando il Generale Figliuolo: «Da un uomo che viene da un contesto militare non ci si può che aspettare un linguaggio di guerra. A me personalmente spaventa avere un commissario che gira con la divisa, non ho mai subito il fascino della divisa». Tranne la sua: tra Rosa Luxemburg e Che Guevara in scialle e babbucce che, in barba ai suoi lettori, sottace di essere stata condannata. Perché la «difenditrice» dei poveri è stata condannata in appello, da lei richiesto, per non aver onorato il suo contratto con una casa editrice sarda. Proprio lei che dell'essere sarda ha fatto il proprio manifesto, candidandosi anche alle Regionali, e la propria fortuna esordendo con il romanzo Accabbadora che le ha dato notorietà prima di darsi al pamphlettismo, sul fascismo e sulla parità di genere nell'alfabeto, pare aver dimenticato a casa, in Sardegna, l'Abc del suo stesso predicare. Dopo la sentenza di primo grado del Tribunale Civile di Nuoro del febbraio 2019, la Corte d'Appello di Sassari ha respinto il ricorso presentato da Michela Murgia in relazione alla vicenda incentrata sull'inadempienza contrattuale nei confronti della casa editrice sarda Il Maestrale. Secondo il Giudice, Michela Murgia aveva omesso di portare a termine e pubblicare il romanzo Spirito di Corpo, nonostante fosse già stato prenotato nelle librerie e pubblicizzato durante il Salone del libro di Torino nel 2011. Dopo essere stata condannata a pagare 18mila euro più interessi e spese legali (circa 23mila euro), la scrittrice aveva presentato ricorso in appello. E a Sassari, la Corte presieduta da Maria Teresa Spanu ha appena confermato la sentenza di primo grado condannando Michela Murgia. Qualche accenno di scuse da parte della scrittrice? Nessuno. Qualche giornale ne ha parlato? Nessuno. Mentre Michela Murgia continua a parlare di razzismo, di divieti di sbarco fascisti, perché dimenticarsi della propria condanna? Perché non dire nulla? Perché non difendere la Sardegna, terra da lei tanto amata, e non aiutare un piccolo editore che ha avuto il merito di scoprirla? Speriamo che oltre in Tribunale si inizi a fare giustizia anche nell'utopico reato di mancata coerenza.

Mauro Lissia per lanuovasardegna.it 18 Novembre 2015. La società editrice nuorese “Il Maestrale” ha citato in giudizio civile Michela Murgia e chiede alla scrittrice di Cabras 172 mila euro, secondo l’avvocato Paolo Raffaele Tuffu il corrispettivo dei danni per la mancata consegna di un instant book sul corso di giornalismo gratuito organizzato ad aprile del 2011 a Cagliari. Pochi giorni fa la fondatrice di Sardegna Possibile si è presentata davanti al presidente del tribunale civile di Nuoro Riccardo Massera insieme agli avvocati Rita Tolu e Federico Delitala per l’udienza di ammissione dei mezzi di prova. Il giudice si è riservato la data della prossima udienza. La vicenda è più semplice di quanto si presenti la controversia giudiziaria: il 10 maggio 2011, sette mesi dopo aver vinto il premio letterario Campiello, la scrittrice s’impegnò coi responsabili del Maestrale a scrivere il libro - il titolo era “Spirito di corpo” - per un compenso di 5000 euro e ne incassò la metà come anticipo. La consegna era prevista per giugno del 2011. Doveva essere il racconto dell’esperienza vissuta dalla redazione formata da venticinque aspiranti giornalisti insieme alla scrittrice e ai docenti. Ma soprattutto il resoconto di un’iniziativa importante, l’apertura di una scuola di giornalismo, che era naufragata per l’intervento dell’Ordine dei giornalisti. Dopo una sequenza di segnalazioni, il presidente dell’Ordine Filippo Peretti ricordò infatti alla scrittrice le regole da seguire e il rischio che avrebbe corso producendo, com’era nei progetti, una pubblicazione curata dai giovani corsisti. La notorietà della Murgia e la situazione di crisi dell’editoria, con la chiusura di Epolis e numerosi giornalisti disoccupati, alimentarono la polemica, che andò oltre i confini dell’isola. Alla fine fu la scrittrice a rinunciare al libro-racconto quando erano stati scritti e in parte diffusi sul suo blog solo cinque capitoli: forse Michela Murgia si rese conto che la pubblicazione di quel volume avrebbe provocato reazioni pesanti nel mondo giornalistico sardo e problemi agli studenti, che temevano di vedersi bloccata sul nascere la possibilità di accedere alla professione. Così, accantonato l’instant book con dichiarazioni pubbliche piuttosto risentite, la scrittrice propose al Maestrale due alternative: il romanzo breve “L’Incontro” già uscito come racconto sul Corriere della Sera, e il testo “Altre madri” edito da Einaudi nel 2008. I responsabili del Maestrale però non accettarono, anche perché si erano già accordati con Rizzoli per l’uscita dell’instant book pattuito. Non solo: l’opera era stata promossa sul mercato editoriale con notevoli investimenti economici in vista del salone internazionale del libro di Torino, dove compariva fra i volumi in uscita. Insomma: il Maestrale coltivava grosse aspettative editoriali e il passo indietro della Murgia fu un duro colpo anche sul fronte finanziario. A leggere il ricorso dell’avvocato Tuffu c’erano molte copie vendute ai librai ancor prima dell’uscita – nel ricorso si parla di ventimila – e guadagni certi che sfumavano, quello che in diritto viene definito lucro cessante. Cui si sarebbe aggiunto il danno d’immagine per una casa editrice piccola ma ambiziosa come quella nuorese. La fitta corrispondenza che seguì alla rottura del contratto non risolse la controversia. La scrittrice offrì la restituzione dell’anticipo e cercò un’accordo ma il Maestrale restò e resta tutt’ora sulle proprie posizioni, accusandola di inadempienza del contratto. Ora a decidere chi ha ragione sarà il tribunale civile.

Michela Murgia, "cosa dicono di lei in privato". Umiliazione per la scrittrice, chi vuota il sacco sui salottini di sinistra. Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. Picchiare, durissimo, contro Michela Murgia. A farlo è Guia Soncini, in un articolo su Linkiesta, in un commento che muove dal surreale attacco della scrittrice al generale Paolo Figliuolo, "solo i dittatori girano con le divise", disse la Murgia da Lilli Gruber a Otto e Mezzo. Frasi che ovviamente hanno suscitato un vespaio di polemiche, uno sfregio gratuito a Figliuolo, velatamente paragonato addirittura a un dittatore. "Le persone in divisa mi fanno paura", ha aggiunto la scrittrice dal cuore rosso. E nel suo pezzo, la Soncini parte da una premessa durissima. Che recita: "Prima premessa: Michela Murgia è la figura pubblica più insolentita in privato e meno contraddetta in pubblico d’Italia. Con l’energia che giornaliste e scrittrici investono nel dire che la Murgia è il male si potrebbe illuminare la Lombardia. Tuttavia nessuno (o comunque: pochi), in pubblico, le dice mai anche solo ma cosa diavolo stai dicendo", svela. Insomma, secondo la giornalista la Murgia, eufemismo, godrebbe di scarsissima popolarità. Eppure, per misteriosi ragioni, nessuno si "permette" di darle contro, almeno in certi ambienti, politici e non. Dunque, la "seconda premessa: che i detrattori della Murgia tacciano è una buona notizia. Significa che essere una donna non inficia la tua possibilità d’essere percepita come una persona di potere. Significa che si possono avere le tette e andare ai materassi", aggiunge. Infine, la Soncini si dedica sulla frase "a me personalmente spaventa avere un commissario che gira in divisa". E scrive: "Si spera nella grande tradizione italiana dei virgolettati inventati, ma no; Murgia pensa proprio che spaventare sia intransitivo, e che quindi l’accusativo mi spaventa sia in realtà il dativo a me spaventa". Già, tutto drammaticamente vero...

Estratto dell'articolo di Guia Soncini per linkiesta.it l'8 aprile 2021. […] ieri girava in rete un minuto (ma per vederlo ci vuole un’ora, giacché il sito di La7 è evidentemente stato progettato da qualcuno che rimpiange i telefoni a gettone) di Michela Murgia a Dimartedì. Prima premessa: Michela Murgia è la figura pubblica più insolentita in privato e meno contraddetta in pubblico d’Italia. Con l’energia che giornaliste e scrittrici investono nel dire che la Murgia è il male si potrebbe illuminare la Lombardia. Tuttavia nessuno (o comunque: pochi), in pubblico, le dice mai anche solo «ma cosa diavolo stai dicendo». Seconda premessa: che i detrattori della Murgia tacciano è una buona notizia. Significa che essere una donna non inficia la tua possibilità d’essere percepita come una persona di potere. Significa che si possono avere le tette e andare ai materassi. Alla terza premessa arrivo dopo, prima vediamo cos’ha detto la Murgia. La domanda di Floris era sul linguaggio militaresco di Figliuolo. La risposta della Murgia conteneva questa frase, con cui la rete televisiva ha intitolato il filmato: «A me personalmente spaventa avere un commissario che gira in divisa». Si spera nella grande tradizione italiana dei virgolettati inventati, ma no; Murgia pensa proprio che «spaventare» sia intransitivo, e che quindi l’accusativo «mi spaventa» sia in realtà il dativo «a me spaventa». Incredibilmente, ieri l’Italia (l’Italia che invece di lavorare sta su Twitter) non s’interrogava sul dovere degli intellettuali di conoscere i verbi (e anche le preposizioni: «questo fascino per l’uomo forte», proseguiva, e resterò col sospetto che intendesse «fascino dell’uomo forte»)[…] Terza premessa: la parità tra i sessi sarà raggiunta quando a una donna verrà detto «ma cosa cazzo dici» col piglio con cui lo si direbbe a un uomo. E quando alle donne autorevoli (qualunque cosa se ne pensi, Murgia ha un gran seguito) si risponderà con pari autorevolezza. […]  Se Murgia era seria, meritava risposte serie. Lo era? «Quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre», proseguiva Murgia per significarci che lei non subisce il fascino, che sia delle stellette o per o con o su. Evocando poi dittature sudamericane. Lei quando vede la divisa pensa al colpo di stato. Pensa all’Uruguay, pensa all’Argentina. È serissima, come sempre lo sono i grandi autori, quando ti cambiano la storia della comicità con la faccia un po’ triste, e la destra s’indigna, le orfane dei generali s’offendono, Calenda ci casca. Proprio Calenda, che pure dovrebbe riconoscere una grande soggettista quando la vede. […] […] la Murgia vi regala soggetti cinematografici epocali, e voi la trattate come una polemista di quart’ordine. Non ve la meritate. Speriamo che almeno Draghi ne capisca la grandezza, e conceda il patrocinio della presidenza del Consiglio al prossimo Vogliamo i figliuoli. […]

·        Michelangelo Buonarotti.

Michelangelo era alto solo un metro e sessanta. La scoperta dall’analisi delle sue scarpe. Grazie all’analisi delle calzature di Buonarotti è stato tracciato l’identikit dell’artista. Al Fapab di Avola i paleontologi delineano anche il quadro clinico. Stefania Di Pietro su L'Espresso il 4 novembre 2021. Le calzature di Buonarroti rappresentano degli esemplari rari, poiché la maggior parte dei suoi effetti personali non sono mai stati ritrovati. Ma è da un suo paio di scarpe in cuoio e da una pantofola altrettanto spartana che si è arrivati ad una conclusione sulla statura del grande genio rinascimentale. Queste babbucce in pelle, tessuto di fortuna per la gente dell’epoca, sono conservate nella casa-museo fiorentina e sono state a lui attribuite da due studiosi italiani: il paleopatologo Francesco Maria. Galassi, ricercatore esperto in archeologia e corrispondenza tra resti umani e malattie del passato e la bioantropologa forense Elena Varotto vicedirettrice del Fapab research center (Forensic anthropology, paleopathology and bioarchaeology) di Avola, in provincia di Siracusa. Il duo di ricercatori ha analizzato i preziosi reperti forniti da Casa Buonarroti, diretta da Alessandro Cecchi, ricavandone molte notizie sulla vita e l’aspetto fisico dell’artista. «Abbiamo effettuato alcune analisi antropometriche su due scarpe e una sola pantofola del maestro, quest’ultima l’unica ad essere stata ritrovata poiché l’altra fu rubata il 14 gennaio 1873. Le ciabatte mostrano uno stile di foggia maschile corrispondente perfettamente a quello che veniva utilizzato all’epoca», spiegano i due esperti. Dalle dimensioni delle scarpe è stato possibile calcolare la corrispondente altezza del proprietario, confrontata poi con la descrizione storica della sua figura, fino a tracciarne un profilo completo. «Dopo aver acquisito lunghezza e larghezza delle scarpe attraverso l’utilizzo di un calibro, sono state effettuate delle accurate analisi di proiezioni matematiche e calcoli statistici di regressione lineare, arrivando alla misura esatta della statura e soprattutto al fatto che tutte e tre le calzature appartengono con sicurezza alla stessa persona». Generalmente si è soliti infatti stabilire un rapporto di circa sei pollici e mezzo di altezza per ogni pollice di lunghezza del piede e successivamente, dalle misurazioni antropometriche, è possibile giungere alla chiara ricostruzione della statura di un individuo. In questo caso gli studiosi hanno potuto chiarire che il «gigante» dell’arte universale non fosse «colossale» da un punto di vista fisico, arrivando a misurare poco più di un metro e sessanta. Lo studio del Fapab è stato recentemente pubblicato sulla rivista scientifica internazionale Anthropologie. Più di cinquecento anni fa, nella biografia intitolata “Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori”, lo storico e pittore Giorgio Vasari, grande ammiratore di Michelangelo, lo descrisse con cura come un uomo «di statura mediocre, di spalle largo, ma ben proporzionato con tutto il resto del corpo». E come non credere a colui che Michelangelo chiamava «Messer Giorgio», «l’amico più caro», mentre Vasari si pregiava di chiamarlo «Michele Agnolo», il «divino e meraviglioso artista», considerando l’averlo conosciuto «la più grande delle infinite felicità umane». Il rapporto tra questi due grandi uomini dell’arte è stato forte e duraturo, tanto da condurre Vasari a farsi avanti per il completamento del sepolcro monumentale dell’artista, lasciando ai ricercatori moderni anche un messaggio in bottiglia, in modo da non dimenticare mai il geniale amico. Un connubio, quello tra storiografia e scienza, che ha offerto agli studiosi del Fapab l’opportunità di ricostruire l’immagine di un artista unico, ribelle, irascibile, permaloso, eternamente insoddisfatto, capace di misurarsi faccia a faccia con Papi e Imperatori, pur di far valere le sue idee. Le calzature di Buonarroti, povere sia nella fattura che nel design, versavano in uno stato di logorante usura, che ha reso ancora più complicato il percorso di studi, determinando una scelta obbligata per i paleopatologi, abituati da sempre a lavorare costantemente su reperti di assoluta rarità. È stato dunque necessario scegliere una strada più cauta per preservare quegli oggetti da qualsiasi forma di danneggiamento, ovvero evitare le comuni analisi al Carbonio 14, utilizzate di norma per datare i materiali di origine organica, ma che in questo caso avrebbero potuto mettere a rischio l’integrità delle scarpette. L’esperta di Storia del Costume Elisa Tosi Brandi dell’Università di Bologna ha confermato con assoluta certezza che stile e materiali delle pantofole sono coerenti con il periodo in cui visse l’artista. Poche sono, però, le informazioni su di lui giunte fino a noi: sappiamo soltanto che morì a Roma il 18 febbraio 1564, nella modesta casa di piazza Macel de’ Corvi, oggi non più esistente poiché distrutta alla fine dell’Ottocento per fare spazio al Vittoriano. Buonarroti era quasi novantenne e fino a pochi giorni prima aveva lavorato all’ennesima straordinaria opera, la Pietà Rondanini, destinata a rimanere incompiuta. La salma fu recuperata e trasportata a Firenze, dove venne sepolta in pompa magna in Santa Croce: qui ancora oggi riposa in una fossa sotterranea nel monumento funebre allestito dall’amico Vasari, affiancata dalle allegorie piangenti delle arti che il sommo artista aveva padroneggiato in vita. Attualmente, l’interesse degli scienziati si sta spostando verso le cause del suo decesso per ora ignote e su un tema assai sfruttato in paleopatologia, ovvero la ricerca di quali potessero essere le malattie che lo condussero alla morte. Sulla base degli indizi rintracciati nei documenti, gli studiosi del Fapab hanno ipotizzato che Michelangelo soffrisse di diversi problemi tra cui gotta, artrite cronica e saturnismo, una sorta di intossicazione provocata dalla prolungata esposizione al piombo contenuto nei pigmenti usati nella pittura dell’epoca. «Nessuna autopsia sulle spoglie è però finora stata realizzata, ma soltanto le analisi paleopatologiche e antropologiche sui resti effettivi di Michelangelo potranno confermare le sue caratteristiche fisiche ed eventuali patologie», spiegano. Si racconta che quando il grande artista morì, un misterioso gruppo di nobili fiorentini ne trafugò la salma dalla chiesa romana nella quale era sepolto per portarla a Firenze. In Casa Buonarroti, alcune carte inedite hanno dimostrato, però, che Lionardo, l’amato nipote dell’artista, ebbe un ruolo fondamentale nei giorni successivi alla morte. Il corpo di Michelangelo venne trasferito nella chiesa dei Santi Apostoli per volere di Pio IV, ma dopo pochi giorni, Lionardo arrivò a Roma, dove si presentò al governatore della città e qui ritirò una cassa con il denaro e le carte dell’artista, occupandosi del trasporto della salma a Firenze. Come risulta dal ricordo inedito del nipote, il corpo arrivò nella città fiorentina e fu depositato nella cappella dell’Assunta, infine venne trasportato nella chiesa di Santa Croce dove riposa ancora oggi.

·        Milo Manara.

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 6 ottobre 2021.

Milo Manara qual è stata la cosa più anti-erotica che lei sia mai capitato di vedere?

«Il concorso di Miss Italia». 

Come? Lei a Salsomaggiore ha fatto il giurato...

«Una volta e non lo rifarò mai più. Guardavo quei corpi tutti dotati della stessa formale bellezza. C'è qualcosa di più anti-erotico di una serie di corpi tutti perfetti? È come se non ce ne fosse nessuno. Meno male che in giuria con me c'era Franca Valeri».

Le faceva copiare i suoi voti?

«Sì, e non le dico le battute che faceva sottovoce, uno spasso».

La vera visione erotica, lì, era Valeri?

«Ma certo. Una donna intelligentissima, divertente, originale. L'eros è l'elaborazione culturale del sesso, una cosa complicata, cerebrale, della quale il corpo è una sublimazione». 

Nell'autobiografia «A figura intera» lei parla a lungo della sua famiglia d'origine. Ma come reagirono sua madre e suo padre la prima volta che videro i suoi fumetti?

«Non credo che mamma e papà abbiano mai visto un mio fumetto». 

Glieli ha nascosti?

«Ma no, è che io mi sono reso indipendente abbastanza presto, ho lasciato la provincia veronese dove ho trascorso l'adolescenza e da allora non mi sono più fermato. Milano, i lunghi viaggi a bordo del mio camper in giro per l'Europa. Comunque io e mia moglie Luisa abbiamo avuto due figli, oggi siamo anche nonni e i nostri ragazzi hanno sempre visto i miei lavori erotici: be', sono cresciuti benissimo». 

Proviamo a definire la valenza culturale dell'erotismo?

«Qual è l'impulso più forte, quello che non si può sopprimere? Il sesso. E che cosa rende il sesso uno strumento di conoscenza del mondo? L'erotismo. È quello che ho sempre cercato di fare con i miei disegni. Raffigurando un corpo femminile che non sia semplicemente erotizzato , ma che abbia una sua grandezza. Ecco perché - almeno così mi dicono le tante femministe che apprezzano il mio lavoro -, nonostante le forme e la nudità, le donne che io rappresento conservano una certa distanza». 

Come se fossero perse in qualche fantasia personale, inaccessibile?

«È quello che mi sforzo di rendere. Sa, oggi non è facile affrontare il tema del corpo femminile. Il problema è che il confine tra la donna oggetto e la donna sensuale è labilissimo, purtroppo molti fumettisti lo varcano. Pensi che io sono andato a discutere in diversi collettivi femministi e sono sempre stato accolto con tanto di lode. Questo mi ha fatto un enorme piacere. Una delle mie migliori amiche, Cinzia Leone, è una femminista».

 I corpi delle sue donne sono sempre perfetti. Ma l'eros non è anche (forse soprattutto) imperfezione?

«Ma guardi che non sono perfetti. Se le sembrano tali è perché sono riuscito a rendere la psicologia di un personaggio. Il corpo non è nulla senza la psicologia. Questo lo aveva intuito perfettamente Federico Fellini, che era un ottimo disegnatore perché non faceva caricature, ma ritratti psicologici». 

Jean Baudrillard diceva che è nel gioco, nell'artificio che risiede il cuore dell'eros. In altri termini, se calati nella realtà, i suoi personaggi perderebbero la carica erotica?

«Credo di sì, io sono un fumettaro e dunque disegno le mie fantasie. Non le donne come potrebbero essere , questo penso sia chiaro». 

La censura più controversa nella quale Milo Manara è incappato?

«Be', quella che ha destato più scalpore è arrivata l'anno scorso negli Stati Uniti. Mi avevano commissionato delle copertine dei supereroi della Marvel. Tutto bene finché si arrivò alla Donna Ragno. Io volevo raffigurarla nella stessa posizione dell'Uomo Ragno, arrampicata su una parete. Ma il corpo di una donna in quella postura risultò, agli occhi degli americani, scandaloso. Troppo erotizzato. Coprirono il sedere con il titolo, per capirci. Ma nacque un putiferio: sui social molti presero le mie difese, la Marvel alla fine si è scusata ma quella è stata l'ultima copertina che ho fatto per loro». 

E in Italia?

«Fece scandalo una mia vignetta in cui si vedeva Giovanni Paolo II abbracciato a due angeli donna. Un certo Farina invocò la censura in Parlamento, venni convocato dalla Digos».

Come andò a finire?

«I poliziotti mi chiesero un disegnino». 

Lei è conosciuto in tutto il mondo, salvo, si potrebbe pensare, in certi Paesi fortemente osservanti.

«Sì, però pochi sanno che uno dei miei più fedeli ammiratori è il re di un Paese islamico». 

Quale?

«Spenga il registratore».

Manara...

«Diciamo che i miei disegni non può tenerli a palazzo, ma li appende nello yacht». 

E la censura della quale va più fiero?

«Senza dubbio quella del Sudafrica prima di Mandela. Erano gli anni dell'apartheid e un giorno mi chiamarono da Radio Popolare dicendomi che un quotidiano sudafricano aveva inserito i miei fumetti, quelli della serie di Giuseppe Bergman, tra i libri proibiti. Non tanto per l'erotismo, quanto per delle posizioni decisamente anti-apartheid. Ora, al di là del fatto che questa censura mi riempie di orgoglio, la domanda è: come ci sono arrivati lì i miei fumetti in quell'epoca storica e senza Internet?». 

È che voi fumettari siete una rete.

«È vero. Per me un fumettaro è come un fratello. Forse perché ci accomuna la consapevolezza di un lavoro che oltre ad avere un altissimo coefficiente di tecnica, richiede resistenza alla noia. Sa che cosa vuol dire disegnare la stessa identica stanza per decine di volte?». 

Com' era Andrea Pazienza?

«C'è una cosa di lui che pochi ricordano: era velocissimo nel pensare e nel pronunciare la parola giusta. Ricordo una sera: io, lui e Guccini tirammo l'alba intorno alla tavola cantando e soprattutto facendo battute, motti di spirito, calembour».

In Italia il fumetto ad un certo punto ha acquisito dignità accademica. Merito anche di intellettuali come Del Buono, Eco.

«Uh, con Umberto Eco accadde una cosa imbarazzante. Amici in comune mi avevano detto che sua figlia Carlotta, all'epoca adolescente, era una mia ammiratrice. Allora le mandai a casa un disegno. Tempo dopo, ad una cena, incontrai il padre. Eco si avvicinò e mi fece la ramanzina: "Potevi essere meno esplicito"». 

Cuore di padre.

«Francamente non capisco perché ancora oggi continui ad esserci una profonda, culturale e naturale censura dell'eros e non della violenza. Prenda una qualunque serie televisiva. Donne fatte a pezzi, corpi maciullati, pistole. Nessuno dice nulla. Un'immagine erotica, invece, fa scalpore, non si può far vedere. Con il risultato che Internet è diventato il luogo chiave della pornografia. Perché le cose che girano in Rete sono pornografia, non eros». 

Lei ha vinto l'Oscar del fumetto e vari altri premi. Qual è il Paese dove è più apprezzato?

«La Francia è un caso a parte. Lì il fumetto è considerato davvero arte e penso che ci sia un motivo storico: la Rivoluzione Francese e tanti altri momenti chiave sono stati immortalati e diffusi con incisioni, disegni, raffigurazioni che volevano arrivare a tutti, anche a chi non sapeva leggere oppure non arrivava alla pittura. Il nostro Risorgimento no, al massimo lo ha raffigurato qualche pittore. Credo che alla base ci sia un fortissimo orgoglio nazionalista». 

E in America?

«George Lucas ama i miei disegni. Nella serie "True Detective" compare un mio lavoro. Tornando alle donne, Monica Bellucci mi chiese un ritratto e io andai a casa sua a farlo. Con mia moglie Luisa: non mi avrebbe mai lasciato andare a casa della Bellucci da solo».

Ha incontrato le sorelle Giussani, le creatrici di Diabolik?

«Come no. Una sera andai a cena a casa loro, una villa in campagna con tanto di servitori in livrea. Io adoravo quelle due signore, così "Milano-bene", così eleganti che, però, a tavola, facevano conversazioni tipo "Ma come lo sgozziamo quello lì?". Oppure "No dai, quell'altro deve sparire per forza". Insuperabili».

L'amicizia con Fellini. Cosa è stata per lei?

«Moltissimo. Mi telefonò quando vide un mio disegno su Epoca che raffigurava uno dei suoi famosi sogni. Lo colpì perché non misi la parola "fine", cosa che lui odiava: gli ricordava quando, da ragazzino, si rifugiava nella magia del cinema e ad un certo punto sullo schermo compariva inesorabile la scritta "The end"». Avete lavorato tanto assieme. 

Che rapporto avete imbastito negli anni?

«Le racconto un aneddoto. Una volta raggiunsi lui e Giulietta a Chianciano, dove stavano "passando le acque" come si diceva una volta. Lavorammo fino a tardi, tanto che tornare a Milano per me sarebbe stato difficile. Federico cominciò a cercarmi una stanza in albergo ma il suo era tutto pieno e così anche gli altri. Allora fece portare una branda in camera loro e così io dormii una notte con Federico e Giulietta , nella stessa stanza. Fu surreale ma capii una cosa: io avevo la stessa età del figlio che loro avevano perso. Gli mancava moltissimo». 

Manara, abbiamo parlato dei simboli anti-erotici. Qual è secondo lei, invece, il simbolo dell'erotismo contemporaneo, in un esempio al femminile?

«Kristen Stewart. Mi piace quella profonda malinconia, quell'ombra che le vedo negli occhi. Se una persona non mi incuriosisce non c'è eros. E lo dice uno sposato - molto felicemente - dal 1970».

Alba Solaro per "il Venerdì - la Repubblica" il 21 aprile 2021. Come tutti quelli che hanno tanto vissuto, viaggiato, incontrato, Milo Manara è un conversatore leggero e colto, consapevole di sé, autoironico. Rievoca una vita di donnine e fumettini, ma se il discorso vira su Fellini compare la parola giganti: l' understatement che si può permettere uno che ha «attraversato il fumetto in lungo e in largo. «In cinquant' anni di carriera sono stato testimone dell' evoluzione di questo linguaggio e penso sia uno dei pochi elementi di interesse di questo libro». A figura intera, l' autobiografia in uscita per Feltrinelli Comics (testo raccolto da Tito Faraci), è dedicata «a Luisa, che mi ha sopportato in tutti questi anni». La bella signora a cui è sposato da quarant' anni è anche molto riservata; non vuole comparire nelle foto, ma ci segue disincantata e premurosa mentre chiacchieriamo sotto il porticato della villa sulle colline della Valpolicella. In basso ci sono gli stabilimenti del celebre marmo rosso, più in alto i vigneti di amarone, che a fine estate si riempivano di portarine, le ragazze che arrivavano per la vendemmia, spalle larghe, fisici forti da montanare: la prima fantasia erotica di un maestro della sensualità. Nello studio in cima alla casa («le tavole non posso farle vedere, è un lavoro in corso, ispirato a un testo già esistente»), regna la confusione della creatività. Libri, premi, targhe, riviste, scatole di colori, quadri, ancora libri. In un angolo c' è il poster per La fortuna di Cookie (1999) di Robert Altman: «Doveva farlo un famoso collega francese, ma poi Altman ha preferito il mio. Avevo azzeccato i colori».

Com' è arrivato al fumetto?

«Partendo dal basso che più basso non si può. Fumettacci porno per soldati e carcerati, ispirati a Diabolik però molto più brutti. La qualità era infima, anche la mia, intendiamoci. Ero alle prime armi e questo è un mestiere, non basta saper disegnare. Tanti giovani vengono da me, mi portano pacchi di disegni, e io dico: guarda che per poterti dire qualcosa devi disegnarmi una sequenza, non delle donnine o i ritratti dei tuoi fratelli».

Perché il fumetto è narrazione.

«E nasce come arte popolare. Chiedo perdono agli dei, ma sono fumetti anche gli affreschi di Giotto nella Basilica superiore di Assisi, che raccontano per vignette le gesta di San Francesco. E la Colonna Traiana, non è forse una striscia scolpita, un fumetto a tre dimensioni? Noi pensiamo per immagini. Tutto quello che vediamo nelle nostre città è stato disegnato prima di essere costruito: i palazzi, i semafori, le auto, questa tazzina, il suo anello».

Oggi che i graphic novel vanno ai premi letterari, l' origine popolare si è persa?

«Da un certo punto di vista sì. Ma penso a Banksy: con lui l' arte figurativa che era uscita dalla porta rientra dalla finestra e ridiventa un fenomeno popolare».

Banksy è così popolare da essere diventato un brand. Come lei?

«Beh, io non oserei l' accostamento. Quando Banksy autodistrugge una sua opera appena venduta all' asta, sta contestando proprio lo star system dell' arte: perché un quadro di Picasso deve arrivare a milioni di euro? Ho partecipato alla Biennale di Venezia nel '68, ricordo artisti che aderivano alle lotte operaie, che dicevano: se la classe operaia non va nei musei, portiamo l' arte nelle fabbriche. Come se il problema per gli operai fosse camminare fino al museo e non il linguaggio elitario. Oggi si parla di arte figurativa solo di fronte a installazioni da otto milioni di dollari, come Christo che ci fa camminare sul Lago Maggiore. Tra l' altro io ho qualche pregiudizio nei confronti delle installazioni».

Cosa la infastidisce?

«Credo che una forma d' arte che abbia bisogno del libretto di istruzioni non sia poi così straordinaria».

Parliamo allora di donne straordinarie. Come Louise Brooks: nel libro c' è una tavola rifiutata dove la ritrae a gambe larghe che fa la pipì.

«L' ho poi rifatta più castigata. Quella rifiutata ce l' aveva Sergio Bonelli, aveva comprato l' originale e l' aveva appeso nel suo studio, e ogni volta che ci sentivamo al telefono mi diceva "sono qua che sto guardando la tua pisciona", si divertiva a chiamarla così. Troppo spinta? Ci sono un paio di quadri di giganti della storia dell' arte, uno è Rembrandt, l' altro è Picasso, con donne nella stessa posa da divinità creatrice. Come se fosse il Gange che nasce da Shiva».

Qualcuno però si era evidentemente scandalizzato. Si è mai dato un limite etico nel suo lavoro?

«In linea di principio, no. Ma faccio una netta distinzione tra disegno, fotografia e cinema. Quando parliamo di letteratura o disegno, non parliamo di persone ma di idee, e in quanto tali non dovrebbero essere soggette a nessuna censura o autocensura. Lolita di Nabokov ci permette di immaginare la passione pedofila per una minorenne. Ma se parliamo di film o foto, parliamo di persone in carne ed ossa, allora entra in ballo il codice penale. Ci sono illustrazioni tratte da De Sade con le fantasie più efferate: se fossero rappresentate al cinema scatenerebbero la repulsione».

È quello che ha fatto Pasolini con Salò o le 120 giornate di Sodoma.

«Certo, ma l' ha fatto accostandole al fascismo proprio per indurre il ribrezzo verso la violenza di un regime. Quando ero bambino, c' era un settore della libreria di casa che era chiuso a chiave. Dentro c' erano i libri di Curzio Malaparte, D' Annunzio, ma anche due volumi sul nazismo. Uno era Il flagello della svastica, l' altro Si fa presto a dire fame, non li ho mai dimenticati. Le foto dei campi di concentramento sono insostenibili perché quella è la realtà».

Mentre le fantasie erotiche non hanno mai fatto male a nessuno. O quasi. Le hanno dato del "sessista" per la sua Donna Ragno.

«Era l' ultima della serie di copertine che ho fatto sulle supereroine Marvel nel 2014. Non voglio fare il finto ingenuo: ho preso esattamente una posa dell' Uomo Ragno e l' ho trasferita su un corpo femminile. Se l' avessi inquadrata dal basso sarebbe stato ben più problematico, mi ero posto il problema». Ma non è bastato. «Nella loro beata ipocrisia gli americani fanno finta che le eroine siano vestite quando sanno bene che sono quasi sempre dei corpi nudi colorati. E comunque a protestare di più non furono le femministe ma un gruppo Lgbtq, secondo cui i disegni non erano né politicamente né anatomicamente corretti. Fatto sta che non ho più fatto copertine per la Marvel».

Ammettiamo pure che col femminismo storico i rapporti non siano stati troppo burrascosi, ma è sicuro che sarebbe ancora oggi così?

«So bene che sono cambiate molte cose, e credo che i problemi più grossi oggi li avrei dall' ossessione per il politicamente corretto. Non mi sono mai autocensurato».

Mai? Neppure un ripensamento?

«Solo una volta, nella prima edizione del Gioco. La protagonista si lasciava andare a esperienze erotiche estreme, compresa la zoofilia, e in questo ventaglio di perversioni c' era anche la pedofilia. Me ne sono pentito, d' accordo con l' editore abbiamo poi tolto quella tavola. Oggi non lo rifarei. Come non sarei in grado di rappresentare la violenza sulle donne. Ora ha più visibilità e probabilmente si è acuita perché ci sono troppi uomini che non si sanno adattare al ruolo sociale che le donne hanno conquistato - anche se non è una conquista ma un diritto».

Le immagini spesso sono a doppio taglio. Essere sexy negli anni 80 veniva vissuto come segno di una nuova libertà femminile, ora è usato contro le donne stesse.

«Il mio approccio alla rappresentazione del corpo femminile è sempre stato platonico, idealizzante. E in questo penso di non essere mai stato anti-femminista, anzi. Mi hanno girato di recente un articolo di Michela Murgia che parla bene di me a proposito del Grand Prix de la ville d' Angoulême (Manara e altri avevano ritirato la candidatura al premio nel 2016 perché in lizza non c' era neanche una donna, ndr). Non so come le femministe di oggi giudicherebbero la rappresentazione dell' erotismo in sé. Il mio è un punto di vista eterosessuale, sarà anche un limite, non me ne vanto ma neanche me ne vergogno».

Il fumetto però si è via via popolato di figure femminili sempre più sganciate da un' idea di bellezza omologata.

«Sì, certamente, anche questo è cambiato. Ma io ho sempre privilegiato un corpo diverso, androgino, atletico. Come quello, per fare un esempio di un' attrice oggi, di Kristen Stewart».

Tra Hugo Pratt e Federico Fellini chi le ha cambiato di più la vita?

«Non è facile. Diciamo che Fellini ha cominciato a cambiarmela molto prima che lo conoscessi, quando quindicenne ho visto 8½. Lo vede quel paesino lassù? Si chiama San Giorgio. Una notte eravamo seduti qui, io e lui, al buio. E Fellini, indicando le lucine delle case, mi dice: "Oh guarda, una costellazione artificiale". Mi descriveva i ruderi romani come dinosauri addormentati, sagome enormi contro il cielo. Era la sua caratteristica saliente, vedere cose che i mortali non sanno vedere. Sul piano professionale, però, Pratt ha influito di più».

Galeotto fu un camper.

«Era magnifico, un Saviem usato dall' esercito francese in Algeria, comprato grazie ai soldi dei giornalini porno. Nel 1969 c' ero andato al Salone internazionale a Lucca proprio per conoscere Pratt. Io avevo 24 anni, lui 42. Quando scoprì che avevo il camper mi chiese se potevo dargli un passaggio fino a casa. A Parigi».

Viva l' avventura.

«Con Pratt era così, e andare a Parigi significava fare mille deviazioni, un certo ristorante, una chiesa da visitare, un conoscente da salutare. Siamo diventati amici e di viaggi ne abbiamo poi fatti tanti, sempre io al volante perché lui da vero veneziano non aveva la patente».

Fin dove è arrivato col camper?

«Anche in India. Nell' 83, un viaggio incredibile in un' Asia ancora medievale. Per fare la battitura del frumento i contadini stendevano il grano su questi nastri di strada più o meno asfaltati, aspettando che i camion di passaggio ci marciassero sopra. Alla frontiera con l' Iran non ci avevano fatto passare, così abbiamo spedito il camper in Pakistan via nave e siamo volati a Karachi. Abbiamo aspettato per giorni in un albergo coloniale immenso e decadente; alle sei del pomeriggio restava deserto perché c' era il coprifuoco per via dei disordini, scappava anche il cuoco. È lì che ho disegnato parte di quella che è la mia storia più erotica, Il gioco».

Quanto sono stati importanti i soldi nella sua vita?

«Abbastanza, nella misura in cui mi hanno subito emancipato dal bisogno. Il che è importante se uno vuole fare delle scelte il più possibile libere».

A questo proposito, racconta che dal Corriere dei ragazzi le offrirono l' assunzione. Ma lei rifiutò "per colpa" di Pratt.

«Mi disse: non sei un pollo d' allevamento, sei un uccello da preda, se firmi non ti parlo più. Il consiglio era giusto e ha coinciso con la trasformazione del mio lavoro da professione a confessione. Per Pratt la vita coincideva con la propria narrazione. Lui viveva come Corto Maltese, o ci provava. Ma come ho raccontato con Giuseppe Bergman, oggi se vai nel Sahara pensando di vivere come in Gli Scorpioni del Deserto di Pratt, corri il rischio di essere ammazzato dalla Parigi-Dakar che ti passa lì accanto. Il mondo è cambiato, e l' avventura con la "a" maiuscola è diventata sempre più intellettuale».

Potrebbe mai ritornarle la voglia di fare storie impegnate come Un fascio di bombe su Piazza Fontana?

«L' impegno C' è un passo nella Divina Commedia dove il principe dell' avventura, Ulisse, finito all' Inferno, ai suoi marinai stufi di seguirlo dice: "Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza". Ora, se noi ci alzassimo tutte le mattine e dicessimo sai cosa c' è, oggi seguo virtù e conoscenza, la nostra società salterebbe per aria in una settimana. L' avventura umana come conoscenza ha in sé un germe eversivo. Pratt detestava il fumetto politico e diceva che c' è molta più politica nell' avventura che nel disegnare la vita grama di un operaio».

Un' ultima cosa. Ci svela cosa vi state dicendo lei e la signorina sulla copertina che ha disegnato per noi? Sembrate due vecchi amici...

«Ecco, appunto, è una riflessione sul tempo che passa. Quindi il mio guardarla è puramente contemplativo. È finito il tempo in cui, se vedevamo una bella ragazza, commentavamo su cosa ci sarebbe piaciuto fare insieme (dal fondo si sente la signora Luisa: "Guarda che son qua, eh")».

·        Niccolò Machiavelli.

«Italiani, leggete bene Machiavelli e salverete la vostra democrazia». La provocazione dello storico americano John P. McCormick. Contro le élite corrotte e per un populismo di sinistra, assicura, niente è più attuale del Principe. E le obiezioni di Ginzburg, Viroli, Urbinati? «Sbagliano: vi spiego perché». Gabriele Pedullà su L'Espresso il 10 marzo 2021. Negli ultimi dieci anni nessuno scienziato politico ha probabilmente fatto parlare altrettanto di sé nell’accademia americana. Le sue tesi sono discusse sul “New York Times”. Alcuni dei suoi articoli sono diventati dei veri classici studiati in tutto il mondo. Ha dozzine di seguaci tra gli studiosi più giovani, ma le critiche degli avversari sono sempre più aspre - anche in risposta a uno stile intellettuale che ama il confronto e rifugge dai giri di parole. Si parla di John P. McCormick: cinquantacinque anni, professore di Political Science presso l’Università di Chicago, un antico rapporto con l’Italia (anche di discendenza familiare, per parte di madre). La grande particolarità dell’opera di McCormick è che da più di dieci anni propone di curare le democrazie occidentali con una terapia d’urto ispirata agli insegnamenti di Niccolò Machiavelli, da lui letto anzitutto come teorico del governo popolare e nemico delle degenerazioni oligarchiche. L’uscita presso Viella della traduzione del libro che viene considerato unanimamente il suo capolavoro – “Democrazia machiavelliana” – ha offerto l’occasione per una conversazione a 360 gradi sulla speciale attualità del pensatore fiorentino.

Machiavelli è un classico, naturalmente. Tuttavia, professor McCormick, la sua dedizione rimane abbastanza eccezionale... Su di lui ha pubblicato già due libri e, a quanto so, un terzo è in preparazione - un vero record per uno studioso americano! Da cui la domanda: perché proprio Machiavelli?

«Ho incontrato “Il Principe” all’università, ma è stato durante il master che ho avuto la fortuna di seguire due seminari interamente dedicati ai “Discorsi”, nel 1992. È grazie a quelle lezioni che sono stato conquistato da Machiavelli. E anche se ho iniziato la mia carriera di studioso nel solco della “teoria critica” della Scuola di Francoforte, sono tornato a Machiavelli negli anni 2000, quando la crescente disuguaglianza e l’avventurismo militare sotto l’amministrazione Bush-Cheney mi hanno riportato ai “Discorsi”. Dopo tutto, Machiavelli mi aveva insegnato che i cittadini delle antiche repubbliche punivano le élite molto più severamente per la corruzione e il tradimento di quanto non facciano le democrazie liberali contemporanee. I suoi scritti mettono anzi in chiaro che i cittadini non sono veramente liberi se permettono alle oligarchie politiche e socio-economiche di farla franca causando disastri come la seconda guerra in Iraq, la crisi finanziaria, o, più recentemente, la collusione di Trump con potenze straniere e il suo tentativo di sovvertire con la violenza le elezioni. Chiunque legga Machiavelli con l’attenzione che merita può rendersi conto che le democrazie moderne permettono alle élite di non pagare per comportamenti che lui riteneva andassero puniti con la massima severità. La corruzione dilagante della politica americana ha reso il mio lavoro molto meno “habermasiano” e molto più “machiavelliano”».

Lei non è solo uno specialista di Machiavelli. Infatti, ha ampiamente pubblicato anche sul pensiero della Repubblica di Weimar. Si potrebbe dire che la attraggano proprio i momenti di crisi più acuta…

«Non ho pianificato la cosa, ma in effetti la crisi delle repubbliche democratiche è diventata il mio principale tema di ricerca. Da oltre vent’anni indago sugli effetti che la corruzione plutocratica e oligarchica hanno sulla vita democratica, corruzione che spesso sfocia in colpi di stato autoritari».

Torniamo a Machiavelli. Nell’immaginario comune l’autore del Principe è ancora un consigliere dei tiranni. Gli studiosi hanno cercato di correggere questa idea errata concentrandosi invece sui “Discorsi”. La sua lettura è ancora diversa, però. Perché il suo Machiavelli non è solo un pensatore repubblicano: è filopopolare, ostile alle degenerazioni oligarchiche degli stati liberi.

«Anche se Machiavelli non ha mai usato la parola “democrazia”, e anche se ha espresso serie riserve sulla democrazia ateniese, per me va considerato il primo vero “teorico democratico” del pensiero politico occidentale. Machiavelli cancella la distinzione classica tra aristocratici e oligarchi, accusando le élite socio-economiche di essere sempre agenti di oppressione sulla gente comune. Inoltre, sviluppa i pochi passaggi presenti nel pensiero politico tradizionale in cui si ammette (a malincuore) che la gente comune è in grado di prendere le decisioni giuste, e su questa base edifica una nuova teoria democratica».

La traduzione del suo libro si apre con una nuova introduzione, quasi una piccola monografia, in cui discute gli argomenti degli autori italiani che l’hanno criticata o hanno presentato un’immagine di Machiavelli che lei disapprova.

«Era necessario fare chiarezza! Carlo Ginzburg per esempio ha un’idea ingenua, superata da tempo e troppo elitaria, di Machiavelli, in cui il popolo esiste solo come oggetto manipolabile da principi furbi o da pochi potenti. Maurizio Viroli, da parte sua, distorce gravemente la rappresentazione machiavelliana del popolo, rendendolo altrettanto responsabile delle élite socio-economiche per la crisi della libertà repubblicana: una falsa equivalenza che Viroli usa per attribuire a Machiavelli una teoria alquanto superficiale del “governo misto”. Nadia Urbinati è un’interlocutrice intellettuale assai più sofisticata. Ho la massima stima dei suoi scritti accademici e dei suoi interventi pubblici. Però è vero: su questioni importanti la pensiamo diversamente. Trovo la sua devozione alla democrazia rappresentativa basata sui partiti troppo rigida. Questa forma di democrazia delude sempre la massa dei cittadini perché favorisce intrinsecamente le élite socio-economiche e politiche, spargendo i semi di una disaffezione che può essere sfruttata da leader o partiti antidemocratici. Contro Urbinati sostengo che i sistemi rappresentativi devono essere integrati da specifiche istituzioni di classe concepite per difendere il popolo. Con questo, intendo istituzioni che facilitino il giudizio popolare diretto (come i referendum), e istituzioni che diano direttamente potere ai cittadini comuni (gli equivalenti moderni dei plebei) attraverso il sorteggio (piuttosto che attraverso le elezioni), o assemblee che escludano le élite socio-economiche. Urbinati mi rimprovera che la democrazia diretta rende la politica moderna suscettibile di usurpazioni populiste; ma lei considera il populismo solo come un fenomeno di destra. Traumatizzata dall’esperienza del berlusconismo, tende a ignorare che il populismo può assumere forme progressiste: dal People’s Party di fine Ottocento negli Stati Uniti ai gilet gialli nella Francia contemporanea. Inoltre ritiene che le istituzioni di classe pensate per favorire i moderni plebei violino gli standard illuministici di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, di fatto interpretando la mia proposta come un ritorno al corporativismo fascista. Così facendo, però, Urbinati sembra dimenticare la critica di Marx alla democrazia borghese: un’adesione troppo rigida a una concezione formale dell’uguaglianza può favorire gravi disuguaglianze socio-economiche de facto».

Lei è dunque un populista?

«Sono un difensore del populismo - del populismo di sinistra. La differenza tra sinistra e destra è semplice: il populismo progressista è un movimento che contesta gli ingiusti vantaggi reali di cui gode una minoranza. Il populismo di destra è un movimento che sfida i privilegi immaginari di cui godono le minoranze (religiose, etniche…) più vulnerabili. Penso che gli scritti di Machiavelli anticipino il populismo di sinistra perché incoraggiano i plebei a sfidare le élite e a chiedere loro una quota sempre maggiore di potere economico e politico».

E i marxisti?

«Beh, nella nuova introduzione a “Democrazia machiavelliana” sono molto duro con loro. Il modo in cui ignorano o minimizzano il ruolo delle istituzioni nel pensiero di Machiavelli è esasperante. Per come leggono Machiavelli, il popolo si limiterebbe a contestare le macchinazioni di uno Stato concepito monoliticamente. Ma Machiavelli non voleva semplicemente che il popolo si opponesse al potere dell’oligarchia solo dall’esterno. Unicamente in tal modo - dentro e fuori dalle istituzioni - i cittadini possono combattere in maniera efficace l’oligarchia ed esercitare l’autogoverno. Gli interpreti marxisti di Machiavelli confondono la democrazia con l’anarchia».

Credo che qualsiasi lettore di Machiavelli sia stato portato almeno una volta a vedere in Barack Obama una sorta di reincarnazione di Piero Soderini: il gonfaloniere di giustizia di Firenze con cui Machiavelli lavorò per dieci anni e che fu sconfitto perché, contrariamente ai consigli di Machiavelli, cercava il compromesso con l’élite a tutti i costi, anche quando era chiaro che i suoi avversari non erano disposti a trattare - fino a quando l’oligarchia fiorentina non si sbarazzò di lui con un colpo di stato.

«Quanto lei dice di Obama è divertente e frustrante allo stesso tempo. Ogni volta che tengo il mio corso sulla Leadership politica, dedico sempre una lezione al tema “Barack Obama: Tyrant or Suppliant?”, e assegno da leggere alcuni passaggi di Machiavelli su Soderini. Senza dubbio, credo che Obama sia stato troppo circospetto nel trattare con i repubblicani. Spesso mi immagino Rahm Emmanuel - il capo dello staff di Obama, un vero mastino! - che incita Obama ad essere più aggressivo, con parole che ricordano quelle di Machiavelli a Soderini. Ma non dobbiamo sottovalutare quanto profondamente radicato fosse il tratto caratteriale della moderazione in un afroamericano divenuto presidente degli Stati Uniti, data la lunga storia di oppressione razziale del mio Paese...».

Dopo poche settimane in carica, la grande sorpresa è che Joe Biden, Joe il Sonnacchioso, sembra più pronto a spingere un ambizioso programma di riforme.

«Joe il Sonnacchioso non è Joe lo Stupido! Al fianco di Obama, per otto anni ha visto l’intransigenza dei repubblicani all’opera. Biden ha già dimostrato che tenderà la mano ai repubblicani per coinvolgerli nella definizione delle politiche, ma non ha alcuna intenzione di implorare la loro cooperazione o aspettare all’infinito che contraccambino le sue aperture. E, sì, le sue proposte politiche sono state finora decisamente più a sinistra di quello che ci si sarebbe potuto aspettare da un democratico così moderato. Biden sa che deve molto all’ala sinistra del partito per la sua vittoria, e forse pensa che una politica economica che aiuti le famiglie più in difficoltà possa togliere un po’ di sostegno populista ai repubblicani in futuro».

Esprima un desiderio per il 2021 (non si accettano risposte sulla pandemia!).

«Mi auguro che Mario Draghi diventi la quintessenza del traditore di classe “alla Machiavelli”. Spero insomma che si comporti come uno dei tanti “principi civili” - Clearco o Soderini - che giunsero al potere dalle file dell’élite per farsi ben presto i campioni degli interessi della plebe. Sì, il mio desiderio per il nuovo anno è che Draghi tradisca i suoi amici neoliberali e attui delle vigorose politiche di sinistra in Italia - con la decisione di un Clearco, e non timidamente come Soderini».

·        Oscar Wilde.

Oscar Wilde, il genio dandy e ribelle umiliato (e ucciso) dalla gogna puritana. Nel 1895 lo scrittore irlandese fu condannato ai lavori forzati per omosessualità. Una tortura feroce che gli costò la vita. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 31 maggio 2021. Quando nel 1895 Oscar Wilde viene condannato a due anni di “bagno penale” per omosessualità (gross public indecency) era un uomo di successo che irritava i bigotti custodi della morale vittoriana ma riscuoteva grandi consensi e apprezzamenti tra il grande pubblico per i suoi romanzi e le sue pièces teatrali (quell’anno L’importanza di chiamarsi Ernesto fece il tutto esaurito). Fino ad allora le accuse di immoralità rivolte alle sue opere gli procurano una fama equivoca che lo scrittore irlandese vive con noncuranza quasi compiaciuta, liquidando i detrattori con le sue celebri frasi ad effetto. È sposato con la giovane Constance Lloyd, ma trascorre gran parte del tempo in albergo dove incontra amici e ammiratori, tutti di sesso maschile. Le voci sul suo conto iniziano a farsi insistenti, le illazioni lievitano, tuttavia nulla interviene a cambiare il corso delle cose. Fino a quando non viene denunciato da Lord John Sholto, marchese di Qeensburry (noto per aver fissato le Queensburry rules, le regole della moderna boxe); Sholto lo accusa di aver traviato il figlio Lord Alfred Douglas, detto Bosie, che per almeno quattro anni è stato il suo amante. Inizialmente è Wilde a denunciare Sholto per diffamazione, ma il processo si trasforma inesorabilmente in una via crucis per il dandy più famoso di Londra. Wilde tiene banco, risponde alle accuse con la consueta impertinenza, fa battute, inanella freddure, irride il giudice e l’avvocato del marchese, Edward Carson. Un atteggiamento sbruffone che gli costa l’ostilità della giuria che però sospende il suo giudizio, mentre l’opinione pubblica aizzata dai commenti pruriginosi dei giornali gli volta le spalle. Gli stessi che lo applaudivano quando nelle sue opere fustigava l’ipocrisia dei costumi vittoriani ora non lo difendono più. Alla fine spuntano due testimoni, due ragazzi reclutati da Carson che dichiarano di aver avuto rapporti sessuali con lo scrittore, il suo difensore gli consiglia di ritirare la querela per diffamazione ma è ormai troppo tardi: è condannato per la sua «grossolana indecenza» a due anni di lavori forzati in un bagno penale.«Signor Wilde, deve ritenersi fortunato perché la vecchia legge prevedeva la pena di morte per i sodomiti e le assicuro che non avrei esitato a mandarla dal boia», esclama il giudice pronunciando la sentenza. Una fortuna davvero molto relativa. I bagni penali all’epoca erano infatti il vero inferno in terra. Un reportage del quotidiano francese Le Temps pubblicato nell’estate del 1895 descrive con crudezza la misera condizione dei condannati ai lavori forzati nei campi britannici. Se molti di noi hanno negli occhi le immagini dei prigionieri che spaccano le pietre sotto il sole cocente, il trattamento subito da Wilde è decisamente più sadico e feroce. Al punto che anche la spietata giustizia dell’epoca vietava “soggiorni” più lunghi di due anni in quelle strutture. Quando entrano nel campo i detenuti vengono pesati perché uno degli obiettivi della pena è «farli dimagrire in modo estremo». Lo strumento di lavoro principale si chiama treadmill, un “mulino disciplinare” grande come la ruota di una nave a vapore azionato dal movimento, perpetuo, dei prigionieri rinchiusi e legati in una piccola gabbia tra gli ingranaggi dove afferrano degli anelli con le braccia mentre spingono dei pannelli con i piedi. Sono costantemente sorvegliati da arcigni guardiani che li colpiscono con la frusta al minimo rallentamento, alla minima esitazione. Per chi stramazza al suolo o si rifiuta di continuare il lavoro c’è il sinistro gatto a nove code, uno scudiscio che ti strappa via la pelle a ogni colpo. Per non farli morire di fatica il treadmill non può durare più di tre ore, suddivise in tre sessioni da un’ora. Il resto del tempo i detenuti si dedicano ad attività più classiche, come tagliare le pietre, annodare delle grosse corde, conciare il cuoio, trasportare pesi. Poi c’è l’isolamento, alienante: per i primi tre mesi non possono ricevere lettere e non hanno diritto alle visite dei familiari per sei mesi. La natura disumana dei bagni penali scandalizza le componenti più liberal della società britannica e gli intellettuali europei: Bernard Shaw e André Gide scrivono una petizione per far liberare Wilde, ma cade nel vuoto, osteggiata peraltro da altri intellettuali noti come Emile Zola, che ritiene Wilde sconcio e svergognato. Uscirà dal bagno penale il 29 maggio 1897, ma suo mondo non esisteva più: i beni confiscati, i libri messi al bando, nessun editore è più disposto a pubblicare una sua singola riga, nessun direttore di teatro a mettere in scena le sue pièces. La moglie e i figli non vogliono più avere a che fare con lui e cambiano cognome. Wilde decide allora di lasciare l’Inghilterra dove non tornerà mai più; si trasferisce nella più tollerante Parigi e farà qualche viaggio in Italia per ritemprarsi, ma la sua salute è irrimediabilmente compromessa dai due anni di lavori forzati, sfibrato nel corpo e nello spirito, sofferente per l’esilio dalla sua Londra, muore l’anno successivo a Bagneux (cittadina a pochi chilometri dalla capitale francese) per una meningite folgorante a soli 46 anni. Dieci anni dopo i suoi resti verranno sepolti nel celebre cimitero di Pere Lachaise di Parigi.

