Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Nullismo.

Il Nulla di fronte al Nulla.

Nullismo: sostantivo maschile. Definizioni da Oxford Languages. Nichilismo, e cioè atteggiamento o indirizzo ispirato a teorie che portano a conclusioni negative, sterili.

Nullismo: nullismo s. m. [der. di nulla]. Definizioni da Treccani – Termine usato talvolta in filosofia come sinon. di nichilismo, in riferimento a teorie che portano a conclusioni negative, sia nel campo teoretico (scetticismo), sia nel campo morale (pessimismo): il n. del Leopardi (Carducci). Raro con il sign. di incapacità, inettitudine (a fare, a concludere, a realizzare).

Nullismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il termine Nullismo fu coniato dai filosofi cattolici Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti come accezione particolarmente critica sia del termine nichilismo che negava la realtà di un essere trascendente, sia in particolare del sistema filosofico di Hegel basato, secondo questi autori, su un'assoluta astrazione. In seguito il termine fu adoperato anche da Giosuè Carducci e da altri critici in senso polemico verso la poetica di Giacomo Leopardi caratterizzata, a loro giudizio, da un pessimismo rinunciatario. In senso politico la parola è stata usata, tra gli altri, da Antonio Gramsci per indicare sia il «nullismo opportunista e riformista» dei dirigenti socialisti come Turati, sia «la fraseologia pseudorivoluzionaria anarchica» dei socialisti massimalisti e degli stessi anarchici. Nel senso di rifiuto di ogni sistema politico, il termine nullismo più di recente ha preso a indicare una concezione politica-sociale a stretto legame con anarchia e anticonformismo; in un senso molto ristretto la parola nullista può indicare colui che si astiene dalla politica e da ogni forma politico-sociale, che sia importante o meno. Il nullismo mette anche in particolare risalto il "libero arbitrio", inteso come espressione della libertà di pensare e giudicare, ritenuta tipica dei vari nullisti, come atei, anticonformisti e anarchici.

DAGONOTA il 21 luglio 2021. I nullisti. Eccoli, sono loro i protagonisti della nostra modernità. Muoiono da soli, se ne vanno in silenzio, senza troppo clamore e senza nessuno in grado di indagare le loro storie, quelle vere, autentiche e profonde. L’attore, regista e sceneggiatore Libero De Rienzo si è spento a 44 anni qualche giorno fa, tutto solo nella sua casa romana dove hanno trovato eroina. Proprio lui, insieme a tanti altri quarantenni, ma anche cinquanta-sessantenni, faceva parte di quel gruppo dei “nullisti” al centro dei romanzi di Emanuele Trevi  che,  peraltro, era amico di Picchio, come gli intimi chiamavano l’interprete di “Smetto quando voglio”. Nel libro “I cani del nulla” (appena ristampato da Einaudi Stile Libero), il vincitore del premio Strega di quest’anno descrive le vicissitudini dei “nullisti” che si distinguono dai nichilisti.  “Il nichilismo è una tradizione di pensiero, una visione del mondo complessa, un reticolo di idee in movimento”, spiega Trevi.  “Quello che potremmo definire invece il nullismo, consiste in un sentimento molto semplice - lo sgomento della vita di fronte alla sua nullità. Questo sgomento, di per sé, è un binario morto, non produce conseguenze rilevanti né nell’ordine del pensiero né in quello dell’ispirazione artistica, non è né religioso né ateo, non peggiora né migliora l’umore del momento”. Del gruppo degli sgomenti “nullisti” fanno parte Rocco Carbone e Pia Pera, gli scrittori morti prematuramente e protagonisti di “Due vite” (Neri Pozza) con cui Trevi si è assicurato il premio Strega. Ma “nullista” lo è anche lo stesso narratore e tanti altri esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo. Eppure sui belli e dannati del nostro tempo vige una specie di omertà, di pudore fatto di reticenza e di non confessato perbenismo. Oggi siamo più conformisti degli scrittori deli anni Venti del secolo passato. Sandro Veronesi, per esempio, nell’introduzione a “I cani del nulla” si perde in un mirabile esercizio di stile  e descrive il racconto di Trevi come un catalogo delle banalità del quotidiano. Altro che quotidianità! Visitiamo con Trevi il suo armadietto delle medicine: “Autan, Lexotan. Imovane, Triptizol. Laroxil, Betagon. Bimixin. Actifed. Voltaren”, e facciamo un viaggio con lui e sua moglie Martina in mondi irraggiungibili e lontani come questo: “Il nostro isolamento cresce di giorno in giorno. Nondimeno, un certo ritmo di eventi sembra ancora registrabile – la parodia inquieta di un itinerario, di una strada in questo mondo. Una sera un nostro amico ci porta una boccetta di liquido trasparente. Sull’etichetta ci sono un cagnolino e un gattino stilizzati che sorridono, con gratitudine. Mettiamo il liquido a bagnomaria su un piatto, e quando l’acqua evapora rimane una polverina bianca, che sminuzziamo ben bene con la carta di credito, fino a ottenere la consistenza giusta. Fatte delle strisce, la tiriamo. È una specie di analgesico leggero, si chiama Ketamina, in India lo usano per i bambini, qui da noi per gli animali, ma è la stessa roba. Stimola molto in fretta delle specie di visioni simmetriche: se assunto, ovviamente, in tale maniera non ortodossa. Per tutta la notte, sul divano, mia moglie costruisce un grande tempio – cupole, torri altissime, ordini sovrapposti di colonne…”. L’isolamento, osserva lo scrittore è terribile. Lo si supera con notturne allucinazioni. Ma nessuno indaga a fondo sulle vere ragioni di queste morti inaspettate e nessuno parla di Trevi come il grande cantore del Nulla che devasta le ultime generazioni. Il re è nudo e tutti fanno finta di non vederlo.  

Il Nichilismo.

Tutto sbagliato. Tutto da rifare...

Nichilismo: sostantivo maschile. Definizioni da Oxford Languages. Ogni posizione filosofica che concepisca la realtà in genere o alcuni suoi aspetti essenziali, dai valori etici alle credenze religiose, dalla verità all'esistenza, nella loro nullità.

PARTICOLARMENTE. Movimento russo della seconda metà dell'Ottocento, negatore della morale tradizionale e propugnatore della soppressione violenta dell'ordinamento sociale e politico. Nichilismo attivo, nella filosofia di F. Nietzsche (1844-1900), quello che promuove e accelera il processo di distruzione degli ideali tradizionali, per rendere possibile l'affermazione di nuovi valori.

Nichilismo. Vocabolario on line Treccani. Nichilismo (non com. nihilismo) s. m. [dal fr. nihilisme, der. del lat. nihil «niente»]. – In filosofia, termine introdotto, nella forma ted. Nihilismus, negli ultimi decennî del sec. 18° all’interno delle polemiche sul criticismo kantiano e sull’idealismo per indicare l’esito di ogni filosofia che voglia tutto dimostrare, costretta, quindi, a tutto dissolvere in pure e vuote astrazioni; più in generale, denominazione moderna di un atteggiamento ricorrente nel pensiero filosofico, comune a molte dottrine anche antiche, secondo il quale, una volta stabilita l’inesistenza di alcunché di assoluto, non ci sarebbe alcuna realtà sostanziale sottesa ai fenomeni di cui pure si è coscienti, risultando quindi l’intera esistenza priva di senso. In partic., n. russo, ideologia e insieme di comportamenti tipici dei giovani intellettuali piccolo-borghesi nella Russia della seconda metà dell’Ottocento (diffusi soprattutto attraverso i romanzi di I. S. Turgenev e di F. M. Dostoevskij), improntati a un’entusiastica fiducia nella scienza, a un’accettazione del materialismo e del positivismo come strumenti polemici contro ogni forma di cultura tradizionale, spec. morale e religiosa, con esiti, spesso, di individualismo esasperato, di anarchismo, di immoralismo (più dichiarato che vissuto), ma con sbocchi anche politici, di tendenza all’emancipazione sociale collettiva. Con riferimento soprattutto al pensiero e all’opera di F. Nietzsche, il termine designa la presunta inarrestabile decadenza della cultura occidentale greco-cristiana, e insieme la denuncia di questa decadenza e la distruzione teorica e pratica dei valori della tradizione. Per estens., e al di fuori di contesti filosofici, il termine definisce in tono polemico atteggiamenti o comportamenti ritenuti rinunciatarî oppure volti alla distruzione di qualsivoglia istituzione o sistema di valori esistente.

Nichilismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il termine nichilismo, o nihilismo (dal latino classico nihil, "nulla"), nella lingua tedesca Nihilismus, fu adottato in Germania dalla fine del XVIII secolo nell'ambito della polemica sulle conclusioni della filosofia di Kant; si diffuse in seguito ampiamente con la pubblicazione della lettera di F.H. Jacobi a Fichte del 1799, Jacobi an Fichte (nota come Sendschreiben an Fichte) dove acquistò il senso generico di critica radicale demolitrice di ogni filosofia che pretendesse di possedere un reale contenuto di verità. Si riferisce particolarmente al pensiero del filosofo Friedrich Nietzsche (1844-1900) per indicare l'inevitabile decadenza della cultura occidentale e dei suoi valori. Comunemente indica anche ogni atteggiamento genericamente rinunciatario e negativo nei confronti del mondo con le sue istituzioni e i suoi valori; indica anche un sentimento di generale disperazione derivata dalla convinzione che l'esistenza non abbia alcuno scopo, per cui non vi è necessità di regole e leggi secondo una visione che in effetti non è condivisa da tutti i nichilisti: movimenti, ad esempio, come il futurismo e il decostruttivismo, insieme ad altri, sono stati spesso identificati da diversi autori come "nichilistici" in numerosi contesti. Il nichilismo infatti, assume inoltre diverse caratteristiche a seconda del contesto storico in cui si inquadra: per esempio, Jean Baudrillard e altri come il filosofo ateo Michel Onfray, hanno spesso definito il postmodernismo come un'epoca nichilista, e diversi teologi cristiani e figure di autorità religiose (nonostante vi siano stati in passato correnti religiose vicine ad un certo nichilismo come la mistica renana) hanno spesso sostenuto che il postmodernismo e diversi aspetti della modernità, si caratterizzano per il rifiuto del teismo, aspetto questo che porta a identificarli con il nichilismo, che in ambito cattolico è spesso apparentato all'ateismo. Aspetti nichilistici possono riscontrarsi anche nell'accezione moderna e contemporanea di cinismo. Controverso è, invece, se lo scetticismo sia un pensiero nichilista.

Storia del nulla. «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità.» (Bibbia, Libro del Qoelet, 1, 2). Se ci riferiamo al nichilismo soprattutto riguardo alla sua origine etimologica, al punto da sostenere che quella concezione equivale a un pensiero incentrato sul "nulla", dovremmo affermare che se ne possano trovare tracce sin dai primordi e nel seguito della storia della filosofia, a partire dal libro biblico del Qoelet, che dichiara tutto "vano" e non vi è mai "nulla di nuovo" (nihil sub sole novum), pur risolvendosi poi nell'accettazione salvifica finale della religiosità ebraica. Il primo autore filosofico che tratta il problema del nulla appare essere Gorgia (485/483-375) che afferma: «Nulla è; se anche qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli altri.» Si dovrebbero quindi includere tra i teorici del nulla: Fredegiso di Tours (VIII sec.), allievo di Alcuino di York, il quale nel suo De substantia nihili et tenebrarum pensa che il nulla esista e che quindi debba avere una sua sostanza; e nel IX secolo anche Giovanni Scoto Eriugena, che inizia il III libro del suo De divisione Naturae con la Quaestio de nihilo tentando un'interpretazione che soddisfi la filosofia greca e la teologia cristiana; così anche il teologo della mistica renana Meister Eckhart (XIII secolo) nel suo assoluto misticismo arriva ad affermare che Dio e il nulla «l'angelo, la mosca e l'anima» sono la stessa cosa. L'ossessione della definizione del nulla prosegue in età Rinascimentale con Charles de Bovelles che nel suo Liber de nihilo (1509) sulla «negazione originaria della materia» tenta di fondare una teologia negativa. Anche Leonardo da Vinci si perde nella concezione del nulla quando riflette che «Infralle cose grandi che infra noi si trovano, l'essere del nulla è grandissimo».

Leibniz nel XVII secolo si avventurerà nella definizione del nulla quando si chiederà:

(FR) «Pourquoi il y a plustôt quelque chose que rien?»

(IT) «Perché esiste qualcosa invece che il nulla?»

(Leibniz)

rispondendo:

(FR) «Car le rien est plus simple et plus facile que quelque chose»

(IT) «Perché il nulla è più semplice e più facile che [concepire] qualche cosa»

(Leibniz)

Storia del nichilismo moderno. Esordio: Jacobi e Schopenhauer. Il nichilismo inteso come una dottrina che sostiene la negazione radicale di un determinato sistema di valori esordisce - dopo la crisi della ragione dell'illuminismo, che a sua volta aveva messo in crisi la fede tradizionale - con la polemica di Jacobi nei confronti di Fichte: nella sua Lettera a Fichte del 1799, egli definì nichilistico il trascendentalismo kantiano, che dissolveva il mondo in apparenza e lo destituiva della sua consistenza. Più tardi Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione del 1819, s'inoltrò in un radicale confronto con il nulla semplificando la dottrina kantiana. Egli distinse un mondo di fenomeni concepito come pura apparenza, e un mondo invisibile della volontà che però esiste solo per essere negata attraverso l'ascesi, come noluntas, ossia come volontà che si nega o che anela al nulla.

Il nichilismo russo. Il nichilismo si espresse anche come forma di filosofia politica nel movimento anarchico diffuso in Russia alla fine dell'Ottocento che, fidando ciecamente nella scienza, rifiutava ogni forma tradizionale di cultura e si proponeva di sconvolgere l'ordine sociale e il regime politico allora esistenti per fondarne altri su nuove basi. In Russia, il termine «nihilista» fu adoperato sin dal 1829 dal critico letterario Nikolaj Ivanovič Nadeždin nel suo articolo L'adunata dei nihilisti per indicare semplicemente chi «non sa e non capisce nulla». Un decennio dopo un altro critico Michail Katkov diede invece alla parola, con intenzioni polemiche nei confronti degli autori della rivista Il Contemporaneo, il significato più filosofico di «colui che non crede a nulla»: quando invece «Se si guarda al cosmo, posti di fronte a due atteggiamenti estremi, è più facile diventare mistico che nihilista». Il termine divenne popolare ad opera del drammaturgo e romanziere russo Ivan Sergeevič Turgenev con il romanzo Padri e figli 1862, dove, egualmente con intenti polemici l'autore faceva del personaggio del giovane rivoluzionario Bazarov un "nihilista", un uomo «che non s'inchina dinanzi a nessuna autorità, che non presta fede a nessun principio, da qualsiasi rispetto tale principio sia circondato», e che concentra in sé quanto di più moralmente negativo Turgenev vedeva in quella intelligencija giovanile che, pur proveniente dalla classe piccolo-borghese, rifiutava le posizioni politiche liberali e costituiva la militanza sovversiva più radicale di tutta la Russia; quella stessa gioventù che anche Fëdor Dostoevskij condannava nel romanzo I demoni tracciando diverse figure di nichilisti, come quelle di Verchovenskij e Stavrogin. «Ogni tanto mi viene in mente che molti di questi stessi giovani delinquenti, che vanno attualmente in putrefazione, finiranno un giorno per diventare degli autentici e solidi počvenniki, e cioè dei veri russi? Quanto agli altri, che finiscano pure di marcire! Finiranno pure per tacere anche loro, colpiti da paralisi. Ma che autentiche carogne!». La scelta di Turgenev era tuttavia infelice, scrisse Saltykov-Ščedrin, perché erano proprio i giovani condannati da Turgenev i più fermamente convinti delle proprie idee: in quel contesto il nihilismo era un «vocabolo privo di senso, capace meno di qualsiasi altro di caratterizzare la giovane generazione, nella quale si poteva discernere ogni genere di "ismi", ma non certo il nihilismo». Un altro redattore del Sovremennik, Maksim Antonovič, recensì Padri e figli, accusando Turgenev di aver falsificato la realtà. Al contrario, il redattore del Russkoe slovo (Русское слово, La parola russa) Dmitrij Pisarev, scrivendo che Turgenev aveva descritto con esattezza la condizione spirituale dell'intelligencija materialista e rivoluzionaria del suo tempo, si dichiarò egli stesso un nichilista. Positiva era la funzione violentemente critica delle condizioni politiche e sociali della Russia svolta dalla gioventù intellettuale, e necessaria era l'emancipazione dell'individuo, la formazione di caratteri «criticamente pensanti».

Nietzsche nel 1882. Con Nietzsche si determina il significato non episodico, ma centrale del nichilismo, come è stato inteso dal pensiero contemporaneo. L'emancipazione da ogni fede metafisica viene espressa da Nietzsche nel detto «Dio è morto». Al culmine della metafisica occidentale, tutta volta a sollevare il velo dell'apparenza, l'impulso alla verità e all'affinamento della coscienza si trasformano nell'amaro riconoscimento dell'assenza di ogni verità, nel tramonto di Dio. Se Dio muore non ci sono più termini di paragone esterni all'esistenza per giudicare di essa. Di fronte a questo crollo valoriale è possibile reagire in due modi profondamente differenti: in modo passivo e in modo attivo. Si subisce il nichilismo passivamente se si abbandonano le cose al loro corso, un po' adeguandosi al crollo dei valori, un po' lamentandosi di questo crollo. Il "nichilismo passivo" si configura quindi come chiusura nei confronti della creatività, in quanto il nichilista passivo semplicemente si aggrappa a qualche lembo di valore ormai decrepito che ancora riesce ad acciuffare nel marasma generale. In Der Wille zur Macht (La volontà di potenza, Ed. Kröner) Nietzsche afferma: «Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l'avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all'opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere.» Nella fondamentale opera Così parlò Zarathustra (1883-1885), Nietzsche raffigura la civiltà decadente, il nichilismo e l'oltreuomo con alcune metafore. In primis quella del cammello: portatore del peso dei valori e degli idoli che si è creato (la storia umana e la cultura) e che lo appesantiscono nel suo movimento libero e creativo, esso rappresenta una sorta di sapere storico che reprime e indebolisce la potenza e la forza dell'istinto di libertà creativa ch'era invece presente in più larga misura in figure e popolazioni che ci hanno preceduto. In secondo luogo la figura del leone, il nichilismo stesso ma anche il filosofo distruttore poiché anch'egli immerso, pur in maniera attiva, nel processo di decadenza e quindi anch'egli figura del nichilismo, ed infine l'aurora oltre l'umano, troppo umano: l'oltreuomo che, liberatosi dalle catene della storia e alleggeritosi dei fardelli del passato che imprigionavano il gioco creativo delle sue facoltà e dei suoi istinti primordiali, come un "fanciullo" gioca finalmente libero e creatore di sempre più nuove possibilità esistenziali ("nichilismo attivo"), sì che la Terra diventa "luogo di guarigione". Il "bambino-oltreuomo" ha la straordinaria virtù di mettere insieme qualità apparentemente inconciliabili dell'esperienza: impara a essere folle ed è follemente saggio: sceglie liberamente la necessità del divenire e padroneggia la propria libertà di creatore; è virtuoso nelle passioni più sfrenate e pratica la perversione con innocenza.

Heidegger. «Il nichilismo. Non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest'ospite e guardarlo bene in faccia.»

Martin Heidegger negli anni cinquanta. Martin Heidegger volge la sua riflessione al problema della verità dell'Essere, descrivendo la sua ontologia come un possibile superamento, di quella tradizione metafisica che egli riteneva essersi definitivamente compiuta con Nietzsche. Nella sua opera Il nichilismo europeo, che nasce da una rilettura dell'opera filosofica nietzschiana, Heidegger individua nella formula nietzschiana "Dio è morto" la miglior auto-definizione del nichilismo, che Heidegger analizza in maniera critica. Alla riflessione sul tema del nichilismo oltre a questo testo, Heidegger dedicherà altri scritti tra cui: Il superamento della metafisica (1938-1939), dove esprime la tesi secondo la quale la metafisica è l'origine e l'essenza del nichilismo che ne costituisce pertanto il suo tratto fondamentale. L'essenza della metafisica si manifesta infatti, secondo Heidegger, nella soppressione della differenza ontologica, a causa della quale l'essere viene considerato come un ente fra gli altri e dunque dell'essere stesso, letteralmente, "non ne è più ni-ente".

L'essenza del nichilismo (1946-1948). Secondo Karl Löwith (1897-1973), uno dei maggiori allievi di Heidegger, mentre Nietzsche con la dottrina dell'"eterno ritorno" aveva pensato il nichilismo come principio filosofico, Heidegger, invece, pensa il principio filosofico come nichilismo.

Nichilismo e tecnica. Va infine ricordato il profondo nesso tra nichilismo e tecnica (nel senso di "perizia", "saper fare", "saper operare") come viene sviluppato nella riflessione di Heidegger. Il nichilismo è infatti il punto culminante e definitivo della metafisica occidentale che ha segnato «l'oblio del problema del senso dell'essere» che è stato sostituito dalla scienza con l'ente, dalla tecnica rivalutato per la sua utilizzabilità. «...di Heidegger ci era stata trasmessa l'immagine di un filosofo nemico assoluto della tecnica e della tecnologia, grande amante della natura incontaminata e della Foresta Nera, l'idea di un Heidegger boscaiolo e contadino in inappellabile contrapposizione al mondo delle macchine. La tecnica secondo il filosofo tedesco, si diceva, è espressione massima del nichilismo moderno e perciò essa va condannata senza appello, rifiutata e guardata con grande sospetto da chi faccia della cerca dell'Essere il motivo del suo impegno filosofico ed esistenziale.» Nel 1953, Heidegger pone la domanda circa l'essenza della tecnica moderna: l'uomo di oggi esperisce la verità dell'Essere sotto forma di tecnica, ma l'essenza più profonda della tecnica non è nulla di tecnico (M. Heidegger, La questione della tecnica), ma appartiene all'ambito dell'arte. Infatti l'antico concetto greco di τέχνη (téchne) in origine era usato per indicare una prerogativa divina di cui era stato fatto dono agli uomini per sopperire alla loro intrinseca debolezza. Secondo questa concezione il concetto di téchne per esempio diventa centrale nella filosofia socratico-platonica. Da Socrate infatti, si origina la tesi secondo cui la virtù è una scienza e il compito del filosofo è quello di indagare la possibilità di un sapere tecnico, pratico, nel campo della morale e della politica. Anche nei Dialoghi di Platone, e in particolare negli scritti giovanili, le tecniche vengono additate come modello di conoscenza scientifica per eccellenza: «Il sapere in generale, privo di un oggetto proprio, non ha alcun senso per Platone: ogni scienza ed ogni tecnica sono sempre una determinata (τις) scienza o tecnica, cioè vertono su alcuni oggetti specifici e non su altri. Una tecnica che non si sia delimitata il campo in base al proprio oggetto non è una tecnica.» La tecnica circoscrive in modo chiaro e riconoscibile il proprio oggetto, ed è perciò il modello epistemologico a cui si rifà anche il filosofo. Ciò diventa ancora più evidente nella contrapposizione della filosofia alla poesia e alla retorica, le quali invece non sono in grado di definire il loro oggetto. Spostandoci nell'epoca contemporanea, in ottica fine ottocentesca, la tecnica costituisce l'esito necessario della conoscenza, quando questa si sia liberata dalle pastoie della metafisica o della religione. Per questo in Nietzsche, la "morte di Dio" apre l'epoca del nichilismo attivo, dove l'umanità utilizzerà consapevolmente le forze della Terra in direzione del dominio sulle cose. Ma anche questa dichiarata sovversione di tutti i valori tradizionali non è altro che l'aspetto più caratteristico del pensiero nichilista giunto alla «vigilia della notte» del pensiero occidentale, in cui la volontà di potenza dell'uomo diventa fine a se stessa, un "volere il volere" ("Wille zum Willen").

Severino. Scrive Emanuele Severino che la moderna visione del nichilismo è erratamente basata sul concetto di ente che nasce dal nulla, esiste, per poi ritornare nel nulla.

Come osserva Diego Fusaro: «...per Severino tutto è eterno... solo in superficie si crede che le cose vengano dal nulla e che nel nulla alla fine precipitino, perché nel profondo siamo convinti che quel breve segmento di luce che è la vita è esso stesso nulla. È il nichilismo. È l'omicidio primario, l'uccisione dell'essere. Ma è una contraddizione: ciò che è non può non essere, né può essere stato o potrà mai essere nulla. Una contraddizione che è la follia dell'Occidente, e ormai di tutta la terra. Una ferita che necessita di numerosi conforti, dalla religione all'arte, tutti affreschi sul buio, tentativi di nascondere, medicare il nulla che ci fa orrore. Per fortuna ci attende la Non Follia, l'apparire dell'eternità di tutte le cose. Noi siamo eterni e mortali perché l'eterno entra ed esce dall'apparire. La morte è l'assentarsi dell'eterno. Abbiamo tutti nel sangue il nichilismo. (...) Tutto è eterno significa che ogni momento della realtà è, ossia non esce e non ritorna nel nulla, significa che anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si è soliti riservare a Dio.»

Vattimo. Contro nuovi e possibili irrigidimenti metafisici ("non sono più concepibili princìpi immutabili") si esprime il filosofo italiano Gianni Vattimo che critica il "nichilismo negativo", che si ostina a propugnare l'idea di un fondamento (una verità, un valore, un'idea) naturale: «[…] già tentare di modellare leggi, costituzioni, provvedimenti politici ordinari, sull'idea di una progressiva liberazione di norme e regole da ogni preteso limite "naturale" (e cioè ovvio solo per chi detiene il potere) può diventare un progetto politico positivo.» (Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, 2003, p. 8). Egli affida un compito politico alla tradizione della Sinistra: «una sinistra nichilistica non-metafisica, non potrà più fondare le proprie rivendicazioni sull'uguaglianza, ma dovrà invece porre alla base la dissoluzione della violenza. È chiaro perché: l'uguaglianza è sempre ancora una tesi metafisica che si espone a essere confutata come tale, in quanto pretesa di cogliere una essenza umana data una volta per tutte.Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, 2003, p. 104».

Altri filosofi e pensatori. Con le parole del filosofo Pier Paolo Ottonello (n. 1941) possiamo affermare: «Il nichilismo come negazione radicale o metafisica, è dunque negazione del senso dell'essere e degli enti in quanto significato e realtà sostanziali e valorativi, che possono essere tali solo in quanto fondati nell'assolutezza dell'essere. Nichilismo è dunque, essenzialmente, l'assoluta negazione di ogni assolutezza, che percorre le strade o dell'indeterminazione dell'essere e degli enti o dell'univocità radicale essere nulla.» In un significato più comune, il nichilismo è una concezione delle cose in base alla quale la realtà sarebbe inesorabilmente destinata a declinare nel nulla, ovvero, dal punto di vista etico, sarebbe indeterminabile o assente una finalità ultima che orienti il corso delle cose e la vita dell'uomo. Dato che questi è limitato e sperimenta ogni giorno questo limite nella morte e nelle sue dolorose anticipazioni, allora egli può essere spinto a considerare - al di là di quanto ne sia cosciente - che il niente sia il vero senso dell'essere. L'affermazione nichilista nega pertanto, in questo senso, vera consistenza alla realtà e di conseguenza esclude che l'uomo possa fare esperienza della verità in quanto tale, considerata come oggettiva e universale.

Per Sergio Givone, se da una parte il "nichilismo metafisico" afferma che il mondo non ha senso (perché la morte è l'orrore che tutto annienta) e termina così in un assurdo, dall'altra il nichilismo dei nostri giorni è più tranquillizzante e consolatorio: predica l'accettazione da parte dell'uomo della propria condizione e l'inutilità delle speranze che sono fuori dalla sua portata.

Invece Wilhelm Weischedel, filosofo tedesco del Novecento, ha elaborato una teologia filosofica nell'età del nichilismo.

Leonardo Vittorio Arena propone la sua "visione/non visione" del nonsense attraverso un nichilismo costruttivo, ispirandosi a concezioni filosofiche dell'Occidente, come quelle di Nietzsche e Wittgenstein, e dell'Oriente, come quelle del Buddhismo Chán/Zen e del taoismo di Zhuāngzǐ, in due sue opere: Nonsense o il senso della vita e Note ai margini del nulla.

Altri pensatori e scrittori che hanno trattato il nichilismo a vario titolo sono Giacomo Leopardi, Emil Cioran, Umberto Galimberti, Sigmund Freud, Michel Onfray, il Marchese de Sade, Jean-Paul Sartre, Philipp Mainländer, Eduard von Hartmann, Albert Camus, Manlio Sgalambro, Morris Lorenzo Ghezzi, Guido Ceronetti, Max Stirner (L'Unico e la sua proprietà), Oswald Spengler, Ernst Jünger, Howard Phillips Lovecraft, Ayn Rand, Louis-Ferdinand Céline e l'"allegorismo vuoto" di Franz Kafka.

Forme di nichilismo. Il nichilismo in sé può essere suddiviso secondo diverse definizioni e la loro ricorrenza è utile a descrivere posizioni filosofiche che sono tra loro indipendenti e sconnesse, seppur talvolta è possibile una correlazione o una consequenzialità tra l'una e l'altra.

Nichilismo metafisico. Il nichilismo metafisico è una teoria filosofica secondo cui "è possibile" che non esistano realtà oggettive nella loro totalità, o più teoricamente, si ritiene che vi sia un mondo ipotetico in cui queste non esistano; o al più che non possano esistere realtà oggettive "concrete"; perciò se ogni parola possibile contiene degli oggetti, ce n'è alla fine almeno una che contiene enti astratti.

Una forma estrema nel nichilismo metafisico è comunemente definita come la credenza per cui non esiste nessun componente di un mondo auto-sufficiente. Un modo per interpretare una simile affermazione può essere: «È impossibile distinguere l'esistenza dalla non-esistenza, poiché questi due concetti non hanno delle caratteristiche oggettive definite, e un fondamento di verità che un'affermazione può possedere, in modo da trovare una differenza tra i due.»[36] Se non esiste qualcosa che può discendere il significato di "esistenza" dalla sua negazione, il concetto di esistenza non ha alcun significato; o in altre parole, non esiste alcun valore intrinseco. Il termine "significato" in questo senso è usato per affermare che come l'esistenza non possiede un alto livello di "realtà", l'esistenza in sé non significa nulla. Si potrebbe dire che questa credenza, unita insieme al nichilismo epistemologico, darebbe come risultato l'idea che nulla può essere definito come reale o vero, poiché questi parametri non esistono.

Nichilismo epistemologico. La forma epistemologica del nichilismo può essere vista come un'estremizzazione dello scetticismo, in cui ogni forma di conoscenza o sapere è negata. Alan Pratt definisce il nichilismo come

(EN) «The belief that all values are baseless and that nothing can be known or communicated.»

(IT) «La convinzione che tutti i valori sono privi di base e che nulla può essere noto o comunicato»

(Internet Encyclopedia of Philosophy)

Nichilismo mereologico. Il nichilismo mereologico (altresì detto nichilismo compositivo) è la posizione secondo cui non esistono enti con identità proprie (non solo nello spazio, ma anche nel tempo), ma enti sprovvisti di identità - detti anche "blocchi da costruzione" - e che il mondo come lo percepiamo e lo sperimentiamo, in cui crediamo vi siano questi enti dotati di identità, è solo un prodotto della fallacia delle percezioni umane.

Nichilismo esistenziale. Il nichilismo esistenziale è la credenza per cui la vita non possiede alcun valore o senso intrinseco. Tale filosofia asserisce che l'uomo è l'attore del suo farsi nel mondo, il responsabile di ogni sua azione ed il costruttore di ogni suo scopo o significato, che non v'è in principio. L'inesistenza del senso della vita è stato un problema largamente trattato dalla scuola filosofica dell'esistenzialismo. È da sottolineare come sia assolutamente indipendente il pensiero dell'ateismo da quello del nichilismo esistenziale (che infatti nega l'esistenza di un senso, non di Dio).

Nichilismo morale. Il nichilismo morale, noto anche come nichilismo etico, è una posizione metaetica che sostiene l'inesistenza della moralità come realtà oggettiva; perciò non vi è azione che sia necessariamente preferibile a un'altra. Per esempio, un nichilista morale potrebbe affermare che l'uccidere una persona, per una qualsiasi ragione, non è inerentemente né giusto né sbagliato. Altri nichilisti potrebbero addirittura dire che non vi è alcuna moralità, e se questa esiste, è un'invenzione umana e quindi una costruzione artificiale, nella quale ciascun senso è relativo a seconda delle diverse possibili conseguenze. Ad esempio, se qualcuno uccide una persona, un nichilista potrebbe sostenere che uccidere non sia per forza sbagliato, indipendentemente dai nostri principi morali: è tale solo perché la moralità è costruita come una dicotomia rudimentale, in cui viene affermato che una cosa negativa ha un peso ben più grave di un qualcosa definito come positivo: come risultato, uccidere qualcuno è sbagliato perché non si lascia la possibilità a questo di vivere, al cui vivere è arbitrariamente conferito un senso positivo. In questo modo, un nichilista morale crede che tutte le dichiarazioni etiche siano false.

Nichilismo politico. Il nichilismo politico è una branca che segue i punti caratteristici della filosofia nichilista, come il rifiuto di istituzioni non-razionalizzate o non-provate, nella fattispecie, le più importanti strutture sociali e politiche, come il governo, la famiglia e le leggi. Il movimento nichilista espose una dottrina simile nel diciannovesimo secolo in Russia. Il nichilismo politico è una corrente di pensiero assai differente dalle forme di nichilismo, ed è spesso considerata più come una forma di utilitarismo. Un'analisi influente sul nichilismo politico ci è stata presentata da Leo Strauss.

Riferimenti culturali.

Televisione. Thomas Hibbs (Baylor University), ha affermato che la sitcom Seinfeld è una manifestazione di nichilismo in ambito televisivo. Il tema principale della sitcom è quello di essere uno "show sul nulla". La maggior parte degli episodi sono soliti concentrarsi su fatti minuziosi o di bassa rilevanza. La visione esistenziale che Seinfeld propone è molto probabilmente assimilabile a una filosofia nichilista, basandosi sull'idea che la vita è senza uno scopo, da cui sorge un senso dell'assurdo che caratterizza con un tono ironico e umoristico lo stesso show.

Il personaggio di Gregory House di Dr. House - Medical Division è cinico e nichilista. Anche alcuni sketch del comico Bill Hicks sono considerabili nichilisti. La prima stagione della celebre serie antologica True Detective è intrisa di filosofia nichilista, oltre che pessimista e antinatalista.

Arte contemporanea. Il termine Dada è stato per la prima volta usato da Tristan Tzara nel 1916. Il movimento, che durò dal 1916 al 1922, sorse durante la prima guerra mondiale, un evento che fu d'influenza culturale per gli artisti del periodo. Il movimento Dada è nato a Zurigo, in Svizzera – inizialmente conosciuto sotto il nome di "Niederdorf" o "Niederdörfli" – al Café Voltaire. I Dadaisti affermano che il Dada non fu un movimento artistico, ma una forma di anti-arte, nella quale spesso si utilizzavano oggetti qualsiasi trovati casualmente, elaborati, decontestualizzati e modificati, per poi essere uniti in un'opera unica. Il concetto di anti-arte è nato per affrontare la sensazione di vuoto che si venne a creare dopo la guerra. Questa tendenza a svalutare l'arte ha portato molti a concepire il Dadaismo come un movimento nichilista. I soliti artisti Dada davano alle proprie creazioni un significato di loro invenzione per interpretarle ed è così difficile classificarle insieme ad altre manifestazioni artistiche contemporanee. Perciò, proprio a causa di questa ambiguità, è stato definito come un modus vivendi nichilista. Tra il Ventesimo e Ventunesimo secolo l'arte visiva manifesta sempre più accentuate istanze nichilistiche. Asseconda, per esempio, la propensione della cultura contemporanea a ridurre il reale al virtuale, al simulacro senza più referente. Nei casi più radicali, appare come «un'ARTE SENZA FINE, senza capo né coda, in cui, letteralmente, non si distingue più niente, se non il furore ritmologico». Jean Baudrillard giudica come massimo rappresentante di questa tendenza Andy Warhol le cui immagini sono «un'esaltazione della potenza del segno che, perso ogni significato naturale, risplende nel vuoto con tutta la sua luce artificiale». In altre sue manifestazioni, l'arte contemporanea tende a esprimere una vera e propria teoria visiva della coincidenza di essere e di non-essere, di vita e di morte, ovvero una sorta di metafisica nichilistica per immagini. L'artista Gino De Dominicis, a partire dagli anni Settanta del Novecento, teorizza che, fino a quando gli uomini non saranno in grado di rendersi immortali, essi non esisteranno veramente, essendo solo verifiche di possibilità di esistenza. Altri, come Maurizio Cattelan e Damien Hirst, esplicitano, con le loro opere, la rassegnazione dell'uomo contemporaneo occidentale di fronte alla intrascendibilità della morte in quanto evento definitivo, con tutto il portato di insensatezza che ne deriva. Per Cattelan è centrale che «noi siamo forse le uniche creature intimamente consapevoli del fatto che dovranno morire, anche quando la morte non è imminente». Per Hirst «Si riduce tutto alla morte. Voglio dire, stiamo morendo. È una carneficina (...). Che stiamo facendo, moriamo? È delizioso, è bellissimo, è favoloso. (...). La forza motrice, la roba in cui viviamo, si decompone. E le cose in decomposizione sono coloratissime, è incredibile, a qualsiasi livello. E stiamo morendo. Non ha senso». Cattelan e Hirst comunicano questo sentimento di impermanenza attraverso diversi espedienti semantico-stilistici. In particolare, con opere che presentano animali mentre esprimono la loro vitalità al massimo grado pur essendo palesemente morti, come quelli conservati in teche ripiene di formaldeide da Damien Hirst - ad esempio The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living del 1991, con il corpo di un vero squalo tigre dalle fauci spalancate come se fosse in procinto di aggredire una preda - oppure come quelli che, nelle installazioni di Maurizio Cattelan, appaiono pieni di vita - il cagnolino scodinzolante che porta il giornale al padrone (Pluto, 1998), il gatto che arcua la schiena in segno di difesa (Felix, 2001) - ma in forma di scheletri, dunque come se, da vivi, fossero già morti.

Letteratura. Il nichilismo contrassegna in modo particolare la letteratura russa: è infatti la tematica principale del capolavoro russo Padri e figli di Ivan Turgenev, analizzato nella sua accezione ateistica, materialistica, positivistica e rivoluzionaria; una tematica che verrà ripresa, approfondita, criticata dalla letteratura russa degli anni Sessanta del XIX secolo in maniera estensiva. Non a caso l'opera scatenò diverse polemiche in Russia, e non solo, che costrinsero Turgenev a dare spiegazioni e, di fatto, a diradare la sua attività letteraria. Anton Čechov ha realizzato un ritratto del nichilismo nel suo romanzo Tre sorelle. La ricorrente locuzione "che cosa importa" o altre varianti simili è spesso pronunciata da molti dei personaggi di fronte a determinati eventi; la significanza di alcuni di questi eventi suggerisce una sottoscrizione al nichilismo come una forma di copiatura psicologica. Il nichilismo cioè viene assunto da alcuni protagonisti più come un atteggiamento d'imitazione esteriore che come una riflessa convinzione. Nella graphic novel dei Watchmen, il personaggio Edward Blake/Il Comico dimostra di essere, e viene presentato, come un nichilista, sia moralmente che politicamente, con la sua disinvoltura nel commettere apertamente un omicidio solo per dimostrare una mancanza di nerbo e midollo negli umani (affermando che il Dr. Manhattan l'avrebbe potuto fermare in ogni momento, ma ha deciso di non farlo) Anche il Dr. Manhattan è dipinto come una personalità nichilista su scala cosmica, affermando che se la Terra fosse distrutta e tutta la vita su di essa sradicata, l'universo non ci farebbe caso. Nella novella La rivolta di Atlante, Ayn Rand condanna assai aggressivamente il nichilismo, partendo proprio dalle posizioni di Nietzsche, ne rovescia gran parte, affermando che alcuni valori (come la libertà e l'individualismo) sono necessari e innegabili. Tuttavia la stessa Rand è stata talvolta accusata appunto di nichilismo.

L'ideologia dello scrittore francese Marchese de Sade è stata spesso definita come un esempio di nichilismo, così come uno scrittore fortemente nichilista è un altro francese, Louis-Ferdinand Céline: il suo Viaggio è considerato uno dei libri più cupi e nichilisti mai scritti.

Musica e teatro. Nel dramma Fédora di Victorien Sardou (1882), trasposto in opera da Umberto Giordano (1898), il nichilismo politico russo è parte integrante nella creazione degli equivoci che porteranno al dramma. Il Conte Loris Ipanoff viene accusato di essere un nichilista e di avere avuto un movente politico per l'omicidio del capitano Vladimir Yariskin, promesso sposo della protagonista, la principessa Fedora Romazoff. Nel terzo atto dell'opera di Šostakovič Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, vi è un nichilista tormentato dalla Polizia Russa. Nell'articolo del 2007, il The Guardian fece presente "...nell'estate del 1977, ...la spavalderia nichilista del punk è stata una delle cose più devastanti in Gran Bretagna." La canzone dei Sex Pistols God Save The Queen, con la sua strofa no future ("nessun futuro"), divenne presto uno slogan per la gioventù disoccupata e disagiata durante gli ultimi anni '70. In particolare, il black metal, il death metal e il grindcore sono tre generi musicali che hanno spesso enfatizzato su tematiche nichilistiche. Il nichilismo è anche una tematica spesso affrontata dal trapper statunitense Ghostemane, in particolare nella canzone Nihil, contenuta nell'album N/O/I/S/E. L'album dei Nine Inch Nails, The Downward Spiral, ruota attorno a svariati concetti a sfondo nichilista, con un Trent Reznor narrante che intona strofe anti-establishment contro la società e la religione (con strofe come God is dead/ And no one cares/ If there is a Hell/ I'll see you there ["Dio è morto, a nessuno importa. Se esiste un inferno, ti vedrò lì"]). Il nichilismo si può anche ritrovare in alcune opere di gangsta rap, sotto forma di un vero e proprio codice, anche se non sempre. Nihilism è anche il nome di una canzone dei Rancid, presente nel loro album Let's Go. Nichilismo è il nome di una traccia del rapper italiano Mezzosangue, presente nell'album Soul of a Supertramp uscito nel 2015.

Cinema. Il personaggio di John Morlar presente nel romanzo del 1973 di Peter Van Greenaway, Il tocco della medusa, così come nella sua rispettiva riproposizione cinematografica, mostra di avere una visione nichilista della vita, allo stesso modo del marine Animal presente nel film di Stanley Kubrick Full Metal Jacket, e di O-Dog nel film del Nella giungla di cemento di Allen & Albert Hughes. Tre degli antagonisti del film del 1998 Il grande Lebowski sono esplicitamente chiamati e descritti i "nichilisti", così come ironici e nichilisti sono diversi personaggi di Woody Allen. Nel film Matrix la personalità di Thomas A. Anderson (Neo) si presenta come un'incarnazione vivente del trattato di Jean Baudrillard, Simulacre et Simulation: lo stesso libro è sotto forma di file nel suo PC, ed egli stesso in esso conserva dei dati informatici da contrabbando nella sezione Sul Nichilismo. Il film di Lars Von Trier Dogville ha una possibile chiave di lettura nichilista.

Videogiochi. «Perché gli esseri umani continuano a costruire? Perché continuano a celebrare la vita nel mio mondo distrutto? Pensate a quanto sono stupide le vostre vite!»

(Kefka Palazzo). Kefka Palazzo, antagonista di Final Fantasy VI e uno dei cattivi più celebri del mondo videoludico, è un crudele, spietato e disumano generale dell'Impero Gestahliano, il cui unico piacere nella vita deriva dal causare morte e distruzione ovunque, in quanto non prova alcun riguardo per l'esistenza altrui. Inizialmente si tratta di pura misantropia, ma dopo aver ottenuto poteri divini e aver devastato l'intero mondo, Kefka dimostra di avere anche una visione nichilista della vita, che lo porta ad amare e apprezzare soltanto la morte e la sofferenza delle sue vittime. Egli disprezza infatti la vita, i sogni e le speranze, e trae gioia e piacere dalla miseria dell'umanità. Altri celebri nichilisti nel panorama dei videogiochi sono Albert Wesker, personaggio della serie Resident Evil, Psycho Mantis, boss del videogioco Metal Gear Solid e Lavos, antagonista principale di Chrono Trigger. Si potrebbe rintracciare, nella saga di Assassin's Creed, una forma di nietzschanesimo nell'ideologia degli Assassini a partire dal motto "Nulla è reale, tutto è lecito". Premettiamo che gli Assassini, un Ordine le cui origini risalgono alla notte dei tempi, sono un'organizzazione segreta diffusa in tutto il mondo e votata a preservare il diritto dell'umanità al libero arbitrio. La loro ideologia è fondata sulla convinzione che solo l'autodeterminazione può condurre al miglioramento della razza umana attraverso la crescita dell'individuo, permettendo così la nascita di nuove idee e innovazioni. Al contrario i Templari, la fazione nemica, intendono sottrarre agli uomini il libero arbitrio. Tornando al motto dell'Ordine, ne possiamo ascoltare la spiegazione più esaustiva nell'episodio Assassin's Creed Revelations, ovvero quando Ezio Auditore visitava la roccaforte di Masyaf assieme a Sofia Sartor: «Nulla è reale, tutto è lecito. [...] Dire che nulla è reale significa comprendere che le fondamenta della società sono fragili, e che dobbiamo essere i pastori della nostra stessa civiltà. Dire che tutto è lecito, invece, significa capire che siamo noi gli architetti delle nostre azioni, e che dobbiamo convivere con le loro conseguenze, sia gloriose, sia tragiche.».

Scienza. Il fisico Lawrence Krauss ha analizzato dal punto di vista della divulgazione scientifica e filosofica, le implicazioni per l'essere umano del concetto di nulla in fisica, nel suo libro L'universo dal nulla, tentando di rispondere alla domanda di Leibniz, concludendo che non esista un vero nulla ma solo il vuoto e che questo non debba tradursi in una mancanza nichilistica di senso dell'attuale vita umana.

·        Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

Le elemosine hanno sfasciato il Mezzogiorno. Carlo Lottieri il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. È un dato preoccupante quello segnalato dall'Inps là dove evidenzia che nel corso del 2021 nel Mezzogiorno si è avuto un raddoppio dei certificati di malattia. È un dato preoccupante quello segnalato dall'Inps là dove evidenzia che nel corso del 2021 nel Mezzogiorno si è avuto un raddoppio dei certificati di malattia. Ovviamente, la questione non è sanitaria, ma culturale e obbliga a interrogarsi su cosa s'è fatto in tutti questi decenni per danneggiare in tal modo il tessuto della società meridionale. È chiaro che questo numero abnorme di assenze dal lavoro per ragioni di salute è da ricondurre a un malcostume, le cui cause sono ben note. L'Italia, in generale, e ancor più il suo Mezzogiorno da troppo tempo disprezzano quella cultura del lavoro che comporta dedizione ai propri compiti e alla parola data. Dove le entrate non sono una conseguenza dell'attività, ma provengono da logiche redistributive, quella che s'impone è la logica dei più furbi. Le virtù borghesi s'affermano, come non si stancava di evidenziare Sergio Ricossa, nelle economie basate sul contratto, sull'impresa privata e sulla concorrenza. Se invece regna l'assistenzialismo, anche gli schemi morali che dovrebbero regolare i comportamenti dei singoli finiscono per essere trasformati e, naturalmente, in peggio. In una società nella quale un reddito può giungere tutti i mesi sul nostro conto corrente anche senza far nulla, si finisce per perdere ogni nesso tra la fatica e il premio, tra il lavoro e il salario. Quasi senza accorgersene, si entra in universo in cui ognuno cerca di vivere parassitariamente rispetto al prossimo, adottando ogni genere di imbroglio e malizia. Come spesso si evidenzia (ma mai a sufficienza!), il costo più oneroso del reddito di cittadinanza non è di carattere economico, ma invece sociale e culturale. E in fondo questa è solo l'ultima di una lunga serie di misure politiche che hanno guardato al Sud come a un semplice serbatoio elettorale: un vasto spazio nel quale distribuire favori (spesso di modesta entità) scollegati da quella capacità di fare e intraprendere che, invece, è condizione fondamentale per un vero sviluppo. Anni e anni di elemosine statali non hanno aiutato il Mezzogiorno, ma invece l'hanno corrotto in profondità. Ne discende che oggi il Sud ha bisogno di accantonare tutto questo, perché una nuova cultura della responsabilità può affermarsi soltanto se le nuove generazioni saranno chiamate ad affrontare nel bene e nel male tutti i rischi e tutte le opportunità del mercato. Carlo Lottieri

SPESA STORICA GHIGLIOTTINA SUL FUTURO DELLA SCUOLA E DEI RAGAZZI DEL SUD. Al Sud l’82% dei Comuni ha una spesa storica per l’istruzione inferiore del 30,89% rispetto a quella standard: ricevono cioè dallo Stato meno del necessario per garantire un servizio decente. Il Nord può invece permettersi di spendere più di quello di cui avrebbe bisogno perché ha avuto più risorse per almeno 15 anni. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 16 novembre 2021. Al Sud l’82% dei Comuni ha una spesa storica per l’istruzione che è nettamente inferiore rispetto a quella standard: vuol dire che i sindaci ricevono dallo Stato meno soldi di quelli che sarebbero realmente necessari per garantire un servizio degno di questo nome. La situazione è diversa al Centro, dove oltre la metà degli enti, il 52%, registra una spesa storica superiore a quella standard e lo stesso vale per i Comuni del Nord-Est (51%) e, in misura minore, per quelli del Nord-Ovest (45%).

IL RAPPORTO

È quanto emerge da un nuovo report della fondazione Openpolis e Sose: il sistema italiano di federalismo fiscale, attraverso Sose, si occupa di stimare il fabbisogno finanziario di cui necessitano tutti i Comuni delle Regioni a statuto ordinario per offrire i servizi legati all’istruzione. Un calcolo che concorre a determinare la distribuzione delle risorse perequative del fondo di solidarietà comunale. «La maggior parte (3.929, cioè il 61%) dei Comuni italiani delle Regioni a statuto ordinario registra – si legge nel report – per la funzione istruzione una spesa storica inferiore a quella standard. In questo caso parliamo di enti che, o sono particolarmente efficienti nell’offrire ai cittadini i servizi legati all’istruzione, oppure scelgono di destinare più fondi a un’altra funzione rispetto a questa, o ancora hanno scarse risorse e quindi non riescono a spendere a sufficienza per garantire un livello di servizi adeguato». A soffrire maggiormente, poi, sono i Comuni più piccoli, infatti nei centri inclusi nelle fasce 60mila-99mila e oltre 100mila abitanti la spesa storica supera quella standard.

IL GAP SPESA STORICA

«Una condizione, quest’ultima, che può dipendere da una scelta delle amministrazioni di investire più risorse di quelle stimate, per ampliare l’offerta di servizi ai cittadini. Un’ipotesi che trova riscontro, per esempio, nei dati relativi alla superficie degli edifici scolastici comunali e statali. Se per i Comuni con oltre 60mila abitanti parliamo di oltre 13 metri quadri per abitante, per i territori con meno di 500 residenti il dato cala a 4 mq pro capite», scrive Openpolis. Così, mentre Napoli ha una spesa storica per l’istruzione di 78,24 euro e una spesa standard di 86,61 euro, Bologna ha una spesa storica di 189.36 euro e una spesa standard di appena 118.52 euro. E ancora: Bari presenta una spesa storica di 64.13 euro e una spesa standard di 74.8 euro; Firenze ha una spesa storica di 133.96 euro e una standard di 104.54 euro. Al Nord possono permettersi di spendere più di quello di cui realmente avrebbero bisogno, perché hanno potuto usufruire di maggiori risorse per almeno 15 anni. Al Sud, invece, i sindaci devono fare i salti mortali e ricevono meno soldi di quanti ne sarebbero necessari. Sino a quando non verrà superato definitivamente il criterio della spesa storica per la ripartizione dei fondi nazionali, la sperequazione non avrà fine e il Mezzogiorno continuerà ad ottenere meno risorse rispetto al Nord ma anche rispetto alle reali esigenze.

CONTI IN ROSSO

D’altronde, basti pensare che la Regione Puglia, nel 2016, per garantire ai 4 milioni di cittadini i servizi di istruzione, asili nido, polizia locale, pubblica amministrazione, viabilità e rifiuti, ha potuto spendere 2,22 miliardi ma avrebbe avuto bisogno di 2,32 miliardi, circa 100 milioni in più. In sostanza, la Puglia – avendo ottenuto trasferimenti statali inferiori rispetto al reale fabbisogno finanziario – ha dovuto stringere la cinghia, mentre il Piemonte nonostante un fabbisogno reale di 2,74 miliardi ne ha spesi 2,81, cioè 70 milioni in più. Le Regioni del Mezzogiorno, nel 2016, per tutti i servizi elencati hanno sopportato un costo complessivo di 7,90 miliardi (spesa storica), ma avrebbero avuto bisogno, secondo i calcoli di OpenCivitas, di almeno 8,18 miliardi (spesa standard), uno scarto negativo del 3,43%. Le Regioni del Nord, al contrario, hanno investito complessivamente 16,42 miliardi, nonostante il fabbisogno reale fosse di 15,23 miliardi: hanno speso di più avendo ricevuto più soldi da Roma. Se prendiamo in considerazione solamente il capitolo “istruzione”, le Regioni del Sud registrano uno scarto negativo tra spesa storica e spesa standard del 30,89%. Diversamente, il Nord ha potuto investire il 9% in più rispetto al reale fabbisogno.

Il Pnrr si è fermato a Eboli: progetti sbagliati e incertezze allargano il divario tra Nord e Sud. Reti idriche, asili, porti, assunzioni: i primi bandi non consentono al Meridione di recuperare il gap con il resto del Paese. E la soglia del 40 per cento, anche se sarà rispettata, non tiene conto di popolazione, Pil e disoccupati. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 25 ottobre 2021. Il divario nord-sud è cresciuto negli anni difficili della pandemia e continua a crescere ogni giorno che passa. Ma questa frattura tra le due aree del Paese rischia di diventare ancora più profonda, per paradosso, dopo la piena attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Un piano che stanzia oltre 220 miliardi di euro, soldi concessi dall’Europa proprio per ridurre le distanze tra questi due pezzi d’Italia, considerando che nessun altro Stato dell’Ue ha al suo interno livelli così diversi di crescita come il nostro Paese. I primi bandi del Pnrr, e le prime graduatorie con distribuzione delle risorse, premiano però ancora chi alcuni livelli di assistenza e di servizi li ha già. Il dibattito politico nelle ultime settimane si è concentrato solo su due aspetti: la carenza di tecnici ed esperti negli enti pubblici delle regioni meridionali per presentare progetti adeguati ad attrarre le risorse del Piano, e la soglia minima del 40 per cento delle risorse cosiddette «territorializzate» che devono essere destinate alle aree che vanno dalla Campania alla Sicilia. Su entrambi gli aspetti il governo Draghi ha offerto le più ampie rassicurazioni. Il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha avviato la selezione degli esperti da affiancare alle amministrazioni meridionali e la ministra del Mezzogiorno, Mara Carfagna, ha chiesto e ottenuto che in Parlamento passasse un suo emendamento per fissare al 40 per cento la soglia minima delle risorse che devono andare alle regioni più svantaggiate, in totale 82 miliardi di euro. Ma tra le promesse e l’avvio dei primi bandi qualcosa non torna e cresce la protesta degli amministratori meridionali. 

I PRIMI BANDI DEL PIANO

Agli onori della cronaca è arrivato recentemente il caso Sicilia: nessuno dei progetti per migliorare le condotte irrigue per agricoltura e imprese è stato finanziato per errori nella documentazione consegnata a Roma. Ma il vero problema è che degli 1,6 miliardi di euro messi a gara, solo 475 milioni (il 29 per cento del totale) è stato destinato a regioni del Sud. Al centro e al nord sono andati 1,1 miliardi di euro.

In Sicilia quasi il 50 per cento dell’acqua si perde perché le condotte sono vecchie e bucate in più parti, percentuali simili si registrano in Calabria (41 per cento) e Campania (46 per cento), mentre il record negativo di acqua che si disperde va alla Basilicata con il 56 per cento e alla Sardegna con il 55. Al Nord, la dispersione delle reti idriche è inferiore della metà: in Lombardia è del 28 per cento, in Emilia Romagna del 30 per cento, come in Liguria. Conti alla mano, per recuperare il gap e raggiungere livelli simili al Mezzogiorno occorrerebbe ben più del 40 per cento delle risorse: sul bando da 1,6 miliardi, però, Basilicata, Calabria, Sardegna, Campania e Puglia hanno avuto ammessi progetti per 475 milioni, il 29 per cento del totale. La Lombardia ha avuto finanziati progetti per 197 milioni, il Piemonte per 159 milioni, la Campania si è fermata a 168 milioni, Puglia e Sardegna sono arrivate a meno di 3 milioni. Non è andata meglio sugli asili nido e il bando da 700 milioni di euro ha visto decine di Comuni meridionali restare fuori dai finanziamenti. Qui il 58 per cento delle risorse è andato agli enti locali meridionali, con i Comuni della Campania che hanno attratto risorse per 138 milioni, seguiti da quelli della Lombardia che hanno ottenuto 58 milioni e della Sicilia arrivati a quota 56 milioni. Il divario nord-sud però così non si ridurrà, considerando che su 100 bambini in Sicilia solo 12 trovano posto in asili nido pubblici e privati, in Campania e Calabria 10 bambini, in Puglia 18, mentre in Valle d’Aosta i bambini che trovano risposta per servizi di nido sono 44, in Lombardia 31, in Piemonte 30, in Toscana ed Emilia Romagna 40 (dati Openpolis). Discorso analogo accadrà anche per un altro bando finanziato con il Pnrr, quello destinato all’assunzione di assistenti sociali: alcuni criteri premieranno i Comuni che già hanno un buon numero di assistenti sociali e chi non ha questa rete non avrà alcun fondo in più per ridurre i divari. Un’altra ripartizione delle risorse già conclusa è quella sui grandi porti commerciali. Il Pnrr varato dal governo Draghi ha fatto solo una fotografia dello status quo. Secondo i dati del ministero delle Infrastrutture, tra fondi già stanziati e Pnrr per la portualità, nei prossimi cinque anni saranno investiti 3,3 miliardi di euro e, assicurano, il 43 per cento andrà ai porti del Mezzogiorno. Ma già solo questa cifra non rispecchia nemmeno il traffico merci attuale, visto che il 47 per cento transita negli scali portuali da Napoli in giù. Tra fondi per progetti e infrastrutture di certo c’è che solo i porti di Genova e Trieste riceveranno un miliardo di euro, molto di più degli scali di Napoli, Gioia Tauro, Augusta o Palermo. Qualcosa non torna perfino nella distribuzione territoriale degli esperti assunti a tempo determinato per aiutare le amministrazioni pubbliche in difficoltà nel presentare i progetti finanziati con il Piano Ue. Dei mille giovani tecnici chiamati in servizio, per una spesa di 320 milioni di euro, secondo la bozza del Dpcm, chi ne riceverà di più è la Lombardia con 131 assunti, seguono Campania e Lazio con 101 e 87, mentre l’Emilia Romagna ne avrà 64, qualche unità in meno della Puglia. La Calabria ne avrà 40, la Toscana 52 e il Piemonte 62. Ma non si dovevano aiutare gli enti pubblici senza personale? 

L’ALLARME DI SINDACI ED ESPERTI

Il professore dell’Università di Bari Gianfranco Viesti, esperto di società ed economia meridionale, non è molto sorpreso da questo avvio di attuazione del Pnrr e non ha molta speranza in una vera riduzione dei divari grazie a questo fiume di denaro in arrivo da Bruxelles: «Anche prendendo per buona la cifra di 82 miliardi di risorse che andranno davvero al Mezzogiorno, la vera domanda è: quanti di questi soldi rappresentano concretamente nuovi investimenti? Sulle infrastrutture abbiamo assistito a una partita di giro, con opere finanziate da tempo con fondi statali ai quali adesso sono subentrati i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Conti alla mano, studiando le poche cifre certe del documento sul Pnrr consegnato in Parlamento e a Bruxelles, solo 35 miliardi di risorse aggiuntive andranno al Mezzogiorno. Il resto è un grande punto interrogativo. Ma anche dando per certa la soglia del 40 per cento, questa non basta certo ad avvicinare i livelli dei sevizi nelle regioni del sud alla media nazionale. Per gli asili nido, al Mezzogiorno dovrebbero andare il 70 per cento delle risorse, solo così Reggio Calabria potrebbe avvicinarsi a Reggio Emilia: oggi la prima città ha 3 asili nido, la seconda 60. C’è poi il grande tema della burocrazia: è evidente che considerando il poco tempo per realizzare i progetti il sistema burocratico del Sud non può competere. Occorrono misure speciali e immediate per aiutare la macchina degli enti locali». Proprio quello della burocrazia è il tema che preoccupa di più i sindaci. Cinquecento amministratori meridionali si sono riuniti in una grande rete, tra questi il primo cittadino di Acquaviva in Puglia, Davide Carlucci: «Abbiamo creato un'alleanza tra sindaci di tutto il Sud. L'occasione è stata proprio il Pnrr: non vorremmo che fosse l'ennesimo treno perso per eliminare il divario con il resto d'Italia, che invece negli ultimi anni è cresciuto. La soglia del 40 per cento sembra un'enormità, è in realtà un tradimento delle indicazioni che ha dato l'Unione Europea stanziando i fondi in base alla popolazione, al Pil pro capite e al tasso di disoccupazione degli ultimi cinque anni. Se si fossero utilizzati questi parametri anche nella distribuzione delle risorse all'interno della nostra nazione, al Mezzogiorno sarebbe dovuto andare il 68 per cento. La Lombardia, così, otterrà 35 miliardi di euro, quasi la stessa somma della Francia che ha gli stessi indicatori economici ma una popolazione sei volte superiore, mentre la Calabria, terza regione più povera d'Europa, ne avrà solo 9,5. Inoltre sebbene il presidente del Consiglio Draghi abbia a più riprese sottolineato la necessità di rafforzare la pubblica amministrazione, nulla di concreto è stato fatto. Oggi Bassano del Grappa, di 43mila abitanti, può contare su 256 dipendenti a tempo indeterminato, mentre Corato, 48mila abitanti, ha 128 unità, la metà». Carlo Marino, presidente dell’Anci Campania, aggiunge: «Dal governo ci attendiamo tre cose: mettere i Comuni al centro della spesa e dare loro delle procedure semplificate; un piano straordinario di assunzioni che destini ai Comuni meridionali 5 mila giovani progettisti; garantire senza trucchi che il 40 per cento delle risorse resti al Sud. Punti sui quali, a partire dall’ultimo, siamo pronti a dare battaglia». Dall’Unione europea intanto si dicono preoccupati per la distribuzione reale delle risorse del Piano in Italia. Dolors Montserrat, presidente della Commissione per le petizioni, ha dichiarato «ricevibile» una istanza di verifica sulla spesa dei fondi Ue fatta dai sindaci del Sud. Una istanza che chiede un costante monitoraggio all’Ue sull’impiego delle risorse del Piano.  Montserrat nella lettera di risposta ha aggiunto: «Ho chiesto alla Commissione europea di condurre un'indagine preliminare sulla questione». I primi bandi del Pnrr sono già più di un campanello d’allarme.

L’allarme dell’Istituto Tagliacarne e di Unioncamere. Metà della ricchezza italiana in venti province, nessuna è al Sud. Andrea Esposito su Il Riformista il 9 Ottobre 2021. Nelle prime venti province italiane si concentra più della metà della ricchezza prodotta in Italia. E tra quelle non ce n’è una del Sud. Bisogna scorrere fino alla quarantesima posizione della graduatoria – guidata, manco a dirlo, da Milano – per trovarne una leggermente più giù di Roma. Ed è quella di Cagliari, certo non quella di Napoli che è soltanto 83esima, preceduta da Palermo e seguita da Salerno. Segno che il gap tra il Nord e il Sud del Paese aumenta, nonostante il Mezzogiorno abbia per certi versi retto meglio all’urto della pandemia. Ecco la drammatica fotografia scattata dal Centro Studi Tagliacarne e da Unioncamere attraverso un report dedicato agli effetti del Covid sul valore aggiunto prodotto nelle aree metropolitane italiane. Il primo dato che balza all’occhio è la differente velocità alla quale viaggiano i vari territori italiani. A Roma e a Milano e dintorni, per esempio, si produce il 19,7% della ricchezza dell’intero Paese: un dato addirittura in aumento di due punti percentuali rispetto al 2000. Ma il capoluogo lombardo si conferma leader anche nella classifica provinciale per valore aggiunto pro capite con 47.495 euro e stacca la capitale addirittura di sette posizioni. La provincia più “vicina” a Milano è quella di Bolzano, lontana addirittura di 21 punti percentuali: uno scarto mai così alto dal 2012. Insomma, Milano vola rispetto al resto d’Italia nonostante l’impatto della pandemia sia stato più sensibile nelle province del Nord, dove si concentrano le aree a maggiore vocazione industriale e le imprese con meno di 50 addetti che, soprattutto nei settori della moda e della cultura, sono risultate le più penalizzate dalla crisi. Qui il valore aggiunto è calato del 7,4%, mentre al Sud la flessione è stata del 6,4: danni limitati grazie alla più consistente presenza pubblica nell’economia e alla massiccia presenza di imprese attive nei settori della green e blue economy, per certi versi meno colpiti dal Covid. «La crisi non ha risparmiato nessuna provincia – spiega Andrea Prete, presidente di Unioncamere – ma al Sud gli effetti sono stati più limitati grazie ai provvedimenti messi in campo dal Governo nazionale e dalla tenacia delle imprese». Ma come si sono comportate le province della Campania? Quella di Napoli ha perso il 6,9% di valore aggiunto, cioè meno di quelle di Caserta (-9,2%) e di Avellino (-8,2%), ma nettamente di più rispetto a quella di Benevento (-3,3% grazie alla consistente presenza del settore pubblico nell’economia locale) e di quelle di Milano e di Roma (rispettivamente -5,6 e -6,6%). In Campania come nelle altre province meridionali, dunque, «la crisi ha agito su un’area già provata economicamente e socialmente in termini di reddito pro capite e di incidenza delle situazioni di povertà». Ora, ovviamente, si tratta di rimettere in moto il sistema economico. E, soprattutto, di ridurre quelle diseguaglianze che il Covid ha reso ancora più evidenti. Lo strumento c’è ed è il Piano nazionale di ripresa e resilienza nell’ambito del quale la Campania vede ora finanziati i primi nove progetti. Poca roba, se si considera la consistenza del gap in termini di servizi e infrastrutture che allontana sempre di più i territori dell’Italia meridionale da quelli dell’Italia settentrionale e dal resto d’Europa. Una situazione che associazioni come la Svimez hanno denunciato a più riprese sottolineando la necessità di abbandonare una volta per tutte l’idea del Nord come unica “locomotiva” dell’economia nazionale e di considerare il Sud come “secondo motore” dello sviluppo del Paese. La politica sembra avere recepito il messaggio: ieri il ministro Enrico Giovannini ha precisato che il 56% dei 62 miliardi da investire in infrastrutture e mobilità sostenibile andrà al Mezzogiorno. Stesso discorso per il decreto per la rigenerazione urbana che vale quasi tre miliardi per 159 progetti destinati a migliorare la qualità della vita nelle città meridionali senza consumare suolo. «Ora l’importante è avviare le iniziative del Pnrr – conclude Prete – Non c’è un minuto da perdere». Andrea Esposito

Autonomia differenziata, il cadavere riesumato da un blitz della Lega. Un disegno di legge per attuare il regionalismo differenziato collegato alla legge di bilancio. Il piano B del Carroccio in caso di flop elettorale: tornare al Federalismo padano. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud l'1 ottobre 2021. Accompagnata all’uscita dalla porta principale, l’autonomia differenziata è pronta a rientrare dalla finestra. Con il solito blitz leghista è riapparsa sotto forma di disegno di legge, un collegato alla nota di aggiornamento al Def. Un fantasma pronto a riprendere forma tutte le volte che il fanatismo elettorale lo richiede. Ma questa volta sotto le sembianza del “federalismo spinto” ci potrebbe essere dell’altro. La scappatoia esistenziale di una parte del Carroccio. Le bandiera del popolo padano sono rimaste negli armadi, basterebbe spolverarle e riportarle in piazza per tornare alle origini. Il blitz è stato ispirato dai soliti governatori oltranzisti, il lombardo Attilio Fontana e il veneto Luca Zaia e con la benedizione di Giancarlo Giorgetti. Una rete di protezione in vista del possibile flop alle amministrative. Il dopo Salvini insomma è già cominciato. Se il sogno di una Lega sparsa su tutto il territorio nazionale sfuma, come dicono i sondaggi, si torna all’antico. Salvini, dicono le malelingue, si è esposto nella difesa del suo ex digital-guru Luca Morisi per non lavare i “panni sporchi”. La caduta dal podio è vicina. Ed ecco allora rispuntare il vecchio disegno, i confini segnati dal sacro fiume Po, l’occhio strizzato agli elettori delle regioni del Nord, la resurrezione del bossismo, come raccontato da questo giornale qualche giorno fa.

FEDERALISMO AD OROLOGERIA

La riesumazione dell’autonomia differenziata, dunque, come effetto collaterale. La Lega che si slega. Ed ecco che, depotenziato dalla crisi sanitaria, logorato dal protagonismo dei governatori, il federalismo ad orologeria si materializza nella sua forma più estremista. La versione già bocciata del primo governo Conte. L’interpretazione più talebana dei criteri di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione. Un nuovo assetto federale per regolare il rapporto economico-finanziario tra lo Stato e le autonomie territoriali. Che vuol dire superamento del sistema di finanza derivata, maggiore autonomia di entrata e di spesa agli enti decentrati. E al diavolo i princìpi di solidarietà, riequilibrio territoriale e coesione sociale che dovrebbero guidare tutte le scelte del PNNR secondo i dettami Ue. Non c’è da stupirsi se ancora una volta l’attenzione dei governatori e della Lega – ma non solo – riguarda la parte economico-finanziaria dell’autonomia differenziata. La legge n. 42/2009 ha introdotto il principio di territorialità per regolare l modalità di attribuzione alle Regioni del gettito dei tributi regionali e delle compartecipazioni al gettito. Ed è questo che fa gola, la possibilità di tener conto del luogo di consumo, localizzazione dei cespiti, prestazione del lavoro, residenza del percettore. In una parola la fiscalità regionale, ovvero la fiscalizzazione dei trasferimenti statali alle Regioni e alle Province. Attuare il federalismo per i leghisti di ieri e di oggi – detto in soldoni – ha sempre voluto dire questo: incassare i dané e tenerseli in cassaforte considerando propri anche quelli destinati alla perequazione. Da qui la richiesta di rideterminare l’aliquota dell’addizionale regionale Irpef per garantire alle Regioni a statuto ordinario entrate corrispondenti ai trasferimenti statali soppressi. Ciò che prima ti veniva passato per trasferimento dallo Stato si può trattenere a monte. A pensarci bene non è molto diverso dal principio declinato in ambito sanitario con il decreto legislativo n. 68 del 2011. E i risultati sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti; disparità di trattamento, disuguaglianza, assenza di medicina territoriale, ospedali tagliati, trattamenti economici differenziati, migrazione sanitaria, viaggi della speranza etc, etc. Da giorno in cui la Lega ha iniziato a cavalcare quella che doveva essere la tigre dell’autonomia poco o niente s’è fatto. Arranca la determinazione dei fabbisogni standard, indicatori tratti da una banca dati, informazioni che provengono dal territorio per costruire un meccanismo perequativo. Non si riesce a dare forma e contenuto ai Lep, i livelli essenziali delle prestazioni previsti dal Pnrr: per farlo bisognerà aspettare almeno fino al 2026. In compenso, come se nulla fosse, si torna a parlare del luminoso destino che attenderebbe le regioni del Nord pronte ad affrancarsi dal centralismo cristallizzante. Il solito tormentone, la solitaria accelerazione di un partito in crisi di identità. Il ritorno a scoppio ritardato di un modello che lo stesso Salvini aveva riposto nel guardaroba tra gli abiti dismessi. Indumenti logori, lisi, già usati. Le iniziative assunte ormai vari anni fa, in un altro clima politico e sociale, in un’altra Italia, da alcune Regioni, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna spacciate per atti di fondazione. Referendum-farsa ai sensi dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione.

COME FINIRÀ?

In passato blitz di questo tipo si sono conclusi con un nulla di fatto. E così dovrebbe essere anche questa volta. Tanto più che una bocciatura netta al disegno leghista è arrivata anche dagli esperti nominati dalla ministra agli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Una commissione di docenti, giuristi e tecnici che ha giudicato il passaggio di alcune competenze, come ad esempio l’istruzione, impraticabile. Anche perché l’impianto generale scelto per il riconoscimento dell’autonomia differenziata dovrà essere uguale per tutti. E invece i percorsi per arrivare all’autonomia sono molto diversi fra loro.

RISPOLVERATE LE PRE-INTESE

Nella scorsa legislatura furono firmati tre accordi separati. In realtà pre-intese senza alcun valore giuridico dall’allora segretario Gianclaudio Bressa, esponente del partito democratico. Una strada diversa è stata invece quella scelta dall’ex ministro agli Affari regionali, anche lui dem, Francesco Boccia, un sistema di legge quadro, la definizione di un perimetro entro il quale declinare le varie forme di autonomia. Poi la Pandemia ha smontato tutto, messo a nudo le crepe, smascherato gli egocentrismi, i personalismi gli sprechi e le inefficienze proprio delle regioni e dei governatori che più di altri agitavano il vessillo dell’autonomia.

LO SCONTRO CON FICO

Fin qui il passato e anche il presente, con l’ultima recente riesumazione ad uso interno leghista. Con il sospetto che questa volta intorno al tema del federalismo si possa costruire una sorta di alleanza. L’asse Giorgetti-Gelmini è cosa fatta (e non promette nulla di buono). Vorrebbe saldarsi con un fronte moderato al quale si sta avvicinando sempre di più Luigi Di Maio, il ministro sempre più stressato dai conflitti del M5S, sempre più insofferente all’alleanza con il Pd. Lo scontro con Roberto Fico a Napoli, il sostegno ai “propri” candidati lo tiene molto più occupato delle questioni internazionali, uno scontro che va oltre l’orizzonte stretto delle prossime elezioni amministrative. Il regionalismo differenziato potrebbe essere contropartita per un accordo più ampio che taglierebbe fuori Giuseppe Conte. Il regionalismo differenziato come contropartita. Un negoziato scellerato sulla pelle del Mezzogiorno.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 22 settembre 2021. Di Italie, si sa, ce ne sono almeno due. E una, quella più a Sud, è costretta ogni giorno a fare i conti con un gap infrastrutturale che riguarda in primis la scuola e i suoi servizi. Un divario che ha raggiunto ormai proporzioni inaccettabili. Un dato su tutti (dal report di Legambiente Ecosistema Scuola): nella Penisola vengono stanziati in media 4,60 euro a studente per finanziare progetti o iniziative extrascolastiche dedicate agli under 14. La statistica però trae in inganno e se al Nord per ogni alunno gli euro sono 9,3, al Centro sono 1,4, a Sud 1 e nelle Isole addirittura 0. Una fotografia che non migliora allargando il campo alla gestione delle strutture scolastiche. Negli ultimi 5 anni infatti sono stati spesi - sempre in media - 5.679 euro per la manutenzione ordinaria di ogni singolo edificio della Penisola. Riprendendo la suddivisione precedente, a fronte di uno stanziamento da parte dello Stato e della Ue di 7.258 euro per ogni istituto, gli edifici scolastici del Nord hanno ricevuto 7.248 euro, mentre le scuole del Centro si sono accontentate di 5.864 euro, quelle del Sud di 4.495 euro e, sulle Isole, di appena 1.879 euro. Eppure a guardare quali di questi edifici necessitino di manutenzione urgente la situazione è opposta: nelle Isole sono oltre il 63 per cento, al Sud oltre il 31 per cento, al Centro il 27,4 per cento e al Nord il 22,9 per cento.

IL PIANO Non è dunque un caso se il Piano nazionale di ripresa e resilienza varato dal governo, destina al Meridione 82 miliardi di euro proprio con l'intenzione di colmare questo gap. Fondi da spendere però con attenzione per evitare che neanche un euro di queste risorse finisca con l'essere impegnato senza questa finalità. Tant'è che alte fonti di governo, senza confermare l'esistenza di tali distorsioni, commentano: «Stiamo lavorando una valutazione dell'avvio del Pnrr e comunque la cabina di regia prevista servirà anche a monitorare e coordinare l'attuazione equilibrata del piano». Qualche criticità ad esempio, si è già presentata con il primo finanziamento da 700 milioni di euro destinato ad asili nido e scuole dell'infanzia. Come denunciato ieri dal Messaggero infatti, tra i criteri del bando (varato dal precedente governo) che premiavano le domande, c'era anche quello del cofinanziamento. Un criterio che assegnava ben 10 punti, contro gli appena 3 destinati a quelle richieste in arrivo da comuni in cui il numero degli asili nido è inferiore alla media nazionale. Inevitabile quindi, che a fronte di un'assegnazione di fondi destinata alle aree più disagiate del Paese, tra i 453 progetti approvati compaiano diversi casi in cui lo svantaggio non è poi così evidente. Dall'asilo nido di Torino a 2 chilometri da piazza Castello fino a quello milanese vicino ai Navigli e alla scuola per l'infanzia in pieno centro a Udine.

GLI ASILI Una stortura che, contestualizzata con i dati dell'associazione Con i bambini e di OpenPolis, appare ancora più evidente. Nella Penisola infatti, a fronte di un Centro-Nord che ha quasi raggiunto l'obiettivo europeo di 33 posti disponibili ogni 100 bambini (sono a 32) e dove comunque in media due comuni su 3 offrono il servizio, c'è un Mezzogiorno in cui i posti disponibili sono invece solo 13,5 ogni 100 bambini, e il servizio è garantito in meno della metà dei comuni (il 47,6 per cento). In particolare la differenza è di 18,5 punti e si sostanzia in un singolo esempio: A Bolzano ci sono quasi 7 posti ogni 10 bambini, a Catania e Crotone quasi 5 su 100. Il dramma è che si potrebbe continuare all'infinito. Le mense scolastiche? Secondo Legambiente che ha analizzato un campione di oltre 6mila edifici scolastici nelle regioni del Nord ce n'è una nel 74 per cento degli istituti. Il servizio invece al Centro e al Sud è disponibile in meno di una scuola su due (rispettivamente nel 46 e nel 41 per cento delle strutture), e nelle Isole in uno su tre (33,5 per cento). Le palestre? Nel settentrione le hanno il 55 per cento delle scuole, al Centro il 38,9 per cento, al Sud il 44,8 per cento e sulle Isole il 35,1 per cento. Infine il risultato peggiore, quello sull'apprendimento. Dati Invalsi alla mano (Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna hanno oltre il 50% degli alunni che raccoglie risultati scarsi in Italiano, il 60% in Matematica) c'è una sola interpretazione possibile: l'intero sistema scolastico funziona meglio al Nord. Ma non ci sono più scuse, è ora di rimediare.

Autonomia differenziata: come scappare con il bottino. Claudio Marincola su Il Quotidiano del Sud il 3 settembre 2021. LA BOCCIATURA è solenne e senza appello. Ed è il motivo per cui Luca Zaia e Attilio Fontana dopo aver letto la relazione redatta dal comitato dei saggi nominati dal ministero hanno chiesto subito di poterne parlare con la ministra agli Affari regionali Mariastella Gelmini. Non era il testo che il presidente del Veneto e della Lombardia si aspettavano. Al contrario era un’analisi lucida e particolareggiata, dal punto di vista giuridico ed economico, delle ragioni per cui parlare di regionalismo differenziato nell’anno di grazia 2021 non ha più molto senso. La Commissione tecnica, presieduta dal professor Beniamino Caravita, formata da 5 costituzionalisti di chiara fama, ha sollevato molti dubbi. A partire dall’interpretazione nel merito dell’articolo 116 della Carta costituzionale e a seguire dell’articolo 117, quello che indica le materie che lo Stato può devolvere “in particolari condizioni” alle Regioni. Stessi rilievi del gruppo di lavoro sulla parte finanziaria, oggetto nel giugno scorso di una serie di audizioni formali alle quali hanno preso parte tra l’altro membri del Consiglio direttivo dell’Ufficio parlamentare di Bilancio. Stiamo parlando di esperti in materia di federalismo fiscale come l’economista Alberto Zanardi e Chiara Gobetti, chiamata qualche giorno fa da Mario Draghi a far parte della cabina di regia che gestirà il Pnrr. Si è partiti da una prima bozza di documento raccogliendo i pareri di esperti di settore. E alla fine si sono tirate le somme. Ma il documento finito sui tavoli regionali non è quello che i due governatori leghisti avrebbero voluto.

ISTRUZIONE PUNTO CRITICO. Il punto più critico è il trasferimento delle funzioni relative all’Istruzione. Il cuore dell’autonomia differenziata, la materia che insieme alla sanità fa più gola agli autonomisti 4.0 e senza la quale qualsiasi forma di regionalismo spinto si svuota. Le valutazioni raccolte su questo punto non riguardano il carattere politico della richiesta. I saggi e gli esperti erano esentati da esprimere valutazione sul carattere identitario cose simile, aspetto centrale almeno quanto le risorse. Era importante però indicare in che modo quantificare l’entità dei trasferimenti e sciogliere le questioni finanziarie collegate al disegno di finanziamento del decentramento che la Commissione. Ed è proprio su questo punto che nel corso delle audizioni gli esperti hanno smontato pezzo a pezzo le pretese dei governatori del Nord. Nella bozza d’intesa scritta nel febbraio del 2019 i nodi nevralgici erano tutti ancora aggrovigliati. Solo disposizioni generali, identiche per tutte le regioni richiedenti. Nella successiva bozza, datata novembre 2020, si faceva un generico riferimento ad una compartecipazione al gettito erariale e alla possibilità di misure transitorie in attesa del solito ormai leggendario aggiornamento dei Lep. Per avere una dimensione finanziaria di tutto quello che si porta dietro la scuola ad esempio il solo trasferimento del personale scolastico in Lombardia, basti dire che la sola Regione Lombardia riceverebbe dallo Stato 4,6 miliardi, 2,3 il Veneto e oltre 2 miliardi l’Emilia Romagna: 26,5 miliardi se tutte le regioni a statuto ordinario dovessero fare la stessa richiesta. Tutte le fonti di finanziamento dovrebbero essere ricollocate a favore delle regioni. Senza entrare nel merito delle funzioni richieste, cambiando il soggetto che fornisce questo servizio pubblico, si modificherebbe l’aspetto organizzativo-regolamentare e tutto questo avrebbe un costo aggiuntivo. Uno spostamento di risorse che avrebbe comportato una profonda revisione dell’assetto normativo. Il finanziamento delle funzioni aggiuntive, separato dalla struttura generale di finanziamento delle regioni a statuto ordinario, non sarebbe stato oltretutto coerente con l’articolo 116 “che fa espresso riferimento all’articolo 119 e dovrebbe realizzarsi con modalità «il più possibile coerenti e integrate con il meccanismo di finanziamento di tutte le altre regioni». Questi punti critici nella relazione dei saggi – relazione che la Gelmini avrebbe voluto restasse “segreta” – vengono puntualmente elencati. Così come le questioni più giuridiche sollevate dalla professoressa Anna Poggi, docente di Diritto pubblico all’Università di Torino e dal professor Giulio Maria Salerno, titolare nella stessa materia all’Ateneo di Macerata.

SENZA LA SCUOLA IL REGIONALISMO SI SVUOTA. Tutto il dibattito sul regionalismo differenziato per quanto riguarda gli aspetti delle risorse finanziaria gira intorno alla scuola. Da qui la delusione di Fontana e Zaia, Anche se in questi anni si è registrato da parte loro un atteggiamento ondivago. Da una parte la rivendicazione, il vessillo da esporre, dall’altra il rischio che comporta la gestione concreta dell’Istruzione. Un complicato periodo di transizione, l’eventuale scelta proposta ai docenti e non docenti di optare per ruoli statali o regionali. Un nuovo sistema di offerta formativa, la ridefinizione delle retribuzioni con eventuali differenziazioni di trattamento.

LA SCUOLA COME LA SANITÀ? NO GRAZIE. Per la geografia della finanza pubblica spostare una piccola funzione organizzativa non è come spostare la fornitura complessiva dell’Istruzione. I costi si moltiplicano. Tanta prudenza da parte dei saggi, con relativa inversione di tendenza, si spiega con gli effetti collaterali della Pandemia. Se si andasse avanti in questa direzione, con la regionalizzazione della scuola bisognerebbe costruire un sistema simile alla sanità sviluppando in modo simmetrico a tutte le regioni e non solo in quelle che ne hanno hanno richiesta. Per la sanità c’è un ammontare di risorse destinate a quella specifica funzione, quota che viene rivista di anno. Per la scuola dovrebbe esserci un meccanismo analogo, un fondo scolastico che alimenterebbe le regioni. Le risorse – fanno osservare gli esperti, tenuti alla massima discrezione – dovrebbero essere attribuite in modo perequativo in tutti i territori a prescindere dal soggetto pubblico che li eroga. E questo contrasta con le richieste vagamente declinate da Veneto e Lombardia. L’ex ministra agli Affari regionali Erika Stefani, la pasionaria leghista dell’autonomia, aveva stilato una bozza d’accordo in cui si fissava un’aliquota sui grandi tributi nazionali fotografando la situazione in base alla spesa storica. Una scommessa al buio fuori da ogni dinamica economica, contro ogni principio perequativo e contro ogni regola di riparto.

IL PARLAMENTO ESAUTORATO. L’altro punto sul quale la Commissione tecnica ha eccepito è l’iter di una eventuale legge-quadro modificata e corretta. I governatori, specie quelli del Nord, chiedono che le bozze di intesa una volta concordate non passino più attraverso una discussione parlamentare che le possa emendare. Governo centrale e governo regionale fissano un testo e quel testo rimane. Più che una richiesta, una pretesa. Vincenzo Presutto, senatore campano del M5S, è vice presidente della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale. Spiega: «Non mi sorprende che la relazione della Commissione tecnica abbia evidenziato serie criticità in merito al trasferimento dell’Istruzione alle Regioni.  Il tema del Regionalismo differenziato – rileva Presutto – ha sollevato da sempre diverse perplessità, basta tenere presente gli accadimenti legati alla pandemia da Covid-19 durante la quale la Sanità gestita dalle Regioni, alcune delle quali si sono in più di un caso poste in conflitto con le indicazioni dello Stato centrale, al punto tale che diverse voci si sono sollevate per mettere in discussione addirittura la stessa riforma del Titolo V della Costituzione con la quale fu avviato il trasferimento di alcune materie concorrenti, quelle cosiddette “simmetriche”, alle Regioni. Tale percorso, avviato nel 2001, ancora oggi è rimasto incompleto». L’Italia è a un bivio: o si applichiamo le logiche del Regionalismo e delle Autonomie nel rispetto della Costituzione, salvaguardando i principi di coesione e solidarietà, o, secondo Presutto, «dovrà essere rivista l’impostazione dell’intero Titolo V». «Il Pnrr ha in sé il presupposto per l’applicazione del Federalismo e delle Autonomie Regionali – osserva il senatore – consente allo Stato di adottare una politica nazionale strategica sui grandi temi, superando quel concetto di “spezzatino” regionale voluto con un Regionalismo differenziato che finora ha solo alimentato la competizione tra le Regioni. Con il PNRR, potendo operare sui grandi obiettivi e le relative missioni, si creano le condizioni per rilanciare l’Italia rendendola un Paese più moderno e competitivo, in grado di adeguarsi alle regole mondiali che stanno cambiando radicalmente e che, nel nostro caso, necessitano di un Paese sempre più unito, coeso e solidale colmando il divario economico, sociale e culturale tra Nord e Sud, come peraltro ci è stato esplicitamente richiesto dall’Unione Europea». «Per questo – conclude il senatore Presutto – appaiono più chiari i motivi per i quali la Commissione tecnica, voluta dal ministero abbia escluso che il diritto allo studio possa essere sottratto al controllo dello Stato, e che sia attribuito invece alle singole Regioni richiedenti, visto l’alto rischio di creare sul tema dell’Istruzione, che è un valore portante della nostra democrazia, disparità tra i cittadini a livello territoriale».

QUANDO I NUMERI PARLANO. VACCINO, SCUOLA, ECONOMIA, INFRASTRUTTURE E AUTONOMIA DIFFERENZIATA. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2021. C’è da pedalare, ma la bicicletta è già stata comprata. Anche l’incubo di una notte di mezza estate, che riveliamo in esclusiva, di un’autonomia differenziata che sarebbe costata dieci miliardi in più solo per consentire ai governatori di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto di assumere e pagare loro i docenti e di fare la loro scuola, è caduto sotto i colpi della Costituzione ritrovata e della verità dei fatti e dei numeri. Stiamo uscendo tutti insieme dal mondo dell’irrealtà e questo vale anche per i partiti del rumore che alla fine non dicono mai no. Anche le Regioni sono state messe in riga. Hanno scadenze da rispettare e cose da fare. Chi sa di avere il Paese dietro manda il suo messaggio ai partiti. Fate pure le vostre sceneggiate, ma sappiate che state parlando al vento. Io vi porto cifre e fatti, voi portate aria e polemiche inutili. Certo, dobbiamo vedere che cosa succede nei prossimi due trimestri perché quella sarà la prova vera, ma fino a oggi in economia abbiamo fatto il nostro. Anche le Regioni sono state messe in riga, dicono sì prima e devono fare il loro nei trasporti locali. Hanno scadenze da rispettare e cose da fare. Ancora. Il 91% di vaccinati del personale docente e la grande corsa a vaccinarsi dei ragazzi sono il segno concreto di un Paese che vuole rimettersi in cammino. I 59 mila insegnanti messi in ruolo contro i 19 mila dell’anno precedente sono il frutto dell’azione paziente del ministro Bianchi e di un metodo di lavoro che guarda lontano e si prepara per tempo. Lo stesso metodo che ha consentito di recuperare in estate un milione e seicentomila ore di scuola per la linguistica e la matematica, ma ancora prima per tornare a fare scuola insieme e a parlare insieme. Si è arrivati all’inizio dell’anno scolastico con una grande voglia di tutti di ritornare tra i banchi perché il governo non è andato in vacanza “a passeggiare”. Obbligo dei vaccini? Sì. Terza dose? Sì. Afghanistan e Europa inconcludente? Sì, perché c’è stato qualcuno che è stato concludente? La verità è che l’Europa è assente perché non è organizzata, ma ci stiamo lavorando e tutte le relazioni diplomatiche stanno cambiando. Noi governo Draghi, questo è il senso, stiamo facendo e sappiamo di avere il Paese dietro. Voi alle spalle non avete niente, i centri decisionali lavorano con noi. Potete fare solo un po’ di confusione sui social, ma tutti hanno capito che il governo fa le cose e vogliono confrontarsi e trovare un accordo perché è troppo importante. Stiamo uscendo tutti insieme dal mondo dell’irrealtà e questo vale anche per i partiti del rumore che alla fine non dicono mai no. L’incubo di una notte di mezza estate che riveliamo in esclusiva di un’autonomia differenziata che sarebbe costata dieci miliardi in più solo per consentire ai governatori di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto di assumere e pagare loro i docenti e di fare la loro scuola, è caduto sotto i colpi della Costituzione ritrovata e della verità dei fatti e dei numeri. Sempre quelli. È grave che si pensino architetture simili, ma oggi a differenza del passato c’è un muro di buon senso che le rende irrealizzabili. Perché il Paese è uno e può ripartire solo insieme non con gli egoismi miopi che hanno segnato i venti anni della crescita zero. L’abilità di Draghi è evidente. Lui loda il Parlamento e lavora con il governo. Arriva in conferenza stampa mai da solo e circondato da sempre più ministri. Si vede la squadra e si percepisce la guida. Il messaggio di prima battuta è: noi stiamo lavorando, basta che aprite gli occhi e ve ne accorgerete. Il messaggio di seconda battuta è ai partiti: guardate che la gente se ne è accorta.  Come dire: fate, ma sappiate che ci saranno delle conseguenze. C’è da pedalare, ma la bicicletta e già stata comprata. Hanno capito tutti, insomma, meno che il solito supertalk italiano che continua a parlare di partiti, maggioranze, Quirinale, e delle loro consunte varianti che sono il problema della Lega, il problema del Pd, i Cinque stelle arrabbiati. Francamente sono quasi tutti un po’ patetici perché giorno dopo giorno succederà a loro sempre di più quello che già succede ai partiti. Guadagneranno in modo più fastidioso dei partiti l’irrilevanza. Perché la gente ha capito e la Nuova Ricostruzione è cominciata.  