·        Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

"Conversazione su Dante". A lezione da Mandel’štam, poeta perseguitato a caccia del vero sapere. Eraldo Affinati su Il Riformista il 13 Giugno 2021. Nei momenti estremi i classici possono aiutarci a trovare la luce per uscire dal tunnel: non salvarci, no, questo sarebbe impossibile, ma insegnarci a scoprire quello che Sant’Agostino definiva il nostro “maestro interiore”: la dote spirituale presente in ogni essere umano – attitudini, sensibilità, caratteri – spesso nascosta e inaccessibile all’interno delle false rassicurazioni imposte dalle abitudini. È stato così nella storia tragica del ventesimo secolo, soprattutto grazie a Dante Alighieri, faro d’orientamento della civiltà occidentale, a cui hanno guardato alcuni spiriti eletti quando erano segregati per cause di forza maggiore, ricavando dal sommo fiorentino la forza necessaria a scrollarsi di dosso l’ingiustizia patita e procedere oltre. Nel fatidico 1933, mentre Adolf Hitler prendeva il potere in Germania, Osip Ėmil’evič Mandel’štam, uno dei più grandi poeti russi moderni, si trovava in Crimea. In autunno avrebbe composto il celebre Epigramma di Stalin, sorta di invettiva contro il dittatore sovietico, che gli risulterà fatale, ma già da tempo era stato segnalato dalla polizia segreta come elemento sovversivo e pericoloso da tenere sott’occhio prima che l’ansia di libertà che lo animava potesse coinvolgere altri come lui. Morirà cinque anni dopo in un oscuro campo si smistamento presso Vladivostok, perso nella società totalitaria siberiana come una pietra grezza nel rigagnolo. In quel magico intermezzo sulle rive del Mar Nero dettò alla compagna Nadežda, che gli starà sempre vicina e custodirà la sua memoria fin quando potrà, la Conversazione su Dante appena pubblicata da Adelphi (pp. 116, 13 euro) che la curatrice, Serena Vitale, giustamente definisce “un poema critico”. Si tratta di un libro inclassificabile, al tempo stesso oscuro e luminoso: una scheggia di lava incandescente nel grande mare mosso del Novecento. Speculazioni logiche e ardite metafore si alternano in queste pagine cariche di passione vitale. Il confronto con il padre della lingua italiana non potrebbe essere più frontale, coi rimandi a personaggi celeberrimi come il conte Ugolino o l’immortale Beatrice, nell’analisi puntuale e sempre calibrata dei brani citati, tuttavia sin dall’inizio Mandel’štam, che aveva incredibilmente imparato la nostra lingua studiandola sulla Divina Commedia, si scrolla di dosso, con gesto quasi imperioso, la necessità di spiegare per filo e per segno le nostre emozioni di semplici lettori: «Nella poesia conta soltanto la comprensione attiva, che non ripete né parafrasa. L’appagamento semantico è pari a ciò che si prova dopo aver eseguito un ordine. Compiuto il loro lavoro, le onde-segnali del significato scompaiono: quanto più forti sono, tanto più si dimostrano arrendevoli, pronte a dileguarsi. Altrimenti diventa inevitabile l’imparaticcio, il batti e ribatti sui soliti, vecchi chiodi definiti "immagini storico-culturali"». Su queste ultime righe, sia detto per inciso, dovrebbero riflettere molti compilatori di test rivolti alla valutazione standardizzata degli studenti in base alle presunte competenze da loro raggiunte dopo la mera lettura di un’opera della tradizione letteraria. Il risultato di tale impostazione didattica, come sanno molti docenti, è quello di addestrare lo scolaro al superamento dell’ostacolo, prima ancora che guidarlo a una vera comprensione. «Dove si scopre che i versi possono essere parafrasati», afferma invece Mandel’štam, «la poesia, per così dire, non ha trascorso la notte: il letto è intonso, le lenzuola non sono sgualcite». Questo non vale tanto per l’autore della Commedia, le cui intuizioni, almeno in un primo grado interpretativo, come ben sappiamo, possono essere decifrate punto per punto e se resta qualcosa di misterioso dipende solo dalla nostra insufficienza a capire, quanto per la suggestiva idea lirica che il grande scrittore russo vuole comunicarci. Quando leggiamo un testo in versi, egli scrive, «bisogna attraversare velocemente, in tutta la sua lunghezza, un fiume ingombro di giunche cinesi che si muovono in più direzioni: è così che si crea il significato del linguaggio poetico. Il percorso compiuto – il significato – non può essere ricostruito interrogando i barcaioli: non sapranno dirci come e perché siamo saltati da una giunca all’altra». Mandel’štam, certo, sta pensando alla letteratura ma forse, ancor più, alla vita, i cui tracciati sembrano ai nostri occhi incomprensibili e bislacchi, anche se quasi sempre lasciano dietro di sé speciali fiammelle che, se interrogate, potrebbero spingerci a trovare un possibile senso da attribuire a ciò che abbiamo fatto o vorremmo provare a compiere. E così, osservando i ciottoli trascinati a riva dalla risacca del Mar nero, il poeta perseguitato dal regime sovietico si accosta alle terzine dantesche rifuse, a suo dire, alla maniera di metallo, apprezzando “la mostruosa regolarità” del loro succedersi, senza mai perdere di vista l’insieme: «Non una strofa, ma una figura cristallografica, un solido attraversato da un’incessante tensione generatrice di forme». Come non riandare con la mente al capitolo sul “Canto di Ulisse”, al centro di Se questo è un uomo di Primo Levi? Il deportato torinese, nel campo di Auschwitz, mentre accompagna Jean verso il piazzale dove si distribuisce la zuppa e alza gli occhi verso le cime innevate dei Carpazi, ne richiama alla memoria qualche immagine. Tornando all’indimenticabile avventura dell’eroe greco, oltre le colonne d’Ercole poste a guardia dello stretto che apre all’oceano, Levi percepisce tutto lo scarto fra la brutalità della prigionia che sta vivendo e la potenza fantasmatica del mondo alle sue spalle: «Ecco, attento, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca: ‘Considerate la vostra semenza: / Fatti non foste a viver come bruti, / Ma per seguir virtute e conoscenza.’ Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo do tromba, come la voce di Dio.” Fino a confessare: “Per un momento ho dimenticato chi sono e dove sono”». Eraldo Affinati

·        Pablo Picasso.

Stefano Montefiori per il Corriere della Sera il 7 novembre 2021. «Picasso lo straniero» è il titolo di una grande mostra appena inaugurata al Museo di Storia dell'Immigrazione di Parigi, che racconta un aspetto finora piuttosto trascurato dell'artista: ha vissuto gran parte della sua vita a Parigi, la sua carriera si è svolta quasi completamente in Francia, eppure Picasso non è mai riuscito a ottenere la cittadinanza francese. La denuncia dell'accanimento amministrativo nei confronti dello straniero Picasso arriva proprio nel momento in cui il passato della Francia torna sotto esame: intellettuali, opinionisti e candidati alle Presidenziali vicini all'estrema destra da un lato rivendicano il diritto alla xenofobia, dall'altra vogliono assolvere la Francia per ogni peccato passato, compresa la collaborazione del maresciallo Pétain con la Germania nazista. Picasso, quanto a lui, ha cominciato con la mossa sbagliata, all'inizio del Novecento, quando arrivando dalla Spagna ha scelto di stabilirsi a Montmartre, quartiere popolare dove ancora era vivo il ricordo della Comune del 1871. Il primo rapporto di polizia del 1901 lo bolla come artista ostile all'ordine borghese, probabilmente anarchico, e quel giudizio condizionerà la pratica nei decenni. Il 7 maggio 1940 una nota definitiva stabilisce che «questo straniero non ha alcun titolo per ottenere la naturalizzazione». La curatrice della mostra, Annie Cohen-Solal, ha ritrovato il responsabile di quella bocciatura: l'ispettore Émile Chevalier, che di lì a qualche mese sarebbe passato dalla parte di Vichy e dei nazisti facendo la spia sui colleghi sospettati di simpatie golliste. Chevalier aveva poi una ragione personale per detestare Picasso: era un pittore anche lui, ma fallito. «Picasso lo straniero» illustra la continuità di una certa anima francese e della natura umana. 

·        Paolo Di Paolo.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 24 maggio 2021. Fu uno di quegli incontri che, unendo letteratura e fotografia, diede vita a un grande giornalismo. È il 1959. L'incontro è tra Pier Paolo Pasolini - da Casarsa, in Friuli, a Roma, quasi una fuga - che in quel momento ha 37 anni, scrittore in ascesa, ha già pubblicato i romanzi ma non è ancora regista né il polemista del Corriere, e Paolo Di Paolo - da Larino, in Molise, a Roma, quasi una conquista - che di anni ne ha 34, è un fotografo affermato, uno dei più importanti collaboratori del settimanale Il Mondo di Mario Pannunzio e non solo. L'idea di farli incontrare è di Arturo Tofanelli, storico direttore del rotocalco Tempo e del mensile Successo, che si è inventato proprio in quell'anno. Per lanciare la testata, in estate pensa a un lungo reportage a puntate sulle vacanze degli italiani: il testo lo chiede a Pasolini e le foto a Di Paolo, che s' inventa un titolo geniale: «La lunga strada di sabbia», pensando alla strada faticosa percorsa dagli italiani per raggiungere il benessere. Quello straordinario racconto per immagini e parole sugli italiani al mare - dalla Liguria, confine francese, giù verso la Versilia, da Ostia a Catania, e poi su da Santa Maria di Leuca fino a Trieste: un'estate, due mari e l'Italia che senza saperlo vive il suo miracolo economico - viene pubblicato da Successo in tre puntate: luglio, agosto e settembre. Eccolo qui: il reportage, con 101 fotografie, gli originali della rivista su cui uscì, la riproduzione dei dattiloscritti di Pasolini e una grande cartina dell'Italia con tutte le tappe del viaggio sono esposte, fino al 29 agosto, alla Fondazione Sozzani di Milano nella mostra La lunga strada di sabbia. I bagnanti che si pettinano davanti allo specchio al Lido di Coroglio, Pozzuoli: brillantina, zoccoli e Poveri ma belli. Le signore che si fanno la treccia sulla sabbia del Forte: pareo, due pezzi e il boom. La famiglia del Sud per la prima volta al mare, a Rimini: fazzoletto nero, cesta con la merenda e dignità. Walter Chiari a Fregene: divismo, machismo e turiste svedesi. E - unico scatto con lo scrittore - Pasolini sulla spiaggia del Cinquale, pantalone lungo e occhiali neri, che pensando a Rilke e Thomas Mann guarda un gruppetto di ragazzini sdraiati sulla spiaggia: eleganza, poesia e desiderio. «Noi non ci conoscevamo - racconta Paolo Di Paolo, che oggi ha 96 anni ma i ricordi freschissimi -. Andai a casa sua a Roma a prenderlo, e partimmo con la mia spider. Non aveva un carattere facile. Mi sembrava roccioso, chiuso. Mi chiese un po' di Pannunzio e del Mondo. La prima sera ci fermammo a Livorno. A tavola non parlò, mangiò pochissimo, non toccò il vino. Poi mi disse: Suppongo che tu adesso vorrai andare a donne?. Lui aveva già adocchiato dei ragazzi a un tavolo. Più tardi lo vidi andare via con loro, come se li conoscesse da sempre. Dopo qualche giorno in Liguria ci separammo. Per me fu quasi una liberazione. Fino a lì non lo avevo visto parlare con nessuno, prendere un appunto, sembrava distratto. Ero preoccupato. Quando tornai a Roma per consegnare le foto della prima puntata, lo dissi a Tofanelli: Io le foto le ho. Ma Pasolini? Cosa scriverà?. Ha già scritto, rispose il direttore. Ed un pezzo meraviglioso. Ecco chi era Pasolini...». Pasolini e Di Paolo continueranno a frequentarsi e impareranno a diventare amici. Il secondo sarà sul set, come fotografo, di tanti film del primo. E il primo voleva così bene al secondo da chiedergli un servizio fotografico, diventato celebre, a Monte dei Cocci, «... che oggi è la zona della movida, allora puzzava di stalla», ricorda Di Paolo. Il quale dopo avere immortalato la sua epoca abbandonò la macchina fotografica nel '68 e mise 250mila tra negativi, provini e stampe in cantina. Fino a quando li ha scoperti, pochi anni fa, la figlia Silvia. Convincendolo - per fortuna - a fare splendide mostre.

·        Paolo Ramundo.

Paolo Portoghesi per roma.repubblica.it l'1 settembre 2021. Con la morte di Paolo Ramundo (detto Capinera), l'ispiratore del gruppo degli "Uccelli", Roma ha perduto un interprete del lato migliore della sua identità popolare, un uomo semplice, collezionista di 30 e lode, ma tanto discreto da sembrare ignorante e con un disarmante sorriso sulla bocca, dotato di scanzonata ironia, ma anche di una incrollabile fede nel fatto che il mondo, la vita, si possono e si devono cambiare in meglio. Il terzetto dei primi uccelli di cui facevano parte Martino Branca e Gianfranco Moltedo coinvolse poi molti altri studenti tra cui Paolo Liguori (straccio), Roberto Federici (diavolo) Giovanni Feo e molti altri. Da tempo Ramundo si era ritirato in una fattoria dove praticava l'agricoltura e viveva in comunità. Ma la sua storia è una storia europea che ha a che fare con lo spirito di rivolta dei grandi creatori dell'arte moderna. Nel 1968, quando la notizia della scalata di Sant' Ivo venne pubblicata dal "Figaro", Max Ernst, l'inventore di Dada, scrisse una cartolina a Guttuso per esprimergli il suo entusiasmo. Cosa era successo ? Tre studenti della facoltà di architettura sottraendosi alla noia dei discorsi velleitari avevano riscoperto la forza del linguaggio simbolico e avevano passato due notti nella gabbia di ferro che corona la cappella della antica università romana disegnata da Francesco Borromini. Il giorno dopo molti studenti di architettura avevano inscenato una fiaccolata di solidarietà, dimostrando di aver capito il senso del messaggio degli Uccelli che era quello di non accontentarsi di occupare delle facoltà ma di uscire all'aperto e coinvolgere la città. Li chiamavano uccelli perché diffidavano delle parole e preferivano cinguettare e, liberi così di volare, almeno metaforicamente, ne combinarono di tutti i colori. Sacrificarono un agnello nell'Ara Pacis, Andarono a Berlino per solidarizzare con le comuni e poi al Politecnico di Milano interrompendo una assemblea con il getto degli idranti. Ispirati da Carlo Levi andarono a Matera e occuparono un vicinato dei Sassi, interpretando la delusione dei contadini relegati nei villaggi dell'UNRA Casas poi, sorpresi dal fatto che alle donne non era consentito di partecipare alla vita sociale organizzarono in piazza una scandalosa festa in costume da bagno, sottoponendosi così a una specie di linciaggio al quale si sottrassero rifugiandosi in una caserma. Andarono in guardina per qualche giorno ma ne uscirono trionfanti. A Gibellina inventarono un finto sbarco dei mille arrivando a Marsala con un barcone preso in affitto e guidarono i terremotati a occupare simbolicamente gli uffici della regione arrampicandosi su esili scale e dipingendo sulla facciata con la tecnica delle sagome di ferro della futura street art. Nel 1976 Paolo Ramundo, con Carlo Zaccagnini, Lorenzo Mammì e Isabella Rossellini dipinsero le pareti del quartiere di Tor di Nona con bellissimi affreschi. Di questi è rimasto in opera soltanto " l'asino che vola" nel quale Paolo Ramundo si sarebbe orgogliosamente riconosciuto. L'asino è considerato il più ignorante degli animali. Ma quanta saggezza nella sua ostinazione e quanta affettuosa solidarietà nei suoi grandi occhi. Robert Bresson dipingendolo come un testimone delle follie umane ne ha fatto l'eroe del suo capolavoro: " Au Hasard Balthasar", uno dei più bei film della storia del cinema. Ai romani che hanno amato Paolo Ramundo consiglio di recarsi a Tor di Nona a rendere omaggio all'asino che se n'è volato, chissà dove e di guardare il bellissimo film di Silvio Montanaro e Gianni Ramacciotti a cura dell'Archivio del Movimento Operaio, dedicato alle gesta degli "Uccelli".

Il ricordo di Ramundo, il più anticonformista di tutti. Chi era Paolo Ramundo, artista e rivoluzionario: Il "Capinera" che diede il via con gli Uccelli al ’68 italiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 31 Agosto 2021. I ragazzi che lavorano nei campi alla Cobragor raccontano che quando c’era un’operazione pesante da fare – sollevare un tronco, un tufo, una trave di ferro – loro chiamavano Paolo. I ragazzi della Cobragor son tutti tra i venti e i trenta, Paolo invece si avvicinava agli ottanta. Era del novembre del ‘42. Però ancora fino a qualche mese fa era un’iradiddio. Non solo nel cervello che non stava fermo un minuto, ma anche nel fisico. Magro, secco, muscoloso. Ancora quasi uguale al ragazzetto, coi capelli lunghi lunghi e il pizzetto di barba appuntito, che nel febbraio del ‘68 si arrampicò sul campanile di Sant’Ivo e gridò alla città: signori, il Sessantotto è iniziato. Il Sessantotto iniziò proprio in quel freddo giorno d’inverno, qui a Roma: non a Parigi, non a Berlino, non a Milano, non a Torino. Paolo accese il fiammifero. Poi magari restò un po’ fuori dalla ribalta ad osservare, criticare, apprezzare, e soprattutto “fare”. La cosa che gli piaceva di più era “fare” dopo aver detto. Questo non vuol dire che lui abbia realizzato tutto quello che aveva pensato, perché Paolo pensava, pensava, pensava, e pensava talmente tanto e tanto originalmente e tanto in fretta che non è che potevi stargli dietro, e anche lui non poteva mica realizzare tutto. Recentemente aveva progettato un tunnel che doveva passare sotto il Tevere e unire Tor di Nona a Castel sant’Angelo. Mica per gioco: lo voleva fare davvero. Paolo non aveva più i capelli lunghi che gli scendevano sulle spalle a “triangolo”, come in quella notte di Sant’Ivo. E magari era anche un pochino pochino meno sovversivo di cinquant’anni fa. Ma nelle cose essenziali era lo stesso: ardimentoso, anticonformista, indomito, imprevedibile. Io penso di poter dire – se ho capito bene le cose della vita, e anche se ho capito bene che tipo fosse – che Paolo era un rivoluzionario. In senso stretto, dico. Sto parlando dell’architetto Paolo Ramundo, detto Capinera, che è morto domenica mattina per un tumore che lo aveva annientato in pochi mesi. Personalmente lo ho conosciuto solo da lontano, proprio nel ‘68. Alle assemblee, alla facoltà di architettura dove andavamo anche noi studenti del liceo. Lui era un personaggio un po’ mitico, anche se non era proprio un leader. I leader, qui a Roma, erano Franco Russo, Oreste Scalzone, Piperno, Cecchini, Fuxas, Mordenti. Lui era un personaggio un po’ a parte. Contestava tutto, da vero sessantottino, contestava anche il Sessantotto e soprattutto il leaderismo. Non ha mai costruito una teoria politica precisa, però nei fatti questa teoria c’era e secondo me era l’idea che l’anticonformismo, il rifiuto di ogni schema, l’obbligo di inventare fosse l’unica bussola da tenere sul cruscotto. Qualche anno fa collaborò a qualcuno dei vari giornali che ho diretto dopo essere stato scacciato da Liberazione accusato di anticomunismo. Mi ricordo un suo articolo epico, corredato con le fotografie, ritoccate da lui, nel quale proponeva una piccola modifica urbanistica della città di Roma: voleva levare l’Altare della patria dal luogo speciale dove si trova, sotto al Campidoglio e alla fine di via del Corso, e portarlo all’Eur, alla fine della Colombo, dove ora c’è il palazzo dello Sport di Pier Luigi Nervi. E poi voleva portare il Palasport a piazza Venezia. L’effetto dell’immagine con via del Corso e sullo sfondo il Palazzo dello sport era fantastico. E anche l’Altare della patria, messo alla fine dell’Eur, faceva finalmente la sua figura. Stavamo dicendo di quella notte a Sant’Ivo. Era il 19 febbraio del 1968. Paolo, 25 anni , insieme a due suoi amici un po’ scapocciati come lui (credo che fossero Gianfranco Moltedo e Martino Branca e credo che fossero anche loro studenti di architettura, Branca, se la memoria non mi fa scherzi, era anche il figlio del presidente della Corte Costituzionale) convinse Paolo Portoghesi, professore e architetto celeberrimo, allora piuttosto giovane (aveva meno di quarant’anni) a fargli aprire le porte del campanile di Sant’Ivo alla Sapienza, quello di Borromini. Portoghesi accettò, ma quando, giunti alla cima, propose loro di tornare giù, si sentì rispondere: “No, noi occupiamo”. E così, con questo gesto spettacolare, gli “Uccelli” si guadagnarono l’attenzione di tutta la stampa, persino della stampa straniera. I giornali andavano un po’ all’ingrosso, qualcuno scrisse che minacciavano di buttarsi di sotto. Loro non avevano mai minacciato niente e non avevano mai neppure detto niente. Passarono lì la notte gelida. Martino Branca provò a riscaldarsi bruciando una corda di canapa. La mattina dopo scoprì di essersi bruciato le scarpe, un po’ come Pinocchio. Il giorno successivo migliaia di studenti vennero a solidarizzare, e giravano, giravano attorno alla Sapienza con le torce accese. Fu un grande spettacolo, pieno di suggestioni e di simbologie architettoniche e borrominiane. Gli Uccelli già erano nati, come gruppo, e Paolo Ramundo era il capo riconosciuto. Era anche il più vecchio. Ma furono consacrati da quel gesto. Li chiamavano Uccelli perché si arrampicavano un po’ ovunque, sugli alberi, sui campanili, sulle mure della facoltà o anche delle case. Loro però accettarono il nome e gli diedero un altro significato. Si richiamavano alla imprevedibilità degli uccelli. Non li prendevi mai dove ti aspettavi che fossero. Erano sempre altrove. Anche intellettualmente. Il pomeriggio di valle Giulia loro erano in facoltà, ma non volevano gli scontri. Uscirono uno a uno passando attraverso i cordoni di polizia con delle pecore in spalla. Sì, pecore. Le avevano portate in facoltà nei giorni precedenti, per contestare le assemblee che già consideravano burocratizzate. I poliziotti, stupiti, gli chiedevano: “E voi chi siete?”. “Pastori”, rispondevano, “pastori di questa valle”. Il gruppo era costituito da un gruppetto piccolo di ragazzi. Oltre ai tre di Sant’Ivo, c’era Paolo Liguori, che non aveva ancora vent’anni, e lo chiamavano Straccio. C’era Roberto Federici, Diavolo, c’era Annachiara Zevi, che era la figlia del grande architetto, e – credo – un’altra decina di ragazzi. Tutti sui vent’anni. Ma attorno al gruppo si era consolidata la solidarietà di alcuni tra i maggiori intellettuali romani. Portoghesi, Guttuso, Schifano, Moravia e tantissimi altri. Dopo il Sessantotto, Paolo, insieme ad alcuni altri degli Uccelli, aderì a Lotta Continua. Poi, molto presto, si mise – diciamo così – in proprio e iniziò a combattere battaglie politiche e di rivolta in vari quartieri di Roma. Soprattutto fece quelle che si chiamano “Occupazioni”, e che oggi sono un po’ lo spettro, sia per i 5 Stelle che per la destra. Fu nel corso di queste battaglie che occupò un vasto territorio agricolo vicino all’ospedale San Filippo Neri e al vecchio manicomio di Roma, Santa Maria della Pietà. Lì insediò la sua cooperativa agricola, la Cobragor, della quale scrivevamo all’inizio di questo articolo, che ancora esiste ed è florida, e nella quale ha lavorato con il cervello e il corpo fino a pochissimi mesi fa. L’uccello era diventato contadino. Ma restava quello che era: prima di tutto artista, e poi rivoluzionario. Non ha mai smesso di pensare fuori dal suo modello estetico e razionale. Dicono che fosse un dadaista. Credo che la parola non lo descriva bene. Anticonformista. Era più complicato, mi pare di capire. Aveva dentro di sé, e fuori di sé, l’anima principale del Sessantotto. La voglia – e la capacità – di rovesciare tutto, di non dare mai niente per scontato. In politica, alla fine, si era avvicinato al Pd. Credo che avesse la tessera. Perché? Perché, appunto, lui coniugava sogni e realismo, visionarismo e concretezza, arte e terra. Sì, anche Andy Warhol e Zingaretti… Voi dite che il Sessantotto è stata una iattura? No, amici, voi non avete capito niente. Se oggi siete persone così libere, e anche così ricche, e anche così in pace, lo dovete proprio al Sessantotto. Non a quello delle molotov. No. Al Sessantotto di Paolo, che ha preso tante botte ma è ancora vivo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

·        Pellegrino Artusi.

Quell'antimeridionale di Artusi. Ottavio Cavalcanti su Il Quotidiano del Sud il 20 maggio 2021. Il celebre ricettario si ferma a Roma. Viene, prima o poi il momento di fare i conti con qualcuno, non per minacciare, come di solito accade, ma per amore di verità, atteggiamento tenuto nella massima considerazione dall’antica sentenza: “Amicus Plato, sed magis amica veritas”. In libreria un tondo dorato, apposto sulla copertina a fini pubblicitari, informa che il volume, di cui vogliamo occuparci, ha venduto più di tre milioni di copie. Si tratta della ristampa dell’edizione originale de: “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie” compilato da Pellegrino Artusi. Sempre in copertina si legge: “790 ricette e in appendice La cucina per gli stomachi deboli con ritratto dell’autore”. Propone il tutto Giunti, editore in Firenze, nel 2020, bicentenario della nascita dell’autore, data variamente celebrata un po’ dappertutto, a partire da Forlimpopoli, sua città natale; così come non casuale è il luogo della ennesima edizione del testo, dal momento che nella città del giglio a lungo visse e si spense nel 1911. Lo ricorda una lapide apposta, nel 1994, a cura dei cittadini di entrambi i luoghi citati, sulla destra del portone di piazza D’Azeglio 35 a Firenze. Nel testo Artusi viene definito “letterato gastronomo benefattore” con attribuzione, nel contempo, del merito di aver dato “unità italiana alla varietà linguistica regionale” nel celebre libro in questione. Firenze città di adozione era diventata dopo una notte di violenze, in quella natale, nel gennaio del 1851, di cui fu vittima la sua famiglia ad opera del noto bandito Stefano Pelloni, meglio noto come il Passatore. Nel coro, generalmente ed esclusivamente laudativo dell’opera, non sarà male, differenziandosene, esercitare un opportuno esame critico, non temendo l’accusa di lesa maestà da parte degli indefessi estimatori. Il punto di partenza è costituito, nel testo lapideo citato, dell’attribuzione a lui della qualifica di unificatore, in ottica nazionalistica, della “varietà linguistica regionale”. Artusi non era, però, studioso di linguistica e la celebrazione – lo si dichiara di seguito – gli derivava dall’essere autore di un libro di cucina. È, allora da ritenere, come in realtà è accaduto, che il riconoscimento, in spirito quasi risorgimentale, si debba ad un’altra unificazione, quella gastronomica del Paese. Così vuole la Vulgata e qui casca l’asino, perché i libri di cucina abitualmente non si leggono, si consultano, consentendo a chiunque di dire quel che si vuole senza tema di smentite. Il fatto è che il testo artusiano è un ricettario prevalentemente toscano-romagnolo, dal momento che la stragrande quantità di ricette proposte è relativa all’ambito regionale in questione, meticolosamente conosciuto dall’autore per esperienza diretta di vita. Lo dimostra, quanto al primo, non solo l’indicazione generica, regionale, ma la specificazione localistica: Firenze, il più delle volte, Cafaggiolo, Arezzo, Livorno, Maremma, Viareggio, ecc. Quanto al secondo, del tutto dominante è, invece, la citazione di Bologna. Nel testo modestissimi riferimenti figurano al Piemonte e al Veneto; modesti alla Liguria; più consistenti alla Lombardia: 10 ricette. L’Italia, malgrado la generica citazione dei “Tortellini all’italiana”, “Lesso rifatto all’italiana”; del “Latteruolo”, dolce tradizionale di Romagna, presente “forse anche altrove in Italia”; dei “Quattro quarti all’italiana”, si può dire finisca a Roma, di cui si propongono 9 ricette, con una citazione regionale delle anguille del lago di Bolsena. Quanto al resto del Paese, un generico riferimento, per altro infondato, alle “città meridionali”, dove i carciofi si trovano quasi in tutti i mesi dell’anno, per cui “è inutile prendersi il disturbo di seccarli” per l’inverno, oltre i buchi neri del Molise, della Puglia, della Basilicata, della Calabria, totalmente assenti. La Campania è identificata con Napoli, alla quale si attribuiscono 5 ricette, di cui una relativa alla pizza (la n.609), non salata ma incredibilmente dolce. La Sicilia è presente con due pietanze: maccheroni con le sarde; nasello alla palermitana, oltre che con la citazione del siciliano che nel 1660 aprì a Parigi lo storico caffè Procope. Tutto ciò mentre, con plateale dilatazione dello sguardo, si mappano gastronomicamente la Francia (17 ricette), incredibilmente Germania e Inghilterra, rispettivamente con 14 e 11, Spagna, Olanda, Ungheria, Svizzera e Portogallo. Non mancano, ad abundantium, le ricette del “Bue alla California”, della “Zuppa tartara”, del “Cuscussù” (sic) dei Paesi arabi. Eppure a Napoli, la città più popolosa d’Italia, l’unica ad avere l’aspetto di capitale europea in gara con Parigi e Vienna, vantava una tradizione culinaria di tutto rispetto, la cui ricostruzione storica può sgomberare il campo da ogni possibile concorrente. Basti citare due casi cronologicamente prossimi al tempo dell’Artusi. Il primo, di Vincenzo Corrado, per lo strepitoso successo del suo: “Il cuoco galante”, di fine ‘700, seguito da: “I pranzi giornalieri variati, ed imbanditi in 672 vivande secondo i prodotti delle stagioni”, edito a Napoli nella Stamperia di Michele Migliaccio nel 1809, che reca sul frontespizio la dizione: “Lavoro dell’autore del Cuoco galate”. Corrado poteva, infatti, fare a meno di usare il suo nome, dal momento che la garanzia della validità del testo era data dalla notorietà del precedente. Il secondo caso, quello di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, gentiluomo di origini calabresi, autore de: “La cucina teorico pratica col corrispondente riposto ed apparecchio di pranzi e cene”, che, edito inizialmente nel 1837, ebbe ben 9 edizioni nel sec. XIX ed è stato ripubblicato a ripetizione, di seguito fino al 2018, anno al quale risale l’ultima uscita per i tipi dell’editore Grimaldi di Napoli. Si tratta, senza dubbio alcuno, ancora oggi, del più autorevole trattato di gastronomia napoletana anche per l’innovativa, straordinaria appendice in dialetto, sua caratteristica peculiare. Così di lui scrisse Pietro Martorana nelle sue: “Notizie biografiche”: «Siccome tutti gli uomini devono avere una passione, così il nostro duca, non trascurando i doveri della nobiltà, le sue ore di ozio invece di dissipare in giuochi, in feste e in balli, le occupava nell’arte culinaria, e tanta fu la maestria che in essa acquistò, che ne distese un voluminoso trattato…».Riferisce Salvatore Caetani in: “Apud Neapolim”, che il duca di Maddaloni usava dire: «Tre sono i libri da salvare: la Bibbia, Dante e il trattato di cucina del mio amico Cavalcanti».

Camillo Langone per “il Giornale” il 23 aprile 2021. Non apro l'Artusi per leggere le ricette, non essendo un cuoco nemmeno dilettante: lo apro per leggere. Anziché gustarmi l'aringa, le arselle, la beccaccia (non saprei neanche dove procurarmele), assaporo il lessico, lo stile, il tono, le citazioni...Al posto della «lingua di vitella», la lingua italiana. Del resto Pellegrino Artusi (1820-1911) prima che gastronomo fu letterato: scrisse una vita di Ugo Foscolo, che certo meriterebbe un'occhiata, e un commento alle lettere di Giuseppe Giusti, che mi alletta meno e comunque risulta difficile da reperire. Dunque non bisogna sorprendersi se nella Scienza in cucina, un libro che si presenta come «manuale pratico per le famiglie» ossia quanto di più pragmatico e alla mano, vengano citati Renato Fucini e Alessandro Dumas, Niccolò Machiavelli e per l'appunto l'autore dei Sepolcri...Come se oggi nei ricettari di Benedetta Rossi («le ricette più golose del web») comparissero i nomi di Croce e Montale. Figuriamoci. Dell'Artusi degusto dunque le parole. Spesso, com'è ovvio essendo passato più di un secolo, si tratta di arcaismi. Oppure di toscanismi, altrettanto ovvi per uno scrittore sì romagnolo ma residente da quarant'anni a Firenze, e una Firenze culturalmente ben più cruciale di quella odierna: la Firenze delle case editrici e dei pittori macchiaioli, dei fotografi Alinari e di Collodi, di D'Annunzio e di Berenson, di Boldini e di Böcklin...Pittori e scrittori confluivano dal Nord come dal Sud, per risciacquare i panni in Arno partivano fin dalla Sicilia e lo provano i lunghi soggiorni di Verga e De Roberto. Ecco pertanto nelle pagine del longseller pubblicato nel 1891 spuntare «arnione» per dire rognone, «cieche» per dire anguille piccole, «petonciano» per dire melanzane...Il gran gastronomo era un purista, sebbene non fanatico. I forestierismi lo infastidivano ma, da uomo pratico, sapeva che spesso bisogna adattarsi: «Ormai in Italia se non si parla barbaro, trattandosi specialmente di mode e di cucina, nessuno v'intende; quindi per esser capito bisognerà ch' io chiami questo piatto di contorno non passato di... ma purée di...». Cerca di salvare il salvabile, ad esempio quando per citare Brillat-Savarin è obbligato a scrivere «fondue», subito dopo traduce: «cacimperio». Fantastica parola di cui purtroppo si sono perse le tracce, provate a chiedere un cacimperio al vostro delivery preferito. Artusi a un certo punto, precisamente alla ricetta 122, si mostra sconfortato: «L'uso ha prevalso, ed è giocoforza subirlo». Come lo capisco, io che non mi sono ancora rassegnato, io che non intendo subire i menu colonizzati e che quando leggo «chips», «crumble», «lime», passo al piatto successivo e pazienza se mi piace meno. Ai suoi tempi l'idioma invasore era il francese, oggi è l'inglese, anche più barbaro perché nemmeno neolatino. Se mi parlano di «muffin» penso alla muffa: non mangio dolci andati a male, se tanto vi piacciono mangiateveli voi. E non vi dico cosa mi suggerisce la parola «cake». La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene non è solo un ricettario, in certe pagine diventa un viaggio in Italia, con relative disavventure: «A Pompei in un ristoratore in cui ci aveva preceduto una comitiva di tedeschi ci fu servito il medesimo trattamento di loro. Venuto poi il padrone a chiederci gentilmente se noi eravamo rimasti contenti, io mi permisi di fargli qualche osservazione sullo sbrodolio nauseoso dei condimenti...». Alcuni passaggi più che al Cucchiaio d'argento o ad Antonino Cannavacciuolo fanno pensare a Piovene: «Sono per altro i Bolognesi gente attiva, industriosa, affabile e cordiale...». Ma molto più in là del Conte Viaggiatore (morto nel 1974) non andiamo. Di Pellegrino Artusi oggi non vedo eredi. Nel Novecento italiano sono stati parecchi i letterati capaci di digressioni gastronomiche anche corpose: Filippo Tommaso Marinetti (Manifesto della cucina futurista), Paolo Monelli (Il ghiottone errante), Denti di Pirajno (Il gastronomo educato), Aldo Buzzi (L'uovo alla kok), e più di loro Mario Soldati e più di Soldati l'enorme Gianni Brera. Negli ultimi anni, anni di ricettari illeggibili di telecuochi e foodblogger, il libro di cucina scritto meglio mi è parso quello di Tommaso Melilli, I conti con l'oste (Einaudi), un trentenne cremonese di cui però non mi sovviene produzione extragastronomica. Insomma questo Artusi di centotrent'anni (inteso come libro) e di due secoli (inteso come autore) non possiamo mandarlo in pensione. Qualcosa mi dice che nel breve periodo, anche nel medio, nessuno azzarderà nuovamente un incipit del genere: «Due sono le funzioni principali della vita: la nutrizione e la propagazione della specie». Le ricette del vecchio borghesone dagli incredibili favoriti risultano le più ideologicamente audaci di tutto lo scaffale culinario, trovandosi spesso fra gli ingredienti un pizzico di classismo, una manciata di sessismo, una spolverata di patriottismo e antiveganesimo quanto basta («Non appartenendo io alla setta dei pitagorici...»). Con in più l'edonismo linguistico che può offrirci soltanto uno scrittore vero.

·        Philip Roth.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” l'11 maggio 2021. «Incontrarci è stato per me un piacere molto oltre il dovuto, insperato, benché fossimo ostacolati dalla frizione delle lingue e da troppo rumore intorno», gli scrisse Primo Levi dopo quei giorni passati insieme, a Torino (il 6-7-8 settembre 1986) e pochi mesi prima a Londra (in aprile). Dell'incontro di Levi con Philip Roth, il grande maestro americano del Lamento di Portnoy e Pastorale americana, si sapevano molte cose, comprese tre versioni delle lunghe conversazioni avvenuta a casa di Levi in corso Re Umberto. Ma altri dettagli estremamente interessanti, umani e concettuali, emergono dalla biografia americana di Roth: il Levi che Roth aveva conservato nella memoria, e raccontava e difendeva con i suoi interlocutori a New York. Come sapete, la biografia di Blake Bailey - che ha avuto un accesso senza precedenti agli archivi di Roth, oltre ad aver fatto molte chiacchierate con lo scrittore oggetto del suo studio - è stata ritirata negli Stati Uniti per le accuse di stupro che due donne hanno rivolto a Bailey dopo l'uscita del libro (il libro sarà comunque pubblicato l'anno prossimo da Einaudi). Di sicuro le tre pagine che riguardano il rapporto tra Roth e Levi illuminano di particolari un rapporto cristallino, che si era fatto immediatamente intimo e umano. Roth paragona Levi alle stesse sostanze chimiche su cui si era tanto esercitato, un uomo «può essere spezzato e, come una sostanza che si decompone in una reazione chimica, può perdere le sue proprietà caratteristiche». Ricorda «il profondo abbraccio» che si diedero quando si salutarono, ma ricorda - stando alla biografia di Bailey - un Levi «contento», nonostante la situazione grave data dalla malattia di sua madre. «Non so chi di noi fosse il fratello più grande e chi quello più giovane» (Levi in realtà aveva dieci anni di più, ma forse nell'incontro - stando al racconto che viene fuori qui - le età si invertirono). Più tardi, si evince dagli archivi di Roth, lo scrittore americano fece questa riflessione: «Sentii l'immensa buona sorte di uno che crede di essersi conquistato un nuovo amico completamente straordinario, per il resto della vita». Una sensazione diversa fu percepita da Claire Bloom, allora moglie di Roth, attrice (tra l'altro in Limelight di Chaplin, uno dei film preferiti di Levi). Bloom raccontò di aver percepito qualcosa della depressione di Levi quando si salutarono a Torino, «non so esattamente cosa fosse, ma ho capito una cosa, e Primo ha capito che avevo capito. Abbiamo vissuto uno strano scambio, una sorta di riconoscimento reciproco, molto, molto forte. Se Primo ha capito qualcosa di sé, questo non lo so». Roth stesso stava per precipitare in un lungo periodo di depressione, con insonnia, allucinazioni, panico, costretto a usare oppioidi per curare questi devastanti sintomi. L'11 aprile 1987, due settimane esatte dopo esser rientrato a Londra dall'amata casa in pietra nel Connecticut - dove aveva trascorso l'acme della sua depressione - Roth fu contattato dal New York Times: Primo Levi si era ucciso. Roth ne fu sconvolto. Benché Levi gli avesse confidato il suo abbattimento per le condizioni di sua madre, ormai paralizzata, quando Roth aveva incontrato lo scrittore torinese gli era sembrato «vivace» e «in buona salute» (disse: «sound»). Sembrava che la disperazione fosse ritornata in Levi dopo l'operazione alla prostata, con lunghe notti incontinenti, e la rivisitazione dell'incubo di Auschwitz per l'ultimo libro finito poco prima della morte, I sommersi e i salvati. Quel giorno stesso Roth si recò nella casa di Pimlico di Gaia Servadio (sua amica, nonché la scrittrice che aveva combinato il primo incontro tra i due, su richiesta di Roth, a Londra, all'Istituto di cultura). Sappiamo adesso che, quel giorno, Roth piangeva. Era distrutto. Per lungo tempo, in seguito, coltivò lui stesso propositi suicidi. Ma questa sarebbe un'altra storia. Di sicuro Roth non dimenticò mai Levi e, cosa forse meno nota, arrivò a odiare Woody Allen proprio in difesa di Primo Levi. Già in Operazione Shylock, Roth (che era un grande amico di Mia Farrow) aveva fatto definire il regista, da un suo personaggio, «un piccolo idiota stronzo». E in una lettera, ora pubblicata, a John Updike che aveva elogiato una scena di Crimini e misfatti (dove tra l'altro recitava Claire Bloom, la moglie di Roth), lo scrittore americano fu ancora più duro. Molti avevano visto, nella scena del rabbino che balla del film, un sarcasmo di Woody Allen ispirato alla figura di Levi. Roth fu lapidario: «Immagino che uno debba essere ebreo per odiare apertamente Crimini e misfatti. Lo considero il livello più basso del kitsch ebraico, e la profanazione della memoria di Primo Levi ha accesso dentro di me una furia che non riesco a placare. Quell'uomo, se è possibile usare questa parola per descriverlo, è falso da cima a fondo».

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 9 aprile 2021. «Noi lasciamo una macchia, un percorso, una traccia. L' impurità, la crudeltà, l' abuso, l' errore. La verità su di noi è infinita. Come le bugie». Probabilmente l' aguzzo Philip Roth avrebbe risposto così - citando il suo La macchia umana, atto d' accusa ante litteram contro la "cultura delle cancellazione"- davanti alle variopinte accuse di maschilismo, misoginia, antisemitismo che in queste ore stanno fioccando dai grandi salotti letterari della sinistra americana, con imbarazzato riverbero sugli omologhi salottini radical italiani. Nessuno pensava che sarebbe stato possibile, il sacrificio di un' icona di classe, di un (proprio) feticcio culturale sull' altare del politicamente corretto. Eppure, è accaduto. In America escono nell' ordine: la monumentale biografia del grande scrittore - The Biography in Italia pubblicata da Einaudi- a firma di Blake Bailey, il libro With Philip del suo intimo amico Benjamin Taylor e un favoloso ritratto di David Remnick sul New Yorker. E, di colpo, la cultura liberal e gli ambienti Dem in blocco, sull' inevitabile strascico del movimento #MeToo prendono Roth, per anni simbolo d' intelligenza progressista, genio iconoclasta, idolatra dell' eterno femminino e del sesso illimitato e, lo scuotono dal piedistallo; fino a precipitarlo nelle segrete della letteratura, tra le più bieche delle accuse. Ora, se negli Usa la polemica su Roth coinvolge grandi testate come il New Yorker o storiche firme del femminismo come Meg Elison («La sua misoginia infonde ogni cosa che scrive. È disgustato dalla propria attrazione nei confronti delle donne»), in Italia nessun intellettuale un tempo fieramente rothiano - di quelli che votano Pd, sfogliano i libri di Adelphi e pasteggiano a film di Woody Allen - ha finora preso una posizione.

LA DIFESA. L' unico a schierarsi a favore del suo mito dell' infanzia è lo scrittore Alessandro Piperno, ebreo raffinato, il quale sulle colonne del Corriere della sera, nel tentativo di difendere Roth dal fuoco concentrico dell' idiozia e di un nuovo maccartismo, ribatte colpo su colpo. Piperno sull' accusa di "antisemitismo" ricorda che Roth è stato, invece, quello che «ha dato lustro all' ebraismo laico e secolarizzato mostrandone complessità, ironie, sprezzature». All' accusa di "antiamericanismo" risponde di come semmai, in Roth, rifulga un eccesso di patriottismo, dato che Roth considerava da sempre New York e sobborghi come il principio e la fine di ogni cosa. E all' accusa - gravissima - di maschilismo Piperno oppone l' estetica di una narrazione rothiana esplosa tra effluvi di fluidi e umori, di sboccatezza e crudités erotiche. Roba che non solo non è affatto da condannare, ma anzi echeggia di altri grandi della letteratura da Flaubert e Tolstoj; e pure rivela un' ossessione per le donne che non è altro che un' ineluttabile straziata idea dell' amore (e qui richiama Il teatro di Sabbah l' opera del vecchio Philip dove il protagonista è una sorta di Tristano porno che arriva a compie atti di autoerotismo sulla tomba dell' amante). Roth era uno stoico e un cinico di mestiere: considerava i propri vizi, gli adulteri, le "ossessioni veneree" alla stregua di una medaglia al valore. Se la sarebbe risa di tutto questo, magari in compagnia di Neil Simon e di Harold Bloom.

RIDISEGNARE IL MONDO. Non si dovrebbe neanche star qui a discutere sull' operazione di damnatio memoriae che una minoranza intellettuale farcita di femminismo oltranzista sta in questi giorni praticando sulle sue spoglie. Eppure, questo è l' ennesimo tentativo di ridisegnare il mondo, di riscrivere la storia attraverso l' ansia del politicamente corretto. Qualche settimana fa era accaduto a George Orwell strattonato tra ideologie di destra o di sinistra a seconda della convenienza. Mesi prima, come riporta il Daily Mail, l' Università di Leicester aveva annunciato l' intenzione di accantonare il gigante letterario Geoffrey Chaucer a favore di «modelli sostitutivi che rispettino di più razza e genere». Anche Shakespeare corre rischi, a questo punto. Prima ancora erano stati Harper Lee e Mark Twain, un tempo autori amati dalla sinistra e riconosciuti emblemi democratici dei diritti civili, a subire l' onta dell' esilio nei programmi delle scuole americane. Questo perché le associazioni per diritti dei neri avevano deciso che le opere principali dei suddetti autori Il buio oltre la siepe di Lee e Le avventure di Huckleberry Finn di Twain risultano troppo "discriminatori" - e dunque un po' fascisti- perché nei tempi è ripetuta troppe volte la parola «negro». Siamo all' assurdo kafkiano. Anche perché si tenga conto che soprattutto Il buio oltre la siepe, in cui l' avvocato bianco Atticus Finch difende il nero Tom Robinson dall' accusa di stupro, è universalmente considerato uno dei più grandi manifesti letterari contro l' odio razzista mai scritti. Della stessa sinistra discriminazione fu vittima nel '99 Michel Houellebecq. Che nel suo best seller Le particelle elementari - requisitoria contro la libertà sessuale e il mondo postsessantottino, confezionato con un linguaggio esplicito e sessualmente colorito - passò dall' essere uomo della gauche a campione delle destra più becera. La cancel culture, la cultura delle cancellazione, sta davvero diventando una ghigliottina per qualsiasi scrittore. Suscettibilità, indignazione facile e perbenismo stanno contaminando ogni forma di dissenso dal pensiero unico. Se continua così il buonismo rimarrà l' unica fonte di ispirazione. Tra poco, fatti i fuori i grandi, ci dovranno dire, in uno scenario alla Fahrenheit 451, quali sono gli autori che potremo compulsare e quelli che dovremo bruciare. L' Italia sarà un mondo in cui (senza offesa) i D' Avenia, i Veltroni, i Moccia o le Sveva Casati Modigliani vigileranno sulle nostre coscienze. Un mondo in cui le macchie di Philip Roth dall' alto sembreranno continenti sperduti alla deriva della letteratura.

·        Philip Kindred Dick.

Gianpaolo Serino  per satisfiction.eu il 17 aprile 2021. “Non sono un romanziere, sono un filosofo narrativo. Il cuore della mia scrittura non è l’arte, ma la verità”. Queste parole sono di Philip Kindred Dick, lo scrittore americano che più ha contribuito a modificare il nostro immaginario collettivo contemporaneo: da “Anche gli Androidi sognano pecore elettriche?” (romanzo diventato poi “Blade Runner”, il capolavoro cinematografico di Ridley Scott) a La svastica sul Sole, da “Un oscuro scrutare” a “Rapporto di minoranza”. Nato nel 1928 e morto nel 1982 ha scritto 45 romanzi e 121 racconti: da moltissimi sono stati tratti film di successo, altri hanno ispirato capolavori come “Matrix” o “The Truman Show”. Più che compreso Philip Dick è stato saccheggiato: le sue idee sono state considerate quelle di un pazzo mentre era in vita e rivedute solo dopo la sua morte. Oggi Philip Dick ha milioni di lettori in tutto il mondo, ma quando pubblicava i suoi libri – al ritmo di sette all’anno- stentava persino a sbarcare il lunario. Certo questo non gli impedì di sposarsi quattro volte, ma la sua esistenza è sempre stata ad un passo dalla follia. Era convinto di essere di essere soltanto il sogno di sua sorella gemella morta durante il parto, era certo che non esistesse un’altra vita dopo la morte ma un’altra vita mentre stiamo vivendo: una realtà parallela sincrona alla nostra e di inventare un Dio che non promette la vita eterna ma la dispensa. Tutti i suoi romanzi -pubblicati in Italia da Fanucci, Feltrinelli, Einaudi, mentre l’anno prossimo è attesissimo il primo Meridiano Mondadori dedicato alle sue opere; consigliatissima è la sua biografia scritta da Emmanuel Carrère, “Io sono vivo voi siete morti” edito da Adelphi- esplorano il concetto di realtà, di diverso (sia esso straniero o androide), la religione, la politica, la distopia. Philip Dick è uno scrittore geniale ma purtroppo vittima di una vita disperata: continui insuccessi economici, settimane di autoisolamento chiuso in casa solo ad ascoltare musica (da Mozart ai Grateful Dead) con il perenne timore di essere perseguitato dal fisco e di essere controllato dalla Cia e dall’Fbi. E poi la dipendenza da droghe e psicofarmaci, i continui tentativi di disintossicazione dalle anfetamine, i numerosi tentati suicidi. Nel suo ultimo tentativo Dick ingerì 49 tavolette di digitalina (un medicinale cardiocinetico che a dosi ben minori avrebbe ucciso chiunque), sonniferi, mezza bottiglia di vino, si tagliò le vene del polso destro e si stese nella sua Fiat chiuso dentro il garage con il motore acceso. Non servì a nulla. Dick sopravvisse alla vita. Ma non alle sue “visioni”: una realtà metafisica oltre il velo dell’apparenza, oltre la “vera realtà”. Come scrive nel suo capolavoro filosofico “Esegesi” è convinto che “un giorno la maschera cadrà, e tu capirai tutto” per poi confessare: “Io ho il mio mondo speciale. Immagino sia nella mia testa. Se così fosse, allora rappresenterebbe quello che sono. Mi sembra di vivere all’interno dei miei romanzi, sempre di più: sto forse perdendo il contatto con la realtà? Sento come se fossi stato tanto persone diverse. Molte persone forse si sono sedute davanti a questa macchina da scrivere, e hanno scritto i miei libri.” Da questa presa di (in)coscienza Dick si immerge in dissertazioni filosofiche partendo dalle teorie dei presocratici, di Platone, Meister Eckhart, Spinoza, Hegel, Schopenhauer, Heidegger e Hans Jonas, Mentre Dick vuol far cadere il velo che acceca il mondo, nelle pagine finali disvela il proprio, quando a pagina 553 ammette che “Tutti gli artisti sanno di non poter fare a meno di soffrire, e, per questo, forgiano la loro arte nella sfida. Che siano artisti o no, soffriranno. L’arte è l’ultima sfida del Fato”. Nell’inedito in Italia che presentiamo, Dick comprende la potenza del romanzo che gli darà il successo: “Anche gli androidi sognano pecore elettriche?” che Ridley Scott trasformò appunto nel film culto “Blade Runner” (il titolo lo prese da una sceneggiatura di William Burroughs), con protagonista Harrison Ford che interpreta un cacciatore di taglie, Rick Deckard, il cui lavoro è quello di trovare e “ritirare” gli androidi canaglia. Quando fu pubblicato generò quasi immediatamente l’interesse degli studi cinematografici desiderosi di adattarlo per il grande schermo. I primi colloqui e le prime bozze di sceneggiatura non riuscirono a impressionare Dick; tuttavia, nel 1981, quando si propose il regista Ridley Scott, Dick la stessa sera scrisse con entusiasmo questa lettera alla casa di produzione responsabile e condivise i suoi pensieri. Philip K. Dick, dopo un’esistenza da sconosciuto, divenne una celebrità, ma morì cinque mesi dopo aver inviato questa lettera, senza vedere il film finito. Oggi è considerato da molti come il più grande film di fantascienza mai realizzato.

A Jeff Walker, The Ladd Company, 4000 Warner Boulevard, Burbank, Calif. 91522. Caro Jeff, mi è capitato di vedere il programma televisivo di Channel 7 “Urrà per Hollywood” stasera con il segmento su BLADE RUNNER. (Beh, ad essere onesti, non l’ho visto per caso; qualcuno mi ha avvisato che BLADE RUNNER avrebbe fatto parte del programma, e di essere sicuro di guardarlo). Jeff, dopo aver guardato -e soprattutto dopo aver ascoltato Harrison Ford parlare del film- sono giunto alla conclusione che questa non è davvero fantascienza; non è fantasia; è esattamente quello che ha detto Harrison: futurismo. L’impatto di BLADE RUNNER sarà semplicemente travolgente, sia sul pubblico che sulle persone creative – e, credo, sulla fantascienza. Dato che ho scritto e venduto opere di fantascienza per trent’anni, questa è una questione di una certa importanza per me. In tutta franchezza devo dire che il nostro campo si è gradualmente e costantemente deteriorato negli ultimi anni. Niente di quello che abbiamo fatto, individualmente o collettivamente, è all’altezza di BLADE RUNNER. Questo non è escapismo; è super realismo, così grintoso e dettagliato e autentico e dannatamente convincente che, beh, dopo il segmento ho trovato la mia normale “realtà” attuale pallida al confronto. Quello che sto dicendo è che tutti voi, collettivamente, potreste aver creato una nuova forma unica di espressione grafica e artistica, mai vista prima. E, credo, BLADE RUNNER rivoluzionerà le nostre concezioni di ciò che la fantascienza è e, ancora di più, può essere. Permettetemi di riassumere in questo modo. La fantascienza si è lentamente e ineluttabilmente adagiata in una morte monotona: è diventata consanguinea, derivativa, stantia. Improvvisamente siete arrivati voi, alcuni dei più grandi talenti attualmente esistenti, e ora abbiamo una nuova vita, un nuovo inizio. Per quanto riguarda il mio ruolo nel progetto BLADE RUNNER, posso solo dire che non sapevo che una mia opera o un mio insieme di idee potesse essere portato a dimensioni così sorprendenti. La mia vita e il mio lavoro creativo sono giustificati e completati da BLADE RUNNER. Grazie… e sarà un grande successo commerciale. Si rivelerà invincibile. Cordialmente, Philip K. Dick

·        Pier Paolo Pasolini.

Paolo Biondani per l’Espresso il 2 novembre 2017. Pier Paolo Pasolini era spiato dall'ufficio D del Sid, il famigerato reparto dei servizi segreti militari che negli stessi anni stava inquinando e depistando le indagini sulla strage nera di Piazza Fontana. E poco prima di essere ucciso, il grande scrittore si scambiava lettere riservate con Giovanni Ventura, il terrorista di destra, legato proprio al Sid, che dopo l'arresto e mesi di carcere sembrava sul punto di pentirsi e aveva cominciato a confessare le bombe sui treni dell'estate 1969 e gli altri attentati preparatori della strategia della tensione. Un carteggio inedito, durato sette mesi, che ha portato l'intellettuale di sinistra a chiedere apertamente all'ex editore neonazista di uscire finalmente dall'omertà e raccontare tutta la verità sull'attentato che ha cambiato la storia d'Italia. Sono passati esattamente 42 anni dalla morte violenta di Pasolini, assassinato nella notte tra l'1 e il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Per il brutale omicidio dello scrittore, regista e polemista scomodo, c'è un unico colpevole ufficiale: Pino Pelosi, 17enne all'epoca del delitto, condannato dal tribunale minorile a nove anni e sette mesi, scarcerato nel 1983, morto nel luglio scorso dopo una lunga malattia. I familiari, gli amici più stretti, gli avvocati di parte civile e molti studiosi sono sempre stati convinti, come gli stessi giudici di primo grado, che l'omicidio sia stato deciso da mandanti rimasti occulti ed eseguito da altri complici, probabilmente un gruppo di criminali legati alla destra eversiva, come lo stesso Pelosi aveva finito per confermare, tra molte reticenze (giustificate dalla paura di vendette anche sui parenti), in una celebre intervista televisiva alla Rai. Ora un nuovo libro-inchiesta, firmato da Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, e da Andrea Speranzoni, avvocato e saggista, chiede ai magistrati di Roma di riaprire le indagini sull'omicidio Pasolini. Per approfondire nuove piste investigative, portate alla luce grazie alla digitalizzazione dell'enorme archivio del processo di Catanzaro su Piazza Fontana: tonnellate di carte rimaste sepolte dagli anni Settanta negli scantinati giudiziari, trasportate a Milano e a Brescia negli anni Novanta per far ripartire le inchieste sulle stragi impunite, e poi scannerizzate da una cooperativa di detenuti di Cremona. Con il risultato di rendere accessibili e ricercabili decine di migliaia di documenti perduti, dimenticati e in qualche caso del tutto inediti. Il libro, “Pasolini. Un omicidio politico” (prefazione di Carlo Lucarelli, editore Castelvecchi) viene presentato dai due autori giovedì 2 novembre nella sala Aldo Moro della Camera dei deputati, dove è atteso l'intervento dell'avvocato Guido Calvi, che come parte civile fu il primo a denunciare, insieme al collega Nino Marazzita, i possibili complici neri che terrorizzavano Pelosi. Paolo Bolognesi, che è anche deputato, è il primo firmatario della proposta di legge per istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sull'omicidio Pasolini. Negli atti dello storico processo di Piazza Fontana, in particolare, gli autori del libro hanno trovato documenti che provano l'esistenza di un fascicolo del Sid, protocollato con il numero 2942, intestato personalmente a Pasolini. Un dossier, finora ignoto, che comprova un'inquietante attività di spionaggio della sua vita privata e professionale, che mirava a scoprire, in particolare, cosa avesse scoperto negli ottantamila metri di pellicola utilizzati per realizzare il documentario «12 dicembre»: un filmato che sosteneva la tesi della «strage di Stato» quando gli apparati di sicurezza accreditavano ancora la falsa “pista rossa” degli anarchici milanesi. L'esistenza e il numero di protocollo del dossier segreto su Pasolini è documentata, in particolare, da un'informativa del Sid, pubblicata integralmente nel libro, datata 16 marzo 1971 e indirizzata dagli agenti di Milano all'ufficio D di Roma: il reparto dei servizi destinato ad essere soprannominato “ufficio stragi”, dopo la scoperta che il suo capo, l'allora colonnello (poi generale) Gian Adelio Maletti, e il suo braccio destro, il capitano Antonio Labruna, invece di aiutare la giustizia facevano sparire le prove contro i terroristi neri. Al punto da fornire soldi e documenti falsi per far scappare all'estero e pagare la latitanza ai neofascisti ricercati dai magistrati di Milano. Maletti e Labruna, entrambi affiliati alla P2, sono stati condannati con sentenza definitiva per il reato di favoreggiamento. Freda e Ventura sono stati proclamati colpevoli in tutti i gradi di giudizio per 16 attentati preparatori del 1969 e assolti in appello per la strage di piazza Fontana, per insufficienza di prove (e abbondanza di depistaggi). Il libro-inchiesta rivela che Pasolini era spiato anche dall'Ufficio Affari Riservati, il servizio parallelo che completava il lavoro sporco degli apparati deviati perseguitando gli innocenti anarchici milanesi. "Un'altra scoperta sorprendente è il ritrovamento, tra gli atti ora informatizzati del maxi-processo di Catanzaro, di un carteggio tra Pasolini e Ventura. Le prime notizie di queste lettere erano emerse grazie a un altro libro-inchiesta, firmato da Simona Zecchi (“Pasolini, massacro di un poeta”, pubblicato nel 2015 dalla casa editrice Ponte alle Grazie), che rivelava per la prima volta anche altri elementi di prova, come la foto di una seconda macchina sul luogo del delitto, diversa dall'auto dello scrittore (con cui Pelosi passò sul corpo della vittima prima di darsi alla fuga), le minacce subite dall'intellettuale antifascista poco prima dell'omicidio e il possibile collegamento con le sue indagini su piazza Fontana. Documentato anche dal carteggio finito agli atti dello storico processo sulla strage." Poco prima, il 14 novembre 1974, Pasolini aveva firmato il famoso articolo, sul Corriere della Sera di Piero Ottone, che si apriva con queste parole: «Io so. Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia, infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. (…) Io so. Ma non ho le prove (…)». Nel carteggio, controllato dalla direzione del carcere, Ventura allude a verità inconfessabili, ma resta evasivo e reticente. Poco prima del suo omicidio, in una delle ultime lettere ora pubblicate nel libro-inchiesta, Pasolini lo invita personalmente a confessare tutto: «Gentile Ventura», gli scrive, «vorrei che le sue lettere fossero meno lunghe e più chiare. Una cosa è essere ambigui, un’altra è essere equivoci. Insomma, almeno una volta mi dica sì se è sì, no se è no. La mia impressione è che lei voglia cancellare dalla sua stessa coscienza un errore che oggi non commetterebbe più. (…) Si ricordi che la verità ha un suono speciale, e non ha bisogno di essere né intelligente né sovrabbondante (come del resto non è neanche stupida né scarsa)». Il processo di primo grado per l'omicidio Pasolini si è chiuso con la condanna di Pino Pelosi «in concorso con ignoti»: i giudici del tribunale considerano assolutamente certa la presenza di altri assassini non identificati. In appello, su richiesta dell'allora procuratore generale, la sentenza cambia: Pelosi diventa l'unico colpevole. In questi anni gli avvocati di parte civile hanno cercato più volte di far riaprire il caso, ma senza risultati. Ora il libro-inchiesta pubblica molti nuovi elementi di prova, tra cui le testimonianze, finora inedite, di alcuni abitanti dell'Idroscalo, che già nel 2010 hanno verbalizzato che quella notte nel luogo dell'omicidio non c'erano soltanto Pasolini e Pelosi, ma diverse altre persone. La speranza è che il nuovo vertice della procura di Roma, che sta facendo dimenticare la nomea della capitale giudiziaria come «porto delle nebbie», possa fare ogni sforzo per cercare verità e giustizia su un delitto di portata storica come l'omicidio di Pier Paolo Pasolini. 

Gian Paolo Serino per il Giornale il 14 dicembre 2021. “Ogni cosa mentre è mi delude, e quando è passata la rimpiango”: è questa la tragedia umana di Pier Paolo Pasolini come scrive in una delle “trecento” lettere inedite contenuta in Pasolini Le lettere ora in libreria per Garzanti a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini. Viene “promosso” come “volume che riunisce per la prima volta in forma completa l’epistolario di Pier Paolo Pasolini”, sin dalla seconda di copertina e da tutti i quotidiani che ne hanno scritto evidentemente non avendolo letto, seppure siano evidente le lacune a chiunque conosca minimamente l’opera dello scrittore friulano. Sono annunciate “300 lettere inedite”, nel libro indicate con doppio asterisco ma sono molto meno: la maggior parte di quelle non ancora pubblicate veramente sono telegrammi, appunti ritrovate tra le carte di Pasolini, addirittura una missiva scritta nel giorno della morte del fratello Guido: è logico che nelle intenzioni di Pasolini fosse un ricordo in forma epistolare ma non una lettera: a chi la spediva? Tanto è vero che è lo stesso scrittore a sottolineare “in questo diario”. Certo poi ci sono inediti preziosi: lo stesso ricordo del fratello - ucciso appena diciannovenne ucciso da quella stessa sinistra partigiana che doveva proteggerlo - è struggente e lontano dalla retorica del dolore come pochi riuscirebbero a scrivere (intrisa violenta strappata lancinante ma razionale tenerezza). Gli inediti per la maggior parte sono lettere inviate a suoi lettori o più spesso a giovanissimi poeti e scrittori che a lui si rivolgevano per un parere. E proprio in queste lettere si scopre un Pasolini lontano dal famelico ritratto di divoratore di “ragazzi di vita”: un Pasolini mosso da un intento pedagogico, generoso e al contempo troppo intelligente per non capire che oltre ai suoi interlocutori colti (Contini, Ungaretti, Morante, Bertolucci, Bassani, Giulio Einaudi, Livio Garzanti) la sua forza era proprio confrontarsi con sconosciuti. Leggeva i loro componimenti, i loro libri, rispondeva a volte ammirato a volte con critiche feroci: al contempo non mancava il confronto con i più giovani, con le loro idee, cercando di insegnare loro non la strada migliore ma una strada che fosse la loro. Tra quei ragazzi anche Walter Siti, Premio Strega, oggi massimo esperto di Pasolini tanto da aver curato ben undici Meridiani Mondadori dedicati all’opera dello scrittore. Un Siti che ci conferma come l’epistolario sia incompleto (mancano le lettere raccolte proprio da lui nei Meridiani, quelle spedite a riviste e a critici) e comprenda molte imprecisioni (ad esempio lui laureato alla Normale di Pisa nel testo è laureato a Firenze) risentendo di non essere stato completato da Nico Naldini (scomparso lo scorso Settembre). Il Pasolini che leggiamo è anche un Pasolini sempre più deluso dalla sinistra: non per vendetta contro quel PCI che da giovane insegnante lo aveva espulso per “immoralità” ma per una sua visione che letta oggi è attualissima: nel 1968 riflette su “quanta demagogia abbiano fatto le Sinistre sulla parola pace. Da ciò, quindi, la mia colpevole renitenza. Se io dovessi scegliere il mio eroe, no  sceglierei certo Che Guevara, né Mao: sceglierei Camillo Torres. Che ne direbbe Camillo Torres (ndr: guerrigliero colombiano) della pace, Camillo Torres ha parlato della pace facendo la guerra. Ne ha parlato, cioè, attraverso il linguaggio della guerra”. In un’altra lettera risponde a un poeta: “La libertà dell’io in direzione basso-alto, che direzione metastorica. Ed è questo che non mi fa essere comunista”. Perché, continua, “io per cultura intendevo la storia nel suo manifestarsi attuale: quindi qualsiasi atto – in fondo anche il più meramente pratico- è un atto culturale”. Malgrado le mancanze filologiche, che lasciamo agli studiosi e  abbiamo qui voluto unicamente denunciare, questa raccolta è la migliore lettura possibile di questo anno: nessuna delle 1500 pagine risente del tempo o di certi epistolari che sono puramente per specialisti. Perché in ogni lettera Pasolini ha talmente tanta forza che sembra scrivere a noi. E così si crea una strana e insolita simbiosi tra noi e lo scrittore: e la lettura non stanca, si fa compulsiva. Leggendo questo Pasolini diventi complice. Più che un libro è un dono. Poi certo le dimenticanze. Ad esempio le lettere inedite inviate tra gli anni ’50 e ‘60 a Giancarlo Vigorelli, che insieme a Gianfranco Contini, lo ho scoperto e aiutato sin dagli esordi. Lettere che ho pubblicato anni fa sulla rivista Satisfiction: sempre in bilico tra timidezza quasi reverenziale e affetto, bisogno conclamato  di aiuto e brevi ma folgoranti confidenze Pasolini si mostra  ansioso per una mancata risposta. In quegli anni Vigorelli gli commissiona molti articoli per le sue riviste ed è tra i pochissimi intellettuali italiani -Alberto Moravia, Carlo Bo, Gianfranco Contini ed Emilio Cecchi - a difenderlo durante il processo per oscenità intentato nel 1955 contro Ragazzi di vita. Gian Paolo Serino. 

Gentile Sig. Vigorelli, forse avrà avuto notizia dagli uscieri o dalla telefonista della mia insistenza nel volerla rivedere: non era per capriccio, Lei lo sa. Ora avrei bisogno del materiale che Le ho lasciato, per cercare di pubblicarlo da qualche altra parte.

Roma 30 agosto ‘54.

Caro Vigorelli, Bertolucci mi ha avvertito che per la recensione Lei desidererebbe qualche altra cosa mia (…). Ho messo insieme tutto quello che ho potuto trovare nei miei cassetti: di cui è custode mio padre. E’ mio padre che viene a portarLe il pacco (…). Sono documenti della mia prima gioventù letteraria. 

Roma 6 ott 1954 

Caro Vigorelli, ho letto stamattina, appena alzato, il tuo stupendo articolo. Sono qui senza parole , tanto sono colpito e sovvertito (…). E sono oppresso insieme da una contentezza quasi infantile        (quella che vedo dipinta negli occhi di mia madre e di mio padre) e da una nuova, ancora più ossessionante responsabilità. Non trovo altro modo di ringraziarti che prometterti di non risparmiarmi, di non attutire mai, anche dovesse assumere forme di smania o di vizio nell’ordine irrazionale, o di mania intellettualistica o moralistica, quella passione che tu hai sentito nei miei versi. 

Roma 11 dicembre ‘55

Caro Vigorelli, ormai tu sei una delle sei o sette persone per cui io scrivo, come destinatari diretti e coscienti: e sei stato tu a volerlo essere, a esserlo, sin dalle prime ormai antiche letture (…). Forse, per orgoglio, per eleganza, non avrei dovuto scriverti queste righe: ma perché? che me ne importa dell’orgoglio, dell’eleganza, non voglio saper vivere…

Roma, 8 ottobre 1969 

Caro amico, la critica in genere ha accolto un mio film PORCILE in modo ingiusto e sgradevole. Temo che a causa di questa accoglienza, tu non sia andato a vedere il mio film (…). Ma io invece ci tengo enormemente a PORCILE, che considero la mia opera più riuscita.

Pier Paolo Pasolini, l'ossimoro vivente. Angelo Gaccione su Il Quotidiano del Sud il 12 Dicembre 2021. ORAMAI Donato Di Poce ci ha abituati a più di un libro all’anno e, anche lui corsaro come il suo amato Pasolini, scandagliando nei territori più diversi. Dopo Artaud. Il poeta e il suo doppio, dopo il volume sulle icone pop di Mauro Rea, dopo l’antologia poetica bilingue (italiano-spagnolo) Clandestini – Clandestinos, ecco pubblicata dalle Edizione de I Quaderni del Bardo di Sannicola di Lecce in formato rigorosamente quadrato, la sua monografia sul poeta di Casarsa. “Pier Paolo Pasolini: l’ossimoro vivente”, continua un discorso che ha origini lontane. Lo spiega Di Poce stesso perché la scintilla si era accesa subito dopo la lettura di un libro che per lui è stata illuminante, le celebri “Ceneri di   Gramsci”. In questa sua monografia Di Poce ci offre una sintesi dei numerosi aspetti della personalità di Pasolini: dai saggi critici alla poesia, dalla critica letteraria e di arte alla narrativa, e, ovviamente, senza trascurare il cinema e i documentari televisivi. Esiste anche un Pasolini autore di teatro, come sappiamo; un Pasolini giornalista e polemista, e così via. Meno noto, almeno per le generazioni più giovani, è il contributo di Pasolini alla rivista bolognese Officina, e bene ha fatto Di Poce a tracciarne una breve ma essenziale sintesi. Fondata nel 1955 su impulso di tre poeti (Pasolini, Roversi, Leonetti), il più “anziano” era proprio Pasolini nato nel 1922, Roversi era di un anno più giovane (1923) e Leonetti di due (1924). Ad ogni modo tutti sopra i trent’anni e già nel pieno della maturità poetica ed espressiva; e soprattutto con le idee chiare: farla finita con l’ermetismo novecentesco e ingaggiando una vivace polemica contro il neorealismo divenuto ai loro occhi sempre più stanco e inefficace. Durerà solo pochi anni questa esperienza, destinata a concludersi definitivamente nella primavera del 1959, come leggerete nel volume, ma che per Pasolini resta una tappa significativa. Di Poce ci consegna per ogni numero della rivista i materiali che il poeta bolognese pubblicherà; alcuni di questi lavori confluiranno nei volumi di poesia come, appunto, “Le ceneri di Gramsci”, “La religione del mio tempo”, eccetera. Di Poce ha mancato l’incontro con Pasolini (l’assassinio all’Idroscalo di Ostia cancellerà il poeta dalla scena culturale italiana nel pieno della giovinezza), ma è stato amico di uno dei protagonisti di Officina, Roberto Roversi che andava a trovare alla Libreria Palma Verde. In via dei Poeti, dove sono stato anch’io.

Da “Libero quotidiano” il 22 agosto 2021. Per gentile concessione dell’Associazione Giovanni Testori (associazionetestori.it), pubblichiamo lo straordinario articolo scritto per L’Espresso il 9 novembre 1975 da Giovanni Testori (1923- 1993) in occasione della tragica morte di Pier Paolo Pasolini (1922-1975). Allo scrittore ucciso il 2 novembre sul lido di Ostia è dedicata una delle mostre («Io, Pier Paolo Pasolini») ospitate dall’edizione del Meeting di Rimini che apre domani in Romagna.  Il programma completo dell’appuntamento di Comunione e Liberazione è disponibile sul sito meetingrimini.org: la rassegna torna quest’anno in presenza, previa registrazione e con green pass, dopo l’edizione 2020, caratterizzata da forti restrizioni legate al Covid. Il titolo di quest’anno è «Il coraggio di dire io»: la manifestazione che inaugura domani chiuderà mercoledì 25. Il testo su Pasolini, qui proposto ai lettori, verrà letto in un video, all’interno della citata esposizione, dall’attore teatrale e scrittore Sandro Lombardi.

Testo di Giovanni Testori:

Sull'atroce morte di Pasolini s' è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla. Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l'angoscia dell'essere diviso, dell'essere soltanto una parte di un'unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l'angoscia dell'essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l'abitudine di chiamare «diversi». Allora, quando il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s' è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d'odio e d'amore) e si resta lì, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un «qualcuno»; quel «qualcuno» che ci illuda, fosse pure per un solo momento, di poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell'unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi; la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l'inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l'altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca. Mettere di fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s' abbia neppure il tempo per fare di questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita. Del resto, chi potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell'angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d'intendere. Si parte; e non si sa dove s' arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l'incontro, l'illusione riprecipita in sé stessa. Ma nella liberazione fisica s' è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l'unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella «nientità» della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s' allungano; più difficile si rende la possibilità che quell'incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la «via crucis» della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, di quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?

Da professionereporter.eu il 14 luglio 2021. Quasi cinquant’anni fa - inizio 1972 - Piero Ottone diventò direttore del Corriere della Sera. Alcuni mesi dopo uno dei suoi vice, Gaspare Barbiellini Amidei, lanciò l’idea di chiedere a Pasolini di scrivere per il giornale. Da quel momento, cominciò questa clamorosa collaborazione, tra le più discusse (ma anche tra le più rilevanti) nella storia del Corriere. Lo ricorda in un post su Facebook, Stefano Mignanego, figlio di Ottone (questo era un cognome d’arte). “Si trattò - scrive Mignanego - di una scelta che andava nella direzione del nuovo corso avviato da mio padre, diretto a portare il giornale al centro del dibattito dei grandi cambiamenti dell’epoca, aprendolo a più voci, anche dissonanti, tante delle quali ospitate nella nuova rubrica ‘Tribuna aperta’”. Mesi prima avvenne però un episodio, incredibile, che avrebbe potuto far saltare tutto: “Pasolini non approvava la linea del Corriere sulla guerra in Vietnam; scrisse allora una lettera di protesta al giornale, piena di offese, definendo mio padre, tra le altre cose, ‘una triviale e laida puttana’. Ebbene, nonostante questo precedente, mio padre non esitò ad accogliere la proposta di Barbiellini Amidei perché, come disse a Matteo Collura, ‘non mi ero sentito ferito dalle sue frasi offensive, avevo la coscienza a posto. E poi, se Pasolini poteva dire cose interessanti sul giornale che dirigevo, impedirglielo per un fatto personale sarebbe stato un errore. In quel momento andava ascoltato, indipendentemente dalle proprie opinioni’”.

Mignanego conclude: “Che dire? altri tempi, altro giornalismo”.

Dagospia il 13 giugno 2021. Stralci del carteggio coi lettori di Pier Paolo Pasolini, da "Le belle bandiere" (ed. Garzanti), pubblicati dal “Fatto Quotidiano”. Signor Pasolini, vorrei che conoscesse l'opinione di uno studente che, pur essendo un cattivo cattolico, aspirerebbe a diventare un buon cristiano Io credo che bisogna aiutare, rivendicare, educare. Educare è più di istruire. Questo imperfetto discorso l'ho fatto per venire a un punto: il giovane e l'amore. Il giovane dev'essere istruito all' amore e prim' ancora educato, perché io credo, nella mia poca esperienza, che l'amore non sia semplicemente un se coucher, ma qualcosa di più. Io credo che l'essenza dell'amore sia anche qui nell' altruismo, nel rispetto della persona amata, ch' è pure carne amata. Il nascere dell'amore è istintivo, immediato. Il fidanzamento è l'intervallo necessario, che permetterà ai due di conoscersi meglio, di capirsi, di lasciarsi. Oggi non c' è molto tempo per l'amore. Ci si prende, ci si piace, ci si lascia. Questo si legge sui vostri libri, questa è la realtà. Ma questo, che voi illustrate, non è amore ma un suo surrogato, perversione, egoismo. Anche Lenin era del mio stesso parere. Vi sono poi i due comandamenti: non commettere atti impuri e non desiderare la donna di altri Noi giovani abbiamo bisogno di essere istruiti. Invece voi rimestate il fango, forse per dimostrare che la società borghese è putrida. Ma bisogna anche prospettare soluzioni e illustrare speranze. Lo sa che il comunista è ottimista e che il suo pessimismo è un residuo piccoloborghese? Io dico che oggi la realtà va poggiata su un piano morale. Giovanni Petti, Roma

Caro ragazzo so tutto della tua vita. Quella che si svolge intorno a te, e, fino a un certo punto, quella che si svolge dentro di te. Conosco qual è il meccanismo psicologico che ti fa desiderare, con autentica passione, un livello più aristocratico rispetto a quello in cui socialmente e fisicamente vivi: che fa scattare in te la "nobilitazione" di quel mondo di sentimenti che a te pare volgare, che cova in te, l'antico, irremovibile, irrefutabile stilnovismo dei venti anni! È chiaro come la tua "operazione nobilitante" avvenga lungo il fatale piano inclinato del conformismo Anche se tu sai che non bisogna essere conformisti! Che studente moderno saresti, se non sapessi questo. Ma lo sai a parole. Il tuo anticonformismo è, direi, non nelle idee e nelle espressioni della tua lettera - che sono tutte conformiste, alcune fino a un'involontaria ipocrisia - ma nel "tono", in quel tanto di irrazionale che ti spinge a volere, disperatamente a volere quella "nobilitazione" Sei un borghese: e, nel tuo particolare caso, dovresti sentire, in questa parola, una accusa. Perché ciò che ti contraddice nella tua operazione nobilitante, nel tuo ingenuo idealismo erotico di ventenne, è proprio e solo la borghesia. Che è avida, meschina, ipocrita, egoista, e, essa sì!, volgare. Non dico che anche i comunisti non possano essere volgari, ma lo sono nella misura in cui sono influenzati dal mondo borghese: l'aspirazione al frigidaire è intimamente volgare, l'ottimismo televisivo è volgarissimo Dietro la tua lettera delicatissima, idealistica, sensibile, c' è un fondiglio terribile di volgarità: l'idea di essere un privilegiato. Tu, nella tua lettera, non fai altro che ribadire la tua superiorità - la minima superiorità economica, e la rilevante superiorità spirituale - su coloro che tu ritieni volgari, perché rozzi, semplici, violenti o maleducati. Tu hai voluto impartire una lezione su che cos' è l'amore per un'anima bella. L' anima bella è la tua: perciò io ti dico, mio ragazzo cristiano, che, senza volerlo, hai peccato di presunzione. Fino a che punto siamo responsabili di ciò che facciamo "senza volerlo"? Oh, molto. Tu, per esempio, al tuo atto di presunzione involontaria sei giunto attraverso un atto di cui sei invece pienamente responsabile: la mancanza di informazione. Gli apprezzamenti letterari da cui parti, sono completamente privi di fondamento: il tuo giudizio sul modo in cui è trattato il problema sessuale negli scrittori moderni (tra cui mi accludi) è tutto orecchiato, basato sul giudizio, interessato e ipocrita, degli altri. Tu non hai letto i testi di cui parli, o li hai letti solo in parte, o li hai letti male, cioè non con la tua testa. Di questo ti senti responsabile? Mettiti una mano sul cuore e risponditi. (Ho risposto più alla sostanza della tua lettera - alla lettera che forse tu non sai di avere scritto - che ai problemi particolari che mi poni. Ma, rispondendo a questi, dovrei dare delle risposte ovvie: per esempio: certo che l'amore è una cosa e l'eros un' altra, certo che la "realtà va poggiata su un piano morale" ecc. ecc.! Ma perché vuoi farmi dire delle banalità? Riscrivimi fra un anno, quando avrai più letto e più pensato, e, magari, più fatto all' amore).

·        Primo Levi.

Davide Ferrario per “La Lettura - Corriere della Sera” il 23 novembre 2021. Definire Marco Belpoliti «curatore delle opere di Primo Levi» è riduttivo. Certo, il suo lavoro filologico è inappuntabile e in continua evoluzione, basta consultarne la bibliografia (è del 2016-2017 l'ultima edizione delle Opere complete di Levi per Einaudi). Ma nel corso degli anni Belpoliti, egli stesso scrittore e intellettuale di prima fila, ha sviluppato nei confronti dell'autore di Se questo è un uomo un confronto continuo e progressivo, una sorta di «corpo a corpo» intellettuale e morale che ha prodotto libri estremamente personali, come La prova (Einaudi, 2007) o Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015); e perfino un film, La strada di Levi (2005), diretto dallo scrivente, di cui gli sarò sempre grato per la straordinaria esperienza che fu. Per Belpoliti, Levi non è solo un corpus da studiare in modo accademico, ma rappresenta la continua messa a fuoco di un autore-chiave della modernità, dato che non si può appiattire la sua figura a quella di scrittore-testimone, per quanto l'esperienza del Lager torni come un avatar nei suoi scritti e pensieri. Il Lager, come ebbe lui stesso a specificare, fu per Levi, chimico di mestiere, un «laboratorio» per capire certi meccanismi profondi della natura umana in bilico tra bene e male assoluti, quelli che innervano la «zona grigia» di cui parla in I sommersi e i salvati. Insomma, Primo Levi è un autore-mondo da leggere, rileggere, attraversare e di cui fare tesoro: ed è quello che fa Belpoliti. Ecco così questo Photo Levi (Acquario Editore), un volumetto costituito da una galleria di ritratti commentati, come quadri a un museo. Sono poco meno di una trentina di scatti, che vanno dalla fototessera della carta di identità del 1937 a uno degli ultimi ritratti dello scrittore, del febbraio 1987, due mesi prima del suo suicidio. A ciascuna di queste fotografie l'autore dedica una sorta di scheda. Ci sono, come detto, un paio di «santini» da documento; poi, ritratti di fotografi professionisti; infine, istantanee colte in occasioni pubbliche di natura difforme: può essere la premiazione dello Strega o una semplice passeggiata in montagna. La successione delle immagini racconta molto bene, sottolinea Belpoliti, la progressiva costruzione dell'«icona-Levi». È nel 1977, con la decisione di farsi crescere un pizzetto da alpino, che il volto dello scrittore, ormai prossimo ai sessanta, comincia ad assumere i connotati del maestro, del «vecchio saggio», che lo caratterizzeranno negli anni di maggiore popolarità, nonché dopo la morte. Un aspetto diverso da quello giovanile e da quello degli anni Cinquanta e Sessanta, dove un certo look, sobrio al limite dell'impiegatizio, lo confonde tra la folla dei più rutilanti colleghi. Anche il modo di tenere l'immancabile sigaretta manca del tipico «maledettismo» da scrittore. Levi resta fedele a sé stesso, è un uomo semplice, più a suo agio in mezzo ai giovani scamiciati in un paesello delle Langhe che non al Ninfeo di Villa Giulia dove si celebra il rito dello Strega (Levi vince nel 1979 con La chiave a stella). Nonostante l'iconicità, la cosa più sorprendente è il modo in cui il volto di Levi rifiuta di farsi consumare. Un pericolo concreto, soprattutto in quest'epoca, in cui l'immagine dell'artista talvolta si mangia l'opera. Levi resta inossidabile anche nel confronto con un contemporaneo superfotografato come Pier Paolo Pasolini. Pasolini operò un'esibizione estremamente consapevole di sé, del suo corpo, della sua immagine: in qualche modo produsse il proprio ritratto pubblico nei termini, spesso scandalosi, che desiderava. Niente di simile per un uomo dal carattere opposto come Levi. Eppure Belpoliti documenta come lo scrittore torinese non fosse affatto ritroso davanti alla macchina fotografica, anzi. Apriva volentieri lo studio a chi chiedeva di ritrarlo ed era collaborativo rispetto alle richieste del fotografo: pare non avesse remore ad offrirsi come «modello». Ma questa disponibilità non si riflette nel risultato. Il più delle volte, il soggetto - tanto facilmente accessibile - risulta enigmatico, una sfinge. Nessuno di questi ritratti sembra davvero scalfire il mistero dell'interiorità di Levi. Ce ne dà al massimo qualche indizio, e il libro funziona come un mosaico di piccole tessere che, tutte insieme, se non un senso, ci regalano almeno un sentimento, una vibrazione di fondo. Qui, chiedendo venia per il personalismo, ricordo la mia esperienza nel lavorare al montaggio di La strada di Levi, perché sperimentai su di me qualcosa di simile. Esaminai decine e decine di ore di interviste filmate e alla fine decisi di non usarne nemmeno una. Nel film anche le immagini mute di Levi sono ridotte al minimo. Il fatto è che ascoltando quei fiumi di parole (spesso importanti, perché gli intervistatori andavano da Levi con domande sui massimi sistemi) l'impressione che ne ricavavo è che proprio laddove Levi offriva la lucidità del suo pensiero, contemporaneamente si ritraesse in una personale «zona grigia» in cui quella lucidità gli offriva poco conforto. Poteva spiegare agli altri in modo impareggiabile la natura del male ma l'impressione era che, finita l'intervista e spente le luci, quella consapevolezza rimanesse nella sua solitudine non come consolazione, ma come condanna. C'è forse uno scarto del genere all'origine del suo suicidio? Sono supposizioni. Levi stesso scrisse, a proposito del suicidio di Jean Améry, che solo i diretti interessati conoscono la ragione profonda del loro gesto. Nelle fotografie di Photo Levi ci sono molte immagini che è facile leggere come anticipatorie di quell'esito. Ma ce ne sono altrettante di un uomo sorridente e allegro, capace di godere di piccole gioie quotidiane. Alla fine, Primo Levi resta inafferrabile come un centauro, la fantastica creatura che lui stesso diceva di essere.

·        Raffaello.

L’effetto Gioconda su Raffaello. Due capolavori dopo averla vista. Con Leonardo si erano conosciuti a Urbino, ma la visita a Firenze gli cambiò tutto. Vittorio Sgarbi su Il Quotidiano del Sud il 5 dicembre 2021. A FIRENZE Raffaello incontra Leonardo. Si erano conosciuti a Urbino, dunque Raffaello gli fa visita a Firenze, dove Leonardo, con la lentezza che gli era propria e che abbiamo raccontato in Leonardo. Il genio dell’imperfezione, stava lavorando alla Gioconda, un’opera straordinaria, che tuttavia lo ha impegnato per un tempo fuori misura, cinque anni. Leonardo era un pigro, non amava lavorare, anzi. Dobbiamo immaginare Raffaello che entra nella stanza in cui Leonardo ritraeva la moglie di Giocondo, piena di musici e saltimbanchi e della sua corte di amici e allievi, che il Maestro utilizzava affinché la donna non si incupisse per le lunghe ore di posa e mantenesse il sorriso. Raffaello vede La Gioconda, e gli appare quello che La Gioconda è. La Gioconda non è un ritratto: è l’essenza assoluta della persona, è una persona che vive. È questa la sua grandezza. D’altra parte, se non fosse così, perché tutti la conoscono? Perché lei è entrata dentro di noi, lei è di tutti noi, perché è ognuno di noi. Nessuno ha mai visto La Gioconda prima nell’originale e poi riprodotta. Ne vediamo la fotografia dal dentista, sulle scatole dei cioccolatini, a scuola, poi, verso i quindici, vent’anni, andiamo al Museo del Louvre, a Parigi, e cerchiamo di vederla dal vero. C’è davanti un gruppo di persone e non vediamo niente, ma la riconosciamo dalle foto che abbiamo visto. Al Louvre vediamo la riproduzione delle riproduzioni già conosciute. La Gioconda è un eterno femminino, non c’è niente di misterioso, perché lei vi guarda con quella espressione piena di consapevolezza della propria superiorità. Alle sue spalle ci sono tutti gli elementi della natura: l’aria, l’acqua, la terra, il fuoco e lei emerge da essi come la perfezione delle perfezioni. Leonardo è riuscito nel miracolo di dare vita a una persona nel dipinto, che sta davanti a noi nella sua vita. Raffaello la guarda, e ne rimane scioccato. E allora, nello stesso periodo, tra il 1506 e il 1507, dipinge i suoi due primi straordinari ritratti, molto più compiuti di quelli un po’ rigidi di Elisabetta Gonzaga e Guidobaldo da Montefeltro, su cui permangono dubbi circa l’attribuzione: la Dama con liocorno della Galleria Borghese e La muta. La Dama con liocorno, per lungo tempo è stata considerata santa Caterina, poi Roberto Longhi notò delle ripitture, commissionò una radiografia e apparve il liocorno. Quindi nelle fotografie degli anni venti è catalogato come il ritratto di una santa, mentre in realtà raffigura una donna. Nel quadro degli anni venti un’ampia veste copre le spalle della santa, il volto è leggermente ridipinto, come avesse un po’ di trucco, e c’è la ruota, emblema di santa Caterina. Longhi si accorge che la ruota è stata inserita dopo, e anche la veste, fa smontare il quadro ed emerge la Dama con liocorno. La critica è stata capace di vedere quello che Raffaello era rispetto a quello che era diventato. Da notare la bella invenzione delle colonne che aprono verso il paesaggio, ma la composizione si genera, per un meccanismo di elaborazione dall’interno, dalla Gioconda, che ha questa stessa posizione, si muove lentamente, diventando una persona reale. La Gioconda è un’idea, è comunque viva, e Raffaello ne deriva un ritratto, come da un archetipo. Analogo procedimento lo riscontriamo anche nel doppio ritratto dei signori che chiesero a Michelangelo il Tondo Doni. Sono i coniugi Doni, lui bellissimo, in una posa solenne, lei, dal viso un po’ bolso, però piena di verità. Siamo arrivati al capolavoro della prima maturità di Raffaello. Sono persone vere, e anche lei ha dentro di sé La Gioconda, che emerge lentamente. Lo schema è il medesimo, solo che Raffaello l’ha reso più parlante, più realistico. Ma in tutto e per tutto, a partire dalle mani, il ritratto viene da Leonardo, e, rispetto a Leonardo, è migliorato anche il paesaggio, è molto più fine, l’aria è più pura, limpida, rispetto a quella un po’ mefitica della Gioconda. Del 1507 è un’ulteriore invenzione di Raffaello: La muta – che non potrebbe essere più silente – ha la stessa posizione delle mani della Gioconda, mentre il volto, la geometria, la misura restituiscono una persona forte, viva. E oggi questa è l’unica opera di Raffaello a Urbino, perché Mussolini nel 1927 la fece trasferire qui dagli Uffizi.

·        Renzo De Felice.

Renzo De Felice, il coraggio di uno storico. Simone Savoia il 25 Maggio 2021 su Il Giornale. 25 anni dopo la morte la “terza via” oltre retoriche e revisionismi. 25 maggio 1996. Un quarto di secolo fa. Nella sua casa di Monteverde, Roma, moriva Renzo De Felice, 67 anni (era nato a Rieti l’8 aprile 1929). Se ne andava uno dei più importanti storici italiani di sempre, nel cui nome si erano combattute aspre battaglie ideologico-culturali. Una passione per la storia istintiva, nata e cresciuta anche fuori dal liceo Mameli, dove il giovane studente originario di Rieti non aveva certo brillato per i risultati conseguiti. Dopo la maturità classica conseguita da privatista, il padre costrinse il figlio a iscriversi a giurisprudenza. Per un funzionario delle dogane reduce della Grande Guerra (rimasto tra l’altro invalido a vita a causa dei gas utilizzati sul fronte) sarebbe stata certamente una soddisfazione avere l’unico figlio avvocato o magistrato. De Felice lo accontentò, ma dopo un anno cambiò facoltà e iniziò a frequentare filosofia, nonostante i suoi desideri lo spingessero verso lettere. Il grande storico ricordava così quel periodo della sua vita: “scelsi filosofia sia per evitare il terribile esame scritto di latino con Paratore, sia per la convinzione molto diffusa tra quelli come me che si consideravano marxisti che una preparazione filosofica fosse premessa indispensabile al genere di studi che mi accingevo a intraprendere”. Ettore Paratore (1907-2000) è stato uno dei più grandi latinisti italiani ed europei; l’esame di letteratura latina con i suoi manuali e con lui stesso seduto dall’altra parte della cattedra è stato uno scoglio durissimo, una vera montagna da scalare per generazioni di studenti della Sapienza di Roma. Alla fine degli anni Quaranta De Felice iniziò la militanza nel Partito comunista italiano da trotskista, cioè propugnatore dell’espansione a livello mondiale della rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia. Negli anni Cinquanta De Felice, che nel frattempo aveva iniziato a frequentare a tempo pieno lezioni e seminari di storia, entrò in contatto con gli storici più importanti dell’epoca. Il primo fu Federico Chabod (1901-1960) che lo guidò nella tesi di laurea su ‘Correnti di pensiero politico nella prima repubblica romana’, discussa dal De Felice il 16 novembre 1954. Lo stesso Chabod spinse i primi saggi e le prime recensioni del giovane allievo. Poi nel 1955 Rosario Romeo (1924-1987), faro della storiografia crociana, all’epoca segretario dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli. Ennesimo incontro assolutamente fondamentale per il percorso di De Felice fu con un’altra autorità della cultura italiana: lo studioso Delio Cantimori (1904-1966), punta di diamante della storiografia marxista. Rapporti che avrebbero superato la dialettica maestro-allievo, come ricordato in seguito da De Felice stesso: “si trasformavano in un’amicizia personale. In un’amicizia che spesso finiva per vanificare le differenze di età e i termini classici del rapporto maestro-allievo e per diventare un rapporto umano, intimo”. Infatti l’allievo seguì l’amico e maestro anche nel 1956, quando il segretario del Pcus Chruščëv denunciò dal palco del XX congresso del partito i crimini staliniani. Cantimori e De Felice furono tra gli intellettuali che abbandonarono il Pci. De Felice, dopo un breve passaggio nel Partito socialista, abbandonò la militanza partitica. Nel 1960 lo storico reatino giunse agli studi sul fascismo da quelli sulle comunità ebraiche in Italia, già affrontati in passato e rinverditi da una “Storia degli ebrei italiani durante il fascismo” del 1961. Un periodo turbolento per le vicende repubblicane: il 30 giugno 1960 Genova, medaglia d’oro della Resistenza, fu scossa da violenti scontri di piazza esplosi in occasione dei lavori in città del 6° congresso nazionale del Movimento Sociale, in quel momento determinante con i suoi parlamentari per la tenuta del governo guidato dal democristiano Fernando Tambroni. Le piazze di diverse città italiane si sollevarono, il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia la repressione violenta della polizia provocò 5 morti tra i manifestanti. È come se in quel drammatico frangente lo sguardo dello storico e quello del cittadino fossero diventati un tutt’uno. E fossero venute a piena e completa maturazione alcune peculiarità dello storico reatino: la ricerca minuziosa, il gusto intellettuale per i temi ardui e scomodi, il fiuto nella lettura delle pieghe dei fatti e delle fonti, la “diffidenza critica” che il maestro Cantimori aveva visto in lui. In quella temperie nasce il percorso che consacrerà De Felice tra gli immortali della cultura italiana: gli studi sul fascismo e sulla vita di Benito Mussolini. Fu lo stesso storico a chiarire i suoi intenti nell’avvicinarsi al ventennio fascista: fino ad allora esisteva sul tema una storiografia ufficiale incapace di cogliere quanto “la realtà di questo fenomeno storico sia veramente prismatica e vada studiata e giudicata in tutte le sue componenti e non intesa come qualcosa di unitario»; per questo, auspicava l’avvio di una nuova storiografia capace di porre «la valutazione storica del fascismo su basi nuove e più rigorose” (“Il nuovo osservatore”, novembre 1960). La biografia di Mussolini, iniziata nel 1965, è un’opera monumentale: sia per la mole, 6284 pagine, sia perché il personaggio diventa un modo per raccontare una realtà storica complessa, quella dell’Italia a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo. Basta scorrere i titoli degli 8 volumi che compongono la gigantesca biografia: Mussolini è, di volta in volta, il rivoluzionario, il fascista, il duce e l’alleato. De Felice tenne la barra dritta e ferma su una terza via tra dogmatismi delle sinistre (la polemica sulla ‘retorica dell’antifascismo’ è del 1987) e gli interessati revisionismi funzionali a una destra all’epoca in cerca di legittimazione; testimonianza di un’autorità culturale e morale davvero fuori da ogni schema precostituito. Ma quest’indipendenza gli costò contestazioni anche violente praticamente fino alla fine dei suoi giorni. L’ultima, un lancio di molotov contro la sua abitazione all’alba del 15 febbraio 1996, quando De Felice era già malato; infatti in quel momento non si trovava in casa perché si era recato in ospedale per alcuni accertamenti clinici. Non si contano poi gli attacchi mediatici e le contestazioni all’università subìti dallo storico. A 25 anni dalla morte restano tanti discepoli di De Felice entrati nel gotha degli storici italiani: Giovanni Sabbatucci, Giuseppe Parlato, Emilio Gentile, Paolo Mieli, Francesco Perfetti, Mauro Canali. Tutti grandi studiosi e grandi divulgatori, due piani mai scissi tra loro nell’opera e nella vita di De Felice. Indro Montanelli ne scrisse sul Giornale a modo suo, cogliendo la sostanza del percorso e della figura di Renzo De Felice nella risposta a un lettore negli anni Novanta: “Con un coraggio che oggi appare facile, ma che venti o dieci anni or sono era eroico, De Felice ha dato e negato a Mussolini e al fascismo tutto ciò che riteneva fosse giusto concedere e togliere. Così facendo, non demonizzò Mussolini in tempi nei quali per i carrieristi era d’obbligo farlo, e le solite Vestali dell’antifascismo si stracciarono le vesti pretendendo che gli fosse tolta, per reato di imparzialità (secondo loro di filofascismo), la cattedra universitaria. L’Italia, e anche il mondo culturale italiano si nutrono di conformismo, di insinuazioni, di scomuniche ideologiche. Impavido, De Felice è passato attraverso questi frangenti, non curandosene, in nome della Storia con la S maiuscola”. L’intellettuale liberale Piero Gobetti (1901-1926) nella sua genialità aveva colto la natura del fascismo quale autobiografia della nazione sulle colonne della rivista “La Rivoluzione liberale” il 23 novembre 1922, neanche un mese dopo la marcia su Roma del 28 ottobre. Si potrebbe azzardare che Renzo De Felice abbia poi scritto quest’autobiografia con i suoi studi sul fascismo e su Mussolini, costringendo anche gli italiani a fare i conti con le proprie storie e con la propria Storia.

Simone Savoia. Napoletano, ma anche apollosano caudino, ma anche un pochettino piemontese. Annata 1976. Quotidiani e tv locali a Napoli, poi a Milano. Dal 2008 collaboratore di Videonews Mediaset, con Mattino Cinque e Dritto&Rovescio. Uditore enologico con i degustatori dell'Associazione Italiana Sommelier, munito di videocamera e microfono per vigneti e cantine d'Italia. Tifoso del Napoli e della Polisportiva Apollosa 1981. In emotiva partecipazione anche per il Benevento Calcio. Troppo ottimista per essere pessimista. Troppo pessimista per ess…

·        Richard Wagner.

Wagner e l'arte sublime che salva la religione. Il grande compositore considerava il "Parsifal" un "dramma mistico". E contro il nichilismo. Marino Freschi - Ven, 02/04/2021 - su Il Giornale. «Si potrebbe dire che, là dove la religione diviene artificiosa, sia riservato all'arte di salvarne il nucleo sostanziale, penetrandone i simboli mitici - che questa pretende che vengano creduti come veri nel senso letterale del termine - secondo i loro valori simbolici, onde riconoscere attraverso la loro ideale rappresentazione la reale verità che in essi si nasconde». Così Richard Wagner (Lipsia, 1813 - Venezia, 1883) prendeva posizione in un acceso e vasto dibattito culturale nella Germania del secondo Ottocento che conta ben quaranta interventi, raccolti in un libro che mancava da tempo dalle nostre librerie, e ora viene finalmente ripubblicato: Richard Wagner, Religione e Arte (Iduna, pagg. 172, euro 18). Si percepisce l'intensità del problema, ma anche la provvisorietà dello scritto, che è l'ultimo di una significativa attività saggistica del grande musicista tedesco. La pubblicazione dei primi capitoli risale al 1880. Il 13 febbraio 1883 a Palazzo Vendramin-Calergi, a Venezia, Wagner era impegnato a una integrazione al testo dal titolo: Del femminino nell'umano. Sul foglio scrive «Liebe-Tragik», «amore-tragedia». Poi sopraggiunge imprevista la morte. Così muore un artista, concependo un'endiadi che ancora ci turba e commuove. Il saggio wagneriano fa parte del corpus dell'attività tarda, quella culminata nel Parsifal (l'ultimo dramma musicale del compositore, andato in scena il 26 luglio 1882 al Festival di Bayreuth diretto da Hermann Levi, ma rappresentato per la prima volta nei teatri europei solo a partire dal 1914). «Ein Bühnenweihfestspiel», «Una Festa Scenica Sacra» o più comunemente «dramma mistico», che è il principale impegno wagneriano per collegare l'arte con la religione, giungendo a una sacralizzazione dell'opera. Si sa che in Germania alla fine della rappresentazione il pubblico esce in silenzio, senza applaudire. Nella nostra epoca in cui si applaude continuamente anche in chiesa - persino a un funerale... - la sobria compostezza wagneriana fa riflettere che un'alternativa è ancora possibile. Il musicista percepiva profondamente la sacralità del Parsifal: «Io debbo cercargli una scena - così scrive al Ludwig II di Baviera, nel 1880 - a cui consacrarlo; e questa può essere solo il mio Bühnenfestspielhaus a Bayreuth. Soltanto ed esclusivamente là dovrà rappresentarsi il Parsifal in ogni tempo futuro». E la sua volontà fu rispettata a lungo (per una ventina d'anni). Dietro il testo wagneriano - come illustra nella intrigante e ricca prefazione Giovani Sessa, che concorda con la nota del traduttore Guido Cogni - si percepisce l'influsso del «maestro», cioè di Arthur Schopenhauer (1788 - 1860), mentre si comprende anche la disperata delusione di Friedrich Nietzsche che parla di Wagner, per anni venerato come l'artista dei tempi nuovi, come «accasciato ai piedi della croce». Probabilmente - e il lettore del saggio se ne avvede - Wagner lavorava al nodo centrale della modernità: nell'epoca oscura del nichilismo compiuto, è possibile intuire una via di salvezza senza scadere nel kitsch della New Age? L'indicazione è il ritorno a un'esperienza laterale del cristianesimo: a quella del Graal, il grande mistero cristico che animò l'intero Medio Evo cristiano-germanico, con i miti del ciclo arturiano. Il messaggio recuperato da Wagner è quello di un salvatore che elude la consunzione della critica materialistica avanzando verso un sentiero appena accennato che in quegli anni venne riproposto dalla Teosofia e soprattutto da Rudolf Steiner (in Italia da Julius Evola e soprattutto da Massimo Scaligero). Il saggio wagneriano è il principale contributo alla sua teoria della Rigenerazione, che presenta aspetti sorprendentemente green («il prato verde» di Monsalvat), con la pratica del vegetarianesimo e della «compassione» - buddhista - verso gli animali. Ma il vero nucleo dell'opera è adombrato dalla salvezza di Amfortas, Signore del Graal, toccato dalla Sacra Lancia (vale a dire quella dell'Arcangelo Michele e di Longino). La scena culmina con la possente esclamazione finale: «Miracolo d'altissima salute!/ Redenzione al Redentore». Una speranza che è un mistero e un mandato: ecco l'estrema intuizione wagneriana: «Liebe-Tragik», «amore-tragedia».

·        Rino Barillari.

Roberto Faben per "la Verità" il 12 giugno 2021. Dallo storytelling di Rino Barillari, all' anagrafe Saverio, classe 1945, emerge che quando, malgrado il parere sfavorevole del padre, all' età di 14 anni partì da Limbadi, in Calabria, diretto a Roma, non aveva la minima idea di cosa avrebbe fatto per sbarcare il lunario. Alla Fontana di Trevi, fu tuttavia subito attratto da quegli «scattini» che tentavano di guadagnarsi la giornata ritraendo turisti. Accaparratosi il primo strumento del mestiere, una Comet Bencini, si avvide che il centro, in particolare via Veneto e paraggi, pullulava di attori, registi e star oggetto del desiderio di fotoreporter a caccia di scoop. Si cimentò, appostandosi, sbucando all' improvviso, dileguandosi o rincorrendo. Fu a sua volta inseguito, insultato, menato. Il bollettino sanitario rendiconta circa 165 ricoveri al pronto soccorso e 11 costole fratturate. Le fotocamere fracassate si attestano a 76 unità. Apprese anche l'esercizio della difesa dalle aggressioni, talvolta con tecniche di karate, talaltra adendo alle vie legali. Quando, nel 1960, Federico Fellini girò La dolce vita, il suo destino si delineò. Ancora minorenne, nel 1963, si guadagnò l'attenzione delle agenzie di stampa, attraverso uno scatto di rapina all' attore irlandese Peter O' Toole, colto in compagnia di Barbara Steele, cui ebbe seguito una memorabile scazzottata che gli procurò una ferita all' orecchio. A quel punto conquistò di diritto un nomignolo distintivo, condiviso con altri colleghi dall' obiettivo indiscreto, che ancor oggi, dopo 52 anni di onorata carriera, persiste nel rivendicare orgogliosamente. Quello di paparazzo. Era il cognome, divenuto presto sostantivo, di un personaggio dedito a questa professione, interpretato, nel capolavoro felliniano, da Walter Santesso. Di questi individui spregiudicati, i paparazzi, divenne re, come sancito da ufficiale incoronazione avvenuta a Roma nel 1990. Ma oltre il folklore e le bolle di sapone della cronaca rosa Barillari, dopo essere stato ingaggiato dal Tempo e poi dal Messaggero, per il quale tuttora lavora, documentò, scatto dopo scatto, anche la contestazione studentesca del '68, la rivolta degli abitanti della borgata di San Basilio e gli scontri con la polizia in seguito allo sgombero di case occupate (1974), il sequestro e l' uccisione di Aldo Moro (1978), la strage di piazza Nicosia nella quale le Brigate rosse attaccarono la sede della Dc (1979), i drammi giovanili della droga, l'attentato di Mehmet Ali Aca a Giovanni Paolo II (1981) e via di seguito. Fino al grande breaking point, l'epidemia globale, a caccia di vip dietro le mascherine, o di scene di vita ordinaria nel deserto urbano ingenerato dal confinamento. Paolo Sorrentino, nel film La grande bellezza (2013), trovò una sintesi per la sua doppia vocazione e gli assegnò, nella parte di sé stesso, un cameo di otto secondi, allocandolo nel suo habitat naturale, via Veneto, mentre ritrae non solo stelle del jet set, ma anche il padre in lacrime della spogliarellista Ramona (Sabrina Ferilli), morta di un brutto male.

Lei ha fotografato Anita Ekberg a Trinità dei Monti, Alberto Sordi con la principessa Soraya, Brigitte Bardot con Gunter Sachs, Sophia Loren con Carlo Ponti, Ursula Andress con Fabio Testi, Marina Ripa di Meana, Valeria Marini, Claudia Schiffer, ma anche un ragazzo morto per un'overdose di eroina, riverso su un ciclomotore nel quartiere di Centocelle.

«Arrivai sul posto, scattai. Poi arrivarono altri, giunsero troupe, ma il corpo del ragazzo morto era intanto caduto per terra. Circolava eroina tagliata male, pe' risparmia' Fu una foto da copertina. Questo è un lavoro da fiji de mignotte, cinico. Il fatto è che ce' stanno persone morte. La moglie di Riina, quando lo fotografai nell'aula bunker, mi tirò dietro un secchio di piscio. Le cose facili mi mettono in imbarazzo». 

Sono le 14 e 20. Qual è l'ultima foto che ha fatto?

«Qui a Ferentino, a casa di mia moglie, oggi ho fatto rose favolose, e un alberello di pere, i fiori, è cresciuto un frutto, rifarò la foto fra tre mesi. Domani però si torna a Roma, a cercare politici. Stanotte apriranno i ristoranti. Beccherò qualcuno che torna, dopo un anno e quattro mesi, a dirsi "I love you" nello stesso posto della prima volta. L' assassino torna sempre nel luogo del delitto, perché se ha dimenticato una cicca resta inculato». 

È mai stato lontano dalla macchina fotografica?

«Impossibile. Porto con me la macchina giorno e notte. Ci vuole allenamento. Se il pugile non si allena finisce ko. Non è che vai mettiamo al Senato e fai una foto ma poi devi rientrare perché tua moglie ti rompe i coglioni e ti dice "devo butta' la pasta". In questo caso è meglio fare l'impiegato, perché rende di più. La notizia non deve sfuggirti. Certe foto non le troverai mai più. Se fotografi una persona che deve piange' e invece la fai ride' allora cambia mestiere. Ci vuole tempo. Anche di notte, tornando dal luogo della notizia, ha un senso far foto, del traffico o, che ne so, della monnezza per strada, dei gabbiani che cercano da mangiare». 

Ha conservato i negativi dei suoi reportage?

«Solo negli anni Ottanta mi sono accorto che sarebbe stato importante tenere un archivio. Il 65% delle pellicole è andato perduto. Durante l'epidemia sono uscito a far foto ma ho fatto pure ordine, scannerizzato, selezionato. Anche alcune foto sfocate, controluce o mosse possono servire. E una foto sbagliata può diventare un successo, persino una moda. Mia madre mi ricuciva i pantaloni, oggi girano con i jeans strappati».

Ingrandendo le foto fatte in un parco, il fotoreporter Thomas, in Blow up di Michelangelo Antonioni scopriva il mistero di un delitto. A proposito, ha ritratto anche Antonioni, con Monica Vitti.

«Sì, avevano una storia. Ricordo che quando li incontrai poco dopo insieme a passeggio, mi riconobbero e si distanziarono l'uno dall' altra». 

Nel 1965 aveva 20 anni e immortalò Pasolini e Totò sul set di Uccellacci e uccellini.

«Erano personaggi molto diversi da quelli attuali, t' invitavano a pija' un caffè, ti davano una possibilità. Quando tornai con quelle foto mi dissero: "Ma come cazzo hai fatto?".

Poi Hollywood ha rovinato quel mondo».

Una volta fece infuriare anche Marlon Brando.

«Eravamo in tre. C' era una festa all' isola Tiberina, con Liz Taylor. Lui esce con una bambina in braccio che pensavamo fosse figlia di Nancy Kwan. Con l' abbaglio dei flash la bimba cadde e uscì del sangue. Brando brandì una bottiglia. Scappai con l' autobus 96». 

Ma le risarcivano i danni?

«Tu sporgevi denuncia e venivi rimborsato. A tre anni dal mio trasferimento, feci venire a Roma mio padre. Ero ancora minorenne, doveva recarsi in questura per garantire. Quando Peter O' Toole, per avermi spaccato l' orecchio, pagò un milione, mio padre disse: "Puoi fare questo lavoro". Mi diede 50.000 lire e me ne andai in vacanza a Taormina.

Litigai con i Kennedy, lo chiamai, non capivamo una parola d' inglese. Una volta, a Porta Portese, il padre di una ragazza mi puntò la pistola alla nuca. Poi chiese scusa. Chi ha più calma vince. Se subisci un' aggressione e ti fanno male, devi anna' all' ospedale e farti dare il referto medico. Io non vengo dentro casa tua e se mi meni paghi». 

I rullini riusciva a salvarli?