Posti letto negli ospedali e rifiuti, è sprofondo Sud. I dati relativi ai trasporti (strade, ferrovie, aeroporti e porti) segnalano nel Mezzogiorno una dotazione inferiore alla media italiana. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 2 settembre 2021. La minorità infrastrutturale del Mezzogiorno è un leitmotiv della passione civile che anima questo quotidiano. Un recente studio della Banca d’Italia («I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso», di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller, nella collana «Questioni di Economia e Finanza») è venuto a confermare, con dovizia di analisi innovative, questa minorità, e più volte è stato presentato su questo giornale (vedi il “Quotidiano del Sud” dell’8, 11, 13, 18 agosto, con le analisi sulle dimensioni dei trasporti, della rete idrica, della rete elettrica, delle reti di telecomunicazioni…). In quest’ultimo articolo guardiamo, traendo ancora una volta da quello studio meritorio, alla ‘foresta’ delle infrastrutture, e non più ai singoli ‘alberi’. La tabella mostra, per una selva di indicatori e per ogni regione della penisola, oltre alle grandi ripartizioni territoriali (Nord, Centro, Sud e Isole), i valori di ogni indicatore rispetto al valore medio dell’Italia intera. Per meglio interpretare la tabella, è bene ricordare che non sempre un valore più basso per il Mezzogiorno indica una minorità. Tipico è il caso dell’indicatore relativo alle reti elettriche: per la rete a bassa tensione un valore più alto indica che sono più numerose le interruzioni nella fornitura di corrente, mentre il contrario vale per la rete a media tensione (che interessa le imprese): in quel caso un valore più basso indica che è minore il numero di utenze conforme agli standard di qualità fissati dall’ARERA (Agenzia di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente). Prima di commentare la tabella è utile ricordare le premesse di questa analisi dei divari infrastrutturali nelle Regioni italiane. Questi sono stati esaminati a partire dai singoli SLL: Sistemi locali del lavoro, una partizione territoriale – in Italia sono più di 600 – basata sul pendolarismo, che a sua volta segnala aree economicamente omogenee al loro interno. E L’esame si è valso dei criteri analitici della ‘Nuova geografia economica’ (NGE): una branca dell’economia, in pratica fondata dal Premio Nobel Paul Krugman, che “si caratterizza per il ricorso a sofisticati modelli analitici basati sulle distanze per spiegare la distribuzione delle attività economiche sul territorio e i processi agglomerativi all’origine dei divari di sviluppo locali”, e quindi considera quale elemento determinante nei processi di espansione economica la centralità di un’area rispetto alle destinazioni economicamente più rilevanti (mercato potenziale). Per fare un esempio non strettamente economico, fra gli indicatori di qualità delle cure ospedaliere (vedi la terzultima colonna della tabella), l’indice di accessibilità (dopo aver normalizzato i posti letto per la popolazione) consente di cogliere in che tempi il singolo individuo di un dato SLL può raggiungere le strutture di cure ospedaliere. E veniamo alla tabella. I dati relativi ai trasporti – strade, ferrovie, aeroporti e porti – segnalano nel Mezzogiorno una dotazione inferiore alla media italiana (e ricordiamo che ogni indicatore ha più di una dimensione – per esempio, come già detto nell’articolo dell’11 agosto, non si considerano solo i chilometri di strade, ma anche i tempi di percorrenza). Il solo indicatore per il quale il Mezzogiorno ha un dato superiore alla media italiana è quello relativo ai passeggeri che transitano per i porti, il che è facilmente spiegabile a causa dei collegamenti con le isole. Seguono le telecomunicazioni, e sono questi i soli indicatori per i quali il Mezzogiorno fa bella figura. Ma anche qui l’apparenza inganna. È vero, l’offerta – cioè la disponibilità della rete – è generosa con il Sud, ma la fruizione dei servizi digitali è molto più elevata al Nord. Come recita la Relazione annuale 2020 dell’Agenzia per le Comunicazioni, “in definitiva, tali evidenze mostrano ancora una volta la necessità di affiancare alle politiche di offerta (grazie alle quali si sono raggiunte importanti coperture della banda larga e ultra-larga nella gran parte delle zone del Paese) interventi dal lato della domanda, ossia che stimolino la diffusione dei servizi presso la popolazione italiana”. Per quanto riguarda le altre grandi reti, di quella elettrica si è appena parlato, mentre per quella idrica non c’è che da reiterare le disfunzioni, a sfavore del Mezzogiorno, già descritte su queste colonne il 18 agosto. La dotazione ospedaliera ha tutto il diritto di essere considerata fra le infrastrutture di base. Come recita il contributo di Banca d’Italia, “La letteratura economica ha ampiamente dimostrato che la tutela della salute contribuisce allo sviluppo economico attraverso il suo effetto positivo sull’accumulazione di capitale umano e sulla produttività del lavoro; la crisi innescata dalla pandemia ha ulteriormente messo in luce quanto siano profonde le interconnessioni fra sanità pubblica ed economia. Nel contesto istituzionale italiano la salute è un bene pubblico universale, essendo le prestazioni sanitarie costituzionalmente garantite a tutti i cittadini”. Ebbene, gli indicatori di posti-letto sono tutti più bassi al Sud, specie per la pneumologia e le malattie infettive, per non particolare dell’indicatore di qualità (di cui sui è dato un esempio più sopra), dove il livello per il Mezzogiorno è poco più della metà di quelli del Centro-Nord. Un residente nel Sud o nelle Isole ha possibilità di accedere a posti letto in strutture ospedaliere inferiori del 40 per cento rispetto a un residente in una regione centrosettentrionale. Infine, un altro aspetto della salute attiene alla gestione dei rifiuti, dove ancora una volta gli indicatori descrivono un livello tragicamente basso per il Meridione: “Anche l’erogazione dei servizi ambientali soffre di una carenza di infrastrutture particolarmente accentuata nel Sud del paese, che presenta condizioni sfavorevoli di accesso agli impianti di trattamento dei rifiuti in modo particolare per quanto riguarda la gestione della componente differenziata organica. La minore disponibilità di impianti incide sui costi pagati dall’utenza e ostacola una riorganizzazione del servizio basata sull’adozione di tariffe puntuali (che inducono le famiglie a produrre meno rifiuti e a differenziare di più, ma richiedono una dotazione di impianti adeguata)”. Lo studio di banca d’Italia ha alzato il velo su un campo di indagine che promette altri approfondimenti. Gli stessi autori prevedono ulteriori linee di sviluppo che si allarghino ad altre infrastrutture sociali (asili nido, residenze per anziani, scuole…), che arricchiscano gli indici di accessibilità con altre informazioni qualitative, e che arrivino – qui si potrebbe ricorrere alla metodologia usata nei rapporti Svimez sull’argomento – a individuare metodi per collassare i diversi indicatori in una misura sintetica di tutte le infrastrutture considerate.

Il teschio della discordia. L'ultima polemica su Lombroso minacce alla studiosa che lo difende. Massimo Novelli, la Repubblica, 28/03/2014. Il brigante Villella torna a far parlare di sé. Nel mirino adesso finisce l'antropologa che smonta il mito che ne aveva fatto un eroe. E, per motivi di ordine pubblico, il paese dove è nato cancella la presentazione del saggio. Questo libro non si deve presentare: almeno non ora, e forse mai. Succede a Motta Santa Lucia, paese calabrese di ottocento anime in provincia di Catanzaro, arroccato sulle montagne che sovrastano la valle del Savuto. Il volume in questione, appena pubblicato dalla casa editrice Salerno, in una collana diretta dallo storico Alessandro Barbero, è Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso. Loha scritto l'antropologa Maria Teresa Milicia. Avrebbe dovuto essere presentato domani proprio a Motta Santa Lucia. L'avvenimento, però, è stato annullato all'ultimo momento. Le ragioni? Si temevano contestazioni da parte di esponenti di quei movimenti neoborbonici e antiunitari che da tempo, mediante un sostanziale stravolgimento e una manipolazione della storia d'Italia e del Risorgimento, impazzano sul web, attaccando e insultando chiunque non la pensi come loro. A fare infuriare ancora di più i neo-legittimisti del Mezzogiorno ci sono, poi, le origini calabresi di Maria Teresa Milicia, stimata docente di antropologia culturale all'Università di Padova. Quale è la sua "colpa"? Quella di avere smontato un mito, del tutto fasullo e strumentale, caro ai neo-borbonici. Nel suo saggio ripercorre con rigore scientifico, e attraverso una ricerca meticolosa, le vicende che hanno portato alcune associazioni nostalgiche del Regno delle Due Sicilie a trasformare Giuseppe Villella, un verosimile ladruncolo di polli e di caciotte, vissuto nell'Ottocento, in una sorta di eroe nazionale, alfiere della lotta del Sud contro il colonialismo del Nord. Da qui le violente contestazioni contro il Museo Cesare Lombroso di Torino; lì, tra gli altri reperti appartenenti al criminologo nato a Verona e morto a Torino (1835-1909), è conservato il cranio di Villella. Proprio esaminando i suoi resti, sul finire dell'Ottocento, il fondatore dell'antropologia criminale partì per elaborare la sua teoria, rivelatasi sbagliata, sul presunto atavismo del delinquente. É nato poi persino un Comitato "No Lombroso", con cui è stata chiesta, anche per vie giudiziarie (la causa sarà discussa in appello a dicembre), la restituzione al comune di Motta Santa Lucia del cranio di Villella, pretesa vittima del razzismo sabaudo e di Lombroso. Nel frattempo è stato incoronato dai borbonici del 2000 a leggendario patriota del Sud. In realtà, come dimostra Maria Teresa Milicia, costui non fu né un brigante e tantomeno un patriota, bensì soltanto un poveraccio. Autore di piccoli furti, morì di malattia nel carcere di Pavia. La studiosa, inoltre, smentisce nel suo lavoro le accuse di razzismo e di antimeridionalismo mosse a Lombroso, riscoprendo certi suoi scritti sulla Calabria in cui denunciava alcuni guasti dell'unificazione nazionale, «troppo più formale che sostanziale», e il peso della criminalità locale. Sicuramente chi contesta il libro non può averlo già letto, dato che non è ancora stato distribuito in tutte le librerie italiane. Saperlo in uscita, in ogni caso, è bastato per far saltare l'appuntamento di Motta Santa Lucia, annunciato da giorni dai manifesti affissi nelle vie del paese. È stato il sindaco, l'avvocato Amedeo Colacino, lo stesso che aveva invitato la Milicia, a parlarle mercoledì sera di una informativa dei carabinieri della zona, che, preoccupati per le proteste ventilate, avevano consigliato di cancellare la presentazione. Ora Colacino precisa: «Diciamo che si è preferito rinviare l'incontro per motivi di opportunità, anche per quanto è stato pubblicato su alcuni siti». Su quello del comitato "No Lombroso" si sprecano insulti, e contumelie assortite, alla Milicia. Aggiunge il sindaco: «Magari presenteremo il libro della dottoressa Milicia in contraddittorio con quello, più neo-meridionalista, che ha scritto Francesco Antonio Cefalì». Quest'ultimo, comunque, risulta essere soprattutto il coordinatore della sezione Michelina De Cesare, che era davvero una brigantessa, del cosiddetto Partito del Sud di Lamezia Terme. Commenta l'autrice di Lombroso e il brigante: «Senoncifosse stato di mezzo Lombroso, il cranio del povero Villella sarebbe stato sepolto in una fossa comune. E nessuno ne avrebbe mai parlato. Invece, intorno alla sua figura, è stata costruita una leggenda identitaria e storica del Mezzogiorno, che purtroppo si è diffusa molto». Basti dire che la segreteria telefonica del centralino del comune di Motta Santa Lucia recita che «è la città del pane, dei portali e del brigante Villella». Nella prefazione al saggio, Maria Teresa Milicia ricorda: «Ho scritto questo libro anche perché sono convinta che il Museo Lombroso non è un museo razzista», e che «i modi, il linguaggio della protesta e il palese tentativo di mistificare la verità storica istigano all'odio gli italiani e danneggiano i calabresi ». Non tutti, in Calabria, la pensano come gli animatori dei gruppi borboneggianti. Il 9 aprile, infatti, il libro verrà discusso all'Università di Cosenza da storici e antropologi come Brunello Mantelli, Silvano Montaldo e Marta Petrusewicz, Vito Teti e Mary Gibson, studiosa del "maledetto" Lombroso. E il 16 sarà il Museo Lombroso di Torino a presentarlo.

Una nuova puntata di “quando si difende l’indifendibile”: Lombroso, il razzista antimeridionale. Da neoborbonici.it.

UN LIBRO DA NON COMPRARE E UNA QUERELA PER "LA REPUBBLICA" (TESTO ALLEGATO). INTERVENTO PUBBLICATO.  Da qualche giorno è uscito un nuovo libro per dimostrare che Lombroso non era antimeridionale, che Giuseppe Villella non era un “patriota” e che non ha senso richiedere la restituzione dei suoi resti. Ovviamente vi consigliamo di non comprare questo libro (“Lombroso e il brigante. Storia di un cranio conteso”) e ci aspettiamo a breve una nuova pubblicazione della stessa casa editrice che possa cercare di dimostrare che anche i nazisti, in fondo in fondo, non ce l’avevano così tanto con gli ebrei… Intanto, però, assistiamo al consueto rituale con uno schema abusato e ripetitivo quando ci sono di mezzo  

A. Barbero e la cultura “ufficiale”: si pubblica un libro contro revisionisti&neoborbonici accusandoli pure di “fini immondi” o (in questo caso, come da dichiarazioni dell’autrice in questione), “di mistificare la storia e danneggiare i calabresi”, ci si  lamenta di “attacchi e insulti” o addirittura di ipotetiche e anonime “minacce” sul web (Repubblica 28/3/14) cercando polemiche che dovrebbero servire (ricordate la famosa “mamma, Ciccio mi tocca”?) a pubblicizzare e vendere gli stessi libri dai titoli sempre “ambivalenti” che, analizzati nei dettagli, rivelano l’inconsistenza delle loro tesi. In questo caso già nella scheda introduttiva della casa editrice le parole sono più che chiare: si tratta della calabrese  M. T. Milicia, una antropologa definita “nativa” con terminologia discutibile, utilizzata in maniera quasi (per restare in tema) freudiana in genere riferita ai popoli colonizzati o conquistati… Nelle (consuete) paginate di quotidiani con commenti carichi di entusiasmo il (consueto) repertorio: tutti noi (neoborbonici in testa che avviarono con il sindaco di Motta Santa Lucia, Amedo Colacino, la richiesta di restituzione di quei resti) “piegheremmo la storia a fini politici”: eppure non risulta un solo neoborbonico mai candidato neanche in una municipalità da quando nel 1993 è nato il Movimento; eppure del Comitato No Lombroso che quella battaglia l’ha portata avanti con grande determinazione fanno parte centinaia di studiosi e interi consigli comunali forti anche di una sentenza addirittura di un Tribunale italiano (e non delle Due Sicilie)… Involontariamente comiche (se non si trattasse di fatti tragici) le dichiarazioni della ricercatrice “nativa” (Repubblica 25/3/14) secondo le quali nessuno ricorderebbe Villella se Lombroso non l’avesse studiato: un po’ come attribuire meriti magari ai nazisti per aver costruito i campi di concentramento “altrimenti nessuno conoscerebbe lo sterminio degli ebrei”… E così Lombroso “non si era accanito contro i meridionali”, “non avallava teorie antimeridionali e neanche il museo”… Eppure lo scienziato veneto-piemontese passò diversi mesi in Calabria per studiare le razze locali al seguito dell’esercito schierato contro il “brigantaggio”. Eppure fu lui ad elaborare la ridicola teoria del dualismo razziale con “l’Italia dolicocefala mediterranea e quella brachicefala del settentrione” (la prima portata naturalmente a delinquere). Eppure fu proprio lui a scrivere “È  agli  elementi  africani  ed  orientali  (meno  i  Greci),  che  l'Italia  deve, fondamentalmente,  la  maggior  frequenza  di  omicidii  in  Calabria,  Sicilia  e  Sardegna, mentre  la  minima  è  dove  predominarono  stirpi  nordiche  (Lombardia)”. Eppure per Lombroso il calabrese presentava il carattere della tribù e costituiva un attentato continuo alla sicurezza degli altri. Eppure sempre lui, perito di parte del soldato (calabrese) Salvatore Misdea che aveva ucciso diversi commilitoni nel 1884, ancora sosteneva l’importanza della “barbarie del paese d’origine e della famiglia”. Eppure è storicamente innegabile che fu Lombroso il primo ad associare le idee di meridionali/briganti/criminali e che mai prima di allora qualcuno aveva diffuso quel tipo di associazione (tuttora attuale e diffusa). Eppure fu un suo seguace, il siciliano Niceforo, a teorizzare l’esistenza della razza maledetta… In questo senso, allora, la studiosa “nativa” autrice di quest’ultimo libro, tra gli estimatori (anche meridionali) del Lombroso, è in buona compagnia e non ci sorprende più di tanto la scelta di pubblicare questo libro con quel curatore e con quelle dichiarazioni rese a mezzo stampa… Eppure quelle “suggestioni lombrosiane” arrivano direttamente fino alle teorie antisemite del nazismo… Eppure la testa di quel povero calabrese se oggi “è diventato il totem del razzismo antimeridionale”, per un secolo e mezzo e fino ad oggi (con tanto di sala ad esso dedicata nel museo torinese) diventò il simbolo, il totem dell’inferiorità dei meridionali in un contesto politico che subito dopo l’unificazione e durante la guerra del “brigantaggio” (e per certi aspetti fino ad oggi) trovava nell’inferiorità dei meridionali le motivazioni per le feroci repressioni e per la mancata risoluzione delle questioni aperte dopo il 1860 e tuttora irrisolte (v. i tanti e recenti libri che vorrebbero dimostrare che “è tutta colpa del Sud”). Del resto furono i Colajanni, i Salvemini o i Gramsci stessi a denunciare quest’uso che di quelle teorie veniva fatto (v. nota). “Brigante” o meno che fosse, i resti del povero Villella, allora, e ancora di più se si trattava di un semplice ladro (ma resta il mistero sulle motivazioni per le quali, se fosse stato un semplice ladro, fu deportato a 1151 km dal suo paese…), simbolo troppo carico di significati, ormai, dovrebbero essere restituiti al Comune che li richiede per assicurargli semplicemente una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia.

Il fenomeno del revisionismo del revisionismo, in realtà, per quanto irritante, è ben poca cosa in termini sia di contenuti che di diffusione (o vendita di copie) ed è circoscritto al solito giro di intellettuali: in questo caso si tratta del terzo libro pubblicato da A. Barbero (il “negazionista di Fenestrelle”, docente di storia medioevale ma di recente molto attivo sulla storia risorgimentale) in una sua collana per la Salerno Edizioni: un primo libro di due ricercatori locali che avrebbero dovuto chiarire (senza riuscirci) la questione-Fenestrelle, quello di R. De Lorenzo che avrebbe dovuto smantellare (senza riuscirci) i “miti neoborbonici della Borbonia felix” e ora questo dell’antropologa “nativa” per salvare (senza riuscirci) il soldato Lombroso…

Un caso? Tutt'altro e, consapevoli o meno e, soprattutto, meridionali o meno, i "collaboratori" dell'operazione diventano artefici di un attacco significativo a tutto il nuovo e sempre più vasto fronte neo-meridionalista che, in un processo inarrestabile e nonostante i mezzi e le inquietudini evidenti dei suoi “avversari”, sta ricostruendo la memoria storica e restituendo al Sud una dignità per troppo tempo calpestata.

Gennaro De Crescenzo 

NOTA Dicono di Lombroso… 

Napoleone Colajanni (1898) si indignò contro "le stolte teorie dei superuomini e delle super-razze, che segnalano la razza maledetta non alla progressiva trasformazione, ma alla distruzione…  nessuno ha fatto tanto uso e abuso di questa forza misteriosa e l'ha fatta intervenire nella spiegazione dei fenomeni sociali con tanta leggerezza quanto la famosa scuola di Antropologia criminale… La teoria della ‘razza maledetta’ fu un romanzo antropologico che pure influenzò l'opinione pubblica del Nord”. 

“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale” (Antonio Gramsci, 1926). 

“Nel Lombroso si riscontra la sostanziale equiparazione tra brigantaggio meridionale ed una primordiale ferocia animale” (D. Palano, Il potere della moltitudine) 

“Sergi, Rossi e Niceforo, riprendendo e sviluppando le argomentazioni di Cesare Lombroso e della scuola di antropologia criminale fondata da quest'ultimo, ripropongono l'alternativa dei meridionali criminali, barboni, oziosi di questa razza inferiore” (V. Teti, La razza maledetta); 

Per Ettore Ciccotti quel pregiudizio antimeridionale era una sorta di “antisemitismo italiano” (1898). 

Bibliografia minima (a cura di Alessandro Romano) 

Pierluigi Baima Bollone, 1992, Cesare Lombroso, ovvero il principio dell’irresponsabilità, S.E.I., Torino

Rivista di discipline carcerarie, anno XV, 1885

Congresso ed esposizione d’Antropologia criminale, dalla Rivista di discipline carcerarie, anno XV, 1885

Catalogo Lombroso strumenti di tortura, 1874, a cura di G.B. Piani

Rivista di discipline carcerarie del 1897, sezione Varietà, p. 559

Circolare n. 272 del 25 gennaio 1932, diretta ai Direttori degli Stabilimenti di Prevenzione e di Pena del Regno

Roberto Vozzi, Tipografia delle Mantellate, 1943

Roberto Vozzi, Autorità di polizia, autorità giudiziarie, militari, coloniali, musei storici nazionali o regionali, archivi d Stato, 1943

Catalogo di G. Colombo (2000), La scienza infelice, con prefazione di Ferruccio Giacanelli, Bollati Boringhieri

Lombroso, 1894, Bulferetti, 1975

Bulferetti L. 1975. Cesare Lombroso. Unione Tipografico-Editrice Torinese. UTET, Torino.

Ciani I., Campioni G. (1986) La scienza infelice di Cesare Lombroso. In: I pregiudizi e la conoscenza critica alla psichiatria (Giorgio Antonucci Ed.) Coordinamento Editoriale di Alessio

Colajanni N., Per la razza maledetta, Roma, 1898

Colajanni C., Settentrionali e Meridionali, Roma, 1908

Coppola Cooperativa Apache srl - Roma  

Colombo, Giorgio - La scienza infelice : il Museo di antropologia criminale di Cesare Lombroso / Giorgio Colombo ; introduzione di Ferruccio Giacanelli - Torino – 2000

Gramsci A., La questione meridionale, Roma, 1926

Lombroso C. L'uomo delinquente. Torino: Bocca; 1878.

Lombroso C. L'uomo di genio. Torino: Bocca; 1894.

Lombroso C. 1873. Studi clinici ed antropometrici sulla microcefalia ed il cretinismo con applicazione alla medicina legale e all'antropologia. Tipi Fava e Gragnani. Bologna.

Lombroso C. 1872. Sulla statura degli italiani in rapporto all'antropologia ed all'igiene.

Lombroso C. 1880. La pellagra in Italia in rapporto alla pretesa insufficienza alimentare. Torino.

Lombroso C., Ferrero G. 1893. La donna delinquente. La prostituta e la donna normale. Torino. L. Roux.

Mazzarello P. 1998. Il genio e l'alienista: la visita di Lombroso a Tolstoj. Ed. Bibliopolis. Napoli.

Miraglia B.G., 1847, Cenno di una nuova classificazione e di una nuova statistica delle alienazioni mentali, Aversa.

Palano D., Il potere della moltitudine, milano, 2002

Rondini A. 2001. Cose da pazzi. Cesare Lombroso e la letteratura. Ist. Edit. E Poligr. Internazionali. Pisa.

Vito Teti, “La razza maledetta. Alle origini del pregiudizio antimeridionale”,  Manifestolibri, Roma, 1993 

Alla c. a. del direttore di La Repubblica 

Ai sensi della normativa vigente si richiede di pubblicare la seguente nota in merito a quanto pubblicato su La Repubblica del 28/3/14 p. 31 in un articolo a firma di Massimo Novelli riservandoci la possibilità di agire anche in sede legale per tutelare l’immagine del Movimento Neoborbonico essendo stati fatti nell’articolo indicato espliciti riferimenti ai “movimenti neoborbonici” riconducibili all’unico “movimento neoborbonico” rappresentato dagli scriventi, esistente fin dal 1993, con uso del nome dimostrato da ampia rassegna stampa (oltre 6000 pagine) e con marchio regolarmente registrato (UIBM n. 1486299).

Novelli riferisce ai “movimenti neoborbonici” “minacce” e “proteste” che sarebbero state prospettate in occasione della presentazione di un libro di un’antropologa che “smonterebbe un mito caro ai neoborbonici”: quello del brigante calabrese Villella il cui cranio servì a Cesare Lombroso per dimostrare la sua folle teoria del “delinquente nato” e che da alcuni anni i neoborbonici, il sindaco di Motta di Santa Lucia e il Comitato No Lombroso (che conta l’adesione di migliaia di persone e di un centinaio di amministrazioni comunali italiane, Torino compresa, forte anche di una sentenza di un Tribunale italiano) hanno richiesto per seppellirlo cristianamente nel suo Comune di origine. Nello stesso articolo si afferma che i neoborbonici sarebbero artefici di “un sostanziale stravolgimento e una manipolazione della storia d'Italia e del Risorgimento” e  artefici di un “palese tentativo di mistificare la verità storica, istigando all'odio gli italiani e danneggiando i calabresi”. Le affermazioni risultano false e calunniose nei confronti di un movimento culturale che conta diverse migliaia di adesioni ed ha realizzato, fin dal 1993, ricerche e pubblicazioni che hanno cambiato e condizionato la storiografia anche ufficiale in particolare sulla storia del Regno delle Due Sicilie, dell’unificazione italiana e delle conseguenze che ebbe per il meridione d’Italia. False, calunniose e non riferibili in alcun modo a iscritti o responsabili del Movimento Neoborbonico le affermazioni nelle quali si dichiara che i neoborbonici “impazzano sul web, attaccando e insultando chiunque non la pensi come loro”. Alla luce di quanto pubblicato dal sindaco di Motta Santa Lucia, avv. Amedeo Colacino sul suo profilo facebook in data 28/3/14 risulta falsa anche l’affermazione nella quale si sostiene che la presentazione sarebbe stata annullata “per motivi di ordine pubblico” (evidentemente riferibili alle minacce di cui sopra). Entrando sinteticamente  nel merito della questione storico-culturale, il libro di M. T. Milicia tenta (inutilmente) di dimostrare che le tesi di Lombroso non erano antimeridionali mentre esistono un’ampia documentazione e un’ampia bibliografia (tra gli altri Gramsci, Colajanni, Ciccotti, Salvemini) che dimostrano l’esatto contrario evidenziandone anche l’uso che la politica fece di quelle teorie.  Fu Lombroso ad elaborare la teoria del dualismo razziale con “l’Italia dolicocefala mediterranea e quella brachicefala del settentrione”; a scrivere che era “agli  elementi  africani  ed  orientali  che  l'Italia  deve, fondamentalmente,  la  maggior  frequenza  di  omicidii  in  Calabria,  Sicilia  e  Sardegna, mentre  la  minima  è  dove  predominarono  stirpi  nordiche  (Lombardia)”; è storicamente innegabile che fu Lombroso il primo ad associare le idee di meridionali/briganti/criminali e che mai prima di allora qualcuno aveva diffuso quel tipo di associazione (tuttora attuale e diffusa); fu un suo seguace, il siciliano Niceforo, a teorizzare l’esistenza della “razza maledetta” e in tanti riconducono a lui le stesse teorie del razzismo nazista. Eppure la testa di quel povero calabrese se oggi “è diventato il totem del razzismo antimeridionale”, per un secolo e mezzo e fino ad oggi (con tanto di sala ad esso dedicata nel museo torinese) diventò il simbolo, il totem dell’inferiorità dei meridionali in un contesto politico che subito dopo l’unificazione e durante la guerra del “brigantaggio” (e per certi aspetti fino ad oggi) trovava nell’inferiorità dei meridionali le motivazioni per le feroci repressioni e per la mancata risoluzione delle questioni aperte dopo il 1860 e tuttora irrisolte. “Brigante” o meno che fosse, i resti del povero Villella, allora, e ancora di più se si trattava di un semplice ladro (ma resta il mistero sulle motivazioni per le quali, se fosse stato un semplice ladro, fu deportato a 1151 km dal suo paese…), simbolo troppo carico di significati, ormai, dovrebbero essere restituiti al Comune che li richiede per assicurargli semplicemente una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia. 

Napoli, 28/3/14 Prof.

Gennaro De Crescenzo Presidente Movimento Neoborbonico

Avv. Antonio Boccia Ufficio Legale Movimento Neoborbonico 

INTERVENTO PUBBLICATO SU REPUBBLICA DEL 3/4/14 

Nel suo articolo del 28/3/14 M. Novelli pubblica alcune notizie non vere e calunniose nei confronti dei “movimenti neoborbonici” in riferimento alle presunte “manipolazioni della storia” da essi operate ed alle presunte minacce che avrebbero impedito ad una antropologa di presentare un suo libro in cui si dimostrerebbe che lo scienziato razzista Cesare Lombroso non sarebbe stato anti-meridionale. Il Movimento Neoborbonico da me rappresentato fin dal 1993 ha realizzato ricerche in gran parte archivistiche e pubblicazioni sempre più diffuse e che in questi anni hanno cambiato e condizionato anche la storiografia ufficiale e nessuno dei suoi iscritti/militanti ha mai minacciato alcuno. Tanto più se si considera che parliamo di un libro dedicato a teorie totalmente smentite dalla scienza e che tanti danni, però, procurarono (e procurano) associando, come mai era avvenuto in precedenza, l’idea della “razza meridionale/calabrese” a quella della delinquenza e dell’inferiorità così come confermato da intellettuali come Salvemini, Colajanni o Gramsci e da una politica che utilizzò quelle teorie giustificando i massacri indiscriminati dei cosiddetti “briganti” e la mancata risoluzione di questioni meridionali mai conosciute prima del 1860 e tuttora irrisolte. “Brigante” o meno che fosse (misteriosamente deportato a 1500 km da casa sua), i resti del povero Villella, il simbolo delle folli teorie lombrosiane, dovrebbero essere semplicemente restituiti al Comune che li richiede per assicurargli una degna sepoltura e chiudere una pagina orribile della nostra storia.

Prof. Gennaro De Crescenzo Presidente Movimento Neoborbonico, Napoli

Dagli intellettuali del Sud. Un saggio sull’antimeridionalismo: nasce in Nord Europa nel ’700. Mirella Serri il 23 Ottobre 2012 modificato il 19 Novembre 2019 su lastampa.it. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, sono loro queste opinioni sul Mezzogiorno, vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale (Feltrinelli ed., 253 pag, 20 euro). La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente. Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente.

A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio. Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi.

Autore: Antonino De Francesco Titolo: La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale Edizioni: Feltrinelli Pagine: 253 Prezzo: 20 euro

AGIOGRAFIA E RETORICA RISORGIMENTALE, MENTRE NEL MEZZOGIORNO NASCE LA “SECESSIONE” LETTERARIA.  Michele Eugenio Di Carlo su ilgiornaledimonte.it il 17 settembre 2021.  Edmondo De Amicis con il romanzo Cuore[1], pubblicato nel 1886 e anticipato da una battente campagna promozionale dell’editore milanese Treves, mette in luce un presente positivo e in evoluzione, farcito di buoni sentimenti quali la patria, la famiglia, i doveri, lo spirito di sacrificio. Un’opera che ottiene un successo straordinario, che non solo comporta la pubblicazione in pochi mesi di circa quaranta edizioni, ma viene divulgata attraverso i nuovi e moderni programmi che riguardano la scuola e la pubblica istruzione[2] e che i governi liberali apprezzano anche sotto l’aspetto pedagogico ed educativo. Quella che abilmente De Amicis diffonde nel sentire comune è una percezione alterata di un Risorgimento edulcorato e romantico, risultato di un ampio movimento popolare e non di una minoranza elitaria intellettualmente altolocata. Mentre nel campo della poesia saranno i componimenti lirici del marchigiano Luigi Mercantini[3] ad essere apprezzati e diffusi negli ambienti liberali e governativi della seconda parte dell’Ottocento. Infatti, con La spigolatrice di Sapri [4] e L’ Inno di Garibaldi [5], Mercantini diventerà uno dei più apprezzati poeti proprio grazie alla sua ispirazione di natura patriottica e nazionalista, pur essendo tuttora ritenuto un poeta di secondo piano nell’ambito della letteratura italiana dell’Ottocento. I suoi versi, peraltro, assumeranno una alta valenza educativa e pedagogica, in quanto saranno presenti in tutte le edizioni delle antologie scolastiche fino ai nostri giorni. Non minor successo ebbe l’opera memorialistica dell’epopea garibaldina scritta da Giuseppe Cesare Abba[6]: Da Quarto al Volturno: noterelle d’uno dei Mille [7], pubblicato in edizione definitiva nel 1891, quando al trasformismo politico in atto serviva propagandare un’impresa dei Mille epica e leggendaria, priva di quegli elementi distintivi che avevano caratterizzato la feroce contrapposizione tra i «padri della Patria», perché – scrive Roberto Bigazzi, docente di Letteratura italiana presso l’Università di Siena, – occorreva costruire il mito fondativo della nazione, annullando le differenze e le asperità tra i protagonisti. In questo senso l’autore ligure ha influenzato sicuramente l’educazione delle nuove generazioni, e «avendo addolcito gli eventi, eliminato i contrasti, ristabilito le distanze sociali e filtrato i sentimenti giovanili, Abba ha raggiunto facilmente la qualifica di best seller tra i memorialisti dell’Unità d’Italia»[8]. Una letteratura minore, quindi, propagandata a servizio della classe dominante liberale e sabauda, mentre come spiega Giovanni Capecchi, docente di Letteratura italiana all’Università per stranieri di Perugia, ci sono quindi circostanze storiche sostanziali motivanti le delusioni di cui ci parla Capecchi, che non solo comportano gli aspetti più significativi della «secessione» letteraria, ma anche l’atteggiamento più contenuto che percorre la letteratura prodotta al Nord, che si manifesta chiaramente «attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (dal 1821 al 1860). Nel Mezzogiorno intanto, che subisce il peso di politiche fiscali, finanziarie e doganali che, colpendo e affondando l’economia, generando drammatiche condizioni sociali, la «secessione»[9] letteraria sarà poderosa ed irreversibile. 

[1] E. DE AMICIS, Cuore, Milano, Treves, 1886. L’autore, attraverso i racconti di Enrico, un bambino di 10 anni che frequenta la 3ª elementare in una scuola di Torino, descrive l’Italia e il mondo della scuola dei primi anni successivi all’Unità d’Italia. Un’Italia divisa da profonde differenze sociali, linguistiche e culturali, dove la scuola rappresenta lo strumento essenziale per raggiungere una reale unione di intenti e di interessi. Il libro è pubblicato nel 1886, proprio quando lo Stato sta per introdurre politiche fiscali che negheranno i buoni intenti illustrati dagli episodi dell’autore ligure, approfondendo quel solco e quel divario che avrà ripercussioni drammatiche per le popolazioni del Sud. Da questo punto di vista, Cuore risulta un’opera retorica e agiografica.

[2] G. CAPECCHI, Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani, «Altritaliani.net», articolo del 14 giugno 2014.

[3] Luigi Mercantini (Ripatransone, 1821 – Palermo, 1872), poeta ed esule marchigiano, direttore del settimanale La donna, divenne definitivamente noto scrivendo i versi de La spigolatrice di Sapri, dedicati alla spedizione fallita di Carlo Pisacane. Con l’annessione delle Marche al Regno d’Italia torna in patria, assumendo la direzione del Corriere delle Marche appena fondato. Nel 1861 pubblica l’Inno di Garibaldi, che l’eroe stesso gli aveva commissionato. Eletto deputato nella prima legislatura del Parlamento italiano preferisce rinunciare per dedicarsi all’insegnamento. Si trasferisce a Palermo nel 1865 per insegnare Letteratura italiana all’Università. Muore nel 1872.

[4] La spigolatrice di Sapri che inizia con i versi, diventati famosi, «Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti», pubblicata nel 1858, resta sicuramente uno dei maggiori esempi di poesia patriottica risorgimentale. I suoi versi sono stati riportati in canzoni quali Ciao amore ciao di Luigi Tenco e Frammenti di Franco Battiato; hanno inoltre ispirato il regista Gian Paolo Callegari nel film Eran trecento del 1952. I versi narrano la storia della spedizione di Carlo Pisacane attraverso una spigolatrice di Sapri che, presente allo sbarco, segue gli avvenimenti della sfortunata avventura.

[5] L’ Inno di Garibaldi fu richiesto dallo stesso eroe in un incontro tenutosi a Genova nel 1858. Contiene i famosi versi: «Si scopron le tombe, si levano i morti, i Martiri nostri son tutti risorti» ed è stato l’inno patriottico passato indenne attraverso la storia italiana dall’Unità alla resistenza partigiana.

[6] Giuseppe Cesare Abba (Cairo Montenotte, 1838 – Brescia, 1910), scrittore e patriota, ha partecipato alla spedizione dei Mille e ha combattuto a Bezzecca meritandosi una medaglia. Attraverso diverse rielaborazioni ha pubblicato in via definitiva, nel 1891, Da Quarto al Volturno: noterelle d’uno dei Mille, secondo il Carducci un piccolo capolavoro, che ebbe una larga diffusione e un notevole successo. Fu sindaco di Cairo Montenotte dal 1867, docente di Italiano al Liceo ginnasio di Faenza, docente e preside presso l’Istituto tecnico “Tartaglia” di Brescia. Fu nominato senatore nel 1910, anno della sua scomparsa.

[7] G. C. ABBA, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, Bologna, Zanichelli, 1891. È considerato il miglior testo di memorialistica garibaldina. Prima di essere definitivamente pubblicato dalla Zanichelli nel 1891 è stato più volte rielaborato e ampliato. In questo testo l’avventura dei Mille appare immersa in un alone leggendario dalle tinte celebrative e idealizzate.

[8] R. BIGAZZI, Risorgimento e letteratura, in Leggere le camicie rosse di B. Peroni (a cura di), Milano, Edizioni Unicopli, 2011, p. 14.

[9] G. CAPECCHI, Unità d’Italia e letteratura: la “secessione” degli scrittori siciliani, «Altritaliani.net», 14 giugno 2014. Michele Eugenio Di Carlo 17 Settembre 2021

L'ALLEANZA TRA INTELLETTUALI, LATIFONDISTI E ARISTOCRAZIA SABAUDA – IL RUOLO DI DE SANCTIS. Michele Eugenio Di Carlo su ilgiornaledimonte.it il 10 settembre 2021. Sin dai primi anni successivi all’unità i grandi proprietari terrieri del Sud e i grandi intellettuali, anche meridionali, si erano messi al servizio dell’aristocrazia civile e militare che costituiva il nucleo portante della decrepita monarchia sabauda. Un’alleanza tra ceto intellettuale, proprietari terrieri e aristocrazia sabauda che realizza quel “blocco agrario” funzionale al capitalismo e al sistema bancario del Nord che estrae dal Sud risorse e capitali messi a disposizione di una nascente industria nordica finanziata con interventi pubblici e favorita da protezioni doganali, mentre i grandi proprietari latifondistici meridionali possono tranquillamente continuare a godere di privilegi feudali, abusando pesantemente della massa povera di contadini e braccianti meridionali, mai supportati nei processi organizzativi di tutela della propria dignità da un adeguato ceto di medi e piccoli intellettuali e, pertanto, portati alla rivolta violenta e non organizzata e votati all’emigrazione di massa negli ultimi decenni dell’Ottocento, a causa di un sistema fiscale e doganale che non permettendo la messa a frutto dei risparmi mette in crisi persino i piccoli e medi ceti agrari borghesi. Per Francesco De Sanctis la costruzione dell’identità nazionale doveva necessariamente passare attraverso l’istituzione scolastica con metodi e strumenti educativi, tanto che la sua "Storia della letteratura italiana" fu scritta e modellata, secondo il giudizio degli esperti, ad uso dei licei, non certamente per diventare un’opera di riferimento degli studiosi. Tanto che anche Marco Grimaldi, ricercatore di Filologia della letteratura italiana alla “Sapienza”, Università di Roma, autore del saggio "Francesco De Sanctis e la scuola del Risorgimento" , avverte in proposito che «solo in questo modo si spiegano le contraddizioni e si sintetizzano le diverse anime del De Sanctis: il ministro della pubblica istruzione che spende le sue energie per la scuola popolare e l’autore della “Storia”. Una “Storia”, si noti, che ebbe poi nelle scuole scarso successo… » . Nella “Storia” è d’obbligo non sottovalutare mai le pulsioni patriottiche e le inclinazioni educativo-politiche dell’autore, rivolte verso la nuova classe dirigente del giovane stato unitario che si stava consolidando con l’ulteriore occupazione militare di Roma del 1870. Un anno in cui viene pubblicato il primo volume della “Storia”. Peraltro, come afferma fondatamente Grimaldi, non è affatto trascurabile la circostanza che con il R. D. del 10 ottobre 1867 n. 1942, e i relativi programmi Coppino, l’insegnamento della storia letteraria diventava disciplina autonoma, impegnando la nascente editoria scolastica a corrispondere alle indicazioni ministeriali. Per un intellettuale del calibro di De Sanctis non era agevole sottrarsi alle ragioni economiche che la questione comportava. Pertanto, ai moventi ideali che esigevano la stesura di una storia letteraria solo a monografie ultimate venne sostituendosi l’esigenza utilitaristica di scrivere un testo per i licei, sacrificando la scienza all’utile. È lo stesso De Sanctis ad illustrare nei "Ricordi" come era insegnata la storia della letteratura prima della sua opera, quando, tra il 1831 e il 1832, il giovane studente frequentava a Napoli le lezioni della scuola del matematico e fisico viestano Lorenzo Fazzini: "La scuola dell’abate Lorenzo Fazzini era quello che oggi direbbesi un liceo. Vi si insegnava filosofia, fisica e matematica. Il corso durava tre anni, e si poteva fare in due. Quell’era l’età dell’oro del libero insegnamento. Un uomo di qualche dottrina cominciava la sua carriera aprendo una scuola. I seminari erano scuole di latino e di filosofia. Le scuole del governo erano affidate a frati. La forma dell’insegnamento era ancora scolastica […] Le scienze vi erano trascurate, e anche la lingua nazionale… ". Mentre l’istruzione inferiore era gestita dal mondo clericale, l’istruzione superiore veniva quasi sempre svolta in scuole private gestite da laici, in quanto le risorse economiche non permettevano scuole pubbliche in tutti i comuni. Del Settecento borbonico, Grimaldi accoglie la tesi che il Regno di Napoli «era stato all’avanguardia nelle politiche scolastiche» e che l’espulsione dei Gesuiti aveva non poco determinato e favorito un sistema scolastico laico. Nel 1833 De Sanctis passa a frequentare la scuola di Basilio Puoti, dove affronta lo studio della letteratura del Trecento e del Cinquecento in quegli spazi angusti riservati alla letteratura italiana, mentre ancora prevaleva il latino. Diventato docente al Collegio Militare della Nunziatella, De Sanctis insegna la storia dei maggiori trecentisti ottenendo un buon successo. Ci sono quindi circostanze storiche sostanziali motivanti le delusioni di cui ci parla Capecchi, che non solo comportano gli aspetti più significativi della «secessione» letteraria, ma anche l’atteggiamento più contenuto che percorre la letteratura prodotta al Nord, che si manifesta chiaramente «attraverso un ritiro silenzioso e triste alla vita privata da parte di intellettuali che avevano lottato per l’unificazione nazionale o attraverso il culto o attraverso il culto degli anni eroici del Risorgimento (dal 1821 al 1860). Michele Eugenio Di Carlo 10 Settembre 2021

Fake Sud, la verità sui pregiudizi verso il Mezzogiorno. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina. Pietro De Sarlo il 19 Ottobre 2020 su basilicata24.it. Nel suo ultimo libro, Fake Sud, Marco Esposito ci prende per mano e ci porta nel backstage di una inchiesta giornalistica. Il saggio assume ritmi e toni da romanzo giallo con tanto di killer e per vittima le speranze del Paese. E proprio come un giallo appena preso in mano non si riesce a posarlo fino a che non si legge l’ultima pagina.

Modus operandi. Il modus operandi del killer è spietato. Si insinua nelle menti delle persone e le annichilisce portandole a dire stupidaggini prive di senso e sganciate dalla realtà. Non parliamo di persone qualunque ma del gotha del pensatoio nostrano. Ad aiutare l’autore nelle indagini ci sono i numeri, che impietosamente smontano uno dopo l’altro ogni pregiudizio e che con la loro disarmante forza e attitudine alla verità inchiodano ogni menzogna e sono in aggiunta disponibili in copiosa quantità: archivio ISTAT e i CPT (Conti Pubblici Territoriali). Archivi che, insieme ad EUROSTAT, ho saccheggiato anche io infinite volte. Le evidenze sono talmente forti che ci si chiede se il nostro killer, il pregiudizio, non abbia trovato terreno già fertile in persone già predisposte alla disonestà intellettuale e privi di anticorpi.

Un lungo elenco di maître a penser. Cominciamo da Luca Ricolfi, della cui disonestà intellettuale insieme a quella della Fondazione Hume avevo già sospettato. Di lui ricorderete il ponderoso saggio Il sacco del Nord. Sacco ad opera del Sud parassita, ovviamente. La cronaca di una telefonata tra l’autore del libro e il prode Ricolfi è esilarante. Basta una domanda, una sola, dell’autore, basata su fatti e numeri incontestabili per smontare prologo, tesi, postulati e tutti gli ammennicoli del saggio dell’illustre sedicente neo illuminista. La tesi del Nord saccheggiato dal Sud frana in un amen e Ricolfi balbetta tra un “non ricordo cosa ho scritto” e un penoso distinguo tra “finali” e “conclusive”. Poco ci manca che Ricolfi dica che il libro sia stato scritto a sua insaputa. Non tocca sorte migliore a Tito Boeri, che ci ha spesso deliziato con fantasiose analisi economiche e previdenziali. Boeri propone le gabbie salariali al Sud. E che fa il nostro autore? Gli sfila una carta dal traballante castello spiegando all’iconico Tito del “sinistro” pensiero come si leggono i dati ISTAT. L’arrampicata sugli specchi del gagliardo Boeri ricorda le scenette di Willy il Coyote, che inseguendo Beep Beep sbatte su una parete rocciosa e senza appigli per scivolare a terra con le stellette che gli roteano intorno alla testa. E che dire di Salvatore Rossi, uomo con un curriculum stratosferico, che per qualche suo singolare tormento interiore non ritiene di prendere in considerazione né dati certificati né l’impatto di infrastrutture essenziali, come le ferrovie, per elaborare le sue “innovative” tesi sul Sud assistito? L’elenco è ancora lungo. Leggete, stupite e chiedetevi come sia possibile per un Paese sollevarsi quando questa è la qualità della classe intellettuale e dirigente.

E i politici? Le cose non vanno meglio. C’è però una differenza tra i politici settentrionali e quelli meridionali. I primi fanno squadra per aumentare le risorse al Nord. Nelle commissioni e in parlamento quando si decide sull’autonomia differenziata si passano la palla. Giorgetti, Lega (Nord), la passa a Buffagni, MoVimento 5S, questi a Zanoni, PD, e via così. Occupano le posizioni in cui si decide dell’autonomia all’ANCE e in parlamento. I politici meridionali non sanno, non capiscono e non si interessano della trama a danno del Sud che si va tessendo con l’autonomia differenziata e sono assenti ovunque si parli del tema. Zaia imperversa, i governatori del Sud balbettano infastiditi. Marco Esposito scrive un libro verità e mai smentito, Zero al Sud, che scopre gli altarini e i misfatti criminali che si consumano dietro all’autonomia differenziata. Non sono un giornalista né un parlamentare e quindi, a parte quelli di cittadino, non ho altri obblighi sociali eppure la mistificazione sulla autonomia differenziata è talmente evidente, brutale e volgare che mi sento in obbligo, utilizzando anche i dati dei CPT, di urlare al mondo la mia indignazione su tante misere falsità in tre interventi ( uno , due e tre ). Intanto le discussioni in stanze segrete, grazie a Marco Esposito, diventano pubbliche. Lo scippo ai danni del Sud è talmente evidente che Giorgetti in commissione chiede di secretare i numeri e si arriva al punto di violare la costituzione e introdurre coefficienti riduttivi della perequazione completamente inventati. Coefficienti correttivi non calcolati ma gettati lì ad mentula canis con l’unica finalità di spostare risorse dal Sud a Nord. I politici del Sud, di tutti i partititi, hanno altro di più importante da fare: non si capisce cosa.

La democraticità del Covid – 19. Questo orribile virus, che sta bruciando le nostre esistenze, ha però un pregio. Colpisce in egual misura gli imbecilli, Trump, Johnson, Zingaretti, le persone per bene e gli umarell. Non fa sconti a nessuno e si diffonde subito prevalentemente e in modo violento al Nord. Questo perché contagia chi incontra e per primi incontra chi ha più scambi con il resto del pianeta, non certo per una fatwa lanciata da noi terroncelli invidiosi verso il Nord. Inoltre sembra volersi accanire in modo particolare con chi lo sottovaluta: #Milanononsiferma, #Bergamoisrunning e Zingaretti, che lo sfida a suon di mojito.

La sanità lombarda collassa e a Bergamo i camion dell’esercito portano via i cadaveri. Il Paese è sconvolto e al Sud ci si chiede: se la migliore sanità che abbiamo in Italia, a Milano, non tiene botta cosa succederebbe se il virus colpisse con uguale forza il Sud? I genitori e i nonni pregano figli e nipoti di rimanere a Milano e non tornare a casa. Il ragionamento è semplice: “Se ti ammali hai più probabilità di essere curato a Milano che non a casa tua al Sud. In più se ci contagi moriamo anche noi e poi chi tira la cinghia per mantenerti agli studi alla Bocconi o alla Cattolica?” Logico, no? Si chiude quindi quel che si può. Questo è il ragionamento che fanno tutte le persone per bene: al Nord come al Sud e lo fanno nell’interesse generale. A proposito, se volete sapere perché la sanità al Sud non funzioni leggete il libro. Un atteggiamento responsabile e normale dovrebbe spingere a chiedersi cosa non abbia funzionato nel modello della sanità lombarda e emendarlo. Invece al Nord gli opinion leader prendono cappello. Il killer, il pregiudizio, ha azzerato le sinapsi dei giornalisti del Corrierone e del ceto intellettuale e politico milanese. Questa palpabile angoscia che si è vissuta al Sud viene tradotta in un florilegio di scempiaggini, puntualmente ricordato da Marco Esposito, su cui fanno a gara a chi spara la minchiata più grossa Galli Della Loggia, Polito, Bassetti, Imariso, Sala e persino il normalmente pacato De Bortoli, sollevando una polemica inesistente e completamente inventata sul Sud che gode delle disgrazie del Nord.

Il razzismo fa parte del panorama. Il killer maledetto, il pregiudizio, è stato nutrito amorevolmente negli ultimi 160 anni. Nel 1870, numeri alla mano e carta canta, la Campania era la regione più ricca d’Italia. Dal 1860 ad oggi le fake nei confronti del Sud hanno prodotto uno strisciante razzismo a cui ci si è abituati. Fa ormai parte del panorama, né più né meno come un edificio crollato le cui macerie nessuno rimuove e che nessuno ricostruisce. La conseguenza è che sulle principali testate televisive, a volte anche sulla TV pubblica, si agitano dei personaggi di infimo livello che si permettono di arrivare a dire: io non credo ai complessi di inferiorità. Credo che in molti casi i meridionali siano inferiori. Si tratta di Feltri intervistato da un gongolante Giordano. Reazioni? Misere. “De stercore Feltrii” nessuno ne parla e indossa non dico una maglietta rossa ma almeno rosa venata di bianco. Nella trappola del killer cadono, con sfumature diverse, anche Mentana, Merlino e Letta, che neanche si rendono conto del perché le loro uscite siano sbagliate e offensive. In sintesi: “Io razzista? È lui che è nero!” Nel mentre, come ci ricorda il libro, l’insulto più diffuso su twitter è terrone, seguito a ruota da zingaro, e a distanza da negro e muso giallo. Ma, inopinatamente, tra i razzismi da battere individuati dalla commissione parlamentare Jo Cox, e presieduta da Laura Boldrin, quello nei confronti dei meridionali non merita neanche due righe.

Conclusioni. Alessandro Barbero, che firma la prefazione del libro, che conclusioni ne trae? Con una disarmante parsimonia intellettuale si limita a promettere un libro che smonti i primati delle Due Sicilie. È questa la principale e meschina preoccupazione del neo sabaudo Barbero? Ma Barbero lo conosciamo già ! E che dire di Augias, stigmatizzato anche da me , che propone di mettere tutto nel dimenticatoio?

Le mie conclusioni invece sono diverse. Dovrei gioire e essere grato per le verità che smontano tanti pregiudizi. Invece sono angosciato. Perché la montagna da scalare dei pregiudizi è talmente grande che è difficile ipotizzare un percorso di salvezza del Paese. Se il ceto dirigente e intellettuale è così ottuso come si può sperare in una sana progettualità di rinascita? Anche perché alle fake news sul Sud se ne aggiungono altre sull’Europa  e altre ancora sempre sul Sud e su tutto quello che è fuori dal pensiero unico del liberismo imperante. E anche perché l’atteggiamento del ceto intellettuale italiano sull’Unione Europea è troppo simile all’atteggiamento del ceto intellettuale duosiciliano che portò alla Unità d’Italia e alla conseguente questione meridionale. Loro uccisero il Sud, questi stanno uccidendo l’Italia intera. Se non si sgombra il campo dal pregiudizio le ricette saranno sempre le stesse: quelle che non hanno mai funzionato ma che si continuano a proporre. Come la fiscalità di vantaggio o le gabbie salariali, come gli incentivi o l’autonomia differenziata.

Eppure il potenziale di sviluppo del Sud è enorme. Forse è arrivato il momento che Marco Esposito e altri si uniscano per una proposta di sviluppo organica e di visione del Sud e quindi del Paese. Questo perché anche se avremo smascherato tutte le fake sul Sud, sull’Europa e sui benefici effetti del liberismo, e anche se avremo ristabilito tutte le verità sul Risorgimento e sui primati delle Due Sicilie non avremo risolto comunque nulla se questo liberarsi dai pregiudizi e dalle fake non avrà generato un piano di visione e al contempo operativo per una diversa prospettiva del futuro del Paese. Piano magari da proporre in un prossimo libro. Pietro De Sarlo

La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale. Libro di Antonino De Francesco. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia.

Foibe, Aldo Grasso incenerisce Barbero sul “Corriere”: “Mi è caduto un mito”. Gabriele Alberti sabato 11 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Mi è caduto un mito”. Il “mito” infranto è il professor  Alessandro Barbero. A leggere le prime parole dell’articolo di Aldo  Grasso, Tommaso Montanari ha avuto uno sturbo. Il critico del Corriere della sera  non perdona allo studioso e volto di Rai Storia la posizione  in materia di foibe e  Giorno del Ricordo con la quale si è adagiato sulle posizioni negazioniste dell’incasato rettore di Siena. “Mi è caduto un mito e la cosa mi dispiace enormemente- scrive l’editorialista- . Mi è caduto un mito, quando, intervistato dal Fatto quotidiano , il prof. Barbero ha avallato le teorie di Tomaso Montanari sulla «falsificazione storica» delle foibe” . Grasso aveva già demolito le tesi negazioniste di Montanari in un articolo feroce. Alla firma del Corriere non è affatto piaciuto che il professor Barbero si sia attestato sulla posizione di Montanari su un capitolo di storia italiana così drammatico. Con toni molto pacati ma irrevocabili concede allo storico (“un divo di Rai Storia”) il dono della simpatia e della capacità del divulgatore. Ma sulla storia non si può scherzare: è il pensiero di Grasso. Subito risponde insultando Montanari, con toni da odiatore seriale. L’invasato rettore – che ha promesso che il suo impegno antifascista aumenterà – ‘scrive e offende. ‘Oggi Aldo #Grasso si scatena contro Alessandro #Barbero , naturalmente sempre per le #Foibe (e per l’odio viscerale e invidioso contro i professori universitari). Penso che il giornale della classe digerente italica non sia mai sceso così in basso come con questo figuro”. Così in un tweet lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena  inveisce in maniera scomposta.  A sinistra è vietato dissentire e chi lo fa è un “figuro invidioso”. Che non a caso aveva definito Montanari un “agit prop”. Alla  triste vicenda Aldo Grasso dedica solo altre due righe: Barbero “ha scritto un pezzo in cui ha preso le distanze dalla scivolata, con onestà; lo seguirò sempre ma l’amaro in bocca è rimasto”. Il professore sul Fatto aveva avallato la definizione di Montanari sul giorno del Ricordo  come «tentativo neofascista di falsificare la storia». Intervistato su La Stampa è scomparso il neofascismo ed è apparso lo “Stato”. Giochetti che non sono piaciuti ad Aldo Grasso e non solo a lui.

Intervista ad Alessandro Barbero. “Le foibe furono un orrore, ma ricordare quei morti e non altri è una scelta solo politica. Il Giorno del Ricordo? E’ una tappa di una falsificazione storica”. Foibe, verità e menzogne dietro la canea delle destre. Daniela Ranieri su Il Fatto Quotidiano l'1 settembre 2021. Tomaso Montanari, storico dell’Arte e Rettore eletto dell’Università per Stranieri di Siena, ha scritto su questo giornale che la legge del 2004 che istituisce la Giornata del ricordo delle foibe “a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo” di una falsificazione storica di parte neofascista. Ne sono seguite accuse di negazionismo (anche da giornali “liberali”) e richieste di dimissioni da parte di esponenti politici di destra (FdI, Lega, Iv). Interpelliamo sul tema Alessandro Barbero, storico e docente.

Professore, è d’accordo con Montanari?

Sono d’accordo, ma bisogna capirsi. Montanari non ha affatto detto che le foibe sono un’invenzione e che non è vero che migliaia di italiani sono stati uccisi lì. Nessuno si sogna di dirlo: la fuga e le stragi degli italiani hanno accompagnato l’avanzata dei partigiani jugoslavi sul confine orientale, e questo è un fatto. La falsificazione della storia da parte neofascista, di cui l’istituzione della Giornata del ricordo costituisce senza dubbio una tappa, consiste nell’alimentare l’idea che nella Seconda guerra mondiale non si combattesse uno scontro fra la civiltà e la barbarie, in cui le Nazioni Unite e tutti quelli che stavano con loro (ad esempio i partigiani titini, per quanto poco ci possano piacere!) stavano dalla parte giusta e i loro avversari, per quanto in buona fede, stavano dalla parte sbagliata; ma che siccome tutti, da una parte e dall’altra, hanno commesso violenze ingiustificate, eccidi e orrori, allora i due schieramenti si equivalevano e oggi è legittimo dichiararsi sentimentalmente legati all’una o all’altra parte senza che questo debba destare scandalo.

Perché l’istituzione della Giornata del ricordo rappresenterebbe una parte di questa falsificazione, se i fatti in sé sono veri?

Ma proprio perché quando di fatti del genere se ne sono verificati, purtroppo, continuamente, da entrambe le parti (ma le atrocità più vaste e più sistematiche, anzi programmatiche, le hanno compiute i nazisti, questo non dimentichiamolo), scegliere una specifica atrocità per dichiarare che quella, e non altre, va ricordata e insegnata ai giovani è una scelta politica, e falsifica la realtà in quanto isola una vicenda dal suo contesto. Intendiamoci, se io dico che la Seconda guerra mondiale è costata la vita a quasi mezzo milione di italiani, fra militari e civili, e che la responsabilità di quelle morti è del regime fascista che ha trascinato il Paese in una guerra criminale, qualcuno potrebbe rispondermi che però le foibe rappresentano l’unico caso in cui un esercito straniero ha invaso quello che allora era il territorio nazionale, determinando un esodo biblico di civili e compiendo stragi indiscriminate; e questo è vero. Ma rimane il fatto che se io decido che quei morti debbono essere ricordati in modo speciale, diversamente, ad esempio, dagli alpini mandati a morire in Russia, dai civili delle città bombardate, dalle vittime degli eccidi nazifascisti – che non hanno un giorno specifico dedicato al loro ricordo: il 25 Aprile è un’altra cosa – il messaggio, inevitabilmente, è che di quella guerra ciò che merita di essere ricordato non è che l’Italia fascista era dalla parte del torto, era alleata col regime che ha creato le camere a gas, e aveva invaso e occupato la Jugoslavia e compiuto atrocità sul suo territorio: tutto questo non vale la pena di ricordarlo, invece le atrocità di cui gli italiani sono stati le vittime, quelle sì, e solo quelle, vanno ricordate. E questa è appunto la falsificazione della storia.

Ritiene ci siano fascisti, nostalgici, persone che mal sopportano il 25 Aprile nelle Istituzioni?

Parliamo di sensazioni. Io ho la sensazione che come gran parte d’Italia era stata più o meno convintamente fascista, così in tante famiglie si sia conservato un ricordo non negativo del fascismo, e un pregiudizio istintivo verso quei ribelli rompiscatole e magari perfino comunisti che erano i partigiani. E le famiglie che la pensavano così hanno insegnato queste cose ai loro figli. Per tanto tempo erano idee che rimanevano, appunto, in famiglia, e non trovavano una legittimazione esplicita dall’alto, nella politica o nel giornalismo: oggi invece la trovano, e quindi emergono alla luce del sole.

Appartiene alla normale dialettica politica l’auspicio dell’on. Meloni, lanciato dalle pagine del Giornale, di “fermare” il professor Montanari? Si vuole costituire un precedente in democrazia di intimidazione del mondo accademico?

Non solo non appartiene alla normale dialettica politica, ma è inconcepibile in una Repubblica antifascista. E tuttavia va pur detto che non sono solo le destre ad aver creato un mondo in cui si reclamano le scuse, le dimissioni e i licenziamenti non per qualcosa che si è fatto, ma per qualcosa che si è detto. Il nostro Paese vieta l’apologia di fascismo, sia pure con tante limitazioni e distinguo da rendere il divieto inoperante, e questo divieto ha buonissime ragioni storiche, ma io forse preferirei vivere in un Paese dove chiunque, anche un fascista, può esprimere qualunque opinione senza rischiare per questo di essere cacciato dal posto di lavoro.

La sinistra, proclamando la fine delle ideologie, ha aperto la strada alla minimizzazione, alla riabilitazione e infine alla riaffermazione dell’ideologia fascista?

Il problema è che non sono finite le ideologie, è finita la sinistra. Il sogno che gli operai potessero diventare la parte più avanzata, più consapevole della società, e prendere il potere nelle loro mani, è fallito; il risultato è che nei Paesi occidentali non c’è più nessun partito che si presenti alle elezioni dicendo “noi rappresentiamo gli operai e vogliamo portarli al potere”. Ma la sinistra era quello, nient’altro. Invece la destra, cioè la rappresentanza politica di chi vuole legge e ordine, rispetto dell’autorità e libertà d’azione per i ricchi, e non si sente offeso dalle disuguaglianze sociali ed economiche, è ben viva. E in un mondo dove la destra è molto più vitale della sinistra è inevitabile che la lettura del passato vada di conseguenza, e che si possano diffondere enormità come quella per cui il comunismo sarebbe stato ben peggio del fascismo.

Alessandro Barbero, da «Superquark» a star del web: il Premio Strega, i meme e altri 6 segreti su di lui.  Arianna Ascione su Il Corriere della Sera l'11 agosto 2021. Una raccolta di aneddoti e curiosità poco note sul professore e storico, tra i protagonisti del programma condotto da Piero Angela (in onda mercoledì 11 agosto su Rai1 alle 21.25)

Gli studi. I suoi video su YouTube ottengono migliaia di visualizzazioni, i suoi podcast finiscono spesso nella classifica dei più ascoltati e ogni volta che appare in tv stuoli di fan adoranti non aspettano altro che i suoi racconti: non parliamo dell’ennesimo rapper ma di Alessandro Barbero, lo storico di «Superquark» - programma in onda questa sera su Rai1 alle 21.25 -, che nel giro di qualche anno è diventato una vera e propria star del web (anche se, come vedremo, non è sui social). Nato a Torino il 30 aprile 1959 ha studiato al Liceo classico Cavour e si è poi laureato in Lettere nel 1981 con una tesi in storia medievale presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito ha conseguito il dottorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha vinto il concorso per un posto di ricercatore in storia medievale all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Dal 1998 è prima professore associato e dal 2002 ordinario di storia medievale al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Ma queste non sono le uniche curiosità (poco note) su di lui...

Quando è approdato a «Superquark». Dicevamo di «Superquark»: ha iniziato a collaborare con il programma condotto da Piero Angela nel 2007. Con il divulgatore scientifico ha pubblicato nel 2012 il libro «Dietro le quinte della Storia».

Non ha i social. Il professor Barbero è completamente assente dai social. Esistono pagine Facebook che portano il suo nome (come «Alessandro Barbero guidaci verso il Socialismo» o «Alessandro Barbero noi ti siamo vassalli») e gruppi («Alessandro Barbero: la Storia», «Le invasioni Barberiche: fan di Alessandro Barbero»), ma tutto è gestito da altre persone.

Ha vinto il Premio Strega. Nel 1996, a 37 anni, ha vinto il Premio Strega con il suo primo romanzo «Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo», pubblicato grazie all’interesse di Aldo Busi. Il volume, ambientato all’epoca delle guerre napoleoniche, è stato tradotto in sette lingue.

Vita privata. Pochissimo si sa della vita privata se non che il professor Barbero è sposato.

La tessera del PCI firmata da Berlinguer. Intervistato da Daria Bignardi a L’Assedio lo storico ha raccontato di essere stato iscritto al Partito Comunista Italiano: «Da qualche parte devo avere la tessera firmata da Enrico Berlinguer. Ne sono felice perché in quel partito c’era la gente migliore che facesse politica in quel momento in Italia. Ora quel partito non c’è più, come non ci sono più partiti come li intendevamo noi da giovani».

Il Festival della Mente di Sarzana. Dal 2007 Barbero partecipa al Festival della Mente di Sarzana con cicli di tre lezioni (da qualche anno sempre sold out, come i migliori concerti rock).

I Longobardi fenomeno virale. La puntata di «Superquark» in cui il professor Barbero ha parlato dei Longobardi è diventata virale grazie ai numerosi video-parodia incentrati sulle parole della lingua italiana che (come spiegato) derivano dalla lingua longobarda come «zuffa», «spranga» e «pizza». 

I neoborbonici querelano Barbero. Ma a processo dovrebbero andarci loro. Giuseppe Ripano il 24/10/2020 su ilcaffetorinese.it. “Il Movimento Neoborbonico ha querelato Alessandro Barbero dopo alcuni recenti articoli sul Mattino e alcune recenti prefazioni (ultima quella del nuovo libro del giornalista Marco Esposito)”. Il post facebook di una nota pagina di revisionismo storico che tra i propri curatori non annovera neanche uno storico di formazione e professione è ben più lungo del breve estratto riportato. Ma il senso è chiaro: il celebre storico Alessandro Barbero viene querelato – di nuovo – dall’autoproclamato movimento neoborbonico. Per capire le ragioni di una ostilità vecchia di un decennio, è utile fare un passo indietro. È il 22 ottobre 2012, i festeggiamenti per il centocinquantenario dell’Unita si sono da poco conclusi, e su La Stampa appare un articolo firmato da un volto ben noto della cultura torinese e nazionale, lo storico Alessandro Barbero. Il pezzo trae le mosse da un documento esposto in una delle tante mostre allestite per la ricorrenza: un processo celebrato nel 1862 dal Tribunale militare di Torino contro alcuni soldati, di origine meridionale, che si trovavano in punizione al forte di Fenestrelle. Lì avevano estorto il pizzo ai loro commilitoni che giocavano d’azzardo, esigendolo «per diritto di camorra». Come riportato dallo stesso Barbero, “In una brevissima chiacchierata televisiva sulla storia della camorra, dopo aver accennato a Masaniello - descritto nei documenti dell’epoca in termini che fanno irresistibilmente pensare a un camorrista - avevo raccontato la vicenda dei soldati di Fenestrelle. La trasmissione andò in onda l’11 agosto; nel giro di pochi giorni ricevetti una valanga di e-mail di protesta, o meglio di insulti: ero «l’ennesimo falso profeta della storia», un «giovane erede di Lombroso», un «professore improvvisato», «prezzolato» e al servizio dei potenti; esprimevo «volgari tesi» e «teorie razziste», avevo detto «inaccettabili bugie», facevo «propaganda» e «grossa disinformazione», non ero serio e non mi ero documentato, citavo semmai «documenti fittizi»; il mio intervento aveva provocato «disgusto» e «delusione»; probabilmente ero massone, e la trasmissione in cui avevo parlato non bisognava più guardarla, anzi bisognava restituire l’abbonamento Rai”. Per quanto all’epoca il vocabolario riportato non fosse d’uso corrente, oltre che essere spaventosamente simile ai ben noti rigurgiti di bile dei soliti frustrati urlatori social, era comune all’interno dei cosiddetti ambienti “neoborbonici”. Ci perdoni, il lettore, la colpa di pedanteria che commettiamo fornendo una definizione scolastica di neoborbonismo. La comprensione dei successivi paragrafi potrebbe altrimenti risultare ostica ai meno navigati della materia. Il termine neoborbonismo, apparso per la prima volta nel 1960, definisce una visione nostalgica enfatizzante il regno borbonico delle Due Sicilie, sopita per decenni dopo l'Unità d'Italia, ridestatasi con la nascita dei movimenti autonomisti in Italia verso gli anni '90 del secolo XX. Prosegue Barbero: “Superato lo shock pensai che l’unica cosa da fare era rispondere individualmente a tutti, ma proprio a tutti, e vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Molti, com’era da aspettarsi, non si sono più fatti vivi; ma qualcuno ha risposto, magari anche scusandosi per i toni iniziali, e tuttavia insistendo nella certezza che quello sterminio fosse davvero accaduto, e costituisse una macchia incancellabile sul Risorgimento e sull’Unità d’Italia. Del resto, i corrispondenti erano convinti, e me lo dicevano in tono sincero e accorato, che il Sud fino all’Unità d’Italia fosse stato un paese felice, molto più progredito del Nord, addirittura in pieno sviluppo industriale, e che l’unificazione - ma per loro la conquista piemontese - fosse stata una violenza senza nome, imposta dall’esterno a un paese ignaro e ostile. È un fatto che mistificazioni di questo genere hanno presa su moltissime persone in buona fede, esasperate dalle denigrazioni sprezzanti di cui il Sud è stato oggetto; e che la leggenda di una Borbonia felix, ricca, prospera e industrializzata, messa a sacco dalla conquista piemontese, serve anche a ridare orgoglio e identità a tanta gente del Sud. Peccato che attraverso queste leggende consolatorie passi un messaggio di odio e di razzismo, come ho toccato con mano sulla mia pelle quando i messaggi che ricevevo mi davano del piemontese come se fosse un insulto. Ma quella corrispondenza prolungata mi ha anche fatto venire dei dubbi. Che il governo e l’esercito italiano, fra 1860 e 1861, avessero deliberatamente sterminato migliaia di italiani in Lager allestiti in Piemonte, nel totale silenzio dell’opinione pubblica, della stampa di opposizione e della Chiesa, mi pareva inconcepibile. Ma come facevo a esserne sicuro fino in fondo? Avevo davvero la certezza che Fenestrelle non fosse stato un campo di sterminio, e Cavour un precursore di Himmler e Pol Pot? Ero in grado di dimostrarlo, quando mi fossi trovato a discutere con quegli interlocutori in buona fede? Perché proprio con loro è indispensabile confrontarsi: con chi crede ai Lager dei Savoia e allo sterminio dei soldati borbonici perché è giustamente orgoglioso d’essere del Sud, e non si è reso conto che chi gli racconta queste favole sinistre lo sta prendendo in giro”. Cosa fa uno storico, a questo punto? Va a visionare i documenti, setacciare le fonti, vagliare le pezze d’appoggio citate nei libri e nei siti che parlano dei morti di Fenestrelle, e una volta constatato che di pezze d’appoggio non ce n’è nemmeno una, cerca di capire cosa sia davvero accaduto ai soldati delle Due Sicilie fatti prigionieri fra la battaglia del Volturno e la resa di Messina. Fa, in buona sostanza, quello che i giornalisti responsabili di questo tentativo di revisionismo storico non hanno fatto: cerca di trarre conclusioni adattando le teorie ai fatti, piuttosto che distorcere (o addirittura inventare) i fatti pur di adattarli alle proprie teorie. Nasce così, grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio di Stato di Torino e in quello dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma, il libro I prigionieri dei Savoia: che contiene più nomi e racconta più storie individuali e collettive di soldati napoletani, di quante siano mai state portate alla luce fino a quel momento. A quel punto si scatena sul sito dell’editore Laterza una valanga di violentissime proteste, per lo più postate da persone che non hanno letto il libro (da parte nostra, dubitiamo siano in possesso dei requisiti minimi per poterlo fare) e invitano a non comprarlo; proteste in cui, in aggiunta ai soliti insulti razzisti contro i piemontesi, il dottor Barbero viene “graziosamente paragonato al dottor Goebbels”. E arriva la querela, indirizzata in questo caso all’autore della recensione per il Corriere della Sera del testo di Barbero e alla stessa testata. La polemica monta, da parte neoborb capeggiata da giornalisti e blogger i cui titoli accademici restano – in larghissima parte dei casi – un mistero: Pino Aprile, Gennaro De Crescenzo, Gigi Di Fiore tra i più noti, sostenuti e amplificati da portali social come I Nuovi Vespri e Terroni. Già, Terroni. Titolo del libro best-seller firmato proprio da Pino Aprile un decennio fa, Antico Testamento del neoborbonismo, dal quale è nata l’omonima pagina Facebook e al quale ha fatto seguito Carnefici (2016). Proprio con quest’ultimo il buon Aprile tenta di ampliare il discorso revisionista nato con Terroni, tentando di elevarne la dignità da giornalistica a storiografica. Ma in base a quali meriti Aprile tenta di inserirsi nel dibattito storiografico? Il curriculum parla da sé: perito industriale, dopo il diploma fa gavetta ne La Gazzetta del Mezzogiorno. Entra poi nel circuito accademico rivestendo incarichi in prestigiose facoltà e firmando pubblicazioni destinate a cambiare i canoni di studio della Storia? No, diventa vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, firmando rotocalchi in cui appaiono soubrette, conduttrici tv e donne di successo, sempre il meno vestite possibili. Ci sono poi giornalisti come Angelo Del Boca, ex partigiano novarese (autore di una torrenziale produzione dedicata principalmente ai presunti crimini di guerra del Regio Esercito, punteggiata da un notevole numero di errori storici e una selezione faziosa delle fonti, ma anche di testi nei quali viene data per certa l’idea – lo ribadiamo: smentita in toto dalla storiografia – di Fenestrelle antesignano di Auschwitz), e il giornalista Gigi Di Fiore, che ne I vinti del Risorgimento per primo ha inaugurato il falso mito di Fenestrelle lager. Proprio Barbero ha smontato, nel testo sopracitato, tutte le teorie complottiste (e quando scriviamo tutte, intendiamo esattamente ciascuna di esse) partorite da Di Fiore e rapidamente divenute mistificazione. Come? Fondando lo scritto sui documenti d’archivio, sull’esame incrociato di una valanga di fonti (non soltanto custodite presso l’Archivio di Stato di Torino) e sulla ponderazione storiografica delle stesse (non tutte le fonti hanno pari dignità: nessuno studierebbe, ad esempio, la storia romana post augustea basandosi sugli scritti di Svetonio, notoriamente poco attendibili). Altra eminenza del movimento neoborb è Gennaro De Crescenzo, anch’egli giornalista. I testi di De Crescenzo tentano, ben più dei trattati di propaganda di Aprile, di fornire documentazione su cui fondare e reggere le teorie del movimento, pur di presentarle come verità storiografiche all’uditorio più analfabeta dell’abc storiografico. Ma che, in realtà, quando non riportano vere e proprie fake news distorcono i fatti pur di adattarli a un fine propagandistico tutto politico (l’articolo apparso sul Corriere del Mezzogiorno in data 6 giugno 2019 reca un titolo in questo senso emblematico: “La carica dei neoborbonici. «Nostre liste alle Regionali. Ci vorrebbe uno come Zaia»”). Persino ottimi trattati circa la condizione del Regno delle Due Sicilie alla vigilia dell’unità (ne citiamo uno: Borbonia felix. Il regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo di Renata De Lorenzo, direttrice dell’Archivio storico per le province napoletane, membro del corpo docente del Dottorato in Storia della Società europea dell’Università Federico II, del Centro interdipartimentale di Studi di Storia comparata delle società rurali in età contemporanea del medesimo ateneo, del comitato scientifico della Rivista italiana di studi napoleonici e del comitato di redazione di Napoli nobilissima, del consiglio di presidenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano e dal 2007 della giunta del Dipartimento di Discipline storiche, socia dell’Accademia pontaniana di Napoli e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli) sono stati oggetti del tentato revisionismo di De Crescenzo (ammesso sia in grado di revisionare alcunché). Come osservato da Marco Vigna, “il grosso delle obiezioni di questo signore è viziato alla base da un errore radicale: De Crescenzo replica a ciò che De Lorenzo non ha scritto”. Il testo di De Crescenzo, edito – ironia della sorte – a Milano, non lo menzioneremo nemmeno: non siamo inclini alla pubblicità gratuita. Ciò che accomuna i due autori, nonché gli adepti di quella che nel tempo si è strutturata come una vera e propria religione antistorica (e passeremo a spiegare il motivo), è una forma di retorica del primato. A sentir loro la felix Borbonia era, prima dell’Unità Nazionale, paradiso perduto in Terra: “terza” potenza mondiale (come da più parti invocato, e non sappiamo in base a quali parametri) e all’avanguardia nei progressi tecnologici, legislativi e culturali (come mai un reame tanto avanguardistico si è fatto sconfiggere da un manipolo di garibaldini, accolti a braccia aperte da una popolazione evidentemente ignara della bontà dei suoi sovrani?). E proprio con il fine di dimostrare la fondatezza di queste tesi vengono invocate vere e proprie bufale storiche. Non le enunceremo: non è questa la sede. Ma la redazione de L’Indygesto ha fornito un compendiato ed efficace contributo al web, del tutto adatto anche a coloro che di storia s’intendono poco o nulla, che invitiamo a consultare. Ma, per coloro che volessero approfondire la materia senza addentrarsi nella più complessa letteratura accademica, il libro di Tanio Romano (messinese: dovrebbe essere superfluo, ma onde evitare accuse di negazionismo poiché del Nord lo specifichiamo) La grande bugia borbonica, edito a Lecce nel 2019, può essere d’aiuto. Come sapientemente ha scritto lo storico Lorenzo Terzi, gli scritti neoborb impiegano, più che il vocabolario della storiografia, toni e figure retoriche caratteristiche del linguaggio propagandistico e pubblicitario: “Tanto Aprile quanto De Crescenzo, infatti, conferiscono alle loro dissertazioni un carattere aggressivo e polemico del tutto immotivato – per giunta, condito da un’ironia alquanto greve – sicuramente incompatibile con un discorso storiografico di natura scientifica. Gli stessi avversari cui di volta in volta indirizzano i loro strali hanno contorni indefiniti: non si capisce se gli autori se la prendano con un generico Nord, con non meglio identificati politici meridionali oppure con altrettanto indistinti accademici. Ciò che importa a entrambi, infatti, non è tanto argomentare, ma suscitare un’intensa eco emotiva in un lettore già predisposto ad ascoltare i contenuti da loro veicolati. Il neoborbonismo quindi – pur richiamandosi ideologicamente, per definizione, all’antico – dimostra tuttavia di saper fare leva con indubbia abilità su dinamiche cognitivo-relazionali in tutto e per tutto contemporanee, caratteristiche dello spazio del web, come quelle che i sociologi della comunicazione hanno definito echo chambers. Nella rete, per come oggi è strutturata, si creano delle sfere ideologiche abbastanza impermeabili, dove rimbalzano idee tra loro simili che si fanno eco reciprocamente: «Il risultato è un progressivo rafforzamento di tali sfere, sempre più estranee al dissenso e sempre più consolidate nelle proprie convinzioni». Non c’è spazio, in questa strana forma di balcanizzazione del pensiero, per le logiche rassicuranti del dibattito pubblico, basate sul confronto, sul dissenso, sul dialogo e, in definitiva, sulla partecipazione. D’altra parte, l’uso di artifici retorici volti a sollecitare l’emozione, e non il ragionamento, di un ipotetico lettore, è presente sin dal titolo della pubblicazione seriale comprendente il saggio di De Crescenzo. «Altre fonti», «altre storie», «altro che “meridionali analfabeti”»: l’iterazione dà più forza all’aggettivo magico «altro». I sottintesi emergono con chiarezza: vi sarebbero, dunque, risorse inedite di conoscenza che, una volta riportate alla luce, permetterebbero di ricostruire una storia, per l’appunto, altra (e, va da sé, vera) veicolo di riscatto e di orgoglio nel presente. Da questa impostazione paralogica emerge un corollario alquanto preoccupante: chi non accetta il discorso neoborbonico e rivendicazionista è, perciò stesso, degno di riprovazione civile e morale. È un ascaro, un venduto e peggio”. Altro tratto che accomuna i due autori citati è l’impiego bizzarro e disinvolto delle fonti indirette, la cui attendibilità storiografica è sempre (non solo nel caso dei neoborb) da verificare. Perché? Perché le fonti indirette altro non sono che citazioni di passi reperibili su altri testi o addirittura nel mare magnum del web. E, nella bibliografia dei saggi di Aprile e De Crescenzo, compaiono quasi esclusivamente fonti indirette, che spesso e volentieri rimandano a loro stessi libri editi precedentemente. Un terzo ma non ultimo trait d’union dei due è il rigetto in chiave propagandistica di quanto sfornato dal mondo accademico. Il motivo va ricercato nel pubblico a cui il movimento neoborb si rivolge: un pubblico di cultura media, non specialistica, in grado di capire le coordinate storico-cronologiche del discorso, ma non di verificarne e, magari, contestarne assunti e conclusioni. Sempre Lorenzo Terzi osserva: “il fatto che l’ambiente definito con grossolana approssimazione accademico non sia disposto a riconoscere la fondatezza della narrazione dei neoborbonici non rappresenta per questi ultimi un problema. Anzi: ciò, semmai, costituisce per i simpatizzanti una riprova del loro essere controcorrente, anticonformisti, fuori dai giri di potere. Tutto questo poi si traduce, presso lo stesso pubblico, in una crescita esponenziale di credibilità: i neoborbonici sono coloro i quali raccontano, attraverso altre fonti, un’altra storia, mistificata, travisata o addirittura celata dalla cultura ufficiale. Qui la strategia neosudista gioca la carta della untold history, tipica di certo revisionismo: «non ci hanno mai detto che», «ci hanno nascosto che», «non sapevamo che»”. Ma torniamo a Barbero. La ragione della querela sta nella prefazione che lo storico torinese ha scritto per Fake Sud, libro di Marco Esposito recentemente edito. Barbero avrebbe la colpa di considerare “scellerate fantasie” le dichiarazioni dei neoborbonici, che avrebbero “reinventato, con informazioni false, la storia del Sud e dell’Italia influenzando la mentalità italiana e accendendo con mezzi immondi passioni violente”. A sentire l’ufficio legale da cui è partita la citazione in giudizio, e al quale De Crescenzo si appoggia, le affermazioni sarebbero calunniose non soltanto verso iscritti e simpatizzanti neoborbonici, ma anche verso i drammi vissuti da migliaia di soldati meridionali nella “fortezza-lager sabauda”. Negli ambienti “barberiani” del web si è paventata la possibilità di una controquerela per lite temeraria da parte del professore. Noi, nell’ambito giuridico, non ci addentriamo: Barbero farà ciò che reputerà più utile. Ma un’ultima considerazione ci permettiamo di fornirla. Altro che Barbero, a processo dovrebbero andarci i neoborbonici: per malafede, circonvenzione d’ignoranti e vilipendio alla Storia. Nonché alle vittime dell'Olocausto, puntualmente asservite alle voluttà di vanagloria di qualche scarto della cultura che conta in cerca di fama. 

Il razzismo, Gramellini, Barbero e altre questioni (meridionali).  Da parlamentoduesicilie.it. Su “La Stampa”, in pochi giorni, una serie di interventi significativi. Gramellini ha definito “borbonico” quel prefetto che rimproverava un sacerdote per un “vizio di forma”. Dopo l’episodio increscioso del giornalista piemontese della Rai che “assecondava” il razzismo contro i napoletani “che puzzano” e in risposta a Saviano che aveva ricordato l’antichità del bidet “borbonico” (sconosciuto in Piemonte), lo stesso Gramellini sottolineava la mancanza di fogne a Napoli con il popolo costretto a vivere “nella melma” a quei tempi. Qualche giorno prima, invece, Alessandro Barbero, autore di un libro in cui si sarebbe ricostruita la verità sul carcere di Fenestrelle e sui soldati napoletani deportati durante l’unificazione, continuava a definire “mistificatori”, “inventori ai limiti dell’impudicizia” e “strumentalizzatori con fini immondi ” coloro che ricordavano quei caduti meridionali o quella che lui definisce la “leggenda della Borbonia felix”.  Come premessa e ricordando anche la storia, bisognerebbe sempre verificare e distinguere chi attacca da chi si difende (i Piemontesi che ieri invasero il Sud e oggi gridano sugli stadi e i meridionali che reagirono e reagiscono per difendersi).  Secondo Barbero non si può “impunemente stravolgere il passato, reinventarlo a proprio piacimento per seminare odio e sfasciare il Paese”. Premesso che grazie a studi sempre più documentati e diffusi quelle relative ai primati borbonici sono tutt’altro che leggende (cfr. i dati archivistici a nostra disposizione o gli ultimi studi del CNR, della Banca d’Italia, dell’Istat o della belga S. Collet in merito ai livelli di industrializzazione, del Pil o delle finanze del Sud pre-unitario, pari o superiori a quelli del resto d’Italia); premesso che i Borbone furono tra i primi in Europa a costruire un sistema fognario o un sistema idrico urbano e agricolo e che Napoli fin dal  Quattrocento era “pavimentata” (altro che “melma”) a differenza delle altre città italiane, qualche domanda potrebbe essere utile. Si è proprio sicuri che commemorare i soldati napoletani deportati e caduti (1, 100 o 1000 che siano e Barbero, dati archivistici alla mano, nel suo libro non risolve affatto la questione) sia più pericoloso di quei cori razzisti e impuniti degli juventini o degli stessi cori che spesso ascoltiamo da decenni ai raduni della Lega (vera fucina di “invenzioni” come la “padania”) o di certe scelte che da 150 anni penalizzano il Sud con questioni sempre più drammatiche e irrisolte? Si è proprio sicuri che 150 anni di retorica risorgimentalista che ha cancellato i saccheggi e i massacri subiti dalle popolazioni meridionali (senza l’intervento “chiarificatore” di alcun prof. Barbero di turno) abbiano reso un buon contributo alla costruzione dell’identità italiana? Sconcertanti, del resto,  i passi del suo libro in cui si riportano (senza alcuna “pietas” e con uno stile presumibilmente somigliante a quello di un funzionario sabaudo) numerosi episodi di razzismo contro i nostri soldati reduci da migliaia di chilometri di viaggio tra offese e insulti terribilmente somiglianti a quelli degli stadi di oggi (“sporchi”, “luridi”, “puzzolenti”)… E se il Sud si fosse finalmente e veramente stancato di quei cori, di offese e di umiliazioni che durano da un secolo e mezzo, partono da quei soldati, passano per le curve, arrivano nelle redazioni di tv e giornali e, troppo spesso, fino alle stanze di parlamenti e ministeri? E se fosse naturale e ovvia una reazione di fronte a chi ci definisce “borbonici” con disprezzo o che scrive che eravamo “nella melma”, “puzziamo” e abbiamo dei “fini immondi”? E se i “terroni”, i “neoborbonici” o i “meridionali” stessero davvero ritrovando il loro orgoglio perduto per troppo tempo?

Prof. Gennaro De Crescenzo - Commissione Cultura - "Parlamento delle Due Sicilie"

Aprile: Hanno paura della memoria. L’autore di “Terroni” contro gli storici. Un gruppo di docenti aveva promosso una petizione per fermare l’iniziativa della Regione che vuole istituire la giornata in ricordo delle vittime meridionali dell’Unità. Pino Aprile 26 luglio 2017 su Il Corriere del Mezzogiorno. Altro che Lea Durante, roba da dilettanti, siamo all’uso «proprietario» e politico della storia, teorizzato da Alessandro Barbero, sull’onda degli storici «sabaudisti»: scegliere cosa narrare e farne miti fondanti, per formare patrioti. Quindi è pedagogia, politica; nessuna meraviglia, che la storia «non scelta», la raccontino altri. Il popolo vota (bene, male, come gli pare: è il difetto della democrazia, pur così malmessa); i rappresentanti eletti votano (bene, male, eccetera); sul Giorno della Memoria delle vittime dimenticate (e diffamate: guai ai vinti!) dell’unificazione d’Italia con saccheggi, stupri e genocidio, gli eletti dicono sì, all’unanimità o quasi, in Basilicata, Puglia, una mezza dozzina di Comuni, e la Campania stanzia 1,5 milioni di euro in manifestazioni, studi, approfondimenti. Al che, altri eletti (nessuno li ha votati, forse si ritengono tali) ordinano al presidente della Puglia di ignorare il voto a loro sgradito; non «finanziare alcun momento pubblico» (clandestino, invece sì?) dell’iniziativa voluta dal parlamento regionale; non consentire che di storia si parli nelle scuole (da «non coinvolgere in alcun modo»), se non come deliberato da lorsignori. Scusate, le orecchiette con le cime di rape: l’alice sì o no? Metti che uno si sbagli e parta una petizione... «Diremo agli studenti che il Mezzogiorno è arretrato per colpa dell’unificazione italiana?», scrivono i firmatari della petizione. No, perché, scusate, voi ancora raccontate che il Regno delle Due Sicilie era arretrato e sono arrivati i civilizzatori a dirozzarli, distruggendo le fabbriche o mandandole in rovina dirottando gli appalti al Nord, rubando l’oro delle banche e sterminando centinaia di migliaia di «arretrati», quindi poco male...? Leggete cosa scrive il ministro Giovanni Manna al re, rapporto sul censimento 1861, sul fatto che mancano 458mila persone, per la «guerra», rispetto al totale atteso; leggete, archivio Istat, con tabelle, i padri della demografia unitaria, Pietro Maestri e Cesare Correnti, sul fatto che, appena arrivati i piemontesi, al Sud, la popolazione, che cresceva più che nel resto d’Italia, smette di farlo e diminuisce di 120mila unità in un anno; o Luigi Bodio, capo della statistica, archivio Istat, sui 110mila giovani, quasi tutti terroni, renitenti alla leva, tutti morti, o «clandestinamente» emigrati (peccato che non si trovino...); o dei 105mila terroni, tutti maschi, scomparsi («emigrati» pure loro?). Leggete dei 600mila incarcerati nel ‘61, dei 400mila ancora nel ‘71, riferisce il di Rudinì, in Parlamento, della mortalità nelle carceri che arrivò al 20 per cento; dei deportati, almeno 100mila, di cui 20mila, denunciò il Maddaloni, nel solo 1861. E dopo aver tacciato quali «fantasiose ricostruzioni», «leggende», «fole» le ricostruzioni degli eccidi sabaudi al Sud, ora che non si riesce più a negarli, ci è offerta come «onestà intellettuale» l’ammissione che «gli storici devono fare di più per portare alla luce e spiegare e stigmatizzare i numerosi episodi di violenza a carico delle popolazioni meridionali». E già, in 156 anni è mancato il tempo... Han dovuto dircelo gli storici stranieri, come Denis Mac Smith, che ci furono più mort’ammazzati (per il loro bene, si capisce) per annettere l’ex Regno borbonico che in 11 anni di guerre di indipendenza contro l’Austria. Ed è ancora uno straniero (temibile neoborbonico?), il professor John Anthony Davis («Napoli e Napoleone»), università del Connecticut, fra i maggiori studiosi della nostra storia di quegli anni, a dirci che la favola dell’arretratezza del Regno delle Due Sicilie fu «inventata» da Bendetto Croce, per giustificare le condizioni sempre peggiori in cui precipitò l’ex Regno divenuto «Sud», dopo le amorevoli cure unitarie. Lo dimostrano gli studi dei prof Paolo Malanima e Vittorio Daniele, del Consiglio nazionale delle ricerche, di Stephanie Collet dell’università di Bruxelles, dell’Ufficio studi della Banca d’Italia (Carlo Ciccarell e Stefano Fenoaltea), di Vito Tanzi (Fondo monetario internazionale). Ma bastavano Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato, unitarista deluso, quando scoprì che «questi sono più porci dei peggiori porci nostri», Gramsci che parla del Sud «colonia». Inutile l’ottimo ciclo di studi ricordati, su queste pagine, dal professor Saverio Russo (che ne fu un protagonista), sull’inconsistenza della vulgata «miseri e arretrati», o del professor Luigi De Matteo («Noi della meridionale Italia»), dell’Orientale di Napoli; eccetera. Il Regno delle Due Sicilie non era più povero del Nord (più o meno stesso reddito) né arretrato (il doppio degli studenti universitari del resto d’Italia messo insieme; le fabbriche più grandi della Penisola; addetti all’industria più numerosi di oggi). Ma fosse stato economicamente indietro del 15-20 per cento, come arditamente sostenuto di recente (con riaggiustamenti successivi, però...) da un poi fortunato titolare di cattedra in «Tutta colpa del Sud»: quale affare avremmo fatto, se in 156 anni siamo precipitati al 56 per cento del reddito medio del Nord, 3-4 volte peggio? Ci vuole coraggio a spacciare questo per unità (ma non prendono treni lorsignori, non hanno figli in partenza per altrove, mentre Milano forse si fotte l’ennesima mammella, un’Authority europea, dopo l’Expo-mafia, Human Technopole eccetera sempre con soldi pubblici?); a pensare di liquidare tutto come «propaggini estreme di un meridionalismo “piagnone” e rivendicazionista» (e ci trovate pure qualcosa da ridere?) o nominando tutti «neoborbonici» sul campo, «sanfedisti», faccia buia della luminosa medaglia di quei giacobini che presero a cannonate i loro concittadini, per consegnare il Paese a un esercito straniero, che lo spogliò di tutto, massacrando (il solo generale Thiebault) 60mila persone. Discutiamo delle idee, ma pure del prezzo di vite altrui che si è disposti a pagare per imporle a chi non si riesce a convincere. Ma che paura fa il Giorno della Memoria? Saranno convegni, dibattiti, manifestazioni... E cosa impedisce a chiunque, in civile confronto (sempre che non sia proprio questo che inquieta), di esporre dati e opinioni cui si attribuisce maggior fondatezza? Dovreste esser lieti di una possibilità così succulenta di sbugiardare il branco di...? di...? «Neoborbonici»! Evvai (ma che palle!). Invece di virare sulla paura che si alimenti «l’inconsapevole sentimento antiunitario contro il leghismo del Nord». Mentre non fa paura il consapevole (dimostrato e gridato) sentimento antiunitario della Lega Nord contro il Sud. Se no una petizione l’avreste fatta. Mi sbaglio? Lea Durante ha mai promosso petizioni per adeguare la rete ferroviaria (tutto a Nord, nulla a Sud) con o senza alta velocità (o è revanscismo neoborbonico?). O contro l’esclusione, da parte del ministero dell’Istruzione, di poeti e scrittori meridionali, pur se premi Nobel, dai programmi di Letteratura del Novecento per i nostri licei? No? Eppure son 7 anni che si fanno raccolte firme, proteste di istituti scolastici, interrogazioni parlamentari. O contro la normativa che «premia il merito» degli atenei che sorgono nelle regioni più ricche e condanna a morte prossima quelli meridionali?

O contro i criteri in base ai quali la salute di un terrone vale meno di quella di un settentrionale? (A meno che i firmatari, non abbiano taciuto per non parer «piagnoni» e «revanscisti»). La cultura faccia ponti non fossati, professoressa. Il Giorno della Memoria serve a discutere. Chi ne ha paura, teme di non aver da dire o quel che può esser da altri detto. Ma quanne ‘na cose niscune te la vo’ di’, allore la terre se crepe, se apre, e parla.

Il revisionismo e il falso mito di Pino Aprile.  Saverio Paletta il 22 maggio 2019 su indygesto.com. Il business del giornalista pugliese, dalla navigazione a vela alla controstoria. Vi ricordate Oggi e Gente? I due settimanali ora fanno a gara a sparare in prima pagina le immagini di soubrette, conduttrici tv e donne di successo, il meno vestite possibili. Tra gli anni ’70 e ’80 gareggiavano in cose più serie, almeno dal punto di vista storiografico: ritratti e titoli sui membri della famiglia Savoia, allora in esilio, sui superstiti della famiglia Mussolini e sullo scià di Persia. In quei giornali fece la sua brava carriera il giornalista pugliese Pino Aprile, che fu direttore del primo e vicedirettore del secondo. Aprile, di cui – come per tanti giornalisti, che non ne hanno – sono sconosciuti i titoli accademici, proveniva dalla classica gavetta nei giornali locali, come La Gazzetta del Mezzogiorno. Parliamo, ovviamente, dello stesso Pino Aprile che, dal 2010 in avanti, dopo una fortunata parentesi come esperto di navigazione sportiva a vela, si è riscoperto ultrameridionalista (almeno in pubblico, visto che altre tracce precedenti di questa sua passione non ce ne sono), ha buttato alle ortiche la precedente attività di divulgatore storico e si dedica al revisionismo antirisorgimentale. I Savoia restano in cima alle sue preoccupazioni, ma non come personaggi da prima pagina bensì come bestie nere. L’Unità d’Italia, a sentire l’Aprile di oggi, è stata la iattura del Sud. Il Risorgimento fu una guerra di conquista, con tanto di genocidio annesso, almeno tentato e, a sentir lui, in parte riuscito. Con questa ricettina, il Nostro ha scritto uno dei più grandi best seller del decennio: quel Terroni (Piemme, 2010) che, forte di oltre 250mila copie vendute, ha suscitato un dibattito fortissimo, che dal mondo della cultura (e nonostante esso) è tracimato nella politica. Se sette anni fa non ci fosse stato Terroni oggi il Movimento 5Stelle non avrebbe lanciato l’idea di una giornata della memoria dedicata alle vittime meridionali dell’Unità d’Italia. Senza il successo di Terroni, che ha trasformato il suo autore in una specie di Messia dei movimenti sudisti, le tesi dei neoborbonici giacerebbero in una nicchia più piccola di quella che occupano adesso. E non ci sarebbe, soprattutto, il battage editoriale che, a sette anni dal centocinquantenario dell’Unità, continua a martellare l’opinione pubblica, a dispetto della crisi dell’editoria. Inutile dire che tanta fortuna si basa sul nulla o quasi: le tesi storiografiche di Aprile suggestionano al primo impatto ma si smorzano non appena si inizi una seconda lettura. Non solo per una questione di stile, che non è proprio gradevole (irrita ad esempio la scrittura in prima persona e l’abbondanza di dialettismi, roba che ad altri verrebbe censurata in qualsiasi giornale di provincia), ma soprattutto di contenuti e di onestà intellettuale. Evitiamo di scendere nei dettagli del corposo revisionismo apriliano e soffermiamoci, piuttosto, su un’espressione che ricorre come un mantra in tutti i libri dell’autoproclamato storico di Gioia del Colle: «Certe cose non le sapevamo perché nessuno ce le ha mai raccontate». Non sapevamo, ad esempio, che l’Unità d’Italia fu la guerra di conquista vinta da uno Stato, il Regno di Sardegna, nei confronti di tutti gli altri della Penisola. Non sapevamo che all’Unità seguì un periodo di disordini profondissimi con episodi tragici, stermini e abusi da guerra civile. Non sapevamo che, in effetti, il Sud iniziò ad arretrare con l’Unità (o meglio, restò al palo mentre le altre zone, altrettanto non sviluppate, crebbero). Ma non è vero che non sapessimo tutto questo perché «nessuno ce l’ha mai raccontato». Non lo sapevamo perché semplicemente non abbiamo studiato oppure non ci siamo documentati a dovere. Dopodiché, persino il cinema si è occupato di certe cose. Si pensi all’eccidio di Bronte, rievocato da Aprile col tono di chi rivela novità assolute: a quest’episodio, tragico ma non sconosciuto, il regista Florestano Vancini dedicò nel 1971 Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, una coproduzione italo-jugoslava trasmessa varie volte dalla Rai e perciò vista da milioni di telespettatori. Nel 1999, invece, Pasquale Squitieri (la cui recente scomparsa è passata inosservata ai neoborbonici e agli aficionados di Aprile) girò Li chiamarono briganti, dedicato, appunto, alle gesta del brigante lucano Carmine Crocco. Anche la musica ha fatto la sua parte: nel 1974, ben prima che il milanese Povia si convertisse alle tesi neoborboniche per rilanciare la sua carriera con la stucchevole Al Sud, gli Stormy Six, band di punta dell’underground milanese, dedicarono una canzone al massacro di Pontelandolfo. Se ci concentriamo invece sui libri, che poi sono le uniche fonti utilizzate da Aprile, che tuttavia ben si guarda dal fornire una bibliografia, ci accorgiamo che tutto era stato già scritto, anche con un certo rigore e che nessuno, a partire dal compianto Carlo Alianello e da Franco Molfese, autore di una pregevolissima Storia del brigantaggio dopo l’Unità, è mai stato censurato. Tutt’altro. Tutto ciò che è riportato nei libri del pugliese a partire da Terroni era già stato pubblicato prima. È stato solo grazie al clima d’odio creato dalla crisi economica e politica del Paese e dalla rinascita dei pregiudizi localistici, in particolare quello antimeridionale sfruttato alla grande dalla Lega Nord dell’era Bossi, che certe tesi sono state distorte e trasformate nella clava politica che in tanti, adesso soprattutto i grillini, cercano di brandire per cattivarsi un po’ di consensi. Ma secondo Aprile, che ha rincarato la dose nel suo ultimo Carnefici (Piemme, 2016), non sapevamo altro, e cioè che il Risorgimento è stato quasi un genocidio concertato ad arte. Peccato che il nostro non sia riuscito a provare le cifre da Prima Guerra Mondiale snocciolate per avallare la tesi che il Sud è quel che è perché i settentrionali, a furia di massacri e rapine, l’hanno depauperato. Peccato, inoltre che certe narrazioni siano state smontate nel frattempo. Ad esempio, quella secondo cui Fenestrelle, il forte alpino in cui erano alloggiati i Cacciatori Franchi, cioè il corpo punitivo del Regio Esercito (italiano e non piemontese), fosse nientemeno una sorta di Auschwitz sabauda in cui sarebbero stati macellati a migliaia i soldati del disciolto esercito delle Due Sicilie. Al riguardo, val la pena di menzionare la polemica a distanza tra Aprile e lo storico torinese Alessandro Barbero, autore di I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle (Laterza, Roma-Bari 2012). Per parare il colpo dello storico piemontese, Aprile scende piuttosto in basso: definisce in Carnefici il suo contraddittore «un medievista e romanziere prestato alla storia contemporanea» e si arrampica sugli specchi, non riuscendo a controbattere coi documenti. Su questo punto si potrebbe rispondere non senza ironia che un medievista è uno storico e, in quanto tale, applica un metodo affinato sullo studio di documenti difficili come quelli medievali, redatti in latinorum o, peggio, in volgare. Di Aprile si sa, per sua stessa pubblica ammissione, che è un perito industriale. Nulla di male in ciò. Ma si ammetterà che il passaggio da perito industriale a storico attraverso il giornalismo è più tortuoso e dà meno garanzie sulla qualità della ricerca, o no? Al netto delle polemiche, si potrebbe concludere che il potere di firma permette ad alcuni ciò che i titoli non consentono ad altri. Nel caso di Aprile si va oltre e il potere di firma diventa transitivo e generazionale. Infatti, Marianna Aprile, figlia di Pino e piezz’e core come tutti i figli d’arte, è una firma di Oggi e, di tanto in tanto, fa comparsate in Rai. Questo lo sappiamo. E sappiamo altro. Sappiamo che i guai del Sud di oggi non sono il prodotto dei Savoia di ieri, ma di quella classe dirigente corrotta, incapace, impreparata e collusa che, spesso, ricicla il sudismo alla Aprile per dotarsi di una linea culturale. Sappiamo queste cose perché ce le raccontano tanti giornalisti che sfidano il precariato e le querele in redazioni spesso improbabili e fanno i conti in tasca a chi amministra quel po’ di potere rimasto e i suoi dividendi. E sappiamo che il compito di questi giornalisti è difficile perché la censura, anche fisica, è un rischio quotidiano. Diffamare i morti (se il generale Cialdini risuscitasse, quante querele beccherebbe Aprile?) invece è facile. Sappiamo anche questo, per averlo sperimentato di persona. Ma prima o poi le mode passano. Sono passate quelle estetiche, che hanno condannato alla bulimia e all’anoressia qualche migliaio di ragazze, passeranno quelle culturali, che condannano all’odio migliaia di persone. Forse questo non lo sappiamo di sicuro. Ma ci speriamo.  Saverio Paletta

Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. 

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020 su Il Nuovo Sud.it.  

PURTROPPO NON CONSIGLIERÒ AI MIEI AMICI DI COMPRARE “FAKE SUD” DI MARCO ESPOSITO (E BARBERO). UNA SCELTA DOLOROSA MA NECESSARIA (E MOTIVATA). “Non ci interessano strategie, giochini o compromessi: la nostra storia va rispettata. Punto”. I motivi per cui non consiglierò ai miei amici di comprare FAKE SUD di Marco Esposito si legano alla prefazione di Alessandro di Barbero e anche a tanti contenuti del libro stesso. In premessa dobbiamo ringraziare gli autori di libro e prefazione perché concedono molto spazio ai neoborbonici, evidentemente preoccupati o stimolati dal successo delle loro tesi (se qualcosa non ci preoccupa, non ci interessa o la si ritiene inutile, non se ne parla o almeno non se ne parla con questa frequenza o con certi toni). Ognuno è libero di scegliersi i firmatari della sua prefazione (e anche di pubblicizzarli con le fascette sui libri) ma forse è meno libero di consentire offese e insulti anche personali nelle stesse prefazioni. Si tratta, in realtà, delle solite offese rivolte da Barbero ai neoborbonici (non solo nostri simpatizzanti o collaboratori ma migliaia di persone e tutto il mondo che ruota intorno al seguitissimo “neo-meridionalismo”) fin dalla uscita del suo libro che cercava di negare o ridimensionare i drammi vissuti dai soldati delle Due Sicilie a Fenestrelle (e confermati da diverse domande “archivistiche” che posi a Barbero anni fa e alle quali non ha mai risposto e che saranno confermati in pieno da un libro di un coraggioso accademico e in uscita nel prossimo inverno). Non ho mai offeso personalmente Barbero e nell’unico confronto che ho avuto con lui, di fronte alle sue risatine mentre io parlavo di quei poveri soldati morti di freddo e stenti, oltre a tante osservazioni sul piano storico-archivistico, mi limitai ad osservare che forse le distanze tra noi non erano solo storiografiche. Dalla quantità degli insulti che ci ha rivolto in questi anni (mai ricambiato) e anche in questa prefazione, devo pensare che forse quella mia osservazione dovette colpirlo, anche se ricordo la cortesia dei saluti e addirittura l’idea che qualcuno gli aveva proposto (quella di scrivere un libro insieme). Evidentemente, visto che è stata quella l’unica occasione di incontro, avrà ripensato a quella serata, ne avrà rivisto il video e il ricordo non deve essere positivo (al contrario di quanto posso dire io). Detto questo, da anni abbiamo rinunciato a incarichi, a guadagni facili e a seggi elettorali e stiamo perdendo (altro che “mezzi” o fini “immondi”) tempo e denaro nelle nostre vite sottraendolo a noi e alle nostre famiglie e non possiamo consentire a nessuno insulti gratuiti personali o alle migliaia di persone che da anni ci seguono con rispetto e affetto. Non ci interessano le reazioni “infuriate” (esistono degli ottimi rimedi anche naturali) e non ci interessano neanche le strategie politiche o pubblicitarie e, anche se si tratta di famosi docenti onnipresenti in tv, ci tuteleremo e tuteleremo i nostri tanti iscritti e simpatizzanti in ogni modo e con ogni mezzo (legale, democratico e civile). Detto questo, è opportuna un’analisi per illustrare i (tanti) motivi per cui questo libro non ci convince. In premessa devo ammettere una mia mancanza: non ho mai letto una premessa così carica di astio e rancore in un libro che per giunta parla di “pendoli” e di necessità di moderare i termini dei confronti. E se la scelta di Barbero (dopo le tante e innumerevoli offese rivolte ai suoi “oppositori”) poteva essere un’idea pubblicitaria (al netto delle ovvie critiche nel nostro “mondo”, lo stesso contro il quale si rivolge spesso Barbero e che magari poteva acquistare il libro di Esposito), quando l’autore e l’editore hanno letto il testo forse avrebbero potuto avere qualche dubbio… Ve lo riportiamo. “Prefazione di Alessandro Barbero. Si tratta dell’insieme di scellerate fantasie che il movimento neoborbonico ha messo in circolo dalla fine del secolo scorso reinventando da cima a fondo la storia del Mezzogiorno d’Italia e dell’Unità d’Italia […], qui si tratta di influenzare la mentalità collettiva del nostro paese e si accendere passioni violente sulla base di informazioni false […]. Altrove ho scritto di un fine immondo e mi correggo: sono i mezzi che sono immondi” […]. Marco Esposito è stato troppo rispettoso di persone come Pino Aprile o Gennaro De Crescenzo (anche se io per primo, avendoli incontrati entrambi, riconosco che fra i due c’è una bella differenza di statura umana […]; c’è da provare ripugnanza […]; si tratta di primati tragicomici e di buffonate dei neoborbonici”. E se Esposito scrive a Pino Aprile che le sue (presunte) fake danneggiano la parte buona del resto dei suoi libri, potremmo dire lo stesso di Esposito di fronte a queste parole. Ma andiamo avanti con il resto dei contenuti. Solo una nota a cui tengo: Barbero, forse sbagliando parola, parla di “statura umana” e io, con tutto il rispetto e pur nei miei limiti, con il mio 1.78 credo di essere più alto sia di Barbero che di Pino Aprile…

La base del libro è “l’errore del pendolo” e cioè gli eccessi antimeridionali e gli eccessi meridionali anche se per contestare i secondi Esposito contesta le tesi dei neoborbonici. La motivazione in sostanza è “dobbiamo essere infallibili se vogliamo essere credibili”. Bene chiarire, forse, che non esistono ricerche e tesi infallibili. Facciamo qualche esempio. Tra i primi che mi vengono in mente c’è la proposta secessionista di Marco Esposito che (Barbero lo sa?) qualche anno fa il giornalista del Mattino sintetizzò nel libro “Separiamoci”, un progetto forse anche estremistico sul piano del diritto italiano e nel quale mai nessun neoborbonico si era mai avventurato. Qualche anno prima, sempre per fare un esempio, il successo relativo del suo progetto di moneta alternativa come assessore a Napoli (nome non molto felice: il “Napo”) o il suo progetto elettorale con percentuali non superiori allo “zerovirgola”. Nessuno, però, a differenza di quanto Esposito fa nel libro lamentandosi per la mancata autocritica di Pino Aprile o per la mancanza della dichiarazione di qualche correzione (e neanche delle correzioni) magari nell’elenco dei primati, ha mai pensato di chiedere a Esposito autocritiche o “dichiarazioni di omessa dichiarazione di integrazione di un primato”… Nel libro una serie di dati puntuali che conosciamo bene anche per i numerosi articoli e per gli altri libri che Esposito ha scritto sulle sottrazioni di fondi a danno del Sud e anche su diverse bugie che circolano in merito a sprechi e inefficienze da queste parti.

Quello che però più sorprende è il fatto che Esposito metta sullo stesso piano l’eventuale errore del “terzo posto industriale” (neanche del sottoscritto ma di diversi altri autori o semplicemente di tante persone su facebook) e oltre un secolo e mezzo di fake, di cancellazioni, di mistificazioni e umiliazioni contro il Sud. Da un lato, allora, una storia ufficiale che in maniera monopolistica, con tv, giornali, università e case editrici e anche libri di scuola di ogni ordine e grado ci racconta le (vere) fake di Garibaldi&Garibaldini o di un Sud arretrato e inferiore con le conseguenze culturali e anche politiche ed economiche che il libro stesso evidenzia, dall’altro un gruppo di storici volontari e autofinanziati che ha tirato fuori storie cancellate con le conseguenze (positive) che hanno e potranno avere. Ma per Esposito siamo tutti uguali e il pendolo vale per loro e per noi. È grave per lui, allora, che qualcuno abbia tirato fuori la storia del “terzo posto” (secondo i suoi dati forse era sesto o settimo) ma non che qualcun altro non abbia mai parlato delle industrie del Sud pre-unitario. Ci convince poco anche la motivazione di tutto questo (la potremmo pure condividere ma il rischio della retorica e della pre-sunzione è troppo alto): “potremmo tornare ad essere un modello armonico di esistenza”. E allora la sensazione è che “l’errore del pendolo” non sia dei neoborbonici o dei neomeridionalisti ma di… Esposito che non si è accorto che quel pendolo era spostato tutto da una parte da oltre 150 anni.

“Se quei primati vengono esaltati oltremodo l’operazione di riscatto della memoria dei neoborbonici da necessaria diventa perniciosa”: peccato che quei primati siano oltre 150, che quelli “integrati” e aggiornati” nel libro siano solo sette e che per 150 anni di quei primati non si conosceva l’esistenza e non ricordiamo libri di Esposito che ne abbiano mai parlato e neanche libri nei quali abbia difeso il Sud dalle umiliazioni di tutta la storiografia italiana. Notiamo oggi (anzi) un Esposito tutto intento a calcolare i metri cubi della Reggia di Caserta per dimostrare che non è la reggia più grande (ed è costretto a riconoscere che il primato è riportato anche dal sito della Reggia) o con il vocabolario di tedesco per dimostrare che la prima cattedra di economia era in Germania e non a Napoli (eppure bastava dare un occhio alla Treccani) o a confrontare gli elenchi di primati sul sito dei neoborbonici (2005) con il mio libro del 2019. Tante le pagine dedicate ai moti del 1820 e al “primo parlamento a suffragio universale” (omettendo le critiche che i Nitti o i Croce rivolsero contro quei moti carbonari-massonici ed etero-diretti), uno dei pochi primati borbonici anti-borbonici (il Borbone, per accordi internazionali e, resosi conto delle reali intenzioni dei rivoluzionari, bloccò tutto). Esposito insiste anche con una vecchia tesi della storiografia ufficiale a proposito della implosione del Regno ma Esposito non cita altre fonti: fu sempre Croce, come riportato da un recente libro di Gigi Di Fiore, ad evidenziare che si trattò di una caduta “per urto esterno” e libri recenti e documentatissimi dimostrano che si trattò anche in quel caso di una operazione etero-diretta.

Per Esposito, poi, è “vomitevole” (aggettivo non proprio moderato e tendente a quella armonia vagheggiata in altre pagine) la storia divulgata (sul web e sui social!) dei “10 o 15 anni di chiusura delle scuole del Sud dopo il 1860”. A questo proposito cita anche il sottoscritto quando riporto i dati del più alto numero di iscritti all’università. Qui cita il mio (“bel”) libro sui primati ma forse non lo avrà letto tutto perché in quel libro e in altre mie pubblicazioni il dato degli iscritti è solo uno dei tanti elementi portati come “prove” (archivistiche) relative alla falsità dei dati del censimento del 1861 (in testa quelli del Fondo Ministero Istruzione a Napoli e quelle successive degli Annuari). Sono quelle le fonti che dimostrano la chiusura di un numero enorme da un notevole numero (oltre 6000) di scuole presenti nelle Due Sicilie fino alla nefasta applicazione della legge Casati (che Esposito cita senza analizzarne le conseguenze). In questo caso Esposito dimentica anche di completare la lettura del libro di Daniele che pure cita in più passaggi: in particolare non riporta i dati relativi al numero di scuole presenti nelle Due Sicilie (in media con quelle del resto dell’Italia).

Surreale il capitolo relativo alla deportazione dei meridionali in Patagonia progettata dallo stato italiano: nel corso dell’intervista inserita nel libro Barbero in un primo momento nega questa possibilità ritenendola una “leggenda neoborbonica” e di fronte a diversi documenti accetta in parte la tesi ma con un suo strano distinguo che applicò anche ai prigionieri di Fenestrelle: quei progetti “per atterrire le nostre impressionabili popolazioni” non erano pensati per i meridionali ma per tutti gli “italiani” perché dal 17 marzo 1861 eravamo tutti italiani… Per Barbero, allora, le decine di migliaia di meridionali deportati con la legge Pica e ritrovati (nomi e cognomi) negli archivi dell’Italia centrale e settentrionale sono una fake news (peccato che Esposito non l’abbia inserita nel libro)…

Schema simile sempre a quello seguito da Barbero anche quando “Fake Sud” affronta il tema di Fenestrelle usando “la parte per il tutto”: per Esposito Di Fiore “ha scritto prima ‘in tanti morirono in quelle prigioni’ per poi correggersi (già negli Ultimi giorni di Gaeta) dicendo che ‘per loro il ritorno a casa non fu semplice’ e poi riconoscendo che non fu persecuzione scientifica”. In realtà, leggendo bene e conoscendo bene i libri di Di Fiore, non risulta affatto questo “climax” suggerito in maniera quasi subliminale da Esposito: in Nazione Napoletana (successivo agli “Ultimi giorni”), a proposito dei campi di prigionia sabaudi, Di Fiore scrive di “migliaia di militari rinchiusi” e anche “a centinaia non fecero più ritorno”. Stesso schema quando cita il prof. Gangemi e i suoi documentatissimi studi di prossima pubblicazione: si parla solo dell’errore di Barbero sui 1200 soldati (forse erano 1300) e non delle pluriennali ricerche archivistiche con le quali Gangemi dimostra la morte a Fenestrelle e altrove di diverse migliaia di soldati. Proprio su Fenestrelle i passaggi forse più (in negativo) significativi: abbracciando in pieno le tesi barberiane, Esposito sostiene che non era un lager, che non c’era la volontà di sterminare i soldati napoletani ma (giuriamo che la frase è proprio questa) “semmai l’ingenua pretesa di inquadrarli rapidamente nel nuovo esercito nazionale”. Non possiamo non evidenziare l’aggettivo “ingenua” riferito a quella scelta che, pure ammesso che la volontà iniziale non fosse lo sterminio, stride con le condizioni di quei viaggi e di quelle prigioni ritenute infernali per decenni. A parte il fatto, poi, che l’idea della “rieducazione” rievoca spettri impronunciabili, a parte il fatto che avrebbero potuto anche evitare de-portazioni a oltre 1000 km e a oltre 1200 metri di altezza (magari “rieducandoli” nelle loro zone di origine), a parte il fatto che dal numero di ospedalizzati, di morti, di fughe e di rivolte avrebbero potuto dedurre che forse non era il caso di insistere per tanti anni (e ben oltre quel 1862-data semi/fake usata da Barbero per chiudere le sue ricerche con lacune che saranno presto evidenti nel libro di cui sopra), a parte il fatto che Esposito avrebbe potuto chiedere lumi a Barbero in merito ai misteri di quei 40.000 soldati attestati a Fenestrelle non dai neoborbonici ma dai Carabinieri nel loro museo in epoca fascista, Esposito si risponde da solo quando, nella stessa pagina, scrive che “la maggior parte di quei soldati rifiutò [di essere inquadrata nel nuovo esercito] avendo giurato fedeltà a Francesco II”. Qui Esposito, però, non si chiede e non chiede neanche a Barbero quale fosse la sorte di quei soldati visto che non volevano essere rieducati e inquadrati e i sabaudi volevano “solo” rieducarli e inquadrarli. Forse, allora, a Fenestrelle non c’era un cartello con la scritta “campo di sterminio” ma quel forte lo diventò e non fu neanche l’unico caso.

Da notare anche qualche “distrazione” come quando riferisce ai neoborbonici la tesi “con 7 secoli di storia potevamo dirci neogreci, neoangioini o neoaragonesi” ma (senza leggere il testo riportato da circa 20 anni sul sito dei neoborbonici e limitandosi a cercare la notizia dal web) ci ricorda che i secoli, “partendo dai Greci sarebbero 28” (io ho scritto 3 libri sulla storia di Napoli e non ho mai parlato di “7 secoli”).

Nel libro contro le fake anche un’altra mezza fake: quella secondo la quale in Italia nessuno emigrava fino al 1860. Esposito forse non ha letto i testi che attestano emigrazioni consistenti (tra gli altri) di Comaschi, Genovesi e Parmigiani con cronisti che arrivarono a parlare di “fanatismo migratorio” (G. Goyau, M. Porcella, F. Bellazzi, G, Calzolari, tra gli altri).

Non è affatto vero, poi, che Aprile “peraltro non ha fatto alcuna ricerca diretta ma ha riassunto con toni vivaci quanto è stato scritto sul tema dal 1993 in poi” (Aprile non inserisce note ma riporta nei testi le sue tante fonti frutto anche di ricerche complesse) e non è vero che Terroni “riassume gli errori e le inesattezze della storiografia fai-da-te” e che “Pino Aprile cade in fallo” perché sottovaluterebbe il fatto che “anche un solo scivolone rischia di inquinare il resto” (e fa l’esempio –sbagliato- di Fenestrelle che non era un luogo di sterminio) e non è accettabile neanche l’altra tesi su Aprile: da un lato, infatti, Esposito scrive che con il suo Terroni “sempre più meridionali si sono liberati del senso di minorità”, dall’altro, però, in virtù della sua mancata “autocritica”, “chi legge quel libro prende per buone tutte le affermazioni e qualcuno anzi, come in un gioco al rialzo, si attiva in rete e magari aggiunge altro di suo e il rischio è che l’informazione inesatta o esagerata abbia l’effetto della mela marcia e spinga a buttare l’intera cesta”. Ovvio che Aprile non possa rispondere di quello che fanno i suoi lettori (se scrivo che Mertens non ha giocato bene non sarà colpa mia se qualcuno gli buca le ruote del motorino) così come… scagli la prima pietra uno scrittore infallibile.

Surreale la denuncia della fake news relativa alla frase di Bombrini (“I meridionali non dovranno più essere in grado di intraprendere”) perché, premesso che io nei miei libri non l’ho mai usata (amo le fonti da quando mi specializzai in archivistica), se è vero che (finora) non c’è una fonte che la documenti, è altrettanto vero (e lo specifica poche righe dopo) che Bombrini fece una lunga e articolata serie di scelte che potrebbero essere sintetizzate in maniera esemplare in quella frase, come attestano le eccezionali ricerche del grande Nicola Zitara. Dopo oltre un secolo e mezzo di silenzi omertosi e colpevoli (e dannosi) sulle politiche antimeridionali uno slogan e una locandina su facebook possono essere più efficaci di 100 libri soprattutto se sintetizzano una loro intrinseca e profonda verità.

Surreale anche un’altra delle tesi del libro: “non siamo ancora in un tempo pacificato”. Esatto. Ma per il motivo contrario: qui al Sud, nell’opera di ricostruzione di identità e di liberazione dal senso di minorità, siamo ancora all’anno zero e semplificazioni o anche e addirittura esagerazioni (legittime dopo 150 anni di umiliazioni) sono più che mai preziose. E forse abbiamo ancora più bisogno di orgoglio che di “maestrine con le penne rosse” pronte a bacchettare questo o quel passaggio (è un lusso che, forse, ci potremo permettere tra qualche anno). A meno che qualcuno non pensi che questo processo sia già concluso (e non è concluso affatto, come dimostrano le politiche antimeridionali di questi anni e che nel libro sono anche sintetizzate). A meno che qualcuno non pensi che questo processo non serva (e allora, forse, non ama davvero il Sud e non vuole davvero risolvere le questioni meridionali) e non ci meraviglieremmo molto se questo libro (soprattutto per le parti nelle quali in fondo sostiene che “è tutta colpa del Sud”) avrà molti spazi televisivi e giornalistici e venderà le sue brave copie… E magari in questo tipo di discorso rientrano anche certi titoli (quello più adatto, in questo caso, forse, era un più equilibrato e coerente con i contenuti “Fake Sud e Nord”, così come all’epoca “I prigionieri dei Savoia” di Barbero poteva far pensare ad una denuncia delle malefatte sabaude).

In conclusione (evitiamo di ripetere la formula usata da Barbero per iniziare la sua prefazione perché non riusciamo a capirla bene: “Nella conclusione a questo libro Esposito racconta…”), non possiamo non rilevare che Esposito forse per la prima volta parla del passato in un suo libro e ha scelto una strada (secondo il nostro parere personale) non del tutto felice, sia per la scelta della prefazione (e dei toni) che per diverse notizie riportate nel testo. Di fronte a oltre 150 anni di bugie (quelle sì tutte contro il Sud), di fronte a quei “400 gruppi facebook antimeridionali” (quelli sì carichi di un razzismo pericoloso), di fronte all’avanzare di una Lega (sempre) Nord (quella che condiziona non la “mentalità” ma la politica da decenni, quella che porta in giro odio vero e simboli di personaggi storici medioevali inventati sui quali, però, non ci risultano, ad esempio libri, articoli e premesse “infuriate” di Barbero che tra l’altro è anche medioevalista), di fronte all’avanzare di quel “partito unico del Nord” (che non si è mai messo e non si metterà mai a cavillare sui suoi aderenti e a cercare vie politicamente corrette), pur lusingati dallo spazio e dall’importanza attribuitaci in questo libro, ci auguriamo che il prossimo libro di Esposito e Barbero possa evitare di offendere o andare a cavillare tra libri e siti neoborbonici rivolgendo le loro attenzioni altrove (un altrove molto vasto a partire magari da tante storie-fake risorgimentali).

Prof. Gennaro De Crescenzo Napoli 6 ottobre 2020

Sepolti dai pregiudizi contro il Sud. «Bufale blasonate». Sepolti dai pregiudizi contro il Sud. Di e da pietrodesarlo.it il 6 luglio 2021. Nel libro “Perché il Sud è rimasto indietro” l’autore, Emanuele Felice,  fornisce la serie storica del divario Nord – Sud dal 1871 ad oggi. Avvisa subito che i dati del 1861, anno in cui fu annesso il Regno Duosiciliano, non ci sono, e che ricostruirli “… sarebbe un esercizio poco serio e quindi risparmiamocelo”. Però, dopo poche pagine, si lancia proprio nell’”esercizio poco serio” e afferma che nel 1861 fatto 100 il PIL pro capite nazionale quello del Sud era tra il 75% e l’80%. Ci spiega poi che, grazie all’Unità d’Italia, il PIL del Sud crebbe miracolosamente per 10 anni fino al 90% del 1871, anno in cui le serie storiche diventano universalmente accettate.  Però appena queste diventano ufficiali puff … il miracolo finisce e dal 1871 il divario peggiora costantemente. Nel 2001 il Sud è al  69% del PIL medio italiano, e oggi siamo intorno al 65%. In sintesi per Felice quando non c’erano i dati, proprio grazie all’Unità d’Italia, il divario Nord – Sud è diminuito, ma da che ci sono i dati è invece aumentato ma non a causa dell’Unità d’Italia. Perché allora? E qui il nostro si lancia nella solita poltiglia anti meridionalista giustificandola prendendo i numeri e i fatti che gli fanno comodo e ignorando gli altri.

Luca Ricolfi. Qualche anno prima di Felice, Ricolfi aveva pubblicato un libro “Il sacco del Nord”. In questo libro sostenne che il Sud viveva alle spalle del Nord e che in realtà fosse più ricco del Nord stesso. Come? Dando un valore economico al tempo libero. Vengono così stravolti i divari Nord Sud. Ovviamente dimentica, il Ricolfi, che l’abbondanza di un bene lo deprezza e che il tempo libero di un disoccupato ha un valore diverso da quello di un neurochirurgo, ma tant’è. Nella pubblicistica antimeridionale tutto fa brodo.

Barbero e Augias. Passiamo a Barbero, che per contestare i Neo Borbonici su Fenestrelle scrive un corposo libro . I Neo Borbonici pongono la quota a cui si trova il Forte di Fenestrelle a 1800 metri sul livello del mare, Barbero a 1200. Differenza non da poco per stabilire quanti fossero nel 1861 i morti tra i prigionieri mal nutriti e mal vestiti dell’esercito napoletano chiusi nel Forte posto nella gelida Val Clusone. Chi ha ragione? Nessuno dei due. In realtà il Forte è un insieme di strutture poste tra quota 1200 e quota 1800. Però Barbero è rock e non fa propaganda ma storia, i neo borbonici sono lenti e guai a chiamare  Barbero neo sabaudo. Andiamo ad Augias che sulle vicende risorgimentali, quando non gli conviene, propone l’oblio … a senso unico però, visto che a Torino, presso l’università statale, c’è un Museo dedicato al Lombroso. Di la dalle intenzione del Lombroso stesso le sue teorie furono utilizzate per giustificare la feroce repressione ai briganti, relegandoli a sub specie umana. Come Felice, memoria selettiva: ricordiamo quello che conviene.

Perché faccio questa tiritera? Perché la pubblicistica anti meridionale crea un costante pregiudizio nei confronti del Mezzogiorno e quindi tutte le volte che c’è un pregiudizio non si riescono a capire cause e soluzioni dei problemi.

Quando questi pregiudizi sono poi diffusi da Felice, che è il responsabile economico del PD che ha proprio nel Sud il proprio bacino elettorale, da Ricolfi, che si definisce illuminista e fa parte della fondazione che pomposamente si richiama a Hume, oppure da mostri della cultura in pillole come Augias e Barbero diventa quasi impossibile ragionare e capire. Se uno ci prova viene insultato sui social.

Facciamo una prova. Se vi chiedessi perché la sanità campana funziona peggio di quella lombarda cosa rispondereste? Non fate i timidi, suvvia! Bravi, ci siete: i campani sono brutti, sporchi e cattivi. Insomma la risposta antropologica è l’unica che vi viene in testa. A nessuno mai verrebbe in mente di rispondere perché lo Stato spende in Campania per la sanità 1.593,11 euro anno per abitante mentre in Lombardia ne spende 2.532,79.

Sorpresi? Ora vi tolgo il fiato perché lo so già che state pensando che tanto è inutile dare soldi ai campani perché li butterebbero dalla finestra. Ma il monitoraggio della spesa sanitaria italiana mostra che in un solo anno, e tutti gli anni da 10 anni, la sanità campana produce un avanzo di gestione di più di 43 milioni di euro. Quello che la ricca Lombardia ci mette 10 anni a produrre. Ma le sorprese non finiscono qui. Per le politiche sociali, che insieme a quelle per la sanità rappresentano il 50% delle spese regionali, nel 2018 in Lombardia sono stati spesi 6.711,16 euro per abitante. E in Campania? Solo 4.672,77!

Differenze imbarazzanti. Le differenze sono imbarazzanti e moltiplicandole per il numero di abitanti della Campania si vede che questa riceve 17 miliardi di euro l’anno in meno, che per 10 anni fanno 170 miliardi. Se applichiamo questa differenza a tutto il Sud parliamo di 45 miliardi l’anno che in 10 anni fanno 450 miliardi: più del doppio del recovery plan. E fino ad ora non abbiamo parlato del divario infrastrutturale del Sud con il Nord. Se proprio sentite la necessità di arrampicarvi sugli specchi ora direte che la spesa pubblica non produce PIL. Eccome se lo produce! Si possono assumere medici e infermieri scegliendo i migliori, attrarre malati da altre regioni che portano i loro famigliari a occupare alberghi e pensioni per l’assistenza ai parenti. Con i quattrini per la coesione sociale si sviluppa il terzo settore. Andate a vedere in Lombardia quanti ci campano! Siete tramortiti, ammettetelo. Vi vedo affannati a cercare conferme ai vostri pregiudizi nell’evasione fiscale, ma, fidatevi, l’evasione, se in tale ambito mettiamo anche quella legale dei grandi gruppi, FIAT, Ferrero, Mediaset, eccetera, è di gran lunga maggiore al Nord e la povera Basilicata, per esempio, ha un incidenza di imposte pagate sul PIL simile a quella della Lombardia, a dispetto della progressività impositiva.

E la Cassa per il Mezzogiorno? Finalmente vi vedo sorridere, pensate di avermi fregato: e la Cassa per il Mezzogiorno dove la mettiamo?  La Cassa nacque nel 1950 per la viabilità rurale al Sud. Volete dirmi che nello stesso periodo non è stato fatta neanche una strada interpoderale al Nord? A parte le autostrade e il resto, intendo. Oppure che qualche aziendina del Nord, come la Fiat per esempio, non ha munto alle casse pubbliche per decenni tra incentivi e cassa integrazione? Il punto è che ogni spesa al Sud si strombazza come “intervento straordinario”, per fare un centesimo di quello che in silenzio si fa come “intervento ordinario” al Nord. Si guarda solo la parte straordinaria della spesa pubblica e mai si somma regione per regione la spesa corrente e quella per investimenti e si confrontano i totali. Se si facesse questo esercizio si scoprirebbe la vera ragione del divario Nord Sud: la differenza di spesa pubblica sia per le spese correnti sia per gli investimenti!!!

Fake News? Lo so che pensate che io spacci fake news? Ebbene no: qui trovate i dati della spesa pubblica ordinaria per regione e qui  il monitoraggio della spesa sanitaria. Su qualsiasi cartina d’Italia trovate invece la differenza di infrastrutture tra Nord e Sud, dall’Alta Velocità alle autostrade e persino sulla piantina dell’ultimo giro d’Italia che non è arrivato neanche ad Eboli. Ma anche il Giro d’Italia muove PIL e fa pubblicità ai luoghi dove passa.

Ma non ditelo a Felice o a Ricolfi che i dati preferiscono inventarli, invece di prenderli dai conti pubblici territoriali prodotti dalla relativa agenzia. Occorrerebbe prima esaminare i numeri e verificarne la consistenza, poi elaborare una teoria. Molti, come Ricolfi e Felice, preferiscono il contrario: elaborare una teoria e cercare una conferma nei … segni o nelle rune. È così che nascono i terrapiattisti.

Ma veniamo al PNRR. Se questo fosse ripartito in Italia con gli stessi criteri utilizzati dall’Europa per distribuirlo nei vari stati europei al Sud ne competerebbe il 70% almeno. Non ci credete? Qui c’è tutto .

Il fatto è che in Europa la divergenza tra le economie dei vari paesi è considerato un problema che potenzialmente può disgregare l’Europa stessa. Lo stesso presidente del consiglio, Mario Draghi,  nel suo ultimo discorso alla camera ha detto : “Tra il 1999 e il 2019, il Pil in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà assoluta è salito dal 3,3 per cento al 7,7” .

I due Draghi. Ovviamente si tratta del Mario Draghi che prima di diventare presidente del consiglio faceva il commesso alla Standa e non di quel Mario Draghi corresponsabile di questi disastri e di cui, per fortuna, non si sente più parlare e che da DG del Ministero del Tesoro scrisse i contratti per la svendita del patrimonio pubblico ai privati e comperò titoli tossici da Goldman Sachs. Che da Governatore della Banca D’Italia autorizzò l’acquisto di Antonveneta da parte di MPS. Che da neo Governatore della BCE scrisse una lettera, insieme a Trichet, con i compiti assegnati al governo Berlusconi, e che fece il Governo Monti e che da governatore della BCE mise, inutilmente visti i risultati, in ginocchio la Grecia. Ma quale è il punto di questa chiacchierata? Il punto è che il PNRR è un elenco di progetti privo di visione e che, purtroppo, darà esiti molto modesti rispetto agli sforzi richiesti.

Sepolti dal pregiudizio. Ma come si fa a maturare la visione di un futuro che recuperi centralità politica, logistica ed economica al Mezzogiorno d’Italia che è il centro del Mediterraneo che è a sua volta il luogo di incontro di tre continenti e dove invece di sviluppo e progresso c’è il desereto? Come si fa in una Italia divisa dai pregiudizi e dalla propaganda della pubblicistica antimeridionale a far comprendere l’importanza del Sud nelle strategie di sviluppo dell’intero Paese? Come si fa a far capire che il potenziale dei porti del Sud, in specie quello di Taranto e di Gioia Tauro, è un multiplo rispetto a quello di Genova e di Trieste? Come si fa a far comprendere tutto questo in una Italia in cui appena si parla del Ponte sullo Stretto ci sono i soliti soloni che affermano che fare il Ponte, e le infrastrutture, al Sud equivale a fare un regalo alla mafia? Come si fa a far capire che poi all’estero non fanno distinzione e che il pregiudizio dal Sud si trasferisce all’intero Paese? Non era un giornale tedesco a dire che dare i soldi all’Italia equivaleva a darli alla mafia? Ecco perché questa pubblicistica stucchevole contro il Mezzogiorno arricchita di analisi fantasiose e false uccide la capacità di rinascita non del Sud, ma dell’intero Paese perché impedisce di capire i problemi e individuare  le soluzioni. Inoltre questi continui pregiudizi sul Sud rendono diviso il Paese diffondendo tossine sempre più difficilmente smaltibili ma quando i seminatori di tossine sono parte fondante di quel ceto che dovrebbe invece combattere i pregiudizi al Paese non resta che soccombere.

Bruno Bossio: «Le carceri sono lo specchio dei pregiudizi sui meridionali». TAPPA ZERO: TORINO. Roberto incontra la parlamentare dem Enza Bruno Bossio, che lo accompagnerà anche nella tappa finale a Motta Santa Lucia. A proposito delle teorie lombrosiane sulla predisposizione a delinquere, Bruno Bossio spiega come abbiano dato origine ai pregiudizi sui meridionali, maggiormente presenti nelle nostre carceri e spesso detenuti ingiustamente. Il Dubbio il 4 settembre 2021. Il tour “Sui pedali della libertà”, appena iniziato, unisce infatti due luoghi significativi: il museo di Cesare Lombroso a Torino e il paese di provenienza in Calabria di Giuseppe Villella. Il cui teschio, per il fondatore dell’antropologia criminale, dimostrava la correlazione tra le fattezze fisiche e la predisposizione a delinquere. «Devo dire – spiega Bruno Bossio – che purtroppo le teorie lombrosiane segnano l’inizio di un pregiudizio che è rimasto, se è vero come ci dicono le percentuali che la maggioranza della popolazione italiana in carcere – spesso detenuta ingiustamente – è meridionale. Soprattutto quando ci sono esigenze cautelari e non condanne».

«Vi racconto quel pregiudizio sulle mie origini calabresi che mi ha distrutto la vita». Il Dubbio il 5 settembre 2021. Roberto incontra l'ex consigliere regionale della Valle d'Aosta, Marco Sorbara, assolto a fine luglio dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa dopo 909 giorni in custodia cautelare. L’incubo giudiziario di Sorbara comincia il 23 gennaio 2019, quando i carabinieri bussano alla sua porta in piena notte per portarlo via assieme ad una decina di persone, tutte coinvolte nell’operazione “Geenna”. A fine luglio è stato assolto dalla Corte d’Appello di Torino perché il fatto non sussiste, dopo una precedente condanna a 10 anni con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. E, soprattutto, dopo mesi di calvario, aggravati dal voltafaccia dei suoi colleghi, che subito dopo l’arresto lo hanno massacrato. Momenti terribili, tra carcere e domiciliari, compresi 45 giorni in isolamento, racconta oggi Sorbara: «Nella mia cella erano cinque passi per quattro, li contavo. E mi chiedevo tutti i giorni perché. Ma non ho mai trovato risposta».

«Il pregiudizio verso il Sud c’è ancora: siamo tutti mafiosi…» Il Dubbio l'11 settembre 2021. Dopo 1400 chilometri, il tour di Roberto "Oltre i pregiudizi" si chiude nella città del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale "Cesare Lombroso" a Torino. L'ultimo pregiudizio che resta da abbattere è quello nei confronti del Sud. Se, come spiega il giornalista Mimmo Gangemi, la «questione meridionale è ridotta a questione criminale». L’ultima tappa del viaggio di Roberto Sensi “Oltre i pregiudizi” è a Motta Santa Lucia, la terra del presunto brigante Giuseppe Villella, il cui teschio è rimasto al museo di antropologia criminale “Cesare Lombroso” a Torino. L’ultimo pregiudizio che resta insepolto è quello sul meridione, una malattia autoimmune non ancora debellata. «La questione meridionale la si è ridotta a una mera questione criminale», spiega lo scrittore e giornalista Mimmo Gangemi. Parla del presente. Un presente che non sembra essersi allontanato di un passo da Lombroso.

Il pregiudizio contro i meridionali, davvero esiste ancora?

Esiste ma ha assunto forme più nascoste, camuffate da una finzione di civiltà che lo rigetta. Sono episodi sporadici le discriminazioni di un tempo, quando non s’affittavano case ai nostri emigranti e l’essere del Sud diventava una tara, un marchio d’infamia. Il pregiudizio però continua a camminare sottotraccia. Il Sud è additato e percepito come la palla al piede dell’Italia. Gli abitanti saremmo parassiti che si perpetuano lagnosi e vittime, sfaticati, mafiosi o con mentalità mafiosa.

Com’è nato questo odio?

Non siamo mai diventati nazione. A noi è stata tramandata la memoria della forzatura sanguinaria, mai appianata e taciuta dalla storia, in un regno che ci ha conquistato e trattato da sottomessi, da Ascari, con tasse e imposizioni, la leva obbligatoria, le morti innocenti e paesi distrutti pur di eliminare il dissenso, e i briganti, peraltro spesso resistenti all’invasore. E siamo rimasti indietro, o siamo stati lasciati indietro, anche per l’insipienza della classe politica e dirigente che esprimiamo. Nel cammino assieme, c’è stata una disparità di attenzione e di risorse e si è impattato in diversità sociali, culturali, economiche, storiche, caratteriali che hanno pesato e inciso fino a realizzare un’Italia a due diverse velocità, fino a dilatare il distacco e ad alimentare l’odio. Certo è, tuttavia, che le nostre valigie di cartone degli anni ’ 50, legate con lo spago, non differivano da quelle che tutti assieme, gente del Nord e gente del Sud, allestimmo per un’emigrazione alle Americhe che soccorresse il futuro.

Al di là degli stereotipi, esiste un’identità comune che unisce i popoli del Sud?

Il regno dei Borboni è morto e sepolto. Mai è stato un elemento di coesione. Siamo Italia e ci piace essere Italia. L’identità comune c’è perché ci accumuna la storia di oltre un millennio, e ancor prima, la Magna Grecia. Dall’unità d’Italia in poi si è aggiunto l’uguale disagio di essere considerati colonia e un ostacolo alla crescita della nazione. E talvolta i disagi, le democrazie a scartamento ridotto e lo stesso pregiudizio distribuito largo sanno diventare punti di saldatura.

A volte però a trovarsi ad avere pregiudizi verso di sé è lo stesso Sud, che subisce la narrazione dominante.

Il Sud non ha molte voci autorevoli da opporre all’Italia che lo pesa e lo giudica con un metro falsato. La Calabria è quella combinata peggio. Oltrepassa il Pollino una narrazione menzognera ed esagerata nella condanna. I personaggi che hanno ascolto e microfono, e spesso una credibilità mal riposta, sono pochi. Tra loro, c’è pure chi la racconta molto peggio di quanto sia, fa trasparire l’idea che tutto sia mafia, ha creato l’equazione “calabrese uguale ’ ndranghetista”. E l’Italia ha abboccato, senza ragionare che a taluni, anche giornalisti, torna comodo irrobustire il mostro ‘ ndrangheta, che mostro è, perché così irrobustisce le carriere e i meriti, con buona pace dell’innocenza maltrattata e dello Stato di diritto scappato altrove.

Come è accaduto che un partito come la Lega, che ha fondato la propria storia sull’antimeridionalismo, finisse per essere così largamente votato anche qui?

Ingenui creduloni stendono un velo sul razzismo di decenni ed è come infilarsi da sé l’amo in bocca. Una fetta della classe politica, pur di sedere a cassetta, non bada alla parte con la quale si schiera, insegue solo il successo elettorale, bianco o nero non importa. E troppi cittadini dalla memoria corta votano, per utilità e clientelismo, il compare, l’amico, l’amico degli amici.

Cosa si potrebbe fare, nell’immediato, per il Sud?

Un’equità sociale, livellando le disparità che si sono create. Ci sono priorità che mancano e sulle quali ormai non si protesta, perché si è talmente assuefatti al degrado che ciò che altrove appare ordinario al Sud lo si vede straordinario, un di più, una concessione. La sanità è impoverita ad arte, per l’obiettivo di avvantaggiare quella del Nord, magari sovradimensionata, che accoglie anche per prestazioni sanitarie di basso peso. L’agricoltura è stata penalizzata da dover scegliere o di lasciare marcire il frutto o di ricorrere al lavoro nero, altrimenti si va in perdita. L’autostrada A2 è un inganno: mai è stata davvero ultimata, se tra Reggio a Cosenza 52 chilometri, i più pericolosi, sono rimasti quelli di prima, senza corsia di emergenza e con tracciati da brividi. L’alta velocità ferroviaria da Salerno in giù è altina, non alta. La statale 106 è la strada della morte, a doppio senso di circolazione. I treni sono lo scarto del Nord. E i finanziamenti pubblici dipendono dallo storico, da quelli ottenuti nel corso degli anni, e diventa una storpiatura della democrazia che, per esempio, Reggio Calabria non possa avere nulla o quasi per gli asili nido solo perché nulla ha mai avuto, mentre l’altra Reggio, pur con meno abitanti, ha 16 milioni annui. Perciò, lo si metta alla pari, il Sud. Solo dopo potrà essere additato colpevole.

“Si è sempre a Sud di qualcuno”, a volte però stupisce vedere comportamenti razzisti da parte di chi a sua volta ne ha subiti. Perché accade?

È un’anomalia che chi, come i veneti e i friulani, agli inizi del Novecento, popoli più nella fame e più numerosi dei meridionali nell’emigrazione e che hanno subito il razzismo, si siano trovati loro razzisti, disprezzando così il sacrificio lontano degli antenati che hanno consentito di giungere meglio ai giorni nostri. Ma tant’è. Ed è vero che c’è sempre qualcuno più a Sud oggetto di discriminazione. È di fresca memoria quella svizzera sui frontalieri lombardi. Però non ha insegnato nulla.

IL SUD CHE LOTTA ANCHE SENZA GLI IMPIANTI HA CONQUISTATO 6 ORI SU 10 ALLE OLIMPIADI DI TOKYO. Il Corriere del Giorno il 10 Agosto 2021. La mappa pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera sui luoghi in cui in Italia si pratica l’atletica leggera, conferma che la Puglia e le altre regioni meridionali sono assenti. Meno “trombonate” sotto mentite spoglie di elogi e dichiarazioni politiche. Più palestre, piste, piscine e impianti anche per gli sport cosiddetti “minori”. Dieci medaglie d’oro alle Olimpiadi, tre conquistate da atleti pugliesi; una da un calabrese d’adozione, nato in Texas, due medaglie con la vittoria nella 400×100, insieme a un sardo e a due lombardi, uno di origine sarda, l’altro nigeriana; un’altra medaglia d’oro vinta da un siciliano. I nomi dei nostri azzurri saliti sul podio olimpionico sono ormai ben noti a tutti.  La vera sorpresa di questi Giochi è stata la Puglia che ha regalato ben tre ori e un argento con la vera sorpresa di questi Giochi è la Puglia che ha regalato ben tre ori e un argento con Vito Dell’Aquila, Massimo Stano, Antonella Palmisano e Luigi Samele, rispettivamente delle province di Brindisi, Bari, Taranto e Foggia. La distribuzione delle medaglie italiane – 10 ori, di cui la metà nell’atletica, 10 argenti e ben 20 bronzi, record nel record – è spesso frutto di lavoro di squadra e quindi superiore alle 40 assegnate per disciplina. La mappa che emerge è dominata dagli atleti delle Regioni settentrionali: ben 36, infatti, provengono dal Nord, 18 dal Centro, 17 dal Sud e dalle isole. Ma il nostro Sud ha conquistato 6 medaglie su 10 calcolando solo quelle di oro, oltre a quella, storica, vinta nella boxe dalla campana Irma Testa, medaglia di bronzo che vale nel suo caso più dell’oro con una delle storie più belle, probabilmente non la più bella, di questa Olimpiade. Emblematiche le parole della la pugilatrice azzurra : ” Sono felicissima, tenere in mano questa medaglia è uno dei momenti più belli della mia vita. Penso alla mia scalata, ai sacrifici che ho dovuto fare, da dove sono partita e dove sono oggi. Il mio è stato un percorso di riscatto: ce l’ho fatta, la medaglia olimpica è il sogno di ogni atleta. Tutto quello che ho fatto è servito a qualcosa. A chi la dedico? Alla mia famiglia che ha fatto tanti sacrifici per me, il maestro con cui ho iniziato, Biagio Zurlo, e il maestro di oggi Emanuele Renzini che ha fatto di tutto per farmi arrivare fin qui”.  Atleti ed allenatori che non guadagnano come i calciatori e gli allenatori diventati delle vere star milionarie. Più della metà dell’oro italiano è figlio del Sud; i meridionali su 384 atleti tricolore a Tokyo, sono soltanto 66 mentre dalla Lombardia ne sono partiti 59. Tutto ciò significa che il Sud, pur vantando un terzo della popolazione nazionale, è stato presente con un sesto della delegazione sportiva italiana alle Olimpiadi di Tokyo, ma smentendo i numeri e le politiche ottuse che non garantisce adeguati impianti sportivi nel mezzogiorno d’ Italia conquistato il 60 per cento delle medaglie d’oro . Basti pensare che l’Italia nella marcia, aveva 5 concorrenti, 3 dei quali pugliesi, e 2 dei tre pugliesi hanno conquistato la medaglia d’oro: maschile e femminile per l’Italia. Riassumendo i dati del medagliere azzurro alle Olimpiadi di Tokyo un sesto degli atleti è figlio del sud, conquistando il 60 per cento dell’oro tricolore. Fa riflettere l’attenta osservazione di Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione ConIlSud:  nella “equa” distribuzione degli impianti sportivi, delle possibilità offerta ai giovani di fare sport, lo sbilanciamento territoriale delle infrastrutture dell’Italia non si smentisce: a fronte di 41 metri quadrati pro-capite di aree sportive a disposizione dei ragazzi residenti nel Nord-Est, sono soltanto 4 i metri quadrati al Sud . Fra le 10 province italiane con minor numero di palestre, 9 sono meridionali e tutte e 5 le province calabresi sono presenti in quelle 9. Il medagliere degli atleti figli del Sud hanno reso quattro volte più (in oro) alle Olimpiadi, ma lo hanno fatto avendo a disposizione in proporzione aree sportive, palestre e attrezzature, dieci volte in meno rispetto agli atleti del Nord. Lo sport mette in competizione, ma rende gli atleti “fratelli” e le differenze territoriali-strutturali scompaiono sui campi di gara, sulle pista, perché lo sport è uno degli strumenti più efficienti di unione nazionale e condivisione sociale. Il nostro amato Sud ha dato prove incredibili di orgoglio, nonostante lo svantaggio impostogli anche nello sport. L’esempio è rappresentato dalla storia del barlettano Pietro Mennea: l’italiano più veloce di sempre che stupì il mondo, il cui record sui 200 metri, dopo 40 anni ancor’oggi imbattuto in Europa,  era costretto ad allenarsi su tratturi campestri e strade asfaltate, non avendo piste a campi di atletica adatte. Pietro Mennea dal fisico sgraziato ed ossuto rappresentava visivamente l’antitesi strutturale del velocista . Per chi ha buona memoria i suoi avversari erano tutti muscoli e potenza, mentre lui pareva il più debole fisicamente, ma quando partivano la “Freccia del Sud” correva contro tutto e tutti, talvolta persino contro se stesso entrando in crisi a Mosca. Il suo storico avversario russo Valeriy Borzov, lo aiutò e spinse a ritrovare se stesso, dicendogli quello che rendeva grande l’atleta: “Non ho mai visto tanta volontà in un uomo solo“. Assurdo scoprire che quando hanno finalmente pensato di realizzare un campo d’atletica a Barletta, degno di essere chiamato tale, l’ex delegato regionale pugliese del Coni Elio Sannicandro (con un passato di assessore della giunta Emiliano al Comune di Bari) venne beccato con le mani nella marmellata affidando l’appalto di progettazione per circa 800mila euro ad un suo nipote ! Ed ancora più assurdo e vergognoso è ritrovarlo a capo dell’ ASSET, l’agenzia regionale pugliese che vuole organizzare e realizzare le strutture dei Giochi del Mediterraneo che vorrebbero organizzare in Puglia nel 2026. La mappa pubblicata qualche giorno fa dal Corriere della Sera sui luoghi in cui in Italia si pratica l’atletica leggera, conferma che la Puglia e le altre regioni meridionali sono assenti. Meno “trombonate” sotto mentite spoglie di elogi trionfalistici e e le solite dichiarazioni politiche. Più palestre, piste, piscine e impianti anche per gli sport cosiddetti “minori”. Così come non esiste famiglia, non c’è palestra, più di quella di judo dei Maddaloni che abbia conquistato più medaglie all’Italia.  Questa volta siamo in Campania, che grazie a papà Gianni Maddaloni che la volle a Scampia, nel quartiere simbolo del degrado sociale. Ma il vero combattimento quotidiano di Gianni sono le bollette, i conti da pagare, rifiutando tutte le offerte di trasferire altrove a Napoli la sua palestra, che gli avrebbe consentito di non aver più avuto problemi di soldi. Maddaloni però preferisce restare a Scampia, esentare i frequentatori che non possono pagare le rette mensili, aiutare i disabili. Gianni Maddaloni spiega e racconta sempre a tutti che la forza dei ragazzi delle Vele di Scampia è la rabbia che spesa male, si ribella ad una società che discrimina, esclude, mentre quando viene controllata ed educata da un allenatore capace di avere una visione, si trasforma in medaglie, risultati, crescita personale e sociale do ogni atleta. Lo sport è un campanello d’allarme per il nostro Paese. Tenendo ben presente che pur avendo strutture sportive dieci volte in meno del resto d’ Italia, gli atleti del Sud hanno vinto in proporzione quattro volte di più, è sempre possibile trovare l’imbecille di turno pronto a dire senza vergogna alcuna : “Vuol dire che non ne hanno bisogno”!

Ecco perchè i poveri del Mezzogiorno restano poveri e il Nord si arricchisce. Fabrizio Galimberti su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. LA “NUOVA frontiera” della questione meridionale sono i Lep – e i Fab, e la Sose. A questo punto, per non scoraggiare il lettore, andiamo a districare la matassa di questa “nuova frontiera” partendo dalla zuppa di acronimi.

I Lep sono i “Livelli essenziali di prestazioni”, cioè quegli ammontari di servizi che devono essere disponibili per ogni cittadino: asili nido, spazi verdi, scuole, ospedali, connessioni, strade, raccolta rifiuti… il tutto in relazione all’area e alla popolazione.

I Fab sono i “Fabbisogni standard” che, come spiegheremo meglio in seguito, si potrebbero definire come i "parenti poveri" dei Lep.

La Sose (Soluzioni per il Sistema Economico Spa) è una società per azioni creata dal Ministero dell’economia e delle finanze e dalla Banca d’Italia per l’elaborazione degli ISA -Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (strumento che ha sostituito gli studi di settore) nonché per determinare i fabbisogni standard di cui sopra.

E torniamo ai Lep. Il lignaggio è illustre. Come si legge nel box, la Costituzione prescrive, all’Articolo 117 che lo Stato determini i «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». “L’uomo propone, Dio dispone”, dice un vecchio proverbio. Audacemente sostituendo a Dio il Governo della Repubblica italiana, si potrebbe speranzosamente parafrasare il detto in: “La Costituzione propone, il Governo dispone”. Il problema è che il Governo non dispone: a tre quarti di secolo di distanza dalla prescrizione costituzionale, questi Lep non sono mai stati determinati. Lo scopo dei Lep, ovviamente, era quello di rispondere a un altro pressante invito della Costituzione, che all’Articolo 2 statuisce che la Repubblica «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ci fu qualche tentativo di rimediare alla colpevole omissione della messa in campo dei Lep. Più di dieci anni fa (Legge 42/2009) il Governo legiferò che i detti Lep dovevano essere introdotti – un altro “propone” – cui però non seguì mai un “dispone”. Ma non c’è il “Fondo perequativo” disposto (vedi Box) all’Articolo 119 della Costituzione? Sì, c’è, ma non perequa veramente. “Il diavolo è nei dettagli”, afferma un altro vecchio detto. E una più che meritoria ricerca della Fondazione Openpolis è andata ad annusare nei dettagli. Rispondendo a una richiesta del Comune di Catanzaro, la ricerca si è chinata sul perché e sul percome dei fondi ricevuti da quel Comune a valere sul Fondo perequativo.

Per spiegare i meccanismi del Fondo perequativo partiamo da due concetti: fabbisogni standard (Fab) e capacità fiscale. I primi sono determinati dalla Sose valendosi di una serie di indicatori che si basano in massima parte sulla spesa sostenuta per una serie di servizi (che dovrebbero mimare i famosi ‘livelli essenziali di prestazioni’). La seconda si riferisce alle entrate proprie dei Comuni. Orbene, i Comuni italiani contribuiscono al Fondo quando la loro capacità fiscale (entrate proprie) è superiore alla spesa per i Fab; e ricevono dal Fondo quando i Fab sono superiori alla spesa. In teoria questo meccanismo dovrebbe portare alla riduzione delle diseguaglianze territoriali: dato che i Comuni con ridotta capacità fiscale sono i più poveri, questi finirebbero per ricevere, riducendo quindi le distanze dai Comuni più ricchi. Ma questo non avviene per una semplice ragione, legata al modo con cui vengono calcolati i Fab: essendo questi calcolati sulla spesa per i servizi, i Comuni del Nord, che offrono più servizi, avranno Fab più alti. Mentre i Comuni che offrono meno servizi spendono meno e di conseguenza si vedono riconosciuti fabbisogni più bassi. Il lettore avvertito riconoscerà in questo modo di procedere la stessa stortura sulla quale questo giornale si è scagliato dal giorno della fondazione: il criterio della spesa storica. I soldi che lo Stato spende nelle diverse Regioni italiane sono erogati sulla base della spesa dell’anno prima, talché chi riceveva di più continua a ricevere di più. Il meccanismo del Fondo perequativo è simile, conclude giustamente la ricerca di Openpolis: “genera un circolo vizioso: anziché abbattere le disparità, penalizza nella ripartizione proprio i territori con meno servizi, allargando in prospettiva il divario tra le aree del Paese”. La soluzione a questo stato di cose non è difficile: si tratta di definire i Fab, innalzandoli, dal rango di parenti poveri dei Lep, a dei veri Lep, con indicatori fisici, quantitativi, anziché di spesa: per esempio, per gli asili-nido, stabilire che devono essere tot per ogni 1000 abitanti in quella fascia di età.

Il Governo Draghi sta facendo dei passi in questa direzione. Sia la ministra Mara Carfagna che la vice-ministra al Mef Laura Castelli spingono per una definizione di Lep efficaci ed efficienti. La conferenza Stato-città, riunitasi il 22 giugno 2021, ha adottato lo schema di decreto per le spese sociali del Presidente del consiglio dei ministri, con una particolare attenzione agli asili-nido. Ma per passare dal “propone” al “dispone” i compiti non sono solo del governo centrale. Le amministrazioni locali, che devono fornire alla Sose le materie prime per il calcolo dei Fab, sono spesso latenti. La ricerca di Openpolis ne ha dato una grafica distribuzione nel caso di Catanzaro. Come si vede dalla tabella, che si riferisce ad alcuni dati Sose 2017 per Catanzaro, succede che le informazioni siano assenti o carenti. Risulta poco verosimile, si chiede giustamente Openpolis, “che in un comune di questo tipo, in un anno non siano state effettuate potature di piante, né riconosciuti permessi per sosta disabili e accesso ZTL, né stipulati contratti da parte del comune”. Nell’ottica einaudiana di "conoscere per deliberare", le amministrazioni comunali devono essere in grado di fornire a Sose dati e informazioni corrette. È “fondamentale che i comuni, specialmente i più grandi, siano dotati di un ufficio statistico che si occupi della raccolta sistematica dei dati relativi ai servizi, alle strutture, alle attività del territorio”, e li collochi in piattaforme accessibili “opendata che permettano a tutti (cittadini, giornalisti, società civile) di accedere ai dati, di scaricarli ed elaborarli in articoli, report, campagne, con finalità informative o di attivismo civico”. La definizione dei Lep, il superamento dell’iniquo criterio della spesa storica, sono la chiave per chiudere finalmente i divari fra Centro-Nord e Mezzogiorno nella cruciale fornitura di servizi pubblici, e per avviare a compimento quell’Unità d’Italia che esiste sulla carta e che vogliamo esista nei fatti. Ma per questo, tutti devono fare la loro parte, in tutti i punti cardinali della Penisola.

L'ingiusta ripartizione delle risorse statali che affossa il futuro dei cittadini meridionali. Massimo Clausi su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. QUALCOSA si muove nei Comuni calabresi. E verrebbe da scrivere: finalmente. I sindaci, a partire da quello di Catanzaro, Sergio Abramo, si sono accorti della grande balla, narrata da anni, del Sud sprecone che rappresenta la palla al piede per il Paese e hanno capito che in realtà, dietro le difficoltà economiche dei municipi, grandi e piccoli, meridionali c’è l’ingiusta ripartizione delle risorse da parte dello Stato. Il Comune di Catanzaro che nel solo 2021, a fronte di un fabbisogno di 11,4 milioni, ne riceve meno di 4 è un dato che grida vendetta.

PRIVAZIONE SCIENTIFICA. Una privazione quasi scientifica, come in splendida solitudine ha dimostrato questo giornale con numeri e dati, che ha prodotto un risultato esplosivo. Se guardiamo alla Calabria troviamo 46 Comuni in dissesto, fra cui capoluoghi di provincia come Cosenza, Reggio Calabria, Vibo, e 35 in pre-dissesto fra cui città importanti come Rende e Lamezia Terme. A questo dobbiamo aggiungere un’evasione fiscale importante dovuta da un lato alla debolezza del tessuto sociale calabrese, dall’altro dalla difficoltà dei Comuni a effettuare la riscossione. Il risultato finale è un mix micidiale, visto che i sindaci devono comunque garantire i servizi minimi essenziali come acqua, rifiuti, trasporti che troppo spesso i cittadini calabresi si vedono negati. Prendiamo ad esempio il bubbone della sanità. La Ragioneria generale dello Stato lo scorso anno ha indicato chiaramente i soldi distribuiti per la sanità per ogni cittadino italiano. La media è 1.920 euro, mentre i calabresi ne percepiscono 1.760: la differenza è quasi 200 euro pro-capite, il che significa, per una regione come la Calabria, 400 milioni di euro. «Ricordo – ha detto il sindaco Abramo ieri in conferenza – che la Calabria è commissariata per uno sforamento del bilancio di 300 milioni, e di questi 200 milioni 140 li pagano i calabresi con l’addizionale Irpef, 60 lo Stato. Se la Calabria riuscisse ad avere quello che ha la Lombardia, la nostra sanità avrebbe 400 milioni in più: con 200, quindi, pareggeremmo il bilancio, gli altri 200 li potremmo investire. Questa differenza non è giusta».

I FONDI EUROPEI. Su questo sfondo si inserisce poi il tema dei fondi europei che troppo spesso, anziché essere aggiuntivi rispetto alle risorse statali, di fatto sono stati troppo a lungo sostitutivi. Anche su questo punto, però, è nato il luogo comune di un Sud incapace di spendere le risorse generosamente concesse dall’Europa. Certo, i numeri assoluti sembrano parlar chiaro, con un monte di risorse che tornano indietro e, a furia di rimodularle, diventano quasi virtuali. Il punto, però, è che molti Comuni sono nell’incapacità di spendere questi stanziamenti per il famoso blocco del turn over che ha reso la burocrazia del Meridione scarsa nell’organico, avanti negli anni, decisamente poco tecnologica. Un esempio paradigmatico, visto che siamo in estate, in Calabria è la depurazione. Nei cassetti della Regione da anni ci sono i quattrini (parliamo di milioni di euro) per l’ammodernamento o il riefficentamento dei depuratori. Il problema è che i sindaci non hanno il personale adatto per la progettazione o per bandire le gare europee e quei soldi rimangono sempre lì, mentre l’Unione europea continua a comminarci sanzioni su sanzioni a causa delle infrazioni legate alla depurazione. Un tema, questo, che torna di grande attualità con il Pnrr, come pure è emerso nel corso dell’incontro di Catanzaro. Anche qui siamo di fronte a una sfida che il Meridione rischia di perdere se non si metteranno in sicurezza i Comuni sotto il profilo finanziario e della dotazione organica. Allora fanno bene i sindaci a tenere alta la guardia e pretendere un’inversione di rotta netta rispetto al passato.

Lo scandalo di una tv pubblica pagata da tutti ma che promuove solamente il Centronord. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 7 agosto 2021. AMADEUS sarà il conduttore del prossimo festival di Sanremo. Mancano “appena” sei mesi all’evento e già la tv pubblica strombazza la notizia, che evidentemente interessa molti italiani. Il festival è un evento ormai conosciuto in tutto il mondo, con ascolti da capogiro e tradizione importante. Bene ha fatto la Rai a farne uno dei programmi di punta della propria programmazione.

LO SQUILIBRIO STORICO. Il servizio pubblico spesso sponsorizza eventi importanti del Paese che vengono così conosciuti e apprezzati, oltre che in Italia, in tutto il mondo. La Scala è al centro della programmazione dell’Opera lirica. Rai 5 vive trasmettendo le opere, sempre con un cast di primissimo piano, che La Scala propone. Così come tutto quello che accade all’Arena di Verona costituisce evento nazionale. E il festival del cinema di Venezia ha sempre grande spazio, come è giusto, nella programmazione televisiva pubblica. La domanda che ci si pone, però, è se un servizio pubblico possa concentrarsi solo sugli eventi di una parte del Paese, anche se questi dovessero essere migliori rispetto a quelli che si svolgono in altre parti. Se una televisione pubblica, pagata con i canoni di tutti gli italiani, peraltro non in proporzione al loro reddito tranne che per poche fasce esentate, si possa consentire di concentrarsi solo su una parte. Se, per esempio, non si possa e non si debba puntare anche sugli eventi, per esempio, del teatro greco di Siracusa, rappresentazioni uniche al mondo, o sulla Sagra del mandorlo in fiore di Agrigento, che si svolge in una Valle fiorita di mandorli che è un must da vedere, o se non si possa spingere eventi che si svolgono a Ravello o a Taormina, piuttosto che a Segesta o a Ercolano, a Pompei, a Napoli. In realtà l’esigenza che il Sud abbia media nazionali che facciano da megafono rispetto non solo agli spettacoli, ma alle istanze, alle problematiche di questi territori diventa sempre più importante.  

DISINFORMAZIONE SISTEMATICA. E invece si assiste alla progressiva chiusura di testate (l’ultima è quella della Gazzetta del Mezzogiorno) che in ogni caso non sono state mai nazionali, ma che hanno rappresentato voci di queste terre. E anche nell’informazione il Sud diventa area colonizzata, nella quale arriva quello che la classe dirigente nazionale, prevalentemente centrosettentrionale, vuole che arrivi. Per cui è necessario che arrivi un nuovo quotidiano, il nostro, per quella Operazione verità che una stampa attenta e non di parte, né parziale, avrebbe potuto svolgere. Nella quale passa soltanto l’informazione canonica che difficilmente dà spazio a visioni eretiche o a punti di vista meno maggioritari. L’informazione, per esempio, sul ponte di Messina è esemplare rispetto al modo in cui le problematiche economiche e sociali del Sud vengono trattate. Disinformazione, ampliamento delle posizioni critiche, fino a stravolgimento della realtà. Mentre al momento opportuno si ha l’invio di giornalisti, che raccolgono informazioni spesso dai tassisti per poi dare un’immagine del Sud molto pittoresca, ma spesso non veritiera. È chiaro che tutto questo non giova al Paese, perché la mancata conoscenza della realtà porta a decisioni del governo nazionale totalmente distanti dalle esigenze reali. Mentre interessi di parte, spesso proprietari di media nazionali, fanno il loro mestiere per difendere interessi consolidati o per accreditare verità parziali. L’informazione recente diffusa nel Paese a proposito della pandemia dà una visione della realtà che conduce al discorso fatto fino adesso.

AL DI SOTTO DI ROMA È TUTTA SERIE B. Quando vi è da intervistare un virologo, un medico, non si capisce perché debba essere sempre di Bologna o Padova, come se i ricercatori e i medici del Mezzogiorno fossero assolutamente di livello inferiore. Questo avviene anche quando si parla di economia, per cui le università meridionali sono sempre sottorappresentate. Si capisce che questo poteva avvenire quando le trasmissioni venivano realizzate con la presenza fisica, e allora era più facile utilizzare professionalità più vicine. Ma adesso che tutto avviene via web non si capisce questa discriminazione. Se non con un preconcetto di fondo, sempre presente, che le professionalità sotto Roma siano di serie B. Peraltro anche i direttori di giornali che vengono chiamati sono sempre di una parte, anche se magari dirigono testate assolutamente con diffusione limitata, come la Nazione, ma che hanno grande spazio, e tutto ciò avviene anche nella televisione pubblica. Sindrome da vittimismo, la mia, o reale fenomeno da denunciare? Certamente è un argomento sul quale riflettere.

BARAGHINI VUOL DIRE CENSURA. Marco Castoro su Il Quotidiano del Sud il 6 agosto 2021. Cari Lettori del Quotidiano del Sud, parenti e amici nonché telespettatori di SkyTg24, vi vorremmo rassicurare: il nostro e vostro quotidiano è vivo, è in edicola, è su internet e sui social. Non fatevi condizionare dalla rassegna stampa notturna di Skytg24 che quando è condotta da Francesca Baraghini ignora il nostro e vostro quotidiano. In rassegna ci sono più di 20 prime pagine diverse ma del Quotidiano del Sud neanche l’ombra. Per fortuna questo tipo di censura avviene soltanto quando c’è la Baraghini. Aspettiamo tutti con ansia il cambio turno.

NON SE NE PUO' PIU' DELL'INFORMAZIONE CHE SFUGGE ALLA SUA FUNZIONE PUBBLICA! Michele Eugenio Di Carlo il 17.03.2020 su Movimento24agosto.it. Siamo profondamente convinti che di fronte alle regole coronavirus siamo tutti uguali al sud, al centro, al nord. Ma l' informazione a livello nazionale tende ancora una volta a farci passare per esseri inferiori, indisciplinati, refrattari a qualsiasi regola. Ieri sera Del Debbio indicava chiaramente Napoli come esempio di non rispetto delle regole e dal servizio nemmeno si evidenziava più di tanto se non per le forzature dell'inviata. Questa mattina dal Corriere della Sera si evince che specie al Sud non si rispettano le regole, infatti vengono citate Bari, Lecce, Secondigliano,Caltanissetta. Poi dalla piccola stampa locale del nord emerge che siamo tutti uguali davanti alle regole. La nostra reazione contro un'informazione a senso unico, e che ripropone il solito cliché di un'Italia divisa, viene fatta passare come immotivata quando non addirittura razzista. E la cosa più grave è che spesso sono i cittadini meridionali, totalmente manipolati da quell'informazione, a dichiarare che quei media che ci disprezzano hanno ragione. L'invito è ad opporsi a quell'informazione con dati statistici e documenti, rivendicando il nostro diritto ad essere considerati cittadini alla pari. Alimentare pregiudizi e luoghi comuni contro il Mezzogiorno d'Italia, in un momento critico come l'attuale, non è degno di un'informazione che dovrebbero sempre rinsaldare quanto ci unisce e non evidenziare falsi e mistificatori miti.

ATTACCO CONCENTRICO AL SUD E AL REDDITO DI CITTADINANZA: INSULTI VELATI E FALSE NOTIZIE DA TG E GIORNALI. Raffaele Vescera il 20.05.2021 su Il Movimento24agosto.it. Il tormentone è partito l’altra sera sui Tg nazionali: “In Campania più assegni di Reddito di cittadinanza che in tutto il Nord. Quattro volte più della Lombardia!" Scioccamente ripreso dal Fatto Quotidiano.it di ieri che rincara la dose: “Reddito di cittadinanza, in aprile 2,8 milioni di percettori. A Napoli più che in Lombardia e Piemonte”. Il tutto senza il minimo accenno alle cause di tale differenza, da parte di un giornale che, pur nelle sue giuste battaglia contro le mille ingiustizie italiane, non perde occasione per diffondere gratuiti pregiudizi contro i meridionali, lombrosianamente considerati men che delinquenti e fannulloni, sulla scia del mantra leghista che, in vero, unisce il cosiddetto Partito unico del Nord nel razzismo antimeridionale. Dipende forse dall’essere piemontese del suo direttore, Gomez? È forse il solo modo che hanno per mondarsi la coscienza? Veniamo a noi. La disoccupazione al Sud è oltre il 18%, tripla rispetto al Nord dove è intorno all’6%, e quella dei giovani meridionali è al 65% anche qui tripla rispetto al Nord, mentre la punta delle disuguaglianze italiane spetta alle donne meridionali con un tasso di disoccupazione che va oltre l’80%. In quanto al reddito pro-capite, quello del Sud a 16,500 Euro è meno della metà del nordico 34.000. Ebbene, con questi dati, noti a tutti, qualunque serio commentatore dedurrebbe che dove vi è maggiore disoccupazione e povertà, per esempio al Sud, vi è maggior ricorso al reddito di cittadinanza. L’articolo del Fatto Quotidiano si spinge oltre, arrivando a sostenere che il Rdc sarebbe punitivo nei confronti del Nord, dove la vita costerebbe di più. Altro falso, considerato che tutti i servizi pubblici, tassi bancari, assicurazioni e altro sono molto più cari al Sud, così come lo è la produzione industriale del Nord, di cui i Sud è fortissimo consumatore, per precisa volontà coloniale italiana, che riserva al Nord il ruolo di produttore con conseguente ricchezza, e al Sud quello di mero consumatore con conseguente povertà ed emigrazione: 100.000 giovani meridionali l’anno lasciano la propria terra per fare vita grama di lavoro al Nord. In verità, oltre il solito mantra antimeridionale, questo attacco è diretto contro lo stesso reddito di cittadinanza che Confindustria e Partito unico del Nord non vedono di buon occhio, in quanto sottrarrebbe i cittadini alla vergogna di un lavoro schiavizzato e sottopagato, i meridionali per la finanza del Nord sono solo cervelli e braccia da lavoro da sfruttare. Non che il reddito di cittadinanza sia la soluzione ai problemi di disoccupazione e povertà del Mezzogiorno, ci vogliono infrastrutture, investimenti e lavoro che lo Stato nega da sempre al Sud, ma vivaddio almeno solleva i meridionali, e anche gli indigenti del Nord, dal vivere nella disperazione e di rovistare nella spazzatura per cibarsi. Come si dice da noi al Sud, il sazio non crede al digiuno. Per una volta andrebbero invertiti i ruoli, come in un certo film americano con Willy Smith, chissà cosa proverebbero i loro ricchissimi figli di papà a vivere disoccupati con 557 Euro al mese con fitto, bollette e spesa per mangiare.

SputtaNapoli sport nazionale, Milano invasa da tifosi ma giornale scrive “Coprifuoco violato a Napoli”. Da Andrea Favicchio il 3 maggio 2021 su vesuviolive.it. Non chiamatelo vittimismo, questa è una vera e propria avversione nei confronti di Napoli, il solito SputtaNapoli. Sì perché ieri e sui giornali di questa mattina per l’ennesima volta si è vista la disparità di giudizio dei media italiani. Come se la festa per la Coppa Italia vinta dal Napoli fosse più contagiosa di quella scudetto (i numeri smentiscono chiaramente). Ieri l’Inter ha vinto lo scudetto e migliaia e migliaia di persone si sono riversate in città in festa. Direte voi, lo avrebbero fatto tutti è inutile giudicare. Infatti qui non si giudica il comportamento dei tifosi neroazzurri, perché qualunque tifoseria avrebbe fatto lo stesso, quanto più quello dei media nazionali.

Milano, festa scudetto dell’Inter: ma solo a Napoli siamo sciagurati. Spicca su tutti infatti il titolo de “Il Fatto Quotidiano” sull’argomento: “Folla di tifosi invade Milano. A Napoli coprifuoco violato”. Vi chiederete voi, cosa c’entrano le due cose insieme? La risposta è assolutamente nulla. L’Italia è il Paese dove si nasconde la polvere sotto al tappeto credendo di aver risolto tutti i problemi. L’Italia è il Paese dove per discolparsi di qualcosa si butta il fumo negli occhi della gente o la si fa guardare da un’altra parte. Un tentativo davvero goffo e ridicolo quello del quotidiano diretto da Marco Travaglio di distogliere l’attenzione su qualcosa che l’attenzione l’ha capitalizzata al 100%. Solo tra la gente comune però. Loro infatti sono gli unici ad essere sdegnati non solo dal comportamento dei tifosi ma anche dalla classe politica che avrebbe dovuto prevedere la situazione. Una festa che rischia di essere amara per tutti i milanesi e per la Lombardia intera. Staremo a vedere tra un paio di settimane come sarà la curva dei contagi – sperando ovviamente di essere smentiti in pieno.

L’ATAVICA AVVERSIONE A NAPOLI E L'OCCHIO BENEVOLO PER MILANO. DUE PAESI E DUE MISURE? E' RAZZISMO. Facebook. Movimento 24 Agosto - Equità Territoriale il 3 maggio 2021. Pietro Fucile. Quando nel giugno scorso 5.000 tifosi festeggiarono per le strade di una città a zero contagi la vittoria della Coppa Italia, vennero definiti su tutti i giornali “Sciagurati!” con tanto di punto esclamativo per colmo d’indignazione. La situazione era per tutti “disgustosa”, gli amministratori, tanto De Luca quanto De Magistris “colpevoli” e per i napoletani si rispolverarono le analisi sociologiche (sempre le stesse da 160 anni in qua) che ancora parlano di “atavica avversione alle regole”. Oggi l’Inter vince lo scudetto, i tifosi festeggiano (sei volte più che a Napoli) assembrandosi in 30.000 nelle piazze di una città ancora in piena pandemia. Ma a fare il titolo è ancora Napoli per le violazioni delle norme anti-contagio, le stesse violazioni che si sono registrate nel weekend in tutte le città italiane. Occorrerebbe forse un’analisi sociologica relativa “all’atavica avversione a Napoli” del giornalismo italiano.

L’APARTHEID DELL’INFORMAZIONE GHETTIZZA IL SUD: SERVE UN’INDAGINE. Dai media una visione distorta del Mezzogiorno: almeno il servizio pubblico costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 5 maggio 2021. Al di là dei giudizi ovvi e contrapposti sull’intervento di Fedez al concertone del primo maggio esce fuori in modo dirompente come l’informazione della Rai sia sottoposta a un indirizzamento utilizzato, e che rispetta in ogni caso la lottizzazione esistente tra i partiti, che non si è mai riusciti a eliminare. Per cui diventa inopportuno e politically uncorrect un attacco a esponenti della Lega che si sono lasciati andare a frasi irripetibili, che magari risalgono ai tempi in cui il motto della Lega era anche “forza Vesuvio” o “forza Etna”.   Ma la domanda che ci si deve porre e che viene spontanea a chi si occupa, come il nostro Quotidiano del Sud, di un’informazione vista dal Mediterraneo e non dalle Alpi, è se l’informazione in generale, in particolare quella Rai, sia corretta. La Rai, infatti, è un servizio pubblico, pagato da tutti gli italiani, indipendentemente dal loro reddito, per cui viene anche finanziata dal 34% della popolazione meridionale, e quindi è opportuno sapere se l’informazione è neutrale ed equa rispetto ai territori.  Perché la sensazione netta è che ci sia una forma di apartheid. E che da Napoli in giù (ma un trattamento simile lo hanno il milione e cinquecentomila marchigiani e i 900mila umbri), vi sia una discriminazione inaccettabile.

I MANTRA DEI LUOGHI COMUNI. E tale atteggiamento non riguarda solo l’informazione pubblica. Infatti anche quella privata, in particolare La 7 e Mediaset, come l’informazione cartacea dei grandi giornali, cosiddetti nazionali, danno la sensazione che tutto quello che riguarda il Sud sia trattato con sufficienza, arroganza e grande protervia. Il tema è che qualunque giornalista che ne parla si sente autorizzato a trattare tale area per luoghi comuni, per mantra accreditati quanto falsi, per accuse non suffragate dai fatti. Intanto il Sud viene rappresentato prevalentemente come mafia, camorra e ’ndrangheta, sia dall’informazione che nelle fiction. E spesso ci si dimentica che la maggior parte delle vittime, che si sono immolate per combattere tali fenomeni, sono meridionali. Da Piersanti Mattarella a Falcone, da Chinnici a Levatino, il giudice ragazzino, a Don Pino Puglisi, ma l’elenco potrebbe continuare con i tanti campani o calabresi o pugliesi che hanno sacrificato la vita per la lotta alla criminalità. Anche quando lo Stato centrale, in un rapporto colluso con la periferia politica, spesso contigua alla criminalità, evitava interventi troppo radicali, lasciando i civil servant pubblici, ma anche i tanti eroi per caso, soli a combattere il mostro. E intanto ci si stupisce di trovare al Sud delle eccellenze universitarie e viene proposto da ricercatori titolati, come Tito Boeri per esempio, di concentrare tutte le risorse, come in parte già avvenuto, sui centri di ricerca migliori, per definizione settentrionali, spessissimo lombardi. Se poi si tratta di chiedere in televisione una opinione non si va mai al di sotto di Roma. Virologi, economisti, politologi devono avere un pedigree di nascita nordica, al massimo devono ormai essersi trasferiti da anni nel cuore pulsante del Paese, nella sedicente locomotiva, che alla fine ha trascinato il Paese in un binario morto. Si poteva capire che ciò avvenisse nei periodi in cui i talk show si facevano in presenza, ma oggi che è tutto via web non si giustifica assolutamente tale discriminazione, considerato peraltro che, per esempio, le università meridionali hanno delle tradizioni e dei ricercatori, in alcuni campi, che sono eccellenze riconosciute universalmente.

COMMISSIONE DI CONTROLLO. Anche quando si parla di economia l’approccio viene impostato sul ridicolo, per cui Stefano   Feltri o Giuseppe Sala si consentono di parlare del ponte sullo stretto definendolo un’infrastruttura ridicola. E se si parla di sviluppo del Mezzogiorno e di soldi a esso destinati si dice che è stato un pozzo senza fondo pur, invece, se la realtà è che il pro capite destinato al Sud è stato, nei settori della scuola, della mobilità e della sanità di gran lunga inferiore che nel Nord del Paese. Ragion per cui per un bambino nascere a Reggio Calabria piuttosto che a Reggio Emilia diventa una disgrazia che si porterà dietro per tutta la vita, come nascere in madre patria o in colonia. L’informazione è fondamentale, come è noto, non solo nell’agone politico ma anche in quello economico, rispetto ai territori. Quindi se il mantra è che il Sud spreca risorse, argomento che a forza di essere sostenuto convince anche i rappresentanti meridionali, in genere poco informati o solo dai cosiddetti giornali nazionali, è più facile che, quando si legifererà per distribuirne, il Sud farà la parte del parente povero, cornuto e mazziato. Per questo motivo è assolutamente necessario che la problematica dell’informazione venga affrontata adeguatamente e, perlomeno per quanto riguarda quella del servizio pubblico, si costituisca una commissione interna che controlli il tempo dedicato alle singole parti del Paese, come avviene per la Commissione di vigilanza in relazione alla presenza delle forze di maggioranza e di opposizione. La Rai è un patrimonio nazionale e tutti sappiamo benissimo quale ruolo svolga, tanto per fare un esempio, per il festival di Sanremo o per la Scala di Milano o per il festival del Cinema di Venezia e come influenzi anche i comportamenti di consumo e i movimenti turistici. Riuscire a capire che tutti i territori hanno diritti analoghi nel nostro Paese è sicuramente  rivoluzionario e il fatto che eventi come  le rappresentazioni classiche di Siracusa o il Festival della Taranta,  che  si svolge  nel mese di agosto in forma itinerante in varie piazze del Salento, iniziando da Corigliano d’Otranto e culminando nel concertone di Melpignano, che vede la partecipazione di musicisti di fama nazionale e internazionale, devono essere ugualmente promossi, non deve costituire una battaglia. Così si scoprirà che i concerti di Ravello non hanno nulla da invidiare agli spettacoli dell’arena di Verona.

GLI INTERESSI PREVALENTI. Ovviamente tutto ciò non avviene per caso, perché l’informazione in Italia non è pura attività editoriale, ma espressione di forze imprenditoriali che hanno centri d’interesse prevalentemente in una parte del Paese.  E su quella essa si concentra, pesando le parole quando si tratta di tutelare gli interessi di una parte e invece si va a ruota libera quando si parla della parte meno forte e spesso meno attenta a non far passare una informazione negativa e dannosa anche per i flussi turistici. Questo obiettivo, di una informazione corretta che in un Paese normale non sarebbe nemmeno tale, ma che dovrebbe essere il normale approccio dell’informazione a tutti i territori, da noi diventa una conquista, perché purtroppo in tutti i campi il Mezzogiorno, per partire dalla quota zero, deve fare un grande sforzo. D’altra parte i numeri dell’organizzazione con sede a Parigi sulla libertà di stampa non ci danno scampo. Secondo la tabella di Rsf, nel Vecchio continente siamo quelli messi peggio. Ci scalza anche Cipro e peggio di noi c’è solo la Grecia. È tutto dire.

INFORMAZIONE, UN ARTICOLO SU CINQUE PARLA MALE DEL SUD. SUGC E FNSI: NECESSARIA UNA RIFLESSIONE. Redazione de Il Sud On Line il 23 maggio 2021. La stampa contribuisce ad alimentare una sorta di “archivio del pregiudizio” nei confronti di alcune zone dell’Italia? È l’oggetto di una ricerca che nasce all’interno di un progetto nato da un’idea del SUGC (Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania), in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II, l’Istituto di Media e Giornalismo (IMeG) dell’Università della Svizzera italiana (USI) di Lugano e l’Osservatorio europeo di giornalismo (EJO) dello stesso ateneo. ll progetto di ricerca “L’informazione (s)corretta: giornalismo e narrazione del Sud tra stereotipi e pregiudizi” intende analizzare lo sviluppo e la persistenza di stereotipi nella stampa italiana sulla rappresentazione del divario territoriale tra il Nord e Sud del paese. L’obiettivo è comprendere, se e in che modo, la stampa contribuisca ad alimentare un repertorio di immagini e metafore che rappresentano una sorta di ‘archivio del pregiudizio’ nei confronti di alcune zone di un Paese. Il SUGC e il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II hanno stipulato un accordo per la realizzazione delle attività di ricerca che si propongono di analizzare la copertura giornalistica del Mezzogiorno nel contesto della pandemia da COVID-19, al fine di identificare i temi più dibattuti e la possibile presenza di pregiudizi e atteggiamenti discriminatori presenti all’interno della copertura di un campione di testate giornalistiche nazionali e regionali. Negli ultimi mesi, l’attenzione mediatica in Italia, come in tutto il mondo, si è concentrata in modo pressoché esclusivo sulla pandemia da Covid-19 e le sue conseguenze. Il nuovo Coronavirus e il periodo di lockdown sono stati occasione di forte rilevanza comparativa sui territori italiani rispetto a diverse dimensioni come la paura e le proiezioni sulle condotte dei territori del Mezzogiorno di fronte alla prova pandemica. Comprese le scelte politiche, il modo di alimentare il dibattito locale e nazionale degli amministratori locali (con le Regioni in particolare. Su questi ed altri aspetti, la stampa locale e nazionale ha prodotto un altissimo numero di articoli e contenuti, la cui analisi può fungere da strumento di interpretazione delle possibili discriminazioni – nuove o preesistenti – tra territori. La ricerca cerca di comprendere le rappresentazioni e le narrazioni giornalistiche dominanti del Paese, e il loro legame con la produzione di eventuali stereotipi e discriminazioni Nord-Sud. Si è scelto di indagare la questione focalizzandosi sul periodo relativo al lockdown e sul dibattito innescato dall’impatto del Covid-19 sul paese. La ricerca si basa su un’analisi di contenuto di un campione di articoli giornalistici provenienti dalle principali testate nazionali italiane generaliste, economiche e sportive oltre che da due quotidiani a circolazione locale. Gli articoli sono stati raccolti tramite il database Factiva utilizzando come parola chiave di ricerca: “Covid-19 AND Meridione OR Mezzogiorno”. Il campione selezionato è stato uniformato tramite apposite scelte. L’analisi testuale degli articoli è riferita al periodo di analisi che va dal 1 febbraio 2020 al 31/08/2020 (non comprende la seconda ondata della pandemia)  E’ di 278 unità  il totale di articoli nel campione (dopo selezione e verifica). L’attività di ricerca è ancora in corso e adesso entra in una nuova fase che prevede l’analisi qualitativa da realizzarsi sulle interviste somministrate a testimoni privilegiati, prevalentemente giornalisti. Il progetto di ricerca viene realizzato con la partecipazione della Camera di Commercio di Napoli attraverso Si Impresa Azienda Speciale Unica, Innovaway, Protom, DAC (Distretto Aerospaziale della Campania), Materias, P4M, STRESS (Distretto Tecnologico per le Costruzioni Sostenibili), TECNO, TDS e in collaborazione con la Federazione Nazionale della Stampa 

“Durante la pandemia c’è stata una maggiore polarizzazione del contrasto tra territori, che ha evidenziato come la coesione e la solidarietà tra Nord e Sud non siano valori scontati nel nostro Paese- ha detto Claudio Silvestri. Segretario del Sindacato dei Giornalisti della Campania, SUGC –  Abbiamo pensato a una ricerca per evitare che prevalessero le suggestioni nel nostro ragionamento. Da qui dobbiamo partire per pensare a una corretta informazione sul Meridione, fuori da stereotipi e cliché negativi che caratterizzano anche la narrazione in testate non marcatamente orientate politicamente. A quesoi appuntamento ne seguiranno altri, a Roma e a Milano. È necessario che si apra una riflessione seria sul tema, così come abbiamo fatto con il manifesto di Venezia per il mondo femminile, e con la carta di Assisi per il linguaggio dell’odio e la comunicazione sui social network”. Per Stefano Bory, direttore di Funes, atelier dipartimentale di ricerca sulla narrazione e l’immaginarioDipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II -” La ricerca sta offrendo, già a partire da questi primi risultati intermedi, delle considerazioni di rilievo sul modo di fare informazione durante la pandemia. Dal nostro studio, oltre ad una lampante ri-esplosione della questione meridionale e del conflitto Nord-Sud, stanno emergendo retoriche discorsive e scelte lessicali che spesso celano nuove forme di vittimizzazione dell’attore sociale del Nord e diversi atteggiamenti rivendicativi sulle competenze e sul potenziale ruolo di sviluppo da parte del Mezzogiorno. Si tratta di rappresentazioni che devono far riflette sia sulla professione giornalistica in un contesto emergenziale, sia sulle latenti impronte culturali che nutrono a volte inconsapevolmente l’agency discorsiva e narrativa sul rapporto tra i due territori del nostro paese.” “Quanto incide sullo sviluppo delle imprese, del tessuto economico di alcune aree, una narrazione non oggettiva da parte dei media?  – Si è chiesto il presidente della Camera di Commercio, Ciro Fiola, aprendo i lavori della conferenza stampa dedicata alla presentazione della ricerca – “Ce lo siamo chiesti spesso, specialmente al Sud, ha aggiunto Fiola, nella nostra Napoli, sempre più scenario per il racconto di delitti e guerre di camorra, palcoscenico di fiction che ne tratteggiano il lato peggiore. Ben vengano azioni di ricerca rigorosa come questa messa in campo dal SUGC in collaborazione con l’Università Federico II”. “Durante il primo lockdown i consiglieri il SUGC hanno raccolto numerose segnalazioni su articoli, servizi e programmi TV che hanno raccontato il Mezzogiorno proponendo i pregiudizi e gli stereotipi di sempre, ha detto Maria Cava, consigliera del SUGC. “Anziché affidarci ad un comunicato stampa abbiamo voluto analizzare il fenomeno in modo più strutturato, misurandolo. Di qui l’idea della ricerca sociale frutto di una decisione di lavoro di squadra di tutto il Sindacato dei giornalisti della Campania. Ci aspettiamo di poter contribuire ad una maggiore responsabilità, consapevolezza, cura e attenzione nella nostra professione”. Il gruppo di lavoro del Dipartimento di Sociologia della Federico II è composto da Stefano Bory, Luca Bifulco e Rosaria Lumino. C’è anche Philip Di Salvo, dell’Istituto di media e giornalismo (IMeG), Università della Svizzera italiana (USI).

Quell’equazione distorta “Sud uguale mafia e camorra” che nello Stato patrigno non muore mai. Anche nel programma di Augias su Rai3 un'immagine di Napoli distorta dai pregiudizi. Il tema dell’abbandono dello Stato non viene mai fuori e le colpe del degrado sono sempre addossate al Sud. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 20 aprile 2021. Un popolo dove ci si sbrana, dove la convivenza non è civile. Un paradiso abitato da diavoli. Città di lazzaroni e pulcinelli, semibarbara e africana. Così scrive Leopardi al padre parlando di Napoli. E così il programma “Città segrete” di Rai Tre riporta, ammiccando allo spettatore che forse questo vuol sentirsi dire. Corrado Augias ripercorre gli speciali sulle città meridionali con un pregiudizio imperante, che prevede che bisogna far prevalere le immagini di città degradate, in mano alla camorra, in cui il riferimento a Raffaele Cutolo e al sequestro Cirillo è d’obbligo.