«Un sacco de volte. Quelli di cronaca nera, a volte, sono stati sequestrati. Ma devi fa' de tutto per dargli quelli non buoni».

Che ricordo ha di Aldo Moro?

«Ho perso un amico. Una persona favolosa. Lo andavo a fotografare per Il Giorno. Lo incontravo spesso a piazza Colonna e ci salutavamo calorosamente». 

E di quei 55 giorni del sequestro?

«Seguivamo il questore Francesco Tagliente, de' notte, perquisizioni, casolari sfondati. 'Na guerra. Ma io sto raccontando metà della verità. Ciò che vedevo e raccontavo, oggi è letto all' incontrario». 

Dispone ancora di una rete di informatori?

«Il mondo è cambiato, tutti vonno soldi. Con il telefonino, pe' strada, ti bruciano i servizi, mettono le immagini su Facebook. L' unica cosa che rimane è fare foto con la testa e poi scappare».

E cosa ricorda di Fellini?

«Ah, un grande. Grazie a lui è nato il paparazzo. Senza di lui non sarei apprezzato. Ti sentivi importante a passeggiarci insieme. Voleva sape' tutto. Quanto tempo ci mette uno a morire dopo che gli hanno sparato, ad esempio. Mi chiedevo: è matto? E invece no, non era matto». 

Da molti anni clamori e glamour di via Veneto sono soltanto un ricordo. Perché la Dolce vita tramontò?

«Iniziò nel 1956-57 e finì con il '68-'69, quando tutto fu rovinato. Fino a quel momento, si stava bene. Ricordo che Il Messaggero pubblicava 16 pagine di annunci economici e che a Cinecittà si giravano 400 film l' anno. Poi iniziò il declino». 

Cosa le viene in mente della strage di piazza Nicosia?

«Ero nascosto dietro una fontana in via della Scrofa e salvai la vita a Elveno Pastorelli, il comandante dei vigili del fuoco, quello che diresse le operazioni a Vermicino nel caso di Alfredino Rampi». 

Hai mai pensato di fare il fotoreporter di guerra?

«Sì, andai nei Balcani. Si stava in albergo però, non in prima linea». 

Le è accaduto che s' invertissero i ruoli e fossero i Vip a rincorrere il suo obiettivo?

«Aivoglia! L' arma più efficace è il silenzio. Se non sei fotografato vai in agonia. Basta ignorarli un mese. A meno che non impazziscano o menino la fidanzata. C' è sempre l' articolo 21 della Costituzione».

L' ultimo scoop?

«L' altro giorno. In via Veneto, con il teleobiettivo. Ho beccato Gessica Notaro, la ragazza sfregiata con l' acido dall' ex fidanzato, mentre si baciava con il nuovo compagno. Un bacio durato 8 secondi». 

Qual è oggi la zona di Roma a maggior concentrazione di vip?

«Ora il triangolo caldo è piazza Navona, piazza Farnese e piazza dei Ricci. Da Pierluigi, in piazza dei Ricci, trovi il mondo, e anche da Alessandro Camponeschi in piazza Farnese». 

Paparazzo o fotoreporter?

«Preferisco paparazzo. Ma chiamatemi come volete, paparazzo, fotoreporter, giornalista, pizzicarolo. Ciò che è importante è solo la verità».

Da iltempo.it il 31 gennaio 2021. Il re dei Paparazzi, Rino Barillari, si racconta in una intervista a Giò di Sarno sulle colonne de L'Opinione. Il mitico fotografo della Dolce Vita è reduce da un duplice intervento dopo un incidente ma è sempre "sul pezzo". "Sto lavorando, guardo e sistemo l’archivio personale, mentre mi guardo intorno per vedere se adocchio qualche personaggio - dice Barillari - Quando tutta questa storia sarà finita il Paese avrà bisogno di uomini e donne pronte, in ogni settore. Bisogna essere allenati per ripartire alla grande". Barillari racconta i primi, duri anni a Roma, dove è arrivato a 14 anni da un paesino della Calabria. "Appena arrivato mi sono sistemato alla stazione Termini, sulle panchine esterne, perché per quanto fosse all’aperto c’era un po’ di sicurezza in più rispetto ad altre zone. Poi ho scoperto Villa Borghese, sempre sulle panchine ma almeno avevo il verde che mi faceva compagnia. Poi piano piano ho saputo di un alloggio in via del Governo Vecchio, andavo a dormire rispettando i turni: qualcuno usciva per andare a lavorare e io prendevo posto nel suo letto. Mi verrebbe da dire come molti extracomunitari, ma poi devo ammettere che loro stanno in ogni caso meglio di come stavamo noi allora". Tornando al lavoro che lo ha reso celebre, Barillari spiega la vita del fotografo ai tempi del coronavirus con i volti celati dalle mascherine. La paparazzata "ha sempre senso, anche se manca il meglio, manca il sorriso". E sulla pandemia: "La Dolce Vita non c’è più. Stiamo messi peggio della fine della guerra, perché in quel caso si sapeva che bisognava ricostruire, qui non sappiamo che fare: c’è paura. Ho perso un po’ di amici di Covid-19. C’è rimasto solo da pregare". Lo scoop inseguito ma mai realizzato? "Tanti! Ma uno su tutti: avrei voluto passare una nottata in giro con il Santo Padre, Papa Giovanni Paolo II. 'Fantastic'".

Pedro Armocida per il Giornale il 20 novembre 2020. Avremmo potuto iniziare così, dando i numeri: Rino Barillari, 75 anni, 400mila fotografie in archivio, 163 ricoveri al pronto soccorso, 11 costole fratturate, una coltellata e 76 apparecchi fotografici fracassati. Ma The King of Paparazzi - La vera storia, documentario di Giancarlo Scarchilli e Massimo Spano appena proposto da Sky Arte (sempre disponibile on demand), non vuole raccontare solo la rocambolesca vita di uno dei nostri più importanti fotografi d'assalto che Fellini stesso definì «The King of Paparazzi», bensì costruire anche una storia parallela di Roma (caput mundi, e quindi dell'Italia) che, dalla mitica Hollywood sul Tevere, passando per la Dolce vita, arriva fino ai giorni nostri anche con le testimonianze di personaggi come Giuseppe Tornatore, Walter Veltroni, Giuliano Montaldo, Carlo Verdone, Enrico Lucherini. La storia dunque di un italiano nato in Calabria, a Limbadi vicino Vibo Valentia, che con «150 lire in tasca, le scarpe bucate, la giacca rigirata di mio padre e il cappello di mio nonno» arriva a Roma esattamente come i migranti odierni: «I primi tempi si dormiva a Villa Borghese poi, per fortuna, conobbi un ragazzo che in via del Governo Vecchio affittava una stanza con due letti dove dormivamo, a turno, in sei».  Di giorno a Fontana di Trevi segue gli scattini ossia «i fotografi che facevano le foto ai turisti» e da lì «i fotografi d'assalto, quelli che hanno dato l'immagine del nostro paese che tutti ci invidiano». E il nostro impara così bene il mestiere che su di lui nasce la frase «Dio ti vede, Barillari pure». Tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, l'obiettivo di Rino Barillari fotografa il jet set che ha fatto sognare il mondo e che, nella Capitale, stretto nel quadrilatero tra via Veneto/Fontana di Trevi/via Condotti/Piazza di Spagna, si muove tra lusso, amori, scandali, glamour. Ecco le istantanee di meteore dalla carriera fulminea come Irina Demick, con la tigre al guinzaglio, seduta ai tavolini di via Veneto dove si stava divisi per bande: Rosati occupato da Flaiano e Gassman, Doney da Visconti, Patroni Griffi e Berger, a debita distanza Antonioni e Vitti. Mentre sul marciapiede potevi incontrare una star come Kirk Douglas o Walter Chiari con Ava Gardner, oppure ancora vedere Ursula Andress e Fabio Testi scappare via su una spider, proprio come Alberto Sordi in una delle rare foto con un'amica. Poteva pure capitare qualche incidente come quando Sylva Koscina, coinvolta in un tamponamento, sembrava mezza morta. «Corro da lei racconta Enrico Lucherini, il press agent delle dive la trovo immobile e le urlo: «Vuoi che chiamo l'ambulanza?». «Ma che sei idiota? Chiama i fotografi!», fu la sua risposta». Poi certo c'è tutta una serie di scatti in cui i divi ieri come oggi non stavano al gioco e s' inalberavano, per usare un eufemismo. Helmut Berger non fu certo felice di essere ritratto mentre faceva pipì per strada, come Mastroianni del resto, «ma dice il fotografo le sue foto non le pubblicai, per Marcello chiusi un occhio». Ecco la stessa Ava Gardner atterrarlo con un calcio ben piazzato proprio lì, Liz Taylor sorpresa con Onassis lanciargli lo champagne oppure Peter O' Toole, paparazzato con Barbara Steele, spaccargli in testa la macchina fotografica. Barillari si ritrovò con 4 punti all'orecchio e una fortuna in tasca: «Ero minorenne, alla fine l'attore dovette pagare un milione di lire a mio padre». Da lì perfezionò una tecnica micidiale: «Ero diventato un esperto nella provocazione. Quando alle tre di notte stai di fronte a un locale e, all'improvviso, esce un personaggio importante, non puoi fare solo una foto che non ti serve a molto. Allora gli vai sotto col flash, lui sbanda, si nasconde, magari è pure un po' alticcio, e quelle foto fanno il giro del mondo». Ma la Dolce vita e gli anni Sessanta sono al capolinea, soppiantati da quelli di piombo. Altre foto fanno il giro del mondo e Barillari è sempre lì a scattare, lavorando con Angelo Frignani, capocronista del quotidiano Il Tempo di Renato Angiolillo prima e di Gianni Letta poi. Sono gli anni Settanta con il rapimento Getty, il sequestro Moro nel 1978 e poi, all'improvviso, un anno dopo, sulle onde della radio della Polizia, l'annuncio in diretta: «Colpi armi da fuoco a piazza Nicosia». Lui, sempre all'ascolto, si precipita. C'è appena stato un inedito e poco ricordato attacco armato delle Br alla sede regionale della Democrazia cristiana. A terra rimangono due poliziotti con cui Barillari solo qualche ora prima aveva preso il caffè al bar. La vita non più dolce.

Marco Consoli per “il Venerdì di Repubblica” il 14 novembre 2020. Una volta beccai Marcello Mastroianni che ballava ingrifato con Zeudi Araya e gli scattai delle foto. Lui se ne accorse, mi fece chiamare e mi disse: "A Barillà, o tu o io". E io gli risposi: "Marcè, non ti preoccupare". Archiviai gli scatti: era sempre gentile con me e pubblicare quello scatto significava rinunciare alle oltre 50 sue foto che vendevo in un solo anno. Un'altra volta lo beccai che faceva pipì per strada, come era capitato anche a Helmut Berger. Le foto di Berger le pubblicai, per Marcello chiusi un occhio". Rino Barillari, 75 anni, racconta di uno dei pochi divi risparmiati dal suo impietoso obiettivo, in molti anni trascorsi tra Via Veneto e gli altri luoghi della Dolce Vita al motto di "Dio ti vede, Barillari pure". A ripercorrere la sua carriera è il documentario The King of Paparazzi, in onda il 15 novembre su Sky Arte e in streaming su Now Tv, che prende il titolo dall'appellativo che gli affibiò Federico Fellini. Arrivato a 14 anni a Roma dalla Calabria per cercare un lavoro, Barillari finì a fare foto ai turisti alla Fontana di Trevi. Dopo aver capito che la vera caccia grossa erano le star del cinema, imparò il mestiere dai colleghi più esperti come Tazio Secchiaroli, dividendo il marciapiede con Giacomo Alexis, che lo immortalò in una foto diventata il simbolo della Dolce Vita: "Beccai l'attrice inglese Sonia Romanoff, che si era sposata un vecchietto per restare in Italia, insieme a un altro uomo e lei mi spiaccicò in faccia un gelato. Al momento mi incazzai, ma la mia carriera decollò. E poi un gelato era sempre meglio di un calcio nelle palle".

Chi l'ha menata di brutto?

"Quello che mi ha fatto più male è stato Peter O'Toole: era ubriaco per strada insieme alla sua collega Barbara Steele. Mi diede un cazzotto: quattro punti di sutura all'orecchio. Ero ancora minorenne e mio padre gli fece causa. L'avvocato mi offrì un milione per ritirare la querela, mio padre si prese i soldi e mi diede solo mille lire, con cui però mi feci due settimane di vacanza a Taormina. Una volta finii in una rissa coi bodyguard di Frank Sinatra: era infuriato perché era uscita una mia foto col titolo "Frank lo sfregiato". Mi salvò la pelle Domenico Modugno".

Ha collezionato tante denunce?

"Ci hanno provato in parecchi, ma mi ha sempre salvato l'articolo 21 della Costituzione sulla libertà di stampa. Con la legge sulla privacy bisogna però stare attenti: ad esempio non si possono più fotografare persone all'interno di una casa. Ma quelli che fotografavo io volevano farsi beccare, sennò non andavano in Via Veneto...".

Gli scandali erano organizzati?

"Un buon trenta per cento erano "suggeriti" dai press agent, che magari volevano lanciare un film con l'attore che baciava la protagonista".

Le qualità di un paparazzo?

"Essere paraculo: prima scatti e poi chiedi il permesso. E non diventare mai troppo amico dei divi, perché sennò devi cambiare mestiere, non farai mai uno scoop".

Quindi lei non ha amici tra le star?

"In realtà ne ho tanti, Alessandro Gassmann, Pierfrancesco Favino, Valeria Golino. Ma se becco Valeria che si bacia con Riccardo Scamarcio, che faccio non scatto? Al diavolo l'amicizia".

Servono doti fisiche particolari per fare il suo mestiere?

"Buone gambe. Devi saper scappare quando ce n'è bisogno".

La donna più bella fotografata?

"Ava Gardner. Ma anche Liz Taylor, Ann-Margret e Sophia Loren. Le più simpatiche invece erano Claudia Cardinale, Virna Lisi e Silvana Pampanini, che mi voleva bene e mi ricomprò le macchine quando i gorilla di Barbra Streisand me le fracassarono".

Qual era la giornata tipo del paparazzo in quegli anni?

"Spesso dormivo in ufficio, dopo la notte fuori. Mi alzavo verso le 9, leggevo i giornali locali, e facevo il giro tra Via Margutta, Via Sistina, Piazza del Popolo. Poi mi appostavo davanti agli hotel, perché all'epoca non c'era il telefonino per ricevere le soffiate".

Inseguimenti in moto?

"Tanti. All'epoca se non eri inseguito dai paparazzi non eri nessuno".

Cosa ha pensato quando, anni dopo, diedero la colpa ai suoi colleghi per la morte di Lady Diana?

"Siccome arrivarono sul luogo dell'incidente d'auto fu facile accusarli, anche perché la foto del bacio con Dodi Al Fayed era stata la più pagata al mondo. A me il giorno dopo hanno scritto "assassino" sotto casa. È chiaro che l'hanno voluta ammazzare e noi paparazzi non c'entravamo nulla".

Fin dove si è spinto per uno scoop?

"Ne ho fatte tante. Oggi con la tecnologia è facile, compri un paio di occhiali con fotocamera e scatti dove vuoi. All'epoca avevo un buco nella cravatta e una panciera per nascondere la macchina e non farmi vedere. Bisognava ingegnarsi, perché non potevi tornare a casa senza foto. Quando i giornali scrissero che il regista Franco Indovina voleva adottare un bimbo per la sua compagna Soraya che non poteva avere figli, scattai una foto di mio figlio Roberto, da lontano e un po' sfocata e la diedi a un settimanale, che scrisse "ecco il figlio della principessa".

Chi poteva smentire? Mia suocera riconobbe il nipotino e se la prese a morte: le dissi che al giornale avevano pubblicato quella foto per sbaglio".

Non si è pentito nemmeno quando hanno scritto che lo chef Anthony Bourdain si sarebbe suicidato dopo avere visto le sue foto di Asia Argento avvinghiata a Hugo Clément?

"Quando l'ho saputo ho pianto, una foto non può valere la vita di una persona. Poi per fortuna ho avuto conferma che il motivo non era la pubblicazione di quegli scatti e mi sono rasserenato, ma da quella volta sono più attento perché la vita è sacra".

Molti non sanno che finita la Dolce Vita lei ha fotografato i morti per droga e le vittime del terrorismo durante gli anni di piombo.

"La Dolce Vita è finita col '68. Poi mi sono dedicato alla cronaca nera. È stato un periodo tristissimo: ho dovuto fotografare anche una madre che parlava col cadavere del figlio. E ho visto i miei amici poliziotti ammazzati a Piazza Nicosia. Spesso arrivavo per primo sui luoghi del delitto, fotografavo con discrezione e poi siccome il giornale voleva l'esclusiva, facevo un po' di chiasso in modo che le autorità bloccassero l'accesso ai miei colleghi".

Come è cambiato il suo lavoro con l'arrivo del digitale?

"Ora tutti pensano di poter fare una foto, soprattutto col cellulare: è un fallimento totale. Ma le foto si fanno con la testa, bisogna capire il personaggio, catturare un'espressione, notare un dettaglio come le scarpe bucate. Invece arrivano in 50 e fanno una foto di uno che cammina per strada e mi rovinano uno scoop. E poi con 'sti cavolo di selfie ormai i personaggi hanno paura, non si fanno più vedere in giro. Però almeno adesso ci sono le mascherine".

In che senso?

"Quando i divi le indossano la gente non li riconosce. Ma io sì. Li identifico da come camminano o da un dettaglio. Mi avvicino, chiedo loro di abbassare la mascherina un attimo e clic: il gioco è fatto".

·        Roberto Andò.

Emilia Costantini per il "Corriere della Sera" il 26 novembre 2021. «Ricordo Richard Burton che arriva ubriaco, più del solito, sul set. Gli tremavano le mani, persino le labbra... e quella mattina avrebbe dovuto girare una scena in primo piano. Vittorio De Sica si rende ben presto conto che è impossibile realizzare un'inquadratura dell'attore in quelle condizioni e annulla la scena. Burton si innervosisce, si inalbera, non accetta la decisione del regista e, a quel punto, il grande De Sica ferma tutto il set: con la sua eleganza, la sua sapienza, esprimendosi in un inglese molto disinvolto, dà il via a una dissertazione, una colta lezione di cinematografia sull'importanza di effettuare le riprese in un modo, piuttosto che in un altro. Conclude, quindi, che a volte è molto meglio farsi riprendere di spalle, perché rende più affascinante il personaggio interpretato... Così mise a tacere la protesta dell'attore, che accettò la proposta». Roberto Andò era poco più di un ragazzino, ma già appassionato di cinema, quando riuscì, grazie a conoscenze familiari, a introdursi nel set de «Il viaggio», l'ultimo film firmato da De Sica e tratto dall'omonima novella di Luigi Pirandello, di cui era protagonista la coppia Burton-Sophia Loren. «Quella fu la mia iniziazione - racconta il regista-scrittore palermitano -. Ero protetto dalla meravigliosa Sophia e anche De Sica, in là con l'età, mi aveva preso a ben volere. Tutte le mattine, durante le pause, mi faceva cenno di avvicinarmi a lui, per chiedermi se conoscevo il barone Caio, la principessa Sempronio o il conte Tizio che lo avevano invitato a cena per poi fare una partita a carte al Circoletto, un circolo nobiliare...». 

E lei conosceva tutti questi blasonati?

«Beh... diciamo che, quando potevo, cercavo di rendermi utile chiedendo informazioni ai miei genitori... non volevo deludere il regista... ci tenevo tanto a frequentare il set e scoprirne i meccanismi». 

Però il battesimo in letteratura lo ha avuto con Leonardo Sciascia.

«In quel caso fui aiutato da Elvira Sellerio, molto generosa con me. Voleva aiutarmi e mi introdusse nella sua casa editrice per presentarmelo, mentre il grande scrittore stava correggendo le bozze di un suo romanzo e io aspiravo a scrivere il mio primo testo letterario. Fu un incontro decisivo della mia vita. Nacque tra noi una speciale amicizia e la mia incondizionata ammirazione nei suoi confronti: è stato il primo autore siciliano che ha affrontato nelle sue opere il problema della mafia. All'epoca, in una estesa zona grigia, tutti erano eccessivamente tolleranti verso ciò che stava avvenendo, cioè l'offensiva delle cosche nella vita civile e la loro penetrazione nel ceto politico. Negavano questo "cancro", questa criminalità endemica della nostra terra che veniva sempre descritta come l'isola della luce, dei colori, degli odori...E invece Sciascia introduce la mafia pre-droga nei suoi testi, cercando di capirne la "filosofia". Alcuni, poi, arrivarono a dire che Sciascia ne aveva subito il fascino: una cosa assurda, assolutamente falsa. L'attenzione al problema era nata dalla sua attività di maestro elementare a Racalmuto, dove insegnava a bambini poveri, bistrattati, figli di zolfatari e, attraverso di loro, aveva conosciuto la mafia rurale. Quando pubblicò il libro "Le parrocchie di Regalpetra", nato proprio dal suo impegno didattico e dove descriveva questa drammatica realtà, lo accusarono persino di essere un delatore: lui aveva rotto il patto di silenzio con una Sicilia buia e con lui si era accesa una luce sulla verità. Proprio per questo, mi diceva: "Perché rimani a Palermo, perché non te ne vai? Vattene, vai via da qui!". Ma la mafia, purtroppo, non è solo una questione siciliana». 

Infatti, nel suo romanzo «Il bambino nascosto», diventato anche film, lei racconta la camorra...

«A Palermo, come a Napoli, l'arruolamento nella criminalità organizzata è ancora una piaga sociale. Ragazzini di 9-10 anni vengono coinvolti nella delinquenza che appare come unica prospettiva, altrimenti sei un nulla: nuddu mischiato col nuddu. Spesso sono i pentiti a raccontare tale condizione psicologica, che non riguarda solo il Sud d'Italia: ormai una mafia dissimulata ha interessi anche al Nord e ovunque. Occorre averne consapevolezza e, in certi casi, molto coraggio per vincerla».

Il coraggio che ha avuto Letizia Battaglia, fotografa de «L'ora» di Palermo, su cui lei sta girando un tv-movie in due puntate con Isabella Ragonese nel ruolo della protagonista?

«È stata la prima donna a entrare in un mondo di colleghi maschi e a sopravvivere in un mestiere difficile nei terribili anni delle stragi. Attraverso la sua biografia rivedo tutti i morti per i quali non mi sono pacificato. Perché è pur vero che la mia città è migliorata, in qualche modo ripulita da quando ero ragazzo e ne vedevo solo le rovine, ma dietro l'angolo c'è ancora la "monnezza". Tuttavia bisogna stare attenti a raccontare queste storie sul potere mafioso, il rischio è di esaltare il fascino del male, che attira più del bene». 

Ha conosciuto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino?

«Ho avuto la fortuna di conoscerli entrambi, in momenti diversi: ho pianto quando sono stati uccisi, con la loro morte ho visto il crollo di ogni prospettiva di legalità a Palermo, una capitale senza vertebre, segnata da qualche importante presidio intellettuale e da molto malessere psichico. Per fortuna, dopo il loro sacrificio, è avvenuta una grande mobilitazione civile, ma non ci si può affidare poi solo alle commemorazioni, non bastano a scuotere le coscienze, occorre fare di più. Il grosso problema della giustizia italiana è che restano tanti buchi neri, tanti misteri irrisolti, non si è ancora fatta luce su tanti avvenimenti e i morti senza giustizia devono rappresentare un monito per tutti noi. Bisogna alzare la voce, come hanno saputo fare scrittori come Sciascia o Camilleri».

Quel Camilleri che lei riportò in palcoscenico tre anni fa, al Teatro Greco di Siracusa nel ruolo dell'indovino Tiresia, una memorabile performance, la sua, quando ormai era diventato cieco, un anno prima della sua scomparsa.

«Quella sera, dopo i calorosi applausi che meritatamente ricevette per la sua interpretazione, mi disse in disparte: "Mentre recitavo ho visto un gatto che mi fissava". Era impossibile che nelle vicinanze del palcoscenico ci fosse un gatto... Oltretutto Andrea non era in grado di vedere nemmeno il pubblico che affollava la platea, quindi come avrebbe potuto scorgere una bestiola? E allora ho pensato, fra me e me, che quel gatto era un'immagine di morte: qualcuno gli aveva mandato un messaggio, che purtroppo si è avverato l'anno successivo». 

Scrittore, regista di cinema, teatro, televisione, opera... Non sarà troppo?

«Me lo chiedo anch' io e una volta me lo chiese pure Nanni Moretti! Ma questa scissione tra la letteratura e il cinema non l'ho mai curata, anzi direi che semmai l'ho alimentata allargandola poi al teatro e alla lirica. Da giovane, questa mia natura da poligrafo era vista con sospetto, oggi direi che è accettata. Poter passare da un set cinematografico alle prove in un teatro d'opera lo considero un privilegio: c'è in me un ritmo che è un flusso sanguigno, l'urgenza di fare si moltiplica».

E oggi dirige anche il Mercadante e il San Ferdinando. Come si trova un palermitano a Napoli?

«Palermo è più triste di Napoli, ha una cupezza esasperata, è come se elaborasse continuamente un lutto, prevale il senso di morte. Napoli gioca con la morte, ha la capacità di inventare sé stessa, è un cantiere aperto e il suo centro è proprio il teatro, una forma di vita che mi mette in perenne stato di eccitazione. È una metropoli anarchica e tutti i suoi pregi possono essere anche i suoi difetti. Diceva Pasolini che i napoletani sono una grande tribù che, invece di vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg e i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare». 

Finora abbiamo parlato dei suoi successi. Il suo peggiore insuccesso?

«Gli insuccessi lavorativi sono sempre da mettere in conto, ma voglio ricordare un insuccesso privato, o meglio, un episodio negativo che mi porto dietro dall'infanzia. Un mio compagno di scuola una volta mi disse una cosa profondamente offensiva e dolorosa, io lo colpii con un pugno e credo di avergli spezzato un dente che gli ha causato problemi per tutta la vita. È un ricordo indelebile, riguarda un sentimento fortissimo che è insieme di violenza subita e agita».

·        Roberto Benigni.

Un Leone d'oro per il ruggito addomesticato di Benigni. Alessandro Gnocchi il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Roberto Benigni aggiunge nella sua bacheca un'altra decorazione, aggiudicandosi il Leone d'Oro alla carriera, assegnato dalla Mostra del cinema di Venezia. Roberto Benigni aggiunge nella sua bacheca un'altra decorazione, aggiudicandosi il Leone d'Oro alla carriera, assegnato dalla Mostra del cinema di Venezia. Un riconoscimento quasi obbligatorio per un attore e regista che è tornato da Hollywood con tre statuette vinte grazie al suo film più contestato, La vita è bella. Era il 1997. Per alcuni, Benigni aveva realizzato una favola inadeguata, perché edulcorata, sull'orrore dell'Olocausto. Per altri, tra i quali i membri dell'Academy, La vita è bella era una favola toccante, resa ancora più disperata dal suo umorismo, solo all'apparenza consolatorio. Comunque sia, Benigni, oltre al Leone d'oro, può vantare: dieci lauree e un dottorato honoris causa; tre Oscar; mezza tonnellata di David di Donatello; il Grand Prix della giuria al Festival di Cannes; un'altra quarantina di riconoscimenti internazionali. È anche Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana e può appuntarsi sul petto la Medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte. Una carriera straordinaria per un comico «toscanaccio» che cantava l'Inno del corpo sciolto e conosceva il primo successo nei panni di un impreparato critico cinematografico, ai tempi de L'altra domenica di Renzo Arbore. Poi arrivò il cinema d'autore (Marco Ferreri e Federico Fellini), ma anche quello popolare, con Massimo Troisi o in solitudine. Nel frattempo, Benigni entrava e usciva dagli studi della Rai, saltava addosso a Raffaella Carrà, saliva sul tavolo di Enzo Biagi. Fino a quando non ritenne opportuno ricalibrare il suo profilo e la sua immagine pubblica. L'attore comico cedeva il passo al regista che legge la Commedia di Dante. Ed eccoci qua. Benigni ha ottenuto un successo così «indiscutibile» che non si può evitare di discuterlo, senza nulla togliere all'artista: non si vincono Oscar per caso e comunque tre minuti di Cantico dei Cantici letto (bene o male, non importa) da Benigni valgono il canone Rai più delle centinaia di ore dedicate a talk show demenziali. Ripartiamo dal Leone d'oro assegnato con queste parole: «Sin dai suoi esordi - ha sottolineato il direttore Alberto Barbera -, avvenuti all'insegna di una ventata innovatrice e irrispettosa di regole e tradizioni, Roberto Benigni si è imposto nel panorama dello spettacolo italiano come una figura di riferimento, senza precedenti e senza eguali». Non c'è dubbio. È interessante forse vedere in cosa consista l'aspetto «irrispettoso di regole e tradizioni» di Roberto Benigni: non è paradossale che un artista trasgressivo abbia la cantina piena di premi? L'outsider non dovrebbe essere, appunto, fuori dai giochi invece di vincerli tutti? Secondo Edmondo Berselli, Benigni rappresenta «la trasgressione consentita, il sovversivismo spettacolare dedicato al popolo medio, genitori e figli, cugini e parenti. Era il giullare che irrompeva nel format televisivo del sabato sera e cominciava a straparlare di sventrapapere e di cetrioli, di gnocca e patacca, perché il gusto di Robberto per le anatomie genitali è sempre stata una sua peculiarità, e poi baciava sulla bocca l'algida Olimpia Carlisi a Sanremo, minacciava di afferrare per le parti basse Pippo Baudo, invocava Wojtylaccio, manometteva una Raffaella Carrà spaventata e complice, saltava sulle scrivanie del telegiornale, cantava tutto allegro quando sento Berlusconi mi si sgonfiano i coglioni e, di tanto in tanto, forse per contrappasso culturale, si metteva a recitare tutto d'un fiato una cantica dantesca, per la gioia delle professoresse di materie letterarie e dei loro presidi» (Venerati maestri, Mondadori). Il giullare Benigni smitizza il potere, ma non tutto il potere: Berlinguer, infatti, è l'amore suo. Il comico, dunque, come incarnazione di una tra le anime della sinistra... E qui il discorso si fa veramente ampio e prescinde dalla figura di Benigni stesso. Il progressista ama crogiolarsi nell'idea di essere un modello di libertà dello spirito. È convinto di abbattere barriere impenetrabili, ma sfonda soltanto porte spalancate. Come tutti gli anticonformisti di professione, è prigioniero delle mode, inibito da innumerevoli tabù, condizionato da oltre cinquant'anni di terrorismo culturale. I giullari, gli scrittori, gli artisti alla Benigni, o alla Nanni Moretti, permettono di vincere il senso di colpa per aver mancato l'appuntamento con la rivoluzione, quella vera, di averla barattata per una posizione nel mondo. Per questo sono amati, vendono e fanno vendere, come risaputo da ogni uomo di marketing. Gli intellettuali di questo tipo stanno bene con tutto: tra gli scaffali, in televisione, al cinema, ai festival.

Valerio Cappelli per "corriere.it" il 2 settembre 2021. Roberto Benigni stavolta non salta sulle poltrone dall’euforia, prevale l’emozione e resta nei ranghi davanti alle autorità: «È il premio più bello e lucente che si possa avere in Italia e nel mondo». Quando alla Mostra gli consegnano il Leone d’oro alla carriera si alzano tutti in piedi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella accolto dalla standing ovation e Pedro Almodovar, Penelope Cruz e il presidente della Biennale Roberto Cicutto. Lui ringrazia Mattarella «per il suo amore per l’arte, ho la soddisfazione di essere un suo contemporaneo, la vorrei abbracciare, in questi anni ci ha aiutato tanto, lei è un presidente straordinario, rimanga per la prossima Mostra, rimanga con noi magari fino ai mondiali di calcio in Qatar perché porta fortuna, porta bene. Presidente, deve rimanere qualche anno in più». Dice che quando Alberto Barbera il direttore artistico lo chiamò per il premio «mi spogliai dalla gioia e accennai qualche passo di rumba». Ringrazia tutte le stelle polari che hanno guidato il suo cammino d’artista, credendo in lui, dai primi, Giuseppe Bertolucci e Vincenzo Cerami, a tutti gli altri che menziona in ordine sparso Ferreri e Fellini, Renzo Arbore e Massimo Troisi, Woody Allen, Jim Jarmusch e Matteo Garrone con il quale, in Pinocchio, ha condiviso la sua ultima avventura al cinema. «Io meritavo un gattino, un micino, ma un Leone d’Oro alla carriera qui a Venezia è veramente il premio più prestigioso più bello, più lucente, più luminoso che si possa sognare in Italia e nel mondo». Ma il ringraziamento più bello e poetico va alla sua Beatrice, la donna della sua vita, Nicoletta Braschi: «Il mio modo di misurare il tempo è con te e senza di te, facciamo tutto insieme da quarant’anni, questo premio ti appartiene, lo dedicherai tu a chi vorrai». Il Leone? «Io prendo la coda per muovere l’allegria, le ali sono tue. Se qualcosa ha preso il volo è grazie a te. La femminilità è un mistero che non comprendiamo, gli uomini sono donne che non ce l’hanno fatta, diceva Groucho Marx». Nicoletta, la sua luce: «Nostro Signore ha adornato il cielo di un altro sole, la prima volta che t’ho visto». Poi si congeda: «Che Dio vi benedica». Jane Campion aveva appena tenuto la laudatio paragonando la sua gioia a una bottiglia di Prosecco pronta a esplodere, dice che nelle sue opere Benigni ci ricorda «l’importanza di amare e di innamorarsi ogni giorno», quest’anima innocente «che ci disarma e ci riporta al parco giochi della nostra infanzia». Difficile pensare che a ottobre compirà 69 anni. Difficile credere che Roberto Benigni è alla sua prima volta alla Mostra del cinema. Ha lasciato Dante a casa, e dopo la sua master class tornerà a Roma col Leone stretto e il ruggito della sua risata, del suo stupore sulla bellezza del mondo. Ed eccolo col naso di cartone nel tempio dei grandi autori così spesso ostili ai comici. Nel pomeriggio appena sbarcato al Lido, (in completo grigio Armani), ai fotografi dice: «Il Leone? Di sicuro stanotte ci dormo insieme e magari ci facciamo una nuotata». Il ragioniere Benigni, nato da due contadini toscani analfabeti («io vengo dal nulla, da una povertà meravigliosa») lo aggiungerà alle nove lauree ad honorem. La cerimonia d’apertura diventa la sera degli umoristi e degli illusionisti, con al centro questo vagabondo della comicità piena di umori popolari e di buone letture, attore in 28 film e regista di 8. Gli bastano cinque minuti per mangiarsi tutta la torta degli applausi, esprimendo ancora la sua gratitudine («provo un sentimento d’amore che ve lo rimando indietro decuplicato») sotto gli occhi di Almodovar, che in Parla con lei gli dedicò il personaggio dell’infermiere Benigno. Uscendo dalla sala Benigni dice: «Potevo parlare solo di lavoro e l’ho fatto ringraziando i registi che mi hanno scelto perché essere scelti è incredibile, e Nicoletta che è tutto per me». Nel suo film Oscar ha giocato sugli orrori dell’Olocausto e anche ora ci ricorda che la vita è bella.

Venezia 78. A Benigni il Leone d'oro e standing ovation: "Presidente Mattarella rimanga qualche anno in più". Chiara Ugolini su La Repubblica l'1 settembre 2021. Al via la 78esima edizione della Mostra che si apre con il film di Pedro Almodóvar 'Madres paralelas'. In sala per il Leone d'oro a Roberto Benigni il Capo dello Stato: "Quando ho saputo che c'era ho esultato come lei a Wembley sul gol di Bonucci". Standing ovation per Roberto Benigni e il suo Leone alla carriera. Un abbraccio stretto a Jane Campion che ha letto la motivazione ricordando la gioia e l'amore che ha sempre comunicato: "Lui crede nei miracoli, come quello di innamorarsi tutti i giorni". "Thank you Jane, tutto rimarrà nel mio cuore. Unforgettable" ha risposto in inglese il regista. "Si dice sempre l'emozione ma in vetta ci sono i sentimenti, e io provo amore e gratitudine che non so come replicare se non rimandare a voi. Io mi meritavo un gattino mentre un Leone d'oro qui a Venezia è il premio più luminoso che si possa immaginare in Italia e nel mondo. Quando mi hanno chiamato ho fatto salti e passi di danza, rumba, ero felice. Grazie presidente Mattarela di dimostrare il suo amore per l'arte, quando mi hanno detto che ci sarebbe stato ho avuto la stessa emozione di lei a Wembley quando ha segnato Bonucci, vorrei abbracciarla e baciarla. Deve rimanere qualche anno in più perché ci porta fortuna". Poi Benigni si fa serio: "Chi riceve un dono così grande ha un dovere, come dice Sant'Ambrogio, deve ringraziare e io voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno voluto bene, io vengo da una famiglia del nulla, una povertà aristocratica. Tanti mi hanno aiutato e li voglio ricordare, Giuseppe Bertolucci e Vincenzo Cerami e tutti i registi che mi hanno scelto: Ferrari, Zampa, Bertolucci, Citti, Arbore, Jarmusch, Edwards, Fellini, Allen, Garrone, grazie a tutti voi. Il premio non posso dedicarlo alla persona che imparadisce la mia mente, come dice Dante, alla mia attrice prediletta Nicoletta Braschi, questo premio è suo per cui sarai tu a dedicarlo". Poi rivolto alla moglie: "Abbiamo fatto tutto insieme per 40 anni, io conosco solo un modo per misurare il tempo, con o senza di te. Ce lo dividiamo questo Leone, io mi prendo la coda e a te lascio le ali. Se qualcosa di buono ho fatto è grazie alla tua luce". A inizio cerimonia era stata la madrina Serena Rossi a dare il via con un discorso sentito. "Un vero onore essere qui in un posto magico dove tutto può succedere che ci parla di noi come singoli, singoli che stanno insieme a formare un vero noi. Che bello tornare a stare insieme. Che bello Venezia, che ci dice che costruire il nostro futuro è ancora possibile. Si può andare avanti solo insieme, il mio pensiero va alle madri afghane e ai loro bambini, alle braccia tese sul filo spinato, pronte a separarsi per salvarli e agli artisti di quel Paese che rischiano moltissimo. A loro vogliamo dire: non siete soli, siamo con voi". La seconda Mostra in tempo di Covid che quest'anno deve misurarsi con un numero più alto di delegazioni, spettatori e professionisti. E che deve dimostrare che il mondo dello spettacolo è pronto ad affrontare la sfida del vero ritorno in sala. "Siamo tutti connessi come sul set cinematografico, quanti professioni dietro al cinema? Cosa saremmo senza chi monta e smonta, una sinfonia di artisti che tutto organizza. L'attore è il portavoce di un ingranaggio, se si vince è merito di tutti. Tanto più il lavoro è faticoso tanto è necessario il noi quindi permettetemi di dire grazie a tutti i lavoratori dello spettacolo. Grazie a loro la magia del cinema è possibile. Un'annata speciale che sa di condivisione, un rito collettivo che ci riporta tutti bambini perché nel buio si può piangere, avere paura, cantare sottovoce, innamorarsi, ritrovarsi, uscire alla luce e ritrovarsi sorridendo anche dietro le mascherine perché si vede lo stesso. Sorridiamo perché sta per iniziare uno di quei momenti che passano alla storia e tutti noi ci siamo dentro". 

Gli italiani, i film e l'amore per la moglie. Il Lido ruggisce con il Leone Benigni. Luigi Mascheroni il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. Premio alla carriera per l'attore che emoziona con la dedica a Nicoletta e "rielegge" Mattarella. Quando gli consegnarono l'Oscar per La vita è bella, nel 1999, Roberto Benigni fece esplodere il Kodak Theatre di Los Angeles saltando di poltrona in poltrona sopra le teste coronate di Hollywood. Qui al Lido, in Sala Grande, ieri, dove nella serata inaugurale della 78ma Mostra del Cinema ha ricevuto il Leone d'oro alla carriera, ha sfilato in una vera marcia trionfale - standing ovation, «Robertooo!» e applausi infiniti - dalla poltroncina d'onore in Galleria fino al palco. Introdotto da una altissima laudatio della regista e amica Jane Campion, Benigni abbracciando la statuetta d'oro del Leone («Quando mi hanno telefonato ho fatto i salti di gioia, anzi di rumba e di mambo, spogliandomi nudo... Al massimo mi sarei aspettato un micino... ma un leone addirittura...») nel breve spazio del discorso di accettazione ha dato vita, come era prevedibile e si sperava, a un vero show. Si è profuso in lodi all'indirizzo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, applauditissimo lassù in alto nella sala, chiedendogli di restare fino al prossimo festival, «anzi fino ai Mondiali in Qatar, visto che porta fortuna», altro che semestre bianco... Ha dedicato il Leone agli italiani «che mi vogliono bene» e ha ricordato tutte le persone che lo hanno scelto nella vita e nell'arte (Bertolucci e Cerami, Ferreri e Citti, Troisi e Fellini, Jim Jarmusch e Garrone...). Ma soprattutto ha regalato alla moglie, produttrice, «attrice preferita» e compagna di una vita Nicoletta Braschi una delle più belle dichiarazioni d'amore della storia recente dello spettacolo. «Abbiamo fatto tutto insieme per 40 anni. Quanti film abbiamo fatto? Ma poi cosa vuol dire misurare il tempo in film? Io conosco solo un modo per misurare il tempo: con te o senza di te». «Questo Leone non è mio, è nostro. Io mi prendo la coda, per scodinzolare di gioia. Tu le ali, con le quali mi hai fatto volare». Finendo con una citazione di Groucho Marx: «Gli uomini sono donne che non ce l'hanno fatta». Sul come era incominciata la serata, invece, ci sono le solite cose da dire. La madrina, troppo emozionata, non si è sottratta agli impacci e alla retorica (le madri afghane...) dei discorsi di tutte le recenti madrine. Il ministro della Cultura Dario Franceschini ha ascoltato composto. E il presidente della Biennale di Venezia, Roberto Cicutto e il direttore della Mostra Cinematografica Alberto Barbera si sono comportati da perfetti padroni di casa con le giurie e il pubblico internazionale. Che non è poco quando il mondo ci guarda. E così è iniziata ufficialmente la 78esima edizione della storia della Mostra, la seconda dell'era Covid. Lo scorso anno, in piena pandemia, si rischiò molto facendo il festival e si vinse tutto: organizzazione perfetta, misure anticontagio efficientissime (non ci furono focolai), complimenti dal resto del mondo, che parlò del «modello Venezia», e ci si «portò a casa», simbolicamente, anche i tre premi Oscar di Nomadland che qui vinse il Leone d'oro. Ma quest'anno la Mostra addirittura rilancia. È tempo di green pass e di vaccinazioni a tappeto (ci sono 12 gazebo per i tamponi lungo le vie d'accesso alla cittadella del cinema), e alle misure di sicurezza sanitaria si aggiungono quelle dell'antiterrorismo causa paura attentati per l'Afghanistan: elicotteri, droni, artificieri subacquei, agenti in borghese... È vero: come già lo scorso anno salta il tradizionale party inaugurale sotto i tendoni dell'Excelsior (sostituito da una cena di gala nella Sala Stucchi dell'Hotel, ristretta e distanziata, solo per le autorità, i giurati e i protagonisti del film di apertura). Ed è vero: nei giorni scorsi ci sono stati alcuni problemi di funzionamento del sistema delle prenotazioni online, che invece l'anno scorso, appena introdotto, funzionò benissimo. Ed è vero, il red carpet rimane blindato: i cast lo fanno, ma a favore di fotografi e tv, non del pubblico, tenuto lontano da un muro anti-assembramenti. Ma il festival e il cinema non si fermano («Il cinema sopravviverà sempre» ha detto Bong Joon Ho, il regista sudcoreano premio Oscar per il film Parasite, presidente della Giuria che assegnerà i premi del concorso principale). E infatti il direttore della mostra Alberto Barbera e la sua squadra di selezionatori - che continuano imperterriti da anni a portare al Lido i titoli migliori e la maggiori star - hanno sfruttato cinematograficamente il meglio nel peggio della pandemia: «Si credeva che la crisi Covid avesse fatto calare il numero e la qualità delle produzioni. Invece è accaduto il contrario ha detto Barbera . Il sistema ha ripreso a produrre in modo impressionante all'insegna di una elevata qualità. Il cinema è tutt'altro che piegato dalla pandemia. Non è mai stato così vivo, vitale, curioso e originale».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale dell

·        Roberto Giacobbo.

Roberto Giacobbo compie 60 anni: concorrente di Mike Bongiorno, guest star in un video di Caparezza e altre 5 curiosità su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12/10/2021. Il popolare divulgatore attualmente è impegnato nel dietro le quinte del programma di Italia 1 Mystery Land con Alvin e Aurora Ramazzotti.

Autore di un programma per ragazzi

Attualmente impegnato dietro le quinte del programma di Italia 1 Mystery Land con Alvin e Aurora Ramazzotti (ogni lunedì in prima serata su Italia 1) il divulgatore scientifico Roberto Giacobbo il 12 ottobre spegne 60 candeline. L’ex vicedirettore di Rai 2 con delega alla divulgazione e ai programmi per ragazzi, noto al grande pubblico grazie alla trasmissione Voyager - Ai confini della conoscenza (Rai 2, 2003-2018), è nato a Roma nel 1961. Inizialmente si è laureato in Economia e Commercio, poi ha iniziato la sua carriera come autore radiofonico nel 1984 per Radio Dimensione Suono (RDS). Forse non tutti sanno che, dopo aver debuttato in televisione su Rai 1 all’inizio degli anni Novanta (come autore per Ciao Italia e Ciao Italia Estate), è stato nella stagione 1992/1993 autore del programma per ragazzi Big!, condotto da Carlo Conti.

Al Maurizio Costanzo Show

Il passaggio davanti alla telecamera è avvenuto nel 1999 in seguito ad un suo intervento al Maurizio Costanzo Show (già autore del programma La macchina del tempo, condotto da Alessandro Cecchi Paone, era stato invitato per presentare un suo libro dedicato a Cheope scritto con Riccardo Luna): «Come da accordi, mi aspettavo di avere solo quattro minuti a disposizione - ha raccontato a Vero Tv - Invece, Maurizio mi ha invitato a proseguire. Qualche giorno dopo, i responsabili di TeleMontecarlo, mi hanno proposto non solo di scrivere ma anche di condurre Stargate – Linea di confine. Il mio intervento da Costanzo li aveva colpiti».

Concorrente di telequiz

Ha svelato a Tv Sorrisi & Canzoni nel 2016 di essere stato nel 1982 tra i concorrenti del telequiz Bis, condotto da Mike Bongiorno. Riuscì anche a vincere una discreta sommetta: «Avevo partecipato come concorrente vincendo 13 milioni di lire in buoni spesa. Quelli per i beni alimentari li avevo dati tutti a mamma. Gli altri li avevo utilizzati e in parte barattati con altre cose, tra cui una moto usata».

Le apparizioni nei videoclip

È apparso come guest star nel videoclip del brano di Caparezza «La fine di Gaia» ma non era lui nel video degli 883 «Tieni il tempo», come spesso viene riportato. Ha raccontato a Il Mattino: «Mi diverte molto che questa fake news continui a circolare, nel video degli 883 c'è una persona, ma non sono io. Però l'ho fatto un video musicale, come musicale è la terra di Campania e Napoli, e a breve ci sarà una puntata di Freedom che parlerà di qualcosa di speciale legato a Napoli. Il video che ho fatto è stato insieme a Caparezza, era intitolato "La fine di Gaia", era un video sulla fine del mondo, ci siamo divertiti molto ed è stata un’esperienza, ma quella, non quella degli 883».

Passeggero misterioso

Nel 2016 a Pechino Express è apparso in veste di «passeggero misterioso» per sostituire in una puntata Costantino della Gherardesca.

Professore all’università

Ha insegnato all’Università di Ferrara Teoria e tecnica dei nuovi media nel corso di laurea specialistica in Progettazione e gestione degli eventi e dei percorsi culturali (Facoltà di Lettere e Filosofia). Per l’attività svolta in qualità di conduttore televisivo e di docente nel 2018 gli è stato conferito dal rettore Giorgio Zauli un attestato di benemerenza. 

Disavventure durante le riprese

Nei 15 anni di Voyager non è mancata qualche disavventura durante le riprese: «Una volta, mentre risalivo dalla grotta dell’Uomo di Altamura, un sostegno cedette e io mi ruppi i legamenti di una spalla - ha raccontato nel 2017 al Corriere - E ancora: stavamo esplorando il pozzo di san Patrizio a Orvieto quando ci fu una delle scosse più forti dell’ultimo terremoto tra Marche e Umbria. Eravamo sottoterra mentre tutto tremava. E però qui si vede la televisione che ha rispetto delle persone. Avrei potuto spettacolarizzare il tutto. Puntare sulla catastrofe in presa diretta. Ma io non lo faccio. Io ho rispetto per il pubblico che mi segue sin dal 2003»

·        Roberto Saviano.

Nuova figuraccia di Roberto Saviano: per i pezzi di “Gomorra” copiati arriva la condanna milionaria. Monica Pucci lunedì 13 Dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Nuova mazzata per Roberto Saviano, alle prese con giudici solerti che non si lasciano influenzare dalla grancassa mediatica che accompagna le sue uscite pubbliche e lo bacchetta sul “copia copiarella” del suo libro più famoso, “Gomorra”, da cui è stata anche tratta una fiction di successo che ha profondamente peggiorato il clima sociale del Napoletano infondendo pillole di sacralità ai boss della camorra emulati dalle nuove generazioni di malavitosi. Saviano copiò, senza citarli, alcuni giornalisti che avevano scritto articoli su giornali locali: una verità acclarata da diverse sentenze, ma la novità di oggi è che non basta l’elemosina promessa dallo scrittore come risarcimento del danno. Roberto Saviano dovrà restituire gli utili incassati dalle enormi vendite del libro in modo proporzionale alle stesse. Il riarcimento del danno alla società Libra Editrice per il plagio di tre articoli di cronaca tratti dal «Corriere di Caserta» e «Cronache di Napoli» e inseriti nel best seller «Gomorra» di Roberto Saviano, edito da Mondadori, secondo la Corte di Appello deve tener conto dell’enorme successo che ha avuto il libro e sarà proprio in quella sede che si dovrà quantificare un congruo risarcimento. Troppo pochi i 6mila euro liquidati nel novembre 2016 dalla stessa Corte di Appello di Napoli che, in sede di rinvio, aveva ridimensionato l’iniziale condanna (in solido tra l’autore e la casa editrice) fissata (nel 2013) sempre dalla CdA di Napoli, in 60mila euro. Per la Cassazione, sentenza n. 39.762 depositata oggi, il giudice di secondo grado è incorso in una «falsa applicazione dell’art. 158 legge sul diritto d’autore laddove ha escluso l’applicazione del criterio risarcitorio preferenziale del lucro cessante indicato dalla legge, ossia `con equo apprezzamento delle circostanze del caso, anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto, per adottare il criterio del prezzo del consenso». La società Libra, prosegue la Corte, ha precisamente indicato nei guadagni maturati da Roberto Saviano e dalla Mondadori, con la pubblicazione del libro, il mancato provento realizzato. Una brutta mazzata, professionale ed economica, per lo scrittore casertano. Tanti, tanti soldi da restituire, altro che seimila euro…

Ugo Clemente per cronachedi.it il 13 dicembre 2021. Brutte notizie per Saviano e Mondadori. Un’altra tegola sulla testa dello scrittore Roberto Saviano e sulla “Mondadori”, la casa editrice della famiglia Berlusconi (presieduta da Marina Berlusconi, figlia del leader di Forza Italia Silvio). La Corte di Cassazione ha infatti annullato la sentenza con la quale la Corte di Appello di Napoli, nel 2016, aveva ridotto il risarcimento da loro dovuto alla Libra Editrice, che edita i quotidiani Cronache di Napoli e Cronache di Caserta, per il plagio degli articoli illecitamente riprodotti nel romanzo “Gomorra”, edito dalla Mondadori, da 60mila a soli 6mila euro, con spese compensate.

Da quantificare i “benefici realizzati illegalmente” da Saviano

Ora la Corte di Appello di Napoli dovrà rideterminare la somma dovuta a titolo di risarcimento tenendo conto anche dei “benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione”. In particolare la Suprema Corte, accogliendo il ricorso presentato per la Libra dagli avvocati Marco Cocilovo e Mauro Di Monaco, osserva che “in tema di violazione del diritto d’autore, la violazione di un diritto di esclusiva (come quello della Libra Editrice sugli articoli illegittimamente riprodotti in Gomorra, ndr) integra di per sé la prova dell’esistenza di un danno da lucro cessante”. 

Il parametro dei “ricavi conseguiti dal plagiario sul mercato”

Il lucro cessante, poi, deve essere valutato dal giudice “con equo apprezzamento delle circostanze del caso… cui si aggiunge però l’indicazione di un parametro esplicito, relativo agli utili realizzati in violazione del diritto”. Tale criterio, “che associa nella funzione risarcitoria anche una componente deterrente e dissuasiva, permette di attribuire al danneggiato i vantaggi economici che l’autore del plagio abbia in concreto conseguito, certamente ricomprendenti anche l’eventuale costo riferibile all’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera (che era stato appunto quantificato in 6mila euro dalla Corte di Appello di Napoli nel 2016, ndr), ma ulteriormente aumentati dei ricavi conseguiti dal plagiario sul mercato”. 

Il diritto europeo e il “criterio fondamentale” degli “utili realizzati dal contraffattore”

La Cassazione aggiunge che il diritto europeo, a tal proposito, “esige un risarcimento effettivo e proporzionalmente adeguato, calibrato su di una accurata considerazione di tutti gli elementi specifici e pertinenti del caso, tra i quali… i benefici realizzati illegalmente dall’autore della violazione”. Gli utili realizzati dal contraffattore, infatti, sono “un criterio fondamentale nella liquidazione completa ed effettiva del danno”.

Gli articoli di Cronache copiati da Saviano “hanno riscosso un grande successo”

Non si può non tenere conto del fatto che, come si legge nel testo della sentenza, “gli articoli in questione sono stati riprodotti e utilizzati nel loro valore d’uso, seppure nel contesto di un’opera molto più ampia, e hanno inoltre riscosso, sia pure in quel modo e in quelle forme, un grande successo”.

Il controricorso di Saviano e Mondadori “palesemente inammissibile”

I giudici del Palazzaccio, poi, considerano “palesemente inammissibile” il controricorso presentato dagli avvocati di Saviano e Mondadori, Vincenzo Sinisi, Claudio Marcello Leonelli, Benedetta Carla Angela Maria Ubertazzi e Luigi Carlo Ubertazzi, i quali eccepivano l’omessa motivazione su alcune difese della Libra. Lo scopo del ricorso incidentale, infatti, sarebbe quello di “riproporre alcune difese già esposte nel giudizio di riassunzione con alcuni passaggi della loro comparsa conclusionale e memorie di replica”.

Proprio per questo, “tale documento… neppure soddisfa il contenuto imprescindibile di un atto di impugnazione e men che meno di un ricorso in Cassazione, giacché non rivolge specifiche censure al contenuto della decisione”. Non solo. Gli Ermellini aggiungono che “a tale onere i ricorrenti incidentali si sono totalmente sottratti con la tecnica censoria utilizzata che rimette alla Corte di andare a ricercare se, dove e quando la sentenza impugnata non si sarebbe conformata a una serie di loro osservazioni. La conseguenza non può che essere l’inammissibilità”. 

Le spese legali da quantificare

Da riformulare anche la parte della sentenza in Appello che compensava le spese per tutti i gradi di giudizio, nonostante il riconoscimento della condotta plagiaria messa in atto da Saviano e dalla Mondadori. La Cassazione, infatti, ha rinviato la causa alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione “anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità”. 

Le altre contestazioni allo scrittore

E’ solo l’ultimo capitolo in ordine di tempo di una vicenda che si trascina da anni. E che riguarda solo una delle numerose contestazioni mosse allo scrittore da diversi soggetti, organi di informazione e giornalisti.

(ANSA il 5 novembre 2021) - Nel corso di una trasmissione televisiva definì il leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, "bastarda". Per questo lo scrittore Roberto Saviano è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma per l'accusa di diffamazione. L'appellativo fu espresso nel corso di un programma in cui si affrontava il tema dei migranti e la politica sulla gestione dei porti italiani. Il processo è stato fissato per il 15 novembre del prossimo anno. L'indagine era stata avviata dopo una querela presentata dalla stessa Meloni. Il procedimento era stato affidato al pm Pietro Pollidori che nel luglio scorso ha proceduto alla chiusura delle indagini contestando allo scrittore, presente oggi in aula, il reato di diffamazione. Il passaggio della trasmissione "incriminato" è quello in cui l'autore di Gomorra, parlando della morte di un bambino della Guinea durante una traversata nel Mediterraneo, affermò: "Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: "taxi del mare", "crociere"... ma viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così? È legittimo avere un'opinione politica ma non sull'emergenza".