IL MANTRA DEMAGOGICO. Un Paese che purtroppo non riesce a valorizzare il suo territorio, per cui se parli di Napoli o Palermo il riferimento alla camorra o alla mafia deve essere obbligatorio. Ma tant’è, l’approccio di una certa cultura demagogica e sinistrorsa che semplifica tutto in un approccio distorcente di una realtà complessa. Dove le cause dell’abbandono di uno Stato patrigno non vengono mai fuori e le responsabilità del degrado sono sempre ed esclusivamente dell’incapacità di una realtà lombrosionamente inferiore. «Non c’è nessuno, qui, che non sia un vinto, umano e storico, un messo a terra per sempre. Tutti quanti, andalusi, cretesi, turchi, arabi, occitani, armeni, siciliani, greci vixerunt, anche se di fuori sgambettano, la loro anima giace strangolata nel sottosuolo della storia, lo spettacolo, la scena, le parole sono sfoghi di vento, non c’è nulla dietro, popoli finiti… Sono i Mediterranei, morti come il loro mare, una specie mentalmente estinta, anche se in spermatozoi vivace ancora, ma non riproducono che sfinimento». Così il torinese Guido Ceronetti nel suo viaggio in Italia, ed è questo il mantra della parte “colta” del Paese.  Una maggior capacità di approfondimento, forse, avrebbe fatto capire meglio le ragioni per cui Maradona diventa un simbolo di riscatto. Ogni napoletano si riconosce in questo ragazzo nato a Buenos Aires. Voglio diventare l’idolo dei ragazzi di Napoli. Per cui finisce la storia d’amore tra Maradona e l’Italia ma non tra Maradona e Napoli. Perché la città lo sente come suo difensore rispetto a tutti i torti subiti da una colonizzazione che continua. E così la Rai che si permette di parlare in libertà, dando una immagine che certo non incoraggia i visitatori potenziali a confermare un viaggio, in una delle città più belle d’Italia che però nella classifica dei visitatori viene al 16° posto tra le città italiane con 3.200 presenze contro i 10 milioni di Firenze, così come Palermo viene al 38° posto, precedute entrambe da Riccione e Lazise.

GLI STEREOTIPI FASULLI. Per cui la gente oggi pensa di evitare un viaggio in una realtà descritta come un far west incontrollato. “Addà passá a nuttata” direbbe Edoardo De Filippo pensando a quel popolo stretto e accalcato in questi vicoli vocianti protagonista di una quotidiana messinscena con il viso segnato dalla malinconia! Perché la Napoli che non ha diritto di cittadinanza è quella dei ragazzi costretti a emigrare perché è morta anche la speranza di trovare un posto di lavoro nella Regione. Sono illuminanti le battute tratte dal film di Massimo Troisi “Ricomincio da tre”: «Ah lei è napoletano! Emigrante?». Eh sì, perché il meridionale scansafatiche, pizzaiolo, mandolinaro, poltronaro e con il reddito di cittadinanza oggi deve essere solo emigrante. Purtroppo anche la Rai, come tutti i media nazionali, non riesce a discostarsi da un approccio coloniale rispetto al Mezzogiorno e a una visione stereotipata che, piuttosto che valorizzare le bellezze di quella che è stata una delle capitali europee, insieme a Parigi e Londra, quando la Milano da bere era una piccola realtà di una zona nebbiosa, ne amplifica i tanti vizi che certamente esistono. Ma è un approccio che riguarda tutto il Sud, per cui se la sanità in Calabria non è all’altezza è colpa della ’ndrangheta e quindi dei calabresi, anche se la sanità in quella Regione è commissariata dallo Stato da oltre 10 anni. E il mantra che bisogna far correre Milano anche se Napoli affonda viene ripetuto da una classe dirigente settentrionale che non riesce a capire che la mediterraneità dello stivale è una virtù che va valorizzata più che un vizio che va represso.

LA MISTIFICAZIONE. E anche il miracolo di San Gennaro diventa in questa logica per Corrado Augias un evento da popoli sottosviluppati che credono a miracoli fasulli e viene affiancato ad un esperimento dell’ateo principe di Sansevero. Per cui ancora dai visitatori che, malgrado la vulgata di un Mezzogiorno da evitare, riportata ovviamente sui media internazionali, riescono ad arrivare a visitarlo, si sentono esclamazioni di meraviglia, perché le attese erano di dover uscire dall’albergo con il giubbotto antiproiettile. Anche l’accostamento con la cultura della morte delle anime pezzentelle dà una immagine lugubre di una città nella quale la luce e il colore sono invece i tratti predominanti. Nulla della grande tradizione della canzone napoletana, conosciuta in tutto il mondo, nulla di quel «’o sole mio» più noto dell’inno di Mameli. Nulla della grande tradizione giuridica, nulla degli ultimi 160 anni di unità che l’hanno degradata a periferia di un Paese proprio per questo ormai in declino. Purtroppo Augias di fronte a un impegno importante come raccontare Napoli o anche Palermo, si è fermato a tanti luoghi comuni. Il cambio di passo che serve ai nostri media per interpretare realtà in profondo cambiamento, come quelle del Sud, con una gioventù vivace che rappresenta il vivaio artistico nella musica come nel teatro nel cinema e nelle arti non si riesce ad avere. Più facile rifugiarsi nella storia da raccontare della camorra che, certamente, è ancora un dramma ma che è frutto di accordo scellerato tra classi dominanti locali e potere centrale che non ha impiegato tutta la sua forza per combatterla e annientarla, rimane il logo caratterizzante.

I pregiudizi territoriali ed economici.

Mio nonno contadino ed analfabeta diceva: “Son ricchi. Hanno rubato. Io lavoro tutto il giorno e non divento ricco”. Ergo i ricchi sono ladri. La verità è che non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali.

Mia zia emigrata al nord diceva: qua non è come "da voi", è meglio qua, tutta un'altra cosa. La verità è questa: è emigrata perchè non aveva nè arte, nè parte, nè degni natali. Per rivalsa è diventata rinnegata. La verità dei rinnegati è che, appunto per invidia, rinnegano le loro origini. Non sanno che sono condannati al limbo: saranno sempre terroni per i corona polentoni e corona polentoni per i terroni.

I Settentrionali puri conosciuti al Nord hanno sempre dei pregiudizi sui Meridionali: siamo tutti pregiudicati (da pregiudizio). Ergo: pregiudicati uguale a delinquente ed essendo del Sud siamo tutti delinquenti mafiosi. La verità è che sono ignoranti, resi tali dai media prezzolati dalla Finanza del Nord, e sono in malafede perchè vogliono le risorse finanziare pubbliche tutte per loro e lo sfruttamento delle risorse umane meridionali per i loro fini. E' l'invidia di non avere il mare, il sole e di non essere gente del sud solidale e con la luce nel cuore.

Quindi se per i comunisti e per i settentrionali siamo mafiosi, noi meridionali non abbiamo diritto a gestire le nostre risorse se non dimostriamo di non essere mafiosi.

In Italia l’onere della prova è ribaltata: i ricchi ed i meridionali devono dimostrare di essere onesti, mentre gli accusatori non devono dimostrare di essere bugiardi e razzisti.

Il Sud «condannato» a non cambiare dai suoi stessi scrittori. Esce un importante saggio dello studioso lucano Giuseppe Lupo: da Verga a Saviano una linea immobilista Vittorini e Nigro fra le eccezioni. Oscar Iarussi il  21 Aprile 2021 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Che cosa c’entra Boccaccio con la questione meridionale? C’entra, eccome, sostiene il nuovo libro dell’italianista Giuseppe Lupo, lucano di nascita, romanziere di successo e docente alla Università Cattolica di Milano e Brescia. La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli esce domani per i tipi di Rubbettino (pp. 279, euro 18,00). La letteratura meridionale e la nostra stessa visione del Sud, esordisce Lupo, sarebbero diversi se avesse prevalso «l’aria napoletana più che toscana, con giardini di arance e odore di mare» delle novelle del Decameron (Pasolini ambientò il suo film da Boccaccio sotto il Vesuvio), un’aria lieve che ritorna nel tono fiabesco del secentesco Lo cunto de li cunti del campano Giambattista Basile. Quel «narrare angioino» della Napoli di mercanti e artigiani, cioè estroso miracoloso fantastico, nel corso dei secoli è stato invece surclassato dalla «mentalità conservativa dei dominatori spagnoli (meglio sarebbe dire la presunzione aragonese di gestire un potere politico in termini suppletivi)». Tale primato avrebbe sottratto il Sud alle traiettorie della Ragione, tanto più dopo la traumatica sconfitta della Repubblica Napoletana del 1799, bloccandolo nella dimensione della «anti-storia» o della «non storia» di cui è ancora prigioniero. Del resto, la rivolta contro il tempo storico e «il mito dell’eterno ritorno», secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, sono le caratteristiche delle società arcaiche. Il Mezzogiorno entra nel canone della modernità a fine ‘800 - scrive Lupo - sotto il segno di Giovanni Verga con I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo: «Se da Manzoni la Storia veniva osservata come luogo del riscatto per gli individui, per Verga non c’è speranza di redenzione, non esiste prova che essa, la Storia, produca migliorie e modifichi le sorti degli uomini». Ecco la matrice o la quintessenza siciliana che presto si impone sul Meridione peninsulare e da cui deriva una tradizione pessimista fino alla paralisi, se non apocalittica. È la cornice nella quale Lupo iscrive - certo, con le varianti stilistiche e politiche dei singoli autori - Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo), Federico De Roberto (I Vicerè), Luigi Pirandello (I vecchi e i giovani), ma anche il Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli, Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro, Corrado Alvaro, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo, e via via fino a noi, L’inferno di Giorgio Bocca, I traditori di Giancarlo De Cataldo e Gomorra di Roberto Saviano. «Se fosse prevalsa la linea tracciata da Boccaccio e Basile, avremmo avuto una letteratura meridionale modulata sulla leggerezza dei sogni e sulle oscillazioni dell’immaginazione. Ma ha prevalso l’atteggiamento aragonese che negli esiti letterari ha provocato uno sguardo da archivista, ha ratificato l’assenza della borghesia e dunque il fallimento di qualsiasi spinta al progresso». Eccezioni o alternative? Lupo ne individua ben poche: l’anelito alla modernità politecnica di Elio Vittorini, siciliano a Milano, e del suo allievo Raffaele Crovi; l’approccio interdisciplinare di Leonardo Sinisgalli, lucano al Nord che si sottrae alle «viscere di una fascinazione leviana»; la vocazione riformista e federativa di Adriano Olivetti, piemontese impegnato nel dopoguerra tra Pozzuoli e Matera, che echeggia in un pamphlet di Riccardo Musatti (La via del Sud, 1955, riedito nel 2020 da Donzelli con un’introduzione di Carlo Borgomeo). Fra tutte, nell’analisi dell’autore, spicca l’anomalia virtuosa di Raffaele Nigro, fin da I fuochi del Basento (1987): «A più di quarant’anni di distanza dal Cristo leviano, Nigro capovolge i termini del narrare meridionale con un romanzo di pronunciate ascendenze manzoniane, dove coniuga documentazione d’archivio e creatività... Per aver riscritto il patto tra epica e questione meridionale, I fuochi del Basento restituisce dignità letteraria a un argomento piuttosto marginale come il brigantaggio, contribuendo alla sua rivitalizzazione». E proprio con Nigro e con altri studiosi come l’antropologo Vito Teti, da tempo Lupo è impegnato in una prospettiva «appenninica» della questione meridionale (le aree interne, la dorsale dall’Emilia alla Calabria), che rivendica più attenzione all’«osso» montuoso rispetto alla «polpa» delle pianure e delle coste, di fatto ribaltando il celebre paradigma postbellico dell’economista Manlio Rossi-Doria. Un’Italia solo apparentemente «minore», quella degli Appennini, tornata «di moda» in era Covid, che, scrive Lupo, andrebbe valorizzata dotandola di servizi (logistica, istruzione, sanità, banda larga) e non retrocessa a «nuova arcadia» per le fughe dalle città dei ricchi settentrionali in cerca di borghi abbandonati. L’Appennino assunto quale cardine ideale, equidistante tra Est e Ovest, tra Europa e Mediterraneo - leggiamo - anche rispetto al «pianeta meridiano» di Franco Cassano, il sociologo che ha rilanciato la necessità di un pensiero radicale del Sud. L’esegesi dei testi letterari da parte di Lupo è rigorosa e la sua ipotesi è suggestiva, feconda: questo libro farà discutere. A noi pare - come dire? - forse troppo «severo» verso Levi, che, verissimo, ricalca le allegorie dantesche nella esplorazione dell’inferno contadino dove fu esiliato dal fascismo, ma la cui modernità letteraria (e politica) è testimoniata per esempio da L’orologio e dalla stessa mistura fra reportage, saggio e romanzo del Cristo. Simile osservazione avanzeremmo rispetto a Scotellaro e ad altri autori meridionali che l’editore Vito Laterza negli anni ’50 fece confluire nei «Libri del Tempo»: Danilo Dolci, Tommaso Fiore, Leonardo Sciascia, Giovannino Russo. Le loro sono indagini vivide lungo il confine di stagioni e sfide nuove. Nondimeno, La Storia senza redenzione di Giuseppe Lupo è un saggio originale e importante sulla «vera grande frontiera che deve valicare la letteratura d’impianto meridionalista: quella dei rapporti tra realtà e rappresentazione, cioè tra documento e mimesi». Oltre la descrizione o la denuncia del «mondo così com’è», narrare sognare concepire un altro Sud è possibile.

·        La Cancel Culture.

Difesa contro manipolatori e iconoclasti. La difesa della storia di Massimo Salvadori, per non cadere nella cancel culture. Corrado Ocone su Il Riformista il 28 Novembre 2021. Ogni tanto compaiono appelli di docenti e studiosi tesi a salvaguardare lo studio e il ruolo della storia nei programmi scolastici ed universitari. Sarebbe un errore equiparare questi appelli ad altri simili che pure ci sono in difesa di altre discipline o materie di studio, ridurli ad una semplice rivendicazione corporativa. Nello studio e nella difesa della storia è in gioco qualcosa di più sostanziale, direttamente legato alla nostra civiltà. Il merito di farcelo capire, con appropriate argomentazioni e con uno stile semplice e immediato, è un prezioso volume che esce nelle “saggine” Donzelli, a firma di uno dei maggiori e più seri studiosi di storia del nostro paese, emerito dell’Università di Torino: Massimo L. Salvadori: In difesa della storia. Contro manipolatori e iconoclasti (pagine VIII-170, euro 18). Il libro, in verità, non è solo questo, ma una compiuta introduzione alla storiografia (in italiano il termina storia, ricorda opportunamente l’autore, indica sia la historia rerum gestarum, cioè appunto la storiografia, sia le res gestae, cioè l’insieme degli eventi “storici”). La prima domanda che Salvadori si pone è cosa debba intendersi per “senso della storia”. Nel rispondere, egli fa riferimento a due diversi concetti esprimibili con questa espressione: il primo concerne appunto il ruolo che in una società, o anche da parte di un individuo, si assegna alla storia; il secondo, alla direzione di marcia (progressiva o meno) che essa assume considerata nel suo insieme. Forse c’è però anche un terzo concetto, che pur non espresso è poi al fondo di queste pagine, ed è propriamente il “senso storico”, la consapevolezza che si ha della concatenazione e interdipendenza degli eventi passati, presenti e futuri. Ed è in questo preciso senso che assume un significato sia il discorso che Salvadori fa sul giudizio “positivo” o “negativo”, “ottimistico” o “pessimistico”, da dare del nostro passato; sia quello, ad esso connesso, della natura del genere umano, se l’uomo è cioè “buono” o “cattivo” per “natura”. Salvadori porta esempi e fa riferimento ad autori fautori dell’una o dell’altra posizione, concludendo, da parte sua, per un disincantato realismo o non dogmatico illuminismo che comunque lo porta a individuare in una possibile perfettibilità del genere umano un senso, seppur non garantito, del percorso storico. Lungo una linea che, anche politicamente, lo avvicina, come esplicitamente argomenta, al gradualismo dei riformisti e al compromesso socialdemocratico. Probabilmente, il discorso andrebbe posto anche su basi filosofiche, e quindi più radicali, arrivando ad ammettere non solo e non tanto la coappartenenza di bene o male nella natura e nella storia umane, ma anche il loro emergere da una comune radice vitale. Il che rende per principio impossibile e forse nemmeno auspicabile l’eliminazione del “negativo” dalla faccia della terra. Fatto sta che, anche limitandosi a un sano empirismo, è possibile, come Salvadori dimostra, demolire, in nome dell’autonomia della scienza storica, quella indebita intromissione della politica in essa che avviene sia attraverso la manipolazione ad uso del potere dei fatti accaduti (una propensione che è ovviamente soprattutto dei regimi dittatoriali e totalitari di ogni tempo); sia quella iconoclastia che oggi si esprime nella cancel culture, cioè nella tendenza a trasporre i nostri giudizi morali del presente sul passato: mettendoci in condizione nemmeno più di capirlo, e quindi di evitarne nella misura del possibile il riproporsi nei suoi aspetti più oscuri. Nel nome di una “riparazione morale” degli errori ed orrori commessi nel passato, i nuovi “crociati”, come li chiama, del “politicamente corretto restaurano l’indice dei libri proibiti, censurano le biblioteche, rimuovono quadri dalle pareti, abbattano statue. «Ciò facendo, sembrano non rendersi conto – scrive Salvadori- di riprendere gli atteggiamenti e le pratiche degli oscurantisti che li hanno preceduti dal medioevo in avanti, fino ad arrivare ai regimi totalitari e ai fondamentalisti islamici». Come a dire che gli estremi nelle vicende umane spesso si toccano. Il che è un altro insegnamento che la storia ci consegna e che oggi viene spesso dimenticato. A destra e a manca. Corrado Ocone

Il libro di Ricolfi e Mastrocola. Il manifesto del libero pensiero, chi sono i veri nemici del politically correct. Filippo La Porta su Il Riformista il 28 Novembre 2021. Siamo davvero convinti che il nemico principale – come una volta si diceva – sia la (pur dolciastra) retorica buonista e il (pur intimidatorio) politically correct? La mia stima, e simpatia, per Paola Mastrocola e Luca Ricolfi (la prima scrisse un coraggioso, onesto articolo che si sforzava di capire le ragioni della paura “popolare” dei migranti) non mi impedisce di formulare alcune considerazioni critiche sul loro Manifesto del libero pensiero. Dico subito che l’intenzione del libretto è meritoria e che la denuncia di un clima opprimente di censura, e autocensura, che riguarda la lingua, la parola “imbavagliata” e “sorvegliata”, mi appare necessaria. Ma l’assimilazione di tale clima alla “gigantesca astronave aliena “ che in Independence day oscurava il cielo e copriva intere città americane non mi persuade. È probabile che negli anni ‘70 si puntava a cambiare le parole perché non si voleva né poteva cambiare le cose, con esiti anche discutibili: la parola “negro”, usata comunemente da Pavese e Calvino, venne messa al bando. Da allora si cominciò a rinominare intere categorie: dunque a chiamare gli handicappati diversamente abili, le donne di servizio collaboratrici domestiche (che poi facevano e fanno tutto loro, altro che collaborare!), i becchini operatori cimiteriali, gli spazzini operatori ecologici, i ciechi non vedenti… In quegli anni Natalia Ginzburg volle condannare l’ipocrisia di questo uso del linguaggio, il disprezzo che implica verso il parlare della gente comune, che non appartiene all’élite che governa il discorso pubblico. Tanto che, secondo i due autori, nel XXI il politicamente corretto è diventato l’ideologia dell’establishment, con la inevitabile equazione sinistra=establishment. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi: tutti ultrapermalosi e inclini a pensarsi nel paradigma della vittima (bisognosi di tutela), fino a prescrizioni linguistiche involontariamente comiche (applicate a oggetti inanimati: non si deve più dire “jack maschile” o “jack femminile”) e fino alla “cultura della cancellazione” che potrebbe cancellare perfino Dante, non conforme agli attuali standard morali .Inoltre: chi decide quali sono le parole “giuste”? Passo ora al mio dissenso. Il pericolo che corre la nostra società non mi pare la promozione incessante del bene, benché questa sia divenuta una retorica che copre spesso interessi corporativi. Come ci sono una Costituzione formale e una materiale, così c’è il buonismo formale, esibito magari strumentalmente dall’establishment (anzi da una parte sola dell’establishment), e il “cattivismo” materiale che continua a dominare il senso comune, l’immaginario collettivo e la chiacchiera da bar. Non occorre particolare immaginazione sociologica per vederlo. Basterebbe ricordare i modi di dire e i tic linguistici – specchio veridico della mentalità – degli ultimi due decenni: “E’ un problema tuo”, “Non me ne può fregare di meno”, “Sti cazzi”, “Vaffa”, etc. Vi sembrano modi buonisti? Basta poi fare zapping sui nostri talk, pomeridiani e serali: l’impressione è che in questo Paese nessuno si vergogna più di niente. Sono state sdoganate le battute più oscene, aggressive, oltraggiose. Almeno l’ipocrisia conteneva – come sappiamo dai classici – un omaggio del vizio alla virtù. Oggi invece esistono solo omaggi del vizio al vizio stesso! Un Paese intero amputato del super-io. Una popolazione finalmente “liberata”, incapace di qualsiasi controllo critico sulle proprie pulsioni. Da cosa è formato oggi il senso comune? Elenco un po’ alla rinfusa. Guai agli “sfigati” (parola-tormentone di questi anni), ai perdenti, a chi non riesce a “stare sul pezzo”. Ammirazione per i furbi, per i potenti, per chi ce l’ha fatta, anche con mezzi illeciti (siamo il paese di Machiavelli), tanto siamo tutti corrotti e il più pulito c’ha la rogna. L’idea che i ricchi hanno più talento, più voglia di lavorare mentre i poveri sono colpevoli della loro condizione (tutt’al contrario che nel Medioevo: per Dante non solo l’arricchimento personale è del tutto casuale ma i ricchi sono in genere i più malvagi). Di qui il disprezzo per chi guadagna poco (i genitori benestanti di un liceo romano consolavano i loro figli bocciati dicendo loro che tanto gli insegnanti “so’ dei morti de fame, con quegli stipendi”). La convinzione che è più saggio farsi i fatti propri (il celebre “I care” sarebbe stato inviso a don Abbondio). La complicità cercata quasi sempre sulla volgarità. La esibizione sfrontata dei consumi esclusivi. Una certa perversa equazione tra cattiveria e intelligenza ( a pensar male degli altri ci si coglie, no? e invece il punto è che non ci si coglie quasi mai!). Insomma, a me pare che nessuna dittatura delle parole imbavagliate, nessuna “furia del politicamente corretto” riesca a incidere su questo fondo granitico della mentalità collettiva, su questo sottosuolo condiviso di idee ricevute e umori irriflessi (non lo chiamo “eterno fascismo” degli italiani solo perché potrebbe evocare un tratto ideologico e invece è più antropologico). Non si tratta tanto di una parte dei nostri concittadini, ma di qualcosa che riguarda ciascuno di noi, almeno in parte. Infine: Mastrocola e Ricolfi – che, anche loro!, si sentono “vittime” di qualcosa (appunto il “clima opprimente, etc.”)- ritengono non censurabile l’espressione “afflitto da una disabilità”. Ora, non intendo negare che una disabilità può affliggere chi ne è portatore. Ma appunto: “può” affliggere, così come “può” stimolare altre abilità, altre capacità, etc. Questa espressione mi ricorda un modo di dire – questo sì veramente odioso – adoperato universalmente negli anni ‘60. Quando si vedeva passare un tale su una sedia a rotelle si diceva: “Quell’infelice…”. Una espressione che suona come condanna senz’appello e che rivela una prevaricazione, una singolare prepotenza morale (dando inoltre per implicito che chi la pronuncia si sente chissà perché al riparo dall’infelicità). Il politically correct, con i suoi eccessi e benché contenga dei rischi per la libertà d’espressione, è comunque la degenerazione o il fraintendimento di un principio giusto (di rispetto per l’altro, per la sua diversità e difformità). Mentre dire “quell’infelice” quando passa un disabile non è la degenerazione di nulla ma solo pura barbarie. Filippo La Porta

Gli incancellabili. Bari Weiss, Kathleen Stock e altri critici della cancel culture hanno fondato la loro università. L'Inkiesta il 9 novembre 2021. Si chiama The University of Austin e vuole accogliere «le streghe che si rifiutano di bruciare al rogo», ha scritto la stessa Weiss su Twitter. Darà lavoro a professori “cancellati” come la filosofa Kathleen Stock, il geofisico Dorian Abbot e il filosofo Peter Boghossian. Il mondo accademico americano ha un nuovo protagonista: la newsletter sulla piattaforma Substack di Bari Weiss, la ex giornalista del New York Times licenziata per aver espresso opinioni difformi dalla linea editoriale della testata in nome della libertà di espressione, ha annunciato la fondazione della University of Austin, un nuovo ateneo che descrive se stesso come «dedicato all’impavida ricerca della verità». L’annuncio è stato dato da un post scritto da Pano Kanelos, ex presidente del St. John’s College di Annapolis, in Maryland, che assumerà la carica di rettore del nuovo ateneo. «C’è un abisso tra le promesse e la realtà dell’istruzione superiore», ha scritto Kanelos. «Il motto di Yale è “Lux et Veritas”, luce e verità. Harvard proclama: “Verità”. AI giovani uomini e alle giovani donne di Stanford viene detto ”Die Luft der Freiheit weht“, soffia il vento della libertà. Sono parole elevate. Ma in questi atenei di vertice, e in tantissimi altri, possiamo davvero dire che la ricerca della verità – un tempo l’obiettivo principale di un’università – rimane la più alta delle virtù? Crediamo onestamente che i mezzi cruciali per raggiungere tale scopo – la libertà di indagine e un discorso civile – prevalgano, quando l’illiberalismo è diventato una caratteristica pervasiva della vita del campus?».

Dopo aver passato in rassegna alcuni dati a suffragio di questa prospettiva – tra gli altri, quattro su cinque dottorandi americani sono disposti a discriminare gli studiosi di destra, secondo un rapporto del Center for the Study of Partisanship and Ideology, e quasi il 70% degli studenti è favorevole a segnalare un professore che dice qualcosa che gli studenti trovano offensivo, per un sondaggio del Challey Institute for Global Innovation  – il neo rettore spiega: «Pensavamo che una simile censura fosse possibile solo sotto regimi oppressivi in ​​terre lontane. Ma abbiamo scoperto che la paura può diventare endemica anche in una società libera».

Da qui, l’idea di reagire con la fondazione di una nuova università. Anche perché, dice Kanelos, è inutile sperare nelle strutture esistenti: «Abbiamo smesso di aspettare che le università tradizionali si raddrizzino da sole».

Della University of Austin fanno già parte lo storico Niall Ferguson, la già citata Bari Weiss, la biologa evoluzionista Heather Heying, il professore di scienze sociali Arthur Brooks, la filosofa Kathleen Stock, il giornalista ex columnist del New York Magazine Andrew Sullivan, il geofisico Dorian Abbot e il filosofo Peter Boghossian. Molti di questi personaggi – come Stock, Abbot e Boghossian – sono freschi protagonisti di allontanamenti obbligati dai loro posti di insegnamento superiore, per aver in vario grado manifestato opinioni critiche sgradite a diversi loro studenti (Stock sull’identità di genere, Abbot sulla affirmative action).

Ferguson ha commentato l’iniziativa con un op-ed pubblicato da Bloomberg: «Avendo insegnato in diversi atenei, tra cui Cambridge, Oxford, New York University e Harvard, sono giunto a dubitare che le università esistenti possano essere rapidamente curate dalle loro attuali patologie», ha scritto lo storico. Puntualizzando, però, che «non c’è bisogno di immaginare una mitica età dell’oro. Le università originarie erano istituzioni religiose, impegnate nell’ortodossia e ostili all’eresia come i seminari woke di oggi».

Per quale motivo il clima corrente è un problema? Secondo Ferguson, «gran parte delle principali scoperte scientifiche del secolo scorso sono state realizzate da uomini e donne i cui lavori accademici hanno dato loro sicurezza economica e una comunità solidale in cui svolgere il loro lavoro al meglio. Le democrazie avrebbero resistito alle guerre mondiali e alla guerra fredda senza il contributo delle loro università?».

Nella lettera fondativa della University of Austin, si legge che il gruppo dietro l’iniziativa è variegato, sia come provenienze che come posizionamento politico: «I nostri background ed esperienze sono diversi; le nostre opinioni politiche differiscono. Ciò che ci unisce è un comune sgomento per lo stato dell’accademia moderna e il riconoscere che non possiamo più aspettare la cavalleria. E quindi dobbiamo essere noi stessi la cavalleria».

Cosa si imparerà a Austin? Sempre secondo Kanelos: «Il nostro curriculum sarà il primo progettato in collaborazione non solo con grandi insegnanti, ma anche con i grandi attori della società: fondatori di imprese coraggiose, dissidenti che si sono opposti all’autoritarismo, pionieri della tecnologia e leader nell’ingegneria e nelle scienze naturali. I nostri studenti saranno esposti alla saggezza più profonda della civiltà e impareranno ad avvicinarsi alle opere non come a tradizioni morte ma come a fiere competizioni di eterna importanza che aiutano gli esseri umani a distinguere tra ciò che è vero e falso, buono e cattivo, bello e brutto. Gli studenti arriveranno a vedere questa prospettiva di indagine libera e aperta come un’attività che impegna tutta una vita e richiede una ricerca coraggiosa, e a volte fastidiosa, di verità durature».

La "cancel culture" all'italiana: gruppi Lgbt contestano Scalfarotto. Roberto Vivaldelli il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Il coordinamento Palermo Pride contro la presenza di Ivan Scalfarotto alla presentazione del libro di Francesco Lepore "Il delitto di Giarre. 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia". Il Ddl Zan non ti convince al 100%? Non meriti di parlare e partecipare alla presentazione di un libro. Se pensate che la cancel culture in Italia non esiste, chiedete a Ivan Scalfarotto, sottosegretario al ministero dell'Interno ed esponente di Italia Viva, invitato a partecipare alla presentazione de "Il delitto di Giarre. 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia' di Francesco Lepore, organizzata a Palazzo delle Aquile, a Palermo. Gli organizzatori avevano chiesto a Luigi Carollo, uno dei portavoce del Palermo Pride, di portare i saluti alla presentazione ma l'invito è stato rifiutato per la presenza di Scalfarotto: "Riteniamo irricevibile l'invito dell'amico Francesco Lepore a un tavolo in cui siede chi ha svenduto i nostri diritti sull'altare delle mediazioni di governo già nel 2013 - ha fatto sapere il direttivo di Coordinamento Palermo Pride, in riferimento alla presenza del sottosegretario al ministero dell'Interno -. Non tollereremo oltre lezioni sulla buona politica e sulla necessità di mediare per ottenere una legge". "Non rinuncio al dibattito per proteste, non cambio idea", la replica di Scalfarotto, citata dall'Agi. "Nessuno si può aspettare che io rinunci a venire a Palermo perchè qualcuno fa una manifestazione contro di me". "Non trovo mai particolarmente elegante quando si individua un nemico singolo, quando si dice che il problema è Ivan Scalfarotto - ha proseguito -.Non credo sia una buona pratica politica perchè si corre il rischio di additare all'odio social un individuo. Se le associazioni vogliono contestarmi sono libere di farlo - ha concluso - ma non pensino che io cambi idea". Rispetto al Ddl Zan, Scalfarotto ha sottolineato che "è stato gestito malissimo. E' stato portato consapevolmente contro un muro, perché a luglio si era avuta una votazione palese nella quale non eravamo andati sotto per un voto. Si sapeva che questa era una votazione rischiosissima e che i numeri del Senato non sono quelli della Camera". Nel frattempo, davanti a Palazzo delle Aquile, a Palermo, è stato allestito un sit-in per protestare dopo la mancata approvazione del disegno di legge. Circa un centinaio di persone hanno protestato esponendo uno striscione con la scritta "Ma quali accordi? Ma quale mediazione? Sui nostri corpi nessuna mediazione". Non basta essere come Scalfarotto, che ha dedicato una vita a supportare le battaglie contro le discriminazioni sessuali. Per gli ultra-progressisti l'esponente di Italia Viva non meritava nemmeno di presenziare e intervenire alla presentazione di un libro alla quale era stato invitato. Un atteggiamento da sinceri democratici. Come se, peraltro, la bocciatura del Ddl Zan non avesse un unico vero responsabile, quel Partito democratico che ha voluto, a tutti i costi, andare al muro contro muro, rimediando una sonora sconfitta - largamente prevedibile - in Parlamento. Ma in questo caso Ivan Scalfarotto ha finito con l'essere il facile capro espiatorio di una sinistra che non tollera posizioni divergenti al suo interno.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

 Scontro sui gay, il Palermo Pride: «Non ci sediamo allo stesso tavolo con Scalfarotto». Tensioni dopo l'affossamento del ddl Zan. La replica del sottosegretario di Italia viva: «L'idea che le battaglie di principio delle persone Lgbt debbano sfociare sistematicamente nel nulla mi pare fallimentare». Il Quotidiano del Sud il 4 novembre 2021. L’onda lunga delle polemiche dopo l’affossamento del ddl Zan continua a produrre i suoi effetti. L’ultimo duello a distanza vede protagonisti il Coordinamento Palermo Pride e il sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto. Ad accendere la miccia la presa di posizione del Coordinamento rispetto alla presentazione del libro ‘Il delitto di Giarre. 1980: un caso insoluto e le battaglie del movimento LGBT+ in Italia’, di Francesco Lepore, organizzata a Palazzo delle Aquile.

C’È SCALFAROTTO? NON VENIAMO

Gli organizzatori avevano chiesto a Luigi Carollo, uno dei portavoce del Coordinamento, di portare i saluti alla presentazione ma l’invito è stato rifiutato per la presenza di Scalfarotto: “Riteniamo irricevibile l’invito dell’amico Francesco Lepore a un tavolo in cui siede chi ha svenduto i nostri diritti sull’altare delle mediazioni di governo già nel 2013 – ha fatto sapere il direttivo di Coordinamento Palermo Pride, in riferimento alla presenza del sottosegretario al ministero dell’Interno –. Non tollereremo oltre lezioni sulla buona politica e sulla necessità di mediare per ottenere una legge”. La nota poi prosegue citando lo slogan del Pride andato in scena il 30 ottobre nel capoluogo siciliano: “Ma quali accordi? Ma quale mediazione? Sui nostri corpi nessuna condizione”. Poi l’affondo su Scalfarotto: “Nel 2013 stava già smontando la legge Reale Mancino cedendo alle provocazioni dell’Udc e dell’ala cattodem del Pd. Scalfarotto oggi sostiene che sul ddl Zan era necessario mediare: ma su cosa? Sull’identità di genere e sulla scuola ovviamente. I nostri diritti sono stati svenduti sull’altare delle trattative per costruire una nuova coalizione politica di centrodestra che va da Italia viva fino alla Lega. In pieno accordo con Luigi Carollo, invitato come portavoce del Coordinamento Palermo Pride – continua la nota – non parteciperemo quindi alla presentazione del libro”.

LA REPLICA DEL SOTTOSEGRETARIO

A stretto giro di posta è arrivata la replica di Scalfarotto: “Come uomo politico so bene che le tutte mie decisioni sono oggetto di scrutinio e di possibili contestazioni, naturalmente del tutto legittime. E tuttavia mi pare necessario sgombrare il campo dal sottotesto di questa manifestazione e di numerosi messaggi che ho ricevuto in questi giorni, e cioè che il fatto di essere io stesso omosessuale debba vincolarmi in qualche modo a una unicità di pensiero, o a una fedeltà obbligatoria alla linea politica del mondo associativo – ha affermato –. Vorrei chiarire ora e per sempre che il fatto che io sia gay, insomma, non mi impedisce di pensarla diversamente dal Palermo Pride o da altre associazioni LGBT e di rivendicare con piena convinzione la fondatezza delle mie opinioni”.

E ancora: “L’idea che la battaglia delle persone LGBT in Italia debba risolversi in grandi battaglie di principio che sfociano sistematicamente nel nulla mi pare del tutto fallimentare. Se non si fanno le leggi, la testimonianza potrà forse servire alla carriera di qualcuno ma non produrrà nessun cambiamento reale nella vita della moltitudine dei nostri concittadini omosessuali, bisessuali e trans. Non erano leggi perfette né la legge sul divorzio, né quella sull’aborto, né quella sulle unioni civili, ma non rinuncerei mai a nessuna di quelle leggi in nome di un ‘tutto o niente’ che il più delle volte ti lascia col niente in mano”.

Secondo Scalfarotto “la gestione del cosiddetto disegno di legge Zan è stata frutto di un’imperdonabile incompetenza o di un incredibile cinismo. In una situazione come quella del Senato, completamente diversa quanto ai numeri rispetto a quella della Camera, essere rifuggiti da ogni compromesso – ha aggiunto – ci lascia oggi senza alcuna tutela giuridica contro l’omotransfobia”.

E infine: “Il Palermo Pride è libero di pensarla come vuole ma spero la medesima libertà di opinione sia concessa a me, che da parlamentare rappresento la nazione e non le associazioni rappresentative della minoranza cui appartengo. Piaccia o no al Palermo Pride, io sono parte di questa comunità, senza bisogno di autorizzazioni o di patenti da parte di chicchessia. Parlano per me la mia vita, il mio lavoro, la trasparenza e l’orgoglio con il quale ho sempre vissuto”.

Al fianco di Scalfarotto anche il capogruppo di Italia viva al Senato Davide Faraone: “Ivan sui diritti civili non prende lezioni da nessuno, la sua vita lo testimonia, le sue battaglie lo dimostrano. Noi domani saremo al suo fianco”.

La mostrificazione del dissenso. La scalfarottofobia e altre crociate fesse che ci meritiamo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Ennesimo giro di lagne di cancellettisti poco lucidi su come funzioni la realtà. Eppure basterebbe vedere Quinto Potere o il Diavolo veste Prada per capire che conta l’economia, non la trasformazione dei propri cancelletti in disegno di legge. Chissà perché non proiettano “Quinto potere” nelle scuole. Me lo chiedo ogni giorno, assistendo allo spettacolo d’arte varia degli inquilini dei social che trasecolano perché il loro cancelletto non è diventato legge, norma, educazione collettiva. Perché i loro buoni sentimenti non regolano il mondo. Perché la loro bellezza interiore non è apprezzata. «Si alza, dentro al suo piccolo schermo a ventuno pollici, e ulula dell’America e della democrazia. Non c’è nessuna America, non c’è nessuna democrazia. Ci sono solo la Ibm, e la Itt, e la At&t, e Dupont, Dow, Union Carbide, e Exxon. Queste sono oggi le nazioni del mondo. Di cosa crede parlino i russi nei loro consigli di Stato: di Karl Marx?». Tra dieci giorni “Quinto potere” compie quarantacinque anni, sono quarantacinque anni che Howard Beale dal televisore esorta gli americani ad affacciarsi alla finestra e a urlare che non ne possono più (pensateci, quando vi fate la bislacca idea che il populismo nell’era dei mezzi di comunicazione di massa l’abbiano inventato Gian Antonio Stella o Beppe Grillo o Donald Trump), e sono quarantacinque anni da quando quello che era diventato un format che moltiplicava gli ascolti si trasformava in un danno, troppe prediche anticapitaliste e gli arabi avevano ritirato gli investimenti e il capo della multinazionale lo convocava e gli faceva una stupenda tirata (Paddy Chayefsky, lo sceneggiatore, era imbattibile sulle tirate).

Sono quarantacinque anni che non serve aver studiato: basta essere andati al cinema, per capire che conta solo l’economia. E invece.

E invece ti aggiri per i social – che forse sono persino specchio della realtà, anche se l’idea mi terrorizza: voglio credere ci siano, nascosti in capanne di Unabomber non cablate, cittadini sani di mente – e gli adulti sembrano cinquenni che frignano perché la mamma non gli vuole abbastanza bene.

Che la mamma sia la Rai, che scrittura per Sanremo il più formidabile intrattenitore italiano (roba che il secondo, chiunque egli sia, sta tre giri di pista più indietro) e lo fa senza filarsi il collegio elettorale di Twitter che ne disapprova il mestiere. Il mestiere di fare tutte le battute che vuole e non scusarsi quando qualcuno immancabilmente s’offende. Con che coraggio la Rai chiama Fiorello, quando il cugino di Paperina72 fa ridere sempre tutti senza mai offendere nessuno alle cene di Natale?

Che la mamma sia Ivan Scalfarotto, colpevole di aver sottolineato la distinzione colpevole di aver sottolineato la distinzione tra stalinismo e appartenenza a una sinistra occidentale: «Vorrei chiarire ora e per sempre che il fatto che io sia gay, insomma, non mi impedisce di pensarla diversamente dal Palermo Pride o da altre associazioni LGBT e di rivendicare con piena convinzione la fondatezza delle mie opinioni». Scalfarotto – riassumo casomai foste persone serie e non buttaste energie a seguire la polemica scema dell’ultimo quarto d’ora – ha osato essere invitato a presentare il libro di Francesco Lepore sul delitto di Giarre.

Libro che evidentemente le associazioni gay che hanno invitato a boicottare l’incontro non hanno letto, così come non hanno letto il sussidiario alle elementari, sennò i fondamentali di come la politica sia l’arte del compromesso non glieli dovrebbe spiegare Scalfarotto.

Che peraltro spiega loro anche che, con una simile intolleranza e mostrificazione del dissenso, danno ragione a chi temeva che la Zan fosse un pericolo per la libertà d’opinione: «Certo, non posso non notare che avranno gioco facile coloro che, sulla base di questa contestazione dell’associazionismo LGBT nei confronti di una persona omosessuale “non allineata”, probabilmente affermeranno che il proposito di quella parte del mondo LGBT italiano non fosse quello di arrivare a una legge che ispirasse il nostro ordinamento a principi di inclusione e di rispetto ma di limitare la libertà di opinione di coloro che la pensano diversamente. Un altro capolavoro politico, non c’è che dire».

Poiché c’ero, all’alba dei social, e ricordo bene quando parlavamo di Scalfarotto come fosse un cretino, devo dirvi che mi fa una certa impressione ritrovarmi qui a constatare la sua lucidità e a vergognarmi d’averlo sottovalutato. C’entreranno gli orbi in terra di ciechi, certo, ma insomma una riflessione su questo tempo che ci costringe a considerare Berlusconi uno statista e ad avere nostalgia di Forlani andrà fatta. Aver avuto vent’anni quando si considerava il punto più basso della storia dell’uomo il fatto che a vincere le elezioni fosse stato un partito con dentro Lucio Colletti può essere fonte d’un certo qual imbarazzo retrospettivo, se campi abbastanza a lungo da veder vincere le elezioni un partito con dentro Alessandro Di Battista.

(Dice Di Battista, l’Howard Beale che questo secolo si può permettere, che parte in tour per vedere se esiste la «richiesta collettiva» di una nuova forza politica che in caso lui fonderebbe, a gentile richiesta. Speriamo sia un tour in cui fa i grandi successi e non i pezzi nuovi, almeno).

Ma torniamo all’elenco delle mamme anaffettive, quelle che fanno piangere l’adulto cinquenne dell’internet. Un ruolo che riesce a toccare persino a me, con tutta la devozione che ho per la mia sterilità.

Pochi giorni fa alcuni adulti hanno frignato perché ho scritto che i maschi si sono appropriati del rosa. Citavo un golfino di Prada con cui Jake Gyllenhaal si è fatto fotografare sulla copertina dell’inserto patinato del Sunday Times. Poiché gli adulti cinquenni non solo non hanno sfogliato il sussidiario da piccoli né Karl Marx da grandi, ma neanche hanno visto il Diavolo veste Prada, pensano che quel golfino rosa parli della loro libertà d’espressione e della loro identificazione di genere; non del fatto che, se riescono a vendere il rosa ai maschi, le multinazionali della moda fattureranno molti più golfini.

Dice Aaron Sorkin, sceneggiatore ed erede della passione di Chayefsky per le invettive, che nessuno, «neanche Orwell, ha visto il futuro con la precisione di “Quinto potere”».

Certo, l’everyman che non capisce la prevalenza dell’economia non è più un conduttore televisivo, e i social e i loro abitanti sono come l’inquisizione spagnola dei Monty Python: nessuno se li aspettava. Ma sono dettagli.

Ieri sfogliavo un New Yorker del 1998. C’era una vignetta in cui un padre indicava al figlio il panorama fuori dalla finestra: «Un giorno tutto questo sarà di Bill Gates». Il fatto che dica Gates e non Zuckerberg la rende datata. Datata, mica inattuale. Mica se nell’invettiva di “Quinto Potere” ci sono multinazionali di cinquant’anni fa allora è meno illuminante. Mica siamo ancora così scemi da pensare che il segno della nostra affermazione personale sia un golfino rosa, o urlare alla finestra. O sì?

Il dibattito pubblico americano sulla cancel culture. Davide Piacenza su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Il giornalista-attivista Michael Hobbes ha smentito la narrazione mediatica delle vittime dei Nuovi Puritani del saggio di Anne Applebaum, ma nella smentita ha mentito. Così non se ne esce. Da qualche tempo mi sono convinto che il complesso (ma più spesso: insostenibile) dibattito sulla cancel culture versi in uno stato degradante per colpa – o meglio: per dolo – di chi lo alimenta e indirizza. Da una parte ci sono i media per così dire tradizionali, per cui al primo vestito cambiato a Jessica Rabbit ci troviamo, scava scava, in presenza di segni di un preoccupante effetto domino che ci porterà a cancellare Manzoni e i classici; nell’angolo opposto altri media, influencer, memer, pagine Facebook e giornalisti-attivisti (il confine è sempre più labile), la cui priorità è diventata certificare che non sta succedendo niente, a prescindere dall’evidenza. Per una somma di contraddizioni in termini ed eterogenesi dei fini, al secondo fronte si è progressivamente unita anche una categoria del giornalismo diventata – talvolta con merito – imprescindibile negli ultimi anni: il debunking. Col debunking (o, per usare un sinonimo, fact-checking), vuole l’adagio, si possono mettere in fila i fatti di un dato fenomeno, disinnescandone coperture parziali, viziate o direttamente falsarie. Ma allora, com’è possibile che un giornalismo che “guarda ai fatti” sia diventato un giornalismo che li riplasma, per farli rientrare in una tesi precostituita? Un caso emblematico è quello di Michael Hobbes, giornalista americano che qualche giorno fa ha condiviso un viralissimo debunking del celebre saggio scritto sul tema da Anne Applebaum sull’Atlantic, che aveva ricostruito le vicende personali di diversi personaggi vittima di una nuova forma di gogna violenta, quella ispirata – sebbene molto lascamente – all’inclusività. Hobbes dice fin dal sottotitolo del suo intervento che si tratta di «scare stories», cioè di storie costruite ad arte per spaventare il pubblico, e nell’incipit le paragona a quando, negli anni Novanta, i media convinsero gli statunitensi dell’esistenza di un’ondata di liti temerarie che intasavano la macchina della giustizia nazionale. Lo stesso, secondo Hobbes, sta succedendo oggi col cosiddetto «moral panic journalism» di cui la stessa Applebaum – insieme all numero dell’Economist dedicato alla «minaccia della sinistra illiberale» – può essere elevata ad esempio da decostruire e criticare. Ma è davvero così? Da chi, come Hobbes, punta il dito sullo «stesso ragionamento motivato, le stesse prove inesistenti e gli stessi indifendibili standard editoriali che disinformarono il pubblico sulle liti temerarie», ci si aspetterebbe quantomeno una corretta verifica delle vicende su cui promette di gettare una luce “terza”, non-motivata e capace di riportare il discorso alla sua naturale dimensione. Se l’Atlantic e l’Economist stanno plagiando i loro lettori per vendere qualche copia in più, per dire che il re è nudo non ci resta che raccontare la verità, giusto? Mirabile a dirsi, ma no: sbagliato. Nel suo Substack, Hobbes parla di «conseguenze professionali di routine» patite dalle persone intervistate da Applebaum, e per farlo e perorare la sua causa di pompiere falsa in tutto o in parte ogni singolo caso che passa in rassegna. Nella paziente e precisa risposta che gli ha dato l’autrice Cathy Young tutto diventa più chiaro, e – purtroppo per le migliaia di persone che hanno condiviso il suo intervento entusiasticamente – la malafede traspare in modo limpido e indiscutibile. Per entrare nello specifico delle menzogne del giornalista-debunker: non è vero che il compositore Daniel Elder, senza lavoro dopo un post su Instagram in cui criticava rispettosamente il rogo del municipio della sua città durante una manifestazione di Black Lives Matter, è stato semplicemente «ritirato dalle esibizioni» (la sua etichetta l’ha lasciato a piedi, semmai); non è vero che Alexandra Duncan, autrice di un libro di genere young adult che conteneva un capitolo scritto dal punto di vista di una ragazza nera, e per questo vittima di shitstorm d’accusa di cultural appropriation a profusione che l’hanno portata ad annullarne l’uscita, ha soltanto «ricevuto critiche per il concept di un manoscritto inedito e ha deciso di non pubblicarlo», come in una cordiale seduta di autocoscienza collettiva; non è vero che il dottorando Colin Wright, che non è riuscito a trovare lavoro dopo aver pubblicato alcuni saggi critici dell’identità di genere, abbia mai scritto che «le persone trans non esistono», come dice Hobbes; e non è vero neanche che la docente della New School Laurie Sheck, citando per esteso un brano dello scrittore afroamericano James Baldwin in cui appariva la “n-word” a una classe di scrittura creativa nel 2019, se l’è cavata con un rapido buffetto da parte dell’ateneo dopo essere stata segnalata da due studenti: è lei stessa ad aver spiegato di aver dovuto scrivere alla Foundation for Individual Rights in Education per uscire dall’impasse col suo datore di lavoro, durato mesi. E si potrebbe continuare, ma rimandiamo alla contro-disamina di Young. Il punto è che, ancora una volta, su questi temi i debunker devono essere debunkati a loro volta, perché anche quando si vendono come “terzi” e desiderosi di ripianare narrazioni mediatiche (che spesso sono oggettivamente fuori scala, va detto), in realtà stanno mettendo in circolo ulteriori balle, che si sommano alle tonnellate già riversate nel discorso pubblico. In Italia, ad esempio, la cosiddetta cancel culture – un’espressione che, per inciso, Anne Applebaum nel suo saggio cita soltanto per parlare di come la destra l’abbia resa un feticcio per «difendersi da critiche, anche legittime» – è stata accostata in interventi “di fact-checking” simili a semplici forme di «boicottaggio promosse online con cui ci si dissocia da aziende o celebrità che hanno manifestato comportamenti controversi od oltraggiosi». Una cosa che evidentemente non è, e una definizione parziale e fuorviante che non può che ostacolare la comprensione e, quindi, il dibattito su questi temi. La cancel culture non è affatto il maggior problema del 2021, siamo d’accordo: ma dato che non lo è, qual è il senso di arrabattarsi in difese d’ufficio contraddittorie, intenzionali confusioni di piani e menzogne dure e pure? Lo stesso Hobbes avrebbe potuto limitarsi a sostenere quel che pure sostiene nel suo j’accuse apparentemente terzista, benché confinato al finale del sermone: al potere negli Stati Uniti ci sono ancora personaggi che fanno un vario grado di comunella coi razzisti, e talvolta si indignano e vanno in guerra perché qualche professore di scuola media vuole dire due parole alle sue classi sulla schiavitù nella storia americana. Perché il fact-checker lo ha fatto solo tangenzialmente? Beh, perché non gli serviva a realizzare il suo vero intento: che i fascisti rimangano il pericolo peggiore lo dice, e senza mezzi termini, anche la stessa Applebaum, cioè la destinataria della sua aspra critica. L’oggettivo, neutrale e post-politico fact-checker si è trovato così in una posizione scomoda: come si fa a dare alla moderata anti-cancel culture della utile idiota dei reazionari, se è lei stessa a scrivere che il problema sono i reazionari? Hobbes nel suo testo la risolve col più penoso degli stratagemmi: accusa la storica di puntualizzarlo solo «dopo otto paragrafi», e in ogni caso di farlo in un articolo che parla di «Nuovi puritani», come se fosse un titolo incendiario. Potrebbe sembrare un caso qualunque, ma il pezzo di Hobbes negli ultimi giorni ha avuto migliaia di migliaia di condivisioni ed encomi negli Stati Uniti, anche da parte delle élite che dominano nell’estabishment dei media, della cultura e dell’università. Questa dinamica rende manifesto un dato di fatto a lungo ignorato: in un dibattito così ideologico e privo di sfumature, da una parte e dall’altra, sarà difficile trovare un “pacificatore” disposto a prendersi il peso di sbrogliare la matassa senza sposare totalmente la prospettiva di una singola fazione in lotta, perché significherebbe scontentare entrambe, addentrandosi in un campo minato in cui nessuno ha ragione in maniera univoca e definitiva. Non ci sono solo conservatori zittiti e cancellati a ogni piè sospinto, nelle guerre culturali americane, ma nemmeno soltanto attivisti vittime di isterie mediatiche. La realtà, anche se può non piacerci, è complessa. Al formato di articolo-del-debunker-che-ci-spiega-che-è-tutta-una-invenzione (o, nel caso inverso, che La-Fine-È-Vicina), di questi tempi, bisogna sempre fare una tara attenta e meticolosa. Non è oro tutto quel che luccica, anche se a prima vista sembra un metallo fatto apposta per una condivisione da nemesi dell’avversario. E si è visto: l’articolo “chiarificatore” dell’onesto Hobbes soltanto su Twitter ha cinquemila mi piace; quello che lo smentisce, di Cathy Young, qualche decina. Sipario.

«Il nostro dibattito sulla cancel culture? È troppo semplicistico e manicheo». Samuele Damilano L’Espresso il 23 settembre 2021. In Europa affrontiamo l’argomento in termini binari, decontestualizzati dalla traiettoria statunitense. Ma ci sono precise ragioni storiche che spesso sottovalutiamo e da cui nascono poi gli eccessi. Parla Mario Del Pero, professore di Science Po, che fa il punto sulla polemica sulla sinistra illiberale aperta dall’Economist. «Il dibattito in Europa e in Italia è troppo semplicistico, funzionale agli interessi di singoli. Non riesce a tenere conto delle tante variabili necessarie ad avere una lucida analisi». Mario Del Pero, professore di storia internazionale e statunitense a Science Po, prova a fare chiarezza sulla confusione che regna attorno ai temi della “sinistra illiberale” e della cancel culture. «Sono tre i capisaldi da tenere a mente: il riconoscimento degli eccessi da parte della cultura woke (ovvero l’allerta alle ingiustizie e discriminazioni razziali e sociali, ndr), le motivazioni storiche che ne sono alla base, e la contro-reazione che ne scaturisce».

Da qualche giorno si è aperto un dibattito sulla “sinistra illiberale”, dopo la copertina dedicatagli dall’Economist. Da professore di storia statunitense a Parigi, come si pone sull’argomento?

Innanzitutto, la discussione, in Italia come in Francia, viene portata avanti in maniera molto schematizzata, in termini binari e decontestualizzati dalla traiettoria storica statunitense. Ci sono evidenti eccessi woke, ne abbiamo molteplici esempi, anche caricaturali.

Che ripercussioni hanno questi eccessi sull’insegnamento?

Io insegno in un’università internazionale, che in alcuni campus ha più della metà degli studenti nordamericani, dunque vedo molto bene come tutto ciò incide sulla maniera di porci in aula. Mi è capitato per esempio di accostare l’aggettivo “sexy” alla tesi di dottorato di Condoleeza Rice, in quanto l’argomento della sua tesi di dottorato, scienza politica militare in senso stretto del termine, non era accattivante. Un gruppo di tre studentesse mandò allora una mail di protesta in cui sostenevano non fosse giusto accostare questo aggettivo alla prima donna afroamericana Segretaria di stato. Trovai l’episodio bizzarro perché gli statunitensi sanno perfettamente quali accezioni può avere il termine.

Come trovare dunque il compromesso?

Essere sensibilizzati e fare i conti con un linguaggio che noi diamo per scontato, e che invece porta con sé un carico di implicazioni, va bene. Il problema è che molto spesso si va oltre. Io insegno in piccoli seminari o lezioni con 400 studenti. Dopo due ore la battuta serve a far risposare tutti. Ma la battuta è per forza caricatura, e nel clima di oggi sembra che tutte siano scorrette. Il risultato è che non si scherza più in aula. Dall’altro lato, però, bisogna sempre considerare che l’azione estrema che spesso sfocia in radicalismo per i temi legati alla razza e al genere non è nata nel vuoto perché un po’ di studenti sono andati fuori di testa. Ma perché nella storia europea e, in particolare, statunitense, tali discriminazioni di razza e di genere hanno segnato e marchiato ab origine quella stessa storia.

Con il rischio di ignorare o sorvolare su tali discriminazioni

Esatto. Noi tutti ricordiamo Disney che censura i film, ma non prestiamo alcuna attenzione a quello che fanno tanti Stati nel controllare i libri di testo nelle scuole superiori. Basta vedere le risoluzioni del governo del Texas: si insegna nel 2021 come se fosse il 1920. Quando Disney mette mano a Dumbo e in Italia si levano voci sdegnate, non si nota che la scena in questione rappresenta quattro corvacci con l’accento afroamericano sovraccaricato che prendono il giro l’elefante. Uno di questi si chiama Jim crow, che dà nome al sistema segregazionista tra fine ‘800 e ‘900. È come se ci fosse un cartone ‘40 che mostra stereotipi antisemiti, come un ebreo col naso adunco, speculatore.

Tutto ciò con un’informazione non sempre abile, e volenterosa, di cogliere queste sfumature

Mi è capitato tempo fa di vedere sul Tg2 un servizio sulla Howard University, in cui una giornalista diceva una marea di sciocchezze: il messaggio era che “l’Università dei neri ha bandito gli studi classici perché considerano Socrate e Cicerone dei suprematisti bianchi. La dimostrazione è che il dipartimento di studi classici stava chiudendo”. La verità è che La Howard University propone oggi degli studi, come gli african american studies, che attirano di più gli studenti rispetto alle materie classiche. Nel contesto di una crisi generale delle discipline umanistiche, il dipartimento è stato chiuso e i corsi sono stati spalmati, non c’entra niente il suprematismo bianco.

In Francia poi si discute molto dell’ingresso di queste idee: porre l’accento sulla discriminazione razziale e, ancor più, religiosa, aprirebbe un vaso ricolmo di critiche, presa di coscienza e protesta contro la disuguaglianza. Con un secondo rischio: che queste esagerazioni vengano cavalcate dall’estremo opposto. Éric Zemmour, che paventa “la grande sostituzione della razza bianca”, ne è l’esempio più eclatante

Parigi è una città segregata, che ha provato negli ultimi 20/30 anni a superare un sistema molto marcato, derivato dalle ondate migratorie nel dopoguerra. Anche la mia università ha attivato da vent’anni a questa parte una procedura di ammissione privilegiata per persone che provengono da zone svantaggiate, una sorta di discriminazione positiva.

Ma anche questo ovviamente ha generato tensioni, perché va contro l’idea di meritocrazia come unico criterio, tipica della Repubblica francese. La Francia in ogni caso deve fare i conti con il passato, perché ancora oggi la discriminazione razziale è un tabu. Anche per evitare che le conseguenze negative di queste discriminazioni, dal terrorismo alla mancanza di sicurezza, vengano sfruttate dai Zemmour di turno. Il primo risvolto positivo per questi personaggi è la possibilità di non fare i conti con elementi reali e problemi che poi generano queste reazioni, sfruttate tendenziosamente per poter affermare di “dar voce a chi è oppresso”. 

Le ultime da Babele. La cancel culture e altre cose che non esistono, tranne quando esistono. Davide Piacenza il 21 settembre su 2021 l'Inkiesta. In un dibattito culturale reso dialogo fra sordi da piattaforme in cerca di engagement, da una parte il politicamente corretto è diventato il babau, dall’altra ci si affretta a scrollare le spalle a suon di “la cancel culture non esiste”. E la discussione seria, mai così importante, è diventata una chimera. In quell’eterna indolente domenica pomeriggio che è Twitter c’è posto per tutto: “Would you like to fight for civil rights or tweet a racial slur?”, ci chiedeva Bo Burnham in una delle sue brillanti canzoncine rimasteci in testa dopo aver visto il suo speciale su Netflix. Ma quando non si lotta per i diritti civili, tra un trending topic e l’altro, da qualche tempo sui social network ci si accapiglia sul più insondabile dei misteri, dando involontariamente vita a una diatriba gnoseologica permanente sull’imprendibile pietra filosofale di questi anni intellettualmente perduti: la cancel culture. Che l’espressione provochi contemporaneamente irritazione cutanea, nausea ed epistassi a molti – me compreso – non è un caso: anche rimanendo nei confini immaginari dell’internet italiano, nell’ultimo anno è diventata la parola d’ordine di scontri più e meno fratricidi che hanno portato seri professionisti, tuttologi improvvisati, stimati accademici, pensosi titolari di dottorati, prolifici giornalisti e generici ossessionati a berciarsi contro per ore ogni giorno, scomunicandosi a vicenda e accusandosi con crescente veemenza in gogne a spirale ricche di fallacie e screenshot. Da una parte c’è chi si fa portavoce delle minoranze e denuncia in ogni incarnazione del sistema socio-politico corrente – e anche in parecchi tweet innocui, a onor del vero – una pistola fumante del “privilegio” dell’onnipresente, stereotipico “maschio bianco cis-etero” ai danni degli oppressi, mutuando il glossario della critical theory statunitense e intervenendo con l’urgenza collettiva che ne consegue; nell’angolo opposto, chi tende a vario grado alla concettualizzazione di un’improbabile “dittatura” del politicamente corretto, che – ad ascoltare la destra salvinian-meloniana, sua principale propugnatrice alle nostre latitudini – si concretizzerebbe nella rimozione sistematica e intrinsecamente iconoclasta di tutto ciò che è senso comune, tradizione e valore condiviso. Poco sorprendentemente, un dibattito partito con queste premesse si è rivelato non essere un dibattito: avventurandosi nel discorso con una posizione approfondita che non si riduce all’assolutismo incallito di nessuno dei due poli in lotta, il solito proverbiale e sventurato alieno di passaggio sulla Terra si troverà accusato di sostenere la caccia alle streghe di invasati da una parte, e di interpretare il poco encomiabile ruolo dell’utile idiota dei reazionari dall’altra. Trovatosi tra i due fuochi di thread incrociati, oscuri non sequitur e accostamenti polemici a estremismi contrapposti, probabilmente l’alieno riguadagnerà in fretta la scaletta della sua navicella e tornerà felice a forme di vita più intelligenti. In mancanza di quest’opzione, però, rimaniamo in questa galassia: anzitutto va detto che non si nota traccia di alcuna «dittatura del politicamente corretto» che possa turbare il nostro sonno, specialmente in Italia, dove il discorso pubblico rimane anzi dominato dall’implicita regola per cui tutto è dicibile e quasi tutto fattibile. Il pol.corr. di per sé, peraltro, non è affatto una iattura, ma solo un necessario cambio di paradigma linguistico-culturale che tiene conto di nuove sensibilità in società, come quelle occidentali, che negli ultimi decenni hanno visto cambiare radicalmente la loro composizione demografica e parte dei loro valori condivisi. Sgombrato il campo dal babau della correctness rimane lei, la kryptonite e l’ambrosia: sua maestà la cancel culture. Il termine, usato in modo impreciso come sinonimo di politicamente corretto, si riferisce in realtà a tutt’altro. Dovendo riassumerne il significato, si potrebbe tentare con: la tendenza a chiedere che una rappresentazione di idee o atteggiamenti contrari alla morale corrente – che siano stati espressi il giorno precedente o dieci anni prima non fa granché differenza – non venga soltanto criticata e portata ad avviare nuove e più inclusive discussioni, com’era la migliore prassi in precedenza, ma anche punita con la decadenza immediata da ogni ruolo e piattaforma (anche privati o professionali) del responsabile, sull’onda di shitstorm organizzati ad hoc su Twitter e altrove. Se il politicamente corretto in Italia è ancora un miraggio, la cancel culture ha invece già i suoi adepti, perché nella vita culturale delle nicchie online i confini sono labili, e gli strumenti direttamente gli stessi. I casi di cancel culture – anch’essa, ovviamente, un fenomeno che poco ha a che fare con le caratterizzazioni grottesco-emergenziali che ne fa la destra – abbondano, e spesso arrivano da sinistra (anche se dire che «arrivano da sinistra» non significa che tutti gli attivisti più impegnati a sinistra agiscano in questo senso, né che la destra ne sia esente), per il semplice ma rilevante fatto che i messaggi di inclusione trovano terreno fertile nel pubblico dei social network e negli interessi economici delle aziende, e difendere un principio buono e giusto con metodi giacobini risulta genericamente meno sanzionabile. Esempi concreti di questo oggetto misterioso, brandito e sbertucciato? Eccone un po’: a maggio del 2020 il sondaggista politico David Shor ha perso il lavoro per aver twittato dati che rivelavano che alcuni episodi di vandalismo a Minneapolis seguiti all’uccisione di George Floyd avevano rinvigorito il consenso dell’allora presidente Trump (e molti a sinistra hanno pensato che se lo fosse meritato); nel 2018 l’allora direttore della New York Review of Books, Ian Buruma, ha visto terminare bruscamente la sua carriera di accademico e scrittore per aver pubblicato sulla sua rivista il saggio di un autore precedentemente scagionato in tribunale da accuse di violenza sessuale; nell’estate dell’anno scorso il compositore Daniel Elder ha postato sul suo account Instagram un messaggio in cui si lamentava del rogo dello storico municipio di Nashville, la sua città, durante una manifestazione di Black Lives Matter: la sua etichetta ha smesso di pubblicarlo, e i cori preferiscono non cantare la sua musica temendo danni d’immagine. A marzo la giornalista afroamericana Alexi McCammond, che di lì a poco sarebbe diventata la nuova direttrice di Teen Vogue, è stata costretta a farsi da parte per una serie di tweet xenofobi risalenti a dieci anni prima, quando non era ancora maggiorenne (poco dopo Christina Davitt, una delle giornaliste della testata più attive nel rimprovero pubblico collettivo contro McCammond, è finita nell’occhio del ciclone a sua volta per alcuni tweet del 2009 in cui usava la famigerata n-word); ad aprile l’American Humanist Association ha ritirato, dopo 25 anni, il premio di Humanist of the Year conferito nel 1996 al divulgatore e biologo britannico Richard Dawkins, colpevole di aver postato un tweet mal interpretabile sulle persone transgender. Esempi come i precedenti sono diventati parte integrante delle cronache quotidiane d’oltreoceano, oltre che le linee lungo cui si combattono le culture wars di cui ci arriva un’eco attutita ma discussa: a giugno del 2020 la Tulane University di New Orleans ha cancellato un incontro con l’autore di un acclamato libro antirazzista, Life of a Klansman di Edward Ball – in cui Ball ricostruisce la storia del suprematismo bianco a partire da un bisnonno unitosi al Ku Klux Klan – perché diversi studenti, associazioni e altri corpi universitari hanno visto nell’invito una scelta «dannosa e offensiva»; tra il 2018 e il 2019 l’Università del Wisconsin si è piegata a una petizione che chiedeva di rimuovere dai suoi campus il nome dell’attore degli anni Trenta Fredric March (“È nata una stella”), dato che più di cent’anni prima era stato parte per pochi mesi di un gruppo studentesco omonimo (ma precedente) del Ku Klux Klan, che tuttavia non aveva niente da spartire con l’organizzazione suprematista bianca (March, ha spiegato sul New York Times il linguista afroamericano John McWorther, era peraltro un acceso nemico delle disparità razziali, e nella sua vita si è trovato spesso al fianco di Martin Luther King). A marzo il columnist del Times Charles M. Blow ha visto nelle goffe e ridicolizzate avances del personaggio dei cartoni animati Pepe la puzzola un simbolo della «rape culture» di cui faremmo bene a disfarci; il biografo di Philip Roth, Blake Bailey, ha assistito alla messa al macero della sua opera per accuse di molestie risalenti a trent’anni prima; ad agosto del 2020 Greg Patton, un professore di cinese della University of Southern California, è stato sospeso per aver pronunciato un intercalare della lingua cinese che, per sua sfortuna, ha un’assonanza con la n-word; a maggio la giornalista di Associated Press Emily Wilder è stata licenziata da Associated Press dopo essere finita nel tritacarne di una gogna online innescata da un’associazione studentesca di destra di Stanford per le sue simpatie pro-Palestina. Eccetera, eccetera, eccetera. Davanti a questa babelica cornucopia di casi suona difficile ripetere, come fanno molti per partito preso a sinistra, che “la cancel culture non esiste”. Eppure succede ogni giorno: “la cancel culture non esiste” è diventato una specie di passepartout di integrità ideologica, un sinonimo di progressismo senza macchia, in alcuni ambienti qualcosa di non lontano da un lasciapassare di riconoscimento. Quando mi capita di discutere con persone – spesso in buona fede e con idee progressiste, beninteso – di casi di cancellazioni evidenti, o di gogne con effetti annientanti sulla vita delle persone (la storica Anne Applebaum, nel suo recente magistrale saggio sull’Atlantic, ha raccolto le testimonianze delle vittime dirette e collaterali di cancel culture, che comprendono anche storie di suicidi) di solito mi trovo davanti a tre reazioni distinguibili: la prima dice, in essenza, che le vittime non sono poi così vittime, e in ogni caso se la caveranno trovando nuovi pubblici più adatti a loro; d’altronde se sono state prese di mira dai militanti per la giustizia sociale saranno a vario titolo privilegiate, no? (Non proprio: lo dimostra la lista sopra); la seconda sostiene che per il greater good dell’equità sociale, qualche effetto collaterale può essere tollerato: d’altronde quanto a lungo i neri, i transgender e le persone non binarie, tra gli altri, sono stati marginalizzati? (Al di là dell’inaccettabilità di un argomento che predica un livellamento verso il basso fatto di vendette postume e indiscriminate, non è chiaro come non far lavorare un compositore o rimuovere Pepe la puzzola dalla tv per bambini cambierà qualcosa nella quotidianità delle minoranze); la terza obietta che sì, il fenomeno alla base è evidente a tutti – d’altronde le gogne sono sempre esistite, giusto? – ma “cancel culture” è un’espressione inventata dalla destra, e usarla fa evidentemente il gioco della destra (detto che il termine è entrato nel linguaggio corrente e non esistono, al momento, sinonimi utilizzabili: stiamo forse affermando che un fenomeno si può indagare, studiare ed eventualmente criticare solo se non potrebbe essere strumentalizzato da Salvini? Smetteremmo mai di dirci a favore dell’accoglienza indiscriminata dei profughi perché altrimenti, signora mia, “si fa un favore a Salvini”?). Alla radice di quello che chiamiamo cancel culture, a ben vedere, ci sono gli strumenti sui quali viene messa in atto: i social network. Abbiamo delegato il dibattito pubblico e culturale a luoghi pensati per elidere le sfumature, scavare trincee, plagiare, massimizzare le divisioni e renderci irosi e manichei; piattaforme private in cui l’hate speech viene diffuso tutt’altro che «in maniera del tutto irrilevante», come talvolta sostenuto in scioltezza da editorialisti nostrani forse poco aggiornati, ma i cui stessi piani di business si fondano sul carburante altamente inquinante dell’engagement a ogni costo. Il Wall Street Journal ha recentemente ottenuto un documento interno di Facebook che prova che uno dei più fondamentali aggiornamenti dell’algoritmo di Menlo Park, nel 2018, ha avuto «effetti collaterali malsani» sulle conversazioni online, contribuendo a un’ulteriore polarizzazione e a un drastico impoverimento del dibattito. La fenomenologia dello shitstorm è ancora quella individuata dal saggio del 2015 che ha aperto le porte della discussione sulle gogne a mezzo internet, “I giustizieri della rete” (Codice) di Jon Ronson, ma il suo campo d’applicazione è sempre più strutturato e pervasivo. Per verificare la qualità dell’aria basta fare come i migliori reporter: recarsi sul posto. Una qualunque mezz’ora su Twitter e Facebook rivelerà utenti sempre più asserragliati in enclosures di gruppi ormai in tutto e per tutto indistinguibili da ordini sacerdotali, dove a comandare sono intelligenza collettiva e un marcato spirito di corpo, e in cui una singola polemica col passare dei giorni può generare dozzine, centinaia di messaggi variamente accaniti, retoricamente violenti, ossessivi, con toni esacerbati e molto spesso del tutto fuori scala rispetto ai loro bersagli. Astrusi sub-tweet sul nemico di turno chiamano a raccolta visualizzazioni e follower con un fischio; banalizzazioni, imprecisioni e bugie dure e pure, l’apostrofo rosa dei 280 caratteri, creano sapienti esche di ingaggio a cui è impossibile non abboccare. Insultereste mai in dodicimila un tizio che ha fatto una battuta ottusa al supermercato? Desiderereste mai che perdesse il lavoro a causa di quella battuta? Leggo spesso che quanto sta avvenendo è intrinsecamente legittimo, in quanto espressione pratica di un fenomeno di per sé positivo come il politicamente corretto, che sta solo sanando – in modo perfettibile, certo – un problema di rappresentazione “sistemico”, colmando il gap tra “privilegiati” e “oppressi”; rendendo, insomma, il mondo un posto migliore. Ma un mondo in cui il nemico è sempre alle porte (e si nasconde in ogni minimo possibile marker che per alcuni evoca anche lontanamente un’eterodossia morale: da una vignetta ironica sulla schwa di un fumettista a una battuta sui pronomi inclusivi di una comica), dove il dialogo è non solo impossibile, ma sovente orgogliosamente rifiutato, e nel quale gli strumenti di comunicazione favoriscono by design la delazione e la molestia reciproca è tutt’altro che migliore. Postulare una scelta univoca e “politica” tra sostenere le battaglie delle minoranze e denunciare un clima culturale di censura, gogne e abusi è una scorrettezza argomentativa da assemblea liceale, una falsa opposizione. Fare le veci di gruppi sottorappresentati per poi sostituirsi regolarmente ad essi nei tribunali online, sminuendo de facto la loro capacità di raccontarsi, autodefinirsi e generare dissenso diretto (il rogo che è costato la carriera al compositore Daniel Elder era stato appiccato da un ragazzo bianco come lui) è almeno un controsenso. Proclamarsi in favore della sensibilità e del rispetto altrui e non tenere conto di trascurabili dettagli come il contesto, le intenzioni e gli effetti sulle vite personali delle vittime di shitstorm suona quantomeno contraddittorio. Per dirsi veramente corretto, il mondo in fase di rinnovamento dovrà anche tornare a occuparsi di antichi errori, a partire dai sani principi diventati mero sfoggio di virtù.

L’erba voglio e la società dell’obbligo. Marcello Veneziani, La Verità (17 settembre 2021). Indovina indovinello, cosa mancava all’appello e alla filiera dopo i diritti omo-trans, l’utero in affitto, le applicazioni gender, l’aborto, l’eutanasia, lo ius soli? Ma la droga, perbacco. Mancava un grano al rosario progressista della sinistra, e in particolare al Pd che è un partito radicale a scoppio ritardato; e puntualmente è arrivato a colpi di firme sulla cannabis. Riciccia per l’ennesima volta la battaglia per la sua legalizzazione, ora in forma di referendum. Una proposta proteiforme e reiterata che si modifica di volta in volta secondo le circostanze e le opportunità del momento, ponendo l’accento ora su uno ora su un altro aspetto. Stavolta l’ariete per sfondare la linea è la coltivazione di canapa o marijuana a scopo terapeutico. Chi è così disumano da opporsi al caso limite di un malato che usa la droga e se la fa crescere in giardino per lenire le sue sofferenze e curare i suoi mali? Poi sotto la pancia delle greggi, come fece Ulisse con Polifemo, passa di tutto: non solo leggi per malati e sofferenti e ben oltre le rigorose prescrizioni e certificazioni mediche sull’uso terapeutico di alcune sostanze o erbe. Curioso questo paese che non consente i minimi margini di libertà e di dissenso nelle cure e nei vaccini per il covid, anzi perseguita e vitupera chi non si allinea e poi permette che ciascuno sia imprenditore farmaceutico di se stesso e si fabbrichi e si coltivi la sua terapia lenitiva direttamente a casa sua… L’autoritarismo vaccinale si trasforma in autarchia terapeutica se di mezzo c’è la cannabis. È il green pass al contrario: il pass per consumare green, cioè erbe “proibite”. Ma non è di questa ennesima battaglia, a cui ci siamo già più volte dedicati in passato, che vorrei parlarvi; bensì di quella filiera, di quel presepe di leggi, referendum e diritti civili di cui fa parte e che compone un mosaico dai tratti ben precisi. Ogni volta ci fanno vedere solo un singolo caso di un singolo problema portato all’estremo e noi dobbiamo pronunciarci come se fosse un fatto a sé, o un caso umano, indipendente dal contesto. E invece bisogna osservarli tutti insieme, perché solo così si compone la strategia e l’ideologia e prende corpo il disegno che ne costituisce il motivo ispiratore, l’ordito e il filo conduttore. È solo cogliendo l’insieme che si vede più chiaramente dove vanno a parare questi singoli tasselli o scalini, verso quale tipo di società, di vita, di visione del mondo ci stanno portando. Qual è il filo che le accomuna, la linea e la strategia che le unisce? Per dirla in modo allegorico e favoloso, è l’Erba Voglio. Avete presente la favola dell’erba voglio del principino viziato che vuole continuamente cose nuove e si gonfia di desideri sempre più grandi? Ecco, l’erba voglio è la nuova ideologia permissiva, soggettiva e trasgressiva su cui è fondato tutto l’edificio di leggi, di proposte, di riforme. Il filo comune di queste leggi è che l’unico vero punto fermo della vita, l’architrave del diritto e della legge è la volontà soggettiva: tu puoi cambiar sesso, cambiare connotati, mutare stato, territorio e cittadinanza, liberarti della creatura che ti porti in corpo o viceversa affittare un utero per fartene recapitare una nuova, puoi decidere quando staccare la spina e morire, decidere se usare sostanze stupefacenti e simili. Tu solo sei arbitro, padrone e titolare della tua vita e del tuo mondo; questa è la libertà, che supera i limiti imposti dalla realtà, dalla società, dalla natura, dalla tradizione. E non importa se ogni tua scelta avrà poi una ricaduta sugli altri e sulla società, su chi ti è intorno, su chi dovrà nascere o morire, sulla tua famiglia, sul tuo partner, sulla tua comunità, sulla tua nazione. Il tuo diritto di autodeterminazione è assoluto e non negoziabile, e viene prima di ogni cosa. Ora, il lato paradossale di questa società è che lascia coltivare, in casa, l’Erba Voglio ma poi dà corpo a un regime della sorveglianza e del controllo ideologico, fatto di censure, restrizioni e divieti. Liberi di farsi e di disfarsi come volete, non liberi però di disubbidire al Moloch del Potere e ai suoi Comandamenti pubblici, ideologici, sanitari, storici e sociali. Anarchia privata e dispotismo pubblico, soggettivismo e totalitarismo, Erba Voglio e Pensieri scorretti proibiti, Erba voglio e divieto di libera circolazione. Ma le due cose non sono separate, estranee l’una all’altra e solo casualmente e contraddittoriamente intrecciate. La libertà nella sfera dell’io fa da contrappeso, lenitivo e sedativo della coazione a ripetere e ad allinearsi al regime della sorveglianza. Ci possiamo sfogare nel privato di quel che non possiamo mettere in discussione nella sfera pubblica. Porci comodi nella tua vita singola in cambio di riduzione a pecore da gregge nella vita global. Puoi sfasciare casa, famiglia, nascituri, te stesso e i tuoi legami ma guai se attenti all’ordine prestabilito e alle sue prescrizioni tassative. Liberi ma coatti. La droga libera è oppio dei popoli e cocaina degli individui, narcotizza i primi ed eccita i secondi; aliena entrambi nell’illusione di renderli più liberi, li rende schiavi mentre illude di renderli autonomi. Benvenuti nella società dell’erba voglio e dell’obbligo di massa. MV, La Verità (17 settembre 2021)

Cari sì pass, ricordatevi “Philadelphia”.  Redazione di Nicolaporro.it il 19 Settembre 2021. Sono diventati ciò che odiavano. La pandemia ha completamente ribaltato la loro prospettiva sul mondo frutto di anni di lotte e conquiste sociali e politiche. Ci riferiamo ovviamente a tutti coloro che fino al 2019 si riempivano la bocca di parole quali uguaglianza, diritti, inclusione sociale, lotta a qualsiasi tipo di discriminazione. Ecco, di fronte al virus tutto questo si è disciolto come neve al sole. Oggi il fine giustifica qualsiasi mezzo, financo l’annullamento del diritto al lavoro sancito all’articolo 1 della loro amatissima carta costituzionale. Sono passati dall’altra parte della barricata, insomma, da vittime a carnefici. Già, ora sono loro i cattivi della storia. E a questo proposito, ci torna in mente uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema degli anni ’90. “Philadelphia”, il capolavoro di Jonathan Demme con Tom Hanks (premio Oscar miglior attore protagonista) e Denzel Washington nei panni dei protagonisti.

La trama. Ricorderete tutti la trama, Andrew Beckett (Tom Hanks) è un brillante avvocato di un prestigioso studio legale di Philadelphia. E’ omosessuale e si ammala di AIDS nascondendo la malattia ai suoi datori di lavoro. Se non che i boss lo scoprono e lo licenziano per “giusta causa”. Toccherà poi a Joseph Miller (Denzel Washington) difendere il collega dimostrando che la reale motivazione alla base del suo allontanamento era in realtà l’orientamento sessuale di Andy e la paura della diffusione del contagio di HIV da parte dei colleghi. Già, la paura. Il pregiudizio. Il film si basa tutto su questo e su come Miller riesca pian piano a superare gli stereotipi della società in cui è cresciuto, diventando amico di Andy e vincendo la super causa milionaria. Una storia che ha commosso tutti, senza distinzione di credo politico, tanto da fare entrare Philadelphia nel gotha del cinema, anche e soprattutto in virtù degli insegnamenti e dei principi che veicolava.

Parallelismi con il presente. Come non trovare dei punti di contatto con quello che sta accedendo nel tempo del Covid. Oggi come allora si lotta contro un virus. Solo che nei primi anni ’90, periodo in cui è ambientato il film, l’HIV mieteva molte più vittime e le conoscenze mediche del fenomeno erano scarse, soprattutto per quanto riguardava la trasmissibilità. Quindi il timore di ammalarsi, poteva essere, per certi versi, anche giustificato. Eppure Andy ha vinto la causa. Fu pregiudizio, discriminazione. E qual è l’essenza della discriminazione? Ce lo spiegano Beckett e Miller: “il formulare opinioni sugli altri non basate sui loro meriti individuali ma piuttosto sulla loro appartenenza ad un gruppo con presunte caratteristiche”. Ebbene, questo è esattamente ciò che sta avvenendo oggi nei confronti delle persone non vaccinate che da metà ottobre non potranno più recarsi al lavoro senza avere il lasciapassare. Discriminazione. Si obietterà che, al contrario del protagonista del film, questi individui abbiano la possibilità di scelta. Vero, ma attenzione: chi l’ha detto che una persona non vaccinata sia automaticamente malata? Un individuo non è sano fino a prova contraria? E anche se non lo fosse, siamo così certi che sarebbe colpa sua? Era forse colpa di Andy se era omosessuale e se ha contratto la malattia? Sospensioni, multe, blocchi di stipendio. Ma fino a dove saranno disposti a spingersi? Checché se ne dica, nessuna carta costituzionale al mondo, nessuna legislazione giuslavoristica, nessuna norma etico-morale può concepire una tale prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Eppure sta succedendo. Devono essersi proprio dimenticati tutto. Hanno versato lacrime per Andy che se ne è andato in pace, sereno, dopo aver ristabilito il suo onore. Hanno fatto il tifo per l’avvocato buono che era saputo andare oltre i suoi limiti e ha lottato in difesa dei più deboli. Oggi, invece, sono diventati esattamente come i colleghi e i datori di lavoro del legale sieropositivo. Vigliacchi, impauriti, cattivi. Pronti a tutto pur di difendere la loro salute e la loro confort zone morale. Chissà che riguardare Philadelphia oggi non possa avere un effetto catartico su queste persone. Dio solo sa quanto ci sia bisogno di redenzione.

Cosa minaccia la nostra civiltà. Andrea Muratore il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. "La crisi della civiltà" di Johan Huizinga segnala quali fossero le minacce alla civiltà europea nell'era dei totalitarismi secondo gli occhi del filosofo. "Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo": si apre così il saggio "La crisi della civiltà" di Johan Huizinga, il grande filosofo e pensatore olandese che diede alle stampe per la prima volta il libro nel 1935, nel pieno del decennio che avrebbe condotto l'Europa a completare il suo "suicidio" iniziato nel 1914 con lo scoppio della seconda guerra mondiale. "La crisi della civiltà" ha nell'originale olandese (In de schaduwen van morgen) e nel suo corrispettivo inglese (In the Shadows of Tomorrow) un titolo forse ancora più evocativo, letteralmente "Nelle ombre del domani". Huizinga, teorico profondo del pensiero libero, avversario di ogni dittatura e critico dell'ideologia dell'uomo-massa che già altri autori, come José Ortega y Gasset, avevano aspramente contestato presagiva che l'Europa si stesse avviando a lunghi passi verso l'abisso. Come Ortega y Gasset e come Oswald Spengler, Huizinga si concentra sulla nascita dei totalitarismi e sull'oggettivizzazione dell'uomo di fronte alla tecnica, alle ideologie massificatrici, all'appiattimento del libero pensiero per teorizzare una forma di resistenza che, al contrario dei suoi coevi, percepisce però innanzitutto come personale ed individuale. Huizinga non può fare a meno di confrontare la crisi presente con quelle dei secoli passati e sottolineare come a venire meno, a suo avviso, sia stato l'estro creativo e culturale degli europei che ha funto da antidoto, a lungo, contro ogni vocazione autoritaria e ogni massificazione. La sua è una figura di intellettuale impegnato che è nel mondo, ma non del mondo, impastata di concretezza e realismo pur nella consapevolezza critica della deriva dell'epoca a lui contemporanea. Più di Ortega y Gasset, Huizinga vede possibilità di ripresa da uno scenario sfavorevole fonte di proliferazioni sistemiche per ideologie totalitarie e antiumane. Ne "La crisi della civiltà" l'autore parla di una "purificazione" degli spiriti da realizzarsi però lungo una linea di riproposizione del liberalismo così come si era affermato nell'Ottocento, diradando le ombre che a suo avviso impedivano al sole della civiltà di risplendere ancora sul Vecchio Continente. La percepita fragilità delle democrazie, i tradimenti del modello economico iper-capitalista franato durante la Grande Depressione, l'ascesa dei populismi autoritari, la svalutazione della critica culturale, lo svuotamento dell’idea di progresso di fronte all'utilizzo dei ritrovati della tecnica per strumentalizzare le masse erano tutte, a suo avviso, sintomatologie di un declino che solo prendendo consapevolezza della necessità di un ritorno degli individui all'etica e a un atteggiamento responsabile verso la società e i propri simili. "La crisi della civiltà" ha rappresentato all'epoca della sua uscita un grido d'allarme lanciato da uno studioso di fama internazionale per ricordare il valore irrinunciabile della libertà e della dignità umane, minacciate mano a mano che nella culla della civiltà venivano meno i suoi capisaldi: "verità e umanità, ragione e diritto". A suo modo, però, è un manifesto ottimista nel quadro della letteratura dell'età coeva all'opera, spesso intrisa di pessimistiche riflessioni sul decadimento della cultura e della civiltà occidentali. Huizinga ha fiducia nella capacità dell'uomo di equilibrare pensiero e azione in maniera armonica, scommette sulla crisi di rigetto dell'irreggimentamento delle società a lui coeve, presuppone la coscienza critica come fattore di equilibrio sociale. In quest'ottica, da preoccupato umanista che segnala fenomeni sociali e culturali che erano sotto gli occhi di tutti e senza i quali non si sarebbe spiegato il totalitarismo politico, Huizinga compie un'operazione paragonabile a quella compiuta spiegando ne L'Autunno del Medioevo la nascita della modernità: analizzare una civiltà come corpo organico e sistema, cogliendone i fattori di crisi e di rottura ma anche i semi di progresso che da essi possono nascere. E il messaggio è chiaro: per Huizinga le società progrediscono laddove si ha rispetto per la dignità irripetibile di ogni essere umano e fiducia nella capacità culturale e valoriale di ciascun individuo. Mentre è proprio la negazione di questi presupposti a generare le ombre che schiacciano il loro presente e ne pregiudicano il futuro. Una lezione tanto chiara quanto profonda che vale per qualsiasi epoca della storia umana e parla, in particolare, al nostro presente.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Int

Roberto D’Agostino per VanityFair il 27 settembre 2021. Molte sono le rivoluzioni che cambiano il mondo ma sono poche quelle che cambiano gli uomini e lo fanno radicalmente. Si chiamano allora rivoluzioni mentali perché capaci di generare una nuova idea di umanità. Con la rivoluzione digitale, i nostri gesti già sono cambiati a una velocità sconcertante, non sono più uguali lo spazio e il tempo, il passato e il futuro, la verità e la menzogna, l’individuo e la politica. Oggi basta un tweet per fare a pezzi secoli di cultura. Viaggiamo a fari spenti e nessuno può dire come finirà la tirannia senza freni del “politicamente corretto” (sanificare il linguaggio non porta a soluzioni reali) o l’esasperazione del “Me-too” con le sue forme di “psicopolizia” o il fanatismo della “cancel culture”, che abbatte statue, inseguendo un'impossibile “bonifica” del passato; atteggiamenti che solo dieci anni fa ci sarebbero sembrati sbagliati. Tutto quello che sta accadendo ha sicuramente origine dalla mutazione genetica della sinistra liberal, avverte una bombastica inchiesta del settimanale "The Economist", con il risultato che ‘’la sinistra rischia di diventare illiberale’’. La bibbia del liberalismo per chiarire dove sta il problema cita le parole di Milton Friedman, economista reaganiano incoronato dal premio Nobel: “La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per non avere né l'una né l'altra”. Donald Trump e i suoi emuli populisti, che hanno fatto di aggressività, intolleranza e scorrettezza una bandiera, sono stati solo la risposta all’”illiberalismo democratico”. E non è un caso che dopo otto anni di Casa Bianca di Barack Obama, sia arrivato alla presidenza un pagliaccio come Donald Trump. Uno dei motivi per cui il ceto medio e la working class votò un miliardario truffaldino con un gatto morto in testa anziché la democratica politicamente corretta Hillary Clinton, fu il gran fastidio verso una sinistra che invece di occuparsi del lavoro e delle condizioni di vita di un ceto medio impiegatizio fatto a pezzi dalla dura crisi economica del 2008, si trastullava con il politicamente corretto, l'abitudine alla gogna pubblica per le opinioni diverse e l'attenzione sempre più ossessiva su come trattare questioni razziali, di gender, di religione. Per fare un esempio, nel movimento trans è considerato offensivo sentir parlare di "sesso biologico", perché per loro il genere è una scelta, distinta dalla biologia. E all'interno di Black Lives Matter c'è chi va oltre la denuncia delle violenze, chiedendo spazi di autonomia politica dove la partecipazione è determinata dal colore della pelle. Insomma: non ogni presa di posizione di gruppi progressisti o presunti tali è compatibile con i principi della democrazia. Non tutti gli attivisti hanno ragione e comunque bisogna sempre sapersi confrontare. Il risultato è che la politica e la cultura del mondo occidentale, oggi, sono divise fra due opposte versioni di illiberalismo, una di destra e uno di sinistra. 

Il giacobinismo liberal malattia infantile della nuova sinistra. Carlo Galli su La Repubblica il 17 settembre 2021. La copertina dell'Economist che ha lanciato il dibattito sulla sinistra illiberale. Ecco perché non bisogna sottovalutare la cancel culture, campanello di allarme di un disagio: prosegue il dibattito nato dalla copertina dell’Economist. Nell'ottobre del 1793 la Francia repubblicana abbatte e decapita le statue dei re che ornavano la cattedrale di Notre-Dame. Oggi la definiremmo cancel culture; allora fu la prosecuzione simbolica delle decapitazioni, avvenute nel gennaio dello stesso anno, del re e della regina, di Luigi XVI e di Maria Antonietta. In effetti, non c'è nulla di più illiberale che una rivoluzione, di più intollerante che la pretesa di ricominciare da capo la vita politica e civile, di meno dialogante che ergersi a giudici del passato, per punirne e vendicarne le colpe, le violenze e le ingiustizie.

Enrico Franceschini per "la Repubblica" il 15 settembre 2021. Un fantasma si aggira per l'Occidente: lo spettro della «sinistra illiberale». A lanciare l'allarme è l'Economist, bibbia del liberalismo anglosassone e anche di quello mondiale, in quanto da almeno vent' anni settimanale non più soltanto britannico bensì globale. In un servizio apparso in copertina, il giornale che per i suoi conflitti d'interesse definì Silvio Berlusconi «indegno di governare» avverte che il liberalismo occidentale si trova ad affrontare una doppia minaccia: all'estero le superpotenze autocratiche quali Cina e Russia, che lo deridono come fonte di egoismo, decadenza e instabilità; in patria il populismo di destra e di sinistra, che lo contesta come presunto simbolo di elitismo. Le critiche di Xi e Putin sono un ipocrita riflesso del rifiuto a creare una società veramente libera e democratica in casa propria. L'offensiva della destra populista in America e in Europa rimane la più pericolosa per la democrazia liberale, ma dopo avere raggiunto l'apice durante la presidenza di Donald Trump si sta screditando di fronte alla crisi del Covid con il suo ostinato rifiuto dell'evidenza scientifica. «L'attacco da sinistra è più difficile da comprendere», ammonisce tuttavia l'autorevole pubblicazione londinese, in parte perché, particolarmente negli Stati Uniti, il termine "liberal" ha finito per includere una "sinistra illiberale". La terminologia inglese può suscitare confusione nel lettore italiano, perché "liberal" negli Usa è l'equivalente di "progressista", spesso utilizzato addirittura come un insulto dalla destra trumpiana, dunque differente dal nostro "liberale", che ha un significato decisamente più conservatore. A confondere ulteriormente le idee ha provveduto il termine "neo-liberal", traducibile come neo-liberale o neo-liberista, l'etichetta delle politiche di destra introdotte da Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni Ottanta del secolo scorso. Infine c'è da considerare il liberalsocialismo, che in Italia ha ispirato i fratelli Rosselli e Gobetti, il Partito d'Azione e alcune delle menti migliori del dopoguerra, dal Mondo di Pannunzio al partito radicale. Per chiarire ogni equivoco, quello che intende l'Economist (posseduto al 43% da Exor, che controlla anche Repubblica) con «sinistra illiberale» è l'atteggiamento dogmatico, intollerante, scettico nei confronti del mercato, votato alla purezza ideologica, incapace di riconoscere che anche la controparte può avere in determinate circostanze qualche ragione. È un cocktail di opinioni da cui sbocciano fenomeni come la cancel culture, dove la legittima esigenza di condannare gli errori e gli orrori del passato rischia di riscrivere la storia dal punto di vista del presente, e gli eccessi del politicamente corretto. Nel suo editoriale il settimanale non fa nomi specifici, ma traspare il riferimento alla svolta impressa da Jeremy Corbyn al partito laburista nel Regno Unito o alla rigidità talvolta manifestata dall'ala del partito democratico americano che fa riferimento alla deputata Alexandria Ocasio- Cortez (andata al Met Ball, il gran ballo annuale di beneficenza a New York, con un vestito con la scritta "tax the rich", tassare i ricchi, sebbene in questo non ci sia nulla di illiberale). «La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per non avere né l'una né l'altra» è il motto citato dall'Economist per chiarire dove sta il problema: parole di Milton Friedman, economista premio Nobel e padre del laissez- faire ovvero dell'antistatalismo, non proprio un riferimento della sinistra. Ma il dibattito sulla sinistra "illiberale" esiste da tempo: sull'altra sponda dell'oceano la denunciava già cinque anni fa il mensile Atlantic, ammonendo che il partito democratico, non opponendosi a chi vuole togliere diritto di parola agli avversari, cederà il controllo ai suoi elementi più estremi. Richard Dawkins, biologo evoluzionista di Oxford e autore di bestseller in difesa dell'ateismo, la chiama «sinistra regressiva», accusandola per esempio di astenersi dal criticare anche le peggiori aberrazioni dell'Islam in nome del rispetto per la cultura di quella religione («e allora io rispondo, al diavolo la cultura», dice il professore). La definizione è entrata perfino nel linguaggio di una star di Hollywood come l'attore premio Oscar Matthew McConaughey, secondo il quale «la sinistra illiberale ha completamente abbandonato il tradizionale pensiero liberale, diventando condiscendente o arrogante verso il 50 per cento della popolazione che non ne condivide il progetto». Qualcuno annovera nella sinistra illiberale anche la malaugurata dichiarazione che contribuì a fare perdere le elezioni del 2016 a Hillary Clinton, quando durante la campagna presidenziale la candidata democratica alla Casa Bianca definì dispregiativamente i sostenitori di Trump come appartenenti a un «basket of deplorables», un cestino dei deplorevoli, insomma tutti gentaglia, che a quel punto non avrebbero certo cambiato casacca votando per lei. Nella discussione, beninteso, c'è chi dice che a denunciare la presunta sinistra "illiberale" sono i difensori dello status quo e dei propri interessi: insomma la destra, cui farebbe gioco dipingere la sinistra come estremista e poco democratica. L'Economist riconosce che pure i "liberal" (nell'accezione conservatrice o progressista) sbagliano: dopo il collasso del comunismo in Unione Sovietica e in Europa orientale hanno creduto che la storia fosse finita, come sentenziò il celebre saggio del sociologo Francis Fukuyama; dopo la crisi finanziaria del 2008 non hanno trattato la classe operaia con la dignità che meritava; e troppo spesso usano la meritocrazia come un alibi per mantenere i propri privilegi. La conclusione della cover-story è che oggi troppi liberal di destra sono inclini a scegliere uno spudorato matrimonio di convenienza con i populisti e troppi liberal di sinistra minimizzano la presenza di un'ala intollerante nelle proprie file. Se invece di unire le forze si dividono, è il monito finale, le due correnti del pensiero liberale lasceranno prosperare gli estremisti.

Dal corriere.it il 12 settembre 2021. La riscrittura della storia investe anche Winston Churchill: e scatena una polemica in Gran Bretagna che vede scendere in campo Boris Johnson, i discendenti dello statista e una schiera di eminenti storici. Succede che l’ente di beneficenza intitolato al più celebre primo ministro britannico abbia deciso di cambiare nome, preoccupato dell’accostamento di Churchill a vedute razziste oggi ritenute inaccettabili. Il «Winston Churchill Memorial Trust», ossia il Fondo alla Memoria di Winston Churchill, si è ribattezzato semplicemente «The Churchill Fellowship», l’Associazione Churchill, oltre ad aver rimosso dal proprio sito web la foto del grande statista, la sua biografia e una lista delle sue realizzazioni. È un ennesimo episodio di quella revisione del passato che nel mondo anglosassone ha assunto le dimensioni di una furia iconoclasta. Churchill era già finito nel mirino, con la sua statua di fronte a Westminster sfigurata con la scritta «era un razzista» e perfino con il college di Cambridge a lui intitolato che si era imbarcato in un riesame critico della sua relazione con le questioni della razza e dell’imperialismo. Ma la mossa della Fondazione è stata un invito a nozze per il primo ministro Boris Johnson, che non perde occasione per entrare a gamba tesa nelle «guerre culturali» in difesa dei valori tradizionali. Il portavoce del premier - che tra le svariate altre cose è pure autore di una biografia di Churchill, che considera il suo massimo ispiratore - ha definito lo statista un «eroe» che «ha aiutato a salvare questo Paese e l’intera Europa da una tirannia fascista e razzista guidando la disfatta del nazismo». Dunque la decisione della Fondazione è «assurda e sbagliata» e «dovrebbero ripensarci». Il paradosso, però, è che proprio i discendenti di Churchill hanno difeso le scelte della Fondazione. Il nipote dello statista, Sir Nicholas Soames, che è stato per decenni un deputato conservatore, ha bollato lapidariamente come «stronzate» le preoccupazioni relative al cambio di nome e ha ribadito il sostegno «totale e senza riserve» della famiglia Churchill all’operato del Fondo. Anche suo fratello Jeremy, che è il presidente dell’ente, è a favore della decisione. Tuttavia va notato che a seguito della polemica, a mo’ di rettifica, sul sito web dell’associazione è ricomparsa la foto di Churchill, accompagnata da una dichiarazione che recita: «Siamo orgogliosi del suo contributo a salvare il mondo dal nazismo. Ma c’è anche una controversia riguardo le sue vedute sulla razza: riconosciamo le molte questioni e le complessità da tutte le parti coinvolte». La disputa non ha mancato di mobilitare gli storici. «Non giova affatto - ha detto Vernon Bogdanor, professore al King’s College di Londra - usare slogan moderni per attaccare qualcuno che ha vissuto in un’epoca diversa. È assurdo, per esempio, criticare Guglielmo il Conquistatore perché non era femminista». E lo storico di Cambridge David Abulafia ha osservato riguardo a Churchill che «ovviamente aveva vedute sulla razza che erano proprie del suo tempo, ma noi non dovremmo esumare dal passato persone che non sono in grado di spiegare i loro atteggiamenti». Proprio Abulafia, assieme a un altro celebre storico di Cambridge, Robert Tombs, ha appena lanciato un manifesto per «reclamare la storia» rispetto ai tentativi di riscriverla. Perché non è certo finita qui. 

L’orologio più buio. L’impossibilità di uscire dalla cultura del linciaggio (o anche solo di discuterne). Francesco Cundari il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Anche su che cosa porta al polso, la sinistra si divide in due tribù costantemente impegnate nel tentativo di menarsi a vicenda, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti. Avrei voluto cominciare qui un lungo e noioso discorso sugli effetti di lungo periodo dell’ondata populista culminata nella Brexit e nell’ascesa di Donald Trump nel 2016, sulla loro persistenza e pervasività, a dispetto dell’impressione contraria suscitata nel mondo dalla netta vittoria di Joe Biden, e in Italia dall’insperato arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Avrei voluto partire dal ritiro americano dall’Afghanistan e dal modo in cui Biden lo ha attuato e difeso, due cose su cui l’influenza del predecessore mi è parsa assai significativa e allarmante. Avrei voluto infine collegare tutto questo alla questione della «sinistra illiberale» sollevata nell’ultimo numero dell’Economist. Mi riferisco all’editoriale in cui il settimanale invita i liberali di destra e di sinistra a resistere all’egemonia populista, senza illudersi di poter carezzare impunemente la tigre nel verso del pelo: gli uni accodandosi al nazionalismo xenofobo e autoritario, gli altri al fanatismo della politica identitaria, della cancel culture e del radicalismo di sinistra in generale. L’articolo che stavo immaginando sarebbe stato lungo e noioso anzitutto per il gran numero di sottili distinzioni che avrei dovuto fare. Per esempio, sull’ultimo punto, avrei invitato a non confondere la contestazione anche radicale di quelle che l’Economist definisce come le posizioni del «liberalismo classico» in materia di economia con analoghi attacchi ai fondamenti dello stato di diritto e della libertà individuale: cose che non hanno lo stesso peso e non andrebbero messe sullo stesso piatto della bilancia. Direi anzi che l’ambiente più favorevole alla crescita di un dibattito pubblico democratico e pluralista è esattamente quello in cui la stragrande maggioranza condivide i principi fondamentali che garantiscono la libertà di ognuno e si divide su tutto il resto. Di questo intendevo scrivere, e già cominciavo a organizzare mentalmente la lunga serie di premesse di metodo e di merito necessarie ad arrivare sano e salvo in fondo al ragionamento, quando ho acceso il computer e aperto Twitter, dove era in corso uno di quei tipici spettacoli che da qualche anno prendono regolarmente il posto del dibattito politico, cioè una specie di guerra etnica combattuta in un asilo. Stesso miscuglio di ostilità preconcetta e odio primitivo, uniti però all’assoluta idiozia del pretesto, del contesto e del sottotesto, nel caso specifico il costoso orologio esibito in foto da un giovane candidato a un consiglio municipale nella lista di Azione (dunque, con tutto il rispetto per i consigli municipali e per il partito di Carlo Calenda, non proprio un uomo destinato a esercitare una straordinaria influenza sull’indirizzo politico del Paese, perlomeno nel prossimo futuro). Dall’orologio costoso si passava quindi all’incredibile uscita di Matteo Renzi sul reddito di cittadinanza e i giovani che «devono soffrire», e in qualche caso, non ricordo più per quali vie, persino alle foibe (a conferma del fatto che la politica italiana si ripete sempre due volte, la prima in forma di sketch di Avanzi). Per una volta, non vorrei prendere le parti degli aggrediti né quelle degli aggressori, ma nemmeno ostentare un’impossibile equidistanza. La diffusa cultura del linciaggio che ci circonda ha sempre qualcosa di orrendo in sé, anche quando il suo esito sia il più infantile e ridicolo, e forse relativamente innocuo. Ora però mi interessa di più sottolineare come sui social network la cosiddetta sinistra, quella che dovrebbe combattere il populismo, sia divisa grosso modo in due tribù, costantemente impegnate nel tentativo di linciarsi a vicenda, con argomenti, toni e modi squisitamente populisti, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti, nel momento stesso in cui ciascuna delle due bande accusa l’altra di rappresentare la quinta colonna dei populisti (salviniani gli uni, grillini gli altri) e di adottarne anche i deplorevoli metodi, a cominciare da gogna e linciaggi social. Forse è per questo che in Italia, tutto sommato, la cancel culture non ha (ancora?) particolarmente attecchito, e nemmeno il politicamente corretto: perché in America, come sembra suggerire anche l’Economist, trumpismo e cancel culture sono due diverse forme di intolleranza che si rafforzano a vicenda, opposte e complementari come le due metà di una stessa mela. Mentre qui in Italia, dove gli epigoni e anche i precursori di Trump affollano l’intero spettro politico, giornalistico e intellettuale, abbiamo solo infinite repliche della stessa metà della mela, e nessuna traccia dell’altra mezza. Basta accendere la tv o sfogliare un giornale per verificare come tutto sia infatti perfettamente dicibile, pressoché ovunque, anche quello che nei paesi civili è giustamente considerato istigazione all’odio e al razzismo. Non così in Italia, dove sulla derisione di handicap, difetti fisici e qualsiasi altro dettaglio legato a sesso, età, etnia, zeppola o altezza dell’avversario sono fiorite carriere e sono nati interi gruppi editoriali, perché non c’è nulla che ci piaccia tanto come darci di gomito mentre sghignazziamo del comune bersaglio. Capite dunque perché, dopo aver passato soltanto pochi minuti esposto a questo genere di spettacolo, ho avvertito tutta l’inanità dello sforzo che mi accingevo a compiere per argomentare la mia tesi, e mi sono rassegnato a non scrivere l’articolo.

 Compagni che cancellano. La sinistra illiberale non è meno pericolosa della destra autoritaria. Christian Rocca il 3 settembre 2021 su L'Inkiesta. Uno straordinario numero dell’Economist mette in guardia il mondo occidentale dalla minaccia costituita dalla politica identitaria, altrettanto grave quanto quella dei Salvini, dei Trump e dei Putin. Siamo cresciuti con l’idea che l’arco della storia tende necessariamente verso il progresso e con la consapevolezza che il progresso è una conquista quotidiana ma inesorabile che si ottiene attraverso un dibattito pubblico informato e una coerente azione riformista. Nonostante i mirabolanti successi sociali, economici e culturali in oltre mezzo secolo e in ogni continente della Terra, negli ultimi tempi questa idea e questa consapevolezza sono state messe in crisi dal populismo di destra e dai regimi autoritari, da Donald Trump e dalla Cina di Xi Jinping e dalla Russia di Vladimir Putin, per mille ragioni che la nuova copertina dell’Economist affronta con la tradizionale capacità di analizzare i fenomeni globali in corso. Il settimanale inglese, però, aggiunge un elemento non banale all’attacco al sistema liberale, ovvero che il pericolo per il mondo come lo conosciamo non arriva soltanto da lì, dalla destra populista e autoritaria. Fin dal titolo della cover di questa settimana, l’Economist riconosce «la minaccia della sinistra illiberale», un tema ricorrente sulle colonne de Linkiesta, in particolare negli articoli di Francesco Cundari e di Guia Soncini. C’è, intanto, la questione del bipopulismo. L’Economist spiega che i due populismi, quello di destra e quello di sinistra, «si nutrono patologicamente a vicenda» in una campagna di odio nei confronti degli avversari che favorisce soltanto le ali estreme. Ne sono complici, scrive il settimanale inglese, i liberali classici che per interessi indecenti si consegnano ai nazional sovranisti (in Italia siamo pieni di retequattristi e di tiggidueisti, di liberali per Salvini, per Putin, per Trump). Ma ne sono altrettanto responsabili i liberal progressisti che si illudono che gli intolleranti di sinistra siano soltanto una minoranza, e pure facile da addomesticare: «Non preoccupatevi, dicono, l’intolleranza fa parte del meccanismo del cambiamento: concentrandoci sulle ingiustizie sociali, si sposteranno al centro» (qui pare che l’Economist si rivolga direttamente al Pd e alla surreale idea di alleanza strategica con i Cinquestelle). Poi c’è la delicata questione della identity politics, la politica della suscettibilità identitaria, nata nelle università americane e diffusasi nella società occidentale a mano a mano che gli studenti addestrati a questa nuova religione contemporanea si sono laureati e hanno cominciato a lavorare nei media, in politica, nell’istruzione e nel business «portando con sé il terrore di non sentirsi a proprio agio, una propensione ossessiva e limitata ad ottenere giustizia per i gruppi identitari oppressi e i metodi per costringere tutti quanti alla purezza ideologica, censurando i nemici e cancellando gli alleati che hanno trasgredito, con echi di quello stato confessionale che ha dominato l’Europa prima che prendesse piede il liberalismo alla fine del diciottesimo secolo». Nonostante i liberali e la sinistra illiberale abbiano in comune molte cose, a cominciare dalla ricerca costante del cambiamento fino all’opportunità universale di farcela a prescindere dal genere o dalla razza, scrive l’Economist, «in occidente sta succedendo qualcosa di straordinario: una nuova generazione di progressisti sta ripristinando metodi che sinistramente ricordano quelli di uno stato confessionale, con versioni moderne dei giuramenti di fedeltà e delle leggi sulla blasfemia». Mentre c’è ancora chi rifiuta di riconoscere che cosa sta succedendo, grazie alla copertina dell’Economist forse qualcun altro capirà che è arrivato davvero il momento per i liberali di destra di smetterla di giocare col fuoco nazional populista e per i progressisti di sinistra di cominciare a domare l’incendio appiccato dai compagni illiberali. 

Ben alzato, Economist. Confessioni di anticancellettista della prima ora, ora che l’élite le dà ragione.  Guia Soncini il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Da oltre un anno, nonostante i dubbi della redazione, Soncini avverte quasi quotidianamente dei rischi di un mondo progressista che si comporta come la peggior destra. E adesso chi la tiene più, la mitomane. Ben alzato, Economist. C’è una nuova ortodossia nelle università, scrivi nella storia di copertina del tuo nuovo numero. Andrew Sullivan l’ha scritto sul New York Magazine nel febbraio del 2018, We all live on campus now. Persino un’italiana c’era arrivata prima di te: nella classifica dei libri del Corriere, nella primavera di quest’anno, trovi un libro sul disastro dell’istruzione suscettibile, d’una certa Guaia Soncini. Trovi anche alcune decine di suoi articoli sul tema già nel 2020, su Linkiesta, firmati non si sa perché con una vocale in meno. Ci fa piacere che anche tu abbia capito che la sinistra prescrittiva è un problema più della destra cafona. Ci ho messo un po’ a convincere di questo concetto anche i ragazzi qui a Linkiesta, ma il direttore si è arreso, persino Cundari pur mugugnando ammette che no, non è normale dover dire che due più due può fare cinque durante le lezioni di matematica altrimenti gli allievi della tal etnia che fin lì hanno preso brutti voti in addizioni si frustrano, e insomma, caro Economist, mancavi solo tu. Vieni, ti verso da bere. Ricopio qualche tua riga, quelle in cui dici che il liberalismo non è un pranzo di gala, e che spesso va contro ogni istinto di noialtri umani di tendenza suscettibile. «Richiede che tu difenda il diritto di parola del tuo avversario, anche quando sai che dirà cose sbagliate. Devi mettere in discussione le tue più profonde convinzioni. Non devi tutelare le imprese dai venti della distruzione creatrice. Le persone care devono far carriera solo per i loro meriti, anche quando il tuo istinto sarebbe di favorirle. E devi accettare la vittoria elettorale dei tuoi nemici, anche quando sai che porteranno alla rovina il paese». Quest’ultima a quegli altri sembrerà parli di Trump, ma noialtri sappiamo che parla degli ultimi trent’anni di politica italiana. Primo flashback, 2020. Linkiesta pubblica alcuni articoli – a memoria direi di Cundari e Rodotà – che mettono in dubbio l’esistenza della cancel culture. L’idea è quella che ho sentito esprimere tante volte: ma c’è Trump, c’è Salvini, ti pare che il problema possa essere la censura di sinistra. Sto scrivendo “L’era della suscettibilità”, ed è in quel momento, in una conversazione a proposito di uno di quegli articoli, che metto a fuoco quella che diventerà una delle chiavi della mia interpretazione di questi tempi: non è una contrapposizione tra destra e sinistra. Il punto è trovare uno spazio non beghino a sinistra. La questione è tra chi si dice di sinistra bruciando i libri di Harry Potter perché JK Rowling ha osato dire che il sesso biologico esiste, e chi sa che non sei di sinistra se non pensi che la Rowling possa dire il cazzo che le pare. E questo non perché abbia ragione (ce l’ha), ma perché la libertà di parola non serve a tutelare chi ci è affine o chi dice cose impeccabili: quelli si difendono da soli. Il direttore della testata che state leggendo mi dice che secondo lui è una distinzione troppo sottile, è impossibile farla passare. Ma io sono cocciuta, e la scriverò tale e quale in quel libro che ci è arrivato prima dell’Economist: chi ha l’indubbia fortuna di parlare con me sa che utilizzo il metodo del maiale, e non butto via nessuna conversazione. Secondo flashback, giugno 2021. Sono a Fano, a un festival letterario di quelli ai quali gli autori vanno per parlare dei loro libri e mangiare a scrocco. M’intervista Flavia Fratello, giornalista di La7 molto interessata a questi temi. A un certo punto, sul palco, dice: Maria Laura Rodotà sostiene che in Italia la cancel culture non esiste perché Calderoli può dare dell’orango alla Kyenge. Niente, questo su destra e sinistra è il dibattito della marmotta. Ma a destra possono fare quello che vogliono, sospiro. Trump può dire che prende le donne per la passera e vincere comunque le elezioni. Le regole valgono a sinistra. È a sinistra che passi da scrittrice da Pulitzer a reproba se, in un dialogo dell’Ottocento che parla d’una cameriera, usi la parola «negra» (sì, ho visto lo sdegno su Facebook perché Jennifer Egan aveva osato non usare in una conversazione ambientata duecento anni fa termini quali «bipoc», black and indigenous people of color, che si orecchiavano spesso nelle piantagioni). Non lo si ripete mai abbastanza, se a settembre 2021 anche all’Economist sembra una novità. D’altra parte Sullivan lo ripete da anni, che i suoi amici gli dicono che l’illiberalismo insegnato nelle università è roba da universitari. Poi passa. Oppure no, come nota ora l’Economist; e come sei mesi fa, intervistandomi per il suo podcast, mi suggerì Daniele Rielli: gli studenti cui è stato insegnato che, se Shakespeare li turba, Shakespeare non dev’essere insegnato, poi diventano giornalisti, scrittori, editori. Diventano quei giovani fanatici dei quali i vecchi del New York Times sono terrorizzati, come ha raccontato Bari Weiss andandosene da quel giornale. Diventano quei giovani fanatici per i quali il quieto vivere è sacro e chi è sospetto d’avere comportamenti perturbanti va rimosso dal nostro orizzonte: quelli che minacciano di licenziarsi se la casa editrice pubblica l’autobiografia di Woody Allen. Insieme al fatto che è una questione interna alla sinistra, la cosa più difficile da far capire è che la presunta sinistra non è sinistra illiberale: è destra. È gente che sogna Il racconto dell’ancella. Certo, se glielo chiedi ti diranno che l’incarnazione del Racconto dell’ancella è il Texas che vieta l’aborto, ma non è esatto: è molto più atwoodiano il mondo prescrittivo che sognano loro, in cui posso stabilire cosa tu possa dire e cosa pensare, e punirti se non ottemperi. Sospetto sia colpa nostra. Di noi quarantacinquantenni che, oltre a essere i meno autorevoli della storia e quindi un disastro come genitori, siamo anche determinati a scusarci di non si sa bene quali fortune. Tempo fa una quarantenne che lavora coi ventenni mi ha detto che per loro le questioni identitarie sono molto importanti perché hanno solo quelle: noi avevamo un futuro professionale ed economico, loro sanno che è tutto finito e che, invece di puntare sull’avere una carriera, gli conviene intrattenersi con l’identità di genere. A 23 anni facevo l’autrice d’un programma televisivo con tre trentenni. Era per tutti e quattro la prima volta: avevamo fin lì fatto altro, e la maggior parte di noi sarebbe tornata a far altro. Venticinque anni dopo, uno di loro è tornato a fare il supplente, uno è tornato a tentare senza successo la fortuna nell’editoria, io sono io; il quarto, che fino a quel programma faceva il rappresentante d’elettrodomestici, è diventato il più pagato sceneggiatore di commedie d’Italia.

Uno su quattro ce la fa. Mi sembra una media alla portata dei ventenni di questo secolo. Quelli che questa storia la racconterebbero per dire che ecco, lo vedi, ci avete rubato il futuro, i sogni, la possibilità di far carriera in tv. È colpa nostra, che quando frignano non li prendiamo a coppini, che quando ci parlano delle loro istanze non gli diciamo che sono tutte stronzate (com’è stato detto a tutti i ventenni nella storia del mondo), che ci apriamo un Tik Tok per sentirli più vicini. I giovani hanno solo il dovere d’invecchiare, diceva quello. Aggiungerei che la sinistra ha il dovere di non comportarsi da destra. Guia Soncini

Antonio Riello per Dagospia il 2 settembre 2021. La gipsoteca della Faculty of Classics dell'Università di Cambridge raccoglie più di seicento copie in gesso di sculture greche e romane (solo circa quattrocento di esse sono effettivamente visibili al pubblico). La elegante Korè di Peplos e l'imponente Kouros di Sounion sono tra i pezzi forti della collezione. La sua importanza sta nel permettere agli studiosi di fare ricerche senza rovinare gli originali e ovviamente senza dover girare per mezzo mondo. C'è qualcosa di abbastanza simile anche al Victoria & Albert Museum di Londra. Concettualmente un calco in gesso è una semplice riproduzione, ma quelli che hanno molti decenni sulle spalle diventano a loro volta dei "reperti quasi-antichi", acquistano insomma una intrinseca preziosità. Fino a poche settimane fa questo posto era noto solo agli addetti ai lavori. La pregevole raccolta infatti deliziava, più che il grande pubblico, un manipolo di specialisti e studenti della classicità. Almeno finchè i media britannici hanno iniziato a parlarne perchè è successo qualcosa che ha lasciato sbalordita la gente comune (il paludato e spocchioso mondo accademico è in effetti già avvezzo da tempo a questo tipo di "incidenti"). Un gruppo di studenti e una piccola parte del personale dell'Università di Cambridge ha contestato con forza l'esposizione al pubblico di queste copie, chiedendone a gran voce la chiusura o almeno un radicale "riassetto ideologico". Il Consiglio di Facoltà ha deciso di tenere aperto ma di far accompagnare subito i tanti reperti presenti da adeguate informazioni che li possano giustificare e "de-ideologizzare". In pratica ampie didascalie negano che questo sia un display di propaganda ad uso della supposta supremazia europocentrica. Si va anche oltre: si spiega diligentemente come il colore bianco dei reperti sia un mero fatto tecnico (ma guarda un po': il gesso è naturalmente bianco di suo....) e non ideologico. O peggio, subdolamente celebrativo. Chi ne ha chiesta la chiusura appartiene al variegato movimento noto nel Regno Unito come "WOKE". Gli Woke People pensano ad una profonda trasformazione della Cultura Occidentale: partendo dai corsi universitari vogliono una nuovo tipo di Cultura decisamente più inclusiva e multietnica. Ma soprattutto vogliono ri-scriverla scartando radicalmente tutti gli aspetti ritenuti disdicevoli (ovvero purgarla di quelli più biecamente bianchi, capitalisti, maschilisti, e quindi in qualche modo "occidentali"). Si parla spesso in questi casi di "Cancel Culture". Il paradosso è che, per proteggere le cosiddette "Culture discriminate", si finisce effettivamente per discriminarne delle altre. Il loro bersaglio preferito è comunque proprio il mondo classico. Lo studio dell'Odissea e dell'Iliade a livello universitario è stato messo in secondo piano e talvolta apertamente abolito da alcuni atenei americani e britannici (non ancora a Cambridge, almeno per il momento). Questo perchè i versi di Omero sono definiti come "non sufficientemente inclusivi" e sembra che portino via tempo allo studio di epopee africane e/o asiatiche. Almeno il valoroso Ettore fosse stato di origini africane....Inoltre, evidentemente, non c'è in essi abbastanza spazio per  ruoli femminili significativi. Anche la scultura classica, sotto questa prospettiva, diventa una epifania del potere occidentale più detestabile. L'inizio di una estetica razzista e colonialista nonchè di un sistema artistico culturalmente vessatorio e predatorio. Forse è tollerabile il fatto che all'origine le statue classiche fossero allegramente e chiassosamente colorate. Ma è sicuramente diventato inaccettabile il loro attuale minaccioso biancore marmorio (o, come in questo caso, gessoso). L'archeologia tradizionale è vista come uno strumento di oppressione da quelli che sono diventati i Talibani del politically correct. Su The Times Melanie McDonagh scrive senza mezzi termini di "idiozia". Altri giornalisti sono magari più sfumati nella terminologia ma concordano tanto sulla ridicola richiesta degli studenti coinvolti quanto sulla obbediente e docile reazione dell'Istituzione Universitaria. Si è parlato anche di "vandalismo culturale" da parte dei più conservatori. The Guardian, piuttosto vicino al movimento Woke, invece prudentemente sorvola e abbozza. 

Due rapide considerazioni. 

Una pratica: se per qualsiasi ragione passate per Cambridge affrettatevi a vedere questa raccolta. Potrebbe chiudere definitivamente presto.

L'altra un po' nostalgica: come sono lontani i tempi in cui nella provincia italiana il medico, il professore o l'avvocato di turno si vantavano affermando con orgoglio: "noi che abbiamo fatto il Liceo Classico!" (e spesso non era neanche vero....). Fra un po' anche chi lo ha fatto per davvero dovrà nasconderlo, giurando di avere fatto solo sani studi "multiculturali improntati ad una rigorosa diversità". E, ad una eventuale domanda trabocchetto di controllo sul grande Aristotele di Stagira, dovrà rispondere di aver solo sentito parlare - e vagamente - di un traghettatore con quel nome, un certo Aristotele Onassis.

L’università che resiste e non cancella la storia del generale Lee. Matteo Muzio su Inside Over il 12 agosto 2021. Un’icona che da regionale diventò nazionale. Il simbolo del perfetto gentiluomo-guerriero americano. Un soldato che si distinse nell’onore, nella vittoria, nella sconfitta e nella vita privata. Tutto questo era Robert Lee. O almeno così diceva la narrazione prevalente, fino a qualche anno fa. Già, perché Lee è stato ritenuto per molto tempo uno dei più grandi eroi militari americani pur avendo ottenuto le sue grandi vittorie con un’uniforme nemica del governo statunitense. Negli ultimi anni però la sua figura è stata il principale bersaglio delle proteste di Black Lives Matter, anche grazie all’adozione di una sua statua da parte di un altro movimento giovanile nato su web, l’alt-right dei meme ironici che prendeva in giro la sinistra usando sottili sfottò antisemiti, in occasione della parata a Charlottesville tenuta nel 2017, finita con un morto tra i manifestanti di sinistra. Al netto degli abbattimenti violenti, pochi, la maggior parte delle statue di Lee è stata rimossa mediante l’approvazione di ordinanze regolari, come nel caso della statua di Richmond, ex capitale confederata. Negli ultimi mesi però Lee ha resistito alla cancellazione in un luogo simbolo per la costruzione del suo Mito: la Washington & Lee University. Dopo una discussione durata 11 mesi, il consiglio di amministrazione dell’ateneo di Lexington, in Virginia, ha deciso di mantenere il nome del suo presidente più famoso dopo il fondatore George Washington. Ma ci arriviamo tra poco. Concentriamoci sul generale Lee.

La storia dopo la guerra. Se le sue gesta durante la guerra sono molto note, le vittorie ma soprattutto le sconfitte, in special modo la battaglia di Gettysburg, quello che accadde nel dopoguerra lo è meno. A differenza di molti suo ex compagni d’arme, come il suo braccio destro Jubal Early o l’ex presidente della Confederazione Jefferson Davis, che nel dopoguerra si erano concentrati nel costruire un mito revanscista combattendo attivamente l’integrazione razziale degli ex schiavi e il partito repubblicano visto sempre come “nordista”, Lee ha sin dal primo momento parlato di riconciliazione. Il professor Gaines Foster, storico e autore del libro Ghosts of Confederac, ha raccontato a InsideOver che “Lee ha sempre puntato sul voler chiudere in fretta il capitolo della guerra civile in favore di un ritorno il più rapido possibile all’unità prebellica”. Ma quale tipo di unità? Foster aggiunge: “Ovviamente solo quella tra bianchi. Per tutta la vita ha sempre creduto all’inferiorità razziale dei neri”. Durante un’audizione al Congresso nel 1866 infatti dichiarò che secondo lui sarebbe stato meglio se la Virginia si fosse potuta sbarazzare di tutta la sua popolazione afroamericana. A differenza di alcuni suoi ex colleghi, come James Longstreet, che Lee chiamava “il mio vecchio cavallo da guerra” e il leggendario comandante della guerriglia John Singleton Mosby, chiamato “il fantasma grigio” per l’efficienza con cui colpiva i reparti unionisti dietro le linee nemiche, non sposò però mai la causa egualitaria del partito repubblicano. Riteneva fosse necessario mantenere la vecchia struttura di potere e fu sempre molto blando nel punire i suoi studenti accusati di violenza razziale. Eccettuato un caso, nel quale salvò un afroamericano, Caesar Griffin che era stato accusato di aver sparato a Francis Brockenbrough, figlio diciassettenne del rettore dell’università John Brockenbrough, ex giudice federale. Due fratelli maggiori della vittima organizzarono una spedizione punitiva per andarlo a catturare insieme ad altri studenti dell’università. La folla sembrava stesse per linciare Griffin quando apparve Lee dicendo: “Lasciate che la legge faccia il suo corso”. Salvandogli la vita. Ciò però non deve far pensare che Lee usasse la mano dura contro tutti gli episodi di violenza razziale, anzi. Il college non godette di buona stampa in quegli anni. I “ragazzi di Lee” spesso disturbavano le riunioni tanto che emanò una diffida rivolta agli studenti che sconsigliava di partecipare a riunioni di ex schiavi. Quando però venne interpellato per esprimere una parola chiara contro la violenza in generale, scelse di tacere. Quando anche il fondatore (pentito) del Ku Klux Klan, l’ex generale di cavalleria Nathaniel Bedford Forrest, disse che voleva aiutare il governo federale contro quei “codardi” che usavano violenza sui nostri “amici di colore”.

In altre circostanze poi Lee si mostrò ben capace di usare la mano dura contro i suoi studenti, come quando chiesero di anticipare le vacanze natalizie. Chi si fosse allontanato anzitempo, Lee specificò, sarebbe stato passibile di espulsione. Ma che tipo di educatore fu quindi Robert Lee?

Verso il culto del generale. Secondo il giudizio dello storico Emory Thomas, professore emerito all’università della Georgia, e autore di una sua biografia, Lee fu un educatore pragmatico, che rimosse un farraginoso codice d’onore e di segnalazioni sostituendolo con il più semplice “comportatevi come gentlemen”. Abbiamo visto che non fu sempre così, ma ottenne un indubbio risultato e nel comunicato stampa di giugno l’università che porta il suo nome glielo riconosce: “Ha trasformato l’istituzione dopo la guerra civile”. Soprattutto per la sua capacità di raccolta fondi.

Dopo la sua morte però, l’università non sfruttò la sua immagine di educatore efficace. Sfruttò quella di generale confederato. Venne costruita una cappella con cripta dove al centro si trova tuttora un sarcofago di Lee in uniforme confederata, circondato dalle bandiere con la croce di Sant’Andrea dell’Armata della Virginia del Nord che Lee guidò in battaglia. L’università divenne il centro del suo culto. Abbiamo chiesto al professor Gaines Foster come mai la sua immagine si sia diffusa poi in tutto il Paese: “Con la riconciliazione tra bianchi Lee venne reso la versione sudista di Lincoln: un combattente nobile, un gentiluomo cristiano che aveva dato tutto sia pur per una causa sbagliata”. Già, la causa, la Lost Cause, quella narrazione revisionista che ridimensionava la difesa della schiavitù dei confederati, mettendo in luce il loro valore nel combattere un nemico superiore nel numero. La causa quindi quale sarebbe stata? La difesa dei “diritti degli stati”. E pazienza se Lee e altri leader confederati durante la guerra avessero sempre difeso la “peculiare istituzione”, mettendo in un articolo della Costituzione la sua inamovibilità. Ma questa è un’altra storia.

Concentriamoci su Lee. La sua icona ha subito varie trasformazioni. Prima l’icona sudista, il santo laico della Virginia. Il generale di brigata e storico militare Ty Seidule, autore del libro Robert Lee and me ha scritto: “Per me era sopra Gesù”. Nessuno avrebbe mai osato contestare questa espressione, soprattutto dopo che proprio in questa cappella Charles Francis Adams, discendente degli Adams del Massachusetts, tenne un discorso in occasione del centesimo compleanno di Lee, il 19 gennaio 1907. Lui, discendente di una famiglia di abolizionisti, elogiò lo spirito di Lee, convenendo con gli astanti che i neri non erano pronti per il voto. Era il segnale che ormai Lee aveva valicato i confini del Sud per diventare un simbolo dell’America tutta. A rafforzare questo mito, la biografia pubblicata da un giornalista virginiano, Douglas Southall Freeman, in quattro volumi dal 1933 al 1935, vincitrice del Pulitzer. Estremamente dettagliata, la biografia consolidava l’immagine di Lee come nuovo Washington, fondatore autentico della nuova nazione riunificata sotto la bandiera della riconciliazione per ritrovare un posto nel mondo, messaggio che risuonava particolarmente positivo in quegli anni.

Il revisionismo degli anni 70. Infine, due messaggi da parte di due presidenti repubblicani come Theodore Roosevelt nel 1907 e Dwight Eisenhower nel 1960, mandavano Lee nell’Empireo degli eroi americani. Finché, tutto questo cadde con la lotta per i diritti civili degli afroamericani. La parte più oscura del generale, lontana da quell’uomo di marmo decantato negli anni precedenti, emerse negli anni del revisionismo storico anni ’70. Non solo. Anche i suoi demeriti come comandante militare vennero alla luce: a differenza del comandante unionista Ulysses Grant, a Lee mancava la visione strategica globale necessaria per vincere il conflitto, concentrandosi più che altro sullo scenario virginiano. Infine, il post-revisionismo del già citato Emory Thomas e di Allen Guelzo, storico del Gettysburg College, autore di una biografia in uscita a settembre: la loro visione è più complessa e sfaccettata. Per farla breve: Lee era un geniale stratega militare e una persona dalle alte qualità morali. Ma anche una persona che aveva giurato di servire gli Stati Uniti e li ha traditi nel momento del bisogno per una ragione assai spicciola: difendere i propri schiavi, sui quali aveva investito molto. Non bisogna farsi ingannare dalle lettere nelle quali esprimeva disgusto per la schiavitù. Semplicemente, non gli piaceva gestirli in prima persona. Nei suoi scritti non c’è traccia di una sola parola a favore dell’abolizione. Per il professor Foster quindi “Il compromesso della Washington & Lee University è ampiamente accettabile. Il problema è quando il nome di Lee è su una base militare americana. Per spiegarla brevemente, è come ci fosse una base dedicata a Lord Cornwallis, comandante delle forze britanniche durante la guerra per l’indipendenza o una statua dell’ammiraglio Yamamoto, che progettò l’attacco di Pearl Harbour”. Non si pensi che la scelta di mantenere il nome di Lee sia stata unanimente condivisa. Il professore di diritto Brandon Hasbrouck ha scritto sul magazine progressista Slate che “la supremazia dei bianchi è stata assolta”. A dimostrazione che la situazione è molto più complessa. L’ateneo di Lexington, invece, si è imbarcato in una difficile operazione: scindere il Lee comandante confederato dal Lee presidente del college. Non un’operazione facile. Ma in tempi di cancellazioni frettolose, non è poco.

Il film "razzista" che raccontò le contraddizioni d'America. Alberto Bellotto l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. Nel 1956 uscì nelle sale Sentieri Selvaggi, uno dei capolavori di John Ford. La pellicola venne accusata di razzismo contro i nativi americani e fu uno dei primi casi di cancel culture. Ma una lettura non ideologica mostra una storia molto diversa. In tempi di purezza ideologica ci si sta lentamente abituando a prendere posizione in modo radicale. Ad avere opinioni nette, a sposare facilmente un politicamente corretto da manuale. In tutto questo si perdono le sfumature. Si prende ogni prodotto dell’uomo, un film, un libro, una canzone e lo si passa sotto i raggi x del pensiero e si stabilisce via via se è sessista, omofobo, razzista. In America da qualche anno si dibatte intorno al complesso tema della cancel culture, pensiamo solo alla battaglia contro le statue. Si creano liste di autori e cineasti da evitare perché razzisti o poco attenti alle minoranze e si finisce facilmente all’indice delle opere proibite. Non stupisce quindi che oggi certi film siano automaticamente etichettati come razzisti. Facile leggere qualcosa prodotto 50-60 anni fa con gli occhi moderni. Eppure c’è almeno un caso, in cui si applicò la cancel culture prima ancora che esistesse. Stiamo parlando della campagna contro uno dei film più famosi mai prodotti da Hollywood: Sentieri selvaggi. Diretto da John Ford, e uscito nelle sale nel 1956, è stato il pilastro del cinema western nel periodo d’oro culminato nei primi anni ’60. Ma questo non l’ha protetto da polemiche critiche. Nel 2012 mentre era in tour a promuovere Django Unchained, Quentin Tarantino riservò a Ford parole di fuoco definendolo razzista, odioso e colpevole di portare avanti “l’idea di un’umanità anglosassone contro il resto dell’umanità”. “Gli indiani dei suoi film - aggiungeva - sono presentati senza volto, uccisi come zombie”.

Una trama complessa. Ma di cosa parla esattamente il film. La trama è complessa, e strutturata e ricca di colpi di scena. La storia, ambientata in Texas, ruota intorno a Ethan Edwards, interpretato da John Wayne, veterano sudista della Guerra di secessione e alla sua ricerca tra le valli del Texas. I soggetti al centro di questa "ricerca" sono in realtà due bimbe, nipoti di Ethan, rapite da un gruppo di indiani Comanche. Il film, uno dei primi all’epoca, sperimenta anche la dilatazione del tempo e infatti la ricerca delle due bambine dura anni e nel corso di queste ricerche si scopre come il veterano sia in realtà un razzista mosso da un profondo odio nei confronti dei nativi americani, manifestato con un linguaggio e una violenza notevole, fino all’epilogo forte e inaspettato. Ma un protagonista razzista basta a etichettare la pellicola come razzista? Forse sì a giudicare da quanto avvenne dopo l’uscita in sala. La Argosy Pictures, casa di produzione fondata tra gli altri da Ford, fu costretta a chiudere sommersa dalle critiche per la rappresentazione degli indiani. Già all’epoca il film fu divisivo, e Ford fu costretto a mettersi sulla difensiva e la scelta di mettere in scena un personaggio forte come Ethan lo perseguitò a tal punto che sarebbe tornato a dirigere un western, il suo marchio di fabbrica, solo tre anni dopo con Soldati a cavallo. Ma tutto quest’odio per quel film era giustificato? In realtà se si evita la purezza ideologica e si analizzano la vita di Ford e il contesto della sua realizzazione tutto assume una luce diversa.

Un altro film. Sentieri selvaggi in realtà è una pesante critica alla società contemporanea, condotta con l’occhio sensibile e attento di Ford. All’inizio, mentre prendiamo confidenza coi personaggi, si tende a osservare Ethan Edwards e a pensare che sia lui il protagonista, ma poi scopriamo che per Ford il personaggio di Wayne è più simile all’America e meno a un ideale eroico. Ethan è prima di tutto uno sconfitto (soggetto caro a Ford fin dai tempi di Ombre rosse), un disadattato che dedica diversi anni della sua vita a una ricerca che tutti abbandonano ma che rappresenta il segno di un uomo incapace di tornare a vivere nel mondo civile. La violenza e il razzismo messo in scena da Ethan non è altro che quello presente, vivo e vegeto nella società americana di metà '800. Poco a poco che i minuti scorrono ci si rende conto che non c’è niente di eroico nella ricerca del cowboy, che il vagare a caccia di indiani non è qualcosa di cui andare fieri. Il cineasta porta così sul banco degli imputati la storia eroica dell’America bianca: un atto rivoluzionario per l’epoca anche perché l’America del West fu profondamente razzista e anti indiana. Gli atteggiamenti eccessivi del personaggio, come promettere una pallottola per la nipote ormai diventata “un avanzo dei Comanche” sono un pugno allo stomaco per lo spettatore e la prova che a processo c’è il “destino manifesto” dell’America. Paradossalmente, nota un’analisti sul sito The Take, il vero cattivo del film è proprio Ethan e non i cattivi indiani stereotipati come dice Tarantino. Persino i pellirossa, che Ford utilizza per dare dinamicità al film come scusa per le scene di battaglia, sono più tridimensionali di quanto vogliano far credere i critici. Il capo degli indiani responsabili del rapimento, Scar (capo scout nel doppiaggio italiano) ad un certo punto racconta il suo odio verso l’uomo bianco colpevole di avergli massacrato la famiglia. Perché dare spessore a un cattivo capo indiano se l’intento era di fare un film razzista. E ancora, durante una delle tante scene di battaglia tra soldati americani e indiani il regista indugia in un particolare, una scena in cui si vede un nativo portare in salvo due bambini. Anche qui se l’intento era fare un film razzista perché non tagliare l’inquadratura in fase di montaggio.

Le verità dietro al film. Ci sono altri due particolari che aiutano a decodificare il film e che dimostrano come le letture ideologiche, allora come oggi, siano limitate e spesso fuori fuoco. La sceneggiatura della pellicola è in realtà un adattamento di un romanzo di Alan Le May, a sua volta ispirato a una storia vera, quella della bimba di nove anni Cynthia Ann Parker che nel 1836 venne rapita da un gruppo di Comanche, educata come nativa e poi data in sposa a un capo indiano. Per anni la famiglia di Cynthia ha tentato invano di ritrovarla, fino a che, nel 1860 nella battaglia di Pease River, un gruppo di Ranger del Texas la individuò tra alcuni rifugiati e dopo una serie di controlli incrociati la riportò alla famiglia. Una storia che poi avrebbe anche ispirato un altro western, Balla coi lupi. Alan Le May nel suo libro romanza la storia di Cynthia e aggiunge anche altri personaggi oltre all’Ethan poi impersonato da John Wayne, in particolare il personaggio di Martin Pawley, figlio adottivo del fratello di Ethan e fratellastro delle due bimbe rapite dagli indiani. Secondo molti Martin è il vero protagonista della storia perché è attraverso i suoi occhi che lo spettatore osserva gli avvenimenti: prima il tragico rapimento delle sorelle, poi la ricerca disperata e infruttuosa e poi il comportamento eccessivo e violento di Ethan che lo porta ad avere posizioni più morbide e moderate. E proprio Martin è la vera chiave per scagionare Ford. Nel romanzo Martin è un semplice figlio adottivo bianco, ma nel film viene presentato come un meticcio, figlio di un genitore bianco e di uno indiano. Anche qui: perché decidere di modificare un personaggio in questo modo se l’obiettivo era fare un film razzista? Per tutto il film Martin rappresenta quell’America “buona” che cerca di far convivere il suo essere figlia di un nuovo mondo e non una semplice proiezione anglosassone. Si mostra eroico nel voler sacrificare interi anni della sua vita a cercare le sorelle, ma allo stesso tempo biasima gli scatti di Ethan contro i nativi, per i quali mostra invece curiosità. Ford è consapevole di tutto questo, proprio perché il suo scopo era quello di usare uno dei generi più in voga all’epoca per parlare dei temi che gli erano cari, e come abbiamo visto nessuno i questi era il razzismo.

Dai Western alla guerra e ritorno: la storia di Ford. Gran parte dei western di Ford hanno rappresentato film moderni con personaggi moderni. È negli anni 30 e nella diligenza di Ombre Rosse che nasce l’America secondo il regista. È da un manipolo di disadattati, dall’alcolizzato alla prostituta, che nascono gli Stati Uniti. Allo stesso modo in Sentieri selvaggi Ford esplora la storia sociale degli Usa e non manca di criticare la guerra. Non a caso il suo “protagonista negativo” Ethan sia un reduce di guerra, uno sconfitto del Sud che non si riesce a reintegrare nella società e anzi mostra i segni di uno stress da guerra. E il fatto di mostrarlo come un reduce della Confederazione, senza gli slanci da lost cause tipici di Via col Vento, ne è la riprova. E Ford sa benissimo da dove pescare, dalla sua esperienza di cine operatore durante la Seconda guerra mondiale. Il regista durante la guerra lascia Hollywood e parte per il fronte filmando prima un documentario sulla battaglia delle Midway e poi sbarcando con gli americani sulle spiagge della Normandia. Esperienze traumatiche per lui, anche nel fisico dato che fu lì che perse il suo occhio sinistro. Difficile quindi non pensare che i suoi film ne avrebbero risentito. Il veterano violento e la furia della battaglia vennero tutti mescolati per creare un film stratificato come Sentieri selvaggi. Un opera che persino oggi, letta con le lenti del politicamente corretto, sarebbe da mettere all’indice ma che in realtà racconta meglio di molti saggi scritti nei campus ultra liberal cos’è stata la conquista del West, la sopraffazione di un popolo libero e l’inganno del “destino manifesto” che da sempre orienta le scelte di Washington.

Alberto Bellotto. Nato in Veneto nel 1987. Laureato in Editoria e giornalismo all’Università di Verona sono giornalista professionista dal 2017. Dal 2015 collaboro col ilGiornale.it e dal 2021 svolgo il ruolo di editor per InsideOver. In passato ha scritto anche per Lettera43, Wired, Linkiesta, Corriere della Sera e Pagina99.Mi occupo di Visual journalism con una particolare passione per le mappe e il mapsplaining.

MEMORIA SCOMPARSA. LA VIOLENZA DELLA CANCEL CULTURE. Testo: Stefano Magni su Inside Over il 25 luglio 2021. “La cancel culture non esiste”, ci dicono i “fact checkers indipendenti” e i vari puntualizzatori della stampa statunitense e italiana. Sarà… però in Giappone, alla vigilia dell’inaugurazione delle Olimpiadi di Tokyo hanno dovuto rassegnare le dimissioni Kentaro Kobayashi, direttore della cerimonia di apertura e Keigo Oyamada, in arte “Cornelius”, musicista pop di fama internazionale, che aveva composto le musiche della cerimonia inaugurale e di chiusura dei Giochi. Non erano coinvolti in alcun sospetto di reato. Il direttore della cerimonia, di professione comico, in uno spettacolo teatrale di 23 anni fa, ripreso dalla televisione, aveva recitato una battuta in cui si parlava di Olocausto. Non stava deridendo le vittime, ma stava semmai prendendo in giro l’assurdità dei giochi proposti dagli educatori, che intrattenevano i bambini anche con divertimenti grotteschi (“e ora giochiamo all’Olocausto”). Nel 1998 Kobayashi non sapeva di aver pestato una mina, o meglio una bomba ad orologeria che sarebbe scoppiata 23 anni dopo e gli avrebbe distrutto la carriera. Oyamada, invece, nel 1995 aveva rilasciato un’intervista in cui confessava (senza dimostrare troppo pentimento) di essere stato un bullo con i suoi compagni di classe, quando era ragazzino. Anche lui, 26 anni fa, non sapeva di essersi condannato alla gogna. Questi sono due classici esempi di “cancel culture”, l’abitudine, nata negli Stati Uniti ed in via di diffusione in tutto il mondo, di “cancellare” una personalità sulla base di sue dichiarazioni o comportamenti ritenuti disdicevoli, anche se risalenti a un passato remoto. Ma la cancel culture non riguarda solo le persone vive e in attività, ma anche i libri, le opere di ingegno e i monumenti. Tutto ciò che non supera il test del politicamente corretto deve essere rimosso, cancellato. La cancel culture è antica e moderna al tempo stesso. Antica, perché ricalca le pratiche dell’ostracismo in auge sin dalla Grecia classica. Ma è moderna nel metodo, perché sfrutta tutti gli strumenti messi a disposizione da Internet. Il web ha una memoria incancellabile, dunque rende possibile incastrare una persona sulla base di episodi, dichiarazioni o situazioni di tanti anni fa. Il web, inoltre, grazie ai social network, cancella la distinzione fra pubblico e privato: una frase pronunciata fra amici, o scritta sulla propria pagina Facebook diventa una dichiarazione pubblica. Il web, infine, mette in contatto tutto il mondo, quindi uno scandalo locale diventa globale. Un tipico esempio di come funzioni la cancel culture, per stroncare la carriera di un personaggio pubblico, è il licenziamento, da parte della Disney di Gina Carano (che gli spettatori hanno conosciuto in The Mandalorian). Ha iniziato a subire pressioni dal pubblico perché, durante le manifestazioni di Black Lives Matter, non dimostrava abbastanza impegno anti-razzista: troppo pochi post, troppo pochi tweet. Poi ha iniziato a far trapelare le sue simpatie per Trump ed è subito diventata un bersaglio mobile. Il colpo di grazia se lo è inflitto all’indomani delle elezioni, quando, postando una foto del pogrom di Lviv (1941) ha paragonato la sistematica emarginazione dei conservatori nella società americana all’inizio dell’emarginazione degli ebrei dalle società tedesca e dell’Europa orientale, dove poi sarebbero stati apertamente perseguitati e poi sterminati. Il parallelo storico le è costato un licenziamento in tronco, preceduto dal solito linciaggio a mezzo social. Donald McNeil, giornalista scientifico del New York Times, specializzato in argomenti medici e dunque molto attivo durante la pandemia di Covid-19, è stato indotto a lasciare il New York Times il febbraio scorso. Testimoni avevano riferito che, durante un viaggio in Perù in compagnia di adolescenti, aveva usato la parola N (cioè nero con la g fra la e e la r) per indicare gli afroamericani. Il quotidiano The Daily Beast ha rivelato lo scandalo e la sua carriera è divenuta insostenibile. Nello stesso prestigioso quotidiano, erano scoppiati in precedenza due casi ancor più gravi. Il direttore della sezione commenti, James Bennet, aveva dovuto rassegnare le dimissioni per aver ospitato nelle sue pagine il commento del senatore repubblicano Tom Cotton, il quale proponeva di impiegare la Guardia Nazionale per ripristinare l’ordine dopo le prime violente proteste di Black Lives Matter. Il New York Times era solito pubblicare un controcanto, fra le opinioni. Ma ora non se lo può permettere, evidentemente. Bari Weiss, editorialista, aveva rassegnato le sue dimissioni descrivendo il clima infame che si era creato nella redazione, dove subiva insulti e accuse di razzismo e di essere (in quanto ebrea) troppo sionista. Senza che i superiori intervenissero a difenderla, per altro. Bari Weiss, nel suo lungo articolo di addio al quotidiano newyorkese, additava soprattutto la cultura dei social network quale causa di questa degenerazione: la smania di seguire sempre, in tempo reale, il consenso dei lettori espresso sui social. Che è la caratteristica tipica della cancel culture. Ma si può rischiare di perdere la carriera anche in modo indiretto. Come è nel caso di Chris Harrison, conduttore per 17 anni del programma televisivo The Bachelor del network televisivo ABC, poi indotto l’8 giugno scorso a dimettersi. Non aveva detto o fatto nulla di politicamente scorretto, ma aveva preso le difese di una concorrente del suo programma, Rachael Kirkconnell, che la scorsa primavera era diventata oggetto di una violenta campagna di odio online. La colpa della ragazza in questione era quella di aver pubblicato sulle sue pagine dei social le foto in cui indossava il berretto MAGA (Make America Great Again, della campagna elettorale di Donald Trump) e soprattutto quelle in cui, in una festa della sua confraternita universitaria era vestita con la moda del “vecchio Sud”. Stile Rossella O’Hara. Ciò che impressiona di queste vere e proprie epurazioni è la natura apparentemente bagatellare delle colpe che vengono contestate. Una foto, un costume, una frase, una battuta: basta pochissimo per essere cacciati dal proprio posto di lavoro o costretti alle dimissioni. Ciò non stupisce solo se si comprende la causa della cancel culture: l’idea che la propria storia e la propria cultura siano “infette”. Le infezioni sono quelle identificate dalla cultura neo-marxista, dunque: razzismo, paternalismo, sessismo, colonialismo. Tutto ciò che ripropone e non condanna gli stereotipi tipici di queste “malattie” dell’anima, deve essere rimosso. La cancel culture, infatti, non riguarda solo le persone in attività, ma anche le opere del passato. Via col Vento è stato accusato di razzismo e nel giugno 2020, nel pieno delle contestazioni di Black Lives Matter, rimosso dalla piattaforma Hbo Max. Su Netflix lo possiamo vedere ancora, ma con l’avvertimento che contiene stereotipi razziali (e l’invito di andare ad informarsi sui siti di Black Lives Matter: un movimento politico). I classici della Disney, tutti da Biancaneve agli Aristogatti, passando per Dumbo, sono sotto accusa per stereotipi razziali, anche impercettibili per un pubblico non ideologizzato. Devono essere preceduti da avvertimenti per il pubblico, quando non vengono eliminati dai cataloghi. La vicenda che fa più discutere, negli ultimi mesi, riguarda i libri per bambini di Theodor Geisel, in arte Dr. Seuss, citato da Barack Obama come buon esempio di letteratura carica di valori positivi, ma ora condannato per stereotipi razziali. Sei dei suoi libri, fra cui Mulberry Street non verranno più venduti dalla sua casa editrice. Fin qui per le opere contemporanee, ma siccome le malattie della cultura occidentale hanno radici profonde, ecco che partono anche iniziative, più o meno gravi, per rimuovere anche i classici. La proposta non è mai passata, ma professori di Oxford hanno suggerito di “decolonizzare” i programmi di studio della musica classica eliminando lo studio di Mozart e Beethoven fra gli altri. I programmi sono accusati di essere troppo centrati su “Musica europea bianca composta in epoca schiavista”. Oxford ha smentito di aver preso seriamente in considerazione questa proposta di riforma del programma, ma non che la proposta sia stata fatta e sia partita da docenti. Questo è il caso più eclatante, ma nel frattempo nell’università di Princeton, una delle più importanti degli Stati Uniti, lo studio del latino e del greco non sarà più richiesto a causa degli “eventi razziali della scorsa estate”, stando al comunicato della stessa accademia. Da qui all’eliminazione dello studio anche dei padri greci della filosofia (tutti nati e cresciuti in ambienti schiavisti) è molto più breve di quanto sembri. Su altri aspetti della cultura e della storia recente, ci sono state molte meno remore, come suggeriscono le decine e decine di statue abbattute soprattutto negli ultimi quattro anni. La cancel culture non esiste? Se anche non esistesse, comunque comporta licenziamenti, rimozioni di statue e rivoluzioni nei programmi scolastici. E non si può parlare di singoli fatti isolati, perché sono ricollegabili sempre alle stesse cause e tutti ripropongono gli stessi metodi. Di sicuro non esiste, né potrebbe esistere, una pianificazione centrale. Non ci sono gerarchi di un regime che, a mo’ di commissari sovietici, ordinano censure dei testi, epurazioni e l’abbattimento di monumenti. È però ormai diffusa una mentalità trasversale, ormai internazionale, secondo la quale viviamo in un “anno zero”, come in tutte le rivoluzioni.

Ed è nell’ottica di questo anno zero in cui dobbiamo rileggere, giudicare ed eventualmente condannare e rimuovere ciò che è stato prima. Testo: Stefano Magni

Paolo Di Stefano per "il Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. Rivela Vincenzo Trione, nella «Lettura», che la Biblioteca Nazionale di Roma ha acquistato gli arredi e i libri dell'appartamento romano di Italo Calvino in Campo Marzio 5, per ricostruire «con perizia filologica» gli ambienti di lavoro e di vita dello scrittore. Iniziativa lodevole. Ora, in attesa del centenario della nascita, che ricorrerà nel 2023, ci si augura che la Mondadori (il suo editore postumo) si assuma l'impegno di pubblicare quello che la grande studiosa Maria Corti, amica di Italo, definì il più bel carteggio d'amore del Novecento italiano. Sono le trecento lettere tra Calvino e l'attrice-scrittrice Elsa de' Giorgi, conservate nel Fondo manoscritti di Pavia (fondato dalla stessa Corti) e rimaste lì per il divieto (imposto dalla vedova Esther Judith Singer detta Chichita) di stamparle fino al 2010, ovvero passati i 25 anni dalla morte di Calvino. Siamo nel 2021 e non è accaduto nulla, se non qualche uscita corsara qua e là in internet e non solo. Nel 2004 il Corriere rese nota quella storia d'amore, risalente agli anni 1955-58, citando ampi stralci delle lettere: ne nacque un grottesco scandalo, con accuse di voyeurismo lanciate dai custodi dell'integrità morale dell'amico (Scalfari, Asor Rosa, Citati). Chichita è morta tre anni fa lasciando erede la figlia Giovanna e il centenario sarebbe l'occasione migliore per far uscire dagli archivi quel magnifico epistolario, testimonianza di una relazione amorosa e intellettuale (a Elsa Calvino dedicò la raccolta delle Fiabe italiane) liquidata sdegnosamente come uno dei ripetuti casi in cui Italo cadde nelle trame di «False Contesse che lo istruivano, gli insegnavano le buone maniere...» (sic dixit Citati). Si colmerebbe così il vuoto dei Meridiani (che semplicemente cancellano la presenza della de' Giorgi) a vantaggio di una visione più completa dello scrittore (non più solo quello da antologia scolastica), dal punto di vista umano ma anche stilistico. Rimediando a un clamoroso caso di italica cancel culture. Mentre -per dirne solo alcuni alla rinfusa - conosciamo i carteggi amorosi di Cechov, di Kafka, di Scott Fitzgerald, di Majakovskij e Lili Brik, di Campana e Sibilla Aleramo, di Pavese, di Brancati e Anna Proclemer, di Colette, di Pessoa, di Pasternak, di Hemingway, di Rilke, di Quasimodo, di Nabokov, di Montale, di Joyce, di Virginia Woolf, di Neruda. Voyeurismo?

La cancel culture? Non esiste Intanto però, sparisci! Luigi Mascheroni il 6 Giugno 2021 su il Giornale. Per qualcuno è una dittatura immaginaria, inventata dalle destre. Sarà. Ma la cronaca dice altro...Vi ricordate quando a gennaio un deputato democratico eletto alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato del Missouri recitò un inno durante l'apertura dei lavori del Parlamento degli Stati Uniti aggiungendo al tradizionale «amen» una sua versione femminile: «and a-woman»? Il mondo si mise a ridere, i critici del politicamente corretto insorsero, e invece era solo un gioco di parole che aveva lo scopo di rispettare la neutralità di genere: insomma, è stato tutto un fraintendimento. E a maggio, quando una blogger di San Francisco prese di mira su Twitter la favola di Biancaneve per via del bacio ricevuto «non consensualmente» dal Principe azzurro? I giornali ci si fiondarono, i commenti ondeggiarono fra lo sberleffo e l'indignazione, ma poi si scopre che no, non è proprio così, era solo una provocazione, una mezza fake news, una favola anche quella, che gli ignoranti populisti sovranisti sessisti salvinisti bianchi omofobi neocolonialisti e potenziali stupratori, si sono bevuti come vera. E le richieste alla BBC di boicottare il film Grease? Ma dài, siete pazzi a prendere cinque tweet indignati come rappresentativi dell'intero sentimento del popolo inglese... E la famosa censura antirazzista di Via col vento? Ma non era una censura, solo un disclaimer a inizio film! E le statue abbattute e imbrattate? Eccessi di fanatici («Anche se, certo, alcune di quelle figure storiche... insomma...»). E Kevin Spacey, accusato di molestie sessuali, letteralmente cancellato, grazie alle tecnologie digitali, da un film già girato, senza processo? «...». E i classici della letteratura, della filosofia e della musica occidentale, messi ai margini dei programmi d'esame nei college americani perché discriminanti rispetto a culture «altre» e minoranze varie? «Casi isolati, e poi non è proprio così». «Anzi: semmai è agli studi postcoloniali e ai gender studies che non si dà abbastanza spazio!»). Quindi, come ha provato a dirci Zerocalcare in un suo fumetto più confuso che divertente, più ideologico che originale, quella del politicamente corretto è una «dittatura immaginaria». La rivista Internazionale ci ha fatto anche una copertina quindici giorni fa. E L'Espresso continua a ripetercelo ogni settimana. E i siti di informazione indipendenti - loro sì che lo sono - lo spiegano per filo e per segno: chi denuncia ogni giorno casi immaginari di politicamente corretto e cancel culture è solo qualcuno terrorizzato dai cambiamenti che stanno investendo il mondo. Insomma, la cancel culture non esiste. Quelli tirati fuori dai giornali americani e poi gonfiati dai tabloid e poi strumentalizzati dai «giornalacci di destra», e poi commentati dai Mentana e dai Gramellini, sono solo episodi travisati o insignificanti. «E non è vero che Non si può più dire niente, basta con 'sta lagna!». Il politicamente corretto è solo nella testa di chi vuole continuare a offendere, ghettizzare, umiliare, ironizzare chiunque non sia maschio, bianco, etero, occidentale, benestante. Eccolo, il problema. Ora è tutto più chiaro. «Cancel culture e politically correctness sono tutta una montatura!». In Italia, poi... «Quelli che sui social chiedono licenziamenti e cancellazioni sono irrilevanti: pochi e non contano nulla... dài: di cosa ci preoccupiamo?». «Anzi: più diamo importanza alla cancel culture più aiutiamo l'Alt-right, i suprematisti bianchi, il maschio predatore, le squadracce reazionarie, e soprattutto il partito dei salviani e dei meloniani!!». E quindi? Mah, forse la cosa migliore a questo punto è cancellare chi vuole parlare di cancel culture. Eliminare i tweet che segnalano le eliminazioni. Deridere chi denuncia il politicamente corretto. Far tacere chi sostiene che non si può più dire niente. «Anzi: siete voi che non mi fate mettere schwa e asterischi dappertutto!» *** tiè. Insomma, rilassiamoci. A parte quei fanatici del Foglio, del Giornale e di qualche sito dissidente, la cultura della cancellazione - soprattutto in Italia - non esiste. Come la mafia. Sì, ma il museo di Lombroso che vogliono chiudere? («È razzismo scientifico!»). E la statua di D'Annunzio imbrattata a Trieste? («Era fascista!»). E i due comici massacrati dal web per una gag in cui fanno il verso ai cinesi? («Razzisti!»). Meglio ripeterlo. La cancel culture NON esiste. «E infatti non è stato ancora ucciso nessuno». Intanto la serie tv Friends, che ci ha fatto crescere sorridendo negli anni Novanta, oggi è criticata perché - a ripensarci - i protagonisti sono troppo bianchi e troppo poco gay. La statua gigante di Marilyn Monroe nella posa iconica con la gonna alzata di Quando la moglie è in vacanza, posizionata di fronte al museo di Palm Springs in California, è a rischio rimozione perché «sessista e diseducativa». E la Disney ha compiuto il suo capolavoro di rilettura dei classici hollywoodiani trasformando la nuova Crudelia in un personaggio positivo, che piace a tutti, animalisti compresi. L'importante è che le destre, poi, non strumentalizzino il tutto.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri 

Cancel culture, il nuovo maoismo che del passato farà tabula rasa. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 febbraio 2021. Statue abbattute, libri e film censurati, pubblica gogna. Come un legittimo movimento di liberazione si può trasformare nel suo paradossale contrario. Quando nella primavera del ’66 Mao Zedong lanciò la sua Rivoluzione culturale per riprendere in mano le redini del partito comunista e dello Stato cinese disponeva di un’arma formidabile: centinaia di milioni di giovani. Erano i ragazzi delle grandi città utilizzati dal “grande timoniere” per combattere “l’imborghesimento” dei gruppi dirigenti e ripristinare il marxismo- leninismo come guida ideologica della Repubblica popolare. Lo fecero con un entusiasmo, un’energia e una ferocia senza pari. Un miraggio di emancipazione che nascondeva un potente dispositivo ( e desiderio) di vendetta nei confronti degli avversari e, in generale, del vecchio mondo che poi non era altro che la civiltà cinese nel suo insieme. Ogni riferimento antecedente alla rivoluzione del ’ 49 doveva essere cancellato dalla faccia della Cina. Gli stessi osservatori dell’Unione sovietica rimasero scioccati dal dispotico controllo sociale esercitato sulla popolazione e dal sistema di gogna riservato ai “borghesi degenerati”. Nessuna polizia segreta o grigie spie della Stasi, ma il processo popolare permanente e la pretesa della pubblica abiura nelle famigerate “sessioni di lotta”, incontri dove i presunti nemici del partito subivano le peggiori umiliazioni. Una pratica che ricorda il contemporaneo online shaming che avviene sulle piattaforme dei social network quando la gogna digitale si sostituisce come un randello alla legittima critica. Un’umiliazione inferta paradossalmente da chi afferma di voler combattere contro “l’odio” in rete e non accorge di impiegare gli stessi, beceri metodi. La Storia difficilmente si ripete, ma quando accade tende a farlo sotto forma di farsa, come ironizzava Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, e proprio in tal senso è difficile non scorgere inquietanti analogie tra l’impeto iconoclasta delle Guardie rosse cinesi e gli odierni movimenti progressisti con la loro intransigente cancel culture che dello scomodo passato vuole fare “tabula rasa” parafrasando un noto passaggio de L’internazionale. Le statue dei colonizzatori, dei mercanti di schiavi, dei vecchi politici razzisti, i monumenti nazionalisti, gli obelischi e gli altari alla memoria sono da mesi il bersaglio di manifestazioni e cortei in un crescendo che non sembra risparmiare nessuno, neanche una gloria come Winston Churchill, sfregiato dai un gruppo di attivisti londinesi che sfilavano in solidarietà di George Floyd, l’afroamericano strangolato la scorsa estate dalla polizia. In Francia La Ligue de défense noire africaine nel nome dell’antirazzismo e dell’anticolonialismo ha chiesto di eliminare dalla toponomasticai nomi di Clodoveo, Carlo Magno e Giovanna d’Arco. Come una macchia d’olio la furia della cancel culture non si limita ai busti e alle sculture ma invade tutto il campo culturale: libri, canzoni, film, pièce teatrali e programmi accademici definiti xenofobi, sessisti o semplicemente obsoleti. «Anticaglie!», gridavano i giovani maoisti mentre mandavano al macero milioni libri, ribattezzando i nomi delle strade e bruciando persino i registri genealogici dei cittadini che da quel momento erano costretti ad assumere una nuova identità conforme ai precetti dello Stato comunista. Particolarmente pensoso il destino riservato alle opere dell’ingegno, all’arte: come in Cina dove dopo la Rivoluzione culturale era impossibile imbattersi in un saggio o romanzo che facesse riferimento al passato o a un pensiero diverso da quello ufficiale, oggi a venire messi in discussione sono capolavori della letteratura come Huckleberry Finn ( considerato razzista) sparito dalle biblioteche americane il capolavoro della letteratura medievale britannica I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, cancellati dai programmi dell’Università di Leichester per far spazio a dei corsi sulla “razza e la sessualità“ ( sic). Un’altra analogia riguarda l’uso ideologico della gioventù, una categoria strumentalizzata da tutti regimi del mondo. Nella Cina maoista i giovani istruiti dal Libretto rosso erano chiamati ad abbattere il vecchio ordine sociale e a purgare i suoi rappresentanti e “cattivi maestri” ( tra il ’ 66 e il 67 vennero imprigionati, torturati e uccisi almeno 200mila tra insegnanti e intellettuali) nell’ossessione che le vecchie generazioni corrotte e arraffone gli avessero rubato la vita e il futuro. Con le dovute differenze sembra di ascoltare un comizio di Greta Thumberg che nella sua autobiografia tuona contro l’odiata generazione dei “boomer” che oggi diventa responsabile e capro espiatorio di tutti i mali: «Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia!». A completare il quadro mancano solo i campi di rieducazione, in cinese Laogai, dove le Guardie rosse scaraventarono almeno quattro milioni di persone a spaccare pietre e a studiare le citazioni di Mao. Nessuno ha ancora proposto di raddrizzare la schiena e lo spirito ai reprobi, almeno in modo serio, Nel 2019, in piena campagna metoo# la cantante francese Angèle che in un videoclip aveva messo in scena un tribunale in cui gli uomini vengono giudicati per il loro maschilismo e spediti in una fantomatica anti- sexism academy per imparare a rispettare le donne.

Parlamento Europeo 18.9.2019

PROPOSTA DI RISOLUZIONE COMUNE

presentata a norma dell'articolo 132, paragrafi 2 e 4, del regolamento 

in sostituzione delle proposte di risoluzione seguenti:

B9-0097/2019 (PPE)

B9-098/2019 (ECR)

B9-0099/2019 (S&D)

B9-0100/2019 (Renew)

sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa (2019/2819(RSP))

Michael Gahler, Andrius Kubilius, Rasa Juknevičienė, Željana Zovko, David McAllister, Antonio Tajani, Sandra Kalniete, Traian Băsescu, Radosław Sikorski, Andrzej Halicki, Andrey Kovatchev, Ewa Kopacz, Lukas Mandl, Alexander Alexandrov Yordanov, Andrea Bocskor, Inese Vaidere, Elżbieta Katarzyna Łukacijewska, Vladimír Bilčík, Ivan Štefanec, Liudas Mažylis, Loránt Vincze, Arba Kokalari

a nome del gruppo PPE

Kati Piri, Isabel Santos, Sven Mikser, Marina Kaljurand

a nome del gruppo S&D

Michal Šimečka, Frédérique Ries, Ramona Strugariu, Katalin Cseh, Ondřej Kovařík, Vlad-Marius Botoş, Izaskun Bilbao Barandica, Jan-Christoph Oetjen, Sheila Ritchie, Olivier Chastel, Petras Auštrevičius

a nome del gruppo Renew

Ryszard Antoni Legutko, Anna Fotyga, Tomasz Piotr Poręba, Dace Melbārde, Witold Jan Waszczykowski, Ryszard Czarnecki, Jadwiga Wiśniewska, Bogdan Rzońca, Anna Zalewska, Jacek Saryusz-Wolski, Grzegorz Tobiszowski, Joanna Kopcińska, Elżbieta Rafalska, Joachim Stanisław Brudziński, Beata Szydło, Beata Mazurek, Andżelika Anna Możdżanowska, Beata Kempa, Patryk Jaki, Charlie Weimers

a nome del gruppo ECR

EMENDAMENTI 001-001

Risoluzione del Parlamento europeo sull'importanza della memoria europea per il futuro dell'Europa

(2019/2819(RSP))

Il Parlamento europeo,

– visti i principi universali dei diritti umani e i principi fondamentali dell'Unione europea in quanto comunità basata su valori comuni,

– vista la dichiarazione rilasciata dal primo Vicepresidente Timmermans e dalla Commissaria Jourová il 22 agosto 2019, alla vigilia della Giornata europea di commemorazione delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari,

– vista la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite adottata il 10 dicembre 1948,

– vista la sua risoluzione del 12 maggio 2005 sul sessantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale in Europa, l'8 maggio 1945[1],

– vista la risoluzione 1481 dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, del 26 gennaio 2006, relativa alla necessità di una condanna internazionale dei crimini dei regimi totalitari comunisti,

– vista la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio, del 28 novembre 2008, sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale[2],

– vista la Dichiarazione di Praga sulla coscienza europea e il comunismo, adottata il 3 giugno 2008,

– vista la sua dichiarazione sulla proclamazione del 23 agosto come Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo, approvata il 23 settembre 2008[3],

– vista la sua risoluzione del 2 aprile 2009 su coscienza europea e totalitarismo[4],

– vista la relazione della Commissione del 22 dicembre 2010 sulla memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa (COM(2010)0783),

– viste le conclusioni del Consiglio del 9-10 giugno 2011 sulla memoria dei crimini commessi dai regimi totalitari in Europa,

– vista la Dichiarazione di Varsavia del 23 agosto 2011 sulla Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari,

– vista la dichiarazione congiunta del 23 agosto 2018 dei rappresentanti dei governi degli Stati membri dell'Unione europea per commemorare le vittime del comunismo,

– vista la sua storica risoluzione sulla situazione in Estonia, Lettonia e Lituania, approvata il 13 gennaio 1983 in risposta al cosiddetto "appello baltico", presentato da 45 cittadini di detti paesi,

– viste le risoluzioni e le dichiarazioni sui crimini dei regimi totalitari comunisti, adottate da vari parlamenti nazionali,

– visto l'articolo 132, paragrafi 2 e 4, del suo regolamento,

A. considerando che quest'anno si celebra l'ottantesimo anniversario dello scoppio della Seconda guerra mondiale, che ha causato sofferenze umane fino ad allora inaudite e ha portato all'occupazione di taluni paesi europei per molti decenni a venire;

B. considerando che ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l'Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l'Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale;

C. considerando che, come diretta conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop, seguito dal "trattato di amicizia e di frontiera" nazi-sovietico del 28 settembre 1939, la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l'Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia;

D. considerando che, dopo la sconfitta del regime nazista e la fine della Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei sono riusciti a procedere alla ricostruzione e a intraprendere un processo di riconciliazione, mentre per mezzo secolo altri paesi europei sono rimasti assoggettati a dittature, alcuni dei quali direttamente occupati dall'Unione sovietica o soggetti alla sua influenza, e hanno continuato a essere privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico;

E. considerando che, sebbene i crimini del regime nazista siano stati giudicati e puniti attraverso i processi di Norimberga, vi è ancora un'urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo e di altre dittature;

F. considerando che in alcuni Stati membri la legge vieta le ideologie comuniste e naziste;

G. considerando che, fin dall'inizio, l'integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all'Olocausto, e all'espansione dei regimi comunisti totalitari e antidemocratici nell'Europa centrale e orientale, nonché un mezzo per superare profonde divisioni e ostilità in Europa attraverso la cooperazione e l'integrazione, ponendo fine alle guerre e garantendo la democrazia sul continente; che per i paesi europei che hanno sofferto a causa dell'occupazione sovietica e delle dittature comuniste l'allargamento dell'UE, iniziato nel 2004, rappresenta un ritorno alla famiglia europea alla quale appartengono;

H. considerando che occorre mantenere vivo il ricordo del tragico passato dell'Europa, onde onorare le vittime, condannare i colpevoli e gettare le basi per una riconciliazione fondata sulla verità e la memoria;

I. considerando che la memoria delle vittime dei regimi totalitari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l'unità dell'Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne;

J. considerando che trent'anni fa, il 23 agosto 1989, ricorreva il cinquantesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop e le vittime dei regimi totalitari sono state commemorate nella Via Baltica, una manifestazione senza precedenti cui hanno partecipato due milioni di lituani, lettoni ed estoni, che si sono presi per mano per formare una catena umana da Vilnius a Tallin, passando attraverso Riga;

K. considerando che, nonostante il 24 dicembre 1989 il Congresso dei deputati del popolo dell'URSS abbia condannato la firma del patto Molotov-Ribbentrop, oltre ad altri accordi conclusi con la Germania nazista, nell'agosto 2019 le autorità russe hanno negato la responsabilità di tale accordo e delle sue conseguenze e promuovono attualmente l'interpretazione secondo cui la Polonia, gli Stati baltici e l'Occidente sarebbero i veri istigatori della Seconda guerra mondiale;

L. considerando che la memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l'unità dell'Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne;

M. considerando che gruppi e partiti politici apertamente radicali, razzisti e xenofobi fomentano l'odio e la violenza all'interno della società, per esempio attraverso la diffusione dell'incitamento all'odio online, che spesso porta a un aumento della violenza, della xenofobia e dell'intolleranza;

1. ricorda che, come sancito dall'articolo 2 TUE, l'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze; rammenta che questi valori sono comuni a tutti gli Stati membri;

2. sottolinea che la Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia d'Europa, è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop, e dei suoi protocolli segreti, in base ai quali due regimi totalitari, che avevano in comune l'obiettivo di conquistare il mondo, hanno diviso l'Europa in due zone d'influenza;

3. ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell'umanità, e rammenta l'orrendo crimine dell'Olocausto perpetrato dal regime nazista; condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l'umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari;

4. esprime il suo profondo rispetto per ciascuna delle vittime di questi regimi totalitari e invita tutte le istituzioni e gli attori dell'UE a fare tutto il possibile per garantire che gli orribili crimini totalitari contro l'umanità e le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani siano ricordati e portati dinanzi ai tribunali, nonché per assicurare che tali crimini non si ripetano mai più; sottolinea l'importanza di mantenere vivo il ricordo del passato, in quanto non può esserci riconciliazione senza memoria, e ribadisce la sua posizione unanime contro ogni potere totalitario, a prescindere da qualunque ideologia;

5. invita tutti gli Stati membri dell'UE a formulare una valutazione chiara e fondata su principi riguardo ai crimini e agli atti di aggressione perpetrati dai regimi totalitari comunisti e dal regime nazista;

6. condanna tutte le manifestazioni e la diffusione di ideologie totalitarie, come il nazismo e lo stalinismo, all'interno dell'Unione;

7. condanna il revisionismo storico e la glorificazione dei collaboratori nazisti in alcuni Stati membri dell'UE; è profondamente preoccupato per la crescente accettazione di ideologie radicali e per il ritorno al fascismo, al razzismo, alla xenofobia e ad altre forme di intolleranza nell'Unione europea ed è turbato dalle notizie di collusione di leader politici, partiti politici e forze dell'ordine con movimenti radicali, razzisti e xenofobi di varia denominazione politica in alcuni Stati membri; invita gli Stati membri a condannare con la massima fermezza tali accadimenti, in quanto compromettono i valori di pace, libertà e democrazia dell'UE;

8. invita tutti gli Stati membri a celebrare il 23 agosto come la Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari a livello sia nazionale che dell'UE e a sensibilizzare le generazioni più giovani su questi temi inserendo la storia e l'analisi delle conseguenze dei regimi totalitari nei programmi didattici e nei libri di testo di tutte le scuole dell'Unione; invita gli Stati membri a promuovere la documentazione del tragico passato europeo, ad esempio attraverso la traduzione dei lavori dei processi di Norimberga in tutte le lingue dell'UE;

9. invita gli Stati membri a condannare e contrastare ogni forma di negazione dell'Olocausto, compresa la banalizzazione e la minimizzazione dei crimini commessi dai nazisti e dai loro collaboratori, e a prevenire la banalizzazione nei discorsi politici e mediatici;

10. chiede l'affermazione di una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani; incoraggia gli Stati membri a promuovere l'istruzione attraverso la cultura tradizionale sulla diversità della nostra società e sulla nostra storia comune, compresa l'istruzione in merito alle atrocità della Seconda guerra mondiale, come l'Olocausto, e alla sistematica disumanizzazione delle sue vittime nell'arco di alcuni anni;

11. chiede inoltre che il 25 maggio (anniversario dell'esecuzione del comandante Witold Pilecki, eroe di Auschwitz) sia proclamato "Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo", in segno di rispetto e quale tributo a tutti coloro che, combattendo la tirannia, hanno reso testimonianza del loro eroismo e di vero amore nei confronti dell'umanità, dando così alle future generazioni una chiara indicazione dell'atteggiamento giusto da assumere di fronte alla minaccia dell'asservimento totalitario;

12. invita la Commissione a fornire un sostegno effettivo ai progetti di memoria e commemorazione storica negli Stati membri e alle attività della Piattaforma della memoria e della coscienza europee, nonché a stanziare risorse finanziarie adeguate nel quadro del programma "Europa per i cittadini" per sostenere la commemorazione e il ricordo delle vittime del totalitarismo, come indicato nella posizione del Parlamento sul programma "Diritti e valori" 2021-2027;

13. dichiara che l'integrazione europea, in quanto modello di pace e di riconciliazione, è il frutto di una libera scelta dei popoli europei, che hanno deciso di impegnarsi per un futuro comune, e che l'Unione europea ha una responsabilità particolare nel promuovere e salvaguardare la democrazia e il rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto, sia all'interno che all'esterno del suo territorio;

14. sottolinea che, alla luce della loro adesione all'UE e alla NATO, i paesi dell'Europa centrale e orientale non solo sono tornati in seno alla famiglia europea di paesi democratici liberi, ma hanno anche dato prova di successo, con l'assistenza dell'UE, nelle riforme e nello sviluppo socioeconomico; sottolinea, tuttavia, che questa opzione dovrebbe rimanere aperta ad altri paesi europei, come previsto dall'articolo 49 TUE;

15. sostiene che la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista e che il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l'élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico; invita pertanto la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato;

16. è profondamente preoccupato per gli sforzi dell'attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico; considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l'Europa democratica allo scopo di dividere l'Europa e invita pertanto la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi;

17. esprime inquietudine per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti;

18. osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari;

19. condanna il fatto che forze politiche estremiste e xenofobe in Europa ricorrano con sempre maggior frequenza alla distorsione dei fatti storici e utilizzino simbologie e retoriche che richiamano aspetti della propaganda totalitaria, tra cui il razzismo, l'antisemitismo e l'odio nei confronti delle minoranze sessuali e di altro tipo;

20. esorta gli Stati membri ad assicurare la loro conformità alle disposizioni della decisione quadro del Consiglio e a contrastare le organizzazioni che incitano all'odio e alla violenza negli spazi pubblici e online;

21. sottolinea che il tragico passato dell'Europa dovrebbe continuare a fungere da ispirazione morale e politica per far fronte alle sfide del mondo odierno, come la lotta per un mondo più equo e la creazione di società aperte e tolleranti e di comunità che accolgano le minoranze etniche, religiose e sessuali, facendo in modo che tutti possano riconoscersi nei valori europei;

22. incarica il suo Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, alla Duma russa e ai parlamenti dei paesi del partenariato orientale.

"Comunismo come nazismo": cosa dice il testo del Parlamento Ue che divide politici e storici.

Durante l'ultima plenaria di Strasburgo, gli eurodeputati hanno dato l'ok a una risoluzione in cui si equiparano i due regimi. Il plauso dei Paesi dell'Est, tra cui quelli di Visegrad. Ma tra le fila della sinistra è polemica. Cosa c'è scritto. Dario Prestigiacomo il 23 settembre 2019 su europa.today.it. "Ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l'Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l'Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale". Parte da questa valutazione storica la risoluzione del Parlamento europeo che sta dividendo il mondo della politica e gli storici. Si tratta di un documento politico, senza dirette conseguenze, almeno per il momento, sul piano legislativo. Ma per alcuni potrebbe aprire la strada a norme che condannano in tutta l'Unione europea l'apologia del fascismo e del nazismo, come già avviene, ma anche l'uso dei simboli del comunismo. Che in molti Paesi Ue e nella stessa Eurocamera, compaiono su bandiere e loghi di partito. Ecco perché il testo ha sollevato accese polemiche, anche in Italia. Per molti, la decisione di aprire la nuova legislatura del Parlamento Ue con una dichiarazione del genere è in linea con il tentativo dell'establishment europeo, in particolare dell'asse che regge la neo presidente della Commissione Ursula von der Leyen, di ricucire lo strappo con i Paesi dell'Est, in particolare con gli Stati di Visegrad (Polonia e Ungheria su tutti), dove i decenni di appartenenza all'Urss hanno lasciato un forte sentimento anticomunista. 

Il plauso di Visegrad. Dall'altra parte, in tanti a sinistra hanno ricordato come il comunismo, nei Paesi occidentali come l'Italia, sia stato parte integrante della costruzione della democrazia in quegli Stati dopo la Seconda guerra mondiale. Oltre che parte integrante della costruzione della stessa Unione europea. Da qui, le accese proteste di partiti come LeU, ma anche di esponenti del Pd. Che non hanno gradito il 'tradimento' di alcuni eurodeputati dem e socialisti che a Strasburgo hanno votato a favore di questa risoluzione. A preoccupare questo fronte sono in particolare due passaggi del testo: il Parlamento europeo, si legge, "esprime inquietudine per l'uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l'uso di simboli sia nazisti che comunisti". E più avanti, sempre l'Eurocamera "osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari". In sostanza, Strasburgo punta il dito su simboli come la "falce e il martello", ma anche su tutta quella toponomastica associata a "eroi" del comunismo, come l'italiano Palmiro Togliatti.

La protesta dei partigiani italiani. Ma non è solo una questione di simboli. I partigiani italiani sono tutte le furie: l'Anpi ha espresso "profonda preoccupazione" perché "in un'unica riprovazione si accomunano oppressi ed oppressori, vittime e carnefici, invasori e liberatori, per di più ignorando lo spaventoso tributo di sangue pagato dai popoli dell'Unione Sovietica (più di 22 milioni di morti) e persino il simbolico evento della liberazione di Auschwitz da parte dell'Armata rossa - lamenta l'Associazione dei partigiani - Davanti al crescente pericolo di nazifascismi, razzismi, nazionalismi, si sceglie una strada di lacerante divisione invece che di responsabile e rigorosa unità".

Falso storico? Tra gli storici, poi, c'è chi bolla come un falso storico il fatto che la risoluzione attribuisca al patto Molotov-Ribbentrop la causa scatenante del conflitto. Nella risoluzione, si legge che in seguito a questo patto e al successivo "trattato di amicizia e di frontiera" nazi-sovietico del 28 settembre 1939, "la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l'Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia".

La questione con la Russia di oggi. Per molti si tratta di una ricostruzione forzata. E la Russia ha più volte protestato in passato su questa forzatura. Come ha ricordato poco tempo il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov, la Russia avrebbe firmato il patto Molotov-Ribbentrop solo perché, al tempo, furono diversi i Paesi che tentarono di tenere a bada Hitler con patti e trattati. "Ingenuamente calcolando che la guerra non li avrebbe sfiorati, le potenze occidentali hanno giocato una doppia partita - ha ricordato - E hanno cercato di incanalare l'aggressività di Hitler verso Est. In quelle condizioni, l'Urss ha dovuto salvaguardare da sola la propria sicurezza nazionale". Del resto, dietro la risoluzione del Parlamento è chiaro a tutti come vi sia l'ombra delle recenti tensioni tra Mosca e Bruxelles. Nel testo, dopo aver sostenuto che "la Russia rimane la più grande vittima del totalitarismo comunista", si afferma "che il suo sviluppo in uno Stato democratico continuerà a essere ostacolato fintantoché il governo, l'élite politica e la propaganda politica continueranno a insabbiare i crimini del regime comunista e ad esaltare il regime totalitario sovietico". E si invita pertanto la società russa a confrontarsi con il suo tragico passato". Per essere ancora più chiari in merito, il Parlamento dichiara di essere "profondamente preoccupato per gli sforzi dell'attuale leadership russa volti a distorcere i fatti storici e a insabbiare i crimini commessi dal regime totalitario sovietico; considera tali sforzi una componente pericolosa della guerra di informazione condotta contro l'Europa democratica allo scopo di dividere l'Europa e invita pertanto la Commissione a contrastare risolutamente tali sforzi". 

Il comandante Pilecki. La risoluzione sembra a un certo punto dimenticare la parola "comunismo". Lo fa quando "chiede l'affermazione di una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani". Subito dopo, la richiesta di proclamare la "Giornata internazionale degli eroi della lotta contro il totalitarismo" il 25 maggio, ossia la data dell'esecuzione del "comandante Witold Pilecki, eroe di Auschwitz". Pilecki era un comandante polacco che combattè contro il nazifascimo. Dopo la fine del confltto, fu tra coloro che cercarono di opporsi alla sovietizzazione della Polonia. Catturato dai comunisti, fu giustiziato dopo un processo sommario nel '48. E il suo nome fu bandito per decenni. La riabilitazione avvenne solo dopo il crollo del Muro di Berlino. La sua vicenda, al di là dell'uso che ne fa la risoluzione, dimostra la complessità della Storia: eroe di Auschwitz, Pilecki morì per mano di quella stessa Armata Rossa che aveva liberato i prigionieri sopravvissuti al campo di sterminio. 

Rileggere la storia. Comunismo e fascismo, due facce della stessa medaglia totalitaria. Ma il Pci fu un’eccezione. Alberto De Bernardi l'11 Dicembre 2019 su L'Inkiesta. Secondo lo storico Alberto De Bernardi, bisogna condannarli allo stesso modo, perché costituiscono i due lati della tara che ha insanguinato l’Europa per gran parte del XX secolo. Ma il Partito Comunista Italiano è stato, con tutti i suoi limiti, un caso particolare nella storia del comunismo. La pubblicazione della risoluzione della UE “Sull’importanza della memoria per l’avvenire dell’ Europa” ha aperto in Italia un dibattito molto acceso che a distanza di diverse settimane non si è ancora spento, facendo dell’Italia un caso unico in Europa.

Leggere le fonti. Come molti storici, anche io ritengo sempre scivoloso ogni tentativo delle istituzioni politiche di definire una interpretazione condivisa del passato su cui costruire la memoria pubblica, perché si presta a omissioni e a superficialità, che gli storici hanno in più occasioni messo in evidenza: la memoria di eventi traumatici è difficilmente ricomponibile, quando vittime e carnefici sono ancora presenti e attivi nella sfera pubblica e soprattutto quando rimanda alla lunga guerra tra comunismo, fascismo e democrazia che ha insanguinato il secolo appena terminato; la storia, invece, può essere condivisa perché costruita su un approccio scientifico, anche se la stessa ricerca storica non è sempre esente da torsioni ideologiche e da punti di vista segnati da appartenenze politiche. La memoria infatti mira all’dentità, la storia alla verità. In ogni caso l’elemento saliente e sorprendente della discussione apertasi del nostro paese è che fin dalle prime battute essa ha perso di vista il documento sia dal punto di vista dei suoi contenuti, che delle sue finalità, per concentrarsi su due questioni, che con quel documento hanno ben poco a che fare, ma che invece attengono alla irrisolta e ingombrante “questione comunista” nella cultura politica della sinistra italiana, nonostante siano passati trent’anni dalla caduta del muro di Berlino e dello scioglimento del partito comunista italiano.

Il patto Ribbentrop-Molotov e le proposte della Risoluzione. La prima questione su cui si sono appuntate le critiche di storici e intellettuali, ma soprattutto dell’associazionismo antifascista con in testa l’Anpi, riguarda l’affermazione per altro poco fondata, che nel documento si attribuisca al patto Ribbentrop-Molotov lo scoppio della Seconda mondiale.

Sul punto infatti il parlamento invita a fare 4 considerazioni:

1- considerando che ottanta anni fa, il 23 agosto 1939, l’Unione Sovietica comunista e la Germania nazista firmarono il trattato di non aggressione, noto come patto Molotov-Ribbentrop, e i suoi protocolli segreti, dividendo l’Europa e i territori di Stati indipendenti tra i due regimi totalitari e raggruppandoli in sfere di interesse, il che ha spianato la strada allo scoppio della Seconda guerra mondiale;

2- considerando che, come diretta conseguenza del patto Molotov-Ribbentrop, seguito dal “trattato di amicizia e di frontiera” nazi-sovietico del 28 settembre 1939, la Repubblica polacca fu invasa prima da Hitler e due settimane dopo da Stalin, eventi che privarono il paese della sua indipendenza e furono una tragedia senza precedenti per il popolo polacco; che il 30 novembre 1939 l’Unione Sovietica comunista iniziò una guerra aggressiva contro la Finlandia e nel giugno 1940 occupò e annesse parti della Romania, territori che non furono mai restituiti, e annesse le Repubbliche indipendenti di Lituania, Lettonia ed Estonia;

3- considerando che, dopo la sconfitta del regime nazista e la fine della Seconda guerra mondiale, alcuni paesi europei sono riusciti a procedere alla ricostruzione e a intraprendere un processo di riconciliazione, mentre per mezzo secolo altri paesi europei sono rimasti assoggettati a dittature, alcuni dei quali direttamente occupati dall’Unione sovietica o soggetti alla sua influenza, e hanno continuato a essere privati della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico;

4- considerando che, sebbene i crimini del regime nazista siano stati giudicati e puniti attraverso i processi di Norimberga, vi è ancora un’urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo e di altre dittature.

Il Parlamento europeo dunque non si cimenta in una discussione sulle cause della Seconda guerra mondiale, ma invita alla luce di queste considerazioni assai fondate, a condannare le conseguenze di quel patto che ha costretto i paesi dell’Europa dell’Est, a subire per cinquant’anni una dittatura spietata, condannandoli a perdere la libertà, che invece costituisce il fondamento delle democrazie dell’Europa occidentale; invita inoltre a fare un bilancio storico e morale di questo periodo, aprendo inchieste giudiziarie nei confronti di eventuali aguzzini, analoghe a quelle che hanno riguardato i crimini del nazismo e del fascismo. L’antifascismo costituì lo strumento ideologico attraverso il quale l’Urss cerco di legittimare la politica di potenza nell’Europa orientale e baltica.