Saviano pazzo d’ira per il rinvio a giudizio: Meloni una razzista, i suoi elettori cani che abbaiano…Redazione venerdì 5 Novembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Roberto Saviano non digerisce il rinvio a giudizio e fa la vittima in un video sui social. “Sono rinviato a giudizio – esordisce lo scrittore – per avere esercitato il diritto di critica nei confronti di Giorgia Meloni”. Ricordiamo che Saviano ha esercitato tale diritto insultando, cioè chiamando “bastarda” la leader di Fratelli d’Italia. E non si mostra affatto pentito: “Il mio giudizio su Giorgia Meloni lo rivendico e continuerò a portarlo avanti”. Saviano torna ad accusare Giorgia Meloni di avere detto che bisognava affondare la nave Sea Watch che aveva soccorso in mare gli immigrati. Una fake news che in più occasioni Meloni ha smentito. Come del resto dimostra il video in cui la leader di FdI affronta il tema nell’estate del 2019. Ma per Saviano Meloni è una “persona che ha continuato a mentire, manipolando dati, diffondendo paure, parlando di invasione”. Per concludere che trova “ignobile e vergognoso” dover discutere dei salvataggi in mare mentre, bontà sua, si può aprire un dibattito sulla gestione dell’immigrazione. “Non vi mollo”, dice Saviano rivolto al “mondo intorno alla Meloni”. La querela è “un trucco per intimidirmi”. “Continuerò a fare luce sulla propaganda razzista” che serve per fare “abbaiare la canea degli elettori delusi” (e così anche gli elettori di FdI sono insultati come “cani”). “Non molliamo”, promette Saviano all’acme del suo delirio di esaltazione, paragonandosi ai fratelli Rosselli perseguitati dal fascismo. “Da loro prendo l’espressione non mollare. Noi ci siamo – conclude rivolto ai sovranisti – vi osserviamo, vi raccontiamo, non vi permetteremo ancora a lungo la menzogna”. Saviano non può mancare nel “pantheon” di Formigli che da “Piazza pulita” deve gettare fango e falsità su Giorgia Meloni, FdI e i suoi elettori. Ancora questa è l’ossessione che apre la puntata di giovedì 28 ottobre su La7. “Che ne pensi, Roberto, dell’inchiesta di Fanpage sulle “scorie neofasciste all’interno di FdI e Lega?”. Come in un teatrino, è la battuta che dà il là alla scena madre del pontificatore tv con licenza di insultare, Roberto Saviano. Anzi, Formigli aggiunge ironicamente: “Stai attento a come parli. Si sa, la Meloni querela, non lo ha già fatto?”, chiede subdolamente il conduttore allo scrittore. Ebbene, Formigli non ricorda, o peggio minimizza, quel che uscì dalla bocca di Saviano quando insultò i leader dei due partiti, definendoli “bastardi”. Fu dopo l’ennesimo naufragio in mare, nel dicembre scorso. Con l’intento di addebitare a loro le morti dei migranti in quel frangente drammatico e doloroso. “Non sono disposta a tollerare oltre”, disse a ragione, Giorgia Meloni. Formigli ci ironizza sopra, ed è molto grave da parte di questi “democratici” che concedono la delega all’insulto un tanto al chilo. Ebbene, Saviano va a nozze se gli chiedi cosa pensa dell’inchiesta di Fanpage e sulla cosiddetta Lobby nera. Attacca subito la leader: “Quella è la destra in cui è cresciuta Giorgia Meloni in cui si sono formati i suoi uomini. La Meloni sta cercando di pulire il suo linguaggio e di rendersi simpatica alla destra liberale, di promuoversi come non è”. Affievolitasi la vena di scrittore, Saviano inventa un altro tipo di romanzo, veicolando una narrazione avvelenata che non ha riscontri nella realtà. E che ignora tutte le parole spese dalla Meloni di questi tempi – ma anche in passato- nei numerosi interventi pubblici e in molte interviste. Formigli insiste. “Roberto, non ti ha sconvolto quello che hai visto nell’inchiesta?”. Risposta: no. L’autore di Gomorra ha affermato: “L’inchiesta di Fanpage non mi ha sconvolto, mi ha colpito la loro superficialità nel farsi beccare così facilmente”. Formigli interviene: “Io penso che la Meloni faccia fatica a liberarsene di quella destra”. Ma Saviano non è d’accordo e fa un’accusa grave: “No, è il suo miocardio. Non ne sono convinto, non ha scelto nuove persone, ha cambiato comunicazione ma non è riuscita a ripulire”, attacca ancora. Il termine “ripulire” è odioso, offensivo. Ripulire da che? Con quale autorità sentenzia? Fuori di metafora, lo scrittore ha veicolato la narrazione di una Meloni tenuta in vita – il miocardio è il muscolo cardiaco- da quella tipologia di personaggi con cui la leader di FdI non ha mai voluto avere a che fare. Vergogna, ancora una volta. L’aria di supponente gravità con cui parla snocciolando le sue verità è insopportabile. Rincuora leggere i commenti sulla pagina Fb del programma, che pure dovrebbe essere seguita da “amatori” : oramai per Formigli e la sua trasmissione prevale la presa in giro. C’è l’ironico: “Ma dai, un’altra puntata contro la Meloni…Che strano”. C’è chi sa che ormai si tratta di una trasmissione a tesi preconfezionate: “Programma penoso a trazione bandiera rossa a tutto spiano, tutte le puntate sono uguali”. C’è chi si indigna, nonostante politicamente non la pensi come FdI.  “Se non si è d’accordo va bene non esserlo.  Ma nello stesso tempo è la donna più insultata, ingiuriata e minacciata. Eppure in questo caso per chi pontifica uguaglianza, libertà, rispetto è giusto così: e la donna Meloni viene demonizzata, offesa:, leggo frasi contro la figlia o il compagno vomitevoli che se era donna di SX sarebbero già in galera. Questo la dice lunga su un certo pensiero ipocrita. Il Maestro Pier Paolo Pasolini anni fa aveva scritto un libro a riguardo: “II Fascismo degli antifascisti”.

Saviano va a processo per insulti alla Meloni. Il vizio dei radical chic. Francesco Maria Del Vigo il 6 Novembre 2021  su Il Giornale. Lo scrittore in tv ha offeso la leader Fdi. Le campagne d'odio contro Berlusconi e Salvini. Partiamo con un'avvertenza: in un Paese normale questa non sarebbe una notizia. Ma nel nostro lo è. Anche di un certo rilievo e non solo per i nomi delle persone coinvolte. Più che altro per le loro idee politiche. Ieri il gup di Roma ha rinviato a giudizio Roberto Saviano con l'accusa di diffamazione nei confronti di Giorgia Meloni: andrà alla sbarra nel novembre del 2022. E la notizia è questa: offendere qualcuno di centrodestra è perseguibile penalmente, anche se a farlo è un «papa» dell'intellighentia radical. Una novità, in questo Paese al rovescio dove chi si nasconde dietro all'etichetta del buonismo può fare quotidianamente - a reti, giornali e siti unificati -, professione d'odio. L'autore di Gomorra, con la delicatezza che lo contraddistingue, lo scorso 7 dicembre aveva apostrofato come «bastarda» la leader di Fdi (e pure il segretario della Lega). Non in una discussione da bar al terzo giro di lambrusco, ma nello studio di Piazzapulita su La7, quindi di fronte a qualche milione di italiani, durante un dibattito sull'immigrazione. C'è tutto il canovaccio tipico dell'assalto buonista: lo scrittore engagé che con la scusa di difendere i più deboli diffama gli avversari politici; il conduttore e gli ospiti compiacenti - di solito accorate vestali del galateo politicamente corretto - che non battono ciglio. Insulti, per altro, nei confronti di una donna. A parti invertite, con uno scrittore di destra che diffama una politica di sinistra, probabilmente avrebbero fatto irruzione i caschi blu dell'Onu direttamente in studio. Insulti che lo scrittore ha rivendicato in tribunale, come ha raccontato l'onorevole Andrea Delmastro delle Vedove, legale della leader di Fdi: «Mi puntava il dito in faccia dicendo non vi mollo, non vi mollo. In tanti anni da avvocato non mi è mai capitato di vedere un comportamento del genere». Ma d'altronde il caso Saviano appartiene a una lunga letteratura dell'odio radical chic, esiste una vera e propria scuola dell'insulto che ha le sue fondamenta in due principi: la presunta superiorità morale, culturale e financo antropologica di una certa sinistra e la vigliacca, ma motivata, convinzione che la si possa sempre fare franca. Perché la sinistra forcaiola diventa subitaneamente garantista con i compagni che sbagliano, lo faceva con quelli che sparavano pallottole, figuriamoci con quelli che sparano boiate. Uno dei primi bersagli è stato Silvio Berlusconi. Impossibile riepilogare tutti gli insulti recapitati nei suoi confronti, ci ha provato Luca D'Alessandro nel 2005 e ha tirato fuori un libro di 230 pagine. Sono passati più di 15 anni e solo con quelli collezionati da Marco Travaglio e dai suoi sodali si potrebbero mandare in stampa almeno un paio di tomi. Ma la mannaia dell'offesa si è abbattuta con violenza anche contro esponenti di Forza Italia come Renato Brunetta, Mara Carfagna e Renato Schifani. Tuttavia Giorgia Meloni, negli ultimi anni, è finita al centro di un crescendo di attacchi violenti e sguaiati. Quasi sempre senza contraddittorio. Ricordiamo i più noti: pochi mesi fa Giovanni Gozzini, ordinario di Storia contemporanea dell'università di Siena, la ha definita «pesciaiola, vacca, scrofa». Dopo una lunghissima polemica è stato punito con tre mesi di sospensione senza stipendio. Oliviero Toscani nel 2018 la «ritrae» come «brutta, volgare, ritardata». Ma il fotografo ormai ama impressionare più con l'offesa che con le sue opere: non più tardi di due giorni fa ha definito Salvini come «un uomo dalla morfologia preistorica», rimpinguando la folta lista di quelle offese che mirano a disumanizzare il nemico. Tornando alla Meloni: nel 2017 Asia Argento la incontra al ristorante, le scatta una foto e la pubblica su Instagram: «La schiena lardosa della ricca e svergognata fascista ritratta al pascolo». Interessante notare come non esista il tanto di moda «body shaming» nei confronti di una donna di destra e come sia sempre irreperibile la solidarietà femminile delle varie Murgia. Gianrico Carofiglio, scrittore ed ex magistrato, da par suo ha inaugurato un nuovo filone nell'ambito dell'insulto, una avanguardia: la critica del sospiro di destra. Durante una mitologica puntata di Dimartedì analizza la mimica del leader della Lega e con sprezzo di Salvini, ma soprattutto del ridicolo, inizia a pontificare sul «modo in cui propone i suoi non argomenti, anche il suo sospirare fa parte di un manuale di tecnica di comunicazione della destra americana». Dal nemico ti ascolta siamo passati al nemico ti ausculta. D'altronde Carofiglio è un creativo, è quello che definì, con malcelato schifo, una manifestazione di centrodestra come «un manipolo di gente sudata e accalcata». Corre l'obbligo di ricordare che era il pomeriggio di un torrido giugno a Roma e non una mattinata di febbraio sulle Dolomiti, ma evidentemente tra i meriti della sinistra c'è anche quello di aver sconfitto l'antipatico problema della sudorazione sotto la canicola. Questi sono soltanto alcuni degli insulti ufficiali, di chi ci ha messo la faccia, la voce e pure la firma. Poi c'è l'oceano rumoroso di tutti gli odiatori seriali che, con la convinzione di essere dalla parte giusta, postano insulti sbagliati e beceri all'avversario politico. La caccia al «linguaggio dell'odio», una certa sinistra, dovrebbe iniziarla da casa propria. Perché grattando via lo smalto dei talebani del buonismo, troppo spesso, salta fuori un cattivismo discriminatorio e pure un po' razzista.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Roberto Saviano, raptus in tribunale dopo il rinvio a giudizio: "Mai visto una cosa del genere". Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. Ha sbroccato in aula Roberto Saviano dopo che il giudice gli ha comunicato il rinvio a giudizio per diffamazione per aver dato della "bast***a" a Giorgia Meloni. Lo scrittore andrà dunque a processo. Il gup infatti ha definito "esorbitante, rispetto al diritto di critica politica, l'epiteto 'bast***a'" mentre Saviano in aula ha rivendicato le sue parole. Lo scrittore, racconta l'onorevole Andrea Delmastro delle Vedove, legale della leader di Fratelli d'Italia, "mi puntava il dito in faccia dicendo 'non vi mollo, non vi mollo'. Non credo sia un comportamento consono a un'aula di tribunale e in tanti anni da avvocato non mi è mai capitato". L'autore di Gomorra aveva insultato la Meloni durante una puntata di Piazzapulita su La7 a dicembre dell'anno scorso. In studio da Corrado Formigli si parlava degli sbarchi degli stranieri nei nostri porti e più in generale delle politiche di immigrazione. Ad un certo punto Saviano ha sbottato e (rivolto a Meloni e Salvini) mentre sullo schermo scorrevano le immagini del piccolo Youssuf, il bimbo di 6 mesi morto nel Mediterraneo, ha tuonato: "Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: taxi del mare, crociere. Mi viene solo da dire 'bast***i, come avete potuto? Come è stato possibile?". Secondo Saviano "è legittimo avere un'opinione politica ma non sull'emergenza. L'unica strategia è accedere una immigrazione controllata, con i corridoi umanitari. Togliere le Ong è servito solo a non avere testimoni". La prima udienza del processo è stata fissata per il 15 novembre 2022.  

Roberto Saviano rinviato a giudizio, la stoccata di Nicola Porro: "Guardatevi questo video". Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. Sul sito di Nicola Porro è stata riportata la notizia di Roberto Saviano finito a processo dopo la querela di Giorgia Meloni, che era stata definita “bastarda” insieme a Matteo Salvini nel corso di una puntata di Piazzapulita - la trasmissione condotta da Corrado Formigli su La7 - andata in onda verso la fine del 2020. “Ogni opinione è sacra - si legge sul sito di Porro - ma l’insulto insomma, almeno quello andrebbe limitato. Soprattutto quando viene usato da chi, poi, si erige a sostenitore di leggi contro l’odio in stile ddl Zan”. Poi è stato pubblicato il video di quella puntata, con invito a “godervi lo ‘spettacolo’, l’insulto e i silenzi del conduttore”: insomma Porro e i suoi collaboratori hanno proposto una lezione di coerenza per Saviano, che dovrà rispondere dell’accusa di diffamazione ai danni della leader di Fratelli d’Italia. All’epoca il dibattito sull’immigrazione era infiammato, con le posizioni di Saviano e Meloni ovviamente diametralmente opposte: il primo voleva porti aperti per tutti, la seconda il blocco navale. È finita con Saviano che ha dato della “bastarda” alla Meloni (e anche a Salvini) e con la leader di Fdi che ha deciso di querelare lo scrittore. Querela che su richiesta del pm Pietro Polidori è diventata un processo: la prima udienza è fissata per novembre 2022, ovvero tra un anno. 

Piazzapulita, Roberto Saviano contro Giorgia Meloni: "Cerca di ripulirsi ma quella è la destra in cui è cresciuta". Libero Quotidiano il 28 ottobre 2021. Si parla ancora dell'inchiesta di Fanpage su Fratelli d'Italia e la cosiddetta Lobby nera da Corrado Formigli a Piazzapulita su La7 e Roberto Saviano attacca la leader: "Quella è la destra in cui è cresciuta Giorgia Meloni e in cui si sono formati i suoi uomini. La Meloni sta cercando di pulire il suo linguaggio e di rendersi simpatica alla destra liberale, di promuoversi come non è". Quindi, prosegue l'autore di Gomorra, "l'inchiesta di Fanpage non mi ha sconvolto, mi ha colpito la loro superficialità nel farsi beccare così facilmente". Formigli interviene: "Io penso che faccia fatica a liberarsene di quella destra". Ma Saviano non è d'accordo: "No, è il suo miocardio. Non ne sono convinto, non ha scelto nuove persone, ha cambiato comunicazione ma non è riuscita. a ripulire", attacca ancora. 

Saviano: «La mia vita, finita a 26 anni (e ne ho 42). Vorrei solo camminare libero». Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2021. Lo scrittore e le intimidazioni dei clan. «Vivere sotto scorta ti fa augurare anche la morte. Non sono un eroe e vorrei insozzarmi nella vita, ma anche carezzare uno ad uno chi mi ha difeso»

E ora? Avevo solo 26 anni, solo 26 anni quando tutto è accaduto. Cosa facevate voi a 26 anni? Ricordate? Si, mi prendo un dannato momento per poterlo gridare che avevo solo 26 anni, maledizione, avevo solo 26 anni quando tutto è finito. Quando mi hanno inscatolato in una blindata, quando tutto si è trasformato in una guerra di posizione. Lo faccio ora che leggo le motivazioni della sentenza che ha condannato il boss Bidognetti e l’avvocato Santonastaso per minacce mafiose. Leggo le pagine redatte dai giudici della quarta sezione penale del Tribunale di Roma, leggo le parole firmate da Roberta Palmisano la presidente del collegio, che dimostrano che fu una strategia dei boss casalesi — e di Francesco Bidognetti nello specifico — quella di intimidire, mandando un messaggio all’esterno per metterti un bersaglio sul corpo. Mi verrebbe da urlare — a tutti quelli che in questi anni hanno speculato sulla scorta alla quale sono costretto da quindici anni, a tutti quelli che mi hanno accusato e mi accusano di infangare la Campania e il meridione, perché ne ho raccontato e ne racconto la ferita — avete visto, bastardi, che non era una messa in scena, un escamotage per avere successo, magari per comprare il fantomatico attico a New York. Io sono uno scrittore. Io del mio guadagno e delle mie storie avrei comunque fatto vita.

Ho l’anima ustionata

E invece di questa vita mutilata cosa me ne faccio? Cosa dannazione me ne faccio? Dovrei metterli in fila davanti a queste verità che ora sono chiare scritte e timbrate, quei bastardi? Ricordo ogni loro nome, ogni loro ghigno, ogni dolore che mi hanno causato. Cosa dovrei fare? Accusarli? Sputargli in faccia o magari provare a convertirli all’empatia? Chiedere le loro scuse? Avrebbe senso se fossero stati sinceri; ma mentivano sapendo di mentire. Nulla ora ha senso. Il dolore subito è stato enorme. Fingo da molto tempo d’essere ignifugo ma ho l’anima completamente ustionata. Ricordo tutte le volte che io e Rosaria Capacchione abbiamo dovuto sentire l’orrida schifezza: «Chi ti vuole uccidere ti uccide subito, non dite cazzate»; e noi dovevamo quasi scusarci di essere in vita, chiedere perdono per non aver (ancora) gettato il sangue sull’asfalto. Tutti diventano esperti, ma non sanno nulla, perché le dinamiche criminali abbisognano di uno studio profondo. Le esecuzioni camorristiche, le minacce, le uccisioni obbediscono a logiche complesse: dovreste passare un mese a parlare con Rosaria Capacchione per provare solo lontanamente a capire cosa significa essere pedinati, poi querelati, poi ti entrano in casa, poi fanno riferimento al tuo intimo, e poi i proiettili, e poi le mezze voci, e poi nulla, poi ancora nulla... E poi tornano. Ma cosa dannazione ne sapete. Sono strategie difficili da comprendere, complicatissime da prevedere, e ancor meno da condividere in pubblico. A loro bastava dire: ma figurati! Se volevano farlo davvero l’avrebbero già fatto. Come se fossero onnipotenti i clan e non osservassero invece in che posizione si trova il proprio obiettivo. Eppure, esattamente come tutti si sentono allenatori della Nazionale, tutti, quando parlavano della mia vita, diventavano esperti di mafia.

Augurarsi la morte

Sarebbe forse stato meglio se mi avessero ammazzato. L’ho pensato, lo penso ancora. Sono ancora in tempo risponderebbe qualcuno.Ma chi te’ pens , i soliti ne farebbero eco. Nemmeno riesco più a ricordare? Avevo 26 anni e ora ne ho 42. Vivere sotto costante artiglieria ti fa vivere nella paura della morte? Magari. Ti fa augurare la morte. Alla protezione devi associare la fama, la visibilità, l’aver deciso di prendere parte all’agone. Vivi la delegittimazione, l’osservazione continua in chi cerca l’errore per far cadere le tue tesi, il tuo impegno; occhi che spiano, sguardi che registrano, politici che misurano la propria campagna elettorale su di te. E poi l’orrida invidia delle ciurme di mestieranti: invidia di cosa poi, di questa merda? Le piazze piene? I teatri tracimanti di persone? I milioni di libri venduti? La credibilità internazionale? Prendeteveli, maledetti bastardi. Ma debbo confessare, dopo tanti anni, la mia ingenuità. L’ingenuità di credere che si potesse cambiare raccontando, mettendo insieme parole; e che le persone potessero decidere di aggiungere le proprie parole alle mie, e iniziare una trasformazione vera del presente. Quanta fragile ingenuità.

Avevo 26 anni

Molte cose sono cambiate, vorrei gridarlo che moltissima luce è stata fatta e che ogni pagina scritta e letta è stata una torcia. Ma non riesco a crederci per davvero. E ora che sono davanti a questa sentenza, ora che leggo le motivazioni che tracciano le ragioni della mia sofferenza, della mia non vita, che faccio? Provo a spiegare cosa furono quelle minacce? Provo a registrare in breve cosa — e quanto — voleva dire quel maledetto proclama letto in un Tribunale e che ha peggiorato la mia vita, che era già blindata?

L a strategia era quella di mettermi a tacere, in qualsiasi modo. Il messaggio fu semplice: se la Corte d’Assise d’Appello confermerà le condanne emesse nel primo grado del processo Spartacus, colpiremo chi ci ha tormentato da decenni in Campania senza mai desistere (e spesso da sola!), colpiremo Rosaria Capacchione. E colpiremo chi aveva acceso la luce e ci ha fatto «andare in America» (come disse il boss Antonio Iovine, nel corso del suo esame durante il processo che si era tenuto a Napoli), colpiremo Roberto Saviano. La traduzione doveva essere chiara solo a chi intendeva, come sempre è la semantica mafiosa; comprensibile per chi deve intenderla, ma allo stesso tempo oscura, proprio per poter sempre sostenere di aver detto tutt’altra cosa. C hiara per pochi, incomprensibile per i più. È la prassi esoterica perenne della sintassi mafiosa. Quel documento voleva dire: con gli ergastoli sulle spalle noi non temiamo di colpire. Avrebbe dovuto temere lo Stato. Se ve li ammazziamo, chi perde la faccia? Chi perde le elezioni? Chi perde carriera? Non noi. Spostate il processo, rivedete le condanne, ammorbidite le pene e noi li risparmiamo. In caso contrario vi abbiamo avvertito. Lo capirono a Napoli l’allora sostituto procuratore della Dda Antonello Ardituro, che condusse le indagini, poi il sostituto Alberto Galanti, che ha sostenuto l’accusa nel processo tenutosi a Roma. E ora che vi ho raccontato quanto è accaduto cosa cambia? Avevo solo 26 anni, questo penso. E mi disprezzo per non aver saputo salvare la mia vita; per non essere stato in grado di mollare senza rilanciare, quando ancora potevo farlo. Per non aver taciuto, per aver continuato a lottare. Oggi mi accorgo che più si parla di potere criminale e più questo Paese ha vergogna. Dinanzi a questa viltà, a questo non sapere — e volere — agire e a questo non sapersi unire, durante tutti questi anni, la soluzione è stata spesso dire, e scrivere, che ero io il pagliaccio, come mi appellò don Nicola Schiavone a Casal di Principe. La scorciatoia è stata vomitare che ero io l’errore e che queste cose sempre ci sono state e per sempre ci saranno.

Non sono un eroe

Perché è stata permessa una tale schifezza? Io non sono un eroe, non mi sono mai sentito un eroe: gli eroi sono solo morti. Vorrei solo insozzarmi nella vita e immergermi negli errori, nelle cazzate. Vorrei smettere di essere il bersaglio privilegiato di quella massa di lestofanti che per negare una tua presa di posizione o anche una tua idea non sono capaci di farlo argomentando, criticando. Devono cercare il lercio, l’errore, il buco nel calzino, l’unghia sporca. E ora che ci faccio con questa sentenza? Cosa ci faccio con la verità processuale? Se avessi modo, vorrei solo carezzare uno per uno il viso di chi c’è stato, di chi c’è, di chi legge e di chi mi ha difeso. Sussurrare che mi hanno salvato la vita o quel che ne rimane. Dire a queste lettrici, a questi lettori, a chi mi ha dedicato un pensiero, un post, persino una preghiera, che devo tutto a loro. Tutto? Non tutto, ma la parte buona: quello che di me non è peggiorato, non è diventato cinico, non è incattivito, non è crollato al cospetto della delusione. E ora cosa mi rimane? Aver avvelenato la vita di chiunque mi fosse accanto in qualsiasi forma e che io non sono stato capace di difendere da quello che provavo e dalle scelte che facevo. Mi chiedo perché sto condividendo questi pensieri con voi, anche se oramai non ci credo più che per me possa cambiare qualcosa? Perché lo devo ai miei carabinieri, che in questo istante sono davanti a me, silenziosi, e che non capiscono oggi qual è il dolore del giorno: se un mio cedimento, la tensione di una lotta o chissà cosa. Ma ci sono e basta. E mi sopportano. E mi chiedo quanto deve essere pesato anche a loro vivere blindati con me, sentendo quest’infinito cachinno addosso ma con la necessità di dover presidiare ogni spazio. E ora? Ora non faccio proprio nulla. Quello che ti è stato tolto non torna più, inutile pensare che ci sia il tempo di rimediare. Non sono in grado nemmeno di dirmi che ne è valsa la pena. Non torna più nulla. Avevo solo 26 anni e ora se potessi chiederei solo di camminare libero. Null’altro.

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 26 maggio 2021. «La verità è che un processo che dura da tredici anni non ti permette più né emozioni né speranze. Lo si fa e basta, per spirito di abnegazione e impegno, oltre che per rispetto del mio avvocato Antonio Nobile e del pubblico ministero Alberto Galanti. Ero lì per questo, e per non arretrare di un passo davanti ai boss». Roberto Saviano ragiona il giorno dopo la condanna del boss Francesco Bidognetti e dell' avvocato Michele Santonastaso, per minaccia aggravata dal metodo mafioso, attuata con il proclama pronunciato contro di lui e la giornalista del Mattino Rosaria Capacchione il 13 marzo 2008, al culmine del processo Spartacus a 115 membri del clan camorristico dei casalesi. Un evento senza precedenti nella storia giudiziaria italiana. Accadeva in un' aula di tribunale, nella fetta di Campania dove i casalesi dettavano legge. E lunedì, in un' aula del tribunale di Roma, a tredici anni e duecento chilometri di distanza, Saviano ha ascoltato in aula la lettura della sentenza di primo grado che gli ha reso giustizia come parte civile.

Qual è il sentimento più forte che hai provato durante la lettura della sentenza?

«Empatia con il mio avvocato che si è commosso, mostrando un bene che è così raro in uno spazio tecnico e feroce come quello della giustizia. Le sue lacrime sono state per me un dono prezioso in una lotta lunghissima».

Pensi di aver ottenuto la giustizia che cercavi? Ora ti senti, in qualche modo, vincitore?

«Non mi sento vincitore, perché sono a pezzi. Con una vita costretta, maciullata, non ci può essere nessuna vittoria. Ma è una sentenza epocale».

Perché?

«Per la prima volta una sentenza ha scritto che un boss ha utilizzato un suo avvocato per pronunciare una minaccia alla parola, leggendo in un tribunale, nel corso di un processo, un documento che dietro l' apparenza di un' istanza di trasferimento per legittima suspicione diceva: se condannate tutti i boss del clan dei casalesi, questi due sono i responsabili. In sostanza mi attribuivano la colpa di aver costruito mediaticamente il problema camorra. Un' accusa che, per la verità, non mi fanno soltanto i mafiosi».

Per molti, questa vicenda che all' epoca fece scalpore e suscitò indignazione, a distanza di tempo era dimenticata. Tredici anni per una sentenza: che cosa vuol dire per te che ne eri protagonista, in quanto vittima, una giustizia così lenta?

«È una giustizia che i clan conoscono bene. Sanno perfettamente che quando commettono i loro reati, omicidi compresi, saranno chiamati a risponderne a distanza di anni, se non di decenni. Quando saranno morti o comunque alla fine del loro mandato criminale, e in questo caso aspetteranno ancora la sentenza definitiva e a quel punto, pentendosi, potranno persino trarne benefici giudiziari. Una giustizia lenta significa permettere alle organizzazioni criminali di contare su una sostanziale impunità, anche in caso di condanna».

Dall' uscita di Gomorra sono passati quindici anni. Ti senti cambiato?

«Profondamente, e non credo in meglio. Sento più diffidenza, più rancore. Mi sento schiacciato dal peso inesorabile che comporta vivere in queste condizioni e sotto queste pressioni».

Come resisti?

«Ho assunto, credo, gli strumenti di una certa saggezza. Conoscere le dinamiche di potere mi ha spesso profondamente depresso, ma allo stesso tempo mi sono reso conto che le tracce di vita che mi avevano sempre nutrito - la conoscenza, lo studio, i libri - proprio come all' origine della mia formazione, così adesso, sono la mia salvezza. In questo sono rimasto identico».

La percezione della camorra nell' opinione pubblica è cambiata da allora?

«Sì, come se ormai la camorra fosse considerata problema risolto. È giusto non considerarla un' emergenza, perché si tratta di un potere costante e permanente della società italiana, ma ormai è percepita come fisiologica. Nell' opinione pubblica non sento più la spinta di allora, forse perché il sangue si è decisamente ridotto».

La camorra è meno sanguinaria?

«Gli omicidi ci sono sempre, la camorra continua a essere l' organizzazione criminale più sanguinaria d' occidente. Però si è ridotto il volume di sangue rispetto agli anni precedenti, e tanto basta. La percezione nazionale è che si spara meno, quindi si tratta di un problema delegabile alla polizia, come un' ombra che si è allontana. Un errore, ovviamente, perché probabilmente mai come oggi sono forti le organizzazioni criminali».

Ripensando a questi quindici anni, qual è la cosa che più ti ha sorpreso, se non stupito?

«Domanda difficile. In positivo la costanza di chi mi ha seguito, le migliaia di persone che sono state intorno alle mie parole, alla mia battaglia, alla scelta di raccontare. Continua a stupirmi, questo calore nutrito di voglia di conoscenza».

E in negativo? Che cosa o chi ti ha deluso di più?

«Le cose che più mi hanno deluso sono infinite».

L' ultima?

«Che l' altro ieri, alla lettura della sentenza, non c' era nemmeno un collega in aula. E che dopo la sentenza non c' è stata nessuna forma di dibattito, nessuno spirito di condivisione».

Ti sei dato una spiegazione?

«Tranne casi rari, scrittori odiano scrittori e giornalisti disprezzano giornalisti. Ci si accanisce l' un contro l' altro per un mercato minuscolo di pochissimi lettori, in un caos di attenzione. Quindi in una situazione del genere, con alcune eccezioni, è impossibile contare su un fronte comune. Neanche quando è un boss ad aver minacciato la libertà di espressione, e la semplice parola ha messo paura a un clan, al punto da costringerlo a emettere una condanna a morte per chi l' ha pronunciata. Questo, sì, mi ha deluso. Ma è una delusione di cui facilmente potevo prevedere l' esito».

La lotta alle mafie è oggi una priorità, nel dibatti pubblico e nell' agenda politica?

«No, la lotta alle mafie non è una priorità. L' agenda politica la tiene al margine, delegando solo a magistratura e forze di polizia l' attività di repressione. In una fase, peraltro, in cui la credibilità della magistratura è in crisi come mai prima».

Ricordando Falcone, il presidente della Repubblica Mattarella ha detto a Palermo che la perdita di credibilità della magistratura indebolisce la lotta alle mafie.

«Condivido e sottoscrivo parola per parola, così la lotta alle mafie diventa sempre più difficile da fare».

Qual è la mafia, o il clan, che oggi meriterebbe una attenzione come quella che Gomorra, prima come libro, poi come film, infine come serie, ha dato alla camorra dei casalesi?

«Dovrei rispondere, naturalmente, che la centralità delle organizzazioni calabresi oggi è sempre più forte. Ma è quello che conta è il metodo. Vale per i clan calabresi, come per quelli foggiani, potentissimi: il racconto deve coinvolgere. E quindi dico che decisivo è il metodo di scrittura. La necessità di mostrare come queste organizzazioni appartengono alle nostre vite. Non vanno considerate come eccezioni o escrescenze mostruose. Se così fosse, sarebbe facile contrastarle. Ma purtroppo non è così».

E quindi?

«Per questo c' è ancora una grande necessità di racconto».

Saviano: «Da 15 anni sotto scorta: ora basta, uccido io Saviano per riprendermi Roberto».  Antonio D’Orrico su Il Corriere della Sera l’8 Ottobre 2021. Lo scrittore intervistato da Antonio D’Orrico: «Il 13 ottobre saranno 15 anni che vivo sotto protezione. A volte penso che persino morire sarebbe stato più accettabile di vivere così, sono il martire che non è morto».

Whatsapp 16 settembre: «Caro Antonio, qui Roberto Saviano, sono davvero contento che sia tu a intervistarmi su questo libro per me atipico, perché nella forma del fumetto, ma al quale sono molto legato. Mi hanno detto che per te va bene raggiungermi a Roma. Aspetto tue per organizzarci. Ti abbraccio forte assaje»

Whatsapp 16 settembre: «Ciao Roberto, che bello sentirti. Sarei a Roma dal 22 al 24 settembre. Dimmi tu».

Whatsapp 16 settembre: «Per me il 23 sarebbe ottimo. Se non piove potremmo farci una passeggiata a Villa Borghese (io ahimè sempre scortato). Che ne dici?»

Whatsapp 16 settembre: «Ho dato un’occhiata al libro, è disegnato benissimo. Alle 10.30 a Villa Borghese?».

Whatsapp 16 settembre: «Perfetto! Sono felice ti piaccia Asaf. Hai visto il cartone animato Valzer con Bashir ? L’ha disegnato lui con il suo gemello (fanno spesso assieme cover per New Yorker ). Vedendo Valzer con Bashir ho pensato: se facessi un fumetto, mi piacerebbe lo disegnasse lui».

«UN FAN MI RICONOBBE IN AEROPORTO E MI GRIDÒ: MA COME, IO PREGO PER TE OGNI GIORNO E TU VAI IN VACANZA?»

Il valzer con Saviano si intitola Sono ancora vivo , l’ha scritto Roberto e lo ha illustrato Asaf Hanuka (Bao Publishing). Racconta la vita dello scrittore di Gomorra da quando giocava a Subbuteo con il fratello più piccolo, da quando (a 12 anni) accompagnò il padre a giocare la schedina e davanti alla ricevitoria la camorra uccise un uomo che si era nascosto sotto una macchina, ma per la paura si era pisciato addosso e il killer lo individuò grazie al rivolo che scorreva sull’asfalto...

Questa è la scena primaria di Gomorra (il libro, il film, la serie). Sono ancora vivo è, a dispetto del titolo, un fumetto cupo, mortuario. Whatsapp 22 settembre: «Roberto, buon compleanno. A domani». Venti minuti dopo: «Grazie, Antonio. A domani». A Villa Borghese giovedì 23 settembre non piove. Mentre aspetto Saviano penso a quando l’ho conosciuto. Natale 2005, prima di Gomorra , una notte davanti al Museo Madre. Mi raccontò la storia dell’ultimo femminiello napoletano, una storia atroce e tenera che mi aveva ricordato Malaparte. Poi l’ho rivisto una sera del 2007, già sotto scorta perché la camorra gliela aveva giurata a morte.

Era assieme ad Alessandro Piperno, quando erano i due giovani scrittori che avevano rinnovato la letteratura italiana. L’ultima volta che ci siamo visti era la primavera del 2010. L’avevo incontrato a Pietrasanta in compagnia (escalation!) di don Mario Vargas Llosa, quando ormai era diventato famoso nel mondo e di lui si cominciava a parlare come di un’icona pop, di un brand.

Ora, un decennio dopo, siamo seduti al sole su una panchina di Villa Borghese. Non è ingrassato, anche se lui dice che lo è. Tiene sempre per il Napoli solo che adesso delira per Osimhen e non per Maradona. L’intervista comincia con un’altra data.

Se dico 13 ottobre, giorno di San Benedetto martire, tu a cosa pensi?

«Che il 13 ottobre prossimo saranno quindici anni che vivo sotto protezione e che è tempo ormai di liberarmene».

Come si fa?

«Il primo passo è proprio questo fumetto che è un’esecuzione di Saviano. Dico basta, questa è stata la storia di Saviano, adesso vado a riprendermi la storia di Roberto. Mi tolgo il cognome per togliermi il simbolo».

È così difficile essere un simbolo?

«Il prezzo che ho pagato è superiore rispetto a qualsiasi prezzo avessi messo in conto. So di dirla grossa, ma a volte penso che persino morire sarebbe stato più accettabile rispetto al continuo senso di ansia e di svuotamento in cui vive chi è sotto pressione costante per tanto tempo. Io vivo come un colpevole. Nel libro racconto che una volta ho dovuto sottopormi a un’operazione chirurgica e sono stato ricoverato nello stesso posto dove vengono curati i detenuti pericolosi. Il mio stomaco vive la sua vita come un colpevole».

INCONTRO CON LO SCRITTORE

«Insieme per capire. Il coraggio di raccontare: Roberto Saviano e Marco Imarisio»: lo scrittore e l’inviato del Corriere saranno in collegamento online il 13 ottobre dalle 11 alle 12.30. L’incontro, a cura di Fondazione Corriere della Sera ed Esselunga, è rivolto a studenti e docenti delle superiori (Partecipazione gratuita con prenotazione obbligatoria sul sito fondazionecorriere.it)

Non puoi scappare, andare via?

«Ho provato e non è stato facile. Tra l’altro, dove vado? Sono fisicamente riconoscibile, la mia immagine è nota. Una volta ho visto Dan Brown. Era già famosissimo per Il Codice Da Vinci , il libro che ha venduto di più nella storia da quando esiste il codice ISBN, eppure camminava tranquillamente per Milano. Nessuno lo riconosceva. L’ho invidiato con tutto il cuore. Per me non è possibile. Un giorno entro in un palazzo a New York e il portiere messicano subito esclama: “Lo scrittore italiano”. Io nego e gli do un documento falso in cui mi chiamo David Dannon. Lui capisce e abbozza. Ma sapeva benissimo che ero io».

Nel fumetto Asaf Hanuka ti disegna come il Minotauro chiuso nel suo labirinto.

«Sono in lockdown da quindici anni. Tengo gli armadi al centro della stanza per correre lungo il perimetro delle stanze. Non riesco più a dormire. Cerco di staccare con la testa. Ho sempre le cuffiette accese perché se no i pensieri mi mangiano. E siccome la testa rischia di partire lo stesso, allora quando ascolto audiolibri o podcast ripeto in testa quello che sento. Ho ascoltato di recente Todo Modo ripetendo le parole che il lettore stava leggendo. Questo è il frutto di quindici anni di vita sotto protezione».

E tu sei stanco, non ce la fai più.

«Anche la gente è stanca. Io sono il martire che non è morto. Una contraddizione in termini. Come se non avessi onorato il compito assegnatomi. Ogni giorno che passa qualcuno si chiederà: “Ma non doveva morire? Io gli ho voluto bene perché era disposto al sacrificio, ma se il sacrificio non viene...”».

Nel fumetto citi due frasi. Una di Giovanni Falcone: «Mi daranno ragione uccidendomi». L’altra del tuo gemello in fatwa Salman Rushdie che ti disse: «Ti faranno colpa della tua vita».

«Sono stato ambizioso. All’inizio ci ho creduto. Mi sono detto adesso faccio il culo a questi maledetti camorristi. Una sera a Bologna l’intera piazza era piena come a un concerto. A quale scrittore succedeva una cosa del genere? Mi ricordo che, prendendomi per il culo (come fa lui: sembra che ti stia prendendo per il culo, ma ti sta dicendo una verità, una verità di cui un po’ si vergogna e te la mette sotto forma di ironia), Piperno una volta mi ha detto: “La gente crede che tu sia D’Annunzio, non Pasolini come pensi tu. La gente si aspetta che tu, come D’Annunzio, prenda Fiume, che tu diventi un condottiero”».

Cosa gli rispondesti?

«Che le cose non stavano così. Invece aveva ragione. Mi veniva chiesta Fiume: vai a Casal di Principe, prendila. E poi il rapporto tra me e il mio pubblico è diventato mistico».

Fammi un esempio.

«Ero in un aeroporto e un fan mi vide e cominciò a gridare: “Ma come, vai in vacanza? Io prego ogni giorno per te e tu vai a divertirti?”».

Preferisco i finali più sfumati (come quello sublime dei Sopranos ). Propenderei per evitare il finale di stagione con te morto ammazzato a dimostrare che avevi ragione (come Falcone profetizzò di sé stesso).

«Il fatto è che io ormai ho stancato (camorra, migranti vengono spesso percepiti come storie secondarie). Ti faccio un esempio. Dopo 13 anni di processo hanno finalmente condannato Francesco Bidognetti, il boss che mi ha costretto a questa vita».

Quello che chiamavano Cicciotto di Mezzanotte?

«Proprio lui».

Perché questo soprannome?

«Cicciotto sta per Francesco. Su Mezzanotte ci sono due versioni. Per la prima, più prosaica, lui all’inizio faceva il magnaccia e quindi usciva di notte. Per la seconda, più epica, se lo ostacolavi lui ti faceva calare la mezzanotte sugli occhi».

Mi dicevi che è stato condannato.

«Per minacce con l’aggravante mafiosa. Una sentenza importante. Certifica che uno scrittore con le sue parole ha messo paura ai clan. Mi aspettavo un dibattito mediatico su questa cosa, invece è passata sotto silenzio. La risposta a questa sentenza è stata: sticazzi, è roba che sapevamo già».

Questo “sticazzi” cosa ti fa pensare?

«Che la prova finale che io dico la verità non me la può dare un tribunale. La prova finale ce l’avrò solo buttando il sangue».

Ripeto, preferirei un altro finale di stagione. I camorristi sono uomini d’affari e devono pensare ai loro interessi. Non è possibile che la nuova generazione dei camorristi si metta a fare un altro ragionamento, assuma un altro punto di vista: quasi di gratitudine nei tuoi confronti? Magari potrebbero dirsi: ci ha fatti diventare famosi a livello internazionale, ci ha sprovincializzati, ci ha portati in prima serata tv con serie giunte alla ormai prossima (dal 19 novembre) quinta e conclusiva stagione. Insomma, si potrebbe chiudere qui.

«La cosa è complicata. I clan contro cui mi sono messo, i Secondiglianesi e i Casalesi, hanno avuto danni enormi. E molti a Napoli pensano che Gomorra ha distrutto Napoli. L’ha ripetuto ancora stamattina il governatore De Luca. Molti pensano che mi sono fatto bello lavando in pubblico i panni sporchi della mia terra».

Insisto. I libri che i carcerati di Poggioreale chiedono continuamente sono Gomorra e La paranza dei bambini . Il fatto che tu li racconti li lusinga. Vendicarsi sarebbe da fessi.

«I boss si innamorarono di un romanzo una volta sola. Era il bellissimo Il camorrista di Jo Marrazzo».

Intendi il grande inviato Rai? Quello che intervistò il boss calabrese don Mommo Piromalli, il quale a domanda rispose con un’altra domanda: «Cos’è questa ‘ndrangheta di cui mi chiedete? Una cosa che si mangia?».

«Lui in persona. Marrazzo scrisse questo romanzo pazzesco in cui i nomi dei malavitosi erano tutti veri. Lo pubblicò il grande Tullio Pironti, ma critici e giornalisti non l’apprezzarono granché. Io lo lessi da ragazzino e mi sconvolse».

Quanti anni avevi?

«Avevo già il motorino, quindi 14 anni. Senza Il camorrista non avrei mai scritto niente, non avrei mai avuto il coraggio. Fu la mia folgorazione».

Mi metto, non lo chiedo ovviamente a te, nei panni dei camorristi che ti hanno condannato a un lockdown fine pena mai. Anche la loro non è una bella situazione. Secondo il codice dell’organizzazione sono tenuti a eseguire la sentenza.

«La mia esistenza è la dimostrazione della loro assenza di palle. Spero che questa dinamica cada con le nuove generazioni. Queste, da una parte, hanno visto le mie serie e quindi quasi dicono: Uau! Dall’altra parte, hanno quasi l’obbligo sociale a schifarmi».

Cerchiamo di chiudere in bellezza. Uno dei miei miti è James Gandolfini, il protagonista della serie più bella di tutte, i Sopranos . Sono andato perfino in pellegrinaggio nel suo paese natale, Borgotaro. In Io sono ancora vivo accenni al fatto che Iames, come lo pronunciano a Borgotaro, ha letto Gomorra . Mi dici qualche dettaglio in più?

«Una ragazza mi raccontò che durante una cena Gandolfini lesse una pagina di Gomorra in inglese. La lesse con l’accento giusto, quello dell’italiano di Cosa Nostra. È la pagina in cui il bambino dice: “Da grande io voglio entrare in un negozio e nessuno mi deve far pagare, voglio avere a fianco la donna più bella e poi voglio morire, ma ammazzato come muoiono gli uomini veri”».

Da brividi, con la voce di Tony Soprano poi.

«Cercai di mettermi in contatto con Gandolfini, dopo averlo saputo, ma non ci riuscii. Ho saputo solo che Gomorra aveva girato tra i produttori dei Sopranos ».

Questo per me è il miglior complimento che ti abbiano mai fatto. Una ragione per vivere. A proposito, nel libro elenchi alcune cose per cui vale la pena di vivere. Una è trovarti con una persona a te cara davanti alla tomba di Raffaello. Bella scena (anche se un po’ mortuaria), mi spieghi il perché di questa scelta?

«Perché una volta mi sono trovato lì al Pantheon».

Eri solo?

«Ero solo ma avrei voluto non esserlo e quella frase, l’epitaffio di Pietro Bembo, mi ha conquistato: “Qui giace Raffaello. Lui in vita, la Natura temette di essere sconfitta. Lui morto, temette di morire anch’essa”».

Le cose se non sono rappresentate, se non sono raccontate, è come se non fossero esistite. La camorra dovrebbe ragionare sulle parole di Bembo.

«Però il mio epitaffio, l’epitaffio che riassume perfettamente la mia situazione, non l’ha scritto Bembo. L’ha scritto Truman Capote con la citazione che apre Preghiere esaudite , le parole di Santa Teresa d’Avila».

Sospetto che non sia una citazione. L’ho cercata a lungo nell’opera omnia di Santa Teresa, ma non sono riuscito a trovarla.

«Se l’è inventata Capote?».

Penso proprio di sì e questo la rende ancora più preziosa, una frase falsa più vera del vero. A questo punto dilla, che i lettori hanno avuto già abbastanza suspense.

«La frase dice: “Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte”».

È Gomorra la tua preghiera esaudita?

«È il sogno a lungo desiderato di diventare uno scrittore».

Un’ultima cosa su Gomorra , la serie. È una scelta di casting o è un caso che Ciro l’Immortale di Marco D’Amore ti somigli come una goccia d’acqua?

«Diciamo che quando è capitata questa cosa è stata assecondata. Marco doveva fare Genny. Anche il cognome ammiccava: Savastano/Saviano. Gli sceneggiatori volevano marcare un’ambiguità. La pelata di Ciro ricorda me. Ciro è dissidente come me, non è figlio d’arte come non lo sono io. E, soprattutto, incarna la regola principale che ho premesso a tutta la serie: non fidarsi di nessuno. Questa è la mia condanna più grave. Fino in fondo fino in fondo fino in fondo, io non riesco a fidarmi di nessuno».

Ma di te stesso ti fidi?

«No».

Whatsapp 29 settembre (giorno in cui sono state depositate le motivazioni della sentenza di condanna al boss Francesco Bidognetti e al suo avvocato Michele Santonastaso per minacce a Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione): «Hai visto Anto’, i giudici dicono che questi avevano una precisa strategia per cercare di fermare le parole, ma vedrai non fregherà a nessuno. Come ci siamo detti sulla panchina di Villa Borghese: sticazzi sempre».

Le motivazioni della sentenza sulle minacce della Camorra. Roberto Saviano e i 16 anni sotto scorta: “Meglio se mi ammazzavano, vorrei solo camminare libero”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Settembre 2021. Roberto Saviano è ferito, dolorante, incazzato e sofferenze, rancoroso e grato. È tutto questo e tutto quello che gli è passato addosso e dentro in 16 anni: da quando gli venne assegnata la scorta fino a quando una sentenza ha condannato il boss del clan dei Casalesi Francesco Bidognetti e il suo avvocato Michele Santonastaso – rispettivamente a un anno e mezzo e un anno e due mesi – per le minacce a Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione. “Quello che ti è stato tolto non torna più – scrive Saviano – inutile pensare che ci sia il tempo di rimediare. Non sono in grado nemmeno di dirmi che ne è valsa la pena. Non torna più nulla. Avevo solo 26 anni e ora se potessi chiederei solo di camminare libero. Null’altro”. E lo scrittore ripercorre quelle fasi, dice di non essere un eroe perché “gli eroi sono solo morti” e che deve tutto a “chi legge” e a “chi mi ha difeso”, e ringrazia i carabinieri della sua scorta. “Mi verrebbe da urlare – a tutti quelli che in questi anni hanno speculato sulla scorta alla quale sono costretto da quindici anni, a tutti quelli che mi hanno accusato e mi accusano di infangare la Campania e il Meridione, perché ne ho raccontato e ne racconto la ferita – avete visto, bastardi, che non era una messa in scena, un escamotage per avere successo, magari per comprare il fantomatico attico a New York. Io sono uno scrittore. Io del mio guadagno e delle mie storie avrei comunque fatto vita”. Saviano, dopo quel bestsellers mondiale che fu Gomorra (edito da Mondadori), non ha smesso di scrivere, libri soprattutto, romanzi e saggi, e una serie tv di enorme successo, Gomorra, fiction ispirata alle vicende dei clan della Camorra la cui ultima stagione uscirà questo autunno. La lunga riflessione, o accusa, di Saviano dalle pagine de Il Corriere della Sera, con il quale collabora da inizio 2021, all’indomani del deposito delle motivazione della sentenza. “La minaccia e l’intimidazione” furono “espressione di una precisa strategia ideata” dai boss dei Casalesi, hanno scritto i giudici della Quarta sezione penale del Tribunale di Roma nella sentenza con la quale il 24 maggio hanno condannato a un anno e mezzo Francesco Bidognetti e a un anno e due mesi il suo avvocato, Michele Santonastaso. Per i giudici Bidognetti avrebbe minacciato in aula Saviano e Capacchione, durante l’appello al maxi processo Spartacus attraverso un’istanza di rimessione dei giudici “influenzati” dalle parole scritte “dai giornalisti prezzolati”. Si legge ancora nelle motivazioni: “L’ostentata indicazione dei due giornalisti non funzionale al fine processuale, non può che essere interpretata come un attacco diretto con una forte valenza di minaccia, amplificata dalla lettura in aula che fu del tutto irrituale”. Da quel momento Capacchione fu messa sotto scorta e quella di Saviano venne rafforzata. “Ricordo tutte le volte che io e Rosaria Capacchione abbiamo dovuto sentire l’orrida schifezza: ‘Chi ti vuole uccidere ti uccide subito, non dite cazzate’; e noi dovevamo quasi scusarci di essere in vita, chiedere perdono per non aver (ancora) gettato il sangue sull’asfalto” e invece “esattamente come tutti si sentono allenatori della Nazionale, tutti, quando parlavano della mia vita, diventavano esperti di mafia”. E invece “sarebbe stato forse meglio se mi avessero ammazzato, l’ho pensato, lo penso ancora. Sono ancora in tempo risponderebbe qualcuno. Ma chi te’ pens, i soliti ne farebbero eco. Nemmeno riesco più a ricordare. Avevo 26 anni e ora ne ho 42. Vivere sotto costante artiglieria ti fa vivere nella paura della morte? Magari. Ti fa augurare la morte”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Uno vale l’altro. I miei 26 anni, quelli di Saviano e la scoperta che no, non siamo tutti uguali. Guia Soncini su L’Inkiesta l’1 ottobre 2021. In quest’epoca abituata ad appiattire ogni differenza e a punire chi non si adegua, allinearsi diventa necessario, a volte consigliato. Non aiuta se si vuole passare alla storia, ma importa poco se lo Zeitgeist è che tutto è uguale, più o meno. A ventisei anni piangevo tutti i giorni. Per niente di rilevante: lavoravo per uno che mi trattava malissimo. Trattava malissimo tutti, ma gli altri piccoli indiani vivevano chi coi genitori, chi con un marito: alla fine restammo in due, i due che dovevano fatturare per pagare l’affitto, e ormai per quel palinsesto lì non avevamo alternative. Oggi che la gerarchia dei traumi è così appiattita che quello che ti fischia per strada e quello che ti accoltella pari sono, i miei ventisei anni sono tali e quali a quelli di Roberto Saviano. E invece non è tutto uguale, come ha ricordato proprio Saviano ieri sul Corriere, ricordandoci che è da quando aveva ventisei anni che fa quella vita di merda di cui ci dimentichiamo quando alziamo gli occhi al cielo sul savianismo, sulla sua vanità, sui suoi anelli, sulla sua prosa. Se a 26 anni non fosse diventato uno che non poteva più andare al bar senza scorta, magari a 42 scriverebbe comunque come il doppiaggio d’un poliziesco (nell’articolo di ieri ci sono tre «bastardi», due «dannati», un «dannazione», due «maledetti», un «maledizione»: inspiegabilmente, nessun «fottuto»); se allora avesse avuto una giovinezza normale, adesso magari avrebbe comunque un’adultità giovanile (ce l’hanno tutti i suoi coetanei, mica pretenderemo che sia un quarantenne cresciuto solo lui); ma, se allora avesse avuto i problemi piccoli dei piccoli ventisei anni di tutti noi, adesso se ne potrebbe parlare – di lui, della sua scrittura, del suo ego – senza pensare innanzitutto: sì, ma se io avessi avuto una vita così di merda mi sarei buttata dalla finestra dopo una settimana. Per concentrarti sul lessico devi sapere che quello che lo utilizza ha una vita tranquilla, quindi ieri mi sono concentrata su Virginia Raggi che chiede a Nicola Porro di parlare per ultima nel suo programma, e una volta certa che non ci siano repliche dopo il suo intervento insolentisce Carlo Calenda, e Porro che lo racconta in un video, e Calenda che lo rituitta indignato. Ma non mi sono concentrata sulla questione centrale – la tredicennitudine di tutti e tre – quanto su Porro che, in un minuto e mezzo di video, dice tre volte «fair», giacché il suo pubblico (ma pure l’elettorato di Raggi e Calenda) è di Bristol, o forse del Tufello: è uguale. Non è tutto uguale, il capufficio stronzo e la vita sotto scorta, ed è impossibile non notare quanto lo sguardo sulle cose cambi le cose stesse (non è mia: c’è un tizio che parecchio tempo fa ci ha vinto un Nobel per la Fisica – anche se io a uno che elabora ’sto concetto gli darei innanzitutto il Nobel per la Letteratura). Chi è garantista con Mimmo Lucano non lo è con Luca Morisi, per dire; anche se chi è garantista solo con gli amici suoi dirà sempre – proprio come chi è femminista solo con le amiche sue – che non è quello il punto, certo che le responsabilità penali dovranno essere accertate, ma quelle morali, signora mia. Certo che ha diritto a un processo, ma la cattiveria on line è tutta colpa sua, se pubblicava la foto di una che faceva un gestaccio a Salvini poi era responsabile di tutti i fessi che andavano a insultarla. Non come noi, che siamo i buoni, e pur di far sembrare più cattivi i cattivi siamo disposti a sospendere il senso del ridicolo a tempo indeterminato. Chi, su Repubblica, intervista la marchetta cui si sarebbe accompagnato Morisi, per fare un esempio di ieri, ci spiega che il tizio è «escort per necessità». Perché mica è tutto uguale: c’è chi fa marchette perché è la vita che sognava da bambino. Roberto Bolaño forse l’avrebbe chiamato «il discorso vuoto della sinistra», quello che lo annoiava davvero («il discorso vuoto della destra lo do per scontato»); Francesco Vezzoli ieri evocava l’allinearsi. Il desiderio di essere uguali. Mentre no, non siamo tutti uguali. Non sono tutti uguali neanche i carabinieri: quelli evocati da Saviano come professionisti che si sacrificano per proteggerlo, e quelli che la marchetta di Morisi avrebbe chiamato perché strafatto: «Ero alterato per la roba e volevo andarmene. Non so, mi è sembrato naturale chiamare i carabinieri». (Una volta chiamai mio padre nel cuore della notte perché, a trecento chilometri di distanza, ero a letto con uno che si stava sentendo male per una crisi d’astinenza. Avevo vent’anni, l’età che Repubblica attribuisce al romeno che, strafatto, chiama non papà ma i carabinieri. «A vent’anni si è stupidi davvero», cantava il saggio, e io non avevo neanche la scusa d’essere straniera e non conoscere le canzonette emiliane). Non sono uguali tutte le prose discutibili. Marchetta romena ventenne che dice «ammetto di non ricordare bene», e «il Ghb, la droga dello stupro», e «davanti al cascinale c’è un viale alberato», e «siccome avevo realizzato», e «ho i referti che lo provano» è un livello di orecchio per la verosimiglianza del dialogo che sta tra il brigadiere che stende il verbale e lo sceneggiatore d’una serie di Rai 1: ridatemi il doppiaggese di Saviano. Non può essere tutto uguale, gli scrittori che (non) ci piacciono e le morali che (non) siamo disposti a condannare. Allinearsi è necessario per limitare i danni d’immagine sul breve periodo, se non si vuole venire espulsi dalla società civile in un’epoca in cui Robert Mapplethorpe verrebbe accusato di oggettificare e sessualizzare i corpi neri. In cui, come ha notato l’altro giorno la sua vedova, Kurt Cobain non potrebbe mai scrivere “Polly”, una canzone su uno stupro che assume il punto di vista dello stupratore. Dice Vezzoli che «gli allineati passano alla cronaca, non alla storia»; dico io che è sempre meglio passare alla cassa che alla storia, ma anche che nessuno ha mai fatto qualcosa di culturalmente rilevante assecondando lo spirito del tempo. Vale anche se lo spirito del tempo è l’in fondo riposante attitudine a considerare che uno valga uno.