Il “patto scellerato” e l’Urss. Certamente, come ha messo in luce la ricerca storica, quel patto fu anche la conseguenza della volontà delle nazioni democratiche europee di non coinvolgere l’Urss nella lotta contro la minaccia nazista, convinte come erano che il comunismo fosse un nemico peggiore del fascismo. Questa concezione fu alla base dell’appeasement con il fascismo perseguita dalle democrazie europee per cercare di circoscrivere l’espansionismo di Hitler e Mussolini e evitare un nuovo conflitto mondiale: come ricordò Churchill si trattò di una valutazione sbagliata per cui Francia e Gran Bretagna oltre a non riuscire a evitare la guerra, persero anche “l’onore”. Ma le ragioni del “patto scellerato” stanno solo in parte in quell’errore. Infatti l’accordo tra Mosca e Berlino aveva ben più solide implicazioni strategiche, che andavano ben oltre lo sforzo sovietico di impedire l’attacco militare nazista all’Urss, e che riguardavano i progetti «imperiali» di Stalin, volti da un lato a fare dell’Urss una grande potenza mondiale. In quest’ottica l’ espansione dei propri confini nazionali in direzione dell’Europa orientale, come misero in luce la spartizione della Polonia e la guerra contro la Finlandia, costituiva una chiave di volta fondamentale. Quindi il suggerimento del parlamento europeo di ritornare a riflettere su quel patto è di grande rilievo perché obbliga a riconsiderare il ruolo dell’Urss nella seconda guerra mondiale, all’interno del quale l’imperialismo costituisce una linea guida che rimane anche dopo Stalingrado e l’alleanza “antifascista” con gli Stati Uniti e i suoi alleati: se siamo europei dobbiamo prendere atto della necessità irrinviabile di leggere la storia del continente nella sua interezza: non solo da Roma o Parigi, ma anche da Varsavia o da Vilnius. Da quelle capitali l’esaltazione dell’Urss come patria dell’antifascismo e della lotta al nazismo appare del tutto priva di senso, perché l’antifascismo costituì lo strumento ideologico attraverso il quale l’Urss cerco di legittimare la politica di potenza nell’Europa orientale e baltica. Ma questo dato di fatto mina anche la narrazione dominante nell’Europa occidentale sul ruolo dell’Urss nella lotta contro il fascismo, perché essa non era condotta in nome di una tavola di valori democratici, condivisa seppur ambiguamente anche dai partiti comunisti impegnati nelle resistenze dell’Europa occidentale, ma con lo scopo prioritario di affermare il progetto imperiale dell’Urss.

Lo Stalinismo e l’antifascismo. Al di la dei miti posteriori, non vanno dimenticare le conseguenze che il “patto” ebbe sull’antifascismo di allora. L’Urss, infatti, non era semplicemente uno stato tra altri stati; era la «patria del socialismo», cioè lo stato guida di un movimento rivoluzionario internazionale. Ogni suo atto, dunque, doveva necessariamente trovare posto all’interno di un tragitto strategico definito, come se costituisse la tessera di un mosaico che il partito era in grado di comporre perfettamente perché ne conosceva il disegno finale. Il patto con il nazismo, con il nemico principale del movimento operaio mondiale, andava dunque inserito in un dispositivo politico e ideologico capace di trasformare questa scelta, espressione della più cinica «ragion di stato», in una lungimirante operazione che doveva aprire una nuova fase dello scontro tra borghesia e classe operaia a livello mondiale. Per realizzare questo obbiettivo e mobilitare intorno ad esso il movimento comunista europeo fu rilanciata la vecchia discriminante capitalismo/anticapitalismo, in sostituzione di quella tra fascismo e antifascismo scelta nell’VIII congresso dell’Internazionale comunista. Questo cambio di orizzonte politico ebbe come conseguenza la crisi irreversibile dell’antifascismo stesso, come si era venuto configurando dal 1934, basato sull’unità d’azione tra comunisti, socialisti e forze democratiche. Quando Molotov dalla tribuna del Soviet supremo sostenne, a giustificazione del trattato testé sottoscritto, che «era insensato e addirittura criminale spacciare questa guerra come una lotta per la distruzione dell’hitlerismo sotto la falsa bandiera di una battaglia per la democrazia», decretò la morte dell’antifascismo. L’antifascismo venne dunque sacrificato per la politica di potenza dell’Urss, altro che “patria dell’antifascismo”: il dramma dei comunisti nell’Europa occidentale, stretti tra la fedeltà a Mosca e l’impegno nella lotta antifascista, insieme ai partiti democratici e socialisti, ne è la più chiara conferma. Quindi a chi professa una presunta lesa maestà dell’antifascismo nel mancato riconoscimento del ruolo dell’Urss nella lotta contro in nazismo, non solo non ha letto il testo della risoluzione, che non tratta dell’argomento, ma dimostra una conoscenza del passato parziale e ideologicamente orientata. Proprio l’esito della guerra nei paesi dell’Europa dell’Est dimostra l’estraneità del comunismo ai valori dell’antifascismo e la strumentalità con cui l’Urss aderì alla “guerra antifascista” dopo Stalingrado e soprattutto utilizzò, come accennato in precedenza. l’antifascismo come elemento fondante della sua ideologia totalitaria. Questa duplicità di destini dell’antifascismo nelle due Europe divise dalla cortina di ferro – a Occidente fondamento ideale della rinascita democratica; a Oriente componente retorica dell’ideologia di stato delle repubbliche popolari – è la questione di fondo che il documento del parlamento europeo vuole proporre alla discussione dell’intera comunità e su cui gli intellettuali dovrebbero dare il loro contributo, invece che sventolare fruste bandiere. Tra il mai più dell’Europa occidentale e quello dell’Europa orientale vi è una differenza sostanziale: il primo riguarda il fascismo, il secondo il comunismo; una divergenza insopprimibile che si può superare solo riconoscendola, senza evocare il complotto anticomunista e antifascista dei paesi di Visegrad.

Equiparare fascismo e comunismo? Ma se nel dibattito italiano si è frainteso il senso della risoluzione per quel che riguarda il patto Ribbentropp-Molotov, il travisamento è ancor più grave a proposito della presunta equiparazione tra fascismo e nazismo che costituisce, nonostante non vi sia traccia nel documento, la chiave di lettura critica più diffusa tra gli intellettuali italiani di sinistra. Il 13 novembre l’Anpi e la Cgil di Modena hanno organizzato una conferenza di Luciano Canfora, l’ultimo studioso dichiaratamente comunista vivente in Italia, per rispondere all’interrogativo: “Nazifascismo e comunismo sono uguali? L’Europa alla prova di revisionismo storico”. Basta leggere il documento per capire che il parlamento europeo ha invitato a fare un’altra operazione culturale, ben lontana da una insulsa equiparazione: condannare allo stesso modo il fascismo e il comunismo, non perché siano uguali, ma perché costituiscono i due lati della stessa medaglia totalitaria, che ha insanguinato l’Europa per gran parte del XX secolo. Il nodo della questione riguarda dunque l’appartenenza o meno del comunismo al campo del totalitarismo, cioè a un insieme di regimi che, differenziati dal punto di vista delle finalità ideali che contrassegnano le loro ideologie, hanno messo in pratica forme di governo basate sulla negazione radicale della democrazia e del pluralismo, in nome di uno statalismo assoluto e di una integrazione inestricabile tra stato e partito, che ha tolto ogni autonomia ai cittadini, trasformati in sudditi di una macchina di controllo sociale senza scampo il cui esito estremo è stato il gulag e il lager. Il totalitarismo è la negazione dell’uomo; non è una ideologia, ma un crimine, estendendo anche al comunismo il giudizio che Sandro Pertini espresse a proposito del fascismo. Se di questa macchina totalitaria l’Europa occidentale ha conosciuto il volto fascista, quella orientale a conosciuto quello comunista, o entrambi. E dunque la risoluzione del parlamento comunitario “ricorda che i regimi nazisti e comunisti hanno commesso omicidi di massa, genocidi e deportazioni, causando, nel corso del XX secolo, perdite di vite umane e di libertà di una portata inaudita nella storia dell’umanità, e rammenta l’orrendo crimine dell’Olocausto perpetrato dal regime nazista; condanna con la massima fermezza gli atti di aggressione, i crimini contro l’umanità e le massicce violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime nazista, da quello comunista e da altri regimi totalitari”. Come ha ricordato recentemente lo storico Antonio Brusa (“Novecento.org”, 2019) a proposito del nunca mas con cui la Commissione nazionale sui crimini della Giunta militare argentina ha intitolato il suo rapporto finale, tra il mai più dell’Europa occidentale e quello dell’Europa orientale vi è una differenza sostanziale: il primo riguarda il fascismo, il secondo il comunismo; una divergenza insopprimibile che si può superare solo riconoscendola, senza evocare il complotto anticomunista e antifascista dei paesi di Visegrad. Un riconoscimento che però implica di andare più a fondo di una semplice constatazione di un dato di fatto, mettendo a fuoco sia gli esiti della mancata condanna del comunismo nelle culture politiche della sinistra europea, sia i rigurgiti nazionalisti che riemergono nei paesi dell’Est, come conseguenza della mancata condanna del fascismo che pure aveva costituito una presenza significativa in quegli stati tra le due guerre. Quindi il documento, mentre condanna “il revisionismo storico e la glorificazione dei collaborazionisti dei nazisti che hanno corso in certi paesi dell’Unione”, invoca la necessità che si diffonda nell’Europa una memoria potremmo dire “antitotalitaria” che condanni entrambi i regimi che hanno negato i valori fondanti su sui è stata edificata la nuova Europa comunitaria. Su di essa deve poggiare “ una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani”. Siamo in presenza di un uso del termine revisionismo ben diverso da quello evocato dall’iniziativa modenese, che rimanda a stantie polemiche antidefeliciane, e alla difesa di una vulgata ideologica che non ha ormai nessun effettivo fondamento storico: la storia dell’Urss e dei regimi comunisti non appartiene al lungo processo della liberazione dell’uomo dalle ingiustizie sociali e dall’oppressione, ma al suo esatto contrario, nonostante la loro ideologia fosse fondata sull’emancipazione del lavoro e sulla creazione di un ideale società egualitaria. Che il comunismo abbia significato per milioni di uomini una speranza di riscatto e abbia guidato movimenti di liberazione in tutto il mondo, non può tradursi nel negare che tutte le volte che quella speranza si è consolidata in sistemi politici concreti abbia prodotto regimi totalitari.

Il comunismo e la cultura storica italiana. Perché dunque in Italia si è verificato questo travisamento, che non posso pensare sia dipeso dal fatto che gli storici non abbiano letto il testo che hanno commentato, fidandosi della lettura ideologica “filocomunista” dell’Anpi? Le ragioni sono sostanzialmente due.

La prima riguarda l’incapacità degli storici di estrazione marxista, che provengono da una più o meno lunga militanza nel Pci e/o nei movimenti di sinistra, di leggere il comunismo non per quello che aveva rappresentato nella loro giovinezza, ma per quello che effettivamente fu, quando fu messo alla prova effettiva della storia. Che il comunismo abbia significato per milioni di uomini una speranza di riscatto e abbia guidato movimenti di liberazione in tutto il mondo, non può tradursi nel negare che tutte le volte che quella speranza si è consolidata in sistemi politici concreti, da Mosca a Cuba, da Pechino a Belgrado abbia prodotto regimi totalitari, che hanno raggiunto punte di violenza e di distruzione degli esseri umani del tutto simili a quelle dei fascismi: il socialismo reale con quelle speranze non ebbe nulla a che fare, né si tratto di “eccessi” e di deviazioni da un piano ideale positivo. Il leninismo infatti già nella sua costruzione originaria professava l’idea di una “dittatura” non già del proletariato, bensì del partito unico, della Ceca, antagonistica allo stato di diritto e alla democrazia. Per accogliere questo piano di discussione e riflessione noi abbiamo a disposizione la categoria del totalitarismo, che consente di mettere in evidenza i punti di contatto, le omogeneità, oltre le differenze, che rendono possibile in sede scientifica la comparazione – che non è omologazione, equiparazione ed altre amenità – dei due regimi. Ma purtroppo la lezione della Arendt sul totalitarismo, pur vecchia di settant’anni, non è passata interamente nella storiografia e men che meno nel discorso pubblico e nel dibattito culturale, che spesso maneggiano questa concettualizzazione delle scienze sociali statunitensi con sospetto, come se fosse un vecchio arnese della guerra fredda e un “arma impropria” contro il comunismo. Invece che una chiave di lettura in grado di aprire prospettive di indagine originali e pregnanti. Queste prese di posizione segnalano dunque il peso di retaggi ideologici ancora pesantemente presenti nelle griglie concettuali con cui molta intellighenzia di sinistra guarda al passato, a tal punto da impedirle di interpretare un testo per quello che effettivamente dice o di coglierne lo straordinario significato in rapporto alla creazione di una cultura democratica europea.

Il Pci fu un’eccezione? La seconda ragione riguarda il comunismo italiano, la cui partecipazione alla resistenza e alla costruzione della democrazia italiana, non solo lo avrebbe messo al riparo dall’appartenere al campo del totalitarismo sovietico, ma lo avrebbe trasformato del tutto inopinatamente nel punto di vista da cui leggere tutta la storia del comunismo. Anche questa chiave di lettura non è pienamente condivisibile e presenta molte contraddizioni. Il Pci infatti è appartenuto all’orbita bolscevica e staliniana fino alla morte di Togliatti e la partecipazione alla stesura della costituzione non sana il fatto che, per lo meno fino alla segreteria di Berlinguer, nel suo orizzonte strategico, tra i suoi “fini”, vi fosse la “democrazia popolare”, cioè proprio il sistema di quei regimi dittatoriali dell’Europa dell’Est. Per fortuna l’appartenenza al mondo occidentale e i vincoli della guerra fredda hanno impedito al Pci di realizzare ciò che prometteva ai suoi militanti e di diventare un effettivo costruttore della democrazia italiana: ma questa circostanza è una conseguenza storica che dipese dal contesto e dalla lungimiranza dei suoi dirigenti, ma non affondava le sue radici nella cultura politica di quel partito; e che tra l’altro contribuì a definire la sua ”ambiguità” storica, che tanto ha pesato sull’evoluzione della democrazia italiana. Il Pci, dunque, è stato, con tutti i suoi limiti, un’eccezione nella storia del comunismo mondiale, non l’osservatorio da cui leggerne la storia, che resta invece interamente riassunta nell’esperienza del “socialismo reale”. È con questa vicenda con cui qui la memoria dell’Europa deve fare i conti, con la stessa serietà e con la stessa fermezza messe in campo nei confronti del fascismo, non con i problemi identitari di intellettuali excomunisti, che sovrappongono la loro autobiografia di intellettuali militanti alle lezioni, spesso durissime, della storia. Purtroppo è del tutto evidente che tra alcuni storici italiani e in alcune associazioni antifasciste non ci sia la stessa fermezza, anzi si annidi una concezione benevola del comunismo, che colloca lo stalinismo tra gli eccessi e gli errori di una storia fulgida di lotte per la libertà e la pace, e soprattutto al di fuori della storia tragica del totalitarismo. Mi viene da dire che per fortuna che c’è il parlamento europea che vigila sulla memoria del continente, meglio di come non facciano gli intellettuali italiani.

Articolo pubblicato sul Quaderno 1 – 2019 di PER

Giordano Bruno Guerri per “il Giornale” il 20 maggio 2021. Molti Comuni, in questi ultimi mesi, si sono accorti all' improvviso di avere concesso la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, quasi sempre più di novant' anni fa, e adesso se ne pentono. La prima domanda che viene in mente è: perché non ci hanno pensato nel 1945 quando tutta l' Italia, specialmente al nord, festeggiava la fine della guerra e la Liberazione dal fascismo? Novanta anni - novantasette nel caso  del Comune di Asti, che ne ha discusso in questi giorni - sono tanti per avere un simile ripensamento. Possiamo supporre che nel 1945 si vergognassero, di avere concesso quel privilegio, oppure semplicemente che se ne fossero dimenticati, nell' euforia della libertà e dei festeggiamenti. Sì, ma dopo? Avrebbero potuto ripensarci durante il passaggio libertario postsessantottino, o a metà degli anni Settanta, quando Renzo De Felice ricordò e dimostrò agli italiani che eravamo stati quasi tutti entusiasticamente fascisti. Oppure negli anni di piombo, quando c' era da combattere il terrorismo rosso e quello nero, sarebbe stato un bel memento. Infine, perché non prendere una simile decisione in tempi più recenti, quando con i primi governi di Berlusconi in tanti avanzavano timori di una svolta fascista che non c' è stata? No, tutte quelle occasioni sono passate invano, e ci si sveglia soltanto adesso non per la risoluzione del Parlamento europeo che nel 2019 si espresse - pure lui in enorme ritardo - contro i regimi totalitari del presente e del passato. Ci si sveglia soltanto adesso perché si sta imponendo l' incultura della «cancel culture», che sarebbe meglio chiamare «cancellacultura», così apparirebbe meglio l' orrore del suo significato. Comunque la si chiami, la cancellacultura è figlia sciagurata di quella sciagura che è il «politicamente corretto», un tentativo di abolire il pensiero prima ancora che nasca. Certo, è brutto chiamare le persone con appellativi sgradevoli - nano, negro - come è brutto sentir dire da un bambino merda e cazzo (se vi appaiono asterischi al posto di lettere, non li ho messi io). I bambini devono imparare che le parolacce non si dicono, e quando le dicono li si corregge. Ma un adulto deve poter scegliere di prendersi la responsabilità delle parole che usa, e come e quando, senza essere bollato a priori di infamia. La cancellacultura, peggio ancora, è bollare di infamia a posteriori passaggi e fenomeni della storia, sparando a caso sulla vittima di turno, in genere la più debole. Cristoforo Colombo praticava lo schiavismo? Allora si abbattano le sue statue, senza tenere conto che all' epoca lo schiavismo era normale e accettato, che lui viaggiava per conto di una cristianissima regina schiavista e portava nelle nuove terre una croce a nome di un cristianissimo Papa schiavista. Che si abbattano dunque anche le statue e le grandi opere fatte realizzare da quei Papi, e si abbatta pure il Colosseo, dove avvenivano cose politicamente scorrettissime. Il fatto è che la storia non può essere cancellata, per il semplice motivo che è immutabile, quale che sia il nostro giudizio di oggi. E giudicare la storia con i nostri parametri attuali significa perdere a priori la possibilità di capirla, quindi di non ripeterne gli errori. Un autogol. Ritirare la cittadinanza a Mussolini non offende lui, offende i nonni dei cittadini di Asti che quella cittadinanza gli assegnarono, fieri di averlo come concittadino, almeno sulla carta. Sarebbe tanto più semplice e sensato che i consigli comunali si radunassero e deliberassero a maggioranza di non essere d' accordo con i loro avi. Ci si renda conto, soprattutto, che alla cancellacultura non c' è limite, se non quelli dell' ignoranza e della dimenticanza: cosa ci fa, se no, quella via dedicata al generale Bava Beccaris vicino a piazza del Duomo, a Milano? Fu lui, a fine Ottocento, a ordinare di sparare con i cannoni contro il popolo che protestava per l' aumento del prezzo del pane: 400 morti, pare, la cifra vera venne tenuta nascosta. Nascono anche, frutto della cancellacultura, le comiche alla Peppone e don Camillo: se tu cancelli quello, io cancello quell' altro, via le strade dedicate a Stalin e già che ci siamo anche quelle dedicate a Togliatti. Così, il consiglio comunale di Asti forse non revocherà la cittadinanza a Mussolini, perché il Pd locale non ha voluto che la mozione condannasse tutte «le persone organiche ai regimi dittatoriali» dal fascismo al comunismo. Hanno finito per dare la cittadinanza onoraria al Milite Ignoto, figura retorica nobile ma - appunto - retorica. Oggi tutti sono d' accordo, ma quando un giorno si arriverà davvero alla conclusione che le guerre sono un orrore del passato da non ripetere mai, qualcuno proporrà di revocare la cittadinanza anche a Milite Ignoto, nel consiglio comunale di Asti del maggio 4838.

"Cancel culture? Dannosa e ridicola". Massimiliano Parente il 13 Maggio 2021 su Il Giornale. Lo scrittore Giuseppe Culicchia contro i nuovi censori: "Sono come il Ministero della Verità di Orwell". Mai banale, autore di romanzi importanti, capace di spaziare dall'immaginario pop alla satira all'intimismo non sdolcinato, e molto più trasgressivo degli autorini reputati tali ma che poi fanno la fila per prendersi uno Strega baciando il santino di Berlinguer. Sto parlando di Giuseppe Culicchia e sono al telefono con Giuseppe Culicchia, per fare quattro chiacchiere, e a lui rivolgo qualche domanda sul politicamente corretto e dintorni. La biografia ufficiale di Philip Roth ritirata perché il suo autore è accusato di molestie, un grande scienziato liberal come Richard Dawkins accusato di transfobia, l'autobiografia di Woody Allen bloccata dal suo iniziale editore. Elisabetta Sgarbi ha detto che cancel e culture sono due parole che non possono stare insieme. Mi viene in mente il tuo E finsero felici e contenti. Questa finzione sta diventando pericolosa o credi che diventerà così ridicola da distruggersi da sola?

«La cosiddetta cancel culture è ridicola e pericolosa. Ridicola perché non ha alcun senso mettere all'indice certi libri o film adducendo come motivazione la condotta sessuale o le idee in materia di diritti degli autori, o pretendere di emendare o vietare i classici perché non conformi allo Zeitgeist: accusare Le avventure di Huckleberry Finn o Cuore di tenebra di razzismo perché vi compare la parola negro o per come vi vengono descritte le popolazioni africane è addirittura surreale; Mark Twain si batté per l'abolizione della schiavitù, Conrad scrisse l'atto d'accusa più feroce contro il colonialismo. Pericolosa perché cancellare dal nostro passato le cose che non ci piacciono, anziché studiarle e formarsi un pensiero critico, significa semplicemente impedirsi di comprendere non solo la letteratura o il cinema, ma anche la Storia nella sua complessità».

Parliamo di femminismo. Appena obietti qualcosa a una donna sei misogino. Ma loro, per esempio la Murgia o la Valerio o tante altre, possono tranquillamente dire che tutti i maschi sono come figli di mafiosi. Mi sembra che al contrario ci sia un problema di misandria. Oltre al fatto che a queste paladine del femminismo se togli il femminismo non resta niente. Non sono certo esempi di eccellenza.

«Se penso al femminismo penso a un saggio che lessi e mi illuminò da ragazzo, Dalla parte delle bambine, di Elena Gianini Belotti, o al romanzo Cassandra di Christa Wolf, o a figure come Angela Davis e Leni Riefenstahl. Io sono nato maschio, bianco, eterosessuale, e sono diventato padre: francamente, l'unica cosa per cui mi sento in colpa in quanto individuo è l'aver messo al mondo dei figli in questo mondo così com'è. Ma sono due bambini in gamba, ho fiducia in loro e nel fatto che tra le altre cose sapranno rispettare le donne. Perché il rispetto è fondamentale, e non solo in teoria ma anche in pratica dovrebbe essere reciproco».

Di questo passo arriveranno a bandire tutte le opere d'arte e non solo. Il politicamente corretto vuole cambiare i dizionari cancellando le parole. La parola con la N, la parola con la F, sembra di vivere in una crociata di parole crociate.

«Cancellare le parole è, non a caso, il compito di Syme, il funzionario del Ministero della Verità che in 1984 di Orwell è incaricato di redigere il dizionario della Neolingua. Ma l'uso distorto delle parole parte da lontano e non riguarda solo le minoranze: si pensi al mondo del lavoro, in cui i licenziamenti sono diventati esuberi, o agli eufemismi usati al tempo del giornalismo di guerra embedded, in cui le vittime civili si sono trasformate in danni collaterali. Per tornane all'ambito della comicità, chiedere a un comico di seguire il manuale del politicamente corretto significa non solo spuntarne le armi ma impedirgli di fare il suo mestiere. E come sempre, in Italia esistono due pesi e due misure: oggi per esempio si condanna fermamente il body-shaming nel momento in cui è rivolto a una figura pubblica di sinistra, ma per vent'anni il bersaglio è stata una di destra e nessuno ha fatto un plissé».

Tu sei anche il traduttore di Bret Easton Ellis, anche lui si è scagliato contro il politicamente corretto. Mi sembra che negli Stati Uniti la situazione sia peggiore che da noi.

«Il fatto che il politicamente corretto e la cancel culture siano nati negli Usa non è casuale: sono il Paese dell'individualismo e del narcisismo più esasperati, e basterebbe rileggere o magari leggere La cultura del piagnisteo di Robert Hughes per farsi un'idea delle radici di un fenomeno nato nei campus di quelle università dove ridicolmente e pericolosamente viene eliminata dai corsi di studio perfino l'Iliade, perché sessista, maschilista, violenta e patriarcale. Da noi del resto c'è chi vorrebbe fare lo stesso con la Divina Commedia, con buona pace dell'anno dantesco».

Come è noto io sono mezzo frocio, almeno di me stesso lo posso dire?

«Direi di sì, io ho amici che si definiscono tranquillamente zoccole. Il fatto è, e le recenti polemiche nate dal caso Rai/Fedez ne sono una dimostrazione lampante, che il discorso sui diritti delle minoranze ha totalmente oscurato quello sui diritti dei lavoratori. Che il 1º Maggio si parli di omotransfobia anziché del dramma di un Paese che ha visto non solo la perdita di 900mila posti di lavoro ma anche l'azzeramento di ogni possibile progetto di futuro per intere generazioni che all'indomani dell'introduzione delle leggi sul precariato possono sperare al più in uno stage da 600 euro al mese, per tacere di chi si riduce a lavorare gratis pur di aggiungere una qualche esperienza al suo curriculum, è emblematico. Ma del resto le politiche liberiste sono state abbracciate proprio dal maggior partito di quella che un tempo era la sinistra, quindi perché stupirsi? Diritti civili, migranti, antifascismo danno l'impressione di essere altrettante foglie di fico per chi di fatto ha introdotto il precariato in Italia con il famoso pacchetto Treu, nel 1997, quando al governo c'era Romano Prodi. E poi ci si lagna della fuga dei cervelli, o ci si scandalizza perché i corrieri di Amazon non possono neppure andare in bagno».

Il pianeta Terra ha quattro miliardi e mezzo di anni, la vita sulla Terra c'è da quattro miliardi di anni ma siamo preoccupati di quello che stiamo facendo al pianeta negli ultimi cinquant'anni e come vivranno gli esseri umani tra cento anni. Ti appassiona il futuro dell'umanità?

«Ti confesso che c'è in me una grande curiosità: il mondo è un magazzino di storie, e vorrei sapere come continueranno. Morire sarà come dimenticare su un treno l'unica copia esistente di un libro che si è iniziato con il viaggio, con pagine molto belle e altre decisamente dolorose, e altre ancora inutili, ma nel complesso molto interessante. Da questo punto di vista, sarà un vero peccato».

Enrico Mentana: "La cancel culture come i roghi del nazismo". E subito viene travolto dagli insulti. Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Forte polemica per un post che Enrico Mentana ha pubblicato sui suoi social. L’argomento è quello divisivo della cancel culture, al centro del dibattito pubblico dopo i recenti e controversi episodi di vera o presunta censura dovuta a un eccesso di politicamente corretto. “Bisogna avere il coraggio di dirlo: per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi dei libri del nazismo”, scrive il direttore del Tg di La7 a corredo di una foto in bianco e nero che ritrae alcuni libri dati alle fiamme dalle truppe di Hitler. Neanche a dirlo, il post di Mentana scatena polemiche e reazioni contrastanti e diventa in poche ore trending topic su Twitter. Alcuni, infatti, hanno giudicato sia la foto che le sue parole come estreme, troppo forti. Di lì una serie di critiche senza fine, da chi gli dà del “boomer” a chi lo definisce addirittura un “webete”. A giudicare dai commenti negativi ricevuti, sembra proprio che la controffensiva del giornalista anti cancel culture non sia stata per niente apprezzata. Tutt’altro. Un utente, per esempio, su Twitter ha scritto: “Qualcuno ricordi a Mentana che in Germania dopo il 1945 i simboli nazisti sono stati cancellati dal paese. Persino i francobolli dell'epoca non potevano essere esposti dai negozi di filatelia. Ora arriva lui e mette sullo stesso piano Hitler e la cancel culture. Surreale, no?”. 

Le barricate della Comune, 150 anni dopo. Marco Cicala su La Repubblica il 30 aprile 2021. Una barricata dell’esercito popolare a Parigi nel 1871. Il governo rivoluzionario della Comune resisté dal 18 marzo al 28 maggio di 150 anni fa. Erano operai, artigiani, impiegati, insegnanti, le donne e gli uomini che a Parigi nel 1871 si ribellarono e vennero sconfitti sulle barricate. Un mito collettivo che non si è ancora spento. Dicesi  - recitano i glossari - "di vino o distillato invecchiato in barriques", ossia in botti di rovere a media capacità. È sintomatico che nel XXI secolo l'aggettivo "barricato" appartenga ormai quasi esclusivamente al linguaggio di enologi con più o meno puzza sotto il naso. Smaltita l'epoca delle rivoluzioni come una sbronza assassina, da sobri ci siamo forse dimenticati che il termine "barricata" deve il suo etimo proprio a quegli antichi barilotti, le barriques.

Oblio e memoria nell’era della Cancel culture. di Marco Follini su L'Espresso il 21 aprile 2021. Non è da oggi che il velo dell’oblio si stende come una coltre sui difetti politici (e non solo) di tutti noi. Esso viene ormai codificato come un diritto e consigliato come una forma di saggezza. Esiste una sentenza europea che garantisce l’oblio e una letteratura che lo celebra (David Rieff, “Elogio dell’oblio”). Nel suo derby infinito con la memoria, l’oblio sta segnando molti punti a suo vantaggio. Troppi, forse. Se dopo la seconda guerra mondiale e i suoi orrori l’impegno corale dei nostri padri consisteva nel ricordare, nel non rimuovere, nel fare i conti fino in fondo con quelle sofferenze e ingiustizie inaudite, ora invece il sentimento comune che attraversa il nostro animo pubblico sembra essere quello di scrollarci di dosso tutto quello che potrebbe evocare rancori, vendette, ostinazioni. Con le migliori intenzioni, s’intende. Ma anche con qualche insidia da cui si vorrebbe mettere in guardia. Nel mondo, la “cancel culture” che va per la maggiore inchioda i grandi del passato a responsabilità fin troppo onerose. E da Mozart a Churchill non c’è nessuno di quei grandi che sfugga alla ghigliottina della nostra memoria fuori dal tempo. Così cancelliamo i loro meriti e il loro stesso contesto, destinandoli a un oblio corrucciato e inutilmente severo. Nel piccolo giardino di casa nostra, le svolte si producono una dopo l’altra con il sottile e perfido intendimento di evitare che si ricordino con troppa cura le parole e i gesti di ieri o ieri l’altro avvalorando epifanie politiche piuttosto strumentali e di corto respiro. Così si cancella la storia nella sua complessità che invece andrebbe indagata. E si avvolge la politica nella trama delle sue convenienze di oggi contando che l’indomani se ne possa magari intessere un’altra di tutt’altro segno. Il fatto è che tra la memoria e l’oblio è possibile solo un pareggio. Un compromesso, per dirla con le parole della politica. Perdonare è da re, dimenticare è da sciocchi, recita la saggezza popolare. Noi invece dimentichiamo troppo facilmente e così non riusciamo mai a perdonare neppure i nostri meriti.

Povero Dante. Angelo Gaccione su Il Quotidiano del Sud il 5 aprile 2021. La mia lingua ha segnato il mio destino. Ho preso coscienza molto presto del fatto che la lingua è la vera patria di un uomo, la patria più autentica. Sono stato in bilico per anni, soprattutto quando mi gravava sul collo l’obbligo del servizio militare, se restare in Italia o andarmene altrove. Come il personaggio del racconto “Liliana”, anch’io ero terrorizzato: “(…) In fondo volevo restare per scrivere, e temevo che se fossi partito avrei perso definitivamente l’uso della mia lingua e non avrei più potuto fare lo scrittore. Avevo avuto una conversazione con lo scrittore dissidente sovietico M*, in quegli anni, e avevo appreso che alcuni fuorusciti che avevano abbandonato la Russia per riparare in Occidente, si erano isteriliti come scrittori e come poeti. Fuori dalla patria, avevano perso il fertile humus linguistico che li alimentava e dentro cui erano immersi. Me ne spaventai, temevo di diventare arido anch’io, di perdere la lingua, di divenire intrapiantabile come certe piante che muoiono su altri terreni”. Se lo stile fa lo scrittore, non c’è dubbio che la lingua è il pozzo immenso in cui attinge. Lo sapevo da Dante che avevo letto e riletto fino a bucarmi gli occhi, e lo sapevo dall’amore per le lingue madri dialettali dal cui impasto trae forza quella che per me resta l’idioma più ricco, più prezioso, più fantasioso del mondo. E se in un passaggio di un racconto sulla gerarchia delle lingue carico di ironia, quella spagnola poteva pretendere di parlare al cuore di Diòs (di Dio), la lingua italiana restava pur sempre quella in grado di parlare al cuore degli uomini. E proprio perché degli uomini concreti, terreni, e delle loro vicende umane, voleva occuparsi la mia penna, non potevo che usare la nostra di lingua: quella che Dante aveva forgiato col suo duro e caparbio lavoro. Mi vanto di averne sempre avuto rispetto e nulla ho concesso alle mode e al suo depauperamento. Semmai ho operato una sorta di resistenza e di recupero; di recupero di lemmi cancellati o destinati all’oblio; di toponimi di luoghi e di cose che esistono perché la lingua li rinomina, li conserva, li tiene vivi. C’è la parola perché c’è la cosa, ma è altrettanto vero che se muore la parola muore pure la cosa. Che ne sanno i milanesi di oggi del Bottonuto? Dove possono topograficamente collocarlo non conoscendo più l’uso della parola? E i miei giovani concittadini acresi che ne sanno della Malabocca e del suo significato, avendo perduto la lingua madre dialettale? Mentre da un lato si ricordano in pompa magna i settecento anni dalla morte del padre della lingua italiana Dante Alighieri, dall’altro la nostra colta e bellissima lingua viene vituperata, invasa com’è da anglicismi di ogni tipo, banali e spesso fuorvianti, che la immiseriscono. I francesi sono giustamente molto più orgogliosi di noi a questo riguardo, e mai accetterebbero che sulla insegna di un calzolaio fosse scritto shoemaker.

Cancel culture in salsa francese: Luigi 14 e non Luigi XIV. Emanuele Mastrangelo il 19 Marzo 2021 su culturaidentita.it. Pressoché tutti i romanzi distopici contengono un passaggio in cui una vestigia del vecchio mondo viene mostrata distrutta: in «1984» Orwell disegna un futuro in cui la calligrafia è scomparsa, e il protagonista si trova impacciato ad aver a che fare con un vecchio quaderno di carta color crema e una penna vera, non una ruvida «matita a inchiostro». In «Fahrenheit 451» Ray Bradbury depreca la scomparsa dei bottoni per far posto alle chiusure-lampo, togliendo così all’uomo quei pochi istanti di riflessiva intimità durante la vestizione. In «1984&1985» Anthony Burgess si lamenta per la distruzione – reale – del vecchio sistema monetario inglese, avvenuta il 15 febbraio 1971 (Decimal Day), che ha sostituito un meccanismo che per un vecchio britannico aveva un’eleganza tutta sua (anche logica, con buona pace di noi sostenitori del sistema decimale). Tutti questi episodi solo collegati da una medesima sottotraccia: il Mondo Nuovo, la temuta distopia, in tutti i casi si è realizzato separando gli individui dalle vestigia del loro passato. Vestigia magari macchinose, come il quadrante a 12 ore dell’orologio (sempre in «1984», sostituito da un quadrante a 24 ore e una sola lancetta) ma che davano il senso di una continuità con le proprie radici. E non che questo sia solo fantascienza: Mao e Pol Pot ci hanno provato nella realtà, con risultati che ancora grondano sangue. L’analogia con quanto sta avvenendo in Francia in questi giorni salta dunque subito agli occhi: il museo Carnavalet di Parigi ha deciso di tradurre in cifre «arabe» i numerali dinastici dei sovrani francesi, come da tradizione indicati in numeri romani. Avremo così un «Luigi 14» che sostituisce il classico Luigi XIV perché i visitatori «hanno difficoltà a leggere i numeri romani». La motivazione è tanto per cambiare apparentemente nobile, il classico «i bambini! Nessuno che pensa ai bambini!»: «Notiamo tutti – ha dichiarato al «Le Figaro» la responsabile del servizio per il pubblico del Carnavalet, Noemie Giard – che i visitatori leggono poco i testi nelle sale, soprattutto se sono troppo lunghi. Hanno tendenza a fare zapping anche al museo. Quante volte abbiamo visto degli adulti leggere i testi dedicati ai bambini?». Insomma, per la Giard, è più semplice abolire una traccia del passato piuttosto che insegnarla. Massimo Gramellini sul «Corriere della Sera» mette a nudo la bontà pelosa di queste teorie: «prima non si insegnano le cose, e poi le si eliminano per non far sentire a disagio chi non le sa». Così la cancel culture si fa strada anche in Francia, dove se è più difficile colpire le statue, grazie all’usbergo che fornisce la caparbia grandeur nazionale, è sempre possibile ideare strategie d’aggiramento. La cancel culture, d’altronde, si muove come l’acqua e segue le vie di minor resistenza: in Francia sono decenni che assistiamo alla mattanza delle chiese neogotiche e neoromaniche: uno scempio urbanistico che si giova del diffuso anticlericalismo e laicismo francese. Ora è il turno dei numeri romani, perché tutto sommato una sottotraccia anti-romana in Francia c’è sempre stata e i difensori della cultura classica sono sempre più una pattuglia ristretta, vilipesa, trattata da «secchioni» e «matusa» inutili nell’epoca della globalizzazione anglicizzante. Là si può colpire con facilità. E infatti si colpisce. Come da copione, queste operazioni funzionano attraverso il meccanismo della «finestra di Overton». Era già stato il prestigioso Louvre ad abolire la numerazione romana per i secoli. Identiche le motivazioni. Ma come una diga a cui viene fatto un forellino, di lì a poco la perdita da un piccolo schizzo diventa una cataratta. E alla fine ci si ritrova con un Vajont. Spiega in una interessante serie di lezioni online il latinista Guido Milanese, ordinario di Lingua e Letteratura latina alla Cattolica di Milano, che il Concilio Vaticano II formalmente non ha abolito la lingua di Cicerone dalla liturgia. Tuttavia nel ginepraio delle sue conclusioni, i nemici della tradizione si sono lasciate aperte una serie di porte sul retro che hanno de facto portato alla distruzione del patrimonio classico della Chiesa di Roma. Il forellino nella diga della tradizione cattolica si è trasformato in un’apocalittica devastazione i cui frutti si colgono oggi, con le chiese vuote e le messe deserte del pontificato bergogliano. Il meccanismo è il medesimo: quando si cede qualcosa alle forze della cancel culture, al Nulla di Michael Ende, si stanno aprendo le porte al nemico come i Troiani col cavallo di legno. La lezione è dunque severissima: con chiunque propugni qualsiasi forma di cancel culture non si tratta e davanti alle sue istanze non si cede un millimetro. L’alternativa è un’apocalisse culturale alla Pol Pot ma con un miglior ufficio stampa.

·        L’Utopismo.

Beatles, i 50 anni di "Imagine" e lo scambio di tweet tra John Lennon e George Harrison. Ernesto Assante su La Repubblica l'11 settembre 2021. Quasi tutte le star scomparse hanno account attivi, gestiti da eredi e famiglie. Ma stavolta il tono è colloquiale, diretto, come se i due ex-Beatles parlassero davvero, twittando pensieri, ricordi, come se tutto stesse avvenendo davvero in diretta. I Beatles morti ci parlano su Twitter. John Lennon, scomparso nel 1980, e George Harrison, morto nel 2001, sono ancora tra noi e comunicano con i fan tramite i loro account su Twitter. Non è una novità, apparentemente, entrambi gli account sono nati ovviamente dopo la scomparsa di entrambi e sono sempre stati attivi in questi anni, ma se fino a oggi sono serviti essenzialmente per scopi promozionali o d'archivio, giovedì scorso, il giorno del cinquantesimo anniversario della pubblicazione di Imagine.

Imagine, il compitino in bello stile di John con tanto zucchero e bla bla. Il brano del grande compositore dei Beatles rivisto a distanza di 50 anni. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 10 ottobre 2021. Niente più che un compitino redatto in bello stile, come un vestitino da indossare nei giorni di festa con tutti i bottoncini abbottonati. Ecco cos’è Imagine. Il brano più famoso composto da John Lennon nel 1971, all’interno dell’omonimo 33 giri, da solista, dopo aver lasciato i Beatles, quindi ormai mezzo secolo fa, è – per la musica, nell’innesto d’immaginario nichilista – una specie di Nutella, anzi, come la Fanta che non è buona, ma è tanta. Tanta di lagna e di bla-bla, il caso di dire (se non fosse che proprio Greta Thunberg l’incarna – questa canzone – come il fiat lux, la creazione). Era il tempo della guerra del Vietnam, della controversa presidenza Nixon e delle contestazioni giovanili che infiammavano – “arcobalenandola” – l’America. Lennon lo compose nella sua residenza inglese utilizzando un pianoforte Steinway. Lui stesso ammise che per arrivare al grande pubblico, era stato necessario cospargere di zucchero il messaggio del testo, in altre dichiarazioni sostituiva lo zucchero con il cioccolato. A rileggerlo oggi, appunto, un compitino. Si auspica la pace nel mondo, ossia il proclama di ogni concorso per anime belle, e per raggiungere questo ambizioso obiettivo Lennon si immagina un globo senza cielo, ovvero, un mammozzo perso nel cosmo orbo di qualunque trascendenza. Niente Paradiso o Inferno, “dopo”. La beatitudine – ma nella descrizione che ne fa il testo è un limbo – è giusto a portata di mano: basta non farsi più la guerra. Ne sa più di Eraclito, Lennon. Ma anche più di quanto possa saperne un Karl Marx: urge – manco a dirlo – abolire la proprietà privata, quindi gli Stati sovrani e le confessioni religiose poi, quando si sentono depositarie di un’unica verità e convinte che sia giusto imporre gli altri questa certezza con qualunque mezzo, sono da abrogare. E su questo, magari, si potrebbe riflettere. Ma è un problema millenario che inizia giusto al tempo delle Crociate promosse dai pontefici contro gli infedeli musulmani. A proposito di Marx Lennon disse che questo testo gli si appaiava naturalmente con “Manifesto del partito comunista” di Marx e Engels, anche se lui non si sentiva un comunista, semmai un socialista gentile. All’inglese, appunto: gentile e bello nello stile, e coi bottoncini ben corrispondenti alle asole. Come i dischi in vinile 45 giri, i capelli lunghi e gli occhiali tondi sul naso, le parole di Lennon – ma anche il giro armonico – nell’epoca odierna risultano datate. Tra sovranisti e europeisti, con la crisi di leadership in cui sembra dibattersi Biden alle prese con questioni epocali – la fuga dall’Afghanistan, piuttosto che l’incalzare del Covid – col balzo in avanti del capitalismo cinese, con la Grande Madre Russia di Putin e i temi ambientali che promettono o minacciano la transizione ecologica, la sovrapposizione di Imagine è solo un fuori sincrono neppure situazionista ma perfetto per ogni situazione. Il brano, infatti, è nel tempo diventato un culto da anime belle. Trasversale inno alla pace, interpretato dai più grandi della musica pop, da Madonna a Lady Gaga, il pezzo è facilmente orecchiabile e comprensibile, buono per ogni abbinata. Lennon, qualche tempo dopo averlo composto, indicò in Yoko Ono la sua fonte di ispirazione, in particolare alcune poesie della propria moglie, e sarebbe stato più giusto indicare come autori la coppia Lennon-Ono. La recensione della rivista “Rolling Stones”, all’uscita dell’album, fu piuttosto freddina: “Ci sono avvisaglie che i messaggi di Lennon non siano solo noiosi ma anche irrilevanti”. Nel tempo, in obbedienza allo Spirito del Tempo, hanno cambiato opinione. Inseriscono la canzone tra le migliori di tutti i tempi. La parte più interessante del testo oltre al tratto utopistico che ha  sempre riguardato la riflessione politico-filosofica, da Thomas More, a  Campanella, per non parlare di Platone a cui si deve la creazione del  termine  “u-topos”, letteralmente un luogo che non c’è, al Rousseau  del  “Contratto sociale” dove l’uguaglianza tra gli esseri umani può  diventare un totalitarismo della maggioranza e nei suoi esiti pratici ha  influenzato il meccanismo del Terrore attuato da Robespierre durante  la Rivoluzione francese, come sistematica eliminazione di qualunque  avversario, la parte più interessante – si diceva – la strofa più  pregnante è quella in cui Lennon canta che per “fare” devi prima  “immaginare”.    Poco prima di essere ucciso, nel 1980, dichiarò: “Prima bisogna pensare a volare, poi si vola. Concepire l’idea è la prima mossa”.  In fondo rimane il vero talento di qualunque artista, al di là del risultato: acchiappare un aquilone, immaginare un’altra cosa – il bagliore di una falena, lo stapparsi di una Fanta – e lasciare tutto appeso. Nello scorrere del tempo, in attesa che diventi Spirito.

Imagine, 50 anni di utopia. Patrizio Ruviglioni su L'Espresso l'8 settembre 2021. Pubblicato il 9 settembre 1971, fu subito simbolo di pacifismo: preghiera laica di un mondo senza armi. In realtà per John Lennon quel brano era un inno di battaglia. E un invito, attualissimo, a ripensare la società. “Imagine” di John Lennon non è mai stato il canto generalista, lastricato di "buone intenzioni", a cui siamo abituati ad associarlo, nonostante le centinaia di cover, tributi, riferimenti popolari e da prima serata. Non è mai stato un “We are the world” in anticipo sul sentimentalismo degli anni Ottanta, ma una canzone con all'origine la rabbia, la protesta. Nessuna guerra da combattere, nessuna patria da difendere e per cui morire, nessuna sorta di proprietà; nessun confine, nessuna religione. E per questo, dopo cinquant'anni, è ancora qui. Certo, il resto dell'immaginario che gli è cresciuto intorno, il giro di Do maggiore, suonato col pianoforte, che la tiene in piedi e la rende così elementare, serena e accogliente, l'appello all'ascoltatore a essere parte di quel "sogno" collettivo che è il fulcro del testo, il videoclip in cui cammina fianco a fianco a Yōko Ono nella loro villa con gli interni in bianco, aprendo le finestre alla "luce", persino il fatto che l'ex Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter una volta abbia ammesso che in vari paesi del mondo sia considerato alla stregua di un inno nazionale, ha contribuito e contribuisce a quel racconto, con le punte arrotondate e un po' ambiguo, ovattato negli aspetti più di lotta. Give peace a chance, quindi, sì; però non solo. Perché il pacifismo di cui è diventata da subito un simbolo, e che tutto sommato avvolge tanto la produzione e il pensiero del Lennon solista e maturo quanto il contesto da post-sessantotto in cui nasce il brano, sono solo la faccia più evidente. Dice lo stesso autore: più che prossimi a un grande appello per la pace, il sentimento dietro al testo è in realtà sempre stato affine al Manifesto del partito comunista (per quanto lui non si ritenesse un socialista ma un artista astratto da ogni sorta di dibattito in merito). Di nuovo però: nessuna guerra da combattere, nessuna patria da difendere e per cui morire, nessuna sorta di proprietà; nessun confine, nessuna (soprattutto) religione. Ono – sua anima gemella e allora anche collaboratrice, tant'è che ha pure co-prodotto la canzone insieme col marito e Phill Spector – ne ha parlato come di un pezzo secondo cui, in sintesi, «siamo tutti un solo mondo, un solo paese, un solo popolo»; ma nei piani originali resta un'idea apertamente da battaglia, schierata, a favore di un ripensamento radicale verso laicità, anti-consumismo, anti-nazionalismo. Altro che buoni sentimenti da discount. Non bastasse, il messaggio in questione arriva nei negozi l'11 ottobre del 1971, cinquant'anni fa appunto, quando le barriere e le distinzioni che si propone di cancellare sono il minimo comune denominatore con cui ragiona la geopolitica globale, di qua e di là del Muro, fuori e dentro i Vietnam. E, per di più, arriva anche e soprattutto sul mercato occidentale. Che succede, allora? Succede che “Imagine” viene «accettata perché coperta di zucchero», cioè di tutti quegli elementi popolari, mediatici, rassicuranti che tutt'ora ce la fanno ricordare più morbida e meno ideologica, a tratti persino sovversiva, di quanto fosse in realtà. Parola di Lennon, che pare l'abbia composta seduto al piano, nella sua camera in Inghilterra, giusto nel giro di una giornata. Il giro di Do, il sogno collettivo, il ritornello facile da cantare. Quasi una ninna-nanna. E pure Spector, infatti, racconterà che già durante la lavorazione fossero tutti consapevoli di registrare «una dichiarazione politica forte, ma anche molto commerciale». È il grande inganno del pop che si fa più forte di tutto, il lavoro della retorica che va a smussare gli spigoli. E Lennon, di spigoli, ne aveva parecchi. Nel look, nel timbro di voce, persino nella dialettica e nell'umorismo british, era stato sempre il più ruvido dei Beatles. Nel 1971, appena trentenne, stava già nella sua seconda vita. Archiviati nella burrasca i Fab Four e i rapporti con McCartney e soci, aveva tagliato quella barba e quei "capelloni" che l'avevano traghettato fuori dalla band e dentro i Bed-in di protesta non violenta con l'allora neo-moglie Ono, cioè due settimane del loro viaggio di nozze trascorse interamente nel letto di un albergo di Amsterdam e dopo a Montréal, in opposizione alla guerra nel Vietnam. In camera entravano giornalisti, fotografi, telecamere, attenzioni varie. Si aspettavano una coppia di sposini intenti a fare sesso davanti a tutti, trovavano pigiami e discorsi contro le armi. La sensibilità comune stava cambiando, e loro ne erano artefici e testimoni. Era il 1969 e lui diventava un uomo, fra la fama, l'ossessione dei media, la sperimentazione musicale sconsiderata, l'aspetto fisico che cambia, la crescita spirituale, una nuova e radicale consapevolezza ideologica, le droghe. Addio aura da teen idol, addio caschetto; aveva già contribuito a ripensare il pop dall'interno, e a quel punto voleva parlare a tutti sfruttando i riflettori che aveva puntati addosso. Ci riuscirà – dopo un primo disco solista di discreto rodaggio, John Lennon / Plastic Ono Band del 1970 – con “Imagine”. Perché se nell'album precedente svettava quella “Working class hero” diventata inno per la sinistra dell'epoca, ovunque, e poi superata di slancio dalla sovversiva “Power to the people” (marzo 1971), qui l'afflato è direttamente astratto, universale, calmo, persino pedagogico. «Stavolta ho capito che serve aggiungere del miele», per mandare giù lo sciroppo amaro. Un compromesso, prima che un tranello. E così questa che lui definisce «preghiera laica», comunque messianica, umanistica e collettiva, ispirata tra l'altro da poesie della moglie, apre una finestra sul futuro e con la leggerezza del pop rende legittima l'utopia. Un mondo senza nazioni, armi, guerre e religioni? È possibile, persino semplice, se ci mettiamo tutti in marcia; è possibile, se se una voce serena come la sua, su una ballata per pianoforte e archi, ammette di essere un dreamer a pensarlo, uno spudorato sognatore che sta solo condividendo le sue speranze, eppure già in cammino in attesa che qualcuno si unisca a lui. È tutto lì, sembra dire, a portata di mano. Tradotto: anche un ripensamento così profondo della società, da protesta politica, se cantato nel modo "giusto", semplificato, può affascinare chi lo ascolta, trascendere – nel tempo, nei riferimenti – l'epoca di cui è in parte figlio, diventare il più grande successo commerciale della carriera di Lennon. Sulla scia di questa strategia, due mesi dopo avrebbe pubblicato anche “Happy Xmas (War is over)”, canto di Natale che ritorna nelle radio e nelle feste ogni dicembre e che dietro l'espediente del brano-strenna (campanelli, cori, atmosfere simil-liturgiche) veicola ancora lo stesso messaggio pacifista e radicale, ma sempre da intendersi sul generico, sognante. In sintesi: se lo vuoi davvero, la guerra può scomparire dalla faccia della Terra; e buone Feste. E no che non è così semplice, e no che nel frattempo non è andata così; però intanto si continua a cantarla insieme a “Imagine”, che proprio per la sua astrattezza di fondo – oltre che a causa del deserto di impegno, fra le popstar di oggi – riesce a ripetere il suo gioco anche oggi. Quanti fra chi la celebra adesso sarebbero davvero favorevoli a dei cambiamenti sociali del genere? E quanti, davvero consapevoli e aperti alla matrice ideologica dietro del pezzo? Non importa ormai. E mentre dopo cinquant'anni ritorna nei filmati d'epoca restaurati per l'anniversario, nelle versioni rimasterizzate e recuperate di rito, cinquant'anni in cui non se ne è mai andata e con un mosaico è finita anche al centro dei diecimila metri quadrati del "giardino della pace" in memoria di Lennon al Central Park di New York, e intorno non è cambiato nulla, fra rigurgiti culturali ed edonismi, crisi e nuovi conflitti, altri confini, del pezzo e della sua funzione pedagogica restano per tutti il sogno e non la rabbia, l'utopia e non la rivoluzione. Il rifugio, e la speranza. Una canzone pop.

Il fascino degli utopisti. Esperimenti per una società perfetta. Anna Neima su L'Inkiesta il 9 Ottobre 2021. Il libro di Anna Neima (pubblicato da Bollati Boringhieri) raccoglie storie di gruppi di persone che hanno cercato di costruire comunità nuove regolate da principi diversi. Sono tutti tentativi falliti, ma costituiscono una fonte di idee e di esperienze valide per tutti. Le utopie sono una sorta di sogno sociale. Inventare un mondo «perfetto» – in un romanzo, un manifesto o una comunità vivente – significa mettere a nudo quanto vi è di sbagliato in quello reale. Gli utopisti rifiutano di accontentarsi dei miglioramenti sociali ottenibili con i soliti metodi: la disobbedienza civile, le politiche elettorali, la rivoluzione violenta. Nel corso della storia hanno scelto un approccio ogni volta diverso per articolare la propria visione di società trasformata. I contadini affamati nell’Europa medievale sognavano il paese di Cuccagna, dove le strade erano fatte di pasta dolce, nei fiumi scorrevano miele e vino e le oche arrosto volavano direttamente in bocca ai passanti. Sir Thomas More, di fronte al feroce fanatismo religioso dell’Inghilterra del XVI secolo, si figurò un’isola-nazione dove uomini e donne potessero scegliere la propria fede senza timori, e coniò per essa il termine «utopia». Queste due visioni palesemente diverse erano entrambe modi di immaginare un mondo in cui gli errori dell’epoca venivano corretti: dove non vi erano più carestie o dove l’intolleranza religiosa era impossibile. Entrambe offrono, a uno sguardo odierno, uno spaccato delle ansie e delle speranze dei loro ideatori. More costruì la parola «utopia» su un gioco di parole tra due espressioni greche quasi identiche: ou-topos, «non luogo», ed eu-topos, ossia «buon luogo». Secondo questo uomo di legge nonché politico di epoca rinascimentale, le utopie erano, per definizione, irrealizzabili; fu proprio tale convinzione a indurlo a scrivere il suo libro, una tagliente satira delle manchevolezze della società del tempo. Ma il termine che inventò gli sopravvisse. Più tardi, gli idealisti interpretarono il concetto di utopia non come un’indicazione di impossibilità, ma come una sfida. Si chiesero se le utopie dovessero davvero essere dei «non luoghi». Non poteva esservi un’altra possibilità? Perché non fondare davvero un «buon luogo»? I riformatori sociali cominciarono così a definire i loro insediamenti – nei quali gruppi di idealisti tentavano di concretizzare le proprie aspirazioni sociali in comunità reali – «utopie». Gli esperimenti di utopismo pratico tendono a presentarsi a ondate, solitamente in corrispondenza di periodi segnati da sconvolgimenti culturali e sociali. Il desiderio di staccarsi dalla società e di ricominciare è un modo per porre nuove fondamenta, per mettere alla prova idee poco ortodosse trasformandole in azioni. Una di queste ondate – anche se non certo la prima – si manifestò nel XVI secolo all’interno della Riforma protestante. Pur avendo rifiutato il dogma cattolico, i pensatori protestanti di tutta Europa avevano comunque bisogno di trovare nuove modalità sociali che si adattassero alle loro credenze. Abbandonati la pompa delle cattedrali, i paramenti in seta e l’incenso e le statue dorate dei santi, volevano vivere seguendo la Bibbia alla lettera, praticando un culto non performativo. Oltre a dare origine alle principali sette protestanti, come il luteranesimo, il calvinismo e l’anglicanesimo, la loro ricerca generò anche una serie di movimenti religiosi minori e più radicali, comprese le comunità utopiche cristiane degli hutteriti e dei mennoniti, che vivevano in «colonie» isolate e autosufficienti, rifiutando le comuni norme sociali e dedicandosi alla preghiera. Il XIX secolo vide emergere un’altra ondata di esperimenti, con la fondazione di centinaia di utopie secolari e religiose negli Stati Uniti. A ispirarle furono l’ottimismo e la libertà sociale seguiti alla conquista dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Fra le altre vi erano la comunità trascendentalista di Brook Farm, che ambiva a raggiungere il perfetto equilibrio tra svago, lavoro manuale e attività intellettuale, e le «falangi» costituite dai seguaci del visionario francese Charles Fourier, il quale sperava di inaugurare un nuovo millennio di amore e fratellanza in America. Più di recente, negli anni sessanta e settanta del Novecento, si assistette a una nuova ondata di utopie durante il boom economico che fece seguito alla seconda guerra mondiale. Dalla Kommune 1 di Berlino alla cooperativa Kaliflower di San Francisco, moltissimi giovani diedero vita a comunità che si emancipavano dal conservatorismo sociale dei genitori dandosi all’amore libero, alle politiche di sinistra, alla mescalina e al misticismo. Tuttavia, in pochi momenti della Storia il mondo è stato disseminato di utopie praticate come nei vent’anni intercorsi tra le due guerre mondiali. Buona parte della narrazione dell’epoca è dominata dagli esperimenti sociali su scala nazionale del fascismo e del comunismo, che modificarono drasticamente il paesaggio del mondo moderno. Tali esperimenti si fondavano sulla coercizione: la sorveglianza militare, le purghe, la collettivizzazione e l’oppressione. Eppure, perfino mentre le immagini di Mussolini, Hitler, Lenin e Stalin, circondati da oceani di braccia alzate o pugni serrati, venivano trasmesse dai notiziari di tutto il mondo, e le fabbriche, dal Giappone alla Germania, cominciavano a produrre in serie proiettili ed elmetti d’acciaio, iniziarono a spuntare decine di piccole comunità cooperative votate a un’esistenza utopica. Gli strumenti impiegati da queste comunità per raggiungere i propri obiettivi erano la proprietà condivisa dei beni, modalità decisionali democratiche e un sistema d’istruzione progressista. I loro tentativi di riforma sociale erano sperimentali, idiosincratici e spesso bizzarri: tre ore al giorno di meditazione al buio in una sala di preghiera; serate di danza «psicologicamente rigenerativa»; gruppi di intellettuali dalle mani morbide piegati sulle vanghe ed ex braccianti che imparavano a suonare il violino. Ciononostante, tali luoghi non erano soltanto rifugi per eccentrici in cerca di evasione da un ordine sociale insoddisfacente che non potevano cambiare. Gli idealisti che vi gravitavano intorno si impegnavano a immaginare nuove strutture sociali e a capire che aspetto avrebbe avuto un «buon luogo» nella realtà, cercando di vivere in modo da ispirare una trasformazione anche negli altri. La loro era una visione globale: desideravano migliorare la condizione dell’umanità intera, non soltanto dei propri compagni all’interno della comunità. Pubblicavano libri e riviste, tenevano conferenze pubbliche e attraversavano oceani per piantare i semi del cambiamento. «Il fuoco di un solo fiammifero / è in grado di accendere ogni cosa infiammabile al mondo», scriveva Mushanokōji Saneatsu dal suo villaggio in Giappone. La generazione di idealisti che fondò le comunità utopiche del primo dopoguerra condivideva diverse caratteristiche, malgrado le provenienze geografiche differenti. Un impressionante numero di riformatori aveva subìto gravi perdite personali durante il conflitto e la pandemia. L’inglese Leonard Elmhirst aveva perso due fratelli durante la prima guerra mondiale, a Gallipoli e nella Somme. A Eberhard Arnold, un tedesco, era morto un fratello sul fronte orientale. E l’americana Dorothy Straight era rimasta sola con tre bambini dopo che il marito era deceduto nella pandemia di influenza. Il dolore alimentò la loro determinazione a costruire un mondo migliore in memoria di chi non c’era più. Pur avendo idee diverse su come dovesse essere il «buon luogo», gli utopisti erano in gran parte d’accordo su ciò che rifiutavano, ossia il fatto che le persone all’interno del mercato economico venissero generalmente considerate come a sé stanti e in competizione reciproca. Molti idealisti leggevano e ammiravano gli stessi pensatori radicali del XIX secolo, in particolare William Morris e Lev Tolstoj. Sognavano l’uguaglianza sociale, l’autodeterminazione dell’individuo e una vita autosufficiente basata sul lavoro della terra; così si ritirarono in remote aree rurali per fondare comunità corrispondenti alle proprie aspirazioni. Tuttavia, le utopie praticate in quel primo dopoguerra riflettevano le strutture di potere dell’epoca: erano guidate soprattutto da individui appartenenti alla classe media o alta e tendevano a replicare modalità patriarcali. Per realizzare un’utopia serviva un capitale, che di solito era ereditato o donato ai fondatori da ricchi benefattori che ne sostenevano gli ideali. Era molto più semplice costruire una comunità che rifiutava il sistema capitalistico se qualcun altro vi aveva già a che fare e poteva provvedere ai fondi necessari. I leader di questi gruppi erano per la maggior parte uomini e di rado si rivelavano particolarmente visionari riguardo ai ruoli delle donne. Spesso le idealiste degli inizi del XX secolo si battevano per estendere il suffragio femminile e i propri diritti sociali a livello nazionale, dunque era probabile che, in genere, fossero troppo impegnate a organizzare proteste e a manifestare, passando poi le notti in cella, per potersi staccare dalla società e dare vita a un’utopia. Agli uomini, già sicuri della propria posizione sociale, la decisione di discostarsi dalle convenzioni per creare una comunità offriva invece una gradita possibilità di sperimentare modi diversi di vivere. E benché vi fossero donne in posizioni influenti all’interno delle utopie gestite dagli uomini, poche godevano dei privilegi necessari per fondarne una propria. Vi furono naturalmente eccezioni: per esempio la Panacea Society, una comunità alloggiata in una piccola serie di villette vittoriane nella cittadina di mercato di Bedford e guidata da Mabel Barltrop, la quale era convinta di essere stata mandata da Dio per correggere lo squilibrio di genere nel cosmo e guidare i popoli verso una vita immortale sulla Terra. Altre donne riversarono nei romanzi le proprie idee riguardo a mondi alternativi buoni o anche cattivi: per esempio la società pacifista di sole donne descritta in Herland da Charlotte Perkins Gilman, o la distopia eugenetica evocata da Rose Macaulay in What Not. Le utopie praticate negli anni Venti e Trenta rientravano per lo più in due ampie categorie. La prima tentava di incoraggiare l’autorealizzazione totale della persona mediante l’unione di testa, cuore e mani. Tre delle comunità che racconteremo qui rappresentano esempi di questo filone: Santiniketan-Sriniketan, un centro vivace e cosmopolita che utilizzava l’istruzione per promuovere un’esistenza piena e appagante fra le capanne dai tetti di paglia del Bengala orientale; Dartington Hall, una tenuta nella campagna inglese generosamente rifornita e finanziata dall’ereditiera americana Dorothy Straight, i cui membri univano l’allevamento dei polli alle recite all’aperto e la ricerca spirituale a un’autogestione condivisa; e Atarashiki-Mura, un piccolo collettivo di intellettuali giapponesi squattrinati che coltivavano riso e perseguivano l’autorealizzazione impegnandosi in attività artistiche. Pur essendo luoghi molto diversi, intendevano tutti offrire ai loro membri un’esistenza più completa, che potesse soddisfarli sul piano creativo, intellettuale, sociale e spirituale, oltre che economico. Quegli utopisti non erano interessati a modificare soltanto una particolare area del comportamento umano. Volevano farsi carico dell’individuo per intero e migliorarlo. Credevano che il modo di vivere dei loro contemporanei dovesse essere completamente rivisto. Il secondo tipo di comunità era guidato dalla spiritualità. Molti idealisti temevano che questa dimensione fondamentale della vita umana corresse il rischio di perdersi fra le ambizioni materiali del capitalismo industriale, le scienze empiriche e l’attacco sferrato dagli orrori della guerra e della pandemia a qualsiasi forma di religione e di fede. La loro versione di vita buona prevedeva una rigida adesione a sistemi spirituali che andavano dall’ortodossia cristiana ai nuovi sincretismi tipici dell’epoca. Altre tre comunità di quelle che vedremo riflettono questa forma di utopismo: l’Istituto per lo sviluppo armonioso dell’uomo, una comune bohémienne imperniata su un sistema di «shock» psicologici nelle foreste fuori Parigi; il Bruderhof, una colonia cristiana austera e quasi monastica nella Germania centrale; e il Trabuco College, un gruppo di uomini e di donne che seguivano la «terza morale», un regime di castità, dieta vegetariana e meditazione silenziosa fra i cactus e gli arbusti della California. Le storie di queste utopie non raccontano della copiosa abbondanza, del libero dibattito intellettuale e dei vasi da notte dorati che si trovano in More o nel paese di Cuccagna. Vi compaiono anzi conti in banca vuoti e raccolte di fondi infruttuose; malaria, fame e notti insonni in capanne infestate di zanzare; raccolti di riso mancati, zoccoli umidi e rancorosi battibecchi sui turni per nutrire i maiali. Non sono storie di «successo» o «fallimento». Alla fine, le utopie «falliscono» sempre, almeno nel senso che il «luogo perfetto» non è ancora stato creato sulla Terra, è improbabile che vi compaia a breve e, in ogni caso, è un concetto intrinsecamente soggettivo. Il fascino di ripercorrere le utopie praticate non sta nel fatto che rappresentano soluzioni perfette alla domanda su come vivere, ma nei metodi creativi con i quali rispondevano ai problemi del loro specifico momento storico. Con l’evolversi delle società, si evolvono anche i problemi e, di conseguenza, cambia la visione del «buon luogo», mentre la visione precedente viene messa da parte. Benché le comunità presentate qui fossero spesso di piccole dimensioni, irriducibilmente eccentriche e ignorate anche dai contemporanei, ciò non significa che siano da dimenticare. Incoraggiavano infatti le persone a mettere in discussione lo status quo e a credere che i singoli potessero operare un cambiamento facendo della propria vita un esempio a cui guardare. Le utopie praticate introdussero inoltre una serie di concetti che sarebbero poi stati adottati dalla società intera o che, per lo meno, l’avrebbero influenzata: dall’istruzione incentrata sui bisogni del bambino e l’accesso universale alle arti, fino all’agricoltura a bassa tecnologia, passando per le toilette compostanti e le sessioni quotidiane di meditazione o mindfulness a cui dedicare qualche ora. Sarebbero arrivate a influenzare anche le politiche governative, a ispirare e istruire una nuova generazione di uomini di Stato, studiosi e artisti, fino a rappresentare un modello per la controcultura degli anni sessanta e settanta. Offrirono insomma un’abbondante riserva di insegnamenti a chi aspirava a migliorare la società, e continuano tuttora a farlo. Le comunità instaurate dopo la prima guerra mondiale sono esempi di quella che Aldous Huxley definì «la più difficile e la più importante di tutte le arti: l’arte di vivere insieme in armonia, a beneficio di tutti gli interessati». La loro storia è la storia di un potenziale umano mai realizzato, dei cammini che avremmo potuto intraprendere e che potremmo ancora intraprendere. È la storia di come il mondo possa essere plasmato, anche se soltanto in maniera limitata, da un gruppetto di tipi bizzarri e non proprio ben lavati che tentano di costruirsi insieme una vita nelle campagne; una storia di assurdità, possibilità e speranza. da “Gli utopisti. Sei esperimenti per una società perfetta”, di Anna Neeima, traduzione di Bianca Bertola, Bollati Boringhieri editore, pagine 352, euro 26

·        Il Populismo.

Le ali del populismo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2021. Non trovate deprecabile che molti notabili siano arrivati a Glasgow per il summit sull’ambiente a bordo di aerei privati inquinanti? Certo, se Biden fosse salito su un volo di linea, sedendosi vicino al finestrino accanto al ragionier Bianchi, i passeggeri si sarebbero lamentati dei ritardi nel decollo dovuti alle misure di sicurezza. E se avesse preso il treno (senza neanche la carrozza-letto, tanto si addormenta ovunque, come si è visto), gli osservatori avrebbero malignato sull’allungamento dei tempi già biblici di un summit convocato per evitare il nuovo diluvio universale. E non oso immaginare che cosa sarebbe successo se un membro del suo staff fosse stato oggetto di un’aggressione durante il viaggio: accuse di dilettantismo e proliferare di complottismo. Non sfugge il valore emblematico di certi gesti, come andare al lavoro in autobus invece che in Ferrari e mangiare all’autogrill anziché in un «tre stelle» Michelin, ma il potente che li compie dà sempre la sensazione di agire per narcisismo, essendo veramente minimo l’impatto positivo del privilegio a cui rinuncia, a fronte dei problemi provocati dalla scelta di ergersi a finto monaco in favore di telecamera. Promemoria per Greta: chi ha danneggiato di più l’ambiente nelle ultime 48 ore? Biden che prende l’Air Force One per andare a tentar di ridurre le emissioni malefiche o Xi Jinping che rimane a casa sua, ma non firma il taglio del metano e aumenta di colpo la produzione del carbone

La sinistra scorda i veri antifascisti. Marco Gervasoni il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. «Intimo-vos a renders-vos incondicionalmente». Così il comandante della Força Expedicioniera Brasileira all'esercito della Repubblica sociale e a quello tedesco, il 26 aprile 1945 a Fornovo, a sud di Parma. Fu l'ultima battaglia della Seconda Guerra mondiale da noi, e i brasiliani, alleati di americani e inglesi, con 25mila uomini e 400 caduti, diedero un piccolo ma importante contributo alla Liberazione. Poco più a Sud, in provincia di Pistoia, combatterono anche a fianco delle truppe della Resistenza. L'Italia, e in particolare la sinistra, ne furono riconoscenti: tra Pistoia, Pisa, Bologna e Parma, tutte zone rosse, spesseggiano i cimiteri militari e i monumenti ai brasiliani sacrificatisi per noi. Ci saremmo quindi aspettati, da parte dell'Anpi, del Pd, di Sinistra Italiana, di Rifondazione comunista (pare esista ancora), dei centri sociali, un'accoglienza particolare al presidente del Brasile, Bolsonaro, venuto a commemorare i caduti della libertà (quelli veri, non quelli, peraltro mai caduti, contro un fascismo immaginario). Invece è stata inscenata un'indecorosa gazzarra, un fuggi fuggi delle autorità locali, con uno sgarbo diplomatico non da poco, con il vescovo di Pistoia arringante contro il presidente di una delle nazioni più cattoliche del mondo, e poi la manovalanza dell'antifascismo cosiddetto militante a contestare Bolsonaro, e già che c'erano pure Salvini, venuto ad accoglierlo. Questa pietosa vicenda ci conferma quello che sapevamo: primo, che la sinistra ormai è solo volontà di distruzione del nemico, i cosiddetti valori essendo sono solo un pretesto. Secondo, che se un atto viene compiuto da un nemico della sinistra, esso perde qualsiasi valore. In tal caso il nemico è Bolsonaro, presidente regolarmente eletto di una grande democrazia, che in visita ufficiale andava accolto come tale, non come è stato fatto dalla Regione toscana e dal sottosegretario piddino Bini. Perché odiano Bolsonaro? Non si sa. Perché ha estradato Cesare Battisti? Forse, ma sicuramente perché è «fascista», e perciò è venuto a commemorare gli antifascisti brasiliani. Si capisce che ormai non basta più neppure Flaiano per descriverli, ma ci vuole Ionesco e il teatro dell'assurdo ma forse anche il Paolo Villaggio di Fantozzi. E poi: si chiede alla destra di commemorare la Resistenza. Quando lo fa, è presa a insulti e sassate, perché la Resistenza è «cosa loro». E allora, quest'idea distorta e proprietaria di «Resistenza», la destra la lasci pure alla cosiddetta sinistra. Marco Gervasoni

(ANSA il 30 ottobre 2021) - "Rinunciare al compromesso possibile per sognare la legge impossibile è stata una scelta sbagliata, figlia dell'incapacità politica del Pd e dei 5S". Intervenendo sul fallimento al Senato del ddl Zan, il leader di Iv Matteo Renzi scrive alla Repubblica, accusando i dem di aver "preferito scrivere post indignati sui social anziché scrivere leggi". L'ex premier osserva che è vero che ci sono stati franchi tiratori, e Iv ha contestato la decisione di concedere il voto segreto sul non passaggio agli articoli. "Ma al di là di tutto - aggiunge -, resta il fatto che la legge è fallita per colpa di chi ha fatto male i conti e ha giocato una battaglia di consenso sulla pelle di ragazze e ragazzi". E "additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". "Il triste epilogo del disegno di legge Zan divide per l'ennesima volta il campo dei progressisti in due. Da un lato i riformisti, che vogliono le leggi anche accettando i compromessi - spiega il leader di Iv -. Dall'altro i populisti, che piantano bandierine e inseguono gli influencer, senza preoccuparsi del risultato finale. I primi fanno politica, gli altri fanno propaganda. I fatti sono semplici. Il Ddl Zan era a un passo dal traguardo. Sui media, ma anche in Aula nel dibattito del 13 luglio 2021, avevamo chiesto di evitare lo scontro ideologico trovando un accordo sugli articoli legati alla libertà d'opinione e all'identità generale, come richiesto da molte forze sociali e dalle femministe di sinistra". "Non è un caso che l'unica legge a favore della comunità omosessuale mai approvata in Italia sia stata quella delle unioni civili, figlia del compromesso e della scelta di mettere la fiducia fatta dall'allora governo. Fino ad allora e dopo di allora la sinistra preferiva e anche oggi preferisce riempire le piazze, fare i cortei, cullarsi nella convinzione etica di rappresentare i buoni, il popolo, contro i cattivi, il Parlamento. Additare il Parlamento come il luogo dei cattivi e la piazza come il luogo dei buoni: anche questo è populismo". Secondo Renzi, in Italia il centrosinistra "dovrà scegliere se inseguire le parole d'ordine populiste, come la vicenda Zan sembra suggerire o tornare al riformismo".

Roberto D’Agostino per Vanityfair.it il 23 ottobre 2021. La politica non vuole amplessi clandestini. Il sesso sciolto è un handicap. Vale sempre il vecchio motto: meglio comandare che fottere. L'orgasmo è sostituito dal potere. In Italia il primato della virtù (o dell’ipocrisia) fu una delle ragioni dei 4O anni di potere della classe politica democristiana, che, a parte autorevoli eccezioni, è stata prevalentemente casta. I pettegolezzi erano competenza dei servizi segreti che poi li trasformavano in ricatti (vedi la carriera stroncata di Fiorentino Sullo, gigante della DC irpina e nazionale, ma omosessuale). Con Craxi, la svolta del socialismo notte, la trombata decisionista, l'harem del garofano alla De Michelis: si passò da "L'orgia del potere" al "Potere con l'orgia". Eppure mai fu scritto un rigo. Per anni, solo peccati di omissione a mezzo stampa. Anche se Moana Pozzi dà i voti alle perfomance di Craxi, silenzio. Poi, quando Bettino era più morto che vivo, ecco apparire Anja Pieroni sulle copertine dei settimanali mezza nuda. E giù piccanti allusioni alla relazione con il Cinghialone. Infine, Sandra Milo introduce in Italia il genere letterario delle confessioni d'alcova a sfondo politico, la politica delle mutande, sia pure alla memoria. I tempi cambiano: dal sesso proporzionale (il politico gode e tace) al sesso maggioritario (il politico gode e racconta). Alla faccia del bacchettonismo democristiano, alle spalle della "glande-stinità" socialista, irrompe la volontà di esternare - politicamente - una scelta di campo erotica. Così, nel 1991 lo spirito infedele di Bossi pensò bene di proporre come slogan politico lo stato di erezione. "La Lega ce l'ha duro", durissimo, chilometrico; armato di "manico" è lui, Bossi, Membro Kid. Da una parte. Dall’altra, la signorina Rosy Bindi ammetteva la sua verginità, fatto privatissimo che diventa un pubblico messaggio di virtù. Lo spirito del tempo cambia, di nuovo. Oggi, quello che è certo è che le marachelle sessuali sono sempre di più diventate il lato debole dell'uomo di potere, l’arma politica preferita per far fuori il nemico. Bill Clinton, appena accennò alla riforma della sanità americana (che penalizzava le potentissime società assicurative), tirarono fuori dal cassetto i suoi rapporti “orali” con Monica Lewinski, e la riforma morì. Le “cene eleganti” con Bunga Bunga di olgettine hanno bruciato il berlusconismo senza limitismo. Oggi è tutto un parlare della doppia morale di Luca Morisi, la ‘’Bestia’’ social che ha decretato il successo della Lega di Salvini. Con la sua frangetta da chierichetto, s’avanza uno di quei leghisti che, secondo il libro del senatore Zan, sono “machi” omofobi a Roma ma baciano uomini a Mykonos. Fa scalpore le due facce della “Bestia”: quella pubblica (insulti e calunnie sessisti sui social, gogne e demonizzazioni in Rete per immigrati e spacciatori, campagne di ineguagliabile violenza: "Se avessi un figlio gay lo brucerei nel forno") e quella privata (festini nel cascinale veneto con immigrati rumeni da scopare con cocaina e Ghb, la “droga dello stupro”). Da notare infine la differenza: quando a delinquere è un poveraccio è solo un “tossico”, quando sbuca Luca Morisi, insaziabile killer da tastiera, gli orchi si fanno pecore: si scrive di “fragilità esistenziali” e lo spaccio diventa ‘’cessione’’. Amorale della doppia morale: a volte basta un'erezione (sbagliata) per distruggere un partito.

Mattia Feltri per "La Stampa" il 12 ottobre 2021. «Dovreste baciarci per le strade, è grazie a questi ragazzi disadattati se non è arrivato il fascismo». Roba del genere Beppe Grillo l'ha ripetuta spesso - questa è del 2016 - e per una volta ci aveva visto giusto. Il pessimo dei cinque stelle è di aver eccitato il malcontento e di averlo innalzato con campagne surreali a quote virulente; il buono è di averlo sottratto alla furia delle piazze per inscatolarlo dentro un unico coso, il Movimento, capace di contenere e disarmare ogni rabbia, ogni frustrazione, ogni psicosi. Poi però i ragazzi disadattati, cioè gli eletti, sono andati a sbattere contro la realtà. Carlo Sibilia, per esempio, il sottosegretario all'Interno, quello convinto che l'uomo non è mai sbarcato sulla Luna: quattro anni fa diede della matta a Beatrice Lorenzin poiché imponeva le vaccinazioni ai bambini, oggi dà del matto a chi ammicca ai no vax. Bravo Sibilia: un piccolo passo per un uomo, un grande passo per l'umanità. Ma ora che i ragazzi disadattati hanno messo un po' di sale in zucca, e qui e là cominciano a parlare come altri esseri senzienti. Adesso si avvera la profezia di Grillo, gli arrabbiati lo mollano e in mancanza di meglio un tantino di fascismo a cui mettersi alla coda lo hanno trovato. Dunque a sinistra si può esultare per le vittorie nelle città, e trascurare che sono arrivate per l'astensione delle periferie, e si può pure sciogliere Forza Nuova, a questo punto cosa buona e giusta. Ma sarà soltanto illusione: il rapporto fra le classi dirigenti e un pezzo di popolo sì è guastato da molto tempo, e non lo si aggiusterà riducendo tutto a fascismo. 

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

 Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Pappalardo non è più generale: tolti i gradi al leader dei «Gilet arancioni». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2021. Per il ministero della Difesa il capofila del movimento (oggi tra le principali voci no vax) avrebbe portato discredito alle forze dell’ordine. La sua replica: «È un abuso, chiederò due milioni di euro per i danni». Il ministero della Difesa ha revocato con provvedimento amministrativo il grado di generale dei carabinieri ad Antonio Pappalardo. «Leader» dei gilet arancioni, già deputato nelle fila dei Socialdemocratici tra il 1992 e il 1994, per qualche tempo sottosegretario alle finanze del governo Ciampi, oggi è diventato una tra le voci più seguite del mondo no-vax. E proprio a queste ragioni sarebbe legato il provvedimento della Difesa, secondo cui avrebbe violato i doveri discendenti dal giuramento e portato discredito sulle forze dell’ordine durante la fase pandemica. Pappalardo ha iniziato ad assumere un ruolo «politico» ai tempi delle proteste dei cosiddetti forconi, parte dei quali l’ha seguito dopo le manifestazioni in strada. Le sue lotte e le sue «performance»si sono trascinate da anni, sono state filmate e divenute virali sul web, con i suoi simbolici provvedimento di «arresto» comminati agli esponenti politici di ogni forza e schieramento accusati di far parte dei «governi non eletti dal popolo». Numerose le sue partecipazioni a programmi radiofonici e talora televisivi, sui social vanta migliaia di follower. La reazione di Pappalardo non si è fatta attendere. «Un abuso»: così il leader dei Gilet arancioni ha commentato all’Adnkronos il provvedimento, annunciando battaglia: «Mi hanno notificato comportamenti che riguardano la mia attività politica, io sono presidente di un movimento politico e ho parlato davanti a tutti nel corso di manifestazioni pubbliche». «Da anni mi perseguitano», ha sottolineato l’alto ufficiale, annunciando di essersi già rivolto ai suoi legali: «Presenterò una denuncia e chiederò in nome e per conto del movimento due milioni di euro di danni». Pappalardo afferma che il provvedimento gli è stato notificato dopo che «sabato abbiamo fatto una manifestazione a Milano e poi ho consegnato a un vicequestore un verbale di arresto nei confronti di Mattarella, Draghi, governanti e parlamentari per usurpazione del potere politico, visto che Mattarella è stato eletto da parlamentari non convalidati». «Stiamo ricevendo - sostiene Pappalardo - centinaia di dichiarazioni di persone che ci dicono che si sono vaccinate anche se non volevano, costrette perché non potevano perdere il posto di lavoro». «Mi hanno notificato l’atto di rimozione commettendo un abuso», continua Pappalardo spiegando che gli sono stati tolti i gradi nonostante «il Tar del Lazio avesse già annullato, su mio ricorso, la sanzione della sospensione disciplinare dalle funzioni del grado».

Antonio Pappalardo, addio gradi? Clamoroso, come campa oggi l'ex generale: l'indiscrezione di Dagospia. Libero Quotidiano il 28 settembre 2021. Addio gradi per l’ex generale dei carabinieri Antonio Pappalardo. Le sue condotte, l'ultima quella contro l'espediente coronavirus, hanno costretto il ministero della Difesa a provvedere. Sanzionate dunque le sue condotte reputate incompatibili con gli obblighi e il prestigio dei Carabinieri e delle forze armate. Da anni Pappalardo ha tentato la via politica, l'ultimo obiettivo farsi eleggere governatore dell’Umbria. Un'iniziativa che si è rivelata un vero e proprio buco nell'acqua visto che ha raccolto poco più di 500 voti. Qualche risultato l'ha ottenuto - come ricorda Dagospia - nel 1992, quando viene eletto deputato nelle liste del partito socialdemocratico nel collegio di Roma e, nel 1993, sottosegretario alle Finanze. L'esperienza non dura molto perché è costretto alle dimissioni dopo una condanna per diffamazione ai danni del comandante generale dei carabinieri Antonio Viesti. Ma è nel 2016 che Pappalardo guida il "Movimento dei forconi" e successivamente fonda i "gilet arancioni" con la speranza di imitare i "gilet gialli" francesi. Tra le sue battaglie quella contro il "regime comunista" di cui l’Italia sarebbe preda e quella a favore di "stampare moneta", ma anche quella in sostegno dei no-vax. D'altronde per l'ex militare il Covid altro non sarebbe che un modo per "tenere il popolo agli arresti domiciliari". E a chi non ci crede, Pappalardo porta sempre un esempio: "Un mio amico di Bergamo ha avuto i sintomi ed è guarito facendo yoga, perché l’uomo è fatto di fisico ma anche di mente". A questo punto a Pappalardo non resta che tentare un ricorso contro il provvedimento. Gli esiti però sono tutt'altro che certi.

Il generale Antonio Pappalardo non è più generale. Samuele Damilano su L'Espresso il 27 settembre 2021. La trovata di depositare un verbale d’arresto nei confronti degli «usurpatori» Draghi e Mattarella gli è costata la sospensione del grado. Ma, sostiene in ogni caso, «il popolo sovrano sconfiggerà la dittatura». L’ennesima offesa alle istituzioni dello Stato è costata cara ad Antonio Pappalardo: per lui è infatti scattata la rimozione del grado di generale. «Mario Draghi, Sergio Mattarella, parlamentari e ministri: siete estorsori, usurpatori, vi veniamo ad arrestare», sbraita in una diretta sul suo profilo Facebook in cui chiede ai suoi amici di non chiamarlo più con il suo ex grado in quanto “gli usurpatori” sono dotati di microspie e registratori in grado di captare ogni minima deviazione alla loro linea dittatoriale. Dopo la sospensione della vicequestore Schirilò alla manifestazione contro il Green pass, «il marchio della discriminazione», Pappalardo ha notificato un verbale d’arresto al comando provinciale dei carabinieri di Milano, nei confronti di Mattarella, Draghi, ministri e parlamentari. «Perché sono abusivi e alcuni di loro estorsori. Abbiamo ricevuto lamentele da una cinquantina di persone, costrette a vaccinarsi pur di non perdere il lavoro. Questa a casa mia si chiama estorsione aggravata», sostiene nel video. Il ministero della Difesa però non è rimasto impassibile, e lo ha rimosso dal suo grado. Dopo che già tre anni fa la Direzione generale per il personale militare dello stesso ministero - prima che il Tar, come ci tiene a ricordare lo stesso Pappalardo, annullasse l’atto - aveva provato a sospenderlo dalle sue funzioni. E nel 2019 era stato rinviato a giudizio con l’accusa di vilipendio nei confronti di Mattarella. Pappalardo ha già annunciato un tour tra Procura di Roma e Parlamento europeo, dove proverà a far valere le sue rimostranze. E il 20 ottobre, conclude perentorio, «li andiamo ad arrestare». Dagonews il 27 settembre 2021. Il generale Pappalardo ha perso i gradi! Al leader dei "gilet arancioni" e' stato notificato un provvedimento del ministero della Difesa ("perdita del grado per rimozione") che lo priva dei gradi da generale per motivi disciplinari. Sono state sanzionate le sue condotte da capopopolo, ritenute incompatibili con gli obblighi e il prestigio dei Carabinieri e delle forze armate. Pappalardo potrà fare ricorso contro il provvedimento. Ma chissà se, nel frattempo, userà il gilet arancione per reinventarsi parcheggiatore... 

Claudio Del Frate per corriere.it del 30 maggio 2020. L’uomo che ha portato in piazza i «gilet arancioni» disobbedendo a tutte le regole di distanziamento sociale, viene dalla prima Repubblica: sostiene che il coronavirus è un grande inganno che si può curare con lo yoga, vuole tornare alla lira ed è a processo per vilipendio al capo dello Stato. L’ex generale dei carabinieri Antonio Pappalardo, palermitano classe 1946, da anni cerca di ritagliarsi visibilità sul proscenio della politica italiana grazie a sortite di varia natura e riscontri elettorali non all’altezza dei suoi roboanti proclami: l’ultimo, un tentativo di farsi eleggere governatore dell’Umbria, con il quale ha raccolto poco più di 500 voti.

Sottosegretario con il Psdi

Ufficiale di carriera all’interno dell’Arma, Pappalardo transita dalle stellette alla grisaglia del politico nel 1992, quando viene eletto deputato nelle liste del partito socialdemocratico nel collegio di Roma. Nel crepuscolo della Prima Repubblica riesce ad arrivare a ricoprire anche la carica di sottosegretario alle finanze nel governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi (maggio 1993). Quello risulterà anche lo zenith della sua parabola politica anche perché è costretto alle dimissioni dopo una condanna per diffamazione ai danni del comandante generale dei carabinieri Antonio Viesti. Da lì in avanti l'ex generale passa in rapida successione per il Patto di Mariotto Segni, Alleanza Nazionale, il Movimento per le Autonomie dell’allora governatore della Sicilia Raffaele Lombardo, per poi tornare al Psdi. Lesto a posizionarsi e ad assecondare ogni vento di protesta ma senza mai centrare l’obiettivo di un’elezione.

Alla testa dei forconi

A partire dal 2016 Antonio Pappalardo si mette alla testa del cosiddetto «Movimento dei forconi» (o «Movimento di liberazione dell’Italia») facendosi notare per le sue intemperanze. Pretende di andare al Quirinale a notificare a Mattarella un ordine di arresto «in nome del popolo italiano» ritenendo abusiva la sua azione di presidente (e rimedia un rinvio a giudizio per vilipendio al Capo dello Stato). Fonda poi i «gilet arancioni» variante cromatica con la quale spera di imitare i «gilet gialli» francesi. di Nei suoi incendiari discorsi in piazza o sui social si scaglia contro il «regime comunista» di cui l’Italia sarebbe preda, proclama di voler «stampare moneta», contro i partiti e a favore del «popolo italiano», si schiera con i no vax. Ultima sua battaglia è quella contro il coronavirus, o meglio quella che l’ex militare ritiene un espediente che serve solo «a tenere il popolo agli arresti domiciliari». La dimostrazione? «Un mio amico di Bergamo ha avuto i sintomi ed è guarito facendo yoga, perché l’uomo è fatto di fisico ma anche di mente».

I nostalgici con falce e martello. Francesco Maria Del Vigo il 3 Ottobre 2021 su Il Giornale. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto. All'armi son comunisti. E sono tanti. Più di quello che ci si potrebbe immaginare. Basta dare un'occhiata alle liste dei candidati dei principali comuni al voto: è tutto un fiorire di falci e martelli sulle schede elettorali. Nonostante negli ultimi giorni sotto i riflettori della stampa sia finita la presunta galassia nera, c'è un'intera costellazione rossa che, sotto molteplici insegne, corre per avere un posto in consiglio comunale. Tutto assolutamente legittimo e legale, ma nel 2021 a cento anni dalla fondazione del Pci (quello originale, non uno degli attuali tarocchi) e a più di centocinquant'anni dal primo volume del Capitale tutto questo proliferare di compagni è quantomeno naïve. A Milano i partiti che esibiscono la falce e il martello nel loro simbolo sono addirittura tre. E mica corrono insieme, bensì uno contro l'altro armati. D'altronde si sa, ogni qualvolta s'incalza un nipotino di Marx sui crimini commessi da quell'ideologia in Unione Sovietica o in Cina, lui risponde serafico: «No, ma quello è un altro comunismo». È la moltiplicazione delle falci e dei martelli, il marxismo à la carte, la diaspora dei compagni. Perché il comunismo cattivo è sempre quello altrui e, quando si chiede loro di indicarci quello buono, incredibilmente, non riescono mai a trovare un valido esempio in tutto l'orbe terracqueo. Stalin, Mao e Fidel sono sempre compagni che sbagliano. Quelli che non sbagliano, al momento, sono irreperibili. Torniamo a Milano e alle sue liste: il Partito Comunista, il Pci e il Partito Comunista dei lavoratori. Solo Torino riesce a offrire una scelta più ampia ai suoi cittadini: ai tre simboli presenti nel capoluogo lombardo si aggiunge anche Sinistra Comune. A dire il vero c'è anche Potere al popolo, che non ha la falce e il martello nel simbolo, ma abbiamo buone ragioni di pensare che non sia un covo di moderati e liberali. Gli elettori di Roma e Bologna sono decisamente più sfortunati: compaiono solo due partiti comunisti su ogni scheda elettorale. Insomma, nonostante l'allerta sempre altissima per il ritorno delle formazioni di estrema destra, quelle di estrema sinistra sembrano godere di ottima salute ed essere iperattive nella vita democratica dello Stivale. Il proliferare di tutti questi simboli oramai viene derubricato come folklore politico. E va bene così, non ci sono, per fortuna, armate rosse alle porte delle nostre città e il marxismo è stato già ampiamente sconfitto dalla storia, prima ancora che nelle urne. Però vale la pena ricordare la storica risoluzione europea del 19 settembre del 2019, quella che equipara il nazismo al comunismo perché, dietro quel simbolo che oggi è poco più che una carnevalata, c'è una ideologia criminale e, dietro quell'ideologia, qualche milione di morti.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

«Populismo classista». La maleducazione della sardina con infondata autostima e la dittatura del caruccismo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Ottobre 2021. È un ottimo momento per approfittarsene, se sei una donna. Come ha fatto una giovane biondina a Piazzapulita che borbottava costantemente impedendo a un maschio di rispondere a una domanda che lei stessa gli aveva fatto. Pronostico per lei un ruolo da ministro entro cinque anni. È un ottimo momento per approfittartene, se sei una donna. Ci pensavo giovedì sera, mentre una biondina con infondata autostima (e quindi sardina, movimento politico d’elezione dei biondini con inspiegabile autostima) borbottava costantemente impedendo a un maschio di rispondere a una domanda che lei stessa gli aveva fatto. Il conduttore provava a dirle di lasciar replicare l’altro ospite, ma non poteva sbottare «ahò, e basta un po’» come avrebbe plausibilmente fatto con un uomo altrettanto maleducato: a una donna «stai zitta» non lo puoi dire, sennò diventi protagonista d’un bestseller sul (tuo) maschilismo. In C’eravamo tanto amati, un film del 1974, Giovanna Ralli interpretava l’ereditiera cessa di cui s’innamorava Vittorio Gassman. Era un’ignorante che tentava di sembrare colta, che diceva di non poter mangiare «idrocarburi» intendendo «carboidrati», che trovava «molto tosto» il romanzo suggeritole da Gassman (I tre moschettieri), che si compiaceva del suo ruolo di spettatrice di Antonioni e lettrice forte («Si vede che non hai letto il Siddharta»). Oggi quel personaggio lì non potrebbe che essere interpretato da una belloccia, perché non esistono più figlie di ricchi coi dentoni e gli occhiali dalle lenti spesse, perché al cinema e nei talk show vige la dittatura del caruccismo. E infatti la biondina è assai caruccia, e neanche ti viene da infierire quando dice all’interlocutore che il suo è un «populismo classista», e perché non un’acqua asciutta, ragazza mia. («Populismo» ha superato «radical chic» nella classifica delle parole che vorrebbero dire tutt’altro e vengono ormai usate come un generico segno di disprezzo dell’interlocutore). La biondina è belloccia, dice cose a caso, e probabilmente non mangia idrocarburi. Pronostico per lei un ruolo da ministro entro cinque anni. È un ottimo momento per approfittarsene, con la scusa delle donne. La scuola cattolica, film sul delitto del Circeo tratto dal romanzo di Edoardo Albinati, esce al cinema vietato ai minori di 18 anni. Ha senso vietare ai minori un luogo – il cinema – dove è probabile entrino quanto in una balera e in una cabina telefonica? A quei minori che hanno YouPorn sul cellulare e possono vedere ben di peggio senza pagare il biglietto? Probabilmente no, ma sottolineare l’insensatezza del «vietato ai minori» nel 2021 sarebbe una scelta meno furba di quella fatta dai distributori. Che hanno comprato pagine pubblicitarie sui quotidiani e, sulla locandina del film, hanno stampato a caratteri cubitali «CENSURATO IL FILM CHE DENUNCIA LA VIOLENZA SULLE DONNE». È un ottimo momento per il ricatto dialettico: se metti il divieto ai diciotto, sei a favore della violenza sulle donne. (Ho il sospetto che, a parte gli stupratori, siamo un po’ tutti contrari alla violenza sulle donne; ho altresì il sospetto che gli stupratori non verranno rieducati da un film, non più di quanto i guidatori spericolati siano stati rieducati dal Sorpasso e i rapinatori da Die Hard). Ma hanno ragione loro, «Non vogliamo abolire il criterio per cui uno stupro dev’essere vietato ai minori: vogliamo una deroga per lo stupro inserito in uno storytelling educativo» è una richiesta senz’altro sensata. È un ottimo momento per approfittarsene, se sei una buona che prospera grazie ai cattivi. Sulla copertina dell’edizione italiana di Vogue c’è Chiara Ferragni, intervistata (per così dire) da Michela Murgia. La direttrice di Vogue l’altro giorno ha giustamente approfittato del non funzionamento per mezza giornata di Instagram per dire che nell’intervista la bionda e la mora avrebbero affrontato anche quel tema: dove sarebbe Chiara Ferragni senza Instagram. In realtà nell’intervista – nella quale come sempre Chiara Ferragni non dice assolutamente niente: non è mai il momento giusto perché i giornali italiani la smettano d’avere ipertrofica fiducia nel formato-intervista e chiedano agli scrittori di farsi venire loro un’idea e di ritrarre un personaggio il cui mestiere non sono le parole, invece di chiedergli di inefficacemente raccontarsi – la domanda è cosa farebbe la Ferragni se Zuckerberg le togliesse l’account come l’ha tolto a Trump; e la risposta è che non succederà mai, perché lei è una dei buoni, mica usa la piattaforma come la usava quel cattivone di Trump. In contemporanea Time ha una copertina in cui al faccione di Zuckerberg si sovrappone la finestra che ci chiede conferma quando stiamo per cancellare un’app: siamo sicuri di voler eliminare Facebook? Se Zuckerberg fosse una donna, chissà se potremmo indicarlo con tanta disinvoltura come simbolo di tutti i mali, o se finirebbe come giovedì sera in tv, con la sardina che dice che le critiche alla Raggi sono sessiste perché la criticano come persona (e la personalizzazione della politica e quindi del discorso attorno a essa è una cosa che mai mai mai avviene coi maschi, da Berlusconi a Trump, da Renzi a Sarkozy). E se Zuckerberg l’avesse fatto apposta? Se il blackout dell’altro giorno fosse stato non un imprevisto ma un monito? Guardate come sarebbero le vostre giornate senza poter mandare vocali ai vostri flirt, senza poter guardare in diretta le giornate della Ferragni, senza poter condividere i più imbarazzanti momenti dei talk politici. Se non fosse stato un malfunzionamento ma il modo in cui Mark ci annaoxeggia che, senza di lui, la vita sa di fumo e di malinconia, e per distrarci finisce che ci tocca persino andare al cinema? Non m’ero mai accorta, prima del blackout, che Mark fosse l’innominato protagonista di quella canzone, quello che sa che «sarebbe inutile parlare ancora dei problemi miei», e infatti i social di Mark sanno che vogliamo solo fotografare pizze, «così mi chiedi se ho mangiato o no». Non m’ero mai accorta che il Festivalbar dell’83 avesse previsto i social, e i problemi nostri di donne e di fotografatrici di tramonti sul Tevere («senza di te cosa si fa nei pomeriggi troppo blu»). Scusaci, Mark. Pensavamo che i problemi fossero il maschilismo, il populismo, il sovranismo. E invece il problema è che, senza di te, libertà è il nome d’una bugia.

L’erba voglio e la società dell’obbligo. Marcello Veneziani, La Verità (17 settembre 2021). Indovina indovinello, cosa mancava all’appello e alla filiera dopo i diritti omo-trans, l’utero in affitto, le applicazioni gender, l’aborto, l’eutanasia, lo ius soli? Ma la droga, perbacco. Mancava un grano al rosario progressista della sinistra, e in particolare al Pd che è un partito radicale a scoppio ritardato; e puntualmente è arrivato a colpi di firme sulla cannabis. Riciccia per l’ennesima volta la battaglia per la sua legalizzazione, ora in forma di referendum. Una proposta proteiforme e reiterata che si modifica di volta in volta secondo le circostanze e le opportunità del momento, ponendo l’accento ora su uno ora su un altro aspetto. Stavolta l’ariete per sfondare la linea è la coltivazione di canapa o marijuana a scopo terapeutico. Chi è così disumano da opporsi al caso limite di un malato che usa la droga e se la fa crescere in giardino per lenire le sue sofferenze e curare i suoi mali? Poi sotto la pancia delle greggi, come fece Ulisse con Polifemo, passa di tutto: non solo leggi per malati e sofferenti e ben oltre le rigorose prescrizioni e certificazioni mediche sull’uso terapeutico di alcune sostanze o erbe. Curioso questo paese che non consente i minimi margini di libertà e di dissenso nelle cure e nei vaccini per il covid, anzi perseguita e vitupera chi non si allinea e poi permette che ciascuno sia imprenditore farmaceutico di se stesso e si fabbrichi e si coltivi la sua terapia lenitiva direttamente a casa sua… L’autoritarismo vaccinale si trasforma in autarchia terapeutica se di mezzo c’è la cannabis. È il green pass al contrario: il pass per consumare green, cioè erbe “proibite”. Ma non è di questa ennesima battaglia, a cui ci siamo già più volte dedicati in passato, che vorrei parlarvi; bensì di quella filiera, di quel presepe di leggi, referendum e diritti civili di cui fa parte e che compone un mosaico dai tratti ben precisi. Ogni volta ci fanno vedere solo un singolo caso di un singolo problema portato all’estremo e noi dobbiamo pronunciarci come se fosse un fatto a sé, o un caso umano, indipendente dal contesto. E invece bisogna osservarli tutti insieme, perché solo così si compone la strategia e l’ideologia e prende corpo il disegno che ne costituisce il motivo ispiratore, l’ordito e il filo conduttore. È solo cogliendo l’insieme che si vede più chiaramente dove vanno a parare questi singoli tasselli o scalini, verso quale tipo di società, di vita, di visione del mondo ci stanno portando. Qual è il filo che le accomuna, la linea e la strategia che le unisce? Per dirla in modo allegorico e favoloso, è l’Erba Voglio. Avete presente la favola dell’erba voglio del principino viziato che vuole continuamente cose nuove e si gonfia di desideri sempre più grandi? Ecco, l’erba voglio è la nuova ideologia permissiva, soggettiva e trasgressiva su cui è fondato tutto l’edificio di leggi, di proposte, di riforme. Il filo comune di queste leggi è che l’unico vero punto fermo della vita, l’architrave del diritto e della legge è la volontà soggettiva: tu puoi cambiar sesso, cambiare connotati, mutare stato, territorio e cittadinanza, liberarti della creatura che ti porti in corpo o viceversa affittare un utero per fartene recapitare una nuova, puoi decidere quando staccare la spina e morire, decidere se usare sostanze stupefacenti e simili. Tu solo sei arbitro, padrone e titolare della tua vita e del tuo mondo; questa è la libertà, che supera i limiti imposti dalla realtà, dalla società, dalla natura, dalla tradizione. E non importa se ogni tua scelta avrà poi una ricaduta sugli altri e sulla società, su chi ti è intorno, su chi dovrà nascere o morire, sulla tua famiglia, sul tuo partner, sulla tua comunità, sulla tua nazione. Il tuo diritto di autodeterminazione è assoluto e non negoziabile, e viene prima di ogni cosa. Ora, il lato paradossale di questa società è che lascia coltivare, in casa, l’Erba Voglio ma poi dà corpo a un regime della sorveglianza e del controllo ideologico, fatto di censure, restrizioni e divieti. Liberi di farsi e di disfarsi come volete, non liberi però di disubbidire al Moloch del Potere e ai suoi Comandamenti pubblici, ideologici, sanitari, storici e sociali. Anarchia privata e dispotismo pubblico, soggettivismo e totalitarismo, Erba Voglio e Pensieri scorretti proibiti, Erba voglio e divieto di libera circolazione. Ma le due cose non sono separate, estranee l’una all’altra e solo casualmente e contraddittoriamente intrecciate. La libertà nella sfera dell’io fa da contrappeso, lenitivo e sedativo della coazione a ripetere e ad allinearsi al regime della sorveglianza. Ci possiamo sfogare nel privato di quel che non possiamo mettere in discussione nella sfera pubblica. Porci comodi nella tua vita singola in cambio di riduzione a pecore da gregge nella vita global. Puoi sfasciare casa, famiglia, nascituri, te stesso e i tuoi legami ma guai se attenti all’ordine prestabilito e alle sue prescrizioni tassative. Liberi ma coatti. La droga libera è oppio dei popoli e cocaina degli individui, narcotizza i primi ed eccita i secondi; aliena entrambi nell’illusione di renderli più liberi, li rende schiavi mentre illude di renderli autonomi. Benvenuti nella società dell’erba voglio e dell’obbligo di massa. MV, La Verità (17 settembre 2021)

Cari sì pass, ricordatevi “Philadelphia”.  Redazione di Nicolaporro.it il 19 Settembre 2021. Sono diventati ciò che odiavano. La pandemia ha completamente ribaltato la loro prospettiva sul mondo frutto di anni di lotte e conquiste sociali e politiche. Ci riferiamo ovviamente a tutti coloro che fino al 2019 si riempivano la bocca di parole quali uguaglianza, diritti, inclusione sociale, lotta a qualsiasi tipo di discriminazione. Ecco, di fronte al virus tutto questo si è disciolto come neve al sole. Oggi il fine giustifica qualsiasi mezzo, financo l’annullamento del diritto al lavoro sancito all’articolo 1 della loro amatissima carta costituzionale. Sono passati dall’altra parte della barricata, insomma, da vittime a carnefici. Già, ora sono loro i cattivi della storia. E a questo proposito, ci torna in mente uno di quei film che hanno fatto la storia del cinema degli anni ’90. “Philadelphia”, il capolavoro di Jonathan Demme con Tom Hanks (premio Oscar miglior attore protagonista) e Denzel Washington nei panni dei protagonisti.

La trama. Ricorderete tutti la trama, Andrew Beckett (Tom Hanks) è un brillante avvocato di un prestigioso studio legale di Philadelphia. E’ omosessuale e si ammala di AIDS nascondendo la malattia ai suoi datori di lavoro. Se non che i boss lo scoprono e lo licenziano per “giusta causa”. Toccherà poi a Joseph Miller (Denzel Washington) difendere il collega dimostrando che la reale motivazione alla base del suo allontanamento era in realtà l’orientamento sessuale di Andy e la paura della diffusione del contagio di HIV da parte dei colleghi. Già, la paura. Il pregiudizio. Il film si basa tutto su questo e su come Miller riesca pian piano a superare gli stereotipi della società in cui è cresciuto, diventando amico di Andy e vincendo la super causa milionaria. Una storia che ha commosso tutti, senza distinzione di credo politico, tanto da fare entrare Philadelphia nel gotha del cinema, anche e soprattutto in virtù degli insegnamenti e dei principi che veicolava.

Parallelismi con il presente. Come non trovare dei punti di contatto con quello che sta accedendo nel tempo del Covid. Oggi come allora si lotta contro un virus. Solo che nei primi anni ’90, periodo in cui è ambientato il film, l’HIV mieteva molte più vittime e le conoscenze mediche del fenomeno erano scarse, soprattutto per quanto riguardava la trasmissibilità. Quindi il timore di ammalarsi, poteva essere, per certi versi, anche giustificato. Eppure Andy ha vinto la causa. Fu pregiudizio, discriminazione. E qual è l’essenza della discriminazione? Ce lo spiegano Beckett e Miller: “il formulare opinioni sugli altri non basate sui loro meriti individuali ma piuttosto sulla loro appartenenza ad un gruppo con presunte caratteristiche”. Ebbene, questo è esattamente ciò che sta avvenendo oggi nei confronti delle persone non vaccinate che da metà ottobre non potranno più recarsi al lavoro senza avere il lasciapassare. Discriminazione. Si obietterà che, al contrario del protagonista del film, questi individui abbiano la possibilità di scelta. Vero, ma attenzione: chi l’ha detto che una persona non vaccinata sia automaticamente malata? Un individuo non è sano fino a prova contraria? E anche se non lo fosse, siamo così certi che sarebbe colpa sua? Era forse colpa di Andy se era omosessuale e se ha contratto la malattia? Sospensioni, multe, blocchi di stipendio. Ma fino a dove saranno disposti a spingersi? Checché se ne dica, nessuna carta costituzionale al mondo, nessuna legislazione giuslavoristica, nessuna norma etico-morale può concepire una tale prevaricazione dell’uomo sull’uomo. Eppure sta succedendo. Devono essersi proprio dimenticati tutto. Hanno versato lacrime per Andy che se ne è andato in pace, sereno, dopo aver ristabilito il suo onore. Hanno fatto il tifo per l’avvocato buono che era saputo andare oltre i suoi limiti e ha lottato in difesa dei più deboli. Oggi, invece, sono diventati esattamente come i colleghi e i datori di lavoro del legale sieropositivo. Vigliacchi, impauriti, cattivi. Pronti a tutto pur di difendere la loro salute e la loro confort zone morale. Chissà che riguardare Philadelphia oggi non possa avere un effetto catartico su queste persone. Dio solo sa quanto ci sia bisogno di redenzione.

Il giacobinismo liberal malattia infantile della nuova sinistra. Carlo Galli su La Repubblica il 17 settembre 2021. La copertina dell'Economist che ha lanciato il dibattito sulla sinistra illiberale. Ecco perché non bisogna sottovalutare la cancel culture, campanello di allarme di un disagio: prosegue il dibattito nato dalla copertina dell’Economist. Nell'ottobre del 1793 la Francia repubblicana abbatte e decapita le statue dei re che ornavano la cattedrale di Notre-Dame. Oggi la definiremmo cancel culture; allora fu la prosecuzione simbolica delle decapitazioni, avvenute nel gennaio dello stesso anno, del re e della regina, di Luigi XVI e di Maria Antonietta. In effetti, non c'è nulla di più illiberale che una rivoluzione, di più intollerante che la pretesa di ricominciare da capo la vita politica e civile, di meno dialogante che ergersi a giudici del passato, per punirne e vendicarne le colpe, le violenze e le ingiustizie.

Enrico Franceschini per "la Repubblica" il 15 settembre 2021. Un fantasma si aggira per l'Occidente: lo spettro della «sinistra illiberale». A lanciare l'allarme è l'Economist, bibbia del liberalismo anglosassone e anche di quello mondiale, in quanto da almeno vent' anni settimanale non più soltanto britannico bensì globale. In un servizio apparso in copertina, il giornale che per i suoi conflitti d'interesse definì Silvio Berlusconi «indegno di governare» avverte che il liberalismo occidentale si trova ad affrontare una doppia minaccia: all'estero le superpotenze autocratiche quali Cina e Russia, che lo deridono come fonte di egoismo, decadenza e instabilità; in patria il populismo di destra e di sinistra, che lo contesta come presunto simbolo di elitismo. Le critiche di Xi e Putin sono un ipocrita riflesso del rifiuto a creare una società veramente libera e democratica in casa propria. L'offensiva della destra populista in America e in Europa rimane la più pericolosa per la democrazia liberale, ma dopo avere raggiunto l'apice durante la presidenza di Donald Trump si sta screditando di fronte alla crisi del Covid con il suo ostinato rifiuto dell'evidenza scientifica. «L'attacco da sinistra è più difficile da comprendere», ammonisce tuttavia l'autorevole pubblicazione londinese, in parte perché, particolarmente negli Stati Uniti, il termine "liberal" ha finito per includere una "sinistra illiberale". La terminologia inglese può suscitare confusione nel lettore italiano, perché "liberal" negli Usa è l'equivalente di "progressista", spesso utilizzato addirittura come un insulto dalla destra trumpiana, dunque differente dal nostro "liberale", che ha un significato decisamente più conservatore. A confondere ulteriormente le idee ha provveduto il termine "neo-liberal", traducibile come neo-liberale o neo-liberista, l'etichetta delle politiche di destra introdotte da Ronald Reagan e Margaret Thatcher negli anni Ottanta del secolo scorso. Infine c'è da considerare il liberalsocialismo, che in Italia ha ispirato i fratelli Rosselli e Gobetti, il Partito d'Azione e alcune delle menti migliori del dopoguerra, dal Mondo di Pannunzio al partito radicale. Per chiarire ogni equivoco, quello che intende l'Economist (posseduto al 43% da Exor, che controlla anche Repubblica) con «sinistra illiberale» è l'atteggiamento dogmatico, intollerante, scettico nei confronti del mercato, votato alla purezza ideologica, incapace di riconoscere che anche la controparte può avere in determinate circostanze qualche ragione. È un cocktail di opinioni da cui sbocciano fenomeni come la cancel culture, dove la legittima esigenza di condannare gli errori e gli orrori del passato rischia di riscrivere la storia dal punto di vista del presente, e gli eccessi del politicamente corretto. Nel suo editoriale il settimanale non fa nomi specifici, ma traspare il riferimento alla svolta impressa da Jeremy Corbyn al partito laburista nel Regno Unito o alla rigidità talvolta manifestata dall'ala del partito democratico americano che fa riferimento alla deputata Alexandria Ocasio- Cortez (andata al Met Ball, il gran ballo annuale di beneficenza a New York, con un vestito con la scritta "tax the rich", tassare i ricchi, sebbene in questo non ci sia nulla di illiberale). «La società che mette l'eguaglianza prima della libertà finirà per non avere né l'una né l'altra» è il motto citato dall'Economist per chiarire dove sta il problema: parole di Milton Friedman, economista premio Nobel e padre del laissez- faire ovvero dell'antistatalismo, non proprio un riferimento della sinistra. Ma il dibattito sulla sinistra "illiberale" esiste da tempo: sull'altra sponda dell'oceano la denunciava già cinque anni fa il mensile Atlantic, ammonendo che il partito democratico, non opponendosi a chi vuole togliere diritto di parola agli avversari, cederà il controllo ai suoi elementi più estremi. Richard Dawkins, biologo evoluzionista di Oxford e autore di bestseller in difesa dell'ateismo, la chiama «sinistra regressiva», accusandola per esempio di astenersi dal criticare anche le peggiori aberrazioni dell'Islam in nome del rispetto per la cultura di quella religione («e allora io rispondo, al diavolo la cultura», dice il professore). La definizione è entrata perfino nel linguaggio di una star di Hollywood come l'attore premio Oscar Matthew McConaughey, secondo il quale «la sinistra illiberale ha completamente abbandonato il tradizionale pensiero liberale, diventando condiscendente o arrogante verso il 50 per cento della popolazione che non ne condivide il progetto». Qualcuno annovera nella sinistra illiberale anche la malaugurata dichiarazione che contribuì a fare perdere le elezioni del 2016 a Hillary Clinton, quando durante la campagna presidenziale la candidata democratica alla Casa Bianca definì dispregiativamente i sostenitori di Trump come appartenenti a un «basket of deplorables», un cestino dei deplorevoli, insomma tutti gentaglia, che a quel punto non avrebbero certo cambiato casacca votando per lei. Nella discussione, beninteso, c'è chi dice che a denunciare la presunta sinistra "illiberale" sono i difensori dello status quo e dei propri interessi: insomma la destra, cui farebbe gioco dipingere la sinistra come estremista e poco democratica. L'Economist riconosce che pure i "liberal" (nell'accezione conservatrice o progressista) sbagliano: dopo il collasso del comunismo in Unione Sovietica e in Europa orientale hanno creduto che la storia fosse finita, come sentenziò il celebre saggio del sociologo Francis Fukuyama; dopo la crisi finanziaria del 2008 non hanno trattato la classe operaia con la dignità che meritava; e troppo spesso usano la meritocrazia come un alibi per mantenere i propri privilegi. La conclusione della cover-story è che oggi troppi liberal di destra sono inclini a scegliere uno spudorato matrimonio di convenienza con i populisti e troppi liberal di sinistra minimizzano la presenza di un'ala intollerante nelle proprie file. Se invece di unire le forze si dividono, è il monito finale, le due correnti del pensiero liberale lasceranno prosperare gli estremisti.

Dura lex, sed Rolex. Stefano Bartezzaghi su La Repubblica il 4 settembre 2021. È l'epoca della rappresentazione e come ci si fotografa o ci si fa fotografare è un fatto bello e buono. E allora quell'orologio un tema lo diventa. Un eventuale candidato latinista (ve ne sono?) potrebbe commentare: Dura lex, sed Rolex. Che poi sembra non sia neppure un Rolex ma un orologio comunque costosissimo e di marca, quello che Roman Pastore, giovane candidato a un consiglio municipale romano, sfoggia in diverse fotografie. È nella lista per Carlo Calenda e proprio il leader è stato raggiunto al proposito da polemici tweet di Barbara Collevecchio, psicanalista molto presente sui social nonché junghiana, quindi avvezza agli archetipi.

 L’orologio più buio. L’impossibilità di uscire dalla cultura del linciaggio (o anche solo di discuterne). Francesco Cundari il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Anche su che cosa porta al polso, la sinistra si divide in due tribù costantemente impegnate nel tentativo di menarsi a vicenda, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti. Avrei voluto cominciare qui un lungo e noioso discorso sugli effetti di lungo periodo dell’ondata populista culminata nella Brexit e nell’ascesa di Donald Trump nel 2016, sulla loro persistenza e pervasività, a dispetto dell’impressione contraria suscitata nel mondo dalla netta vittoria di Joe Biden, e in Italia dall’insperato arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Avrei voluto partire dal ritiro americano dall’Afghanistan e dal modo in cui Biden lo ha attuato e difeso, due cose su cui l’influenza del predecessore mi è parsa assai significativa e allarmante. Avrei voluto infine collegare tutto questo alla questione della «sinistra illiberale» sollevata nell’ultimo numero dell’Economist. Mi riferisco all’editoriale in cui il settimanale invita i liberali di destra e di sinistra a resistere all’egemonia populista, senza illudersi di poter carezzare impunemente la tigre nel verso del pelo: gli uni accodandosi al nazionalismo xenofobo e autoritario, gli altri al fanatismo della politica identitaria, della cancel culture e del radicalismo di sinistra in generale. L’articolo che stavo immaginando sarebbe stato lungo e noioso anzitutto per il gran numero di sottili distinzioni che avrei dovuto fare. Per esempio, sull’ultimo punto, avrei invitato a non confondere la contestazione anche radicale di quelle che l’Economist definisce come le posizioni del «liberalismo classico» in materia di economia con analoghi attacchi ai fondamenti dello stato di diritto e della libertà individuale: cose che non hanno lo stesso peso e non andrebbero messe sullo stesso piatto della bilancia. Direi anzi che l’ambiente più favorevole alla crescita di un dibattito pubblico democratico e pluralista è esattamente quello in cui la stragrande maggioranza condivide i principi fondamentali che garantiscono la libertà di ognuno e si divide su tutto il resto. Di questo intendevo scrivere, e già cominciavo a organizzare mentalmente la lunga serie di premesse di metodo e di merito necessarie ad arrivare sano e salvo in fondo al ragionamento, quando ho acceso il computer e aperto Twitter, dove era in corso uno di quei tipici spettacoli che da qualche anno prendono regolarmente il posto del dibattito politico, cioè una specie di guerra etnica combattuta in un asilo. Stesso miscuglio di ostilità preconcetta e odio primitivo, uniti però all’assoluta idiozia del pretesto, del contesto e del sottotesto, nel caso specifico il costoso orologio esibito in foto da un giovane candidato a un consiglio municipale nella lista di Azione (dunque, con tutto il rispetto per i consigli municipali e per il partito di Carlo Calenda, non proprio un uomo destinato a esercitare una straordinaria influenza sull’indirizzo politico del Paese, perlomeno nel prossimo futuro). Dall’orologio costoso si passava quindi all’incredibile uscita di Matteo Renzi sul reddito di cittadinanza e i giovani che «devono soffrire», e in qualche caso, non ricordo più per quali vie, persino alle foibe (a conferma del fatto che la politica italiana si ripete sempre due volte, la prima in forma di sketch di Avanzi). Per una volta, non vorrei prendere le parti degli aggrediti né quelle degli aggressori, ma nemmeno ostentare un’impossibile equidistanza. La diffusa cultura del linciaggio che ci circonda ha sempre qualcosa di orrendo in sé, anche quando il suo esito sia il più infantile e ridicolo, e forse relativamente innocuo. Ora però mi interessa di più sottolineare come sui social network la cosiddetta sinistra, quella che dovrebbe combattere il populismo, sia divisa grosso modo in due tribù, costantemente impegnate nel tentativo di linciarsi a vicenda, con argomenti, toni e modi squisitamente populisti, chiocciolandosi e ritwittandosi tra piccole orde di consanguinei ululanti, nel momento stesso in cui ciascuna delle due bande accusa l’altra di rappresentare la quinta colonna dei populisti (salviniani gli uni, grillini gli altri) e di adottarne anche i deplorevoli metodi, a cominciare da gogna e linciaggi social. Forse è per questo che in Italia, tutto sommato, la cancel culture non ha (ancora?) particolarmente attecchito, e nemmeno il politicamente corretto: perché in America, come sembra suggerire anche l’Economist, trumpismo e cancel culture sono due diverse forme di intolleranza che si rafforzano a vicenda, opposte e complementari come le due metà di una stessa mela. Mentre qui in Italia, dove gli epigoni e anche i precursori di Trump affollano l’intero spettro politico, giornalistico e intellettuale, abbiamo solo infinite repliche della stessa metà della mela, e nessuna traccia dell’altra mezza. Basta accendere la tv o sfogliare un giornale per verificare come tutto sia infatti perfettamente dicibile, pressoché ovunque, anche quello che nei paesi civili è giustamente considerato istigazione all’odio e al razzismo. Non così in Italia, dove sulla derisione di handicap, difetti fisici e qualsiasi altro dettaglio legato a sesso, età, etnia, zeppola o altezza dell’avversario sono fiorite carriere e sono nati interi gruppi editoriali, perché non c’è nulla che ci piaccia tanto come darci di gomito mentre sghignazziamo del comune bersaglio. Capite dunque perché, dopo aver passato soltanto pochi minuti esposto a questo genere di spettacolo, ho avvertito tutta l’inanità dello sforzo che mi accingevo a compiere per argomentare la mia tesi, e mi sono rassegnato a non scrivere l’articolo.

Fulvio Abbate per Dagospia il 5 settembre 2021. Lo dico subito, prendendo in prestito una leggendaria battuta riferita, un tempo, a una leggendaria caramella di un bianco polare dissetante: qui c’è soltanto l’orologio con Roman Pastore intorno. In tutto ciò, la cosa più desolante nella vicenda del giovane Pastore (e del suo ormai leggendario orologio), ventunenne candidato con la lista di Carlo Calenda al Consiglio comunale di Roma, finita per lui in modo un po’ penoso, per aver esibito appunto al polso un Audemars Piquet, riguarda l’incapacità interpretativa di molti.  La stampa di destra, per bocca dell'amico Alessandro Sallusti, per l’occasione ha fatto l’elogio del lusso, che peraltro, personalmente, condivido in pieno, in modo assoluto, e ci mancherebbe altro. Essendo tutti noi, come spiega alla perfezione il filosofo esistenzialista Albert Camus, impossibilitati alla felicità, coscienti d’essere condannati a morte fin dalla nascita, niente è più rassicurante, se non doveroso, del concedersi ogni piacere, cominciando dalle gioie del collezionismo, poco importa se di capolavori di Picasso o fosse anche di un prestigioso anello tempestato di gemme preziose, così da poterlo indossare perfino nel proprio pisello. E non sembri questa una caduta di stile, semmai un magnificat del principio del piacere. Purtroppo, nel nostro paese segnato da un ampio analfabetismo talvolta addirittura funzionale e dalle tare catto-comuniste, la semiologia non ha mai sfondato, nessuno che davvero abbia acceso una luce votiva sotto il volto di Roland Barthes, gigante della spiegazione delle cose accompagnate fin dentro i loro significati, significanti e referenti.  La questione che investe Roman Pastore va affrontata, appunto, sul piano semiologico: e qui spero che Carlo Calenda, da noi già definito amichevolmente “spermatozoo d’oro di una certa Roma”, essendo egli persona ironica di mondo, comprenda bene il senso delle cose, al punto da trasferire queste nostre serene considerazioni al ragazzo, al suo campioncino di lista. In breve, il problema di Roman Pastore è spiegabile in modo semplice: come ho scritto ieri su tweet, il ragazzino nel suo scatto elettorale assai orgoglioso del proprio orologio (che, beninteso, non è un Rolex, come alcuni imprecisi hanno sostenuto per accreditare il luogo comune ordinario, appunto, dei “comunisti col Rolex”) semmai un Audemars Piquet, feticcio del lusso smart non da meno, cose da remake in politica di “Riccanza”. Purtroppo per Pastore, a una attenta osservazione si comprende che non è il diretto interessato a indossare il prestigioso orologio, semmai è l’orologio a indossare, tragicamente, il candidato, surclassando ogni altra possibile immagine politica. In quanto ostentato come must, come benefit, di più, dal Pastore ritenuto valore aggiunto, kriptonite dell'identificazione che porterebbe voti e plauso. In realtà, brilla invece qualcosa di mostruosamente caricaturale nella sua ostentazione, e lo stesso credo possa valere per altri “segni” che il giovane altrettanto porta addosso, tracce sovrastrutturali che il semiologo, se davvero fosse ancora tra noi, potrebbe spiegare assai meglio di me. Nell’ordine: la montatura degli occhiali “performanti”, la polo blu bordata di bianco, tutte cose che sembrano dire: guardatemi, lavoro per essere classe dirigente, per, come direbbe uno studente della LUISS o della Bocconi, “per creare la mia leadership” (sic). Osservando il tutto ancora meglio c’è però da rilevare qualcosa di visibilmente “cartonato” nel ventunenne Roman, la sconfitta di ogni possibile casual a favore invece di un abbigliamento che nella narrazione dell’ammezzato subculturale politico nazionale rimanda alle vetrine di “Davide Cenci”, negozio in Campo Marzio, Roma, dove si rifornisce il generone politico e non solo. Ora, Carlo Calenda, pervenuto alla coscienza dell’informalità da torneo di tennis a Orbetello, come nella canzone-manifesto di Flavio Giurato, invece di difenderlo d’ufficio, ascoltando le nostre parole dovrebbe semmai dissuaderlo da questo genere di outfit (orrenda parola) per l’appunto da cartonato dirigenziale di piazzale delle Muse. Come non accorgersi che dietro l’apparente eleganza del ventunenne arde qualcosa di spettralmente banale, degna del più grigio conformismo dello status, con cui invece Roman Pastore suppone di presentarsi al meglio ai suoi potenziali elettori. Wittgenstein sosteneva, in opposizione a coloro che ritenevano il grigio un non-colore che si trattasse piuttosto di un colore “solido”. Bene, quanto alla solidità politico culturale del ragazzo Pastore, cercando qualcosa, una traccia umana che vada oltre l’orologio, per usare nuovamente una battuta riferita, un tempo, alla leggendaria caramella dissetante: qui c’è soltanto l’orologio con Roman intorno. Chissà se questa la capiranno coloro che l’hanno difeso contro la gente “di sinistra” che sul tema ha fatto, altrettanto tragicamente, un discorso al limite del pauperismo, chiamando in causa perfino il reddito di cittadinanza grillino contrapposto alla voglia di lusso. Viva la ricchezza, ma anche un’idea di stile che trascenda la lunga linea antracite del generone in questo caso fedele a se stesso già dal primo semestre della post-adolescenza. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 settembre 2021. Caro Dago, non figurando in nessuno dei social possibili e immaginabili di volti e personaggi raffigurati in un messaggio elettronico ne ricevo soltanto da whatsapp. Salvo rarissime eccezioni non li guardo mai, un colpo del pollice e li cancello. Figurati se mai e poi mai mi sarei accorto che un qual certo ragazzo ventunenne che vorrebbe fare vita pubblica avesse al polso un orologio di un qualche valore. Leggo che lo aveva, e se ne è scatenata una furia sul web, furia di cui io so soltanto perché leggo le tue pagine. Sì lo aveva, e allora? Giudico (in silenzio) una persona che ho davanti da cento cose, non certo dall’orologio che ha al polso. E senza dire la cosa più importante di tutte, e che è la ragion d’essere della letterina che ti sto inviando. E cioè che ciascuno porta l’orologio, la giacca, la cravatta, il mantello, la montatura degli occhiali che vuole, e che nessuno ha il diritto di rompergli i coglioni. Io adoro il mio swatch in plastica che costa sì e no 90 euro, e non lo darei in cambio per nessuno di quegli orologi sontuosi di cui leggo che costano parecchie migliaia di euro a cadauno. In compenso, e alla faccia di chi non mi vuole bene ho speso una caterva di soldi nella mia vita a comperare le prime edizioni dei libri di Eugenio Montale, che sono tanti e che ho tutti. E allora? Ognuno i suoi soldi li spende come vuole e in quel che vuole. Finito lì. Non deve rendere conto a nessuno o meglio sì, all’Agenzia del Fisco. Quello sì. Io nella terza di copertina dei miei libri metto solo che abito e lavoro a Roma, e nessunissima grande impresa di cui sia stato eventualmente autore. Un’altra cosa però la metterei, e tanto per chiarire chi sono e quel che faccio. L’importo netto del mio reddito annuo e il relativo carico fiscale che ci ho pagato sopra. Tanto per chiarire. Tanto perché lo sappiano eventualmente i miei nemici ma anche i miei amici, tipo Fulvio Abbate. La differenza tra i soldi guadagnati e i soldi dati al fisco è mio diritto essermela sparata come e quando volevo, eventuali mignotte niente affatto escluse. Non che io voglia fare attività pubblica. Ci mancherebbe anche questo. Solo me ne sto nel mio cantuccio, con accanto le prime edizioni dei libri di Montale. E che nessuno ci provi a rompermi i coglioni ove domani mi venisse in mente di mettermi chissà quale orologio al polso. O magari in punta al naso. Così, per farlo un po’ “strano”.

Compagni che cancellano. La sinistra illiberale non è meno pericolosa della destra autoritaria. Christian Rocca il 3 settembre 2021 su L'Inkiesta. Uno straordinario numero dell’Economist mette in guardia il mondo occidentale dalla minaccia costituita dalla politica identitaria, altrettanto grave quanto quella dei Salvini, dei Trump e dei Putin. Siamo cresciuti con l’idea che l’arco della storia tende necessariamente verso il progresso e con la consapevolezza che il progresso è una conquista quotidiana ma inesorabile che si ottiene attraverso un dibattito pubblico informato e una coerente azione riformista. Nonostante i mirabolanti successi sociali, economici e culturali in oltre mezzo secolo e in ogni continente della Terra, negli ultimi tempi questa idea e questa consapevolezza sono state messe in crisi dal populismo di destra e dai regimi autoritari, da Donald Trump e dalla Cina di Xi Jinping e dalla Russia di Vladimir Putin, per mille ragioni che la nuova copertina dell’Economist affronta con la tradizionale capacità di analizzare i fenomeni globali in corso. Il settimanale inglese, però, aggiunge un elemento non banale all’attacco al sistema liberale, ovvero che il pericolo per il mondo come lo conosciamo non arriva soltanto da lì, dalla destra populista e autoritaria. Fin dal titolo della cover di questa settimana, l’Economist rifonosce «la minaccia della sinistra illiberale», un tema ricorrente sulle colonne de Linkiesta, in particolare negli articoli di Francesco Cundari e di Guia Soncini. C’è, intanto, la questione del bipopulismo. L’Economist spiega che i due populismi, quello di destra e quello di sinistra, «si nutrono patologicamente a vicenda» in una campagna di odio nei confronti degli avversari che favorisce soltanto le ali estreme. Ne sono complici, scrive il settimanale inglese, i liberali classici che per interessi indecenti si consegnano ai nazional sovranisti (in Italia siamo pieni di retequattristi e di tiggidueisti, di liberali per Salvini, per Putin, per Trump). Ma ne sono altrettanto responsabili i liberal progressisti che si illudono che gli intolleranti di sinistra siano soltanto una minoranza, e pure facile da addomesticare: «Non preoccupatevi, dicono, l’intolleranza fa parte del meccanismo del cambiamento: concentrandoci sulle ingiustizie sociali, si sposteranno al centro» (qui pare che l’Economist si rivolga direttamente al Pd e alla surreale idea di alleanza strategica con i Cinquestelle). Poi c’è la delicata questione della identity politics, la politica della suscettibilità identitaria, nata nelle università americane e diffusasi nella società occidentale a mano a mano che gli studenti addestrati a questa nuova religione contemporanea si sono laureati e hanno cominciato a lavorare nei media, in politica, nell’istruzione e nel business «portando con sé il terrore di non sentirsi a proprio agio, una propensione ossessiva e limitata ad ottenere giustizia per i gruppi identitari oppressi e i metodi per costringere tutti quanti alla purezza ideologica, censurando i nemici e cancellando gli alleati che hanno trasgredito, con echi di quello stato confessionale che ha dominato l’Europa prima che prendesse piede il liberalismo alla fine del diciottesimo secolo». Nonostante i liberali e la sinistra illiberale abbiano in comune molte cose, a cominciare dalla ricerca costante del cambiamento fino all’opportunità universale di farcela a prescindere dal genere o dalla razza, scrive l’Economist, «in occidente sta succedendo qualcosa di straordinario: una nuova generazione di progressisti sta ripristinando metodi che sinistramente ricordano quelli di uno stato confessionale, con versioni moderne dei giuramenti di fedeltà e delle leggi sulla blasfemia». Mentre c’è ancora chi rifiuta di riconoscere che cosa sta succedendo, grazie alla copertina dell’Economist forse qualcun altro capirà che è arrivato davvero il momento per i liberali di destra di smetterla di giocare col fuoco nazional populista e per i progressisti di sinistra di cominciare a domare l’incendio appiccato dai compagni illiberali.

Ben alzato, Economist. Confessioni di anticancellettista della prima ora, ora che l’élite le dà ragione.  Guia Soncini il 4 settembre 2021 su L'Inkiesta. Da oltre un anno, nonostante i dubbi della redazione, Soncini avverte quasi quotidianamente dei rischi di un mondo progressista che si comporta come la peggior destra. E adesso chi la tiene più, la mitomane. Ben alzato, Economist. C’è una nuova ortodossia nelle università, scrivi nella storia di copertina del tuo nuovo numero. Andrew Sullivan l’ha scritto sul New York Magazine nel febbraio del 2018, We all live on campus now. Persino un’italiana c’era arrivata prima di te: nella classifica dei libri del Corriere, nella primavera di quest’anno, trovi un libro sul disastro dell’istruzione suscettibile, d’una certa Guaia Soncini. Trovi anche alcune decine di suoi articoli sul tema già nel 2020, su Linkiesta, firmati non si sa perché con una vocale in meno. Ci fa piacere che anche tu abbia capito che la sinistra prescrittiva è un problema più della destra cafona. Ci ho messo un po’ a convincere di questo concetto anche i ragazzi qui a Linkiesta, ma il direttore si è arreso, persino Cundari pur mugugnando ammette che no, non è normale dover dire che due più due può fare cinque durante le lezioni di matematica altrimenti gli allievi della tal etnia che fin lì hanno preso brutti voti in addizioni si frustrano, e insomma, caro Economist, mancavi solo tu. Vieni, ti verso da bere. Ricopio qualche tua riga, quelle in cui dici che il liberalismo non è un pranzo di gala, e che spesso va contro ogni istinto di noialtri umani di tendenza suscettibile. «Richiede che tu difenda il diritto di parola del tuo avversario, anche quando sai che dirà cose sbagliate. Devi mettere in discussione le tue più profonde convinzioni. Non devi tutelare le imprese dai venti della distruzione creatrice. Le persone care devono far carriera solo per i loro meriti, anche quando il tuo istinto sarebbe di favorirle. E devi accettare la vittoria elettorale dei tuoi nemici, anche quando sai che porteranno alla rovina il paese». Quest’ultima a quegli altri sembrerà parli di Trump, ma noialtri sappiamo che parla degli ultimi trent’anni di politica italiana. Primo flashback, 2020. Linkiesta pubblica alcuni articoli – a memoria direi di Cundari e Rodotà – che mettono in dubbio l’esistenza della cancel culture. L’idea è quella che ho sentito esprimere tante volte: ma c’è Trump, c’è Salvini, ti pare che il problema possa essere la censura di sinistra. Sto scrivendo “L’era della suscettibilità”, ed è in quel momento, in una conversazione a proposito di uno di quegli articoli, che metto a fuoco quella che diventerà una delle chiavi della mia interpretazione di questi tempi: non è una contrapposizione tra destra e sinistra. Il punto è trovare uno spazio non beghino a sinistra. La questione è tra chi si dice di sinistra bruciando i libri di Harry Potter perché JK Rowling ha osato dire che il sesso biologico esiste, e chi sa che non sei di sinistra se non pensi che la Rowling possa dire il cazzo che le pare. E questo non perché abbia ragione (ce l’ha), ma perché la libertà di parola non serve a tutelare chi ci è affine o chi dice cose impeccabili: quelli si difendono da soli. Il direttore della testata che state leggendo mi dice che secondo lui è una distinzione troppo sottile, è impossibile farla passare. Ma io sono cocciuta, e la scriverò tale e quale in quel libro che ci è arrivato prima dell’Economist: chi ha l’indubbia fortuna di parlare con me sa che utilizzo il metodo del maiale, e non butto via nessuna conversazione. Secondo flashback, giugno 2021. Sono a Fano, a un festival letterario di quelli ai quali gli autori vanno per parlare dei loro libri e mangiare a scrocco. M’intervista Flavia Fratello, giornalista di La7 molto interessata a questi temi. A un certo punto, sul palco, dice: Maria Laura Rodotà sostiene che in Italia la cancel culture non esiste perché Calderoli può dare dell’orango alla Kyenge. Niente, questo su destra e sinistra è il dibattito della marmotta. Ma a destra possono fare quello che vogliono, sospiro. Trump può dire che prende le donne per la passera e vincere comunque le elezioni. Le regole valgono a sinistra. È a sinistra che passi da scrittrice da Pulitzer a reproba se, in un dialogo dell’Ottocento che parla d’una cameriera, usi la parola «negra» (sì, ho visto lo sdegno su Facebook perché Jennifer Egan aveva osato non usare in una conversazione ambientata duecento anni fa termini quali «bipoc», black and indigenous people of color, che si orecchiavano spesso nelle piantagioni). Non lo si ripete mai abbastanza, se a settembre 2021 anche all’Economist sembra una novità. D’altra parte Sullivan lo ripete da anni, che i suoi amici gli dicono che l’illiberalismo insegnato nelle università è roba da universitari. Poi passa. Oppure no, come nota ora l’Economist; e come sei mesi fa, intervistandomi per il suo podcast, mi suggerì Daniele Rielli: gli studenti cui è stato insegnato che, se Shakespeare li turba, Shakespeare non dev’essere insegnato, poi diventano giornalisti, scrittori, editori. Diventano quei giovani fanatici dei quali i vecchi del New York Times sono terrorizzati, come ha raccontato Bari Weiss andandosene da quel giornale. Diventano quei giovani fanatici per i quali il quieto vivere è sacro e chi è sospetto d’avere comportamenti perturbanti va rimosso dal nostro orizzonte: quelli che minacciano di licenziarsi se la casa editrice pubblica l’autobiografia di Woody Allen. Insieme al fatto che è una questione interna alla sinistra, la cosa più difficile da far capire è che la presunta sinistra non è sinistra illiberale: è destra. È gente che sogna Il racconto dell’ancella. Certo, se glielo chiedi ti diranno che l’incarnazione del Racconto dell’ancella è il Texas che vieta l’aborto, ma non è esatto: è molto più atwoodiano il mondo prescrittivo che sognano loro, in cui posso stabilire cosa tu possa dire e cosa pensare, e punirti se non ottemperi. Sospetto sia colpa nostra. Di noi quarantacinquantenni che, oltre a essere i meno autorevoli della storia e quindi un disastro come genitori, siamo anche determinati a scusarci di non si sa bene quali fortune. Tempo fa una quarantenne che lavora coi ventenni mi ha detto che per loro le questioni identitarie sono molto importanti perché hanno solo quelle: noi avevamo un futuro professionale ed economico, loro sanno che è tutto finito e che, invece di puntare sull’avere una carriera, gli conviene intrattenersi con l’identità di genere. A 23 anni facevo l’autrice d’un programma televisivo con tre trentenni. Era per tutti e quattro la prima volta: avevamo fin lì fatto altro, e la maggior parte di noi sarebbe tornata a far altro. Venticinque anni dopo, uno di loro è tornato a fare il supplente, uno è tornato a tentare senza successo la fortuna nell’editoria, io sono io; il quarto, che fino a quel programma faceva il rappresentante d’elettrodomestici, è diventato il più pagato sceneggiatore di commedie d’Italia.

Uno su quattro ce la fa. Mi sembra una media alla portata dei ventenni di questo secolo. Quelli che questa storia la racconterebbero per dire che ecco, lo vedi, ci avete rubato il futuro, i sogni, la possibilità di far carriera in tv. È colpa nostra, che quando frignano non li prendiamo a coppini, che quando ci parlano delle loro istanze non gli diciamo che sono tutte stronzate (com’è stato detto a tutti i ventenni nella storia del mondo), che ci apriamo un Tik Tok per sentirli più vicini. I giovani hanno solo il dovere d’invecchiare, diceva quello. Aggiungerei che la sinistra ha il dovere di non comportarsi da destra. Guia Soncini

Hanno tutti ragione. Rolex e sinistra, piccola storia ignobile da Marx a Verdone. Stefano Cappellini su La Repubblica il 3 settembre 2021. Questo è il numero del 3 settembre della newsletter "Hanno tutti ragione", firmata da Stefano Cappellini. Qualche anno fa mi colpì la dichiarazione di un dirigente della sinistra, Cesare Salvi, il quale disse in una intervista che aveva i soldi sufficienti a comprarsi una Ferrari ma che non la acquistava per ragioni di opportunità. Avrei voluto chiamarlo, appena finito di leggere, per dirgli: "Vai, Cesare, comprala!". L'idea che un militante di sinistra si sentisse rassicurato dal fatto che i soldi di Salvi fossero parcheggiati in banca anziché in garage mi suonava, allora come oggi, una grossa sciocchezza.

Lorenzo D'Albergo per repubblica.it il 3 settembre 2021. Se la campagna elettorale è social, lo sono anche le polemiche. L’ultima, innescata su Twitter da un cinguettio della psicologa Barbara Collevecchio, ha per protagonista un giovanissimo candidato al consiglio comunale per Carlo Calenda. Roman Pastore, 21enne e social media manager degli under 30 che sostengono l’ex premier Matteo Renzi, è finito sotto i riflettori per le foto in cui al polso porta un orologio da decine di migliaia di euro. Comunisti col Rolex, verrebbe da canticchiare con Fedez e J-Ax navigando tra i tweet. I detrattori attaccano il ragazzo. Chi lo difende cita la collezione di cronografi di Fidel Castro, che ne portava spesso due per volta, e Che Guevara. Tornando al caso di Pastore - che per l’esattezza indossa un Audemars Piguet - vale la pena rintracciare la genesi del botta e risposta. Come detto, la prima a digitare è Barbara Collevecchio. Analista di scuola junghiana, sta per ultimare un saggio sul narcisismo in politica. Così si spiega il tweet d’esordio. La psicologa posta una foto di Pastore con amico e orologio: “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non ad indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”. L’ultimo riferimento è alla camicia bianca indossata da Pastore. C’è anche un secondo intervento firmato Collevecchio: “Sempre sul ragazzetto e il “caso” Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa alla scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza Reddito di cittadinanza e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. Apriti cielo. Ecco la risposta di Carlo Calenda: “Barbara, questo tweet è aberrante. Te la stai prendendo con un ragazzo di 21 anni per un orologio. Anche Salvini con Gad Lerner, che almeno aveva età e visibilità per rispondere, è arrivato a tanto. Fossi in te prenderei 12 ore di tempo per vergognarmi e poi mi scuserei”. Anche il leader di Azione, in corsa per il Campidoglio, si riserva un secondo post: “Si giudicano le persone per la qualità di quello che dicono o fanno, non sulla base di che orologio portano”. Nel frattempo il tema inizia a interessare sempre più utenti. I cinguettii sfiorano quota 10 mila. Non poteva mancare quello di Pastore. Reduce dalla scuola politica di Matteo Renzi a Ponte di Legno, prova a chiudere la polemica bloccando Collevecchio e rispondendo così: “Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno sfamato l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali?”. La risposta al popolo dei social.

Roman Pastore, il candidato 21 enne di Calenda insultato dalla psicologa rossa per l'orologio di lusso: cortocircuito a sinistra. Libero Quotidiano il 03 settembre 2021. Lui è un giovanissimo candidato a consigliere municipale per Carlo Calenda. Si chiama Roman Pastore, ha 21 anni ed è social media manager degli under 30 che sostengono l’ex premier Matteo Renzi. Insomma, lui è un attivista di Italia Viva. Lei è una psicologa, collaboratrice dell'Huffingtonpost. Si chiama Barbara Collevecchio e si definisce "libertaria, anti autoritaria e antidogmatica", oltre che "#antifa". La "libertaria" e antifascista psicologa ha innescato una vera e propria shit-storm contro Pastore "colpevole" di indossare un orologio di valore, appartenuto, a quanto pare, al nonno defunto. Non un Rolex, ma un Audemars Piguet, da qualche decina di migliaia di euro. La Collevecchio, che emette più tweet che respiri, in uno dei tanti cinguetti ha postato una foto di Pastore con amico e orologio: “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non a indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”, scrive. E poi ancora: "Sempre sul ragazzetto e il caso Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa alla scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza Reddito di cittadinanza e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. Se ne leggono di ogni sul profilo della Collevecchio. "Povertà diseducativa e colpa, patacconi al polso e Jaguar educative. A 20 anni! Gli altri devono soffrire e sgobbare per mantenere i privilegi di pochi. Questi sono i liberal liberisti italiani, Il mondo dei Renzi e Calenda". Il concetto è sempre lo stesso, la psicologa lo ribadisce: "Si critica i genitori che insegnano ai figli che conta quanto ostenti la tua ricchezza, che vali in base ai soldi che hai. Si critica la vacuità di chi si mette in posa con orologi che una famiglia normale non si potrebbe permettere mai e Jaguar. Un mondo sballato senza valori". E ritwitta critiche e insulti. Carlo Calenda sbotta: “Barbara questo tweet è aberrante. Te la stai prendendo con un ragazzo di 21 anni per un orologio. Neanche Salvini con Gad Lerner, che almeno aveva età e visibilità per rispondere, è arrivato a tanto. Fossi in te prenderei 12 ore di tempo per vergognarmi e poi mi scuserei". Il ragazzino sotto accusa invece risponde e si difende da solo: "Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno sfamato l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali?”. E il suo sembra l'unico tweet intelligente. 

Ecco "l'orologio di cittadinanza". A sinistra il lusso diventa peccato. Francesco Maria Del Vigo il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Nell'era del politicamente corretto imperante, qualcuno potrebbe anche chiamarlo watch shaming. L'insulto e la discriminazione in base all'orologio. Nell'era del politicamente corretto imperante, qualcuno potrebbe anche chiamarlo watch shaming. L'insulto e la discriminazione in base all'orologio. Ma noi ce ne guardiamo bene. I fatti: Roman Pastore è un ventunenne candidato alle comunali capitoline con Carlo Calenda. Il giovane è finito al centro delle polemiche per una serie di foto in cui sfoggia un costoso orologio. «Ha un Rolex al polso», ha tuonato indignata la stessa sinistra che per anni ha difeso a spada tratta le barche a vela di Massimo D'Alema, gli arsenali di cashmere quadruplo filo e i tre Warhol di Bertinotti (che però rappresentano il faccione di Mao e quindi vanno bene e sono proletari comunque). Tra l'altro l'orologio di Pastore, per amor di precisione, era un Audemars Piguet e quindi pure più caro di un medio Rolex (vi tranquillizziamo: ne ha uno anche di quelli). Ma l'importante è attaccare Calenda e il suo giovane candidato. Che poi Calenda non ha esattamente il physique du rôle di un borgataro, non è mica Che Guevara. Il quale per altro sfoggiava un bellissimo Rolex gmt e il suo compagno Fidel, si narra, ne portasse addirittura due contemporaneamente. Ma c'era un motivo squisitamente politico e sociale, era una necessità: su uno aveva l'ora di Cuba e sull'altro quella di Mosca. Dictature online. Dal Che a Fedez l'immarcescibile mito del comunista col Rolex. Che poi lo avranno anche i fascisti, i liberali, i socialisti e persino i sovranisti. Ma almeno loro non rompono le scatole a chi lo ha. I vezzi radical chic, evidentemente, possono permetterseli solo i compagni duri e puri. Se hai il Capitale sopra il comodino puoi girare in Porsche con i polsi foderati da costosi segnatempo. Se sei anche solo di centrosinistra e magari sei affetto da una lieve forma di liberalismo vieni subito lapidato. Così il povero Roman Pastore, non essendo affatto povero, è finito nel mirino di quella sinistra che si nutre di invidia e odio sociale. E via con insulti di ogni genere a partire dal classico «figlio di papà», qualità che tecnicamente possediamo tutti, ma che in questo caso è pure una gaffe, dato che il padre di Pastore è morto, lasciandogli appunto quegli orologi in eredità. Una tempesta di improperi di ogni genere su un ragazzino che ha commesso l'errore di mostrare un orologio di valore. Perché per un certo Pd e una buona fetta dei Cinque Stelle il lusso è una colpa, il successo un reato e i soldi - quelli degli altri, non i loro - sono una vergogna. Il paradosso è che quelli che hanno messo alla gogna Pastore, sono gli stessi che ogni giorno fingono di battersi contro ogni tipo di discriminazione e per la difesa dei diritti di chiunque. E poi sono sempre in prima fila a insultare e discriminare: troppo impegnati a vedere cosa si porta al polso per interessarsi a cosa uno ha nella testa. Ma comunque: hasta el Rolex siempre! E pure l'Audemars Piguet.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

La polemica del giorno. Chi è Roman Pastore, il candidato a Roma con Calenda attaccato per il “Rolex”. Vito Califano su Il Riformista il 3 Settembre 2021. La polemica politica del giorno si è scatenata sui social network, niente di strano. A scatenarla le foto di Roman Pastore, candidato con Calenda a un Municipio di Roma, con un vistoso orologio al polso. L’hashtag #Rolex è arrivato in cima ai trendig topic di twitter, anche se quell’orologio di lusso era un Audemars Piguet. Pastore si trovava alla scuola politica di Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex premier, a Ponte di Legno. Roman Pastore ha 21 anni, è candidato a un Municipio di Roma con Azione di Carlo Calenda ed è social media manager degli under 30 che sostengono Renzi. È stato definito “figlio di papà” per quelle foto. Una critica a una sinistra che non è sinistra a un evento che si schiera apertamente contro il reddito di cittadinanza E lui ha replicato a tutta la polemica sui social: “Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno ‘sgamato’ l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali? Forse è chieder troppo …”. A scatenare il tutto erano stati alcuni commenti indignati definiti subito di sinistra radical chic. “Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non a indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renziani”, quello che ha innescato tutto, a firma Barbara Collevecchio, psicologa. “Il problema è che il ragazzo con il #Rolex avrà una vita piena di occasioni meritate o meno mentre quello con il #RedditoDiCittadinanza dovrà faticare parecchio anche per le cose essenziali. Ma questo il ragazzo con il rolex non può comprenderlo”. Oppure: “Sempre sul ragazzetto e il ‘caso’ #Rolex. Poverino, candidato a 21 anni da Calenda, partecipa a scuola di #Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza #RedditoDiCittadinanza, e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?”. E ancora: “Se un candidato fa di tutto per evidenziarlo vuol dire che più che la sostanza, si vuole mettere in mostra l’involucro. Roma merita contenuto non l’incarto. Può tranquillamente saltare un giro e tornare a studiare per capire i bisogni di Roma”. Pastore ha anche spiegato il significato di quell’orologio in un altro tweet: “Figlio di papà? Orgogliosamente figlio di mio padre, che purtroppo non c’è più da diversi anni. Mi ha lasciato un orologio ma mi ha insegnato a non giudicare nessuno dalle apparenze, senza sapere nulla di lui e della sua vita. Il suo odio è spaventoso, spero se ne renda conto”. A difenderlo anche il leader di Azione, candidato a Roma ed ex ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda cha definito il “linciaggio” del tutto “inaccettabile. Esattamente come lo era quando Salvini definiva Lerner il comunista con il Rolex e noi, giustamente, lo difendevamo, si giudicano le persone per la qualità di quello che dicono o fanno, non sulla base di che orologio portano”. Oddio! Sono stato scoperto! Mi hanno “sgamato” l’Audemars Piguet (non Rolex) che, mi pare, non è (ancora) un reato indossare. Ma la polemica politica riusciamo a farla sui temi o l’unica opzione è quella sempre di fare o di ricevere attacchi personali? Forse è chieder troppo… 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2021. Un politico di vent' anni che si veste da fighetto e indossa un pataccone con le lancette che costerà come trenta redditi di cittadinanza non è il prototipo del mio «congressman» ideale. Ma è un problema mio e di chi, come me, è cresciuto a Torino, dove il lusso ostentato è stato sempre considerato un po' cafone. Però da qui a insultare e minacciare sui social Roman Pastore, candidato da Calenda a uno dei consigli municipali di Roma, ce ne passa. E non solo perché a Roma un pastore fa decisamente comodo, con tutti gli animali allo stato brado che pascolano in giro. Intanto il rolex, che non è neanche un Rolex, sarebbe il lascito ereditario del papà defunto: un mezzo colpo basso per noi sentimentali. Inoltre, risulta abbastanza ipocrita chiedere ai politici di guadagnare poco e poi indignarsi se alla vita pubblica si accostano ormai soltanto i ricchi di famiglia. E comunque, meglio uno che entra in politica con il rolex di uno che vi entra senza e se lo mette dopo, inducendo gli elettori a credere che gli sia stato regalato in cambio di un favore. L'unico appunto che proprio non si può fare al ragazzo crono-munito è di essere il classico «comunista col rolex» che predica l'uguaglianza delle opportunità e incarna il suo contrario. Presentandosi con Carlo Calenda, e provenendo dal vivaio del futuro capo del centrodestra Matteo Renzi, Roman Pastore è semmai un perfetto esempio di rolex senza comunista.

VITTORIO FELTRI per “Libero Quotidiano” il 4 settembre 2021. A volte non si sa se ridere o bestemmiare. Il caso in esame è talmente assurdo da meritare un sberleffo e nulla più. Apprendiamo che a Roma è esplosa una polemica insensata poiché Calenda, già ministro, di tiepida sinistra, presentando la sua lista in regola per l'elezione del prossimo sindaco, ha sottolineato di avervi inserito un giovanotto poco più che ventenne. Fin qui tutto tranquillo. Sennonché gli avversari dell'ex uomo di governo, vedendo la fotografia del giovin candidato sono inorriditi. Perché? Udite udite. Il ragazzo in questione nella immagine sfoggia un elegante orologio di marca, un Audemars Piguet, che è subito stato interpretato dai progressisti da strapazzo come un simbolo di ricchezza inaccettabile per la gente di sinistra. L'episodio è grottesco. Il problema è che quelli del Pd non si rendono conto di non dichiararsi più stalinisti come erano un tempo non lontanissimo, ma di essere approdati in terra democratica, pertanto dovrebbero giudicare l'idoneità di una persona a partecipare a elezioni non in base a un cronometro, di legittima provenienza, bensì in relazione alle sue idee. Niente. Nei cervellini degli ex inquilini di Botteghe Oscure questo concetto elementare non entra neanche con le martellate. Sono ancora qui a guardare all'oggettistica di cui un uomo dispone, ne sa qualcosa Massimo D'Alema che alcuni anni orsono fu vituperato in quanto calzava scarpe inglesi, più care di quelle di Vigevano. Gli ex padrini del proletariato non demordono, con la testa sono sempre in sciopero, non capiscono di rendersi patetici allorquando si attaccano a un orologio per delegittimare qualcuno che non sia un loro compare. Ai quali vorrei far notare che la Capitale è piena di gravi problemi, che vanno dai gabbiani da guerra ai cinghiali a spasso sui marciapiedi, ai trasporti che non trasportano, al pattume che sovrasta la città. Mi pare evidente che una campagna elettorale decente dovrebbe affrontare le emergenze urbane, non il dramma di un orologio regolarmente acquistato da un giovanotto di buona famiglia in un negozio, mica da un ricettatore magari rom. Poi la sinistra si stupisce perché perde voti, cominci a non perdere la dignità e il buonsenso.

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 4 settembre 2021. È diventato l’oggetto della contesa. La destra lo ha difeso: «Evviva la ricchezza!». Una parte del mondo di sinistra lo ha attaccato: «Figlio di papà!». Tutta colpa di un Rolex. Anzi, no. Di un Audemars Piguet, preciserà il diretto interessato, vale a dire Roman Pastore, 21enne capitolino, studente universitario della Sapienza, candidato al consiglio municipale con la lista civica di Carlo Calenda. Pastore è finito sotto i riflettori per avere pubblicato un selfie due giorni fa, direttamente dalla festa di Italia viva a Ponte di Legno, nel quale indossava il lussuoso orologio svizzero. In un amen l’autoscatto fa il giro dei social. Piovono gli insulti. Il popolo del web si divide. Finisce così: guelfi contro ghibellini. Destra contro sinistra. Sinistra contro sinistra. Barbara Collevecchio, psicologa ad orientamento junghiano, pubblica un post in cui c’è la foto di Pastore con l’orologio di marca. A corredo il commento: «Bisognerebbe educare i giovani ai valori genuini, non ad indossare Rolex e vestirsi da giovani vecchi wannabe renzini». E ancora, sempre Collevecchio insiste: «Poverino, partecipa a una scuola di Renzi che predica che i poveri devono soffrire senza reddito di cittadinanza, e una notevole collezione di patacconi. Tutti regalati dal nonno?». Prova a spegnare il fuoco Calenda: «Prendono di mira Roman e il padre mancato da due anni e mezzo. È piuttosto colpito. Chiudetela qui. Avete già usato olio di ricino e manganello. Può bastare». Dopo aver ricevuto la solidarietà di Virginia Raggi, il giovane renzian-calendiano risponde al Corriere. Dice di essere «ancora ferito per questo linciaggio. Sono stato oggetto di bodyshaming».

Rifarebbe quella foto?

«E perché no? Non penso sia importante che orologio metta. E non è nemmeno un reato che sia di marca. Oltretutto quello di cui tanto si parla non è un Rolex ma un Audemars Piguet donatomi da mio padre, che non c’è più da due anni. Non vorrei accostarmi a Mario Draghi, anche il premier è stato definito “figlio di papà”, nonostante lo abbia perso da piccolo». 

Eppure, in un’altra foto porta un Rolex modello Submariner. Quanti ne possiede?

«Non penso sia una cosa fondamentale. Penso sia importante soffermarsi sulla qualità e sul linguaggio della persona che si ha di fronte. Sono uno studente universitario di Scienze politiche e relazioni internazionali che sta partecipando a una scuola di formazione con altri 400 ragazzi». 

A proposito, è renziano o calendiano?

«Basta con le etichette. Io sono iscritto a Iv e concorro come candidato al consiglio municipale nella civica di Calenda. Preoccupiamoci se una persona approfondisce. Dice sempre Renzi: open mind. Che significa allargare la foto e non soffermarsi sul click. Adesso devo staccare».

Ecco il populismo spiegato bene. Roberto Chiarini il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Effetto e causa della crisi della democrazia, può comunque aiutarla a correggersi. Non c'è dubbio che il populismo rappresenti una sfida per la democrazia, e per di più una sfida in duplice senso. Costituisce una minaccia alla democrazia rappresentativa, l'unica che abbiamo conosciuto in Occidente in questi due ultimi secoli. Al contempo, le offre anche un'opportunità, aiutandola a prendere coscienza di quelle insufficienze e contraddizioni in cui è impaniata ormai da alcuni decenni. In tal senso, la democrazia viene sollecitata a riformarsi, se non proprio a rifondarsi. Assodato che il populismo è un esito e insieme un fattore della crisi della democrazia, resta da capire se questa crisi sia accidentale o strutturale, se abbia profonde radici nella sua storia, o se questa ultima versione presenti tratti di originalità. Va detto innanzitutto che il populismo non ha un carattere di occasionalità o di casualità. È anzi una presenza strutturale della democrazia. Il suo (questo è il pensiero di fondo) è un rifiuto pregiudiziale dell'istituto della delega, il mandato rilasciato agli eletti che espropria l'elettore e sequestra la volontà popolare per ben due volte. Primo, perché consegna a un ceto di politici professionisti il potere sovrano. Secondo, perché finisce coll'affidare ai partiti un potere di intermediazione ulteriormente distorsivo. «L'elezione - ha detto bene Raffaele Simone - è un lasciapassare incondizionato per la più ampia discrezionalità di comportamenti da parte degli eletti». Il populismo va considerato insomma parte integrante della democrazia. È come un fiume carsico che resta per lo più sommerso, ma che emerge talora in modo tumultuoso. Esercita quindi stabilmente un condizionamento della vita politica: o indirettamente come minaccia o direttamente come protesta, quando non dà vita a un vero e proprio partito. Una componente populista si annida inoltre in molte culture politiche, a vario titolo diffidenti verso la democrazia delegata, come lo sono state quella socialista e quella cattolica. Per emergere, il populismo ha bisogno di una crisi di sistema, ossia di una situazione nella quale la democrazia accusi forti difficoltà a soddisfare le istanze emergenti dalla società. Venendo ai tempi nostri, si può affermare che il populismo abbia trovato una congiuntura particolarmente favorevole. I fattori che lo propiziano sono molti. Sono i processi d'integrazione globale che erodono la base del benessere e quindi anche del consenso delle democrazie occidentali. E poi, la perdita di sovranità degli Stati nazionali a favore di istituzioni pubbliche e corporations private che calpestano la sovranità popolare con una cosiddetta «politica dell'ABC» (Agencies, Boards, Commissions). Inoltre, il senso di abbandono che prova il cittadino di fronte ad una politica impotente. Potremmo aggiungere: il «tradimento delle élite», ossia la loro incapacità - o addirittura indisponibilità - a fungere da classe dirigente, proiettate come sono a integrarsi nel mercato mondiale. Infine - last but not least - l'affermazione di una società individualistica, soggettivistica, narcisistica, relativistica. È un processo innestato dalla crisi delle ideologie e dei partiti. La loro scomparsa ha fatto emergere con forza - ha acutamente fatto notare Guido Mazzoni - «il lato inappartenente e narcisistico che è implicito nella rivendicazione dell'autonomia» individuale, divenuta ormai l'aspirazione dominante. Questa ha portato alla contestazione indistintamente di ogni autorità: culturale, sociale, politica, in nome della rivendicazione dei diritti soggettivi individuali. Il rifiuto di ogni identificazione ha prodotto la «fine di quei legami collettivi di cui i partiti moderni erano l'effetto e in parte la causa». È diventato difficile, se non impossibile, per il cittadino del XXI secolo credere in valori collettivi, ancor più costruire identità collettive. C'è poi una specificità dell'Italia. Il nostro Paese ha fornito da sempre al populismo un habitat particolarmente favorevole. Esso partecipa di quel sentimento insieme di lontananza ed estraneità alla politica, la cosiddetta anti-politica, assai diffuso e tenace nella nostra vita pubblica. Questo sentimento si è nel tempo consolidato in una specifica cultura civica nazionale che ha incorporato come suo tratto saliente il disprezzo/rigetto della politica. A consolidarlo ha pesato la lunga dominazione straniera, quello che Machiavelli ha chiamato «il barbaro dominio». Il sequestro della sfera dei «pubblici affari» ha lasciato agli italiani solo la cura dei «negozi privati». Tale deficit di legittimità della politica non è stato riassorbito nemmeno al momento della costruzione dello Stato e della nazione. Lo State Building e la Nation Building, due processi storici che altrove hanno contribuito in modo determinante a promuovere un processo di inclusione allargata e a forgiare un saldo sentimento di appartenenza, da noi non hanno funzionato a dovere. Non solo, non hanno sradicato il sentimento di estraneità alla politica. Non lo hanno nemmeno attenuato. Hanno contribuito viceversa a rafforzarlo ed estenderlo. Un ruolo non irrilevante nell'alimentare una suggestione genericamente populista è stato inoltre esercitato dalle culture politiche socialista e cattolica, a lungo scettiche o apertamente contrarie allo Stato unitario e alla democrazia parlamentare. Ne è seguita una lacerazione del tessuto connettivo che lega la comunità nazionale oltre, e al di sopra, delle articolazioni proprie della lotta politica. Da ultimo, la nostra democrazia ha sofferto della scomparsa dei partiti cosiddetti d'integrazione di massa. Questi hanno occupato ininterrottamente, dalla caduta del fascismo fino al loro tracollo con Tangentopoli, il ruolo non solo di attori protagonisti della vita pubblica, ma addirittura di titolari di una legittimità predominante rispetto a quella riconosciuta allo Stato. La crisi di questi partiti ha quindi equivalso alla crisi tout court della democrazia, ritrovatasi spoglia al contempo di un supporto vitale e di una credibilità in forma più grave che in altre nazioni occidentali. La riemersione del populismo nella vita democratica ha trovato un clima favorevole e non sembra ci siano prospettiva che torni a inabissarsi. Roberto Chiarini

La lunga marcia del populismo americano. Luca Gallesi su Inside Over il 21 luglio 2021. Come già accennato in un precedente articolo dedicato a John Adams, il “fenomeno Trump” non è l’exploit improvviso di un bizzarro outsider, ma si inserisce, in modo sicuramente eccentrico, nel vasto e profondo sentimento populista che scorre nella storia americana sin dagli albori. Tale schieramento primeggiò grazie a figure eccezionali come il secondo e il terzo presidente Usa, rispettivamente John Adams e Thomas Jefferson, che furono gli antesignani di quello che, cento anni dopo, sarebbe diventato il populismo propriamente detto, incarnato nei partiti e movimenti esplicitamente populisti, come la Granges, il Greenback Movement e, ovviamente, il vero e proprio People’s Party, che sfiorò la vittoria alle presidenziali del 1896 con il candidato democratico-populista William Jennings Bryan. Può essere azzardato definire il termine “populismo americano” in un’accezione tanto larga da comprendere personaggi apparentemente lontani tra loro come gli stessi Jefferson e Adams e i loro epigoni, ma è sicuramente vicina alla realtà la definizione di “risposta dei ceti meno favoriti e spesso non rappresentati” che manifestarono politicamente il loro dissenso, spesso radicale. La prima forma di contrapposizione populista fu quella tra città e campagna, soprattutto nel momento in cui la realtà urbana, divenuta motore industriale e cuore finanziario del Nuovo mondo, crea, inevitabilmente, una tale concentrazione di ricchezza da impoverire e soprattutto sfruttare, il vasto mondo agricolo, rimasto ancorato a una visione pre-capitalista ricca di lavoro e molto produttiva, ma povera di mezzi e quindi necessariamente indebitata. Si ripropose, quindi, in termini a volte molto accesi, la contrapposizione tra le “due città”, tra i ricchi e i poveri, ovvero i produttori, piccoli proprietari, o fittavoli che dovevano ipotecare il proprio raccolto per continuare a lavorare, contrapposti ai “parassiti” delle città che controllavano la voluta scarsità di denaro per continuare a dominare l’economia nazionale. Questo, molto semplificato, è il quadro in cui, nella seconda metà dell’Ottocento i problemi lasciati aperti dalla Guerra civile si sommavano alla concentrazione delle ricchezze in mano a pochi e ristretti gruppi di potere. A partire dagli anni Settanta, e in particolare dopo il panico seguito alla crisi del 1873, dilagarono quindi a Sud e a Ovest i movimenti di protesta agraria contro la politica del governo che favoriva l’industrializzazione, costringendo i contadini a un indebitamento cronico nei confronti del capitale dell’Est, abbandonando a loro stesse le classi sociali più deboli. È in questo contesto che emerge il populismo vero e proprio, che diventò – questa forse la somiglianza maggiore col populismo del XXI secolo – un movimento di massa, indifferente, anzi contrario, alle strutture istituzionali esistenti, che dà voce a un vasto settore della popolazione fino ad allora inascoltato e senza potere. Nel 1892, a St Louis, nacque, così, il terzo partito, che, in contrasto con gli altri due partiti storici, si proponeva di ridare il governo al popolo, togliendolo alle élite democratiche e repubblicane che ormai si curavano esclusivamente dei propri personali interessi. La base restava agraria, ma in prospettiva avrebbe rappresentato tutti i lavoratori sfruttati da chi, invece di lavorare, si arricchiva manipolando la ricchezza da loro prodotta. Il People’s Party si diede subito una piattaforma programmatica molto ambiziosa, che alcuni chiamarono la Seconda Dichiarazione d’Indipendenza Americana, un appello alla cooperazione di tutte le forze sane della nazione americana: “Noi ci troviamo nel mezzo di una nazione portata sull’orlo della rovina morale, politica e materiale. La corruzione domina le urne, le Assemblee legislative, il Congresso, e sfiora ogni toga della Corte. La popolazione è demoralizzata, la stampa prezzolata e imbavagliata, l’opinione pubblica costretta al silenzio, gli affari prostrati, le nostre case sommerse da ipoteche, il lavoro impoverito, la terra concentrata nelle mani dei capitalisti”. Ora, se togliamo queste parole dal loro contesto, e le trasportiamo nell’America attuale, sostituendo il termine “capitalisti” con il neologismo GAFAM, non sarebbe difficile immaginarle pronunciate dall’ex presidente Donald Trump, così come non sarebbe del tutto improprio sovrapporre ai ceti agrari dell’Ottocento che trovarono rappresentanza nel People’s Party i numerosi lavoratori, spesso bianchi ma non necessariamente WASP, che videro una possibilità di riscatto nel presidente outsider, che, ironia della sorte, era pure lui un miliardario, per quanto eccentrico. Tornando al 1892, a St Louis, dunque, comincia la marcia verso il potere del “Partito del Popolo”, che il potere, quattro anni dopo, arriverà davvero a sfiorarlo, grazie all’azione di un personaggio straordinario, quel William Jennings Bryan di cui abbiamo già parlato, e che sarà il protagonista del prossimo articolo.

Insulti, dogmi, risse: il dibattito italiano tra tifoserie rivali che uccide la logica. Alessandro Sterpa su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Assistiamo in maniera crescente all’impiego dell’insulto nella comunicazione sociale e in quella politica, fino ad arrivare ad una preoccupante diffusività della minaccia verbale e fisica che sta caratterizzando in particolare il tema dei vaccini e delle limitazioni in epoca Covid-19. Evidente che l’emotività ha preso il sopravvento si dice, ma sarebbe davvero riduttivo fermarsi a questo tipo di analisi. L’emotività c’è sempre stata a caratterizzare le relazioni umane, il punto è che oggi essa ha una pretesa assoluta nella “dialettica delle verità”. Un termine che evoca una contraddizione in re ipsa: non ci può essere dialettica tra due cose incompatibili e ritenute entrambe vere, una deve soccombere per legittimare l’altra. Il diritto costituzionale è nato per garantire il pluralismo nelle “società senza verità” (se non forse quelle tecniche) e si trova a dover fronteggiare crescenti spinte ad affermare verità ad horas. Non si media (nel senso che non si raggiungono compromessi) perché con la verità non hanno senso le mediazioni, ma si pretende che i media trasmettano la verità del momento altrimenti andrebbero addirittura puniti. Quando le emozioni prendono il dominio i compromessi della logica sono declassati a semplici e dolorose offese. L’“emotivamente vero” è spesso non solo privo della logica razionale che lo colloca nel mondo dei contrasti rendendolo compatibile con il convivere: c’è di più. Esso è anche “emotivamente parziale” perché seleziona tra diverse emozioni quella che in quel momento più sanziona in modo netto la veridicità di una posizione e la cristallizza. Dovremmo riscoprire l’importanza del “velo” davanti ad ogni “vero” perché così ci ricorderemmo che vero non è. Quel velo è il dubbio, l’altro, la prospettiva diversa. Mediare tra le emozioni è ancora più difficile che mediare i concetti con la logica razionale. Immaginiamo di dover tenere un referendum o di esaminare una legge sulla produzione energetica nucleare dopo un disastro in un impianto che ha prodotto molti danni. Esito facile: negheremmo l’attività delle centrali nucleari. Dopo 30 anni, costretti a produrre in altro modo l’energia elettrica, scopriamo che con altre tecniche abbiamo innalzato i livelli di inquinamento atmosferico con importanti esternalità negative sull’ambiente. A quel punto convertiremmo le centrali in nucleare perché l’incidenza dei potenziali incidenti è statisticamente minima rispetto alla certezza dell’inquinamento prodotto dalle altre modalità o perché vedremo foto di volatili uccisi dallo smog piuttosto che petrolio in mare che copre le spiagge? Emotività chiama emotività in un circolo vizioso di legittimazione delle emozioni. Dietro ad ogni emozione c’è un assoluto percepito come “giusto” su di un piano di parametri soggettivi in un brodo di buone intenzioni. Il punto è che dovremmo spezzare questo circolo che autoalimenta la “prossima emozione” ossia la “prossima verità” con un impegno che non deve estirpare le emozioni ma collocarle nel contesto logico, renderle gestibili. Serve una comunicazione che ritrovi le parole, che sono i numeri della logica, mezzo insostituibile. Più parole insomma (e qui si aprirebbe una lunga discussione sulle immagini…). E tra le parole serve rilegittimare a pieno titolo in particolare le congiunzioni avversative arricchendo la comunicazione di anzi, eppure, ma, però, tuttavia, bensì e quelle eccettuative (tranne che, eccetto che, salvo che, se non che, a meno che). Nel mondo globale dove tutto è connesso e complicato tendiamo a semplificare scatenando e sfruttando le emozioni. Il diritto è l’arte della mediazione formale delle idee e degli interessi e si adegua nella forma per raggiungere la sostanza del risultato che è suo compito perseguire. La giurisprudenza in questo aggiunge un complesso e articolato lavoro di bilanciamento, connessione e raccordo che tiene insieme le regole, i principi e i valori con un abbondante impiego di congiunzioni “anti verità” e adotta decisioni. Fino ai casi di cronaca nei quali si manifesta innanzi ai tribunali per invocare la “sentenza giusta”, l’appagamento dell’emozione in certi casi magari di vendetta punitiva. Pensate a certi miti del “normativismo emozionale”: “abolizione della povertà”, “pene esemplari”, “certezza della pena” oppure “guerra a…” con la categoria che emoziona in quel momento piuttosto che alla riforma di turno che “salva” la categoria odiata o amata di turno (“salva ladri”, “salva corrotti”…). In questo possiamo ben dire che c’è un ruolo dei media non sempre attento a non cavalcare le emozioni e che opera semplificando. Perché comunicare le emozioni pretende un certo grado di semplificazione. Proprio quando servirebbe una educazione alle emozioni, assistiamo al loro sfruttamento, anche da parte della stampa che adesso ne è purtroppo ingiustamente vittima. Quante volte nel titolo del quotidiano troviamo espressioni eccessive ed esemplificatrici? Quante volte nella descrizione della notizia troviamo aggettivi e avverbi che suscitano interesse al clic emozionando, incuriosendo chi cerca una emozione? Un tema antico, certo, ma oggi sarebbe utile che la rivoluzione delle parole che già interessa il diritto (pregi e difetti della questione) sia esportata nella comunicazione tradizionale e nuova dei media. Senza questa attenzione il circo(lo) delle emozioni rischia di essere una giostra dalla quale si scende tutti molto stremati, politici, giuristi e giornalisti. Volevamo uscirne emozionati e ne usciremo emaciati? Alessandro Sterpa

Gli errori che creano le fazioni. Claudio Brachino il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. Io vax, tu no vax. Alla fine anche su un tema cruciale per la vita, delle persone e della società, siamo finiti al solito come i Guelfi e i Ghibellini. Divisi, in lotta, culturale e materiale, una pericolosa guerra civile del vaccino la cui posta in gioco è il futuro. Ma chi sono i no vax? Se togliamo le frange estreme, chi soffia sul fuoco, i rancorosi e i pazzi, dietro alle proteste e alle minacce, c'è un sottostrato sociale che va indagato. Ci sono milioni di italiani che non ne vogliono sapere di vaccinarsi. Sono una minoranza rispetto al 70% di over 12 che l'ha fatto, ma ci sono. Riprendiamo le immagini retoriche dell'arrivo della prima dose, la luce in fondo al tunnel e mettiamole accanto a quelle di questo fine agosto. Sono passati appena otto mesi. Cosa non ha funzionato nella narrazione? La scienza in primis, che non ha saputo trasmettere all'opinione pubblica la potenza delle proprie scoperte. Il tempo breve anziché un successo è diventato un fattore di diffidenza, troppi annunci contraddittori e una frettolosa spiegazione sui cosiddetti effetti collaterali. La statistica non basta a tranquillizzare. Poi anche in campo medico abbondano gli eretici. Il mio barista mostra il cellulare aperto su un canale con specialisti che raccontano di danni pazzeschi. Serve i clienti e fa propaganda contro. Secondo tema, la comunicazione. In questi giorni dito puntato contro i cattivi maestri. Ce ne sono certo in tv, sui giornali, in libreria dominano i saggi negazionisti. Ma il vero problema è la non mediazione del web, la sua forza disinformativa globale. Non solo fake, ma news profilate con gli algoritmi sulle angosce di ognuno. Basta rivedere il documentario The social dilemma o avere in casa un adolescente non conformista. Vai nel suo mondo e trovi l'orrore. Più clicchi e più vieni profilato. I dubbi diventano in fretta convinzioni ferree e poi rabbia. Ultima, ma non ultima, la politica. Non si può giocare sul consenso. Le posizioni devono essere chiare e responsabili. Né serve estendere il green pass come moral suasion. Alla fine, molto presto, sarà obbligata la politica a discutere sull'obbligo vaccinale, con buona pace dei teorici della libertà rimasti in silenzio con i lockdown e i coprifuoco. Claudio Brachino 

I sociologi e l'Italia divisa: "La frattura può peggiorare". Lodovica Bulian il 2 Settembre 2021 su Il Giornale. Disuguaglianza, incongruenze e incertezze alla base della spaccatura: "La terza dose accentuerà la tensione". Le annunciate manifestazioni di ieri sono state un flop, ma la frattura nel Paese sull'asse green pass, vaccini e diritti «esiste», «non va sottovalutata». E rischia, secondo le analisi di diversi sociologi, di «accentuarsi nei prossimi mesi con il dibattuto sulla terza dose». «Si tratta di una frattura non politica, ma di sensibilità, di irritabilità e di fastidio verso certe misure, che divide le popolazioni. Dietro non c'è un partito e non si formerà un movimento dei no green pass. Questa fase risponde piuttosto a una richiesta di allentamento della pressione del controllo sociale da parte della popolazione - spiega Francesco Alberoni - E la platea è eterogenea. Per quanto riguarda i no vax, dietro c'è invece una base culturale ben precisa di diffidenza rispetto alla medicina. Ma quando parliamo di green pass parliamo di una costrizione personale - non poter salire un treno, entrare in un locale - che può dare fastidio. Credo che le divisioni si acuiranno quando si discuterà di terza dose. Ci vuole molta prudenza da parte di tutti, soprattutto da parte della politica». Il popolo dei no pass «non va delegittimato», avverte Luca Ricolfi. Perché non ci sono solo i no vax «duri e puri, e quelli neanche li considero perché sono una parte minima». Ci sono anche persone favorevoli ai vaccini ma che hanno dubbi sull'obbligo del certificato. «Io stesso mi sono vaccinato e non sono contro il pass, ma non mi piace per niente. Bisogna accettare che esistano opinioni diverse e non bollarle come ignoranti. Il green pass si basa su dati di fondo sulla situazione epidemiologica non chiari, e che costringono la gente - pensiamo alle madri di bambini di 12 anni - a prendere decisioni senza avere certezze, senza la tranquillità sugli effetti a medio e lungo termine del vaccino. Quindi al di là dei no vax - dice Ricolfi - che hanno una posizione ideologica e che sono una percentuale ridottissima, ci sono persone che hanno un'esitazione. Medici e insegnanti sono forse persone ignoranti? Anche i dubbi sul pass sono legittimi, non condivido la posizione paternalistica e sprezzante di chi lo considera uno strumento di regolazione. Non parlerei nemmeno di discriminazione, ma un problema di limitazione alle libertà e di un prolungamento indefinito dello stato di emergenza c'è». Come se ne uscirà? «Se la campagna vaccinale avrà successo, allora sarà più difficile opporsi agli strumenti che la accompagnano. Ma il dibatto si sposterà sulla terza dose». Secondo Franco Ferrarotti quella che si è vista nelle piazze in questi mesi, prima contro i lockdown e poi contro il pass è una «spaccatura autentica». Che però ha le sue radici in una società stravolta dalla pandemia: «Si sono aggravate le disparità le ingiustizie sociali preesistenti - spiega - Una grande quantità di persone si è trovata senza mezzi di sussistenza. Il malessere si manifesta anche gridando «no vax» o «no pass», ma i vaccini c'entrano ben poco. Sono - e parlo delle frange violente delle piazze - dei pretesti. Il problema è che non dovrebbero essere i politici ma le acquisizioni nel campo scientifico a indicare la via. Purtroppo con questo virus anche l'analisi scientifica ha dei limiti. La politica però ha una sua responsabilità con la confusione che ha ingenerato tra affermazioni e propaganda». Più che una spaccatura, quella che vede invece Paolo Crepet è una «fratturina». «Si può manifestare la propria contrarietà - chiarisce - ma non impedire a qualcuno di prendere un treno. Uno può arrabbiarsi per il green pass ma non può pretendere di entrare scuola non essendo vaccinato. Sull'obbligo del certificato non ci trovo niente di scandaloso, però va detto che ci sono delle incongruenze che alimentano lo scetticismo. Un esempio? I treni pieni all'80% e i teatri al 50%. L'allargamento di questa frattura dipende molto da quanto terreno verrà ancora lasciato all'incertezza, all'interpretazione delle regole». Lodovica Bulian

Dieci anni fa la lettera della Bce. La gogna contro la Fornero segnò l’inizio del populismo italiano. Giampaolo Galli su Il Riformista il 13 Agosto 2021. Ai primi di agosto del 2011, il giorno prima della lettera della Bce, i sindacati (tutti: da Cgil, Cisl, Uil fino all’Ugl) e le organizzazioni datoriali (tutte, da Confindustria e Abi fino a Confcommercio e Confapi) ottennero dal governo di essere convocati a Palazzo Chigi sulla base di un breve documento comune che metteva al centro la gravità del momento e l’urgenza di risanare i conti pubblici. Ce lo siamo dimenticati tutti quel documento proprio perché il giorno dopo è arrivata la lettera della Bce, ma esso è molto significativo, perché dice cose molto simili a quelle contenute nella lettera della Bce, dalla scarsa credibilità degli impegni del governo in materia di pareggio di bilancio fino alle liberalizzazioni e alla modernizzazione del welfare e delle relazioni sindacali. Alla luce di quel documento, tanto ampiamente condiviso, diventa davvero difficile dire che la Bce ci ha imposto dall’alto la ricetta liberista. Quella ricetta era considerata necessaria quasi da tutti nelle condizioni di allora. Negli anni successivi quella stagione della nostra storia sarebbe stata oggetto di una straordinaria campagna di criminalizzazione che ha coinvolto persone per bene, oltre che molto competenti, come Mario Monti ed Elsa Fornero e lo stesso Presidente Napolitano. Ristabilire la verità sugli eventi di quei mesi è utile per contribuire a mettere fine all’orgia populista che ne seguì e che fu alimentata da una inaudita e inaccettabile campagna di disinformazione fatta in particolare da alcuni dei ministri del governo che era in carica nel 2011. Si è parlato di colpo di mano della Bce, di dittatura dei mercati, di complotti (tedesco secondo alcuni, francese secondo altri) e persino di colpo di Stato. Il documento delle parti sociali si apre con la constatazione che le turbolenze che si stavano manifestando sui mercati finanziari erano in parte connesse a «fragilità intrinseche di un’Unione Europea che è ancora carente sotto il profilo politico e degli assetti istituzionali», ma subito dopo dice che «il momento è grave», che spetta solo a noi italiani risolvere i nostri problemi e che «la politica di bilancio resta il cuore dei nostri problemi». E ciò perché «senza alcun dubbio i mercati non hanno fiducia nell’impegno dell’Italia a conseguire il pareggio di bilancio nel 2014. Evidentemente occorre fare di più». Nel documento non si arriva a proporre ciò che chiese poi la Bce, l’anticipo dell’obiettivo del pareggio al 2013, ma si chiede di porre «il pareggio di bilancio – proprio così! – come obbligo costituzionale». Si osserva altresì che la manovra di luglio altro non aveva fatto che ridurre il deficit dell’ultima parte del 2011, scaricando però «maggiori oneri sul 2012». La conclusione è che «non si può prescindere da interventi strutturali per aumentare la produttività del pubblico impiego e per modernizzare il sistema di welfare». Non si citano esplicitamente le pensioni, ma il riferimento è del tutto evidente dal momento che questa frase sta in un breve paragrafo che ha per titolo proprio il pareggio di bilancio. Nella storia fatta con il (poco) senno di poi, il peso della riforma cadde tutto sulle spalle di Elsa Fornero, ma tutti sapevano che quella riforma andava fatta, anzi che era la chiave di volta per ripristinare la credibilità della firma sovrana dell’Italia. La gogna cui è stata sottoposta Elsa Fornero negli anni successivi da gran parte della politica è degna delle peggiori cacce alle streghe della Salem raccontata da Arthur Miller e segna un momento buio della nostra storia recente. Come nella lettera della Bce, nel documento delle parti sociali si proponevano una serie di misure per rilanciare la crescita e fra queste al primo posto vi erano- fatto assai significativo – “liberalizzazioni e privatizzazioni”. Alla riunione che si tenne a Palazzo Chigi il 4 agosto, con tutto il governo schierato, fra la parti sociali vi fu un accordo per far parlare una sola persona a nome di tutti. Lo scopo era quello di sottolineare la assoluta drammaticità del momento, il fatto che era in gioco la salvezza della nazione. Ad una sola persona toccò di dire al governo che la stanca ripetizione dei programmi dei singoli ministri, quale ci era stata propinata, era del tutto inadeguata rispetto alla gravità del momento. Qualche mese prima, all’inizio di maggio, si erano tenute la Assise di Confindustria, un evento cui parteciparono migliaia di imprenditori. Già allora, anche per effetto dei litigi fra ministri di primo piano, la credibilità del governo era pressoché azzerata. Nel timore che gli imprenditori potessero riservare una accoglienza molto dura al governo, si decise di non invitare nessun politico, cosa che a memoria non era mai accaduta prima. Altro che colpo di Stato e complotti! I complotti erano quelli che si facevano l’un l’altro i ministri di quello stesso governo. Giampaolo Galli

Il Partito unico e i dubbi. Alla ricerca della destra perduta: Salvini, Meloni e Berlusconi in cerca d’identità. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Luglio 2021. La domanda sembra semplice e invece è quasi insensata: chi e che cosa è di destra oggi? La questione è quasi identica quando ti chiedi che cosa sia di sinistra, e scopri che questo orientamento – o sentimento, o disposizione naturale – non sa più se mettere le tende sulle questioni sociali o su quelle dei diritti civili. La destra è molto più complicata e così ho tentato socraticamente di usare me stesso – nessun narcisismo semmai masochismo – come cavia. Perché una tale dissennata avventura? Per provare a immaginare in che cosa potrebbe consistere la realizzazione della proposta di Berlusconi, di un raggruppamento di destra alla maniera del partito repubblicano americano. Quel partito creato da Lincoln mi è sempre sembrato come il cappello delle meduse spiaggiate: dentro l’involucro abita un intero ecosistema. Il Grand Old Party di Abraham Lincoln non è mai stato un vero partito, è un capello di medusa dove convivono idee diverse ma che possono stare insieme. e poi si trasformano in comitati elettorali quando arriva l’ora del voto. La mia storia è comune: vengo da una sinistra che considerava l’Unione Sovietica, prima e dopo Stalin, come una fonte di orrore. Lo so, questo è il momento in cui tutti devono insorgere gridando come ossessi “come ti permetti, mascalzone, non sai che i sovietici hanno sacrificato venti milioni di vite umane per vincere i nazisti?” Devo rassicurarli: lo so benissimo, ma so anche che ciò accadde per colpa di Stalin che scelse di iniziare la seconda guerra mondiale dalla stessa parte di Hitler invadendo con lui la stessa Polonia nello stesso settembre del 1939, ma ancor più per colpa dei comunisti di tutto il mondo, che nel biennio di quella losca alleanza esaltavano i successi hitleriani contro le corrotte democrazie borghesi e tifavano apertamente per il Terzo Reich a cominciare da Stalin che faceva pubblicare sulla Pravda i suoi sfrenati telegrammi di congratulazioni ad Hitler per le sue sfolgoranti vittorie dalla caduta di Varsavia, all’invasione di Olanda e Belgio fino a quando andò con le mani in tasca al Trocadero per guardare con soddisfatto rancore la svastica sventolare dalla Tour Eiffel. E non dimentichiamo neppure che Stalin si rifiutò di credere al voltafaccia di Hitler per due lunghe settimane dopo l’inizio dell’invasione nazista impartendo l’ordine di non contrattaccare i tedeschi perché ci dev’essere per forza un equivoco. Il punto è che soltanto dal momento in cui Hitler capovolse i fronti, anche i comunisti capovolsero la lista dei loro nemici e si degnarono di tornare all’alleanza con noi (storicamente parlando) “social-fascisti”, nel senso che i socialisti erano insorti contro la turpitudine del connubio armato fra nazional-socialisti e comunisti durante i primi due anni di guerra. Non sto parlando di faccende militari, ma di carne viva e sanguinante, dal momento che da allora si sono creati dei falsi fronti fra destra e sinistra che ancora producono effetti limacciosi e fuorvianti. Andiamo sul pratico e torniamo all’oggi: perché Giorgia Meloni è una borgatara del fascismo sociale e ha militato con i suoi camerati praticando quel genere di politica che con grande imbarazzo di tutti, era di sinistra e non reazionaria? Oggi Giorgia si muove verso una linea conservatrice ma il suo appeal politico è quello e non ha nulla in comune con la destra classica. E quale sarebbe la destra classica? Proviamo a narrala come una fiaba. C’era una volta un regno, anzi una umanità nell’Europa che era stata toccata dalla Rivoluzione Francese e poi dalle ingegnerie militar-sociali di Napoleone, in cui era facilissimo farsi il tampone e stabilire se tu fossi, per i parametri allora in uso, di destra o di sinistra. A destra se ne stava grassa e odiosa come nei disegni di George Grosz, la bieca e ricca borghesia capitalista con i grandi latifondisti, E a sinistra, emaciati ed esangui, più morti che vivi, gli sfruttati e i bambini schiavi dell’accumulazione primaria raccontata da Dickens con lo spietato cuore dei Racconti di Natale. Si poteva dire che scremando le due parti politiche dalle loro ali più aggressive quel che restava era un grande partito conservatore che raggruppava gli abbienti che possedevano ma anche producevano la ricchezza; e poi un altro partito che si poteva definire progressista che si batteva per salari e livello di vita degli sfruttati. Tutto era facile e si poteva anche dire con Disraeli che chi non è progressista a vent’anni è senza cuore e chi non è conservatore a quaranta è senza cervello. Quel che era successo dopo la Rivoluzione francese aveva però assunto tinte fosche e inaspettate perché per la prima volta nella storia erano saltati fuori i nazionalismi e le etnie, le appartenenze e le bandiere, l’urlo di tutti gli indipendentisti pronti a morire per una trascrizione fonetica, lo sdegno del romanticismo specialmente degli abitanti della penisola italiana che parlavano lingue e dialetti di origine romanza fra loro incomprensibili ma che facevano sfracelli con bombe e coltelli per l’anarchia o la nazione, la guerra al papa e lo schianto redentore della dinamite accompagnato dall’impegno sulle barricate per compensare piombo con piombo. Quelle mille lingue slave e romanze e tedesche provocarono un casino quando furono scoperchiati gli imperi centrali polverizzati dalla Grande guerra, cui si aggiunse anche quello Ottomano col medio oriente in fiamme. Non era più soltanto lotta di classe e di ricchi contro poveri e sfruttati contro sfruttatori, ma anche di un sacco di altre cose che provocarono dalla fine della grande guerra fino all’inizio della seconda, un’ondata di rivoluzioni egualitarie seguite da repressioni spietate, eserciti fantasma, ricorsi generosi al genocidio e all’annichilimento reciproco che già avevano scandalizzato mezzo secolo prima Carlo Marx che aveva ribattezzato Giuseppe Mazzini col nomignolo sprezzante di Teopompo, un vate del narcisismo sanguinario che nulla aveva a che vedere con la giustizia sociale. Io sono figlio della prima metà dello scorso secolo e quando venne l’adolescenza surfavo quell’onda che correva fra socialismo e rivoluzione, ma con la mano alla pistola che non avevamo, quando entravano in scena gli adorati compagni sovietici. Quando cadde anche l’Impero sovietico, l’Italia perse i suoi loschi privilegi di “terra di mezzo” fra Occidente e Oriente che le aveva permesso di far pagare dazio ad amici e nemici con quel genere di furbizie e doppi-pesi per cui eravamo guardati con legittimo sospetto dagli uni e dagli altri. Mi trovai per un caso professionalmente fortunato ad accompagnare un altro visionario eccitato, il presidente Francesco Cossiga che la sapeva lunga e aveva capito tutto in tempo. Risparmio al gentile e già ben informato lettore la storia di Mani Pulite, del giustizialismo e dagli altri derivati, a loro volta figli tardivi della politica berlingueriana che per divincolarsi dagli ultimi spasimi della Rivoluzione d’Ottobre, aveva fatto ricorso all’ideologia di una superiorità etica dei comunisti, santi subito. Quanto agli altri, meglio che andassero sotto processo. Semplifico e ne sono ben consapevole ma fu allora che furono mischiate ancora una volta tutti i tarocchi usati per dividere la destra dalla sinistra secondo i canoni e i cannoni dei tempi della guerra. L’Italia è un Paese conservatore come ripeteva Togliatti, anche se un po’ cinico e un po’ ridanciano, ma comunque efficiente e solido. Di quel conservatorismo era già campione l’imprenditore multimediale Silvio Berlusconi battendo in popolarità l’aristocratico avvocato Agnelli. Quando cadde l’impero sovietico, i socialisti pensarono ingenuamente che fosse arrivata l’ora della rivincita e invece era arrivata l’ora della pentola. L’antico odio fra socialisti e comunisti che si era ricomposto e rilacerato tante volta nel corso di un secolo tornò con tutta la violenza e avvenne questo rimescolamento per cui tutti ( o quasi) noi socialisti e gli altri naufraghi dell’Italia che adesso chiamiamo liberale, trovammo non solo utile ma sacrosanto salire sulla zattera che il borghese Berlusconi aveva costruito con un colpo di scena storico e che fece saltare la previsione di una vittoria l’ex Pci, ribattezzato PDS. Fu così che ci ritrovammo ancora una volta ad essere “social-fascisti” come ai vecchi tempi. Nell’alleanza creata da Berlusconi erano stati imbarcati i neoromantici identitari di Bossi e i neofascisti di Gianfranco Fini, ai suoi tempi pupillo di Giorgio Almirante, passato all’antifascismo militante. Il seguito è noto: con l’alleanza passata alla storia come “il Predellino”, di fatto Berlusconi assorbì il partito di Fini che a sua volta fu cancellato dalla politica attiva dopo la vicenda della “casa di Montecarlo”. Ma intanto la destra era diventata un’altra destra: sparito il partito neofascista erede del Msi che si rifaceva alla repubblica di Salò. Anche la ventata federalista e romantica della Lega di Umberto Bossi era stata affossata da scandali e rovine, mentre il successore Salvini passava al nazionalismo capace di raccogliere il consenso della paura dell’immigrazione incontrollata. È stato così che, fra evoluzioni, contorsioni e un drastico dimagrimento di Forza Italia dovuto dall’assenza forzata di Berlusconi, nasce l’idea – proprio di Berlusconi – di una alleanza fra diversi nella quale dovrebbero mantenere ciascuno la propria identità senza finire fagocitati e digeriti dal più forte. Di qui si torna al punto di partenza prima di iniziare il secondo giro della nostra ricognizione: di quale destra stiamo parlando, su che cosa dovrebbe o potrebbe riunirsi e – più che altro – su che cosa competere con la sinistra.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

I tre tenori del centrodestra cantano sempre la stessa solfa. Marco Follini su L'Espresso il 6 luglio 2021. Nell’eterna reiterazione di messaggi e slogan, il Paese premia la politica scarna. Ma l’elettorato è felice, per adesso. Assertivo, compiaciuto, pietrificato. Il centrodestra è un monumento, eretto a se stesso e ai suoi numeri elettorali. Come ogni monumento che si rispetti è imponente e retorico, scultoreo e immobile. Edificata sulla collina dei suoi consensi popolari, che non sembra destinata a smottare, la ex Casa delle libertà procede per certezze e ripetizioni mai troppo faticose. Le manca in compenso ogni capacità, ma anche ogni volontà, di aggiornare la propria agenda, il proprio lessico, i propri argomenti. Mentre la sinistra si dimena, si contorce, si reinventa ogni giorno, anche quando non ce ne sarebbe alcun bisogno, la destra si fa forte della propria attitudine a ripetersi. Cambiano le circostanze, questo sì. Si affermano nuovi leader (prima Salvini, poi Meloni), declina l’antico patriarca, si fanno largo qua e là figure meno segnate dal tempo. I suoi partiti vanno e vengono tra governo e opposizione, e a quel bivio le divisioni sembrano dar luogo a controversie, svolte e trasformazioni di non poco conto (vedi, da ultimo, la nascita del governo Draghi). Ma poi, quasi inesorabilmente, la destra ritrova la strada che le è più consueta e che le appare più comoda: quella della eterna reiterazione e della estrema semplificazione di sé e del suo messaggio. Le sfumature non le appartengono, i dubbi sembrano annoiarla. Per dire. La questione del suo assetto (un partito o tre, la federazione, il coordinamento) viene affrontata ormai quasi ogni giorno e utilizzata a mo’ di predellino, a giro, da ognuno dei suoi leader. Ma è piuttosto chiaro che non se ne farà nulla per un bel po’ di tempo. Mentre risulta oscuro cosa significhino tutte queste amenità. E cioè se dietro un assetto o l’altro si nasconda una o l’altra idea del paese e magari perfino un’idea nuova, non si sa mai. Ora, nessuno si può scandalizzare che sia in corso una disputa sulla leadership. Ma quella disputa dovrebbe almeno alludere a qualche progetto, qualche trasformazione, una minima evoluzione di sé. E invece appare solo come l’esempio della muscolarità dei suoi condottieri. L’intendenza, al solito, è chiamata a seguire, possibilmente applaudendo. Nelle seconde e terze file non spira un alito di brezza. Non sembra esserci nessuna disputa, né l’ambizione di introdurre argomenti e sensibilità che non siano quelli più canonici e sperimentati. Come se la dialettica politica fosse del tutto inappropriata. La sfida al primato dei rispettivi leader appare più che mai disdicevole, e anche l’evocazione di punti di vista almeno un po’ eterodossi suona come un fuor d’opera. Sarà pure un valore, la disciplina. Ma certi suoi eccessi finiscono per svalutare innanzitutto se stessi e la propria parte. Perfino quando la si pratica con le più nobili intenzioni. Certo alcune parole d’ordine restano lì, come per offrire un punto fermo. Più sicurezza, meno tasse. Eppure vengono recitate stancamente, ribadite come un mantra, senza che mai da quelle parti si levi una voce che segnali altre priorità, o magari anche solo altri modi per realizzare quelle più canoniche. L’eresia non è contemplata, sembra sempre l’anticamera dello scisma. Il sentimento d’ordine costringe all’obbedienza, mentre solo i tre condottieri possono dare libero sfogo a una certa propensione al litigio. Salvo negare il giorno dopo i loro singoli, reciproci pensieri del giorno prima. Nel silenzio deferente di tutti gli altri. Insomma, da quelle parti nessuno può essere irrispettoso del quartier generale. Tantomeno fantasticare di bombardarlo. Si dirà che la sinistra (non parliamo del centro) vive di troppe sfumature e ha fatto dei capelli spaccati in quattro, e magari in quarantaquattro, la sua dubbia virtù. Ma quel tanto, tanto, di disordine che si respira da quella parte non giustifica il troppo ordine che regna dalla parte opposta. Dove l’ortodossia celebra il suo trionfo ma la fantasia sembra troppo spesso lasciata fuori dalla porta. Ora, sia chiaro, il vento spira a destra, e questo va riconosciuto senza troppi giri di parole. Così è in Europa, a quanto pare. E così è da noi, dove la sinistra non è mai stata maggioritaria e dove le tendenze più conservatrici che la Prima Repubblica aveva tenuto a bada ora sembrano invece dispiegarsi in tutta la loro possenza. Dunque, i tre tenori di quell’orchestra possono intonare gli inni della loro tradizione e godersi gli applausi (e magari i voti) del pubblico che tifa per loro. Ma forse proprio per questo dovrebbero anche aprirsi a nuovi argomenti, ospitare dibattiti inediti, mettersi in questione quel che tanto che basta a incuriosire e suscitare sorpresa tra gli increduli. E invece sembrano avvolti tutti quanti nella confortevole coperta di Linus della loro ortodossia, senza che nessuno metta mai in discussione i loro assiomi e le loro gerarchie. Al momento, tutto questo non fa perdere voti, a quanto pare. Tutt’altro. Anzi, sembra quasi accordarsi con lo spirito di un Paese che è stanco della troppa politica e ne vorrebbe a questo punto dosi meno massicce da inoculare quotidianamente. In fondo, lo stesso apprezzamento per Draghi, sembra sottintendere il bisogno collettivo di ridurre la politica alla sua essenzialità, al suo buon funzionamento, senza i troppi arzigogoli che fanno la felicità degli addetti ai lavori. Dunque, che la destra non sia troppo problematica, che non faccia autocoscienza, che non vada in cerca di inedite fantasie, che ricalchi con studiata monotonia i propri argomenti, tutto questo ha un suo perché. E magari propizia perfino un vantaggio per chi aderisce a questo codice. Resta il fatto, però, che in un Paese come il nostro a lungo andare una politica così scarna, così ovvia, quasi rattrappita nella sua essenzialità, appare destinata a una fortuna piuttosto effimera. E che da una forza, o un insieme di forze, che si propone come l’Italia prossima ventura sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più che non la celebrazione di se stessa. La destra, per sua natura, è depositaria di un’idea di sicurezza. Dunque, è piuttosto ovvio che essa celebri e reiteri questa parola d’ordine adattandola ai suoi leader e ai suoi programmi. Ed è perfino ovvio che all’occorrenza se ne faccia un merito al cospetto di una certa confusione che magari regna altrove. Ma è altrettanto vero che un paese maledettamente complicato e felicemente pluralista come è l’Italia sopporta a fatica questa reductio ad unum di cui la destra sembra fare la propria bandiera. E per quanto i numeri avvalorino gli schemi di cui sopra, resta il fatto che numeri e schemi sono per loro natura un po’ ballerini. Per il momento resta da segnalare quell’alto tasso di ripetitività, e quasi di monotonia, nei messaggi che risuonano da quella parte. Come se il loro modello fosse più la granitica certezza ideologica che animava la sinistra di una volta piuttosto che la flessibilità a volte fin troppo disinvolta che spiega e magari illustra il quasi cinquantennio di predominio democristiano. Ma, si sa, è il nemico apparentemente più lontano quello che ti guida nel labirinto che ancora non conosci.