·        Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx con la rivoluzione come desiderio. Nasceva centocinquanta anni fa una delle protagoniste del pensiero della sinistra storica europea. Figura poco ricordata finanche dalle sinistre una ribelle in tutto, nella militanza e negli scritti. Emilio Gardini su Il Quotidiano del Sud il 28 febbraio 2021. Nel discorso che tiene il 31 dicembre del 1918 a Berlino, in occasione della fondazione del partito comunista tedesco, Rosa Luxemburg fa un esplicito riferimento al documento rivoluzionario più famoso della storia moderna, il Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels. Nella prima parte del discorso il richiamo al pamphlet è chiaro; il principale nemico della democrazia per i proletari è il capitalismo. Come per Marx ed Engels, per la Luxemburg, il compito dei rivoluzionari proletari è “fare del socialismo verità e realtà e sradicare il capitalismo”. In quel discorso, che sancisce la confluenza della Lega di Spartaco – partito socialista rivoluzionario che fonda con Karl Liebknecht, anni prima nel 1914 – nel partito comunista tedesco, Rosa Luxemburg, in chiara polemica con i socialdemocratici, ribadisce come una parte del marxismo “ufficiale” avesse tra i suoi intenti quello di non considerare più necessaria la lotta di classe. Come se essa fosse inattuale e non più un mezzo per l’emancipazione delle masse. Tacciare i socialisti ribelli come anarchici e addirittura anti-marxisti aveva lo scopo di dimostrare l’impossibilità della vittoria del proletariato sulle borghesie e attenuare così le reazioni del popolo. Diversamente, la Luxemburg, convinta che solo il ruolo attivo del proletariato nei processi potesse innescare il cambiamento, considerava come “vero marxismo” quello che “lotta anche contro coloro che cercano di falsificarlo”. Definita dal filosofo Gyorgy Lucaks, la principale allieva di Karl Marx, che segue meticolosamente nei suoi scritti anche filosoficamente, morirà poco dopo quel discorso, il 15 gennaio del 1919, colpita alla testa con il calcio del fucile, poi giustiziata e gettata in un canale dai paramilitari di destra (Freikorps) appoggiati dal governo tedesco di Weimar nel corso della “rivolta di gennaio”, successiva agli scioperi e alle manifestazioni di massa che da tempo avevano luogo a Berlino. Il suo corpo verrà trovato mesi dopo. Uccisa meschinamente così la più potente filosofa rivoluzionaria marxista, una figura incredibilmente troppo poco ricordata finanche dalle sinistre, una ribelle in tutto, nella militanza e negli scritti. Rosa Luxemburg nasce il 5 marzo del 1871 a Zamosoc, in Polonia, ebrea, di famiglia colta e di educazione liberale. Si trasferisce ancora bambina con la famiglia a Varsavia dove inizia la sua militanza politica entrando a far parte del partito rivoluzionario “Proletariat”. Poi Zurigo nel 1889, dove scappa dalla polizia zarista che arresta molti membri del partito. Qui si laurea, continua la sua militanza politica e scrive nel 1897 la sua tesi di dottorato sullo sviluppo industriale in Polonia. Zurigo è una città dove la sua formazione politica acquisisce un carattere completo, il contesto sociale nel quale è immersa non è la Polonia sottomessa all’autoritarismo zarista che ha sempre sofferto. Studia a fondo i lavori di Marx ed Engels, i classici dell’economia, la filosofia e la letteratura. Oltre a coltivare il suo interesse per la botanica. È una donna colta, con talento letterario, passione politica e rivoluzionaria. Si trasferisce allora in Germania, il fulcro del socialismo e del movimento operaio di fine secolo, dove diventa cittadina tedesca grazie a un matrimonio “di forma”. In Germania tra il 1898 e il 1899 scrive il bellissimo saggio Riforma sociale o rivoluzione? nel quale critica la visione revisionista che in Germania sta prendendo piede e che considera la teoria di Karl Marx inadatta a interpretare le contingenze storiche del capitalismo industriale. In particolare polemizza con gli scritti di Eduard Bernstein, il più noto tra i “revisionisti”, il quale ritiene che la fine del capitalismo non sarebbe avvenuta come Marx preconizzava perché la sua capacità di adattarsi avrebbe addirittura annullato le crisi a venire. Di conseguenza, il compito dei socialisti non è più conquistare il potere e ribaltare lo “stato delle cose” ma accettare le condizioni del momento storico cooperando con i governi borghesi. Questo significa, per la Luxemburg, rinunciare alla possibilità di cambiare la società. “Tutta questa teoria – scrive nel saggio – non conduce ad altro che al consiglio di rinunciare alla trasformazione della società, cioè allo scopo finale della socialdemocrazia, e di fare viceversa della riforma sociale lo scopo anziché un mezzo della lotta di classe”. In modo molto deciso, come nel suo stile, ritiene che la riforma sociale rimane solo una illusione se si rinuncia alla trasformazione strutturale della società per la quale la partecipazione delle classi subalterne è necessaria. Il dovere dei socialisti rivoluzionari è liberare il proletariato dall’oppressione del capitalismo. Non bisogna illudersi delle riforme messe in atto dallo Stato borghese, perché queste sono false concessioni per indebolire le coscienze delle masse. Nel 1913 scrive L’accumulazione del capitale, la sua opera più importante, così in linea con le analisi di Karl Marx che Gyorgy Lucaks le dedica uno scritto nel 1921 – che poi diventerà parte dei saggi raccolti nel suo Storia e coscienza di classe – nel quale sostiene che la Luxemburg raccoglie l’interezza dell’opera marxiana “dopo decenni di volgarizzazione del marxismo”. Il suo “marxismo internazionalista”, mosso dal desiderio della rivoluzione, è sempre stato antiautoritario e avverso ai dispotismi. Nonostante considerasse necessario il partito e avesse guardato con entusiasmo alla rivoluzione bolscevica del 1917, reale capovolgimento dell’oppressione del potere zarista, temeva le possibili derive autoritarie conseguenti alla centralizzazione del potere nelle mani di pochi. Fu anche per questo ostracizzata da una parte del mondo socialista che la considerava una mistificatrice della rivoluzione. La sua visione socialista e il suo rifiuto per l’oppressione, nel mezzo della Grande Guerra dalla quale le borghesie non riescono a tener fuori i paesi ridotti alla sofferenza, sono l’opposto del dramma che avrebbe afflitto la Germania dopo la sconfitta. L’avvento del nazismo fu la barbarie. Suona coerente, dunque, il suo motto noto “socialismo o barbarie”, forse ripreso da Friedrich Engels come lei stessa dice, o da Karl Kautsky, come alcuni sostengono, chissà. Ma non è importante. È importante invece che il sogno rivoluzionario di Rosa Luxemburg, militante e intellettuale socialista, non si spenga e possa ancora oggi orientare nell’indifferenza della politica.

·        Rosellina Archinto.

Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2021.  

Rosellina Archinto, ma quello è un Lucio Fontana?

«Sì, e quello dietro è un disegno di Fausto Melotti. Poi ci sono i due magrittini, la mia passione. Quando ero giovane guadagnavo quarantamila lire al mese e sa che cosa ci compravo? Quadri. Oggi, ogni tanto, qualcuno dei miei figli viene qua e comincia a frignare: mamma, ma perché non mi dai questo, perché non mi dai quello? Manco per sogno, sono miei e finché campo me li voglio godere qui». 

Milano, centro storico, una casa con terrazza e luce, tanti oggetti intorno, una intera libreria fatta solo di epistolari e una signora allegra che ride, parla e fuma come se avesse ancora vent' anni e ancora dovesse fare tutto quello che ha poi fatto: ha fondato tre case editrici (prima donna in Italia), una se l'è ricomprata a 82 anni, ha vissuto un matrimonio e un (secondo) lungo amore. Ha 88 anni, ma Rosellina Archinto è sempre la stessa: puntuta e divertente, gentile ma con una ruvidezza genovese.

A Genova, però, lei ci è rimasta poco.

«Era il 10 giugno del 1940 quando papà ci annunciò che era scoppiata la guerra. Ricordo che gli dissi: "Babbo ma finirà entro il mese, in tempo per il mio compleanno, vero?". Mi rispose di sì. Ma poi ce ne dovemmo andare. Trieste, Conegliano, Venezia. Papà ebbe degli scontri con la Xª MAS, rischiammo grosso». 

Poi Milano. Università Cattolica, giusto?

«Sì, a Economia noi donne eravamo delle mosche bianche, un paio, al massimo tre se la memoria non mi tradisce. Ricordo padre Agostino Gemelli che ci puntava addosso un artiglio minacciando: "Sei falsa, sei falsa". Poi quando una andava al gabinetto ci trovava la scritta "Chi si trucca è falsa". Che angoscia. Ma io il grembiule lo portavo slacciato, mica potevo ingabbiarmi in quel modo a vent' anni». 

È stato alla Cattolica che ha incontrato il conte Archinto?

«Dolce, gentile. Oddio, forse un po' troppo. Chiariamo una cosa: a me Alberico piaceva, gli volevo bene e del fatto che fosse nobile non me ne importava niente. Però dopo il matrimonio mi portò a vivere con i suoi. Con sua madre. E ho detto tutto. Poi abbiamo fatto cinque figli. In soli sette anni, eh». 

Tanti.

«Sì, e quando nacque l'ultima andai dal mio ginecologo e gli dissi: "Adesso basta,

chiudi tutto". Lui rispose: "Te lo stavo per dire io».

Due anni a New York insieme e poi il ritorno in Italia, con la decisione di fare libri per bambini, sì, ma molto raffinati.

«All'epoca la letteratura per l'infanzia era una cosa orribile: bambine ricciolute, testi mielosi. Io volevo fare libri prima di tutto belli. Così alla Emme Edizioni chiamai Leo Lionni e Lele Luzzati, ma anche Bruno Munari. Erano artisti, cercavano la bellezza. Poi venne Enzo Mari, raffinatissimo. Ma lei pensa che questo mi fece ottenere credibilità a Milano?» 

Perché no?

«Perché i grandi editori disprezzavano i miei "libretti", come li chiamavano. Pensavano che fossero il passatempo di una donna ricca e annoiata, non mi hanno mai preso sul serio. Tranne due persone: Giovanni Enriques, il patron della Zanichelli, e Giangiacomo Feltrinelli. Ero una delle poche persone che Giangi contattava una volta entrato in clandestinità».

Quanto pesava l'essere una donna?

«Tanto. Perché quella che era una raffinata forma di editoria d'arte diventava automaticamente un giocattolino se in mano a una donna, perdeva spessore. Però quelli veramente grandi capivano. Ricordo che a Portofino c'era Arnoldo Mondadori che, seduto in piazzetta, quando passavo io batteva a terra il suo bastone e diceva: "Sei brava, Archinto, sei brava"». 

Poi un giorno lei lasciò il conte.

«Eravamo alla fine degli anni Sessanta, il divorzio manco c'era. Fu uno scandalo: una madre di cinque figli che lascia la casa. Mezza Milano mi tolse il saluto». 

Addirittura?

«Sì, perché avevo abbandonato Alberico e mi ero messa con Leopoldo Pirelli. L'accusa, sottile, era che avevo lasciato un vero aristocratico per mettermi con un borghese ricco». 

Come ha conosciuto Pirelli?

«A una cena in casa di amici. Facevamo i giochi di società, lui rimase colpito dal numero di risposte esatte che sapevo dare. Cominciò a corteggiarmi: lo ha fatto instancabilmente per sei anni, finché gli ho detto di sì». 

Come la corteggiava?

«Me lo trovavo dappertutto. Un giorno salii sul treno per andare a Losanna per lavoro. Me lo trovai davanti. Gli dissi: "Ma dove vai?" E lui: "Io vado dove vai tu". Mi amava, sì, mi amava». 

E così lei alla fine capitolò.

«Ci mettemmo insieme nel 1971 ma io non ho mai divorziato da mio marito, non si usava. E con Poldo non abbiamo mai abitato assieme: avevo cinque figli, mica potevo dare loro un nuovo padre a cuor leggero. È andata benissimo così».

Veniamo alle lettere, agli epistolari che la sua casa editrice Archinto pubblica ormai da decenni. Come mai questo genere?

«Ma perché certi scrittori sono meglio nelle lettere che nei romanzi. Come Rilke, per dire». 

Qual è stato il primo epistolario pubblicato?

 «Le lettere di George Sand a de Musset. E poi 84 Charing Cross Road , ancora oggi un best seller. Mi capitarono tra le mani le lettere di Mahler alla moglie ma non le pubblicai». 

E perché?

«Ma perché invece di chiederle come stava le parlava delle sue emorroidi! Come faccio a pubblicare Mahler che parla di emorroidi?». 

Va detto che molti grandi scrittori nelle epistole diventano una lagna infinita. «Ma davvero. Prendiamo Nietzsche: quando scrive alla mamma e alla sorella parla solo dei disturbi di stomaco e del tempo brutto. Che rompi...». 

Lei ha pubblicato da poco le lettere di Montale a Margherita Dalmati, alcune delle quali sono esplicitamente erotiche.

«Sì ma Montale si innamorava un giorno sì e uno no. Io l'ho conosciuto e quando l'ho incontrato mi tremavano le gambe: il premio Nobel, le poesie. Poi ho cominciato a pubblicare le sue lettere e mi sono cadute le braccia: gli piacevano tutte!».

Certo che leggendo decine di epistolari lei conosce le tresche di tutti.

«Può dirlo forte. E pensi che l'epistolario più bello non l'ho potuto pubblicare. Quello tra Alberto Savinio e una signora di Trieste. Niente di sconcio: lui prendeva il treno da Roma, lei dalla sua città e si incontravano alla Stazione di Milano. Si sedevano su una panchina e parlavano. Così per anni, una volta al mese. Capisce? Parlavano e basta. E quelle lettere, mi creda, sono bellissime. Ma la figlia mi supplicò di non pubblicarle». 

Lei sta lavorando alle lettere di Sereni.

«Vittorio era simpaticissimo. Mi diceva, scherzando: "Non dire a mia moglie che a Francoforte ci divertiamo, sennò vuole venire pure lei". Non aveva amanti, solo amici e amiche, eppure era fatto così». 

Chi era il più donnaiolo di tutti?

 «Mario Soldati. Impenitente. Ma pure Calvino non scherzava. Quando lui morì io volevo pubblicare le lettere a Elsa De' Giorgi ma Chichita (la moglie, ndr ) mi pregò di non farlo». 

La Archinto ha un catalogo strepitoso. Non ingolosisce nessun grande editore?

«Molti si fanno avanti, a me piacerebbe che finisse in buone mani, vedremo. Il problema è che oggi nell'editoria non tutti puntano alla qualità e quello che faccio io è un lavoro che non è certo di quantità, bensì di cesello. Ecco perché a 82 anni ho ricomprato la casa editrice che nel frattempo era finita nella galassia Rizzoli. È stata ed è durissima, inutile nasconderlo. Ma sono fiera di quello che abbiamo fatto». 

Lei ha incontrato editori leggendari.

«Il più grande di tutti secondo me era Livio Garzanti. Uomo duro, però pubblicava Parise e Pasolini, ma ci rendiamo conto? Oggi mi piace Antonio Franchini e, sempre della Bompiani, apprezzo la giovane Giulia Ichino». 

Frequenta le altre signore dell'editoria?

«Sì, ma poco. Prendiamo Franca (nome di fantasia e tra poco si capirà perché, ndr ): mi telefona e si lagna che non ci vediamo mai, ma ogni volta che vado a trovarla poi mi tocca pagare il tè con le paste al bar, che diamine».

È vero che scrive ancora le lettere a mano?

«Le mando ai miei nipoti, perché non sopporto gli sms o le altre diavolerie. Sa che in Australia ho un nipotino che non ho ancora conosciuto, nato da mio figlio che lavora lì? Se mi chiede quali sono oggi i miei desideri le rispondo che mi piacerebbe riprendere a muovermi, a viaggiare. 

Ogni tanto vado a Santa Margherita Ligure ma seduta sulla panchina sembro una pensionata, Dio mio. Non vedo l'ora che finisca questa emergenza sanitaria per riprendere la vita di prima».

Rosellina, lei sembra una donna brava a vivere e a godersi i momenti felici, è così?

«Sì, perché ho sempre fatto quello che ho voluto. Ho fatto scelte considerate scandalose, altre considerate visionarie, se non completamente pazze. Ma ho seguito la mia strada e io penso che la felicità sia proprio nella coscienza di aver fatto qualcosa che ci appartiene». 

Molti pensano che lei sia ricca.

 «Che sciocchezza. Per carità, sto bene, ma c'è tanta gente convinta che Leopoldo Pirelli alla sua morte mi abbia lasciato chissà che cosa. No, lui, giustamente, ha lasciato la casa ai figli, cosa di cui avevamo parlato a lungo e sulla quale eravamo pienamente d'accordo. A me ha lasciato solo quel quadro lì, lo vede? È un dipinto di Max Ernst». 

Un po' poco, mi permetta.

«Un po' poco, sì, a ben pensarci». 

·        Sabina Guzzanti.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 17 maggio 2021. La nuova Sabina Guzzanti scivola in altri mondi letterari. Oggi Sabina è Che Guevara a braccetto di Greta Thunberg che legge gli scritti di Orwell e Ursula Le Guin; eppoi si fa un aerosol di Stefano Benni. E, alla fine, ti esordisce con un romanzo, La disfatta dei Sapiens (HarperCollins), che è una distopia costruita su futuri imperfetti, diseguaglianze, migrazioni, tecnologia cattiva e altre catastrofi. Si può essere o meno d'accordo con lei, ma Guzzanti, romana, classe 63, è un talento omerico della militanza. Sabina, questa sua versione da narratrice ci mancava. Nel romanzo, allegramente inquietante, colpisce la redazione del giornale Holly che è l'unica rimasta fatta di umani; il resto dell'informazione è regolato da robot e algoritmi. Non è un tantinello pessimista? «Be', ci sono anche degli algoritmi che suonano un ottimo Mahler. Il tema del condizionamento, della libera informazione mi è sempre caro. Il cervello della gente è plastico, si plasma e si sta abituando alle stronzate, a non preservare più indipendenza e libertà di giudizio. Prenda i social in blocco, o il caso Cambridge-Analytica: la questione lì non è posta sul fatto che c'è un'azienda che ti frega e manipola i dati personali (pazzesco), ma sul fatto che tu, aprendo la schermata, debba consentire con un clic l'accesso a quei dati».

Quest' idea dell'informazione plagiata, («la mente umana non può essere manipolata oltre il 45%», è una legge contenuta nella Disfatta dei Sapiens) per lei ricorre dai tempi di Raiot, programma sospeso da Raitre nel 2003 nonostante ottimi ascolti. Non è che un'idea che le ronza in testa perché la Rai - misteriosamente - non la chiama più da 17 anni?

«No. Dalla Rai sono fuori da 17 anni, ma non è per rabbia che dico che si è paurosamente involuta. In tv riesco a vedere in compagnia solo Propaganda o Una pezza di Lundini o Stefano Bollani. Ma badi, non è solo la comicità, i talk li trovo assurdi. Si producono in contorsioni semantiche, diciamo pure in cazzate, ma nessuno che lo dica. Io, di informazione, riesco a sostenere Report o Presa diretta nella puntata sugli allevamenti intensivi superproduttori di anidride carbonica, per fare un esempio».

Però nei talk lei ci va...

 «Che c'entra? Io nei talk ci vado a promuovere i miei libri, magari cerco di tenere alto il livello, non so se ci riesco».

A DiMartedì, Alessandro Sallusti si è trovato schierato con lei sulle riaperture. Le è sembrato strano?

«No, è già successo con altri. Io ho detto che la severità del lockdown non ha ragione di essere. Perché è lo Stato che deve tracciare il virus, ampliare la capienza dei trasporti, ecc. Se non lo fa non può scaricare la responsabilità su di noi. Almeno ti dicesse: "Tu ora chiudi, ma nun te preoccupà, c'ho un'idea fantastica per un film, lavorerai un sacco!". Invece allo Stato non gliene frega niente se e come io riuscirò a campare...».

Torniamo alla Rai. Cosa non va a Viale Mazzini? La censura (come dice Fedez)? Il classicone della politica invasiva anche da parte dei partiti antipolitici?

«Ha ragione Fedez, c'è molta più censura che un tempo. E le parlo come una a cui hanno chiuso un programma di successo su Raitre, e nessuno ha mai capito chi sia stato. Ruffini diceva la Annunziata, la quale diceva Cattaneo (presidente e ad Rai; ndr). Un programma chiuso da solo, a sua insaputa. Ci ho dovuto fare un film, Viva Zapatero, per spiegare com' era andata».

Ricordo che Mediaset l'accusò di falso sulla Legge Gasparri e di tutta una serie di attacchi antiberlusconiani. La sospesero ad aeternum, come Grillo. Col senno di poi, ha capito chi, a destra, volle la sua testa?

«Ma non fu solo la destra. Anche la sinistra mi mazzuolò, sempre che ci sia ancora qualcosa di sinistra in natura. La sinistra oggi, non riuscendo a creare aspettative, non riesce neanche più a deludere; comunque ha generale intolleranza verso le critiche. E, no, non c'è nessuno che mi abbia mai dato spiegazione né chiesto scusa. Quello che mi secca sono quelle che ti vengono col sorrisino cattivo e ti dicono: "Ma com' era bello il suo programma! Quando la rivediamo in tv?". Da lì ho lavorato anche per il web (il TgPorco, ndr) ma era economicamente insostenibile. Detto ciò, non è solo la Rai malata, ma tutta la televisione...».

Mi articoli meglio il concetto. Non mi tirerà fuori la storia, un po' snob, che lei a casa notoriamente non possiede la tv?

 «La tv in genere è schiava di indici statistici e quantitativi, che sono ossessionanti e condizionano i programmi e le notizie laddove una volta contava l'indice di gradimento. E, certamente, io non ho la tv, ma guardo i programmi dal computer: li scelgo e non li subisco, è una fruizione diversa, se permette. E noto che il 90% della tv oggi è triste. E, se permette, preferisco togliermi il libero arbitrio magari guardando Zavattini che i pacchi. Oppure mi butto su una bella serie. Ecco, io sono una delle prime divoratrici delle serie tv. Sono cresciuta con 24, I Sopranos (favolosi), Six Feet Under, Breaking Bad, The Shield ».

Lei - diciamo - non le mandava a dire. Nello slancio dell'impegno politico, per esempio, lei pronunciò ingiurie sessuali nei confronti dell'allora neoministra Mara Carfagna? Se ne è pentita?

«Con la Carfagna ho sbagliato, ma le mie scuse sono state le 40mila euro che ho dovuto pagare in tribunale. Ma non ce l'avevo con lei. Era solo un simbolo. Oggi è facilmente accettato che ballerine seminude o gente senza alcuna esperienza diventi ministro delle Pari Opportunità. Ma allora non era così: e dare a lei quel ruolo era una provocazione nei confronti di tutte le donne che si ribellavano ogni giorno. Poi lei si è rivelata anche brava. Ma nessuno ha voluto capire a cosa mi riferissi...».

Due suoi cavalli di battaglia erano le imitazioni di D'Alema e Berlusconi. Il primo, ora, ha qualche problema nei rimborsi ai Socialisti Europei. Il secondo è considerato il nobile ago della bilancia a centrodestra. Come li giudica in questo tempo?

«D'Alema non l'ho mai sentito, ma mi dicono che si divertisse all'imitazione. Berlusconi è stato per anni il nemico. Non dimentichiamoci: il populismo in senso becero in Italia l'ha inventato lui; ha invaso il dibattito pubblico allestendo la politica con personaggi in genere non all'altezza, incompetenti. Esattamente come stanno facendo oggi i grillini. Certo, dopo Berlusconi è cambiato, ha fatto buone cose. Ma non dimentico il peccato originale».

Nel suo libro parla anche di economia: di un centinaio di milioni di arcimiliardari onnipotenti e tre miliardi di migranti ambientali (molti italiani) senza diritto di voto, raggruppati in campi di accoglienza; di una legge dell'equilibrio dove i ricchi devono rimanere ricchi e i poveri, poveri. Vede davvero così il futuro, feudale e apocalittico?

«Ho ambientato il libro nel futuro (non troppo apocalittico, perché avevo bisogno di protagonisti esseri umani possibilmente vivi) perché la distopia è il genere che più ti permette di fare satira. Però siamo davvero alla soglia pericolosa dei disordini sociali, della violenza nelle piazze, le diseguaglianze aumentano. I politici non muovono un alluce. Nemmeno per informarci. Prenda il Recovery Fund: nessuno entra nel dettaglio. Eppure, dovremmo sapere bene dove vanno i nostri 248 miliardi di fondi. Invece co' sta' cosa del "lascia fa', ce pensa Draghi" ci perdiamo il libero arbitrio».

Si riferisce ai grandi temi un po' occultati come i pochissimi fondi per risorse idriche bucherellate che perdono il 40% dell'acqua, o per la depurazione (cito a caso)?

 «Sì. Per esempio. Oltre ai temi della digitalizzazione, del trattamento dei dati». Lei è per la libertà dei popoli, quello delle uguaglianze è un altro tema del libro.

Il Ddl Zan la convince?

«Essendo io per la libertà totale, sono anche per il diritto di offendere.  Anche se credo che la legge Zan tuteli chi, attraverso quell'offesa, subisca violenza. Detto ciò, si tratta di un'emergenza culturale che non si risolve con la legge ma con la cultura. Cioè cambiando la mentalità della gente. Penso al lavoro della Rai in bianco e nero che, con Tognazzi e Vianello o Walter Chiari, era molto più progressista e liberale di oggi».

Lei, Corrado, Caterina avete mai pensato di lavorare insieme?

«Con i miei fratelli andiamo d'amore e d'accordo, ci vediamo e frequentiamo. Ma tendenzialmente non lavoriamo insieme, soprattutto perché siamo tre personalità ben definite».

·        Salvador Dalì.

Gabriele Morelli per "il Giornale" il 17 giugno 2021. Ottant'anni fa, nel chiudere il libro La mia vita segreta, Salvador Dalì (1904-89), guardava il suo corpo nudo davanti allo specchio della stanza dell'hotel americano «Hampton Manor», compiaciuto che i suoi capelli fossero «neri come l'ebano», i piedi privi dei segni degradanti dei calli e il corpo ancora quello dell'adolescente, salvo il ventre che «è cresciuto». Dalí è ben noto durante la vita non ha fatto altro che lodare la sua opera geniale e, in questo atteggiamento narcisistico, è difficile distinguere fra gioco, sperimentazione e ricerca sistematica del nuovo. Anche la sua fine, nel 1989, sette anni dopo quella di Gala, la sua grande musa, ha avuto tutta la teatralità e l'attenzione del mondo voluta dal pittore il quale, non a caso, scrive: «Ogni mattina, prima di alzarmi, provo il sommo piacere, quello di essere Salvador Dalí». Narcisista, megalomane eccentrico e provocatore impenitente, il pittore catalano è segnato fin dall' infanzia dalla morte del fratellino che lo precedeva, un altro Salvador. I genitori, portandolo davanti alla sua tomba, gli assicurano che lui è la sua reincarnazione. Nel 1921 entra nella Scuola di Bellas Artes di Madrid, dove è presto cacciato poiché rifiuta di essere esaminato dai professori che non reputa alla sua altezza. È il momento in cui il giovane artista rompe regole e miti, consapevole, come indica il suo nome, che sarà lui a «salvare» la pittura e a diventare il suo genio. Dunque non sorprende che nelle prime pagine del libro leggiamo che, per nulla al mondo, egli si cambierebbe con qualcuno dei suoi contemporanei. Il libro ripercorre le tappe fondamentali della vita dell'artista, soffermandosi a descrivere il periodo trascorso nella Residencia de Estudiantes di Madrid, dove Dalí giunge nel 1922, alto e magrissimo, occhi verdi e una folta capigliatura, berretto nero fino al collo e un lungo mantello. È il segno di un disagio di fronte alla realtà quotidiana che il giovane Salvador occulta, sfoggiando vestiti romantici non più alla moda. Nella residenza madrilena avviene l'incontro con García Lorca, Buñuel e Pepín Bello. Quest' ultimo è il primo a scoprire dalla porta lasciata aperta della stanza le sue pitture cubiste; ma è la presenza di Lorca a imporsi come il fenomeno poetico capace di suscitare sentimenti di ammirazione e insieme di gelosia: «La sua opera migliore era lui», ha scritto Buñuel. Molte pagine sono riservate all' incontro con Gala che Dalì conosce insieme al marito, il poeta Paul Eluard, venuti a Cadaqués per salutare il pittore, già noto per il suo straordinario talento. L' autobiografia insiste sulla straordinaria relazione che lega il giovane Salvador alla musa: è lei che lo inizia all' amore, è lei che condiziona le scelte di vita, esasperando l'amico Buñuel, con cui prepara il cortometraggio Un chien andalou, da spingerlo all' insano tentativo di strozzarla con le sue mani; infine, è sempre lei che orienta le finalità economiche della sua produzione artistica, da far meritare all' artista l'anagramma Avida Dolars inventato da Breton. Non mancano giudizi sul suo surrealismo che distingue dalla scrittura automatica di Breton e Aragon (il «piccolo Robespierre nervoso») e che critica per la sua deriva comunista. Dalí rivendica il surrealismo come sua creatura e non ha timore di confessare, in un periodo di laicismo intellettuale, l'attrazione verso il cattolicesimo. A distanza di ottant' anni l'opera biografica di Dalí - che andrebbe ripubblicata - conferma che si tratta di una profonda autoanalisi, un dialogo che il pittore fa con sé stesso, l'unico referente possibile per comprendere il suo genio.

·        Salvatore Quasimodo.

Quasimodo, una galassia poetica incardinata nel cuore del ‘900. Un nuovo volume permette di riconoscerne l’opera in tutta la sua grandezza ed ampiezza cronologica. L’opera curata da Carlangelo Mauro è introdotta da Gilberto Finzi. Alberto Bertoni su Il Quotidiano del Sud il 21 marzo 2021. Una duplice ragione rende preziosa e indispensabile la nuova edizione, nella “monumentale” collana Oscar Baobab di Mondadori, di Tutte le poesie di Salvatore Quasimodo, introdotta da un empatico saggio del poeta Gilberto Finzi, scomparso nel 2014. La prima ragione concerne la figura del poeta siciliano (ma trapiantato a Milano dal ‘34), Premio Nobel del 1959. Il nuovo volume permette infatti di riconoscere l’opera di Quasimodo in tutta la sua grandezza ed anche nell’ampiezza cronologica di una storia compositiva che va dagli anni ‘20 delle prime poesie giovanili fino al 1966 dell’ultima raccolta Dare e avere, due anni prima della morte del poeta a 67 anni. La seconda ragione rende invece merito all’attentissimo lavoro di ricostruzione biografica, critica e soprattutto filologica, compiuto dal curatore Carlangelo Mauro, uno di quei benemeriti docenti dei nostri istituti d’istruzione superiore che non hanno dimenticato la competenza critica della propria formazione, congiungendo perciò nel loro lavoro letterario enciclopedia conoscitiva e vocazione didattica. Proprio questo è il punto centrale del nuovo volume, che restituisce Quasimodo alla sua integrità di poeta, nella misura in cui il curatore ne accetta e qualifica il lavoro interno di ricostruzione dell’opera, ma si preoccupa anche di donare ex novo ai lettori d’oggi il senso di un sistema inventivo come pochi variegato e complesso. A partire dal secondo dopoguerra, è infatti costante nel futuro Nobel la ricerca progressiva di un pubblico della poesia più ampio e meno specializzato. Così, nella seconda parte del volume, Mauro fa venire alla luce un Quasimodo assai più polifonico rispetto alla vulgata interpretativa, ricostruendo la mappa – che si può rappresentare come un gremito arcipelago – delle sue molte poesie disperse, d’occasione o di sperimentazione. Ne scaturisce la cristallina cognizione di una galassia compositiva entro la quale brillano di luce più limpida anche le poesie appartenenti al canone approvato dall’autore in persona. Da una simile operazione intelligentemente ricompositiva, scaturisce così la visione rigenerata delle diverse fasi della scrittura poetica dello scrittore originario di Modica. Per esempio, il lessico espressivo esplicitamente ermetico del folgorante trittico pubblicato negli anni ’30 (Acque e terre, Òboe sommerso, Erato e Apòllion) svela la natura di un classicismo metaforico e a doppio fondo, che oggi può leggersi anche come un meccanismo di intrepida resistenza alla volgarità e ai vuoti trionfalismi della retorica pubblica espressa dal regime al potere. In questo modo, il trittico del Quasimodo trentenne o poco più si colloca al centro di un ermetismo tutt’altro che cifrato o intriso di surrealismo autoctono, a favore piuttosto di una vocazione tutta metafisica e archetipica, in dialogo diretto col gioiello ungarettiano di Sentimento del tempo (1933). Alla ridefinizione della storia di Quasimodo poeta concorre anche la scelta di Carlangelo Mauro di inserire il libro capitale dei Lirici greci (uscito in prima battuta nel ’40) proprio al centro del corpus poetico, come fosse – e come in effetti è – un libro autonomo di Quasimodo stesso e non una semplice traduzione al servizio di frammentarie voci poetiche dell’antichità. Prima di questa edizione, era invece costume di considerare e pubblicare i Lirici greci come semplice appendice delle poesie scritte da Quasimodo in prima persona. Ma proprio grazie a questa scelta e grazie alla perfetta resa in lingua poetica novecentesca di autori e autrici capitali nel mostrarci che – fin dalle origini della tradizione occidentale – lirica non è sinonimo di astrazione né di idillio, è molto più facile comprendere l’adesione anticipata di Quasimodo a moduli e modi poetici legati al sentimento neorealistico dominante nel dopoguerra. Le poetiche, per i grandi autori, non sono mai dichiarazioni a priori di appartenenza, né vincoli stilistici cui rimanere fedeli tutta una vita. E così, una scrittura di radice ermetica giunta ormai al culmine della sua maturità può felicemente aprirsi ai traumi, alle contraddizioni e alle asperità di una situazione storica che è osservata e cantata da una specola decisamente antifascista e civile. Viene così il tempo, per Quasimodo, del fervore sociale e ricostruttivo di un libro come Giorno dopo giorno, del 1947, con quel suo attacco che è subito pronto ad essere accolto nelle antologie per le scuole di ogni ordine e grado: “E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore,/ fra i morti abbandonati nelle piazze/ sull’erba dura di ghiaccio…”. È un grande libro di poesia integralmente italiana, scandita e incardinata nel cuore del ‘900 con le sue radici greche e latine bene in vista, questo Tutte le poesie di Salvatore Quasimodo: al quale è qui restituito in via definitiva il ruolo di poeta cardinale che da sempre gli compete.

·        Salvatore Taverna.

Giancarlo Dotto per Diva e Donna il 21 agosto 2021. Quasi sempre in coppia con Rino Barillari, il King dei Paparazzi, o con il suo vice, Luciano di Bacco, inviati de “Il Messaggero”, hanno raccontato e fotografato per decenni le notti mondane a Roma, a caccia di divi, con l’attitudine dei predatori, per lo più blanditi, spesso temuti, cercati, evitati, inventandosi agguati, travestimenti, raggiri, astuzie bertoldiane, per portare ogni volta all’alba il loro bottino a casa. Imbucandosi nei locali, nelle feste, salotti e terrazze, setacciando d’estate litorali, spiagge, discoteche, rischiando ogni volta e qualche volta beccandoli insulti, schiaffoni, ombrellate e borsettate. L’adrenalina e l’alcol a fiumi. Anni irripetibili. Salvatore Taverna, tipo a dir poco eccentrico, si è impegnato per “Diva” a riesumare tanti anni di scorribande da esploratore della giungla urbana, tutte le tacche del suo mestiere di collezionista di scalpi celebri. “Prima o poi, scriverò un libro. Comincerà così: Mi chiamo Salvatore Taverna e m’ingegno da sempre a fare il giornalista…”, fa lui che si definisce genericamente “un settantenne”, avendo fermato il tempo che invece ha preso a precipitare. La pandemia ha trasformato le sue abitudini. Da nottambulo girovago è diventato un casalingo a tempo pieno. Passa il tempo a leggere romanzi e a farsi coccolare dalle donne di casa, la moglie Gina e la figlia Sveva, fotografa. Le camminate dentro casa, da ergastolano, su e giù, dalla camera da letto al salotto, alla cucina e di nuovo alla camera da letto, l’unica attività fisica che si concede. “Sto qua sbragato a letto, in pantofole, mutande a righine blu e maglietta di cotone…”. Chiama le cose per nome, nella lingua delle sintesi brucianti.

“Quando sarò morto, ho già pronto il mio epitaffio”.

Sarebbe?

“Salvatore Taverna, il poeta della notte. Cronista cronico”. 

Farina del tuo sacco?

“Il primo me lo mise Federico Fellini, il secondo Roberto D’Agostino”. 

Racconta.

 “Fellini m’incontra sulla spiaggia di Sabaudia e mi fa: “Che ci fai qui alle dieci del mattino, caro poeta della notte”. Indossavo il panama, una giacca di lino beige, una camicia crema e i bermuda. Da allora questa cosa me lo so’ giocata in tutte le interviste”.

Autunno, inverno e primavera e fare la ronda nei locali di Roma, d’estate a fare razzia sulle spiagge.

“L’allora direttore mi spedì tre mesi come inviato a Sabaudia. Lavoravo 18 ore al giorno, la mattina sulle dune, la sera e la notte nei locali e nelle ville a pescare personaggi. Intervistai tutti, Mario Schifano, Paolo Portoghesi, Alberto Moravia, Carmen Lleira, Giovanni Malagò, Ornella Muti, quella sventolona di Serena Grandi…”. 

Cronista mondano, ma lavoratore instancabile.

“Non mi stancavo mai, non andavo a dormire. Poi, ogni tanto crollavo. Paolo Villaggio mi consigliò un trucco per fregare la concorrenza. “Quando noi ti diciamo che veniamo, tu ci fai l’intervista il giorno prima al telefono, esci la mattina del nostro arrivo e bruci tutti”. I colleghi impazzivano. Non capivano come facessi”.

Cronista e pirata.

“La guerra è guerra, era lo slogan del mio amico e compare Barillari. Divento un selvaggio come lui nel lavoro”. 

Amico di Renzo Arbore e di Luciano De Crescenzo.

“Stavano chiudendo i manicomi con la legge Basaglia. Avevano invitato i due, Arbore e De Crescenzo, a salutare i matti del “Santa Maria della Pietà”. C’era quello vestito da Napoleone, l’angelo rincorso dal diavolo con un forcone di plastica, la ragazza che si credeva la Madonna alla vigilia di Natale. E poi c’ero io con il mio solito panama gigante e il taccuino in mano”.

Giornalista al seguito?

“De Crescenzo mi scambiò per uno dei matti e mi chiese: “Quanti anni sei stato chiuso qui dentro?”. Tempo dopo, Renzo Arbore, con cui nel frattempo eravamo diventati amici, mi disse: “Sembravi un matto perfetto travestito da giornalista”. 

Quella volta che ti sei travestito da mendicante.

“Un cappotto vecchio, la coppola ciancicata di mio padre, in via Frattina, a fare il mendicante. Feci in un giorno 7 mila lire, una cifra folle per l’epoca. Una settimana dopo ci provò Paolo Fraiese della Rai e non raccattò quasi niente”.

Credibile da matto e da mendicante.

“Presi 500 lire pure da Luciano De Crescenzo che passò di lì e stavolta mi riconobbe. M’avevano adottato nella loro comitiva, lui, Arbore, Mariangela Melato”. 

Quella volta che Julia Roberts venne a Roma.

“Venne a presentare un film. La sera tutto al locale vicino a piazza Navona di Jeff Blynn, americano, ex attore di fotoromanzi caduto in disgrazia. Ostriche, caviale, champagne. Dischi su dischi, me butto a balla’ vicino a Julia, scatenata. Le si rompe un tacco, me’ piomba addosso…”. 

E tu?

“La prendo al volo e la salvo. Era magrissima. Un fuscello. Non sapevo una parola d’inglese. Solo sorrisi su sorrisi. Francesco Palazzi, road manager dei divi a Roma, svegliò un calzolaio in piena notte. Si presentò alle 4 del mattino con il tacco riparato”.

Un handicap non sapere l’inglese con tutti questi divi.

 “Mia mamma Assunta mi dava i soldi per andare alla “British School”, ma io li spendevo in mignotte. Avevo 15 anni. Ricordo una cinquantenne, Adalgisa. Aveva un materassino sulle sponde del Tevere. Mille lire a botta. Ci andavo quasi tutti i pomeriggi”. 

Grande scoop con Manuela Arcuri.

“Aveva fatto diecimila fiction con Garko. Era già famosa. La pediniamo io e Di Bacco, il fotografo. Questi grandi seni, il viso da bambolona. Una Serena Grandi super chic ai miei occhi. La convinsi a posare da attrice intellettuale in una libreria. Porto un articolone al direttore Pietro Calabrese, il mio pigmalione, e lui: “Tu sei matto, ma chi la conosce questa?”. 

E tu?

“Quasi me metto a piagne. Mi rifaccio due mesi dopo con uno scoop pazzesco. Becco l’Arcuri a Porto Cervo, al “Billionaire” di Briatore, che stava con questo arabo straricco, Mohamed Al Habtoor. Scrissi che aveva al collo il collier di 200 milioni di lire che lui le aveva regalato per due mesi d’amore”. 

Tutto vero?

“Non mi ricordo se me l’aveva detto lei, l’ufficio stampa o se me l’ero inventato. Sta di fatto che scoppiò il finimondo. Tutti dietro. Compresi “Panorama” e l’”Espresso”. Un casino assurdo”.

Naomi Campbell e Flavio Briatore?

“Un’altra storia come quella dell’Arcuri con l’arabo, o della Canalis con Clooney. Ci sono sempre dei contratti firmati dietro. Ricordo Naomi che faceva la deejay nel locale di Briatore. Era sempre incazzata con lui. La vidi con i miei occhi che gli tirava di tutto, lattine di Coca, arance. Lui che si riparava con la spalliera del trono da vippaio”. 

Vippaio?

“Un neologismo che ho inventato io. Fu inserito nella sua rubrica sull’”Espresso” da Tullio De Mauro”.

Una finta pure le risse con Briatore?

“No, queste erano verissime. Naomi era famosa per come s’incazzava con tutti. La sua vittima preferita era il segretario”. 

Sabrina Ferilli, un’altra tua amica.

“Eravamo amici. Sapevo che andava in un circolo romano, il “Due Ponti”. Si sarebbe sposata a giorni con Andrea Perrone, tecnico delle luci, fidanzato devoto. Mi nascondo sotto il bancone dell’entrata. Spunto fuori…”. 

Un agguato.

“Le faccio: “Sabrina siamo amici, so che te sposi tra una settimana, me devi dare un’intervista esclusiva”. E lei: “Non posso Salvatore, l’ho già data a un altro giornale. Facciamo così: ti parlo e tu scrivi che te le ha dette una mia cara amica. Così non mi rovini”.

Tu, naturalmente, dici di sì e fai il contrario.

“Vado dal direttore e gli dico: “Me gioco l’amicizia con la Ferilli, ma pubblichiamola che è lei a parlare, non l’amica. Famo il botto!” Lui quasi me mena. “Ma che scherzi?! Il padre è amico. Siamo due comunisti seri”. Uscì come voleva lui, ma era una cosa moscia”. 

Bruce Willis, un tipo sanguigno.

“Fu ingaggiato per rilanciare “Planet Hollywood” a Roma. Passai clandestinamente una macchinetta fotografica a un mio assistente. Bruce se ne accorse. Gli mollò due pizze, gli strappò la macchinetta e ci zompò sopra. Era ubriaco dalla testa ai piedi. Lo portarono a braccia in macchina”.

Un tipetto niente male anche Demi Moore.

 “Io e il King le facevamo la posta. Lei entra da Bulgari, comincia a provarsi decine di collier, orologi. Partono i flash di Barillari dalla vetrina. Lei impazzisce. Cominciò a lanciare in aria di tutto, perle, orologi, collane. Una furia”. 

Il tuo sodalizio con il King, Rino Barillari.

“M’ha fatto da maestro. Mai entrato prima in una discoteca in vita mia. M’ha presentato a direttori e pierre dell’ “Open Gate”, “Jackie O’”, il “Gilda”. Il King è una belva nel lavoro. Mi ricordo quella volta all’aeroporto con i gorilla di Richard Gere, dei bestioni. Con un braccio si difendeva, con l’altro scattava”.  

George Clooney era un’altra vostra vittima.

“Di giorno non beveva, ma di notte goccettava, eccome. Una mattina all’hotel “De Russie” lo vidi scagliarsi contro un uccellino che gli aveva portato via la briciola di un cornetto. Sembrava un pazzo. Forse erano i postumi di una sbornia”. 

Quella volta che hai portato Jessica Rizzo, la pornostar, al “Messaggero”.

“Si scatenò un assembramento. Più di quando venne, anni dopo, il Papa”. 

Alberto Sordi t’aveva preso in simpatia.

“Ero diventato mezzo amico suo. Mi faceva invitare sempre quando c’era la presentazione di un suo film e mi faceva sedere al suo fianco. Così, riuscivo a sentirlo. So’ diventato mezzo sordo con le discoteche che m’hanno sfondato tutte le trombe. Albertone era una furia di battute e io prendevo appunti. Alla fine mi salutava e mi allisciava la schiena”. 

Perché?

“Me lo spiegò la sua addetta stampa storica, Maria Ruhle. “Ti vede curvo, pensa che sei gobbo e allora ti tocca perché è convinto che gli porti fortuna”. 

Hai fatto arrabbiare Piero Angela

“In una delle tante feste a casa di Arbore. C’era queste jam session. Piero Angela era pazzesco al piano a suonare il jazz, ma è un tipo strano. Quando si accorse che c’ero io in mezzo alla ciurma, sbroccò di brutto. Non voleva che apparisse che stava in una festa cazzara di Arbore”. 

Quella volta che Patricia Millardet ti prese a schiaffi…

“M’incontrò al “Gilda” e mi diede due pizze, una destra e una a sinistra, per un mio articolo che non le era piaciuto. Mi fece volare gli occhiali. Finii su tutti i giornali”.

·        Sandro Veronesi.

Katia Ippaso per "il Messaggero" il 28 marzo 2021.  «Io non ho mai paura che qualcuno mi faccia del male. Semmai sono terrorizzato dal fare io del male». Sandro Veronesi si presenta disarmato all'appuntamento Sulla paura, titolo del ciclo di lezioni curato da Francesco Siciliano e Francesca D'Aloja per Panafilm che, da Villa Medici, sede romana dell'Accademia di Francia (dove si tennero nell'autunno scorso gli incontri per il Romaeuropa festival: gli altri scrittori coinvolti Edoardo Albinati, Michela Murgia, Alessandro Piperno e Melania Mazzucco) arriva online su RaiPlay dal 31 marzo. E mentre si mette in moto la grande macchina cinematografica per le riprese estive de Il colibrì, regia di Francesca Archibugi, trasposizione filmica dell'omonimo romanzo (La Nave di Teseo) che l'anno scorso gli valse il secondo premio Strega (dopo Caos calmo, 2006), il 62enne scrittore toscano accetta di farci fare un giro nello scantinato della sua mente.

Quale è la sua più grande paura?

«Quella di lasciare i bambini in macchina. Tutte le volte che accade un fatto tragico di questo tipo, sento che quel padre e quella madre sono miei fratelli».

Le è mai successo?

 «Non mi è mai successo con nessuno dei miei cinque figli, ma ho dovuto sviluppare un'attenzione quasi maniacale, perché so che mi sarebbe potuto accadere».

Lei sostiene che nella sua vita nessuno le ha mai fatto del male. Una dichiarazione impegnativa.

«Diciamo che nessuno ha incarnato le mie paure. Tanto meno i miei genitori. Il primo male che ho dovuto subire e accettare è stato da parte di alcuni miei pari, quando andavo a scuola. Ma non mi ha fatto paura, nel senso che potevo reagire».

Ha mai fatto del male a qualcuno?

«A degli animali indifesi. Quando ero bambino. A un riccio e a una lucertola».

Ed è mai stato preso da una qualche forma di diabolica tentazione?

«L'ho proprio chiamata così: una diabolica tentazione. Ma è una cosa diversa. Una sola volta l'ho provata. Mia madre era in agonia. Sarebbe potuta morire da un momento all'altro. Ecco, io, quella mattina, ho avuto la tentazione di prendermi un cappuccino al bar. Per fortuna non l'ho preso. Quei minuti sono stati preziosi perché mia madre mi è morta tra le braccia».

Perché ha così paura di essere inaffidabile?

«È una paura su cui non ho controllo e per rendermela tollerabile la affronto con il mio psicoanalista».

Del tumore che l'ha colpita nel 2016, ha avuto paura?

«No. Perché mi avevano detto che era una situazione curabile. Mi hanno dato subito molte speranze. E infatti sono guarito. Però a un certo punto ho fatto una cazzata».

Quale?

«Sono andato a leggermi online tutto quello che le ripetizioni del tumore alla prostata possono portare. E lì si è aperto un varco per la paura. Tutte le volte che ho un dolorino al ginocchio, penso: e se mi viene il tumore alle ossa?».

Del cast de Il Colibrì faranno parte Piefrancesco Favino, Nanni Moretti e Kasia Smutniak. Cosa si aspetta dal film?

«Quando si mettono insieme forze di questo tipo, dalla regia di Francesca Archibugi (che io adoro) a questo tipo di attori, è come se si facesse un viaggio indietro nel tempo. Quando era il gruppo a prevalere sul singolo.

Non era Risi, non era Scarpelli, non era Sordi che faceva il film. Erano tutti insieme. Ecco, attorno a questo progetto sta lavorando la parte più virtuosa del cinema italiano. Quindi ho delle grandi aspettative come spettatore. Come autore, non metto mai bocca. Ma sento il rumore del grande cinema».

A proposito di cinema, nel corso della sua lezione Sulla paura lei dice che i thriller non le fanno un grande effetto.

«Enrico Ghezzi dice che la paura è un luogo. Così come il golfo di Napoli ogni volta ti procura quel tipo di incanto, allo stesso modo la scena della doccia di Psycho ti provoca tutte le volte quel tipo di terrore. Quella scena mette paura anche a me, ma non è una paura che mi interessa perché è stata confezionata ad hoc».

Invece è ossessionato da Mulholland Drive di Lynch.

«La differenza sta nel fatto che, mentre Lynch allestisce il teatrino della paura ma ti lascia libero di portarti la tua paura da casa, Hitchcock ti porta anche la paura».

In Mulholland Drive si gioca sul meccanismo del doppio. Ha forse paura di ritrovarsi una mattina nel corpo di un altro?

«Ecco, quella è una paura autentica. In quel periodo della mia vita, stavo parecchio male. Giravo per strada, guardavo uno qualsiasi e mi dicevo: perché non posso essere lui? Poi ho visto il film di Lynch e ho capito che per fortuna la mia era solo una fantasia innocua, perché svegliarsi veramente nel corpo di un altro deve essere la cosa più terrorizzante del mondo».

 Le capita di spaventarsi anche leggendo un libro?

«In It di Stephen King, su circa 1200 pagine, sono saltato in aria solo su una pagina: quando descrive l'odore di muffa che si sente man mano che si scende nella cantina, e quell'odore alla fine diventa proprio lui, It».

Il contrario della paura è il coraggio. Il gesto più coraggioso della sua vita?

«Io e mio fratello abbiamo salvato due donne dall'annegamento. È stato un coraggio istintivo. Non le conoscevamo neanche».

·        Sergio Corazzini.

Il poeta ventenne che voleva morire. “Io non sono un peota”: i versi di Corazzini, il bimbo che voleva morire. Eraldo Affinati su Il Riformista il 31 Agosto 2021. «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. / Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio. / Perché tu mi dici: poeta?». Un conto è leggere a scuola questi desolati versi di Sergio Corazzini (Roma, 1886-1907), come hanno fatto molti studenti, anche recentemente agli ultimi esami di Stato. Un altro conto è scandirli in un soffio leggero, nella calura stagnante in mezzo alle zanzare, come è capitato a me dentro l’ottavo colombario al cimitero del Verano (ossario 25, fila II), dove sono conservati i suoi poveri resti. Nel lungo corridoio oscuro, illuminato soltanto dai fiochi raggi provenienti dai lucernai, il volto adolescente del ragazzo splendeva ancor più del solito, nell’unica famosa fotografia che ancora oggi lo ritrae, in ogni manuale del crepuscolarismo, quello stato d’animo sconsolato e malinconico, fra organetti, conventi, suore, cortili, ospedali e sagrestie, individuato per la prima volta da Antonio Borgese nel 1910, il colletto inamidato fin sulla gola, col cravattino stretto sotto il gilet, come usava ai primi del Novecento, il ciuffo di capelli ben pettinato sulla fronte alta, lo sguardo fermo, determinato, rivolto verso il baratro del futuro. Mi ero deciso a rendere questo omaggio al fanciullo più celebre della letteratura italiana, così diverso da Guido Gozzano in quanto, a differenza sua, privo di vezzi e orpelli, dopo averne riletto i testi appena riproposti in una piccola, preziosa, commovente, meritoria edizione di Internopoesia, a cura di Alessandro Melia: Io non sono un poeta (pp. 156, dodici euro). Andare in libreria, comprare il testo, ritrovare subito il vecchio, mai sopito, incanto di Toblach: «Le speranze perdute, le preghiere / vane, l’audacie folli, i sogni infranti, / le inutili parole de gli amanti / illusi, le impossibili chimere, / e tutte le defunte primavere…», prendere lo scooter e, sfidando le temperature più alte dell’anno, puntare deciso verso l’antico Tiburtino scalcinato, nella città dei morti dispersa fra le circonvallazioni vorticanti, era stato per me un tutt’uno. «Perché, tu che sai tutto di Roma, / lo chiamate così quel vostro cimitero / con quel nome spagnolo che significa estate?», si chiedeva Vittorio Sereni in una delle sue poesie più belle, Verano e solstizio? La stessa domanda tornava a ronzarmi in testa mentre entravo dal portone principale lasciandomi alle spalle il monumento funebre di Goffredo Mameli, morto nel 1849 nella difesa di Roma, anche lui a soli 21 anni. Ormai il suo inno lo cantano tutti, ma chi rammenta più la vita di questo giovane ardimentoso? Eppure è stato proprio il paladino risorgimentale a spingermi idealmente verso Sergio Corazzini, nato in una famiglia benestante, abitavano in via dei Sediari 24, dietro Piazza Navona, falcidiata dalla tubercolosi e presto travolta dalla più cruda indigenza. Il suo talento lirico si rivelò immediatamente. A soli sedici anni, già collaborava ai giornali dell’epoca: Il Marforio, Il Rugantino, Il Capitan Fracassa. Attorno a lui si formò un cenacolo di amici, che si riunivano al Caffé Aragno, per i quali il più ispirato coetaneo rappresentò un riferimento carismatico, sia in vita che, ancor più, dopo la morte: una stella cometa che, agli albori del ventesimo secolo, brillò solo per poco nel fondo smagato delle loro sontuose adolescenze. Ricordiamo Fausto Maria Martini, Alberto Tarchiani, Remo Mannoni, Giuseppe Caruso, Giorgio Lais, Auro d’Alba, Giuseppe Altomonte e Guido Milelli. Nomi perduti, volati via come foglie, simili a quelli che decifro nei loculi posti intorno a Sergio: Maddalena Antonelli, Renzo Francia, Antonio Gregori, Gustavo Benedetti, Rinaldo Casadei, Maria Macciocchi, scomparsi tutti in giovanissima età, alcuni addirittura bambini. “Per chi ricorda Sergio Corazzini”, leggo inciso sul marmo. La sua voce era bianca, fosforica. Egli pare sempre che ci voglia raccontare qualcosa d’importante, si capisce dall’adozione della seconda persona, eppure non ha nulla da dire, se non l’assenza, il vuoto, l’esilio qui, non in un altrove, no, proprio sulla nostra terra: «Sono un fanciullo triste che ha voglia di morire». Quando nell’agosto 1905, in una lettera diretta a Aldo Palazzeschi, scrive: «Il letto bianco e triste che mi accoglie da venti giorni è divenuto il mio trono di questo mondo», non sta recitando. Spirerà l’anno dopo, senza aver ricavato alcuna utilità dal ricovero al sanatorio di Nettuno. I luoghi che frequentò restano fra le nostre dita come una manciata di coriandoli fuori stagione: la tabaccheria di famiglia in Via del Corso, nella stessa strada dove lavorò all’ufficio della compagnia di assicurazioni La Prussiana; le chiese sperdute che amava visitare nei pomeriggi ombrosi e solitari: San Saba, Sant’Urbano, Santa Prassede, San Luca, la Ferratella a San Giovanni. Ma come dimenticare il Dialogo di marionette, fra De Chirico e il Sogno di una notte di mezza estate, in cui vengono messi a confronto una piccola regina dal cuore di legno e il suo grazioso amico, nello scenario offerto dal balcone di cartapesta, mentre il re dorme? Alla richiesta di sciogliere i lunghi capelli d’oro, lei risponde: «Poeta! non vedete che i miei capelli sono di stoppa?». Lui, dopo qualche battuta, sentenzia: «Siete ironica… Addio!». Forse un solo poeta può essere posto accanto a Sergio Corazzini: San Francesco. Quasi che nel fondo della semplicità giacesse il segreto di un’arte antica, la bottega artigiana da cui è uscito, come un volo di colombe dal cilindro, il verso novecentesco. È bello leggere i bigliettini che qualche spirito puro continua a depositare sotto i fiori della sua tomba: «Sergio mio, come vedi ogni tanto corro da te in cerca di conforto per la mia anima tormentata…» Così, mentre esco dalla necropoli, tornano a risuonare dentro di me gli ultimi memorabili versi della Morte di Tantalo, nel punto in cui il poeta, con piglio eroico, rompe le catene del tempo: «Andremo per la vita errando per sempre». Eraldo Affinati

·        Sigmund Freud.

Nel triangolo tra Freud, l'allievo suicida Tausk e una donna c'è il lato oscuro della psicanalisi. La Repubblica l'1 settembre 2021. Cosa unì e poi divise davvero Sigmund Freud e Paul Tausk. Perché un laureato in legge, giornalista e commediografo e solo dopo, grazie a Freud, alla seconda laurea, psicanalista, rischiava di oscurare il maestro. Quali erano le dinamiche del triangolo che legava i due a Lou von Salomé, amante di Tausk ma anche di Rielke e chiesta in moglie da Nietzche. Perché il brillante psicanalista allievo di Freud si tolse la vita povero e senza pazienti nel 1919. In "Fratello animale" (Rizzoli 1973) lo studioso di scienze politiche e docente a Harvard Paul Roazen ci aiuta scoprire alcuni punti oscuri all'origine della "filosofia pratica" del Novecento: la psicanalisi.

Estratti da "Aforismi" di Sigmund Freud, in libreria con Bollati Boringhieri e la curatela di Francesco Marchioro, pubblicati da “il Fatto quotidiano” l'11 settembre 2021. Soltanto quando si studia il patologico s' impara a conoscere il normale.

Mi son sentito spesso obiettare dai miei pazienti, quando promettevo loro aiuto o sollievo per mezzo di una cura catartica: "Ma se dice lei stesso che il mio male si collega probabilmente alla mia situazione e al mio destino: a quelli lei non può certo recare alcun mutamento. In qual maniera mi vuole allora aiutare?".

Ho potuto loro rispondere: "Non dubito affatto che dovrebbe essere più facile al destino che non a me eliminare la sua sofferenza: ma lei si convincerà che molto sarà guadagnato se ci riuscirà di trasformare la sua miseria isterica in una infelicità comune. Contro quest' ultima, lei potrà difendersi meglio con una vita psichica risanata". 

I medici dovrebbero abituarsi a spiegare all'impiegato che siè ammazzato di lavoro in ufficio, o alla massaia per la quale la casa è divenuta troppo pesante, che essi non si sono ammalati perché hanno cercato di svolgere mansioni che di fatto, per un cervello civile, sono propriamente leggere, ma perché, mentre svolgevano tali mansioni, hanno trascurato e deteriorato in modo grossolano la propria vita sessuale.

Stando alla mia esperienza, sarebbe estremamente desiderabile che i direttori medici degli stabilimenti (idroterapici) si rendessero sufficientemente conto che non hanno a che fare con le vittime della civiltà o dell 'ereditarietà, ma-sit venia verbo - con minorati sessuali. Il sogno è il custode, non il perturbatore, del sonno. Oggi forse il dimenticare ci è diventato più enigmatico del ricordare. Il confine fra gli stati psichici definiti normali e quelli patologici è per un verso puramente convenzionale, e per l'altro così fluido che ognuno di noi rischia di sorpassarlo più volte nel corso di una sola giornata. 

Con una vita sessuale normale la nevrosi è impossibile. La nevrosi ossessiva non è che la caricatura, per metà comica e per metà tragica, di una religione privata. Il contrario del gioco non è ciò che è serio, ma ciò che è reale. Già gli antichi dicevano che il coito è una piccola epilessia. L'uomo preistorico è anche nostro contemporaneo. Un forte egoismo instaura una protezione contro la malattia; tuttavia, prima o poi bisogna ben cominciare ad amare per non ammalarsi. I bambini più smaccatamente egoisti possono diventare i cittadini più generosi e più disposti al sacrificio; la maggior parte degli apostoli della pietà, dei filantropi e degli zoofili erano originariamente piccoli sadici e tormentatori di animali.

Considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini. L'inconscio di tutti gli esseri umani è pieno di desideri di morte, che talvolta sono anche diretti contro persone peraltro amate. L'uomo è un animale che (non) vive in gregge... è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singolo appartenente a un'orda guidata da un capo supremo. La psicoanalisi ha messo la parola fine alla bella favola dell'asessualità dell'infanzia. La vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi... 

Tre sono forse i rimedi di questo tipo: diversivi potenti, che ci fanno prendere alla leggera la nostra miseria; soddisfacimenti sostitutivi, che la riducono; sostanze inebrianti, che ci rendono insensibili a essa. Non tutti gli uomini sono degni d'amore.

Tutti i nevrotici, e molti oltre a loro, si scandalizzano del fatto che inter urinas et faeces nascimur. Seguendo il noto detto di Kant, che accosta la coscienza morale dentro di noi al cielo stellato, un essere pio potrebbe volgersi a venerare queste due cose come i capolavori della creazione. Le stelle sono magnifiche, ma, per quanto riguarda la coscienza morale, Dio ha compiuto un lavoro disuguale e mal fatto, poiché la grande maggioranza degli uomini ne ha ricevuta soltanto una quantità modesta o addirittura talmente esigua che non vale la pena di parlarne. Le cose, una volta venute al mondo, tendono tenacemente a restarvi. 

Talora verrebbe perfino da dubitare che i draghi preistorici si siano davvero estinti. Certo, ammettiamo che alla fine si deve morire, ma questo "alla fine" riusciamo a collocarlo in una lontananza smisurata.

·        Stephen King.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 18 Novembre 2021. Stephen King, ovvero il viaggio tra le mille vite di un demone allegro. Sapevate che lo scrittore del Maine, dalla zona del crepuscolo della letteratura mondiale, fosse arrivato oramai a vendere 350 milioni di copie (escludendo quelle pseudonimate e i racconti da rivista) per un patrimonio personale di circa 450 milioni di dollari?

O che King avesse vissuto, per anni, accalcato in una roulotte con moglie e due figli a Hermon, cuore dell'America rurale? O che il Re avesse fatto lo spazzino e si fosse strizzato per mesi in un dormitorio di Orono, scrivendo di notte sotto le coperte; sopravvivendo grazie al salario minimo da insegnante, 6.400 dollari l'anno, arrotondando prima in una pompa di benzina, poi in una lavanderia, mentre la consorte Tabitha - anch'ella professoressa - era costretta a fare le pulizie? 

Sapevate che, mentre sfornava libri su libri ancora in cerca d'editore, King fosse stato uno dei musicisti dei Rock Bottom Reminders insieme al creatore dei Simpson? O che i proventi del romanzo Blaze sono stati tutti devoluti a una fondazione che si occupa di artisti freelance finiti in miseria?

Ecco. Queste altre tranche de vie, assieme ad una disamina minuziosissima di ogni singola molecola kinghiana, della sua vita, opere e miracoli, sono il contenuto di "Il grande libro di Stephen King. La vita e le opere del Re del terrore". Il volume è appena uscito in Italia dopo il clamoroso successo negli States. 

Non si tratta della classica monografia ma di un libro cult striato di rosso sangue da 648 pagine (29,90 edito da Mondadori Electa tr. Anna Pastore) che ha conquistato i social e i collezionisti: un'edizione con oltre 200 foto, impreziosita da un inserto dedicato alla serie fantasy La Torre Nera e numerosi disegni che ricreano i «peggiori incubi inventati da King» e le sue cose d'uso quotidiano dalla casa-castello sormontata da un grosso pipistrello alle foto di lavoro (i reading al Radio city Music Hall, le firma-copia con i fan, i set cinematografici e la sceneggiatura, i figli, gli amici e i parenti).

L'autore è di questa Somma Teologica, il "Bestsellersaurus Rex" di King, è George Beahm; la sua opera giunge in Italia dopo essere stata pubblicata per la prima volta nel 1989, aggiornata nel 1995 e nel 2015; qui vanta una prefazione inedita e un taglio molto pop. 

Qui si disvelano i segreti del "sistema King", lo sviluppo di un marchio che rivela genesi, successi, indotto e marketing di ogni singolo prodotto del nostro, a partire dal romanzo The Glass Floor (1970) e dai racconti pubblicati per Playboy per puri motivi alimentari; da cui si scopre che King, come Carver, all'inizio privilegiava lo scritto breve perché impiegava meno tempo ed era pagato quanto quello lungo. 

Dall'abbandono paterno coinciso con l'attaccamento morboso alla madre Ruth alla creazione di una famiglia di tre figli cresciuta con mezzi di fortuna (ognuno di loro scrive; al figlio decenne Joe papà Stephen rubò il titolo del primo racconto The bad thing); dal successo inseguito sui tasti di una Underwood battuta con sole due dita, fino al successo mondiale grazie ai film di Stanley Kubrick (Shining) e Brian De Palma (Carrie lo sguardo di Satana): tutto, nell'esistenza di King, diventa elemento di narrazione pura.

George Beahm si sofferma sul controverso rapporto di King con la critica letteraria di tutto il mondo, che ora lo mazzuola ora lo osanna, almeno fino alla pubblicazione di On Writing, il suo saggio sulla scrittura che lo equipara a Hemingway, Steinbeck e Capote. In più il pamphlettone indaga la problematica relazione tra i letterati e il fantastico, tra il giornalismo elitario e l'horror di consumo. In King tutto è calcolato. 

Non a caso il saggio esce contemporaneamente al suo ultimo romanzo Billy Summers, (Sperling & Kupfner, pp 547, 20 euro, inquadrabile nella categoria "realistica"): e qui un sicario che ammazza solo gli esseri spregevoli e cita Zola, Faulkner e Dickens, finisce col fingersi uno scrittore poco in vena. Come quello che i suoi critici hanno messo in croce per libri come Rose Madder, L'acchiappasogni, Buick 8, Cell.

Non a caso escono in contemporanea due serie tv dai suoi racconti, Chapelwaite e Midnight Mass - su Tim Vision e Netflix - di matrice l'una storica, l'altra cristiana. Qualcuno, come la rivista Wired, si chiede se King, 74 anni, vale ancora la pena d'esser letto. Il vecchio Re risponderebbe: «Perché, scusate, è arrivato qualcosa di meglio?».

·        Teresa Ciabatti.

DAGOREPORT il 14 giugno 2021. In effetti, un po’ discriminata lo è se si pensa che nei sei mesi che hanno preceduto la selezione del Premio Strega Teresa Ciabatti è comparsa solo una settantina di volte, come autrice o intervistata o recensita su un giornale minore, il “Corriere della Sera”. Ma questo è un dato che va preso con le pattine e va confrontato con il Colibrì di Veronesi, che lo scorso anno spiccò il volo stregato dopo una ininterrotta cinquantina di recensioni sul “Corriere della Sera”, come contò alla buona “Il Fatto quotidiano”. Non stupisce, dunque che il “Corriere” tiri una ciabattata di reprimenda a chi ha osato scalzare la vispa Teresa dalla stregata cinquina affidando il compito di sferrarla “al miglior fabbro”: “Il problema è che Teresa Ciabatti non è il tipo di donna e scrittrice che sta simpatica agli ambienti editoriali e giornalistici… Ma è una voce fresca, non prevedibile, non conformista”, scrive Aldo Cazzullo, autore di testi mai conformistici o prevedibili “e trovo azzeccata la scelta di farla collaborare al Corriere, cosa che, vi prego di credermi gentili lettori, non influenza affatto il mio giudizio”. Sembrava bellezza (titolo del romanzo di Ciabatti) invece erano solo comparsate: vai a Positano, vai al Festival della Filosofia, vai a Romaeuropa, vai all’Auditorium con Serena Dandini, vai al Circolo dei lettori con Mario Calabresi… e, intendiamoci, ogni volta che vai scatta un pezzullo su un giornale minore, il “Corriere della Sera”. “Che ansia la giovinezza”, “quanta infelicità” racconta a questi incontri autobiografici la “vecchia” ciabatta che si sente ormai “una signora di mezza età”. Ma gli anni duri della giovinezza ad Orbetello, quelli, non passano. Lei, figlia del più illustre primario della città (“Mio padre, primario chirurgo dell’ospedale di Orbetello, è l’uomo più importante della Maremma, stimato, temuto, benefattore, qualcuno dice, santo. Lui i poveri li cura gratis, il Professore ha a cuore i poveri”), lei ricca di famiglia, con tate al seguito, ma… come ci potrebbe spiegare una qualsiasi psicologa invitata a un programma di Giletti “i soldi non fanno la felicità”, come ben sanno i giovani aspiranti scrittori che abitano a Rozzano e Tor Bella Monaca. Dopo la laurea in Lettere all’università La Sapienza, pressata dalla necessità di mantenersi in vita, non va a lavorare: si iscrive alla scuola di scrittura del fighettissimo Alessandro Baricco a Torino. Poco dopo pubblica il suo primo romanzo, Adelmo, torna da me, praticamente in self-publishing: da Einaudi! È noto che Einaudi lanci spesso esordienti (specie con determinate caratteristiche, e non letterarie). L’ambiente romano e cinematografico le è così ostile, come ricorda Cazzullo, che Carlo Virzì prende il primo libro di Ciabatti e ci fa un filmetto: L’estate del mio primo bacio (2005). Nel 2008 arriva il secondo romanzo, I giorni Felici, dove la vispa Teresa si mette a nudo, sempre edito da una casa editrice minore, Mondadori e subito finalista del Premio Strega, come accade più o meno a tutti gli autori non ammanicati tra le case editrici. Incompresa, discriminata, povera… la vispa Teresa cerca disperatamente di aggrapparsi ai suoi miti, autori sostanzialmente sconosciuti: Saviano, Piperno, Siti, Nesi, Albinati. Cammin facendo si imbatte nel neofemminismo tutto rivendicazioni e borsette Prada del “Corriere della Sera”, dove il “vicedirettore vicario” (al maschile), Barbara Stefanelli, è sempre in cerca testimonial femmine, no-gender, Lgbt per il suo blog femminista (sempre con borsetta LV). Qui, finita un po’ in ombra la più amata da Paolino Mieli, la scrittrice dalle tette di acciaio, la ciabatta slizziga sui marmorei pavimenti di via Solferino. Da qui (e incominciamo a capire qualcosa) è tutto uno sciabattare mainstream con gli amici - lei, l’esclusa – Marco Missiroli, Mario Desiati in un continuo autocelebrarsi su temi del tipo: “Meraviglioso Marco Missiroli oggi su maternità/paternità - c'è differenza?”, su Safran Foer”, su “noi invisibili”, “grazie Teresa, articolo bellissimo”, “ fino al “teresismo puro”, un elogio firmato da Francesca Archibugi. Per la ciabattina incompresa e ai margini del mainstream, la “più bella famiglia italiana”, il modello di “famiglia che vorrei”, scrive, è quella composta da Nick, Leandro e i piccolini Libero e Blu: due maschi e due bambini. Un modo d’essere “straordinario” in cui si riconosce, è quello di Madame “che un giorno si sveglia femmina e uno maschio”. Le più brave colleghe sono Chiara Valerio e Antonella Lattanzi (mmm). La soluzione del mistero Ciabatti ci sembra più vicina, ed è sul suo Instagram dove, nel profilo, non mette una propria foto ma quella di Joyce Carol Oates. Siamo alla scoperta del padre, o del maschio adulto, che nasconde segreti (tipo quelli massonici). Quando Oates era bambina viveva con la nonna materna, Blanche Woodside. Tempo dopo la morte della nonna, la futura scrittrice scoprì che il padre di Blanche si era suicidato con un colpo di fucile in bocca e apprese che questo suicidio aveva a che fare con il background ebraico dell'uomo. Fine. 

Gianmarco Aimi per mowmag.com l'11 giugno 2021. Sono stati annunciati al Teatro Romano di Benevento i cinque finalisti del Premio Strega 2021. Sono Emanuele Trevi con "Due vite" (Neri Pozza) con 256 voti, Edith Bruck con "Il pane perduto" (La nave di Teseo) con 221 voti, Donatella Di Pietrantonio con "Borgo Sud" (Einaudi) con 220 voti, Giulia Caminito con "L'acqua del lago non è mai dolce" (Bompiani) con 215 voti e Andrea Bajani con "Il libro delle case" (Feltrinelli) con 203 voti. La proclamazione del vincitore dello Strega 2021 si terrà come di consueto al Ninfeo di Valle Giulia a Roma l'8 luglio. Prima degli esclusi è Lisa Ginzburg con "Cara pace" (Ponte alle Grazie) che ha avuto 141 voti, ma ha sorpreso tutto l’uscita di scena di Teresa Ciabatti, grande favorita, con il suo “Sembrava bellezza” (Mondadori). Il “Premio Strega” è il più prestigioso riconoscimento letterario italiano, ma anche lo specchio di come si sta muovendo l’editoria. Per questo, abbiamo chiesto al critico letterario Gian Paolo Serino di interpretare per noi la scelta della cinquina e anche i motivi di alcuni esclusi eccellenti. 

Partiamo dalla cinquina. È la migliore possibile rispetto ai dodici che erano arrivati in finale?

È la migliore che si potevano inventare nel tentativo di far credere che il “Premio Strega” sia un premio e non un accordo tra editori. Ho amato molto “Due vite” di Emanuele Trevi e apprezzato “Le case degli altri” di Andrea Bajani: ha struttura narrativa identica a “Il Colibrì” di Sandro Veronesi (nell’uso temporale del susseguirsi dei capitoli) ed è al contempo molto americano, almeno nell’eccezione delle sue“Lezioni americane” anche se in certe pagine rischia il romanticismo da catasto. 

La sorpresa è vedere fuori la super favorita Teresa Ciabatti. Sei rimasto stupito?

Moltissimo. Mi dispiace perché ha costruito tutta la sua “carriera” per raggiungere lo Strega, l’aveva in tasca, aveva preparato il discorso; “Non vorrei essere qui. Sono qui. Non sono qui” per poi concludere: “Sono una anomalia”. Ma quale anomalia? Teresa Ciabatti è un virus: intendo Teresa Ciabatti che scrive. Una scalatorina d’accatto da “upper-class”, ma qualcuno l’avverta che l’alta borghesia in Italia legge Daria Bignardi. 

Non sei mai stato tenero con la Ciabatti. Cos'è che proprio non sopporti di lei?

Personalmente nulla. Anzi, la trovo simpatica, almeno quelle poche volte che ci ho parlato. Non amo i suoi libri: sono la ricerca di un abbraccio che non vuole ma che (s)vende nei romanzi: sempre la solita storiella, l’infanzia, l’adolescenza, la solitudine, i luoghi natii: ecco, credo che Teresa Ciabatti sia una “neuroromantica”, una romantica da neuro. Ne esistono già tanti di scrittori così, non abbiamo bisogno di doppioni. 

Edith Bruck è quella su cui punteresti per la vittoria se dovessi scommettere?

Non punterei. Punto tutto. Perché editorialmente è logico. In molti mi rispondono: “Ma “La Nave di Teseo” ha già vinto lo scorso anno. Cosa c’entra? “La Nave di Teseo” è una corazzata Potëmkin: sfornano due libri al giorno, fanno film, canzoni, fumetti, documentari. E poi Edith Bruck ha tutte le carte per vincere: è una Liliana Segre ad honorem. Giusto che abbia vinto lo "Strega Ragazzi”, se esistesse dovrebbe vincere lo “Strega Bambini”. La sua favoletta è per lettori che non hanno mai letto Primo Levi: poi il suo dichiarare che “il pericolo di una nuova Shoah” non esiste mi lascia molto perplesso. Eppure, sono certo che vincerà. Grazie al libro, ma anche grazie al fatto di essere stata la moglie di Nelo Risi, di aver frequentato i salotti romani che allo Strega contano. Basti pensare che i votanti si chiamano “Gli amici della Domenica”, che già dal nome sanno di Gruppo Piemonte.  Ci vorrebbero “Gli amici del lunedì”... E a proposito di Risi, Dino Risi ne “I Mostri”, nell’episodio titolato “La Musa”, ha immortalato meglio di chiunque altro il “Premio Strega” anche grazie ad un insuperabile Vittorio Gassman, travestito da Maria Bellonci. Inarrivabile.

Perché hai definito “La Nave di Teseo” una corazzata Potëmkin?

Sono una “Factory” italiana e al posto di Andy Warhol si trovano Elisabetta Sgarbi. Editrice che stimo, ma “La Nave di Teseo” non sarà mai la “sua” Bompiani. Non c’è una linea editoriale (tranne rari casi, quello ad esempio di Richard Powers) e temo farà la fine della Fandango degli anni ’90: quando faceva bellissimi libri e film, ma il progetto originale si è snaturato.

Per qualità invece quale autore credi dovrebbe vincere?

Emanuele Trevi. E fuori cinquina “La felicità degli altri” di Carmen Pellegrino e “Noi” di Paolo Di Stefano. 

Sul libro di Emanuele Trevi però segnalavi due problemi. Il primo legato al costo troppo basso, quindi potrebbe non convenire farlo vincere, il secondo perché non è completamente inedito, visto che larghe parti erano già uscite sul blog Minima&moralia.

Più che il costo la lunghezza: impossibile che, commercialmente, possa vincere uno libro di così poche pagine. Non ci starebbe neanche la fascetta. Infatti, Neri Pozza è corsa ai ripari: l’ha ripubblicato passando da 120 pagine a un formato “più grande” di 144 pagine e il prezzo dalla prima edizione di 12 euro è arrivato a 15 euro. Un aumento del 25% in pochi mesi, una percentuale da beni di lusso! Per il resto il libro è intenso, straziante di una bellezza rara. Certo la maggior parte delle pagine si possono leggere, negli anni, sul web. Ma il regolamento dello Strega non implica come scorrettezza copiare da sé stessi. È già successo in passato. 

In passato hai lanciato anche la provocazione su Fabio Volo, dicendo che meriterebbe lo Strega. O al massimo lo meriterebbe chi ha creato le sue quarte di copertina. Come mai?

Dovrebbe vincerlo ad honorem. Soprattutto chi scrive le sue seconde di copertina. Sono tutte uguali. Identiche. Un genio.

Qual è il livello generale dei libri al Premio Strega?

Altalenante, come il prezzo di copertina di “Due Vite”. Si potrebbe pensare anche al sottotitolo “Due vite”: “In ricordo di due amici morti ai tempi dello spread". 

C'è vita anche oltre ai premi?

Io non amo i premi. Non mi sono mai iscritto ad un Premio o a un concorso. Credo che ai premi o ai concorsi debbano correre i cavalli.

Qual è lo stato di salute dell'editoria in Italia nel post pandemia?

Vivace. Diciamo che escono tanti libri e speriamo che i lettori aiutino soprattutto i piccoli editori che, nel 30%, rischiano il fallimento.

·        Tonino Guerra.

L’Amarcord di un sognatore. Cinema, poesia, vita: Tonino Guerra dixit. Valter Vecellio su Il Riformista il 28 Marzo 2021. Tonino Guerra, burbero e dolce insieme, era il grande patriarca di Pennabilli, paesino di tremila abitanti arroccato nell’Alta Valmarecchia in provincia di Rimini. Lì, in una solida casa di pietra viva, dove andai a trovarlo prima della sua morte il 21 marzo del 2012, si era rintanato: scriveva, dipingeva, costruiva mobili che superano ogni fantasia, impartiva lezioni a studenti che volevano diventare sceneggiatori. Chi meglio di lui, che aveva firmato cento e passa film: con Federico Fellini fantastiche metafore (Amarcord, E la nave va); con Michelangelo Antonioni le crisi esistenziali di una società che si trasforma e smarrisce (L’eclisse, Blow up, L’avventura, Deserto rosso, Zabriskie Point); con Francesco Rosi denunce morali e politiche essenziali per comprendere cosa sono stati gli anni che ci siamo lasciati alle spalle (Uomini contro, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti). Nato a Sant’Arcangelo di Romagna il 16 marzo del 1920, quarto di quattro figli. Studia, come tanti: magistrali, poi l’università, facoltà di Pedagogia. C’è la guerra. I fascisti non gli piacciono, e lui non piace a loro. Lo arrestano; prima lo rinchiudono nel campo di Fossoli, poi viene deportato in Germania, nel campo di Troisdorf: «Mi ritrovo con alcuni romagnoli, la sera mi chiedono di recitare qualcosa in dialetto. Allora comincio a scrivere poesie in romagnolo». Sa a memoria i Sonetti di Olindo Guerrini, li recita ai compagni di prigionia per alleviare angoscia e nostalgia. Poi si inventa le sue poesie. Un compagno le trascrive e conserva. Nasce l’autore de I bu e di tante altre successive raccolte. Dal logoro taccuino segnato dal tempo estraggo alcuni pensieri che mi disse quando lo andai a trovare.

Rimini: «Per me, da ragazzo, era una città lontanissima. Io sono nato a dieci chilometri da Rimini, a Sant’Arcangelo di Romagna. Prima di partire per Roma, quei dieci chilometri erano lo spazio più grande che uno potesse fare. Un santarcangiolese andava a Rimini per il dentista, perché aveva mal di pancia… O per prendere il treno, che poi doveva fare un lungo viaggio… Elio Petri, che era venuto a trovarmi da Roma, dovevamo discutere di un suo film, viene con una macchina verde, e a un certo punto dice: andiamo a prendere un caffè a Rimini. Il caffè a Rimini? Dieci chilometri per andare a prendere il caffè? Ma Tonino, fa lui, cosa vuoi che siano dieci chilometri? Mi dispiace, gli dico, non posso venire, è più forte di me. Ma dico, sei matto?, fa lui. E io: no, non vengo. Non posso dire: sono andato a Rimini a prendere il caffè. Ecco, questo per dire che quei dieci chilometri erano, e continuano restare per me una cosa davvero grande, l’eternità. Per andare a Mosca, cosa vuoi, prendi un aereo, in tre ore ci sei. Ma andare a Rimini, quei dieci chilometri. Mi sono rifiutato».

Il rapporto con le donne: «Adoperavamo gli occhi. Per esempio, l’occhio che oggi è tanto adoperato perché serve a vedere le immagini di quell’invedibile televisione che c’è, allora serviva per comunicare a una donna che passava qualcosa di molto forte. Una cosa che ho trovato solo in Sicilia. Una volta ero lì con Antonioni, ci invitano a una casa di nobili, e c’era una ragazza che parlava di un film di Alberto Sordi che aveva visto a Catania. Parlava, ma non ci guardava mai negli occhi. Questa ragazza scambiava solo qualche occhiata col padre, o con la madre del fidanzato, che era lì. Durante il pranzo c’è stato un momento che i miei occhi si sono incontrati con quelli della ragazza; e mi sono cominciate a tremare le gambe. Dopo ho detto a Michelangelo: senti, per caso, ti è capitato. Michelangelo mi interrompe subito: lo sguardo di quella ragazza. Anche lui era rimasto folgorato. Ecco: anche a guardare una donna ci vuole allenamento. Bisogna trasferire agli occhi quello che si vuol dire a una donna. Io ce l’ho con Barnard: invece di pensare al cuore e a come trapiantarlo, doveva pensare a qualcos’altro…».

Quando si era giovani: «C’erano delle cose sgradevoli. Non c’erano molte comodità: il bagno si faceva solo il sabato, nei bagni pubblici, vicino all’ospedale. Il senso della pulizia e dell’acqua erano un po’ scarsi. Ma erano anche stagioni di grande felicità, perché eravamo pieni di modestia. Però c’era poesia. Adesso siamo diventati dei robot. Si manca di spiritualità. Una volta c’erano le veglie nelle stalle, gli incontri. C’era il senso della neve, magari la guardavi dalla finestra; e pensavi: io sono a letto, riparato, mentre gli altri sono per strada. C’erano i carrettieri, il gioco delle bocce, mio padre che faceva fatica a piegarsi per allacciarsi le scarpe, oppure non metteva la giacca perché non riusciva a infilarsela…C’erano i gatti per le strade, i pesci da dare ai gatti. Un mondo che aveva delle cose belle; soprattutto c’era una grazia negli incontri, nel dire: buongiorno…Un calore…Ora se non hai due milioni sugli occhi nessuno ti guarda. Fai caso alle televisioni: la speranza della gente consiste nel vincere alle lotterie. Oppure ci sono quaranta programmi al giorno sui viaggi. Ti faccio vedere quel posto, o quell’altro. Lotterie e viaggi, viaggi e lotterie. Non so come sarebbe bello se anche la tv di stato diventasse poverissima. Una tv che non fa pubblicità, che dice: moriamo tutti di fame…Vorrei vedere che cosa succede…In questo momento non abbiamo nulla che ci aiuti a vivere e a voler bene agli altri. In Amarcord l’abbiamo raccontato quel mondo».

La Romagna: «È piena di storia. Qui hanno origine grandi famiglie, come i Montefeltro, i Malatesta. È un luogo curioso, questo. La prima cosa che ho fatto a Pennabilli è l’orto dei frutti dimenticati: una raccolta di un’ottantina di frutti che stavano scomparendo, come un certo tipo di mele, nessuno ormai le piantava più. Qui si cerca di salvarli. Oggi la frutta che mangi sembra siano saponette; noi siamo più abituati a quell’intensità di sapori che c’era una volta».

Il gioco della memoria: «Una volta Cesare Zavattini mi racconta: Tonino, bisogna guardare tutto, una mosca che cammina, un cane, un uomo, senti una frase in trattoria. Le cose magiche che sono intorno a noi: il colore di un albero, una melodia, la malinconia di un uomo. Ho cercato di farne tesoro. Una volta ero ancora a letto. Sotto il mio appartamento c’è un caffè, saranno state le quattro, arrivano le pescivendole, quelle che piacevano tanto a Fellini con il sedere diciamo abbastanza importante; prendono il cappuccino, parlano; a un certo punto una dice: “A Pechino fa la neve”. Quella frase mi ha colpito. Chissà perché l’ha detto? Come l’ha saputo, da chi? Quando si è trattato di trovare il nome a una mia commedia, quella frase viene fuori. Insomma il suggerimento di Zavattini, che è anche il mio: leggere, prendere appunti, ascoltare, le cose vengono dalle situazioni più impensate».

Il lavoro di sceneggiatore: «A Siviglia, con Rosi, per la Carmen. Dobbiamo tornare la mattina presto in treno. La sera prima c’è stata la grande processione per la Madonna di Siviglia: uno spettacolo stupendo, con tutti i carri pieni di candele. La mattina siamo per strada, è una magia, le strade sono bianche, coperte dalla cera delle candele. Un’immagine fantastica; queste immagini le raccolgo, sono i miei pizzini. Faccio pochissimo: parlo, dico delle cose, lascio che sia il regista a decidere se quello che dico può servire o meno. I registi con cui ho collaborato prendono dei brandelli di me, e questi brandelli nascono sempre dalla poesia».

Federico Fellini: «Uno degli incontri più importanti della mia vita: un incontro nato dalla stima e dall’interesse di Federico per le mie poesie. Ero a Roma. I primi anni è stata dura, era difficile inserirsi, ho anche fatto la fame. Federico mi ha sempre aiutato, un rapporto straordinario. Era una montagna di fantasia, buono, generoso, aiutava tutti. Si parla molto dei suoi film, poco della sua solitudine, del suo incantarsi davanti a un disegno, ai fumetti che amava. Sfuggiva una realtà che poi raccontava con tanta profondità. Amava la sua terra, la Romagna; eppure in Romagna non ha mai girato un metro di pellicola. Il suo cinema affondava nella sua memoria, nei suoi film c’è l’odore e il sapore della Romagna. Il lavoro con lui era di grande rispetto e amicizia».

Curiosità di poeta: «Sempre. Fino all’ultimo, fino alla morte!».

·        Umberto Eco.

Come si diventa Umberto Eco? Nel weekend gratis con Repubblica due libri con le riflessioni su lettura e progresso del grande intellettuale. Marco Belpoliti su La Repubblica il 16 febbraio 2021. Questa volta si tratta di raccolte delle Bustine di Minerva selezionate attorno a due temi. Sabato 20 febbraio e domenica 21 con il giornale in edicola ci saranno, in omaggio, altri due volumi della collana dedicata a Eco, a cinque anni dalla scomparsa. Un regalo per chi acquista il giornale e un modo per ricordarlo. Ci sono tanti Umberto Eco: il semiologo, il filosofo, lo scrittore, il conferenziere, il professore universitario, il giornalista, il rubrichista e altri ancora. Quello che a me piace di più è senza dubbio l'ultimo: il rubrichista. Mi piace vuol dire che Eco fa divertire e insieme pensare, stupisce e affascina, rovescia i luoghi comuni e rende comuni i rovesciamenti. Un giocoliere, come appare in una notissima immagine di Tullio Pericoli ripresa nella copertina del penultimo "Robinson": sul naso di Eco danza un altro Eco a braccia aperte e gamba destra levata, sopra un altro Eco, più piccolo, suona uno strumento a fiato e infine un quarto Eco sopra a tutti vola in aria e danza. Giocoliere che gioca, che diverte, e soprattutto si diverte lui per primo. Questi due volumetti, Perché i libri allungano la vita e Le magnifiche sorti e progressive raccolgono una scelta delle "Bustine di Minerva" la gustosissima rubrica che Eco ha tenuto su "L'Espresso" dal 1985 al 2016, una delle sue attività giornalistiche più riuscite. Perché? Per via della capacità che Eco possiede di cogliere quelli che in linguaggio biblico" si chiamano "i segni dei tempi", ovvero l'abilità di fiutare temi e problemi di evidente attualità; ma non i grandi temi, bensì quelli più piccoli e che tuttavia sono anche quelli più importanti, perché dentro il minuscolo sta nascondo il grande, basta saperlo vedere. Del resto, cos'è la semiotica se non una scienza della lente di ingrandimento? Il semiologo è uno che guarda le cose minuscole e ne trae leggi generali. Un investigatore. Non è forse l'abduzione il metodo che il semiologo Eco ci ha insegnato ad apprezzare? Più della deduzione e della induzione, di sicuro. Un incrocio. Ma non divaghiamo. La verità è che le "Bustine" sono splendide perché minime, cioè corte. Dovevano entrare in una pagina de "L'Espresso", e non di più. Ed Eco è un miniaturista: riesce a dire tanto con poco, e in poco spazio. Le due cose non sono la stessa cosa. Con poco, vuol dire che Eco conosce l'arte del risparmio di parole, e sa scrivere in spazi tipografici ristretti, anche se poi ha scritto romanzi assai lunghi. Diciamo che queste pagine gustosissime funzionano proprio perché brevi, così che l'autore è costretto a essere compendioso in modo rapido, perché poi lo spazio finisce. Ci riesce perché Eco è un battutista eccezionale, quasi come Woody Allen. Non sono sicuro che le sue battute siano tutte originali, ma di sicuro funzionano sempre, perché lui le sa raccontare. Qui come in Diario minimo (1963), c'è un narratore di idee e storie che ti sorprende con cortocircuiti formidabili. La bravura, come constaterà il lettore di "Nozionismo e nozioni", compreso nel primo volumetto, consiste nella semplicità di pensiero, qualità che non è facile raggiungere: o la si possiede in dono, oppure serve molto tempo e pratica per raggiungerla. Umberto Eco ha avuto entrambe. Perché i libri allungano la vita ci presenta un autore saggio e ponderato, che distilla una sapienza frutto d'una lunga esperienza, come mostra la "Bustina" che dà il titolo al volumetto. Con efficacia ci spiega perché i libri accumulano conoscenze e ci allungano in questo modo la vita (non in senso temporale, ma in senso esperienziale: qualità contro quantità, un tema echiano). Ma anche il confronto tra Totò e Chaplin (chi è meglio dei due?) è un piccolo capolavoro di critica letteraria (e cinematografica) e di metodo. La capacità di semplificare del semiologo discende da una metodologia critica e intellettuale che vediamo alla prova in questi brevi scritti giornalistici. La rubrica poi dà a Eco l'occasione di giocare con l'attualità, come si vede nei due scritti sulla figura dell'intellettuale, dove il filosofo e il giornalista mettono alla berlina i luoghi comuni creduti veri dai più. Le magnifiche sorti e progressive contiene poi dei piccoli racconti umoristici (l'umorismo è la chiave di volta dello spirito dell'Eco narratore, non la comicità) dove ironia e sarcasmo giocano a rimpiattino. Bellissima la "Bustina" intitolata: "Quanti alberi butto via in un anno?", una messa alla berlina dell'ecologismo radicale, ma anche una riflessione su cosa bisogna fare: pragmatismo ironico. C'è anche un Eco clonato, o meglio il racconto in cui Eco si figura d'essere stato clonato, dove il paradosso è lo strumento migliore per raccontare e di conseguenza per ragionare. Alla fine della lettura di queste pagine fulminanti non solo ci si diverte, ma si impara persino a scrivere. Lo stile Eco è inimitabile, da un lato, eppure fa scuola, se si sa afferrarne l'umore più sottile. Si impara a scrivere imitando e poi, come l'Eco professore insegnava, buttando a mare l'imitazione stessa. Come la famosa scala di Wittgenstein, che serve per salire e poi si può anche farne a meno. Il pezzo più brillante e più divertente, e paradossale, eppure assolutamente vero, è quel "Come prepararsi a morire" che chiude Le magnifiche sorti e progressive, da cui si capisce come dietro alla brillantezza del battutista e al pragmatismo del filosofo si cieli una sorta di amarezza e anche di malinconia, due delle muse che l'hanno ispirato (soprattutto nella narrativa). Eco è stato un illuminista perplesso, un ottimista critico e un pessimista speranzoso. Nel finto dialogo platonico il maestro spiega all'allievo Critone come si riesca a prendere congedo serenamente dalla vita convincendosi "che tutti gli altri siano dei coglioni". Un esempio dell'Eco zen, che non smette mai di essere un burlone, meglio a presentarsi sotto le spoglie del burlone, quando invece ci dice cose molto amare sulla vita in generale; ce le fa apprezzare secondo quell'insegnamento cristiano che aveva appreso: cospargere di zucchero l'orlo del bicchiere che contiene la bevanda amarissima da ingollare. Lo fa sempre senza fartelo pesare, perché sa bene come la vita già di suo sia assai pesante, e con quella pesantezza gioca sempre. La sua arte è stata, per ribaltare una formula notissima, una sostenibile leggerezza dell'essere. E meglio di queste "Bustine", per ritrovare almeno uno scampolo di quella leggerezza, non c'è.

Cinque anni senza Umberto Eco, l’intellettuale che ha messo il sapere in Bustine. Il 19 febbraio del 2016 ci lasciava il professore, che con la sua rubrica sul nostro giornale ha interpretato per lunghi anni il presente. Paolo Di Paolo su L'Espresso il 16 febbraio 2021. Diceva che l’innesco era quasi sempre «un moto d’irritazione». Che di solito una Bustina veniva fuori da un dispiacere, da uno sdegno. E che questo di partire dalla stizza è un buon modo per evitare l’«esibizione alquanto demagogica di buoni sentimenti». Una rubrica settimanale (o quindicinale), come è stata per molti anni sull’Espresso, quella di Umberto Eco intitolata “La Bustina di Minerva” mette a dura prova anche le firme più brillanti. L’abitudine, la ripetizione, per certi versi quello che si chiama il mestiere, sono i primi nemici della grazia e della freschezza. È vero che Eco stesso, al momento di raccoglierle in volume, ha cassato diverse “puntate”: sbiadite per via di un vincolo troppo stretto con l’attualità, o considerate monotone. Ma forse è stato un eccesso di zelo, perché non c’è Bustina che non sia attraversata come da una corrente elettrica, il palpito fosforico dell’intelligenza. «Riuscire a dire in un numero prescritto di battute quel che si pensa, è un esercizio che consiglierei a chiunque» scrive Eco, e spinge a riflettere su come un limite di spazio possa – vale per la metrica in poesia – mettere ordine nel caos, traendo da noi il meglio. Che scriva di Mussolini o di Andreotti, che si soffermi sull’ispettore Derrick o sui motori di ricerca in Rete, che si domandi cosa pensasse Leopardi delle ragazze di Recanati o come dire parolacce in società, Eco riesce a dare scintillante dimostrazione di come si possa applicare la propria intelligenza a tutto, a questioni incommensurabilmente distanti. Sempre che intelligenza vi sia, naturalmente. È una questione di curiosità onnivora; è capacità di creare connessioni: è l’arte, o lo sport – come ha scritto Alessandro Baricco qualche giorno dopo la scomparsa di Eco – che una volta senza vergogna si poteva definire così: «fare gli intellettuali». Sport di cui Eco fu un atleta rivoluzionario: «Capì che il cuore del mondo non stava immobile in un tabernacolo sorvegliato dai sacerdoti del sapere: comprese che era nomade, capace di spostarsi nei posti più assurdi, di nascondersi nel dettaglio, di espandersi in archi di tempo colossali, di frequentare qualsiasi bellezza, di battere dentro a un cassonetto e di sparire quando voleva». Affacciandosi, dal tardo Novecento, sul terzo millennio – come fa nei testi di "Perché i libri allungano la nostra vita" in edicola sabato 20 febbraio e nella raccolta "Le magnifiche sorti e progressive", in uscita domenica 21 con L’Espresso e Repubblica – dimostra di saper intuire il futuro prima che arrivi. Non da profeta: da rabdomante, semmai, o semplicemente da orologiaio con le lenti giuste. Uno che conosce gli ingranaggi del tempo – ed è capace di muoversi mentalmente, con sovrana leggerezza, fra secolo e secolo come fra minuto e minuto. Volete capire perché, pur ossessionandoci la giovinezza, il potere sia in mano a uomini fra i settanta e i novant’anni? C’è il capitolo che pone l’interrogativo e afferra un’ipotesi di risposta. Ma con il suo binocolo Eco coglie, anche in prospettiva – sono gli anni Novanta del ’900 – gli effetti collaterali dell’allungamento della vita umana («un essere di centocinquant’anni, se conserva le proprie facoltà intellettuali, avrà una esperienza incommensurabilmente più vasta della nostra»); affronta la questione ambientale, mettendo in guardia da qualche estremismo ecologista; l’esplosione demografica, il trionfo della tecnologia leggera (nel ’96 parla di «vecchia tv», l’eugenetica. Immagina – nel ’97 – «il casco dell’ipnovisore», lo proietta nel 2090, e ci avverte che uno speaker finalmente sta annunciando «che si era sulla buona strada per scoprire i responsabili della strage di Ustica».

·        Victor Hugo.

Dagonews il 24 marzo 2021. Nel 1865, in occasione dei 600 anni della nascita di Dante e lo scoprimento della statua in Santa Croce a Firenze, Victor Hugo fu invitato dal Gonfaloniere fiorentino a partecipare alle feste dantesche. Firenze era dal 3 febbraio 1865 Capitale d’Italia. Hugo era impossibilitato a muoversi dall’esilio politico, che ne aveva fatto una figura mitica di arista-esule “Padre della patria in esilio”, esempio per i popoli europei in rivolta, come Dante. Scrisse allora una “Lettera” da Hauteville House a Guernsey, dove per 14 anni lo scrittore fu esiliato per motivi politici: aveva organizzato una insurrezione contro il colpo di stato del 2 dicembre 1851 di Napoleone III. Lì scrisse “I miserabili”. Si è scoperto che la prima copia di questa “Lettera a Dante” in francese, con una lettera di accompagnamento di pugno di Hugo, è custodita nell’Archivio del Museo Teatrale alla Scala. Una seconda copia, sempre trascritta da un copista, fu spedita al Gonfaloniere di Firenze. Questa copia della “Lettera a Dante”, con relativa lettera di accompagnamento datata 4 maggio 1865, non compare a chi sia indirizzata ma deve essere ad Arrigo Boito. Esiste infatti nell’Archivio una seconda lettera di Hugo a Boito, sempre dello stesso anno e sempre scritta dall’esilio di Guernsey. I due si conoscevano e alla morte, Boito lasciò le proprie carte all’Archivio della Scala. Nella lettera di accompagnamento del 4 maggio 1865 si legge che il gonfaloniere di Firenze ha chiesto a lui uno scritto in occasione del Giubileo di Dante. “Io gli ho risposto con la lettera acclusa. Un atto dovuto – scrive - dopo quanto ha fatto contro l’Italia il Parlamento francese”. Si riferisce all’accordo diplomatico stipulato a Fontainebleau il 15 settembre 1864 tra Regno d’Italia (nato il 17 marzo 1861) e Secondo Impero di Napoleone III che prevedeva il ritiro entro due anni delle truppe francesi da Roma in cambio di un impegno da parte dell'Italia a non invadere lo Stato pontificio. Chiedeva che entro sei mesi il trasferimento della capitale da Torino a un’altra città che non fosse Roma, e la scelta cadde, appunto, su Firenze (dal 3 febbraio 1865 al 30 giugno 1871). Aggiunge Hugo: “Il Gonfaloniere ha detto che la data di lettura sarà 15 maggio. Spero che gli italiani pubblichino questa lettera, prima della lettura pubblica che sarà fatta a Firenze. La lettera deve essere tradotta in italiano”. Hugo, forse, non conosceva i tempi della burocrazia italiana: la sua lettura nella nostra lingua avviene solo oggi, dal 25 marzo in streaming sul sito del Teatro alla Scala: sono passati 160 anni. La “Lettera a Dante” è in francese, scritta da un copista e firmata Victor Hugo e fu inviata al Gonfaloniere di Firenze, da persona terza, il 10 maggio 1865 per essere pubblicamente letta. Nel messaggio evidenzia l’alto valore morale e politico assunto dalla figura di Dante nel processo di identificazione nazionale del popolo italiano: “Dante e l’Italia si identificano”, scrive Hugo, che parla dell’Italia “finalmente unita e uscita dall’Inferno”. Invita gli italiani a “venerare le loro città: Le vostre città sono la patria, Dante l’anima”. Poi aggiunge: “Una lunga eclissi ha gravato sull’Italia, eclissi durante la quale il mondo ha avuto freddo, ma l’Italia viveva”. Cita i grandi italiani: Michelangelo, Colombo (quello di cui si abbattono oggi le statue), Galileo e Beccaria e aggiunge che “l’Italia oppressa ha creato l’educazione al mondo… L’Europa – aggiunge - è una comunione sublime di comunità basata su Dante, Goethe e Shakespeare, non vi saranno più stranieri e la terra sarà una sola patria”. La lettera fu in gran parte letta in francese dall’attrice Adelaide Ristori, come riporta “La Nazione” di martedì 16 maggio 1865. Così il cronista descrive l’evento: “Venuta la volta degli autori stranieri la signora Adelaide Ristori lesse col magistero d’arte ond’è famosa, la lettera di Victor Hugo […] Non è a dire qual commozione si suscitasse nel pubblico all’udire lo splendido linguaggio del primo onore della musa francese: non è a dire come la sua voce trovasse eco profonda nel cuore di tutti, i quali convenuti ad onorare il più grande proscritto nazionale, associavano con espansione di affetto alla sua imperitura memoria il ricordo dell’illustre proscritto straniero.  […] Allora la commozione nel pubblico non ebbe più freno nè misura: le signore presero ad agitare i fazzoletti, gli uomini a battere freneticamente le mani; dalla folla partì un grido “Viva la Francia!” E mille voci risposero Evviva! Dalla parte ove sedevano i rappresentanti francesi fu esclamato “Vive l’Italie!”.

·        Virgilio.

Virgilio ed Enea, il primo dei Romani. Nell'Eneide Virgilio canta la storia leggendaria del fondatore di Roma. Ma un saggio di Mario Lentano, Enea. L'ultimo dei Troiani il primo dei Romani (Salerno editrice), racconta un'altra storia...Matteo Carnieletto, Domenica 10/01/2021 su Il Giornale. Virgilio arriva ad Enea alla fine della sua esistenza. Prima, infatti, il poeta latino canta i pascoli con le Bucoliche (un libro), poi i campi con le Georgiche (quattro libri) e infine i condottieri con l'Eneide (12 libri). In mezzo, una Roma che cambia profondamente e di cui lui diventa il vate, come nota Niklas Holzberg in Virgilio (Il Mulino): "Con uates s'intende il profeta e parimenti un poeta ispirato da uno spirito divino; l'uno e l'altro erano considerati nell'antichità mediatori tra cielo e terra". E del resto, Virgilio per lungo tempo viene visto come un mago tanto che, secondo una tradizione antica, al poeta, noto per la sua castità, sarebbe stato appioppato anche il soprannome di "vergine". Di più, nota sempre Holzberg: "Nella prima età imperiale, l'etimologia del nome Virgilio è stata ricondotta non solo a uirgo (vergine), ma anche a uirga (verga)". Un poeta dotato di bacchetta magica, dunque, capace non solo di creare versi stupendi, ma anche di compiere terribili magie, come racconta Hans Sachs in un carme del 1551:

Con la sua arte di nigromante

fece sì che dalla vulva della donna

scaturisse una fiamma vampante

immensa e crepitante.

È questa la vendetta del poeta contro una donna che non lo avrebbe filato e che, per di più, gli avrebbe pure teso una trappola:

Sulla piazza del mercato lei dovette stare

uomini e donne accorsero a veder la comare

nonché chi voleva trovare

un lume per il focolare

E così Virgilio è finalmente appagato e può dedicarsi alla sua poesia, che è onnicomprensiva, come scrive Macrobio, e che ci parla del suo tempo. Delle sue ansie e delle sue aspirazioni. Nelle Bucoliche, infatti, il poeta racconta di una pace che non c'è più e che è stata spazzata via dalle guerre civili. Nelle Georgiche, invece, addita "al pubblico colto romano la via per la ricostruzione dell'Italia devastata, per la riconquista di un consapevole rapporto con l'ambiente e per una vita in cosciente armonia col ritmo naturale delle stagioni", scrive Michael Von Albrecht in Virgilio. Un'introduzione (Vita e Pensiero). Nell'Eneide, infine, "cerca di riannodare in una manniera nuova i fili disciolti, mostrando in che modo i Romani avrebbero potuto mostrarsi degni del compito che la storia del mondo aveva loro affidato". Quest'opera, infatti, rappresenta il mito fondativo di Roma e della sua missione, incarnata da Cesare Augusto, sulla terra. Tutta la vicenda dell'Eneide, come è noto, ruota attorno a un "vir", a un uomo: Enea. È lui che fugge da Troia in fiamme, portando con sé il vecchio padre, Anchise, e i penati, gli dei protettori della famiglia e della patria. È lui l'uomo che dovrà soffrire per terra e per mare e i cui dolori non sono inutili, ma hanno un fine: dum conderet urbem (finché fondò la città). È lui l'uomo, il vir appunto, che dovrà fare da modello a tutti i romani. O forse no. Mario Lentano, in Enea. L'ultimo dei Troiani il primo dei Romani (Salerno editrice), offre un racconto alternativo alle vicende dell'eroe latino. O almeno della sue ultime ore a Troia. Secondo il professore, che insegna lingua e letteratura latina all'Università di Siena e che si rifà ai versi di Omero, "Enea, in quel giorno maledetto per i Troiani, è bensì sceso sul campo di battaglia, ma si è collocato in ultima fila, alle spalle dell'esercito, in una posizione che ne rendeva di fatto impossibile la partecipazione al comattimento. Una posizione (...) che rappresenta la negazione più radicale dell'etica guerriera omerica, secondo la quale un eroe dimostra il proprio valore scchierandosi tra i prómachoi, cioè tra quelli che combattono in prima fila. (...) Quella posizione rappresenta l'onore e il dovere del valoroso, la giustificazione dei privilegi materiali e immateriali di cui gode e del riconoscimento che pretende dai suoi sottoposti". Ma non solo: Enea potrebbe aver venduto i troiani ai greci, "spinto per di più da meschine ragioni di rivalità personale nei confronti di Priamo e di suo figlio Parie", scrive Lentano. Orazio, nel Carme secolare cerca di rispedire al mittente le accuse e lo stesso farà Virgilio, dedicando tutto il secondo libro dell'Eneide alla rievocazione della caduta di Troia. Enea è un eroe moderno. Anzi, l'opera di Lentano lo definisce "un anti-eroe al tramonto del mondo antico". Ed è proprio questa la grandezza dell'opera di Virgilio: parlarci ancora oggi per raccontarci la storia di un uomo fragile, diviso e combattuto. Forse addirittura di un traditore. Che però ha saputo fondare un popolo nuovo che ha conquistato il mondo. Soggiogandolo non solo con la violenza, ma anche con il diritto, come scriverà centinaia di anni dopo Rutilio Namaziano su Roma: "Hai riunito popoli diversi in una sola patria, la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi. Offrendo ai vinti il retaggio della tua civiltà, di tutto il mondo diviso hai fatto un'unica città".

·        Vivienne Westwood.

Paola Pollo per il "Corriere della Sera" l'1 aprile 2021. Non c'è un limite che Vivienne Westwood non abbia superato, cancellandolo e spostandolo oltre. L'8 aprile la stilista del punk compirà 80 anni, ma solo la scorsa stagione ha posato nuda e qualche settimana fa si è fatta fotografare con baffi e barba disegnati. Ieri erano gli abiti il suo manifesto ribelle, oggi sono le battaglie politiche contro ingiustizie e cambiamento climatico. Prima parlava di corsetti e sottogonne, ora solo e soltanto di libertà e rispetto. «La mia - dice nella biografia uscita qualche anno fa di Ian Kelly - è una storia di moda, di attivismo e di vita». Sintesi sincera di racconti leggendari che cominciano da un'infanzia nelle campagne inglesi (nasce nel Derbyshire figlia di operai del tessile, Gordon e Dora Swire) fra picnic e feste del raccolto. A Londra Vivienne arriva a 17 anni ma lascia presto l'università perché si annoia come succede a tanti geni assetati di vita. A ventun anni sposa Derek Westwood, ha un figlio ma la città è uno stimolo continuo e Vivienne non riesce a stare lontana dai Ted, dai Mod, dalla cultura pop, dalla musica, dall'arte e da Malcolm McLaren, il musicista che sarà da lì a poco l'impresario dei Sex Pistols nonché l'uomo che farà di lei la più irriverente stilista del Regno Unito. Per palcoscenico la coppia sceglie una boutique, al 430 di King' s Road. Una vetrina che cambierà più nomi (da «Let it Rock», a «Too fast to live, too fast to die» a «Sex») e non smetterà mai di dare scandalo: nel '74, per una collezione di abiti di cuoio, magliette di gomma, catene e t-shirt pornografiche interviene la polizia a mettere i sigilli. Subito dopo arriva il capitolo dei Sex Pistols, le spille in bocca, le creste e la regina «deficiente» in «God Save the Queen». Gli anarchici del punk, tutti, si vestono lì. E si ritrovano lì. La vera queen per loro è Vivienne. Che naturalmente, quando la ribellione si fa establishment, esplora altro. La storia, i costumi, i corsetti, le parrucche, le gonne di crine, i faux cul : un recupero della tradizione di grande impatto. Il consenso del fashion system non tarda ad arrivare: il Victoria and Albert Museum le dedica la più grande mostra allestita per una stilista vivente. Da Londra, però, la Westwood porta la sua moda a Parigi, crinoline e zeppe vertiginose dette «platform»: epica la caduta a gambe all'aria di Naomi Campbell. Vivienne studia e crea. Dorme poco, lavora sempre. Nel '92 la regina le perdona l'affronto e le conferisce l'Order of British Empire. E la stilista cosa fa? Il giorno della premiazione alza la gonna per far vedere che lei non usa la biancheria intima. Provocazione e non esibizione. Ormai tutti lo sanno. Non c'è nulla da perdonarle, se non la forza di essere se stessa. Coincidenza: in quell'anno incontra anche il futuro marito, Andreas Kronthaler, suo allievo alla scuola di moda di Vienna, 25 anni più giovane. Non certo un limite, per la «ragazza» dai capelli rossi. Si sposano poco dopo, durante una pausa pranzo a Londra. Lui diventa il suo assistente inseparabile al quale lei lascia la direzione creativa nel 2016, non certo per andare in pensione. La moda, dice, non le interessa più. O meglio non ha più voglia e tempo di parlare di abiti. Le sue battaglie ora sono altre, non si contano più: sociali, politiche, per l'ambiente. Ma ad ogni sfilata Vivienne continua ad esserci, musa ispiratrice del marito, e consigliera. Non c'è dettaglio che non le sfugga e non c'è, ancora, a 80 anni, limite al quale si sottragga. Auguri queen.

Veronica Timperi per “il Messaggero” il 9 aprile 2021. A 5 anni ha creato il suo primo paio di scarpe, a 12 si cuciva i vestiti, poi ha intrecciato la sua visione della moda con la politica, la musica e l' arte, trasformando gli abiti in portatori di messaggi sociali, atti di ribellione. Vivienne Westwood ha spento ieri 80 candeline al fianco del marito, il designer austriaco Andreas Kronthaler, 25 anni meno di lei, inviando il suo messaggio al mondo sugli schermi di Piccadilly Circus, a Londra. In un video di pochi minuti, intitolato Do Not Buy A Bomb, la stilista in vetrina lancia il suo monito contro il commercio delle armi e l' indifferenza della società per le catastrofi ambientali. Il 2021 è un anno di ricorrenze per la matriarca della moda britannica: sono anche i 50 anni dal fragoroso esordio nella Swinging London e i 40 dalla prima sfilata destinata a consacrarla icona ribelle del fashion d' Oltremanica. «Da Cenerentola è diventata una regina. Del resto il logo parla chiaro: il globo e gli anelli di Saturno, tradizione e futuro», racconta Carlo D' Amario, 76 anni, dapprima manager, poi amante durante il periodo italiano, socio e ceo del marchio, che dal 1985 ha dato una struttura commerciale alla maison.

LA FAMIGLIA. Vivienne Isabel Swire nasce nel 1941 da una coppia di operai tessili del Derbyshire, nelle Midlands britanniche. La mamma amava creare per lei e i fratelli i vestiti funzionali con gli scampoli di tessuto avanzati, primo esempio di moda circolare per Vivienne, un concetto che non abbandonerà mai. A Londra studia moda e oreficeria e si sposa con Derek Westwood, da cui prende il cognome, realizzando da sola il suo abito nuziale. A cambiarle la vita è l' incontro, nel 1965, con Malcolm McLaren, il futuro manager dei Sex Pistols. I due, prima soci in affari e poi amanti, nel 1971 aprono il loro primo negozio d' abbigliamento, Let it Rock, al 430 di King' s Road. In questi anni Vivienne mette a punto la sua estetica anticonformista, totalmente sovversiva, e crea il punk inglese con i suoi codici stilistici: t-shirt strappate, rimandi espliciti al bondage, svastiche in bella vista, spille da balia messe perfino sulla bocca della regina Elisabetta. Dopo le creste, gli spilli e i chiodi, negli anni 80 inizia a pensare alle sfilate. Nel 1981 arriva Pirates, una collezione ispirata a galeoni, dandy e bucanieri, mentre l' anno successivo, con Sauvage, usa la biancheria intima sopra gli indumenti. La svolta arriva nel 1985, nel backstage della sfilata Witches a Parigi, e parla italiano. Vivienne la pasionaria incontra Carlo D' Amario, che ai tempi aveva un' agenzia di Pr e lavorava per Elio Fiorucci. «Vidi Vivienne per la prima volta a Parigi, mi disse che voleva cambiare il sistema. Negli anni Ottanta la Thatcher, Reagan, la Coca-Cola erano il sistema, ma non la moda. Allora io le risposi che l' establishment è come un' auto che va a cento all' ora e non si può far rallentare, piuttosto bisogna superarla, correndo più veloce, inventando qualcosa di meglio». Un consiglio che la stilista ha seguito alla lettera perché ha sempre fatto parte del suo Dna il precorrere i tempi. «Quando sono andato da lei a Londra la prima volta rimasi sconcertato dall' ufficio: quella fabbrica del caos a Camden la chiamavo Bombay, ma comunque sono rimasto perché ho capito che avremmo vissuto una grande avventura».

LE BATTAGLIE. A quel punto la produzione delle collezioni si sposta in Italia e l' estetica (che resta sovversiva) si raffina virando verso il New Romantic con gorgiere, merletti, crinoline dell' età vittoriana, stampe scozzesi e tweed. Anticonformista per vocazione, dal 1992 Dama dell' Ordine dell' Impero Britannico, è salita più volte agli onori della cronaca per le sue battaglie politiche - dal caso Assange all' indipendenza della Scozia, fino alla Brexit - per le proteste a favore dei diritti degli animali e della salvaguardia dell' ambiente. La sua innata insofferenza verso ogni genere di consuetudine ha fatto di lei una delle più grandi rivoluzionarie della moda contemporanea, il suo motto senza tempo: Nel dubbio, esagera.

·        Walter Siti.

Antonello Piroso per "la Verità" il 27 aprile 2021. Walter Siti, premio Strega nel 2013, ha firmato un nuovo libro. Non da romanziere ma da critico letterario e saggista. È un'invettiva, la sua: sorniona, elegante, ricca di riferimenti «alti» e «bassi» (tra una citazione di una canzone di Salmo e YouPorn, un capitolo s' intitola: Le «storie» secondo la tivù generalista, divagazioni su talk show politici, Barbara D' Urso e Gf Vip; un altro, provocatorio: Le vittime hanno sempre ragione?), ma pur sempre abrasiva. Contro chi o cosa? Nientepopodimeno che Contro l'impegno (questo il titolo). Prendo a prestito le sue parole: «Mi irrito quando vedo molti critici e scrittori che riducono la letteratura a essere un galoppino per le loro idee, la annegano con certezze consolatorie sulla sua onnipotenza, mentre invece la letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza alleandosi a fondamentali temi umani, trascurati e rimossi: la depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia un senso, il lasciar perdere, il rancore, l' inconcludenza, la stupidera, il basso continuo della miseria umana da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese».

Come nasce l'idea di questo saggio di saggi?

«In principio c' è stata l' idea del libro, col titolo e tutto, poi è sopraggiunta la voglia di anticiparne qualche pezzetto su una rivista, L' età del ferro, che condirigo, infine l' urgenza dell' irritazione - da lei ricordata - mi ha spinto a pubblicarne alcuni stralci ancora più piccoli su Domani».

Entriamo subito in medias res. Uno dei contributi riguarda Roberto Saviano, la intervistai due anni fa in proposito, e s'intitola Preghiere esaudite. Solo che nella versione primigenia continuava con Saviano e l'abdicazione della letteratura.

«Qui c' è un addendum sul suo ultimo libro, Gridalo, che mi pare una conferma esemplare del vecchio sottotitolo. All' epoca le spiegavo come fossi consapevole di fare la figura un po' patetica del letterato vecchio stampo, ma avvertivo un clima culturale che tende a immiserire la letteratura, confinandola ai compiti o di denuncia o di intrattenimento. La situazione non è cambiata, anzi. Considerare i testi una "macchina per fabbricare rassicurazione" è tipico di quello che chiamo neo-impegno e mi fa spavento».

«Contro l'impegno», quindi «per il disimpegno»?

«No, non sono mica matto. Me la prendo con il neo-impegno perché è una versione che bada soprattutto al numero dei fruitori e al bene che può fare nell' immediato; privilegiando una forma semplificata e temi approvati come "buoni" dall' opinione di una sinistra democratica mainstream. Ho l'impressione che, anzi, sia proprio il neo-impegno a trovarsi in sintonia con la letteratura disimpegnata e di intrattenimento (guardi ai temi, e al relativo trattamento, delle fiction di Rai Uno). Nel libro ci sono parecchi accenni a un impegno capace di profondità e di autocritica: da Dante e Bertold Brecht fino a Emmanuel Carrère o Bret Easton Ellis».

Accanto al citato Saviano, ecco Michela Murgia e Gianrico Carofiglio. Considerati tre facce dell'impegno politicamente corretto.

«Sono tre scrittori molto diversi tra loro: i primi due tendono a usare la letteratura come arma di lotta (più bellico il primo, più ironica la seconda), il terzo pensa piuttosto alla letteratura come a un' estensione delle buone pratiche argomentative».

Cioè?

«Assegna alla letteratura il compito di "dire la verità", e genericamente alle storie quello di "coltivare l' empatia". Io ritengo invece la letteratura possa spingerci all' odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità».

Da qui la sua avvertenza: se gli scrittori non vogliono (in quanto intellettuali) che il loro impegno si riduca a una forma di «populismo buono» da opporre al «populismo cattivo»...

«Devono fare attenzione a non dare la priorità, nei loro romanzi, a troppi messaggi esortativi e pedagogici. Come ci insegna l'economia, la moneta cattiva finisce per scacciare quella buona».

E così torniamo a Saviano «il pugnace», il cui ritratto ha un incipit da grande arringa, e da schiaffo ai progressisti: «Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti».

«Se lui prende le distanze dai letterati che si accontentano di "fare un buon libro", alla ricerca "del bello stile", bollandoli come "codardi" - perché dal suo punto di vista non abbastanza (o per nulla) impegnati - a mio avviso contribuisce a dare un' immagine distorta della letteratura. In più in Saviano la visione manichea, speculare a quella del Potere che lui intende combattere - Potere che punta all' infantilizzazione, alla semplificazione attraverso schemi basic -, lo porta a declinare lo scrivere come categoria bellica, come arma, con la letteratura che emerge e ha dignità solo passando per situazioni estreme. Ma erano per caso borderline l' impiegato Frank Kafka, la zitella Jane Austen, il Marcel Proust che viveva di rendita?».

Si è sottoposto al test del fascistometro della Murgia, e si è ritrovato tra il «democratico incazzato» e il «non ancora abbastanza fascista, ma non più così democratico da organizzarsi per evitarlo». Il che mi è parso la divertisse.

«Ho solo ammesso che mi pareva un profilo di me piuttosto preciso».

Lei sostiene che Murgia abbia scritto il suo libro migliore quando si è cimentata nel romanzo, Accabadora, in sostanza quando ha smesso di considerare anche lei la letteratura un atto di belligeranza o comunque relegata ad un ruolo ancillare nei confronti della militanza politica.

«Michela Murgia sa distinguere tra scrittura polemica e scrittura che scava nell' ignoto; Accabadora mi pare la sua prova migliore perché affronta senza difese un tema che in lei è sempre fertile e inquietante, quello della maternità stravolta e negata».

«Un tempo a condannare erano i tradizionalisti e gli autocrati, ora sono piuttosto i progressisti, forti di un' egemonia culturale mainstream»: condanna di cosa, e perché?

«La letteratura è stata condannata molte volte dall' etica e dalla politica, perché considerata perversa o anarchica: in genere erano i conservatori a emettere la sentenza. Ora sono i democratici che ne hanno paura, perché temono che possa contagiare i bravi cittadini con idee malsane come il maschilismo, il razzismo, il fascino della dipendenza sessuale o dell' odio. Del resto, gli scrittori di sinistra più preoccupati per uno sdoganamento attuale del fascismo in Italia sembrano credere che siano le parole a generare i comportamenti, con il capovolgimento dell' approccio marxiano, per cui invece le parole sono figlie delle idee partorite dalle condizioni materiali».

Qual è alla fine il ruolo della letteratura: far maturare una coscienza civile? Una coscienza tout court? Salvare molte vite? O non piuttosto farle perdere per sempre?

«La letteratura può fare molte cose: divertire ed educare (spesso allo stesso tempo), creare una coscienza nazionale o storica, allarmare o consolare. Ma la cosa in cui credo di più è aiutarci a conoscere, per pura forza di forma, ciò che sta nascosto e spesso è ignoto all' autore stesso del testo. Le parole si alleano tra loro, organizzandosi per dire ciò che l' autore stesso non sapeva di voler dire; io sono un anziano che crede ancora che esista una profondità inconscia, sia personale che sociale, e che la letteratura sia la trappola migliore per farla emergere. Per questo diffido di chi pensa alla letteratura come a un altoparlante per diffondere idee che si conoscono già».

Essere, fare o spacciarsi per scrittore impegnato non mette anche al riparo dalle recensioni negative? Se io faccio le pulci a un autore engagé sul piano letterario, facile che questi si difenda invocando la propria scomodità sul piano sostanziale, «mi vogliono imbavagliare», inibendo di fatto il mio libero esercizio di critica.

«Naturalmente, tra le varie forme di difesa, c' è anche quella di pensare che chi ti critica sia un ingranaggio della "macchina del fango"; ma la morte della critica è anteriore a questa fase, deriva dalla fine della competenza come criterio di valutazione. Se la letteratura possono farla tutti, anche il giudizio di valore è affidato alla lotteria del mi piace/non mi piace, o amico/nemico».

I talk show come lei li racconta non sono inutili anche alla causa dei politici? Cos' ha pensato quando Nicola Zingaretti, poco prima di dimettersi da segretario del Pd, ha elogiato Barbara D' Urso perché lei aveva avvicinato la politica alla gente?

«Forse Zingaretti aveva sempre solo guardato la prima ora del programma; dopo, in ogni puntata il significato latente dello spettacolo diventava "qualunque argomento deve finire inevitabilmente in vacca". È il guaio di prendere un' opera d' arte (e uno spettacolo in qualche modo lo è) solo per un frammento invece che giudicarla intera».

Posso dirle che come lei ha trovato il Saviano più autentico solo nelle ultime pagine di Zero zero zero, quando parla di sé, così io ho intravisto il vero Siti nelle considerazioni finali: «Uso il fastidio verso la retorica come pretesto del mio disfattismo. Non si tratta di sentenze, non sono né in grado né in vena di lanciare grida di allarme, è solo una piccola rivendicazione corporativa». Oppure ho preso un abbaglio?

«Ha visto bene, in chiusura non ho saputo trattenere un dolore vero: invidio chi riesce a indignarsi per le cose del mondo. Io solo per la letteratura, e per un tipo di letteratura che forse sta scomparendo».

Scusi, Siti, ma quindi a lei chi gliel' ha fatto fare di impegnarsi così tanto «contro l' impegno"?

«Non sono abbastanza bravo da potermene disinteressare».

Da Il Giornale il 28 aprile 2021. Per gentile concessione dell' editore, anticipiamo qui un brano tratto dal saggio di Walter Siti, Contro l' impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli, pagg. 272, euro 14) in libreria da oggi. Una critica all' idea che la letteratura sia usata solo per veicolare «messaggi positivi» e una difesa del valore della forma e soprattutto del dubbio, l' ambivalenza, la contraddizione. Io credo, non mi stanco di ripeterlo, che il vero bene che la letteratura può fare agli uomini sia di inseminare la testa degli scrittori con ciò che essi non sapevano di sapere, e permettere che i fantasmi così creati fecondino la società a sua insaputa. Temo che il neo-impegno sia soltanto il sintomo di una mutazione genetica che sta proprio cambiando il rapporto con le parole: non c' è più il silenzio necessario per essere parlati (nell' antica letteratura orale, si invocava la Musa). Forse, penso quando mi sento giù, sono il custode cieco e un po' inebetito di uova di dinosauro ormai fossili. A causa della bizzarra e diffusa convinzione che in materia di arte (e in generale di cultura umanistica) si possa giudicare senza conoscere, sta finendo anche la critica come la intendo io, fatta di competenza tecnica e quindi elitaria; ora è tutto un party cerimonioso, madonna come sei bravo no no sei più bravo tu. In perfetto pendant con la presa padronale sulle parole, si assiste a una fuga nella letteratura come in psicanalisi si dice fuga nella guarigione: come se la letteratura fosse una merce e quel che interessa agli scrittori fosse soltanto ricevere la qualifica di produttori. Come se si scrivesse per esser chiamati scrittori e non per la passione di esporsi a un trauma. La scrittura engagée, così, rischia di diventare una specializzazione merceologica, come il fantasy o il self help; con tanti saluti al tremore che non può non afferrarci quando l'Angelo e il Diavolo si disputano l'animaccia nostra o l'anima della società. Forse semplicemente sono obsoleto con la mia fiducia nella letteratura solo scritta. Ammetto di non essere particolarmente lucido quando si tratta di avere a che fare col Bene e col Male; nemmeno il nichilismo e l'adorazione del negativo, ovviamente, bastano a fare letteratura; ma pian piano, negli anni, ho stabilito con l' Avversario un sodalizio che mi avvelena e mi fa compagnia. Un lontano e insanabile senso di non appartenenza mi induce a una neutra e quasi compiaciuta contemplazione del disastro: sono sempre scettico nei confronti di chi agisce, costruisce, lotta, pur riconoscendolo migliore di me. Uso il fastidio verso la retorica come pretesto del mio disfattismo; so di essere vissuto in una bolla che mi ha preservato dalle ferite ma anche da una calda partecipazione alle emozioni comuni; mi sono riparato tra romanzi drammi e poesie senza illudermi che fossero il mondo (anzi, proprio perché non erano il mondo). Il canone dei miei classici forse dovrebbe risciacquare i panni nel fiume di una nuova letteratura mondiale e multimediale. Il «cattivismo» che mi sono spalmato in faccia non può essere scambiato per intelligenza. Eppure su come funziona la letteratura qualcosa credo di avere capito, spero di aver avuto abbastanza curiosità e i maestri giusti per farne una mia fissazione non stupida. E mi irrito quando vedo che molti critici e scrittori, oggi, si comportano con la letteratura come molti maschi si sono sempre comportati con le donne: la esaltano pur di non prenderla sul serio. La riducono a essere un galoppino per le loro idee, la annegano di certezze consolatorie sulla sua onnipotenza, mentre la letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza, alleandosi a quei fondamentali temi umani che gli «esercenti di questa Terra» (politici, industriali, opinion makers) trascurano e rimuovono: la depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia un senso, il lasciar perdere, il desiderio di schiavitù, il rancore, l' inconcludenza, la stupidera il basso continuo della miseria umana da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese. Forse quella letteratura era un lusso che non ci possiamo più permettere, ma allontanare la letteratura dall' elitarismo significa sollevarla dalle proprie responsabilità, che consistono nel rovistare con tecniche sopraffine e subdole là dove abbiamo nascosto la nostra spazzatura più segreta; solo quando fa male, la letteratura può davvero essere utile. Esiste il fronte, certo, esistono le trincee e quindi esistono gli inni e i canti di battaglia; ma finita la guerra, che ne facciamo di tutto quello in cui gli opposti nemici si sono trasformati senza saperlo? Chi combatte sta là, a fronte alta, mentre io me ne sto qui rannicchiato e inerte a sputare sentenze; vi prego almeno di credere che non si tratta di sentenze, è solo una piccola rivendicazione corporativa, quasi una vertenza sindacale (i famosi sindacalisti che vorrebbero mettere il gettone nell' iPhone). Non mi sento né in grado né in vena di lanciare grida d' allarme: ma discuterne un poco, magari sì.

Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 27 febbraio 2021. Walter Siti è un raro esemplare di intellettuale che non teme di apparire peggiore di quel che è. Già stimato docente di Letteratura Contemporanea alla Normale di Pisa, è stato anche autore di «Al posto tuo», un programma tv non propriamente colto. Nei romanzi infila volentieri se stesso ogni volta che c'è un tizio schiavo di un'ossessione erotica per i culturisti. In La natura è innocente , dove ci sono invece un matricida e un attore porno, finisce per confessare che avrebbe voluto uccidere sua madre «per possedere tutti i pornoattori muscolosi del mondo». E quando ha scritto Bruciare tutto , dove ci sono invece un prete pedofilo e un bambino che si suicida perché quel prete lo respinge, ha spiegato che un bambino voleva ucciderlo fin dal primo romanzo. Gli chiedi se ha mai avuto tentativi di eterosessualità e risponde: «Naturalmente. Con una compagna al liceo, con due all'università. Poi, da omosessuali, si possono avere incontri a tre o a quattro, ma non li chiamerei tentativi di eterosessualità». Gli chiedi quanto gli è pesata la passione per gli escort palestrati e lui: «So che il sesso con la persona che ami è diverso, ma anche quello non era male». Ha raccontato di quanto ha odiato il coetaneo e compagno di studi Marco Santagata, storico della letteratura, reo di essere stato, a differenza sua, di famiglia benestante e colta. Troppi paradisi , che l'ha reso famoso nel 2006, si apriva così: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità». In realtà, lui si è sempre distinto. Leggeva e scriveva a 3 anni, è stato un enfant prodige della critica letteraria, ha curato i Meridiani di Pasolini, ed è l'unico scrittore che, se gli citi il Premio Strega che ha vinto (nel 2013, con Resistere non serve a niente , Rizzoli), anziché gongolare, inizia a raccontarti di un personaggio, quello del superboss, a suo avviso venuto male.

Siti, chi è il bambino che voleva uccidere dal primo romanzo?

«Forse io. Intendendo dire: riportarlo a una patria più confacente, toglierlo via di qua». 

Deduco che ha avuto un'infanzia infelice.

«Piuttosto infelice dopo i sei anni. Prima, ero molto sicuro di me. Abitavamo in una casa colonica alla periferia di Modena e fra tante famiglie ero l'unico bimbo, mi coccolavano tutti. Mamma mi voleva bene, forse troppo. In cortile una maestra lasciava piccoli cubi con lettere e figure e avevo imparato a leggere e scrivere da solo. Il primo giorno di scuola, mia madre si vanta con la maestra. Che, con l'aria di dire vabbè, mi mette alla lavagna e dice: scrivi casa, cassa, gnomo... Poi: sciatore, soqquadro... Ho fatto le scuole come un animaletto ammaestrato. Gli altri scrivevano papà e gnomo e io giocavo a scacchi con la maestra. Piano piano, mi sono convinto che il mondo mi fosse nemico e io dovessi far finta, prendere tutti dieci, tenermi per me le mie cose, il sesso anche».

Il sesso a sei anni?

«L'analista ha detto che non ho avuto "il periodo di latenza" in cui la libido è dormiente. A sette o otto anni, facevo gonne con gli scampoli di stoffa a un calciatore giocattolo. Un tale disse a mio padre: attento, che diventa omosessuale. Papà rispose: figurati, no. E io pensai: povero papà, non sa che è già successo. Quando, ventenne, ho raccontato all'analista certi pensieri su mio padre, ha detto che non facevano bene a un bimbo di quell'età».

Lei è del '47. Accadeva nei primi anni 50.

«Il '68 era lontano. Quando nel'62 o '63 ho iniziato a dire ai ragazzi "sei molto bello, mi piaci", mi sputavano in faccia senza troppi problemi. Dopo il '68, da dirigente dell'Arci in Toscana, proiettai Un chant d'amour di Jean Genet, un film su un amore casto fra due detenuti. Un signore un po' rustico disse: se lo rifate, mi dimetto dall'Arci. Non so come, ma sbottai: dimettiti subito, dato che io sono un tuo superiore dirigente e sono anche finocchio. Il giorno dopo, varcai la soglia della Normale, pensando: oddio cosa ho fatto. Un caro amico mi tolse il saluto. Un prof mi disse: lo sono stato anche io. Usò questo passato curioso, pensando che si potesse guarire».

E lei l'ha mai pensato?

«In principio, il mio approccio dall'analista era questo, ma lui mi esortò a guarire prima dalle cose importanti: non dormivo quasi mai ed ero timido al punto che, se parlavo in pubblico, mani e piedi s' indolenzivano e svenivo».

Com' è che con questi trascorsi è finito a raccontarsi tanto crudamente nei suoi libri?

«È stato terapeutico. L'analista, col quale mi ero lasciato lacrime agli occhi, quando gli ho mandato Scuola di nudo , ha avuto la bontà di scrivermi: per me la nostra analisi finisce qui».

Perché esordisce da romanziere a 47 anni?

«Per anni mi sono riempito occhi e testa di Balzac, Mann, Dostoevskij, erano di un'altezza tale che non ho neanche provato a scrivere. Pensavo che il mio lavoro fosse parlare dei libri altrui. Intorno all'80 ho iniziato a sentire che mi importava di più capire i nodi che mi si aggrovigliavano dentro. Cominciai a scrivere versi. Alfonso Berardinelli mi disse: sono troppo chiusi, si sente il bisogno di prosa. Così, fra l'82 e il '94 , lavorai a Scuola di nudo , pensando: lo scrivo, ma nessuno lo vedrà. Poi lo feci leggere ad amici intimi e mi dicevano: se lo pubblichi, la tua carriera universitaria finirà».

Di fatto, il protagonista era lei ed erano riconoscibili i suoi colleghi.

«Mi ero chiesto che cosa mi interessava davvero. La risposta era stata: gli uomini nudi. Me ne vergognavo molto. In copisteria, a ritirare i capitoli ribattuti, mandavo un amico: non volevo che la dattilografa mi vedesse in faccia».

È vero che per le polemiche su «Bruciare tutto» ha pianto?

«Ho pianto perché il mio compagno leggeva su Facebook insulti assurdi in cui mi davano del pedofilo e ci restava malissimo».

È l'uomo che è diventato poi suo marito?

«Stiamo insieme dal 2011, siamo uniti civilmente dal 2016, uso chiamarlo consorte. Non ne parlo mai, perché lui tiene la cosa segreta sia in famiglia che al lavoro. Spero che prenda coraggio, ma non insisto».

Marcello, il culturista della sua trilogia, esiste davvero?

«Un personaggio così non avrei potuto inventarlo. Io dai 27 anni ho sempre avuto convivenze e rapporti lunghi, ma ho vissuto su un doppio binario, con una vita catacombale, sepolta, di saune, incontri di una notte. Marcello è stato l'unico ponte fra le due vite: l'ho conosciuto come escort ed è diventato la persona più importante della mia vita per alcuni anni».

Sul serio ha fatto l'autore tv per pagare lui, che si drogava, voleva sempre soldi?

«Per quello e per interesse intellettuale. Al Posto tuo prendevano storie vere e le televisionavano . In fondo è il mestiere di romanziere».

Frequenta ancora il mondo catacombale?

«Ho 73 anni, c'è il Covid, le pare possibile?».

Quanto ha vissuto quella vita solo per poterla raccontare?

«Fino a Scuola di nudo per niente. Scrivendo Un dolore normale , ho cominciato a immaginare una trilogia e a come viverla per raccontarla. Il punto massimo è stato Il contagio».

Ha davvero frequentato il caseggiato di coatti e delinquenti di via Vermeer?

«La via è inventata, ma non lo è il mio peregrinare per borgate per due, tre anni».

E la fantasia di uccidere sua madre?

«Riversava tutte le valenze affettive su di me. Questa cura eccessiva era tutto ciò che mi impediva di respirare. L'idea di studiare a Pisa nasce da questo. Lei, quando partii, per essere fedele al personaggio, svenne alla stazione».

Che c'entra la passione per i culturisti con la mancata uccisione della madre?

«Noto che i culturisti hanno vita stretta, pettorali e glutei imponenti: forme femminili nelle quali non si rischia di essere risucchiati».

In primavera uscirà «Contro l'impegno - Riflessioni sul Bene in letteratura». Che libro è?

«Ogni capitolo affronta scrittori di moda, con la voglia di reagire all'idea per cui la letteratura serva a fare del bene, a sviluppare solidarietà, libertà, giustizia. Oggi devi parlare bene dei migranti, delle donne e censurare il resto, ma così non si sfrutta la letteratura che, se va a fondo ed è seria, dice cose che l'autore non sapeva di voler dire. E può tirare fuori cose spiacevoli che possono anche fare del male».

Lei che docente è stato?

«I quattro quinti mi ritenevano un cialtrone, gli altri uno al quale raccontare le proprie cose private. Sa? A volte, leggendo dei brani in aula, mi veniva da piangere e non si fa».

Mi dice un brano che la fa piangere?

«Uno infallibile. Dai Fratelli Karamazov. L'incontro sotto il lampione fra Alëa e Ivan, in cui il primo dice al secondo: non sei stato tu. Si riferisce all'uccisione del padre. E poi dice: Dio mi ha mandato a dirti questo, so che ti sei sentito in colpa. E Ivan: allora, l'hai visto e come fai a sapere che lui viene da me? Intende il diavolo, perché solo il diavolo può avergli detto questa cosa. Insomma, non si intendono, i rapporti finiscono. E io piango perché, leggendo, capisco cosa è un fratello: è uno che, se il diavolo ti viene a trovare, lui lo sa».

Lei ha una sorella, un «fratello» lo ha avuto?

«Ferdinando Taviani, studioso di storia del teatro. Una notte in cui ho pensato di buttarmi dalla finestra, l'ho chiamato. Gli ho detto: devo venirti a parlare. Non mi ha chiesto nulla. Ha detto solo: fai piano a suonare il campanello».

E cos' era successo?

«Una delle cose che scrivo: non potevo vivere con una certa persona, ma neanche senza».

Oggi, perché scrive?

«C'è un passo di Hugo che paragona i mestieri di scrittore e minatore. Dice "succedono incidenti laggiù". Quegli incidenti sono la cosa che mi interessa».

·        Walter Veltroni.

Francesco Borgonovo per "la Verità" l'1 gennaio 2021. Lo sospettavamo da anni, ma gli ultimi mesi ce l' hanno confermato: Walter Veltroni ha un gigantesco problema con il tempo libero. Forse non si diverte con gli amici (se frequenti gente del Pd può anche capitare) o magari non gli funziona Internet per vedere le serie in streaming. O forse, poveretto, ha comprato un divano scomodo e gli riesce difficile rilassarsi. Sia quel che sia, qualcosa non va. A testimoniarlo c' è una massa di lungometraggi, editoriali, libri, interviste (raccolte e concesse), apparizioni tv, varie, eventuali e superflue. In pratica, ogni mattina, Veltroni si alza e sa che dovrà correre più di una gazzella e di un leone messi insieme per sbrigare tutte le incombenze di cui si è fatto carico: troppe per un sol uomo. Viene da immaginarsi Walter Veltroni come Willy Wonka: nella sua fabbrica assieme a una marea di Umpa Lumpa che scrivono romanzi, battono articolesse, girano documentari e firmano prefazioni. Uno, Walter e centomila. Il risultato è una angosciante invasione degli Ultraveltroni: accendi la tv sulla Rai e lo trovi a concionare di politica; metti su La7 ed eccolo di nuovo a commentare una partita di calcio; passi su Sky e mandano il suo docufilm; ti rifugi su Netflix e trovi il film L' isola delle rose: non l' ha girato lui ma ha scritto un libro sullo stesso argomento, L' isola e le rose. Vai all' edicola e vedi spuntare il suo nome dalla prima dei quotidiani, compresi quelli sportivi. Se i cinema non fossero chiusi lo troveresti anche lì, in compenso sono aperte le librerie e fra gli scaffali c' è solo l' imbarazzo della scelta. Nel 2020 ha pubblicato tre libri. Un giallo intitolato Buonvino e il caso del bambino scomparso (Marsilio), scritto alla velocità della luce durante il lockdown. È il seguito di una piccola serie poliziesca il cui primo volume era uscito a novembre 2019: giusto il tempo di un caffè e il nostro si è rimesso a scrivere. Poi c' è il saggio Odiare l' odio (Rizzoli), pubblicato a marzo. E infine la raccolta di articoli Labirinto italiano (Solferino), uscita da poco sia in libreria che in edicola con grande spiegamento di copie, per essere sicuri che nessuno se lo perda. Riuscire a leggere tutti e tre i tomi, in fondo, non è difficilissimo. Sono circa 570 pagine in totale, ma su alcune i caratteri sono stampati grandi come i numeri sui telefoni Brondi, quindi l' impresa non è disperata. Il più è vincere il sonno. In ogni caso, per chi avesse voglia di nuovo materiale, l' attesa sarà breve. A gennaio è già prevista l' uscita in edizione economica del corposo saggio Roma. Storie per ritrovare la mia città (ben 400 pagine, edito da Bur) e del romanzo per giovani adulti Tana libera tutti. Sami Modiano, il bambino che tornò da Auschwitz (Feltrinelli). Significa che negli ultimi mesi il nostro Walter ha scritto più o meno 730 pagine, cioè due pagine al giorno. Poco meno di Stephen King, che ne scrive almeno 5, ma non tutte buone. A differenza del Re dell' horror, tuttavia, Veltroni non si limita ai libri. Sempre quest' anno ha girato due documentari. Il primo s' intitola Fabrizio De André e Pfm. Il concerto ritrovato. In pratica è la ripresa integrale di una storica esibizione andata in scena il 3 gennaio 1979 alla Fiera di Genova. Non si capisce bene perché la regia sia stata affidata al caro Walter, ma resta che il film è stato proiettato in 370 sale il 17, 18 e 19 febbraio del 2020, e ora è in vendita in dvd. L' altro documentario, Edizione straordinaria (realizzato montando le immagini dei tg Rai degli ultimi 60 anni), è andato in onda in prima serata su Raitre agli inizi di dicembre (6,4% di share, tutto sommato dignitoso). Se pensate che tutto questo sia sufficiente, vi sbagliate di grosso. Tra un capolavoro letterario e un ciak, il nostro eroe ha trovato il tempo per un' intensa attività culturale. In ottobre, ad esempio, ha ricevuto il Premio alla cultura cinematografica di Gorizia. A settembre si è guadagnato il premio letterario Cimitile. Poi è stato finalista al premio di saggistica Caccuri. E nei ritagli di tempo ha presieduto la giuria del premio Clara Sereni (con Liliana Segre) e del premio cinematografico Elio Petri. Tutto questo premiare e farsi premiare, però, era soltanto un allenamento in vista di un incarico prestigioso che gli è stato conferito in questi giorni: presidente della giuria dei letterati del celebre premio Campiello. Siamo giunti al punto che Veltroni non è più un autore, ma una filiera culturale. Potrebbe scrivere un libro; recensirselo da solo; partecipare a un premio letterario e autopremiarsi; trarre un film dal medesimo libro; recensirlo di nuovo; farlo trasmettere in tv e poi attribuirsi ancora un premio cinematografico. Si tratterebbe solo di forzare un po' le regole, ma di sicuro non ci sarebbero problemi, dato che a Walter tutto è concesso. Ogni sua opera, infatti, viene accolta come un capolavoro. Mai che esca una critica negativa. Come è possibile? Il quesito è interessante. Certo, c' è da considerare la proverbiale piaggeria degli intellettuali italiani, ma il leccapiedismo da solo non basta. Il fatto è che le opere di Veltroni nascono proprio per questo: per non scontentare nessuno. Il tratto caratteristico della loro personalità sta proprio nel non avere personalità: servono a fare volume, arredano. Anche per questo Walter dà il meglio di sé quando, come autore, sparisce. Se racconta un fatto storico controverso, riesce a veltronizzarlo, cioè a fornirne una versione mediana e neutralizzante. Con lui si va sul sicuro: scrive di tutto riportando una sorta di opinione condivisa, cerca appositamente argomenti che creino una memoria comune benché asettica. Utilizzando questo metodo, riesce a esprimersi sulla qualunque. Collabora regolarmente con il Corriere della Sera, Sette e la Gazzetta dello Sport. Da quando Rcs è nell' orbita Cairo, Walter è onnipresente, su carta e in video. Solo quest' anno ha scritto diverse decine di articoli, migliaia e migliaia di battute. E poi podcast, video... Intervistato due giorni fa dalla Stampa, ha fatto sapere che si sta pure dedicando alla lettura di ponderosi tomi sul fascismo: forse ha un Umpa Lumpa che legge per lui. Nei suoi articoli è passato da Sergio Ramelli a Gilles Villeneuve; da Hollande a Claudio Signorile. Da Woody Allen a James Blunt. Dal cardinal Ravasi a Pierfrancesco Favino: tutto fa cultura, tutto fa midcult. Muore Morricone? Ne scrive Veltroni. Muore Gigi Proietti? Ancora Veltroni. Muore Maradona? Veltroni è pronto. Muore Paolo Rossi? Riecco Veltroni. Il succo dei suoi necrologi, in fondo, è sempre lo stesso: «Era un grande personaggio che tutti ci ricorderemo». Pura luce riflessa. Stessa cosa nelle interviste. Le sue domande sono basiche: si va da «E poi, che successe?» allo splendido: «Come stai?». In sostanza Veltroni non è un autore, è un amplificatore. La sua presenza serve a moltiplicare la visibilità, a garantire recensioni e marchette. In questo senso, egli è estremamente generoso (lo diciamo senza malizia), si mette a disposizione degli altri. È un generatore, un abbattitore. È stato nel Pci ma non era comunista (dice), ora scrive romanzi ma non è uno scrittore, gira film ma non è un regista, firma articoli ma non è un giornalista. Ha fatto persino, qualche settimana fa, la telecronaca di Argentina-Inghilterra del 1986. Un match in diretta non riuscirebbe a commentarlo: correrebbe il rischio di dire qualcosa di non condiviso. Se gli affidassero la direzione editoriale del Corriere della Sera, come qualcuno vocifera, probabilmente farebbe pubblicare le notizie della settimana prima, per avere il tempo di filtrarle. Dicono anche che il suo sogno proibito sia il Quirinale, e in effetti il suo incessante lavorio per creare una memoria comune, mediata e inoffensiva sembrerebbe pensato per questo. Sarebbe la sua unica, memorabile impresa: se salisse al Colle su una pila di carta, riuscirebbe ad appiattire persino quello.

·        William Shakespeare.

"Il Bardo segreto? È nei versi per una misteriosa dark lady". Davide Brullo il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. La traduttrice dei "Sonetti" svela il "manuale d'amore" in cui Shakespeare ha lasciato un vero ritratto di sé. Stando alla leggenda, William Shakespeare avrebbe composto i Sonetti durante la peste di Londra, alla fine del Cinquecento. Simbolo di cruenta esattezza: il vero contagio, qui, è l'amore, la pestilenza del desiderio che corrode corpo e mente, dilania il viso e sregola i sogni, «costringe/ a pianger di aver chi sai di perdere». Pubblicati nel 1609 da Thomas Thorpe, sfuggiti al pudore del proprio autore, i Sonetti hanno una sinistra grandezza, precipitano nei bassifondi dell'amare, avviano una tradizione (che passa per John Donne e arriva alle Birthday Letters di Ted Hughes). Andrebbero presi a morsi, incisi sulle pareti della camera da letto, questi versi: sono un autentico manuale d'amore, leccornia d'eros, giunto da un'epoca spericolata e bella mica come questa, anodina, esangue, che relega il corpo nell'artificio, in cui pensare significava sedurre e si penava in poesia. «Per te giuro di andar contro me stesso:/ colui che tu odi io non lo devo amare», canta Will, i cui Sonetti tornano in vita grazie a Lucia Folena, per Einaudi (pagg. XLIV+436, euro 32), in una versione elegante, aspra, smaliziata, in endecasillabi. Più che a Petrarca, i sonetti shakespeariani, per le atmosfere, livide e di temerario intelletto, sigillo di un sublime passatempo, rimandano a quelli di Michelangelo: anch'essi così scriveva Giovanni Testori sono «un efferato e sublime ricatto... dato che si disfa per troppa luce». Scritti «in questi tempi infetti», i versi di Shakespeare sono dedicati al fair youth forse Henry Wriothesley, conte di Southampton e all'enigmatica dark lady forse Emilia Bassano, discendente di ebrei sefarditi veneti, amante di un figlio bastardo di Enrico VIII, poetessa. Proprio intorno alla dark lady «si sono annoverate nel tempo candidate improbabili o addirittura assurde, dalla regina alla prostituta da angiporti, dalla mezzana arrivata dall'Africa alla nobildonna francese o spagnola», spiega Lucia Folena, che abbiamo contattato. In ogni caso, i destinatari non sono che gli attributi dell'unico dio dei Sonetti, il poeta. I versi, così, offrono l'autentico ritratto di Shakespeare: moltiplicato da un ring di specchi, egli è uno e plurimo, è lì e ci sfugge, pensiamo di vederlo ma è lui, l'artefice, che ci osserva, ci compie, ci scrive.

Che rapporto hanno i Sonetti con l'opera teatrale di Shakespeare, in che contesto nascono? E che valore ad essi assegnava il Bardo?

«I Sonetti hanno moltissimi rapporti coi drammi dal punto di vista delle immagini, delle scelte linguistiche e della rappresentazione dell'amore; e anche perché sono estremamente dialogici. Si sa poco della loro genesi; alcuni suppongono che risalgano in parte al lockdown del 1592-93, dovuto a una delle ricorrenti epidemie di peste questa fece 15.000 morti che comportavano la chiusura dei teatri e l'impossibilità di esercitare le professioni connesse. Del valore che Shakespeare dava ai Sonetti non sappiamo niente, ma il suo io lirico manifesta ripetutamente una forte coscienza della propria grandezza come poeta e del fatto che i suoi versi dureranno fino al giorno del Giudizio».

Lei parla della «irriducibile polisemia» dei sonetti shakespeariani: cosa vuol dire?

«L'irriducibile polisemia sta nel fatto che quasi ogni verso dei Sonetti si presta ad almeno due o tre letture diverse, il che fa sì che, ancor più di quanto avvenga per altri testi poetici, ogni traduzione sia essenzialmente interpretazione (e arbitraria disambiguazione e semplificazione); vengono in soccorso le note, che permettono di registrare le opzioni scartate».

Di che amore parla Shakespeare? A tratti, pare che l'amore sia l'altare su cui si erge la sua individualità lirica, assolata, «I am that I am»...

«Shakespeare non parla di un amore ma di due, contrapponendo programmaticamente la sublimazione neoplatonica e la carnalità più esplicita; ma è vero che la costruzione di queste due polarità gli serve per definire un io lirico tanto complesso e pieno di contraddizioni e sfumature da non essere neanche lontanamente paragonabile all'io lirico che si può trovare nei sonetti degli altri poeti dell'epoca; i due destinatari, in un certo senso, prima ancora che come personaggi, si potrebbero vedere come confini o contorni dell'io stesso».

Che criteri ha scelto per la traduzione?

«I miei princìpi fondamentali sono stati due. Intanto, che la bellezza è una forma di fedeltà: se l'originale è bello, una traduzione che non rispetti anche questa valenza estetica (oltre al senso, alla retorica, all'argomentazione, e così via) è necessariamente infedele. Il problema che di solito si pongono i traduttori è quello del rapporto (fondamentalmente sincronico) tra due culture, quella di partenza e quella di arrivo; ma c'è un'altra questione secondo me altrettanto centrale a cui non si presta abbastanza attenzione, ed è la necessità di salvaguardare in qualche maniera il rapporto fra due tempi, il presente e il passato (rapporto che entra in gioco anche per un lettore di madrelingua inglese nel confronto con un originale scritto più di quattro secoli fa). L'alternativa più comune è quella fra una traduzione che tende a modernizzare e a naturalizzare il testo e nei casi estremi lo trasferisce nel presente arrivando a cancellare la sua storicità e quella che nell'intento di preservarne l'originaria collocazione nel passato finisce talora per minimizzare o addirittura annullare il presente in cui vivono la traduzione stessa e i suoi lettori. Uno dei due tempi rischia insomma di essere abolito, o quasi, per mettere in luce l'altro. Io mi sono proposta invece di farli dialogare fra loro: ho pensato potesse essere un'operazione interessante quella di ricercare un equivalente non tanto dell'originale anche se ho provato a rispettare al massimo le sue strutture argomentative e sintattiche e le sue complessità semantiche quanto dell'effetto che esso può produrre su un lettore contemporaneo di madrelingua inglese. A questo sono dovute ad esempio l'occasionale scelta di accostare termini letterari desueti al linguaggio colloquiale, e la decisione di adottare una forma metrica tanto fissa e riconoscibile quanto quella dell'originale».

Ha tenuto conto dei precedenti o di traduzioni illustri come quella di Yves Bonnefoy, ad esempio?

«Ho tenuto conto dei precedenti in questi termini: cercando di fare altro. La traduzione di Bonnefoy è generalmente molto bella, ma, per quanto assai meno infedele di altre, ha un difetto: dentro ci si sente più il grande poeta Bonnefoy che il grande poeta Shakespeare; e a volte il senso del passato si perde, forse non proprio nell'atmosfera del presente come nelle traduzioni più radicalmente naturalizzanti, ma piuttosto in una dimensione atemporale e universale (niente di male, naturalmente; ma è molto diverso da quello che volevo fare io)».

Estragga un verso, un fascio di versi dai Sonetti che le sembrano emblematici, e mi dica perché.

«Sceglierei l'intero sonetto 144, quello dei due amori, che sintetizza tutta la sequenza e la sua problematicità: l'apparente contrapposizione allegorica tra il Bene e il Male incarnati dai due personaggi si decostruisce e mostra la sua illusorietà; il Male finisce sempre per trionfare. Letti nel loro insieme, i Sonetti mostrano grande pessimismo, incentrati come sono sul tema della distanza tra la realtà e le immagini che la falsificano e che sono le uniche cose destinate a sopravvivere». Davide Brullo

·        Wolfgang Amadeus Mozart.

Quando Mozart (a otto anni) conquistò l'Inghilterra. Mattia Rossi il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Nel maggio del 1764, Leopold Mozart e suo figlio Wolfgang sono Londra, dopo essere stati a Parigi, per il loro primo viaggio in Europa. Il giorno 19, a Buckingham Palace, il piccolo Mozart (ha 8 anni), tiene un concerto di fronte al re Giorgio III e alla regina suonando a prima vista brani di Bach, Händel, Wagenseil e Abel. Qualche giorno dopo, Leopold scrive all'amico Johann Lorenz Hagenauer aggiornandolo sul figlio: «Quel che egli sapeva quando abbiamo lasciato Salisburgo è solo un'ombra di quello che sa adesso. Ciò supera ogni immaginazione». È la testimonianza diretta di Leopold, padre e agente intraprendente, sui progressi del figlio; progressi ai quali era particolarmente interessato anche per motivi molto meno artistici: «Non posso ancora dire se il guadagno sarà confermato a 100 ghinee, ma il totale non sarà certamente inferiore a 90». Le lettere di Leopold, ripubblicate integralmente lo scorso anno dall'editore Zecchini nell'epistolario di tutta la famiglia Mozart, sono un'insostituibile testimonianza, ma ora è stato anche stampato in traduzione italiana, con testo inglese a fronte, un insolito scritto sul soggiorno londinese dei Mozart: si tratta di Un giovane musicista davvero notevole (BookTime, pagg. 68, euro 7) ed è la relazione che l'avvocato e naturalista Daines Barrington (1727-1800) consegnò alla Royal Society di Londra il 28 novembre 1769. Come ben precisa Armando Torno nella prefazione, siamo di fronte a un documento prezioso in quanto «permette di osservare da vicino uno dei compositori più inspiegabili della storia, di seguirlo bambino, di non dimenticare che Leopold incassò notevoli somme dalle esecuzioni». L'intento di Barrington, testimone diretto dei concerti del piccolo enfant prodige salisburghese, è quello di portare all'attenzione dell'allora segretario della Society, Matthew Maty, «un esercizio precoce di uno straordinario talento musicale». Interessante scorgere, nel suo seppur breve scritto, il piglio scientifico di Barrington che cerca di spiegare le difficoltà nell'improvvisare o nel leggere in setticlavio e su più righi per un bambino di appena 8 anni, ammettendo d'essere andato a recuperare il certificato di nascita di Wolfgang per accertarsi della sua reale età. Ebbene, conclude Barrington, questo Mozart è un «genio straordinario» e, paragonandolo al tedesco naturalizzato inglese Händel, ne ricava che «la bilancia pende chiaramente dalla parte di Mozart». E ad ammetterlo è proprio un inglese. Mattia Rossi

·        Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald. Chiedere pietà alla tempesta. Giovanna Stanzione su Il Quotidiano del Sud il 15 febbraio 2021. “Spero che sia sciocca. Una bella bambina sciocca”, è il 14 febbraio del 1921 Zelda Fitzgerald scopre di aspettare una bambina. Francis Scott Fitzgerald, che ha sposato l’anno precedente, sta scrivendo il suo secondo romanzo. È il giovane romanziere più famoso d’America. Famosi lo sono entrambi. “Sembra che siano entrambi usciti dal sole: la loro gioventù è impressionante. Tutti vogliono incontrarli”, Dorothy Parker così commenta le feste leggendarie dei Fitzgerald, i loro viaggi tra Europa e America, i bagni vestiti nelle fontane, la perenne ubriachezza, la cacciata dai due più celebri Hotel di New York, la ricchezza subito guadagnata e facilmente sperperata, lo champagne e il gin, i vestiti e i tagli inimitabili di lei, il continuo scandalo tra vecchi e benpensanti, l’idolatria dei giovani. “Scott e io, noi non crediamo nella conservazione”, dichiara Zelda. Hanno 24 e 20 anni quando diventano la coppia più celebrata e chiacchierata del secolo appena iniziato. La loro gioventù è impressionante. Amava ballare sopra ogni cosa. Partecipare ai party fino a notte fonda. E nuotare. Si diceva nuotasse nuda nel lago e fumasse come un uomo. E poi amava i ragazzi, baciarli soprattutto. Zelda Sayre era figlia di un integerrimo giudice di Montgomery. La reputazione del padre la tutelava dalle malelingue e lei faceva ogni cosa in suo potere per squarciare quella protezione che l’avviluppava. “Era sicura di sé, presuntuosa e priva di autocontrollo. Ciò nonostante, non volevo cambiarla. Ogni suo difetto si accompagnava a un’energia passionale che lo annullava. La sua influenza su di me era immensamente grande. Mi pungolava a fare qualcosa per lei, a ottenere qualcosa da poterle offrire”, scrive Fitzgerald. È il 1918, Scott era stato mandato in Alabama per completare l’addestramento militare. Ad una festa si conoscono. Zelda è arrogante, intelligente e vitale. Lui è gravato da una sensibilità estrema che lo fa dubbioso, incerto e spaventato. Ma ha l’arte, la capacità di rendere eterna e resistente la bellezza che coglie nella sua essenza più reale. Sta scrivendo il primo romanzo. I due si frequentano, si amano, si dividono. Zelda rompe il loro fidanzamento quando il libro di Scott viene rifiutato dall’editore. Fitzgerald resta ubriaco per un’intera settimana, la prima di molte volte, ma si rialza. Rimette mano al romanzo, inserisce un personaggio, Rosalynd, che è Zelda e contagia della sua vitalità ogni cosa. Lo manda a Zelda, lei lo richiama a sé, prima ancora di sapere che il libro sarebbe stato pubblicato e che sarebbe diventato un successo letterario incontrastato. Gli scrive: “[…] fra cent’anni penso che mi piacerà sapere che dei giovani si chiedano se avevo gli occhi azzurri o marroni. Naturalmente non sono né l’uno né l’altro.” “Zelda aveva gli occhi da falco e una bocca sottile […] potevi vedere la sua mente lasciare la tavola e andare al party della sera prima e tornare con gli occhi assenti come quelli di un gatto e poi compiaciuti”, Hemingway descrive Zelda in Festa mobile. Lui e Scott sono diventati amici negli anni di vita parigina. Hemingway pensa che Zelda sia pazza, e soprattutto gelosa della scrittura di Fitzgerald. “Imparai a conoscere molto bene quel sorriso. Stava a significare che Scott non sarebbe stato in grado di scrivere.” Cinque anni dopo il loro matrimonio, Scott e Zelda sono qualcosa di sopravvissuto a loro stessi. Scott è alcolizzato e infelice, vende la propria scrittura per mantenere il tenore di vita. Zelda ha tentato due volte il suicidio, entra ed esce dalle cliniche psichiatriche. Litigano, si amano, si tradiscono, si separano per lunghi periodi, ritornano. Uno dei loro litigi più feroci avviene quando Zelda decide di incanalare il proprio spirito artistico in un romanzo. Scrive Lasciami l’ultimo valzer, la storia della sua vita e del suo matrimonio. La stessa materia di Tenera è la notte, cui da molti anni lavora Fitzgerald. Non c’è più un briciolo di desiderio o di gratitudine nel suo sguardo per Zelda, quando cerca di impedire in ogni modo l’uscita del libro. “Tu sei una scrittrice di terz’ordine e una ballerina di terz’ordine. – Le dice – “Tu hai raccolto le briciole che io lascio cadere dalla tavola da pranzo e le hai ficcate nei libri […] Tutto questo è materiale mio. Niente di tutto questo è materiale tuo.” Zelda è Rosalynd. E poi Gloria, Daisy, Nicole, Minna. Ma soprattutto è la vita che Fitzgerald infonde alla sua arte: inarrestabile, estrema, netta, passionale e crudele. Zelda voleva dalla vita una pienezza che prosciugava ogni cosa e non ammetteva lo scorrere quotidiano del tempo. Era gelosa della scrittura di Fitzgerald, ma non nel modo in cui molti hanno creduto. Ne era sacerdotessa e fiamma, poteva attizzarla o spegnerne il rogo per sempre. Non lo fece mai. Curò con dedizione la revisione dell’ultimo romanzo incompiuto di Fitzgerald, morto d’infarto a 44 anni. Poi bruciò lei pure, nell’incendio della clinica dove era ricoverata. “Senza te, carissimo io non potrei vedere o udire o sentire o pensare – o vivere – […]. Senza te è come chiedere pietà a una tempesta o uccidere la Bellezza o diventare vecchia”, gli scrive quando erano giovanissimi. Poco prima di morire, Scott dice a un amico “Come sempre, anche oggi mi sento più vicino a lei che a qualsiasi essere umano… Non mi dispiacerebbe se, fra qualche anno, Zelda e io potessimo rannicchiarci insieme sotto una pietra in qualche vecchio cimitero di queste parti”. Sotto la stessa lapide del cimitero di Rockville, ci sono le loro tombe. Incise sulla pietra, le ultime parole del Grande Gatsby: “così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.” È il 7 ottobre 1923, Zelda e Scott sono all’apice del successo e del loro amore. Il Baltimore Sun intervista Zelda: “«E così parleremo solo di me!» chiede la signora Fitzgerald allegramente. «Non sono mai stata intervistata in vita mia!» […] «E adesso che si fa? Sarà una di quelle cose formalissime? Scott, ti prego, vieni in soggiorno e aiutami a essere intervistata!» […] «È la persona più affascinante della terra». «Grazie, caro […] Ma non lo pensi veramente […] Per te sono pigra». «No», dice lui […] Per me sei perfetta. Sei sempre disposta ad ascoltarmi mentre ti leggo i miei manoscritti a qualunque ora del giorno o della notte. Sei affascinante – e bella. E sbrini il frigo una volta a settimana. O almeno credo. […] «Come dovrebbe essere la tua giornata ideale?» «Pesche a colazione», è la risposta immediata. «Sarebbe un buon inizio, no? Fammici pensare. Poi golf. Poi una nuotata. Soltanto starmene tranquilla ad ascoltare suoni piacevoli – e non il silenzio assoluto. […] Voglio solo essere me stessa e godermi la vita».