Il documento sovranista firmato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni spiega bene cosa è questa destra. di Sofia Ventura su L'Espresso il 13 luglio 2021. Nel testo sottoscritto insieme ad altri leader europei come Orban si parla tanto di nazioni e poco di cittadini. E di diritti neanche l’ombra. Chi parla di loro come di moderati farebbe bene a leggerlo. Matteo Salvini e Giorgia Meloni di nuovo insieme. Insieme come firmatari di un documento sottoscritto all’inizio di luglio da una quindicina di leader di partiti dell’estrema destra europea, dall’ungherese Fidesz allo spagnolo Vox, dal polacco Pis al francese Rassemblement National. Due paginette dedicate al futuro dell’Europa, un futuro ben diverso da quello sul quale si sta ragionando attraverso il processo partecipativo avviato dalle istituzioni europee con la Conferenza sul futuro dell’Europa. Sul documento sono confluite formazioni appartenenti a due gruppi del Parlamento europeo, Identità e Democrazia, del quale fanno parte la Lega di Salvini e il Rassemblement di Le Pen, e Conservatori e Riformisti Europei, presieduto da Giorgia Meloni. Nei commenti a questo appello ci si è soprattutto soffermati sui potenziali risvolti politici, ad esempio con riguardo alla futura collocazione di questi partiti nel Parlamento europeo, o con riferimento alle contraddizioni interne, come quelle relative alle “amicizie internazionali”. I contenuti del documento sono stati descritti e perlopiù evidenziati per la loro natura ostile all’attuale Unione e il loro carattere sovranista. Ma, in realtà, ciò che li rende particolarmente interessanti è la reinterpretazione, fumosa, omissiva, ambigua, della Storia che propongono. «La turbolenta Storia dell’Europa», si legge nel documento, «in particolare nell’ultimo secolo, ha prodotto molte sventure. Nazioni che difendevano la loro sovranità e la loro integrità territoriale da aggressioni hanno sofferto al di là di ogni immaginazione. Dopo la Seconda Guerra mondiale, alcuni paesi europei hanno dovuto combattere per decenni il dominio del totalitarismo sovietico prima di riottenere la loro indipendenza». Non si dice altro su quella fase storica. Si lasciano indistinti gli accadimenti del Secondo conflitto mondiale. Forse li si mescola con quelli della Grande Guerra, in un calderone dove i vari nazionalismi possano attingere per costruire i propri miti. Si pensi alla manipolazione della Storia a fini propagandistici che sta operando da diversi anni Viktor Orbàn, centrata sulle perdite territoriali dell’Ungheria in seguito al trattato di Trianon (1920). Al tempo stesso, e soprattutto, mentre si fa esplicito riferimento al totalitarismo sovietico, nemmeno si nominano il nazional-socialismo tedesco, il fascismo italiano e i loro tanti alleati e collaboratori. Com’è possibile ometterli allorquando si evoca la «turbolenta Storia» dell’ultimo secolo? Se lo si fa vi deve essere una ragione. Forse non si vogliono irritare segmenti di un potenziale elettorato. O comunque si preferisce sfumare quel “passaggio” della Storia europea per non doversi confrontare con esso nello stesso momento in cui si pone al centro delle propagande sovraniste l’esaltazione della nazione. Quante “tradizioni nazionali” uscirebbero malconce da un tale confronto! Ricordare il totalitarismo sovietico, ma dimenticare tutto il resto. Questo sconcertante approccio fa venire alla mente le osservazioni sviluppate nel suo ultimo libro da Anne Applebaum, liberale e conservatrice, premio Pulitzer per l’opera “Gulag”, sulla fine del comunismo. Su come quest’ultima evidenziò che non per tutti l’anti-comunismo era stato un sentimento vissuto, una battaglia condotta, in nome della libertà, un atto anti-totalitario, riprendendo il titolo del saggio di André Glucksmann. D’altro canto, in quelle due paginette, che tanto dicono dei loro estensori, non si parla mai di libertà. Se non in due passaggi, dove si richiama la libertà delle “nazioni”. Le “nazioni” sono al cuore dell’Europa, non i diritti e le libertà individuali. D’altro canto, nelle tragedie del XX secolo sono le nazioni ad essere indicate come le vittime, non le vite sconvolte e strappate di milioni di donne e uomini. Le nazioni come corpi organici. Non cercatelo l’individuo, non lo troverete. Tanto meno i suoi diritti. I diritti sono quelli della nazione, richiamata in due cartelle quattordici volte; due volte sono ricordati i cittadini: quelli che rispettano le tradizioni europee e sono rappresentati dai partiti che le difendono e i membri delle nazioni europee che stanno perdendo fiducia nelle istituzioni dell’Unione. La Conferenza sul futuro dell’Europa prima citata richiama i valori «sanciti dall’articolo 2 del trattato sull’Unione europea: dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». In ultima istanza è l’uomo, con la sua libera ricerca della felicità, il valore ultimo da tutelare e affermare. Tradizione, Cultura, Nazione, sono invece i valori ultimi per queste nuove (ma anche vecchie) destre europee, e poco importa che i loro leader ci credano davvero: agiscono come se ci credessero e della interpretazione di quei concetti reificati fanno strumento di consenso e di potere. E manipolano la Storia, con omissioni, confusioni, banalizzazioni. Per poter liberamente proporre come nuovo un discorso pubblico tragicamente già noto e celarne la enorme, potenziale, pericolosità, oltreché la sua più completa illiberalità. Denunciano la volontà di creare un Super-Stato europeo implicitamente evocando come spauracchio il modello sovietico per potere esaltare l’incapsulamento dei cittadini in nazioni autonome: che una delle grandi conquiste della cultura europea sia l’idea dei diritti universali che trascende appartenenze e particolarità lo ignorano (o preferiscono ignorarlo). L’adesione di Salvini e Meloni a questa destra costituisce un’ipoteca sul futuro del nostro Paese. E non si tratta di un’adesione superficiale o occasionale. Certamente non lo è nel caso di Giorgia Meloni, il cui libro da poco pubblicato può essere visto come lo svolgimento della traccia sviluppata nel documento anche da lei firmato, mentre la sua propaganda è sempre coerente con quello svolgimento. Più difficile fornire una valutazione nel caso di Salvini. Tuttavia, il fatto che pur sostenendo il governo Draghi non abbia esitato a unirsi ai fautori dell’“altra” Europa, ci dice che l’opzione estremista, per motivi contingenti - la competizione con Meloni - ma anche strutturali - quello dell’estremismo è l’unico gioco che sa davvero giocare - resta per il capo della Lega un’opzione sempre possibile. Anche Salvini, d’altronde, come Meloni, del passato fascista si rifiuta di parlare, mostrando così, come la leader di Fratelli d’Italia, l’estraneità all’europeismo dei padri fondatori che nell’antifascismo aveva un proprio pilastro. Meloni e Salvini questo sono. Sottoscrivendo l’appello della destra sovranista europea lo hanno confermato, sarebbe auspicabile che su di loro si smettesse perlomeno di farsi illusioni. Su di loro e su di una destra che vorrebbe riscrivere la storia europea dell’ultimo secolo per costruire un futuro che da democratici e liberali preferiremmo relegato alle fiction distopiche.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 9 luglio 2021. Devono ritenerlo in modo, soprattutto il Pd e i 5 stelle, di togliere terreno ai Ferragnez, di entrare in sintonia con i giovani, di farsi millennial tra i millennials per aumentare i propri consensi. E così - al netto del fatto che il calcolo potrebbe essere sbagliato, visto che i ragazzi della politica per lo più se ne infischiano e non scendono in piazza per chiedere di parteciparvi di più - ecco il Senato che approva definitivamente e quasi all' unanimità l'allargamento del diritto di voto ai 18enni per Palazzo Madama. Non più gli over 25 ma anche gli under potranno scegliere i senatori. Ne sentivano il bisogno? Non parrebbe. E comunque: dal prossimo appunto per le Politiche (nel 2023 presumibilmente) 4 milioni di ragazzi si aggiungeranno nella platea elettorale. Per la promulgazione di questa legge costituzionale - votata ieri con 178 sì, 15 no e 30 astenuti - dovranno passare tre mesi, durante i quali potrà essere richiesto il referendum confermativo: il 9 giugno scorso infatti la Camera ha approvato il ddl senza raggiungere il quorum dei due terzi. Intanto siamo agli entusiasmi, e quello di Enrico Letta è incontenibile: «Fino ai ieri un giovane tra i 18 e i 25 anni aveva un potere dimezzato rispetto agli altri elettori più anziani. Votava solo alla Camera. Da adesso voterà anche per il senato. Un piccolo ma concreto passo per dare più forza alla voce dei giovani». 

RUBABANDIERA Sì, i ggiovani. Toglierli ai Ferragnez e recuperarli ai partiti sembra impresa disperata. E non è certo il contentino del voto dei 18 per il Senato - e anche il voto in generale ai 16enni su cui sempre il Pd insiste assai, parlando addirittura di «rivoluzione generazionale» per questa eventuale riforma non chiesta dai giovani ma dai giovanilisti - quello che appare molto adatto per recuperare un minimo di attenzione da parte dei ragazzi e delle ragazze che a milioni (di follower) si riversano sui Ferragnez e su altri interessi che non sono il Nazareno o altre botteghe partitiche. Sui quali i clic e i like dei millennials non si riversano e continueranno a non riversarsi. Il paradosso è che questo tipo di iniziative legislative per i ggiovani, nel disinteresse dei destinatari, coincide con una fase in cui esistono altri problemi di grande impellenza per le sorti della nazione. Esempio. L' Unione Europea dà all' Italia una pagella da incubo sulla giustizia - processi lentissimi, scarsa indipendenza dei giudici, risorse umane insufficienti negli uffici e nei tribunali e dunque Bruxelles dice: o fate le riforme o non vi diamo i soldi del Pnrr - ma il Palazzo è tutto contento per il regalo non richiesto donato ai propri ragazzi quando si potrebbe fare molto altro e molto di più, ossia grandi riforme strutturali, invece di un pannicello caldo come il voto senatoriale ai 18enni e poi magari ai 16enni. E verrebbe da allargare il discorso alla legge Zan. Naturalmente importante: ma è davvero una priorità, mentre la Ue ci chiede riforme di sistema - non solo la giustizia ma anche il fisco, la burocrazia, le infrastrutture - e vincola alla loro realizzazione l'assegnazione dei soldi del Recovery Plan?

I NODI VERI E' curioso che, tra le tante riforme necessarie alla Costituzione, quella meno sentita e di cui meno si è parlato - cioè appunto questa del voto ai 18enni per il Senato - è l'unica che viene fatta. Nell' indifferenza dei più. A riprova che i partiti, mentre Draghi governa e cerca di garantire all' Europa che le riforme di sostanza le faremo, per lo più si cimentano su temi che - si veda anche l'insistenza dem sullo ius culturae - non sembrano in questo momento appassionare le masse.

Evviva il voto ai ragazzi, insomma, ma evviva soprattutto tante altre cose, ossia - se ci saranno - i grandi interventi per l'economia, per la crescita, per il lavoro.

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 9 luglio 2021. «Quando si aprono nuovi bacini elettorali, c' è sempre una certa attenzione da parte dei partiti. Sono situazioni che possono creare cambiamenti», dice Edoardo Novelli, professore di comunicazione politica all' università RomaTre. 

Quali precedenti ci sono nella storia italiana?

«Il voto alle donne nel 1946 fu una novità consistente: era il 50 per cento della popolazione, meno politicizzato e alfabetizzato, di orientamento prevalentemente cattolico. Ma non si crearono particolari cambiamenti, a differenza di quanto accadde negli Anni 70». 

In che senso?

«L' altra grande novità fu nel 1976, con l'abbassamento a 18 anni dell'età per votare per la Camera. Era una situazione particolare: significava l'immissione di una grande quantità di persone, tutti i figli del boom economico». 

Quali erano le differenze?

«In questo caso la politicizzazione era molto forte, due anni prima il referendum sul divorzio aveva mostrato l'esistenza di una società radicalmente cambiata, nel 1975 c' era stata la grande avanzata del Pci alle elezioni amministrative con il supporto dei movimenti extraparlamentari». 

Uno spostamento a sinistra ci fu?

«La Dc era molto preoccupata dopo queste sconfitte e lo temeva. In effetti le elezioni segnarono un ulteriore avanzamento del Pci, pur senza sorpasso». 

E poi non è successo più nulla, come mai?

«Nel 2005 si era tentata un'operazione di allargamento con l'introduzione delle primarie dell'Unione per selezionare il leader della coalizione. Votarono sedicenni e immigrati residenti e fu un successo». 

Adesso qual è la situazione?

«In assenza di grandi cambiamenti, ci sono due forbici: la disaffezione al voto, con percentuali calanti di affluenza soprattutto tra i giovani, e di conseguenza il tentativo di ampliare il bacino elettorale. Il punto è che i giovani sono proprio i più disaffezionati». 

Che effetti potrebbe avere la riforma?

«Il numero di giovani interessati è relativamente contenuto. E poi la riduzione del numero dei parlamentari annacqua la potenzialità "destabilizzante" di questi voti. E poi mentre nel 1970 l'orientamento era verso sinistra, ora il quadro è più equilibrato, ci sono posizioni più conservatrici». 

Come reagiranno i giovani?

«La fame di partecipazione non è così diffusa. L' idea di poter partecipare potrà avere, se non altro all' inizio, un qualche effetto. Ma non prevedo code ai seggi». 

Perchè?

«Una legge elettorale con liste bloccate disincentiva la partecipazione. E poi la vera questione riguarda l'offerta politica per i giovani e il linguaggio della comunicazione con riferimento a una generazione che comunica in modi completamente nuovi. Un quadro politico confuso difficilmente suscita partecipazione. Insomma: i giovani come e per cosa dovrebbero andare a votare?». 

 "Versione luxury...", "Influencer..". La bufera su Fedez. Francesco Curridori il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. Fedez e sua moglie Chiara Ferragni dettano l'agenda della politica, soprattutto sul Ddl Zan. A tal proposito ecco le opinioni dei deputati Augusta Montaruli (FdI) e di Fausto Raciti (Pd) per la rubrica Il bianco e il nero. L'attivismo di Fedez e di sua moglie Chiara Ferragni a favore del Ddl Zan continua a dividere la politica. Per la rubrica Il bianco e il nero abbiamo interpellato la deputata di FdI, Augusta Montaruli e il piddino Fausto Raciti. Cosa pensa dell'impegno mediatico di Fedez a favore del ddl Zan?

Montaruli: “Che appunto è mediatico e l’impegno non può essere consegnato ai like. Dopodiché il lusso non fa lo stile e la notorietà non fa la verità. Il tentativo di utilizzare la popolarità del personaggio Fedez così come di altri per fare pressione sull’approvazione del ddl zan avviene perché se gli stessi si calassero nella piazza reale subirebbero un irresistibile contraddittorio”.

Raciti: “Non ci vedo nulla di male né nulla di strano, da sempre le personalità della musica, della cultura, dello sport, del cinema, dicono la loro. Che Fedez faccia una diretta Instagram su un argomento popolare è del tutto in linea col suo modo di comunicare. È un influencer, no?”.

Secondo lei, Fedez punta a entrare in politica? Potrebbe avere successo?

Montaruli: “Non so a cosa punti Fedez sicuramente interpreta il suo personaggio da influencer. Non credo quanto un like possa trasformarsi in un vero consenso. Spero ancora che la politica sia un’altra cosa”.

Raciti: “Mi sembra uno abbastanza contento della vita che fa e dei soldi che guadagna col suo lavoro. Lavoro che sa fare molto bene dato che mi sta facendo un'intervista su di lui. Purtroppo molti politici sembrano degli influencer o gli piacerebbe sembrarlo, da un lato. Dall'altro il partito di maggioranza relativa è stato fondato e guidato da un comico”.

I politici fanno veramente tutti schifo, come dice la Ferragni oppure una frase del genere stavolta indigna meno perché è rivolta a Renzi che vuol modificare il ddl Zan?

Montaruli: “I politici non fanno tutti schifo e dirlo è grave sempre ancora di più se a prescindere dalle posizioni lo dice una persona che ha l’ambizione di comunicatore a tanti italiani soprattutto giovani. Minare la fiducia nei confronti dei politici e del dibattito politico è fare un danno alle nuove generazioni. Stiamo assistendo ad un grillismo versione luxury”.

Raciti: “Lo chiede a uno che si è iscritto a un partito a 15 anni e oggi fa il parlamentare, non sarò mai d'accordo con una cosa così qualunquista. Detto questo il nostro parlamento è pieno di gente che ci è entrata dicendo esattamente la stessa cosa. La Ferragni non è stata molto originale”.

Stefano Feltri, direttore del Domani, ha proposto di regolamentare Per legge l'influenza degli influencer. Lei sarebbe d'accordo?

Montaruli: “La differenza tra noi e Fedez è che noi rispettiamo la libertà di pensiero per questo non credo che ci possano essere provvedimenti che la limitano. Per ottenere par condicio versione social sarebbe già tanto arrivare ad impedire censure che attualmente avvengono da parte dei gestori ma sempre e solo a senso unico contro un’unica parte politica o persone che interpretano idee non compiacenti ai colossi della comunicazione”.

Raciti: “Non ho capito cosa dovremmo regolamentare. Mi sembra come quando si diceva che Berlusconi vinceva le elezioni per le televisioni di cui era proprietario. Poi ti accorgi, e le difficoltà di Forza Italia oggi lo dimostrano, che la situazione era un po' più complessa. Invece di fare leggi sugli influencer bisogna farle sui partiti, che oggi sono formazioni di latta. E finanziarli anche, perché è lì che si dovrebbe formare una classe dirigente”.

Fedez ha detto che avrebbe messo a disposizione una piattaforma online per discutere di politica. Non è un film già visto e mal riuscito?

Montaruli: “Assolutamente sì , non sarebbe una novità. La democrazia non può essere mai appannaggio di un click ed anche chi si è illuso in passato di ciò ha avuto e sta avendo in questo periodo la conferma del fatto che tali piattaforme hanno ridotto lo spazio di confronto”.

Raciti: “Non saprei che dirle. Mi sembra che quel tipo di cose le abbiano già fatte con successo altri, oggi in crisi. Non so se c'è ancora lo spazio per quel tipo di cose. Ma quindi non mi voleva parlare del ddl Zan? “ 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

Chiara Ferragni e Fedez, se sul ddl Zan superano Letta a sinistra. Riecco la coppia dei miracoli contro il compromesso sull'omotransfobia (ma ci sarà un motivo se le femministe sono contro la legge, no?) Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 09 luglio 2021.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Rieccoli all’attacco. Riecco i Ferragnez in versione arcobaleno, nella consueta posa da templari del Ddl Zan, mentre la legge contro la omostransfobia s’arrampica su sentieri legislativi tortuosi, ostacolata dal centrodestra, dal Vaticano e dal Renzi Matteo che butta un occhio al proprio elettorato cattolico e l’altro al suo nuovo palcoscenico. Dunque, avviene questo. Di prima mattina l’influencer da 20 milioni di followers Chiara Ferragni pubblica, a raffica, tre stories su Instagram immerse nella denuncia sociale e nel dileggio del Palazzo. Nella prima storia, in particolare, svetta una foto di Matteo Renzi con sopra la scritta “L’Italia è il paese più transfobico d’Europa” (cosa, peraltro non vera); e il commento: “Che schifo che fate politici”. Che suona un po’ come “quelli che la politica è una roba sporca” della canzone di Enzo Iannacci sul qualunquismo. E spiegazione dello “schifo” non è esattamente un articolato di legge: «La triste verità è che nonostante una legge che tuteli donne, disabili e persone appartenenti alla categoria lgbtq+ serva nel nostro paese e sia attiva nel resto dell’Europa da decenni, in Italia non verrà mai approvata perché la nostra classe politica preferisce guardare sempre il proprio interesse personale. La tutela contro l’odio verso queste categorie dovrebbe essere un obiettivo di tutta la popolazione e di tutti i partiti politici e il fatto che il ddl Zan non verrà probabilmente mai approvato è una grande sconfitta per tutti noi. Una sconfitta per ognuno di noi». Renzi che nei social ci zampetta assai, viene tramortito dall’impeto di Ferragni, e replica su Facebook: “Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista”. E continua il segretario di Italia Viva: “Da una persona che stimo mi aspetterei un confronto nel merito. Perché sapete chi fa davvero schifo in politica? Fa schifo chi non studia, chi non approfondisce, chi non ascolta le ragioni degli altri, chi pensa di avere sempre ragione”. Non che Renzi abbia tutti i torti. Anche perché pur il senatore ribadendo e articolando tutti i punti su cui Iv chiederà la modifica del ddl Zan –ossia gli articoli 1,4 e 7 su definizione di genere, libertà d’espressione e autonomia delle scuole cattoliche- non riesce ad ottenere dalla Ferragni che una silente indifferenza. Renzi si dice anche “pronto a un dibattito pubblico con la dottoressa Ferragni, dove vuole e come vuole. Sono sempre pronto a confrontarmi con chi ha il coraggio di difendere le proprie idee in un contraddittorio. Se ha questo coraggio, naturalmente”. Ma pare che Chiara, impegnata nella pubblicità di un prodotto per capelli di cui è testimonial non abbia questo coraggio. O forse, banalmente, non ha tempo. L’indifferenza è l’ultimo terrore, scriveva Tommaso Landolfi (e Renzi, all’indifferenza, è molto sensibile). Ma ecco, ad un tratto, intervenire Fedez, nelle veci della moglie, stavolta via Twitter. “Stai sereno Matteo, oggi c’è la partita. C’è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia”, dice il rapper. Ce ne fosse uno che usasse lo stesso social. Reazioni politiche? Pochissime, la materia è incandescente. C’è giusto l’ipercattolico Mario Adinolfi: «Con il mio nuovo look fresco e estivo mi rendo conto di non poter competere con lo stile di Chiara Ferragni e del marito Fedez. Allo stesso modo, consiglio ai suddetti d’adottare messaggi dubitativi quando s’occupano di politica, evitando il qualunquismo e accettando il confronto». E neppure Adinolfi ha torto. Anzi, in questa ennesima querelle, dal loro punto di vista, avrebbero tutti ragione. Ha ragione Chiara Ferragni nel dire che non c’è interesse della classe politica ad attuare una “legge di civiltà”; pure se non ha interesse nemmeno la sinistra ad andare al voto in aula senza modifiche, a testa bassa, senza avere i numeri, col voto segreto (anche perché se passa così è un trionfo ma se non passa la colpa sarà comunque di Renzi e di Salvini). E ha ragione Renzi quando richiama l’arte del compromesso in politica e dice che è meglio una legge lievemente modificata che nessuna legge (d’altronde le Unioni civili sono nate stralciando la stepchild adotion, e pure il Concordato e lo Statuto dei lavoratori sono stati il frutto di accordi). La differenza tra la coppia shakespeariana dei social e i politici che “fanno schifo” sta nel fatto che per i primi non puoi pensarla diversamente da loro che subito ti scaraventano addosso la forza d’urto dei propri followers. Ma, in realtà, cari Fedez e Ferragni, servirebbe far transitare le idee. Per esempio: vi siete chiesti se passasse l’interpretazione dell’art.1 della Legge Zan che fine farebbero le quote rosa? Ci sarà un motivo se molte femministe sono incazzatissime contro lo Zan? Dite che Renzi in Senato ripudia il testo che aveva firmato alla Camera? Certo, ma non era intervenuta la Santa Sede col suo elettorato. Magari la politica farà schifo, ma se la si prendesse sul serio ho idea che varrebbe della marca di una lacca o di legioni di followers… 

Fedez e Chiara Ferragni, figuraccia colossale sul ddl Zan: per chi scambiano Ivan Scalfarotto. Libero Quotidiano il 10 luglio 2021. Figuraccia colossale per Fedez e la consorte Chiara Ferragni, ormai divenuti paladini della sinistra pro-ddl Zan. Peccato però che sulla legge contro l'omotransfobia la coppia di influencer sappia ben poco. È bastata la diretta Facebook tra il rapper, Pippo Civati ex deputato dem della Brianza, Marco Cappato ed Alessandro Zan, il promotore della legge, a dimostrarlo. "Nell'imbarazzo - spiega Il Tempo -si ritrova, l'onorevole Zan, a dover spiegare al Lucia (cognome di Fedez), quelli che sono i meccanismi parlamentari difendendo pure Matteo Renzi". Il quotidiano romano parla di continui "strafalcioni". Uno a caso? Il marito della Ferragni scambia Ivan Scalfarotto, deputato renziano, per un giornalista. Non solo perché poi il rapper si lascia andare a difese ridicole: "Mia moglie è una imprenditrice e dice ciò che pensa come cittadina italiana. Renzi è invece pagato dagli italiani". E ancora: "Che Renzi voglia confrontarsi con mia moglie, è qualcosa di imbarazzante". E in effetti, visto il livello...La nota più divertente della diretta è però il siparietto che vede coinvolta proprio la Ferragni che a un certo punto manda un messaggio in diretta, ricordando a tutti quanti, l'importanza del dibattito in corso: "Ciao Fede amore mio, che fai? Mi saluti in diretta?". Chiarissimo. 

Francesco Olivo per "la Stampa" il 9 luglio 2021. Più degli emendamenti poterono i post. Una storia, un tweet, un video di pochi secondi può cambiare il codice penale e magari anche il risultato elettorale. Per Elodie i politici «sono indegni». Per Chiara Ferragni «fanno schifo». Alessandra Amoroso mostra la mano con lo slogan e l'hashtag disegnato, Fedez attacca Renzi. Milioni di visualizzazioni, tantissimi like. Segue dibattito, ma dura il tempo di una «storia» su Instagram. Emozioni molte, e impegno, forse effimero ma molto diffuso. Al centro dello scontro c' è il ddl Zan, il disegno di legge contro l'omo-transfobia, che è finito quasi da subito dallo stenografico del parlamento alla popolarità, ormai non più virtuale, dei social. Con gli influencer, grandi e piccini, che dominano la scena e i politici costretti ad adeguarsi, quasi mai ribellandosi. Dietro ci sono rischi e opportunità: un dibattito semplificato e superficiale, che però per la prima volta non esclude la cosiddetta generazione Z, che volutamente evita la politica dei partiti (spesso ricambiata) e diffida dei media tradizionali. I numeri dell'Osservatorio di Buzzoole, una società che si occupa del cosiddetto «influencer marketing», certificano la realtà: da gennaio a oggi sono oltre 12 mila i post pubblici degli influencer, etichettati con gli hashtag della campagna a favore del disegno di legge (#ddlzan; #iostoconzan; #alessandrozan; #leggezan). Le persone raggiunte, sempre secondo i calcoli di Buzzoole, sono 5,5 milioni. Così, se ci si limita a seguire la vicenda parlamentare di un disegno di legge, si rischia di perdere il grosso dello scontro nel Paese. «Il ddl Zan funziona molto bene sui social è un tema adatto per la costruzione di una propria identità - spiega Nicoletta Vittadini, docente di Sociologia della Comunicazione e dei Media Digitali alla Cattolica di Milano -, con una dinamica polarizzata tipica del tifo, si è pro o contro e lo si esprime negli spazi pubblici di oggi». Quello che appare chiaro è che questo modello non scomparirà presto: «Non ce ne libereremo - dice Alberto Marinelli, professore di Sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma -, si è creato uno schema in cui la politica, in forma più o meno consapevole, assume le forme delle piattaforme: messaggi secchi, semplificati, a volte settari. I primi a capirlo sono stati Trump e in Italia Salvini e ora la cosa si estende. I partiti non controllano il dibattito, ma gli corrono dietro, cavalcandolo o al limite tacendo». Non è la prima volta che l'introduzione o, come in questo caso, l'estensione dei diritti provoca divisioni nel Paese, «ma nel caso dell'aborto o del divorzio - conclude Marinelli - il Parlamento aveva la consapevolezza della propria centralità e i partiti non rinunciarono a operare delle mediazioni». Proprio la difficoltà di trovare compromessi, come emerso in questi giorni, «è la conseguenza dell'aumento della polarizzazione e dello scontro tra tifoserie - spiega Giovanni Diamanti, comunicatore politico, co-fondatore di YouTrend -, ma va sottolineato che gli influencer avvicinano alla politica una generazione la cui fiducia nei partiti è inferiore al 10 per cento. Sul ddl Zan in tanti stanno partecipando per la prima volta al dibattito pubblico ed è un fatto rilevante». L' allargamento del pubblico è il dato più rilevante, secondo Vincenzo Cosenza, responsabile del marketing di Buzzoole, «sono molte di più le persone alle quali arrivano le informazioni. Magari sono pochi quelli che approfondiscono, ma è comunque un allargamento. La politica ora subisce la fascinazione, d' ora in poi dovrà tenere conto degli influencer, le aziende già lo fanno da tempo». C' è poi una nuova frontiera: i media si concentrano sulle "celebrities", «ma stanno nascendo influencer impegnati su temi specifici, come l'ambiente e le questioni di genere. Non hanno ancora il seguito dei più noti, ma stanno crescendo». «La pandemia ha cambiato molte cose - conclude Vittadini -. Durante la pandemia gli influencer hanno preso posizioni che sono state molto valorizzate, aiutando la campagna di vaccini. Ora hanno un ruolo ed è impossibile non considerarli».

Chiara Ferragni contro Renzi e Salvini: "Politici, fate schifo". Ddl Zan e insulti: "Sei hai coraggio, parliamone". Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Ci mancava solo Chiara Ferragni contro Matteo Renzi. La polemica sul Ddl Zan spacca la sinistra e fa guadagnare ai suoi leader una bella raffica di insulti. Per Matteo Salvini, due piccioni con una fava. L'influencer, potentissima su Instagram, è da tempo schierata insieme al marito Fedez a favore della legge contro l'omostransfobia sostenuta dal Pd e difesa a spada tratta da Enrico Letta, mentre il leader di Italia Viva si è schierato a favore dell'alternativo Ddl Scalfarotto, alla ricerca di un "compromesso" con la Lega per far passare "una buona legge". All'insegna del motto "piuttosto che niente, meglio piuttosto". Ma la Ferragni non ci sta e sui social tuona, senza mezzi termini, contro il Parlamento che non sa (o non vuole) decidere su un argomento spinoso sì, ma molto sentito dai giovani. "Entra nel dibattito sulla Legge Zan dicendo ai suoi 24 milioni di follower 'Che schifo che fate politici', con la mia faccia - scrive su Facebook Renzi, in tutta risposta - Sono pronto a un dibattito pubblico con la dottoressa Ferragni, dove vuole e come vuole. Sono sempre pronto a confrontarmi con chi ha il coraggio di difendere le proprie idee in un contraddittorio. Se ha questo coraggio, naturalmente". Già a maggio, al famoso concertone, Fedez si era schierato a favore del Ddl Zan e accusando la Lega di posizioni omofobe, per poi montare la polemica contro la Rai che a suo dire aveva tentato di censurarne il monologo sul palco. "L'Italia è il Paese più transfobico di Europa - è l'accusa ora della Ferragni -. Ed Italia viva (con Salvini) si permette di giocarci su". La foto di Renzi e la scritta "Che schifo che fate politici" era piuttosto inequivocabile. "Ho sempre difeso Ferragni da chi la criticava quando postava dagli Uffizi o da chi vorrebbe minimizzare il ruolo degli influencer - continua Renzi nella sua replica -. Lo faccio anche oggi. Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista. Dire che i politici fanno schifo è il mediocre ritornello di chi vive di pregiudizi. Da una persona che stimo mi aspetterei un confronto nel merito. Perché sapete chi fa davvero schifo in politica? Fa schifo chi non studia, chi non approfondisce, chi non ascolta le ragioni degli altri, chi - incalza - pensa di avere sempre ragione. Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge - ammonisce - dura più di una storia su Instagram. Per firmarla ho preso insulti, ho rischiato la vita del governo, ho fatto compromessi".

Ddl Zan, Pietro Senaldi contro Fedez dopo gli insulti a Renzi: "L'uomo delle caverne di Chiara Ferragni, maschilista con la clava". Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. "Si scopre che anche le menti più evolute e moderne hanno istinti da uomini delle caverne". Pietro Senaldi, condirettore di Libero, interviene oggi sul botta e risposta tra Chiara Ferragni - che ha attaccato Matteo Renzi perché non condivide le sue idee sul Ddl Zan -, il leader di Italia Viva e il rapper Fedez. Senaldi ricorda che "Chiara Ferragni è la più grande influencer italiana, una potenza economica, mediatica in confronto alla quale Renzi è polvere sul comò". Il problema, è che "anziché lasciarli dibattere fra di loro", puntualizza il direttore, "interviene il John Wayne della situazione, il maschio forte: Fedez. Che subito tira fuori tutta l'attrezzatura in difesa della moglie dicendo, con la consueta gentilezza che 'Renzi piscia sulla testa degli italiani'". "Un comportamento, quello di Fedez, che è maschilista", dice Senaldi che continua rivolgendosi direttamente al rapper: "Tu sei sposato con la donna più potente d'Italia, lei critica legittimamente un politico anche se lo fa in maniera ruvida, il politico risponde in maniera più garbata di come è stato trattato, e tu subito devi tirare fuori la clava". "Francamente è un po' ridicolo", puntualizza il direttore Senaldi facendo notare che "siccome i Ferragnez non hanno grande classe, prenderanno una bella lezione da Renzi". "Immagino che Agnese, la moglie di Renzi, non risponderà in difesa del marito perché ha una classe superiore", conclude Senaldi.

E Fedez risponde: "Matteo stai sereno". Rissa tra Renzi e i Ferragnez sul ddl Zan: “Banale e qualunquista dire che i politici fanno schifo”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Quel voltafaccia, quell’antipatico, quel machiavellico opportunista di Matteo Renzi e di tutta Italia Viva. Chiara Ferragni, e il marito Fedez, per brevità detti Ferragnez, si sono indignati per l’inversione a U di Iv sul ddl Zan. “Che schifo che fare politici”, ha scritto l’influencer condividendo una stories della pagina felicementelgbt che recitava: “L’Italia è il Paese più transfobico d’Europa ed Italia Viva (con Salvini) si permette di giocarci su!”. È scoppiato un caso, soprattutto sui social network, riguardo al disegno di legge che sta agitando e dividendo la politica negli ultimi mesi. Renzi ha risposto, ha proposto un dibattio. Fedez è intervenuto e ha rispolverato lo “stai sereno” di renziana matrice e memoria, ai danni dell’allora premier e attuale segretario del Partito Democratico Enrico Letta. Il punto è sempre il Ddl Zan dunque. Prevista oggi pomeriggio la calendarizzazione del disegno di legge contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo. È stato approvato alla Camera nel novembre 2020 e in impasse al Senato per l’opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e parte di Forza Italia. Il relatore è il leghista Andrea Ostellari. All’ultimo giorno e momento disponibile Iv ha presentato i suoi emendamenti gettando scompiglio sul ddl. Renzi & co. hanno proposto modifiche agli articoli 1, 4, 7 del testo di legge, gli stessi fortemente contestati da Lega e Forza Italia. A firmare gli emendamenti il capogruppo al Senato Davide Faraone e il capogruppo in commissione Giustizia Giuseppe Cucca. I passaggi più delicati prevedono di cancellare il riferimento all’”identità” di genere” e “tornare al testo di Ivan Scalfarotto dove si parlava soltanto di omofobia e transfobia” e quindi il rispetto “dell’autonomia scolastica” per quanto riguarda l’istituzione della Giornata contro omotransfobia prevista dall’articolo 7. Italia Viva aveva votato la legge alla Camera. Da qui il patatràc degli ultimi giorni. E l’indignazione dell’influencer italiana più famosa al mondo, e tra le più famose al mondo in assoluto, oltre che la più imitata e anche corteggiata, anche dalla politica, sulla quale negli ultimi tempi non ha esitato a esprimersi, in particolare sulla gestione della pandemia. “Fa bene Chiara Ferragni a dire quello che pensa. Solo che da lei mi aspettavo qualcosa in più di una frasina banale e qualunquista. Dire che i politici fanno schifo è il mediocre ritornello di chi vive di pregiudizi”, ha osservato Renzi sulla sua pagina Facebook rispondendo alla stories di Ferragni. “Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge dura più di una storia su Instagram. La politica è serietà, passione, fatica: non è un like messo per far contenti gli amici – ha aggiunto l’ex premier – Se Chiara Ferragni vuole confrontarsi sugli articoli 1, 4, 7 della legge Zan e sugli emendamenti Scalfarotto io ci sono. Se chiara Ferragni vuole conoscere come funziona il voto segreto al Senato, ai sensi dell’articolo 113.4 del Regolamento, io ci sono. Se Chiara Ferragni vuole discutere, criticare, approfondire io ci sono. Ma sia chiaro. La politica, cara Ferragni, è un’attività nobile e non fa schifo. E la politica si misura sulla capacità di cambiare le cose, non di prendere i like”. Un dibattito tra un politico, ex premier, contro un’influecer sarebbe sicuramente un inedito. I dibattiti ormai vanno avanti d’altronde a colpi di post. E infatti: manco il tempo di postare che è arrivato il post, decisamente più aggressivo, di Fedez: “Stai sereno Matteo, oggi c’è la partita. C’è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia”. Fedez che pure si è costantemente espresso sul Ddl Zan facendo scoppiare un mezzo caso sul palco del Primo Maggio, nell’ultima edizione, leggendo un messaggio e accusando la Rai di averlo voluto censurare. Nessun accordo intanto fuori dai social: alle 16:30 in Senato di voterà per calendarizzare il testo in Aula per il 13 luglio. Italia Viva si è impegnata a votare tale calendarizzazione con Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali. Il centrodestra avrebbe provato a portare a domani il voto di oggi. Niente da fare.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro. 

Selvaggia Lucarelli? Se non nomini Alessandro Zan ti bastona: "Non so se è peggio Chiara Ferragni o Matteo Renzi", a cosa si è ridotta. Libero Quotidiano il 06 luglio 2021. Poteva mai la sacerdotessa del giusto, ovvero Selvaggia Lucarelli, esimersi dall'alzare il metaforico-ditino social e dire la sua sul caso politico del giorno, ossia la presa di posizione di Chiara Ferragni contro Matteo Renzi in primis ma anche contro Matteo Salvini? L'influencer, infatti, si è spesa in un democraticissimo "che schifo i politici" riferendosi ai due, "rei" - secondo l'insindacabile giudizio della Ferragni - di star brigando per limare il ddl Zan, così come chiesto dalla Lega. Insomma, la Ferragni appiattita sulle posizioni del Pd: vietato il dialogo, o il ddl Zan lo si fa così come chiesto e imposto dalla sinistra o si fa "schifo", ci permettiamo di produrci in una brevissima sintesi del pensiero della moglie di Fedez, il rapper più amato dalle bambine il quale, parimenti, si è assai speso in favore del ddl Zan (tutti ricorderanno la sceneggiata del presunto martire Fedez, quando gridò alla censura contro la Rai in occasione del concertone del primo maggio, salvo poi essere tutto tranne che censurato). Bene, e dopo queste lunghe e inevitabili premesse, ecco che si arriva alla sacerdotessa del giusto. La sentenza di Selvaggia Lucarelli, va da sé, piove su Twitter, laddove cinguetta: "Non so se è peggio la Ferragni che 'CHE SCHIFO I POLITICI' dimenticando che anche Alessandro Zan è un politico o Matteo Renzi che la invita a UN CONFRONTO", conclude la Lucarelli. Se ne evince, insomma, che per certo Renzi le faccia schifo. Ma anche la Ferragni, insomma, tanto giusta non è: si è addirittura dimenticata di mettere tra le esenzioni a quel "che schifo" il piddino Alessandro Zan, dimenticanza questa che, per la sacerdotessa del giusto Selvaggia, è più che sufficiente per provare "schifo", nei confronti della Ferragni. La sacerdotessa ha sentenziato... 

Selvaggia Lucarelli per "tpi.it" il 9 luglio 2021. Confesso che avevo paura di guardare l’incontro Fedez/Civati/Zan/Cappato perché temevo la sensazione atroce che mi avrebbe permeata in seguito. E in effetti la sensazione che mi permea dopo essermi sorbita un’ora di Fedez è che siamo sempre troppo severi nei confronti di Matteo Renzi. Che è quello che è, senza sconti, ma sa quello che dice, sempre. Il problema insuperabile di Fedez è quello di non sapere mai nulla di quello che dice oltre le 4 cose che gli segnalano le Fiorellino98 sul web o che si appunta sulla mano come in terza elementare e di diffonderle, però, con il piglio del rivoluzionario cubano. Mi ricorda un po’ Flavia Vento quando parlava di animali, che a forza di sentirle dire scemenze pure quando nella sostanza aveva ragione, si finiva per comprare un fucile a canne mozze per impallinare cerbiatti. Io una volta dopo che ho sentito Flavia Vento dire che “Verrà un giorno che io sarò premier, tutti saranno felici, i canili non ci saranno più e le guerre pure”, ho mangiato una marmotta viva. E il bello è che Fedez ha fatto una figura incresciosa giocando in casa con quei tre fuoriclasse amici di Civati/Zan/Cappato, figuriamoci cosa potrebbe fare in un confronto con degli avversari. Ti credo che rifiuta il caffè con Salvini. Roba che probabilmente scapperebbe prima di aver girato lo zucchero come Sandra Milo chiamando Ciroooooo e la Lega arriverebbe al 98 per cento, con voto della Boldrini incluso. Come al solito, la moglie che si sottrae alla dialettica e scrive banalità nelle sue storielle su Instagram senza rischiare nulla, è più furba di lui. Conosce i suoi limiti, si ferma prima. Lui no. Lui si lancia con la superba vanità dell’arruffapopoli, con un italiano zoppicante, con una totale assenza di cultura giuridica e politica ma con indosso la maglietta del suo podcast che vende come gadget perché “parlo di ddl Zan e la foto finirà nelle home di tutti i siti, mica so’ scemo”. E quindi, in questa surreale diretta in cui con le facce imbarazzate dei suoi interlocutori si potrebbero ricreare le controfigure del pubblico di Sanremo durante “Dov’è Bugo?”, succede nell’ordine che:

a) Fedez premette subito che segue la politica, è appassionato, ha una coscienza civica e politica quindi lui si interessa di questi temi e ha il diritto di parlare. 

b) Che uno dice “e va bene, parla”. Parla “Ora vi leggo una cosa che ha scritto il giornalista Scalfarotto”. IL -GIORNALISTA-SCALFAROTTO. Cioè, Scalfarotto è da mesi sui tutti i giornali e le tv prima per le dimissioni da sottosegretario dal governo assieme alle due ministre, ora per aver rivisto la sua posizione sulla legge Zan, dopo che lui stesso ne era stato firmatario. In questi giorni occupa la discussione politica, la infiamma, è accusato da tutta la comunità Lgbt (o quasi) di essersi venduto a Renzi e Fedez, l’appassionato di politica e il grande sostenitore della Legge Zan, crede che anziché un deputato e sottosegretario sia un editorialista di Libero.

c) Quando dice “il giornalista Scalfarotto” a Zan viene la faccia di quello che non sa se correggerlo tipo quando Di Maio ha detto che Matera era in Puglia e Emiliano ha suggerito “no, in Basilicata” sottovoce, tipo anche un po’ ai bambini quando si stanno scaccolando al ristorante e non vuoi sgridarli ad alta voce. Zan alla fine sceglie saggiamente di fingersi morto e di farlo finire di leggere le parole del giornalista Scalfarotto sperando che non citi anche la testata perché se poi dice “sull’Unità di oggi” gli deve anche spiegare che l’Unità non esce più da un po’.

d) Poi Fedez chiarisce che Zan (?), Cappato e Civati gli piacciono perché fanno politica fuori dal palazzo e allora uno dice “Accidenti, non conosce quelli che stanno nel palazzo, conosce quelli che stanno fuori!”. Ma tu pensa. 

e) Allora inizia a chiarire finalmente quello per cui si sta battendo da quando sul palco del Primo Maggio ci ha ricordato che i lavoratori ‘sti cazzi dello stipendio e dei licenziamenti anche perché io so’ testimonial Amazon e devo distrarvi, devo sventolare il drappo rosso sennò il toro incorna me. E allora uno dice: bene ora finalmente ci spiega i nodi principali della battaglia.

f) Solo che lui non ha capito niente del ddl Zan e, come la Meloni che però ha la faccia di dire “il gender non so che sia”, non ha capito neppure cosa sia l’identità di genere. Notare che l’identità di genere è il cuore del dibattito che vuole cavalcare, della legge che sostiene, delle paure delle destre che lui schifa, dell’avversione nei confronti della Legge che vuole venga approvata. E quindi Fedez, nella sua beata ignoranza, afferma: “Ho visto un video bellissimo con una ragazza che ha in mano la carta di identità e dice ‘guardate ho cambiato sesso!’, insomma, ha cambiato la sua identità di genere!”.

Zan fa di nuovo la faccia di Emiliano con Di Maio a Matera patria delle orecchiette con le cime di rapa. Ma Zan è un uomo buono, un tollerante vero sennò avrebbe chiuso la diretta in tutta fretta dicendo che aveva yoga e fa lo gnorri. Non gli spiega che l’identità di genere è come uno si percepisce al di là di un eventuale percorso di transizione e dell’eventuale cambio di sesso. Ma Fedez non lo sa, si crede beatamente istruito e preparatissimo e sorride senza sospettare l’immane figura di merda che ha appena fatto.

g) Poi comincia a discettare di ego, di idea grandiosa di sé, di manie di protagonismo, di cose fatte non per reale interesse ma per obiettivi altri e di una tendenza accentratrice. Si riferisce a Renzi ma potrebbe tranquillamente parlare di sé, nessuno noterebbe la differenza. 

h) Poi è tutto un premettere “io sono una mente semplice”, “io sono ignorante”, “io non so niente eh però”, che uno dice: e allora visto che hai milioni di follower e vuoi parlare di politica e diritti civili perché non vai a studiare e torni quando sai qualcosa, per esempio? 

i) Cappato, eroicamente, prova a spiegargli che la questione del voto segreto è un po’ più antica e complessa di come la mette giù lui (“io voglio sapere cosa votano i miei senatori di riferimento!”), ma Fedez è troppo preso dallo stupore di aver scoperto come si fanno i referendum, descrivendo i “banchetti per le firme” come unicorni rosa volanti. 

j) Quindi Fedez spiega che tranquilli, lui e Chiara Ferragni non vogliono buttarsi in politica, ma parlare di politica da cittadini. Che voglio dire, non avevamo dubbi: ce li vediamo i due a rinunciare alle marchette milionarie per uno stipendio da parlamentari, come no. Molto meglio “fare politica” conservando tutti i privilegi del caso, mica scemi.

k) Poi cita Montanelli, che è il giornalista più citato da tutti quelli che non l’hanno mai letto e più in generale da tutti quelli che non hanno mai letto, e questa volta, al contrario che con Scalfarotto, non specifica “giornalista”, quindi sarà stato convinto di citare un ex segretario di partito. 

l) Poi la grande chiusura: “Renzi potrebbe far passare la legge Zan così si fa perdonare l’Arabia Saudita”. E’ certo. Invece lui che va in vacanza con tutta la famiglia a Dubai, altra culla del nuovo Rinascimento in cui i gay sono accolti con le collane di fiori in aeroporto come in Polinesia, è già perdonato. Del resto, mica è un politico, l’ha detto lui. È solo un gran paraculo. E no, non è nemmeno utile a cause che spoglia di profondità, di spessore, di valore. Cause che veste di boria furba e superficiale.

Del resto, per rimanere in tema, è la percezione che ha di sé, il suo guaio, ma per capirlo dovrebbe studiare cosa sia l’identità di genere. Lo farà con calma, magari dopo che una legge di cui non ha capito nulla sarà approvata, chissà. Senza fretta.

Da repubblica.it il 7 luglio 2021. Non è finita. Continua anche oggi lo scontro via social tra politici e influencer. I protagonisti sono sempre i “Ferragnez” contro i due 'Matteo', Renzi e Salvini. L'oggetto? Sempre il ddl Zan, che il 13 luglio sarà all'esame finale dell'aula del Senato. Questa mattina Fedez è tornato sul botta e risposta a distanza tra la moglie Chiara Ferragni e il leader di Italia viva. A colazione con la tazza in mano, ha fatto una nuova storia su Instagram dove ha attaccato di nuovo Matteo Renzi dopo la replica di ieri al commento di Ferragni ("Che schifo che fate politici") sul Ddl Zan e l'invito da parte del leader di Italia viva ad un dibattito sul tanto discusso disegno di legge. "Cogliere la bassezza della politica italiana è vedere Matteo Renzi chiedere un dibattito pubblico a Chiara Ferragni, questa è la cosa triste", commenta il rapper che chiede di non fare più paragoni tra Renzi che "è un politico pagato dagli italiani per rappresentarli" e la moglie che "è un'imprenditrice che non grava sulle tasche degli italiani e che esprime un suo pensiero e può permettersi di farlo anche in maniera banale''. I toni quindi non si abbassano. Oggi anche Matteo Salvini ha lanciato la sua frecciata al rapper di Rozzano: "Renzi nel mirino di Fedez per il ddl Zan? Mi piace l'ultimo pezzo ma io preferisco Orietta Berti". Tra i due la tensione è alta da tempo, soprattutto dopo il Concertone del Primo maggio quando dal palco Fedez ha attaccato il partito di Salvini sul disegno di legge contro la omotransfobia accusando anche la Rai di censura. Ora Ferragni e, di conseguenza anche suo marito, hanno puntato il dito contro Italia viva che ha chiesto modifiche al testo come anche la Lega, altrimenti il disegno di legge in Senato non passerà. "Meglio un compromesso che nessuna legge", ha dichiarato Renzi in una intervista a Repubblica. ''Quello che mi stupisce è che ogni volta che io e mia moglie ci permettiamo di esprimere un nostro libero pensiero sul nostro paese è vedere questa distesa di intellettuali, politici e giornalisti che, dandoci degli ignoranti a noi, non fanno altro che mettere sullo stesso livello il pensiero di Chiara Ferragni e quello dei politici italiani", continua il rapper su Instagram dove ha annunciato la diretta nel pomeriggio dedicata proprio al Ddl Zan. "Per chi volesse approfondire cosa sta succedendo in Senato - spiega - ho organizzato una diretta stasera alle 18.30 con Alessandro Zan, Marco Cappato e Giuseppe Civati, voci più autorevoli della mia, che posso farvi comprendere meglio quello che sta accadendo e che potrà avvenire''. Poi rivolgendosi a Matteo Renzi chiede: "Ci tiene davvero al Ddl Zan o è il solito parac... che ha sempre dimostrato di essere in questi anni di politica italiana? Il voto segreto sul Ddl Zan è davvero necessario? Perché io, mente stupida, semplice e ignorante da cittadino - dice ironico - vorrei sapere che cosa votano i senatori che ci rappresentano per valutare il loro operato e allora perché secretare il loro voto?''. Il leader di Iv risponde con la dedica che compare in "ControCorrente", il suo ultimo libro: "'A chi in quelle ore difficili ha creduto ancora in noi e a chi sa ancora riconoscere la differenza tra politici e influencer'. L'avevo scritta un mese fa. Vedendo quello che sta succedendo in queste ore sembra costruita a tavolino. O fai politica con le tue idee o segui la massa e i populisti. Noi siamo ControCorrente", dice Renzi. Nel dibattito sul ddl Zan interviene anche il segretario del Pd, Enrico Letta: "Nella legge di Orban l'omosessualità è posta al livello della pornografia e la protezione dei bambini è usata solo per discriminare dice @vonderleyen. Noi stiamo con Ue. Salvini e Meloni con Orban. Come si può dar credito alle loro presunte proposte di mediazione sul ddlZan???". Gli risponde direttamente il leader della Lega: "Noi continuiamo a chiedere a Letta ascolto, confronto e dialogo, non è possibile non voler ascoltare e andare allo scontro in aula che significa non approvare nulla - dice a L'aria che tira estate su La7 - Letta parla dell'Ungheria? Ma cosa c'entra l'Ungheria? Perché Letta scappa? Ha paura del confronto, ha paura del Papa e delle associazioni gay e lesbiche che chiedono un confronto?".

Da liberoquotidiano.it il 7 luglio 2021. "A fr****e di m***". Chissà Rosamaria Sorge, dirigente Pd ed ex candidata a Civitavecchia, invocherà il diritto di satira oppure dirà di essere stata fraintesa. Ma la frase scritta dall'incauta e improvvida esponente democratica su Facebook scatena un nuovo psicodramma a sinistra sul Ddl Zan. Sono le ore, caldissime, dello scontro tra Pd e Italia Viva sulla legge contro l'omotransfobia. I dem non rinunciano al disegno il cui capofirmatario è il deputato Alessandro Zan e vogliono lo scontro in aula, il voto che potrebbe far approvare in Senato la norma, oppure affossarla clamorosamente. Dall'altra parte ci sono i renziani, ufficialmente "compagni di coalizione" nel centrosinistra ma in realtà nemici giurati, vuoi per agenda, vuoi per strategia politica vuoi per semplici rancori personali. Matteo Renzi ha sganciato la bomba nei giorni scorsi proponendo a Matteo Salvini e alla Lega una mediazione, "un compromesso per portare a casa una buona legge" piuttosto che fare il gioco delle bandierine ideologiche e rimanere, alla fine, con un pugno di mosche in mano (il rischio che corre Enrico Letta, niente di più, niente di meno). Il terreno della trattativa è rappresentato dal Ddl Scalfarotto, che prende il nome da Ivan Scalfarotto, ex Pd e oggi tra i big di IV. Al Nazareno l'hanno presa malissimo, accusano i renziani di tradimento, di voltafaccia a gay, lesbiche e trans (avevano votato il Ddl Zan alla Camera, anche se in un contesto politico totalmente differente), di inciuci con Salvini (ora, ma soprattutto in vista dell'elezione del nuovo presidente della Repubblica tra 6 mesi). E così le frasi della Sorge, non certo una dirigente di primo piano dei dem, non possono che scatenare la reazione piccata di quelli di Italia Viva. "Mi chiedo cosa ne pensi Enrico Letta delle parole vergognose", chiede polemica su Twitter l'ex ministra dell'Agricoltura Teresa Bellanova, pubblicando lo screenshot del post della Sorge. "Non stiamo forse esagerando?". A voi la risposta.

Piergiorgio Odifreddi per “La Stampa” il 7 luglio 2021. Sul ddl Zan gli schieramenti contrapposti sono da tempo al muro contro muro, e ciascuno ha i suoi dubbi sponsor: Salvini e il Vaticano, da una parte, e Fedez e la Ferragni, dall'altra. Chi abbia i modi eterei e raffinati di quest'ultima, può dire semplicemente che "fanno schifo tutti", e finirla così. Ma nel frattempo a scompaginare le carte si è intromesso pure Renzi, sul quale si può peraltro pensarla allo stesso modo. Forse sarebbe però più sensato evitare di fare la ola per l'uno o per l'altro, come se le vicende parlamentari fossero un'estensione dei campionati di calcio. Sulle leggi non si dovrebbe tifare per una squadra, ma ragionare tranquillamente sulla teoria e sulla pratica di ciò che esse intendono regolamentare. La cosa sembra semplice, ma che sia complicata lo ricorda un'osservazione che fece una volta Yogi Berra, il famoso giocatore di baseball dal quale ha preso il nome l'Orso Yoghi. Berra era famoso per pronunciare frasi enigmatiche, e una di queste era appunto: "La teoria e la pratica, in teoria sono uguali, ma in pratica sono diverse". Ora, la pratica del ddl Zan è che non ci devono essere discriminazioni di tipo sessuale: ognuno ha il diritto di scegliere con chi avere dei rapporti sentimentali e sessuali, e sono e devono essere soltanto fatti suoi. La teoria su cui il decreto basa questa sacrosanta pratica, è invece la "dannata" ideologia di genere: secondo i promotori, il diritto alla libertà sessuale si baserebbe sull'affermazione che i sessi non esistono. O, se proprio esistono, comunque non contano, perché a contare non è quello che uno è, ma quello che uno sente di essere. In questa logica c'è però un "non sequitur". Si possono infatti benissimo difendere i diritti dei diversi, senza dover per forza affermare che i diversi non esistono. Anzi, forse si dovrebbe fare proprio questo: un mondo in cui ci sono diversità è molto più bello e variegato di uno monolitico in cui tutti sono uguali. In politica però le cose si ingarbugliano sempre, perché i ragionamenti logici cedono il passo agli interessi partitici, che nel caso in questione sono abbastanza chiari ed evidenti. Il Pd ha trovato nella difesa a oltranza dell'identità di genere una battaglia considerata "di sinistra", la Lega nel suo rifiuto a oltranza della stessa nozione una battaglia considerata "cattolica", e Renzi nel suo ondivagare dall'approvazione alla Camera alla disapprovazione in Senato un modo per diventare di nuovo visibile e determinante nella scena politica. In realtà, sbagliano tutti. Sbaglia il Pd, perché semmai è di sinistra la difesa dei diritti dei diversi, e non la professione di un'ideologia che è stata contrastata, anche a sinistra, da tutti coloro che credono che l'identità di genere non abbia senso. Ad esempio, le femministe, che per poter essere tali devono appunto pensare di essere femmine. O i transessuali, che per poter pensare di voler cambiare sesso, devono appunto pensare di essere del sesso sbagliato, e di poter transire a un altro. Per non parlare degli eterosessuali, che sono la stragrande maggioranza (secondo l'Istat, superiore al 90%), e pensano semplicemente che i sessi sono i loro due. Sbaglia la Lega, perché il cattolicesimo è variegato, e mentre esiste al suo interno uno schieramento conservatore e ottuso, che rifiuta le unioni civili e i diritti dei sessualmente diversi (schieramento che, a scanso di equivoci, comprende anche il Papa regnante), esiste anche uno schieramento contrapposto che la pensa al contrario, e che è l'analogo dei cattolici che nel 1974 votarono a favore del divorzio civile, pur pensando che il matrimonio religioso dovesse essere indissolubile. E sbaglia Renzi, perché non sarà certamente su un argomento così marginale e di nicchia che un partito potrà basare la propria diversità politica. L'identità di genere non è affatto un problema sentito dalla maggioranza della popolazione, com'era appunto il divorzio negli anni '70. È piuttosto un problema sentito da una minoranza della politica, che è disposta a tutto pur di inserirlo in una legge: anche a non fare compromessi sulla difesa dalla violenza sui diversi, che rischia di essere sacrificata sull'altare di un'ideologia alla moda.  

La diretta con Zan, Civati e Cappato. Fedez contro Renzi su Instagram per il ddl Zan: ma il bastonatore finisce bastonato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Luglio 2021. Fedez è l’influencer che ha deciso di dimostrare plasticamente che la quantità di follower non ha nulla a che fare con la quantità di informazioni in gioco. Anzi, talvolta il bilancio è davvero magro. Nella diretta di queste ore il cantante ha deciso di attaccare Matteo Renzi a testa bassa, forte di un appunto di carta che ha tenuto accanto a sé durante l’improvvisato show. E lo ha attaccato sul Ddl Zan, chiamando Alessandro Zan a fargli da spalla. Il senso dell’attacco di Fedez? “Renzi non vuole questa conquista di civiltà. Cerca un pretesto per non votare la legge Zan”. Come tutti sanno, fino a oggi Renzi al contrario ha certificato nero su bianco il suo voto e quello di Italia Viva a favore, ma messo tutti in guardia per i prevedibili agguati che il voto segreto riserva a chi si avventura in Senato su questioni etiche. Fedez, a quanto pare, non l’ha capito. “Renzi si è messo d’accordo con Salvini”, è quello che ripete. Come? Quando? Perché? Non lo si dice. Ma si sarebbe accordato con Salvini per far naufragare il Ddl Zan. Zan, che è presente, alza il sopracciglio. Non obietta a muso duro ma si vede l’imbarazzo. Fedez non sa che Zan è stato eletto in quota renziana, nel Pd a guida Renzi. Fu proprio il Matteo di Firenze a volerlo in lista come esponente di punta del mondo Lgbt. “Ma Renzi ce l’ha con i gay”, continua Fedez. E allora Zan lo ferma, ed obietta: “Veramente è quello che ha realizzato la legge sulle Unioni Civili”. Allora Fedez guarda al foglio che deve aver appeso accanto al telefono con cui va in diretta. “La ministra Bonetti è di Italia Viva e non difende il Ddl Zan”. Il diretto interessato lascia cadere, sempre più in imbarazzo. E allora Fedez chiama in live anche Marco Cappato. L’esponente radicale si collega e sorride, ma inizia con i distinguo. Non può essere Renzi l’obiettivo di tutto questo circo. “Renzi al Senato vuole far votare i suoi con il voto segreto per affossare la legge”, va giù duro Fedez. Cappato lo prende idealmente per mano, sorride ancora e spiega: “Veramente non è Renzi, è che il regolamento del Senato prevede il voto segreto sempre, per le questioni etiche”. Fedez non ha capito. Torna: “È perché si vergognano a votare in modo diverso dalle indicazioni dei partiti”. Cappato è gentile ma fermo: “No, si fa sempre così. È la prassi del Senato”. E gli tocca precisare: “Renzi non ha detto una cosa sbagliata, ha fatto notare un rischio reale, perché da Pd e M5S è lecito aspettarsi diversi franchi tiratori, che in aula voteranno secondo coscienza e dunque contro il Ddl Zan”. Fedez non demorde: “Bisognerebbe avere il coraggio di votare apertamente, di metterci la faccia”. A quel punto anche Cappato alza le mani, capisce che non c’è partita senza avere un playground su cui giocarla. “Ho letto un articolo del giornalista Scalfarotto…” prova a dire Fedez disperato, arrampicandosi su specchi che non ha. Ivan Scalfarotto è in realtà un parlamentare di Italia Viva, non un giornalista. I fan si accorgono della mala parata e qualcuno commenta in diretta: “Forse è meglio se non parli di politica, si vede che non ne sai”. In effetti chi guarda si fa un’opinione piuttosto severa sul bastonatore che finisce bastonato. A Fedez mancano alcune imprescindibili basi: la politica è fatta di regolamenti, leggi, prassi, conseguenzialità, correlazioni, accordi, disaccordi: parti di una strategia articolata e di lungo corso che contempla e contempera mille cose. Non servono quarti di nobiltà, né doti particolari. Bisogna però studiarli in controluce, i passaggi in filigrana di quelle leggi di cui si parla. Piano piano, magari quando la diretta è finita.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Salvatore Dama per "Libero quotidiano" l'8 luglio 2021. I "Ferragnez" non mollano il polpaccio di Renzi. Dopo Chiara, che aveva dato dello "schifoso" a Matteo per aver ipotizzato un compromesso che salvasse il ddl Zan (messo a rischio al Senato dalla prova di forza di Enrico Letta), ora tocca a Fedez. Martedì lo aveva accusato di pissing. Cioè di «pisciare in testa agli elettori» facendo passare la minzione per pioggia. Ieri mattina il rapper è tornato alla carica definendo il leader di Italia viva «un paraculo». E annunciando un dibattito nel pomeriggio sul suo canale Instagram. Dibattito che in realtà si rivela a tratti un comizietto di periferia, a tratti un processo in contumacia. Federico Lucia chiama al confronto non Renzi, come magari era opportuno fare, ma Alessandro Zan, promotore della legge sull' omotransfobia, e il radicale Marco Cappato. A seguire, in uno dei quadrati della diretta Instagram, riciccia fuori anche un vecchio nemico renziano sparito dal radar: Giuseppe Civati. Ed è subito effetto "Primarie Pd 2013". Manca solo Gianni Cuperlo.

IN DIFFICOLTÀ Fedez lascia la parola ai suoi interlocutori. Ai quali però fa delle domande. Dalle quali si intuisce tutta la difficoltà della webstar con i regolamenti parlamentari. Lucia prova a spiegare cosa sia il voto segreto: «È un non senso». Però poi, nel definirne il funzionamento, si incasina. E lo aiuta Marco Cappato. Quindi Fedez sale di livello. E tenta di spiegare ai suoi follower il referendum, ma si inceppa nella differenza tra "costituzionale" e "abrogativo". Anche qui lo salva l'ex leader radicale. Bocciato pure sulla cronaca parlamentare: «Non era Pillon il relatore del ddl Zan?», chiede a Zan. Sbagliato: «Era Ostellari», lo riprende il deputato democratico. C' è pure qualcuno fuori onda che prova a dargli qualche suggerimento. Ma non è una cima manco lui. Il gobbo. «Però i politici non sono depositari della politica», insiste il marito di Chiara Ferragni, «io cerco di dare il mio contributo da cittadino, mettendo a disposizione la mia utenza», 12 milioni di seguaci, «a persone che possono dire qualcosa di interessante». Purché siano contro Renzi. Visto che i suoi ospiti però non gli danno grande soddisfazione (a parte un po' Civati), alla zeppa pesante ci pensa lui: «Voglio lasciare un messaggino all' ego di Renzi: con il ddl Zan ha l'occasione di riscattarsi, dopo aver fatto quell' elogio dell'Arabia Saudita, che non è proprio un esempio sui diritti». Questa se l'era preparata. È chiaro. Nell' attacco al Vaticano, invece, Federico trova la sponda di Cappato e un po' meno quella di Zan: i dem non vogliono fare arrabbiare ulteriormente la curia romana. A difendere Renzi interviene poi Ivan Scalfarotto, a SkyTg24: «La cosa singolare è che Fedez pensi che sia lecito parlare di Renzi ma non con Renzi». Poi il sottosegretario all' Interno ricorda quando il cantante nei suoi testi offendeva i gay: «In passato su di noi ha detto cose terribili. Sono felice che ora Fedez difenda le persone lgbt, che abbia cambiato idea».

VOTO SEGRETO Italia viva fa sapere che non chiederà il voto segreto sul ddl Zan al Senato. Ma lo farà il centrodestra. Ed è un bel problema soprattutto per il Pd. Perché non sono pochi i senatori dem che hanno perplessità sul testo da votare. Ieri è venuto allo scoperto Mino Taricco: «L' attuale testo presenta delle criticità e la necessità di alcune correzioni nei punti più sensibili di cui molto si è parlato in queste settimane ed anche in questi ultimi giorni». Pure lui cita gli articoli 1,4 e 7. Il paradosso è che, con il voto segreto, potrebbe non venire meno il consenso di Italia viva, ma quello del partito di Zan e Letta. Cosa che entrambi fanno finta di non vedere. Apparentemente. Il segretario dem mette di nuovo nel mirino il leader leghista: «Noi stiamo con l'Unione Europea. Salvini e Meloni con Orban». Matteo replica così: «Noi proveremo col dialogo fino all' ultimo, se Letta vuole affossare la legge, ci sta riuscendo». E su Fedez che attacca Renzi: «Mi piace l'ultimo pezzo, ma io preferisco Orietta Berti…»

Guia Soncini per "linkiesta.it" l'8 luglio 2021. C’è un momento in cui il marito della Ferragni dice «come diceva Montanelli», e io penso ma tu guarda, che apertura mentale, non è più un vecchio porco, razzista e pure pedofilo, è un saggio il cui pensiero è citabile dal club dei giusti – e invece no. È solo che l’intersezionalismo non funziona, almeno non l’intersezionalismo delle sinapsi, quello che mentre la giusta causa del mese è la lotta alla transfobia pretenderebbe tu ti ricordassi di chi era il nemico la settimana in cui la giusta causa era la lotta al sessismo, o quella al razzismo. Ieri, dunque, è andata così. Che al mattino il marito della Ferragni ci ha spiegato quanto siamo scemi a scrivere di lui e di sua moglie come avessero il dovere di capirci qualcosa: mica sono politici, loro; e al pomeriggio ha organizzato una diretta Instagram, con ospiti Alessandro Zan, Giuseppe Civati, e Marco Cappato (che in confronto al resto dei convenuti pareva Churchill). La moglie era a Cannes, e in diretta scriveva nei commenti, lasciava bandierine arcobaleno o compitava solleciti «ciao amore». È stata, quella della diretta Instagram dell’Harvey Milk che ci possiamo permettere, un’ora interessante non per aspiranti giuristi o per preoccupati omosessuali, ma per studiosi del concetto di personal branding. A un certo punto il marito della Ferragni dice: «C’è un po’ di protagonismo, di voler mettere il cappello su questa storia». Sta parlando di sé? Macché: sta parlando di Renzi, che incombe sulla conversazione tra i quattro come neanche Rebecca la prima moglie. Poco dopo dice: «Non vorrei che passasse la narrazione che un politico con manie accentratrici che non aveva a cuore i diritti delle persone si mettesse il gagliardetto “io ci ho provato”». Dice «politico», ma intende «influencer», è ovvio. A un certo punto mi viene in mente Berlusconi, e la sua saggia convinzione che l’elettore sia un ragazzino delle medie che non è neanche il primo della classe. I presenti, consapevoli d’aver davanti uno con gli strumenti culturali d’un ripetente di seconda media, col quale è tuttavia bene essere ossequiosi per non alienarsi i dodici milioni e fischia di follower (trentamila che seguono la diretta, e dodici milioni che senz’altro la recupereranno successivamente), fanno dei giri di parole per non dirgli di ripresentarsi quando avrà studiato. Il marito della Ferragni dice che loro sono su Instagram perché «non esiste un luogo depositario in cui parlare». Nessuno gli chiede: intende «preposto»? Non è madrelingua? Non è paroliere? Il marito della Ferragni dice che è scandaloso il voto segreto, l’elettore ha diritto di sapere, e Civati aspetta mezz’ora prima di illustrargli il concetto di libertà di coscienza con parole così semplici che secondo me sta pensando «Ti faccio un disegnino». Il marito della Ferragni fa un esempio delirante per spiegare l’identità di genere – una ragazza operata che fa vedere il documento con scritto «femmina» – e mezz’ora dopo (cosa sarà mai mezz’ora, con la soglia d’attenzione con cui guardiamo le dirette Instagram) arriva Cappato e dice che la ragazza col documento problemi di identità di genere non li ha, il punto è chi non s’è operato ma ha la sua brava disforia, è lui che dovresti tutelare (nessuno dice «disforia», perché sono tutti abbastanza svegli da non usare parole più complesse di «cane, pane, minestrina col dado»). Nell’articolare il suo esempio, il marito della Ferragni aveva anche pronunciato la formidabile frase «Identità di genere è: maschile, femminile». Che, considerato che l’indispensabilità del concetto nell’articolazione della legge viene sostenuta in relazione alla questione dei non binari, dimostra che il portavoce delle giuste cause che ci possiamo permettere non ha capito quale giusta causa sostiene. Il personal branding ti vuole sostenitore di buone cause, mica informato sulle stesse: se non è Zeitgeist questo (mi permetto di dire «Zeitgeist» perché ho meno pubblico della famiglia Ferragni: quando ti rivolgi alla nicchia a volte puoi osare persino un quadrisillabo bisdrucciolo). È la diretta del vale tutto, è evidente quando Zan dice «bisogna aiutare questi bambini nel loro percorso di transizione», e lì non c’è non dico uno psichiatra ma anche solo uno che abbia letto mezzo testo sul tema e sappia che la maggior parte delle disforie infantili si risolve senza alcun bisogno di transizione. A proposito di «non c’è uno»: sono tutti maschi (maschi cis, direbbero loro: maschi nati maschi, orrendi colonizzatori e padroni dell’universo), ma nessuno pare notarlo, o comunque non chi commenta «Questa diretta è un orgoglio nazionale». Meno male che Cappato c’è, e prova a spiegare che la testa della gente non si cambia a botte di codice penale, e che tuttavia da ’sta benedetta legge si può solo sperare che cambi la testa di chi è così rincitrullito da menare la gente per strada, non certo che uno pensi che non gli conviene menarti perché gli danno sei anni di galera invece di quattro. Poco dopo arriva Civati e dice «se una cosa è giusta e la fanno altri paesi europei», ed evidentemente i suoi genitori non gli hanno mai spiegato che a loro non importava di cosa facessero gli altri bambini, gli è rimasta la smania di emulare gli altri. Sembra ieri che i suoi promotori dicevano che la Zan sarebbe stata la prima legge di questo impatto in Europa: in un niente è diventata l’ultima. Il marito della Ferragni dice che viviamo in «uno scenario distopico», e invoca «l’opportunità di essere un pochino al passo coi tempi, di non essere anacronistici», e non sta ipotizzando un paese in cui i gay possano adottare o i paralitici possano trovar liberi i marciapiedi (ci sarebbe anche l’abilismo, nella Zan, ma va meno di moda parlarne). Sta parlando solo di darci il permesso di dirci maschi seppur con molte tette, ovvero di tutelare l’identità di genere, quella cosa che lui crede sia «maschile, femminile». Va tutto bene. «Siamo ai primi di luglio e già il pensiero è entrato in moratoria. Drammi non se ne vedono, se mai disfunzioni», scriveva cinquanta estati fa Montale, che persino a casa Ferragni avranno avuto nei testi delle medie. Zan, un altro che non è certo lì per il personal branding, a un certo punto promette di dare il merito a Renzi se la legge passerà, col tono con cui potrebbe dire che Bruto è un uomo d’onore (scusate, lo so che alle medie non si fa Shakespeare). Intanto, sotto, passano i commenti del paese reale che sta guardando la diretta che ci renderà un paese migliore: «Ciao Fede mi saluti?».  

Massimiliano Panarari per "la Stampa" il 7 luglio 2021. Renzi vs. Ferragnez. No, non è un peplum - quei film che furoreggiavano nell' Italia balneare di qualche decennio or sono, stile Maciste contro Ercole -, ma il rumore di spade e il clangore di trombe è il medesimo. Come lo sono le botte da orbi che si sono scambiate l'influencer e il politico intorno al ddl Zan. Il duello tra Chiara Ferragni e Matteo Renzi è un compendio degli effetti del tracimare della disintermediazione, allorché la classe politica sempre più sovente (e sconsolatamente) segue - un po' come l'intendenza. E un'istantanea degli eccessi della celebrity politics, che ha fragorosamente abolito da tempo le distinzioni di ambito professionale in materia di acquisizione della popolarità e della visibilità nelle democrazie del pubblico, composto di cittadini-consumatori, cittadini-elettori, cittadini-spettatori e "opinionisti" a seconda delle tipologie dei media.  E dove tra spettacolo e politica spesso non vi è più alcuna soluzione di continuità. Esattamente come in queste «baruffe chiozzotte» che si nutrono, infatti, della chiacchierata infinita che si svolge sui social network. Solo che - per citare l'«antropologa del cyberspazio» Sherry Turkle - non siamo dalle parti della «conversazione necessaria» del faccia a faccia (che è stato fondamentale per portare in tanti casi la lotta politica a convertirsi in dialogo tra i diversi), ma alla guerra simulata transmediale. E, una volta di più, alla starizzazione della politica, alimentata da politici-star contro star che si mettono a fare quella che può sembrare politica. Nella fattispecie, la singolar tenzone è, ovviamente, smaterializzata. E, quindi, in attesa di sapere se Ferragni, sfidata da Renzi a incrociare le lame de visu, raccoglierà il guanto, per adesso la saga si può seguire solo via social. In un tripudio di litigation e tifoserie, come tipico del processo di hooliganizzazione da cui la politica viene pressoché istantaneamente assorbita una volta trapiantata sui media sociali e "personali". Ovvero quegli strumenti tecnologici che avrebbero dovuto garantire le sorti magnifiche e progressive di una rinnovata partecipazione e «democrazia diretta», e hanno invece generato soprattutto un'escalation di aggressività. A conferma del fatto che chi di disintermediazione colpisce, può perire. O, quanto meno, si ferisce. Perché è stato proprio l'attuale leader di Italia viva che, da segretario del Pd e premier, ha spinto più in alto l'asticella della disintermediazione - insieme a quella della personalizzazione - nel campo del centrosinistra. Infrangendo dogmi e consuetudini per sintonizzarsi sullo spirito del tempo postmoderno e antipolitico, ma scoperchiando così un vaso di Pandora che ha liberato potenze incontrollabili. E ha prodotto un effetto boomerang che finisce per ritorcerglisi contro, dal momento che nel mare magnum del web vale la stessa regola sintetizzabile con le (presunte) parole pronunciate da Stalin al vertice di Yalta: «Quante divisioni ha il Papa?». Che su Internet si chiamano milioni di follower, come i 24 sonanti posseduti da Chiara Ferragni. Il match Renzi-Ferragnez, quindi, è soltanto l'ultima pagina di una politica pop sempre più mediatizzata in cui le barriere sono cadute da tempo, e si sconfina "allegramente" alla ricerca dell'obiettivo fondamentale, che è di tipo rigorosamente quantitativo. Un like non corrisponde precisamente a un voto (e men che meno a uno ponderato), ma sempre e comunque di costruzione del consenso si tratta per la campagna elettorale permanente di un partito (specie se non baciato dalla fortuna nei sondaggi). Così come certe forme di impegno civico degli influencer, a volte, danno l'impressione di essere l'equivalente della voce «allargamento del mercato» di un business plan, o di risultare ispirate da una forma opportunistica di marketing. Nel frattempo ci tocca così assistere pure all'«istituzionalizzazione» di Instagram, diventato la "Quinta" o "Sesta Camera" (ormai si è perso il conto...). Per Renzi, boxeur e pokerista, la battaglia con i Ferragnez è una sorta di «piatto ricco, mi ci ficco», ancor più perché alla vigilia dell'uscita di un libro (e il suo fiuto autopromozionale oramai sopravanza parecchie altre cose che sarebbero più opportune per chi fa politica). Ma dire - come ha fatto Ferragni - «che schifo che fate politici» suona effettivamente come uno slogan populista (e pure, giustappunto, un po' qualunquista). E, difatti, c' è chi scommette che il marito Fedez stia scaldando i muscoli per inserirsi nel vuoto politico lasciato da un grillismo prossimo alla smobilitazione.

«Politici fate schifo», Ferragnez influencer da gabbia e da voliera. Carlo Fusi su Il Quotidiano del Sud il 7 luglio 2021. LA STORIA insegna che “Politici fate schifo” è il bramito più squisitamente qualunquista che ci sia. È ricorrente, perché periodicamente riempie la gola di chi scaglia il proprio disprezzo verso il Palazzo e ciò che rappresenta. Esempi vecchi e nuovi non mancano: il dannunziano lancio del pitale sul Parlamento ad opera del pilota Guido Keller nel novembre del 1920. O il cappio sventolato in aula a Montecitorio dal leghista Luca Leoni Orsenigo il 16 marzo del 1993. Stavolta l’urlo è arrivato via social dall’influencer Chiara Ferragni, moglie del rapper Fedez, già noto per la polemica con Salvini e la Rai nel concertone del primo maggio. Il post della signora Ferragni conteneva l’immagine di Matteo Renzi e il riferimento era alla legge Zan e ai suoi tortuosi – e platealmente criticati – arabeschi parlamentari. A condimento, la scritta “l’Italia il Paese più transfobico d’Europa ed Italia Viva con Salvini si permette di giocarci su”, per togliere ogni dubbio a chi ci si voleva riferire. Renzi ha replicato per le rime: per ora la cosa è finita così ma non sono escluse repliche. Il punto di partenza obbligato, come detto, è il singulto qualunquista – che naturalmente è cosa che non c’entra nulla col diritto intoccabile di ciascuno di esprimere ciò che pensa – che stavolta però assume una curvatura particolare. Negli anni, infatti, in particolare per ciò che concerne i sistemi democratici, un simile riflesso scattava quando andava in tilt il rapporto tra Paese reale e Paese legale. Quando cioè il legame tra rappresentanti e rappresentati si deteriorava fin quasi a spezzarsi e uno iato inquietante finiva per dividere i cittadini dalle istituzioni. Adesso a quel binomio si è aggiunto un terzo attore, ossia la dimensione social. Che è capace di, appunto, influenzare il dibattito pubblico perché alimentato da personaggi che hanno una dimensione virtuale ma che sono in grado di trascinare con loro milioni di utenti. Naturalmente i like sono tutt’altro rispetto ai voti raccolti nelle urne, hanno una qualità e un peso molto differente.  Per loro natura sono più “leggeri”. Tuttavia sarebbe sbagliato sottovalutare la capacità di orientamento degli influencer, che passano con tranquillità dalla moda alla politica trascinandosi appresso i tantissimi che si fidano di loro. Forse però il punto è proprio questo. La distanza tra Paese reale e Paese legale veniva di norma riempita dalle elezioni: il voto popolare ridisegnava i rapporti di forza tra i partiti e dunque assegnava a quelli più in sintonia con l’umore dei cittadini il potere di governare. Niente del genere avviene nell’universo digitale. I like vanno e vengono con velocità non paragonabile ai voti, costruendo così una bolla autoreferenziale che smarrisce il rapporto con la realtà. Il che fa sì che nel perimetro social non solo si possano scatenare gli impulsi più primordiali e dare in tal modo spazio ad eserciti di “odiatori” in grado di scegliersi di volta in volta i bersagli. Quel che davvero conta è che la possibilità di confronto ne risulta fortemente ridotta, in non pochi casi del tutto azzerata. Uno dei riflessi condizionati del caleidoscopio social è che ritiene di esportare la propria capacità di condizionamento sul mondo legale. Quando ciò non avviene perché le regole della politica e il ruolo delle istituzioni hanno finalità opposte e il compito specifico di favorire il confronto, di stimolare la discussione e soprattutto di definire una sintesi finale da mettere nero su bianco, allora il mondo social esplode. Per il semplice motivo che appare evidente che la sua presa sul “reale-istituzionale” è inevitabilmente limitata. Di qui il bramito, figlio di un ridimensionamento considerato inaccettabile. Se si innesca una simile discussione, a questo punto di norma ci si trova di fronte alla considerazione “però la politica oggi si fa così”.  È una valutazione del tutto legittima, ma parziale: bisogna aggiungere che in tal modo si avvelenano i pozzi, anche se per onestà intellettuale va detto che quelli della politica sono in forte via di essiccazione. Ma anche fosse, quell’essiccazione non può essere considerato un alibi per nessuno. Per quanto screditata, infatti, la politica e le modalità con la quale viene esercitata nel circuito della democrazia delegata, rimane l’unico strumento – concreto, non virtuale – in mano ai cittadini per far sentire la loro voce e, stavolta sì, influenzare direttamente le scelte parlamentari e di governo. Solo rispettando questa mission e anche tutelando la legittimità di chi la pensa diversamente è possibile ottenere risultati che implementino la civiltà della vita sociale. Il mondo social esercita una perversa attrattività  perché fornisce la sensazione che le regole si fanno e disfano praticamente a piacimento. E in caso di tracimazioni, nessuno o quasi paga dazio. È possibile, e per alcuni casi persino doveroso, bannare. Tuttavia si tratta sempre e solo di una parodia del meccanismo democratico. Anche per gli influencer da milioni di follower succede che la realtà è altrove. Fuori portata, o se si preferisce a distanza di sicurezza, dei like.

Luigi Mascheroni per "il Giornale" il 7 luglio 2021. La più grande impresa di Chiara Ferragni e del marito Fedez - in arte, e business: «Ferragnez» - alla fine sarà quella di averci reso simpatico Matteo Renzi. Anche se resta ancora da capire chi sia il più insopportabile fra i tre. I primi due sono furbi. L' altro, cinico. E non si sa cosa è peggio. Solo in una Repubblica 2.0 in cui la democrazia è fondata sui like invece che sui voti poteva succedere che un ex presidente del Consiglio che gioca a fare il ragazzino si mettesse a litigare sui social con due ragazzini che si credono gli Obama. In mezzo: il Ddl Zan. Prima la influencer su Instagram accusa Renzi di boicottare il decreto pro gender, aggiungendo: «I politici fanno schifo». Renzi replica su Facebook: «Banale e qualunquista, parliamone se hai coraggio. Io ho firmato la legge sulle unioni civili, mettendoci la fiducia: quella legge dura più di una storia su instagram...». E alla fine, a chiudere il post, arriva Fedez, fine politologo: «Stai sereno Matteo. C' è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia». I Ferragnez hanno rispettato la prima regola dei social: «Sapere poco, commentare tutto». Renzi ha infranto quella della politica: «Mai scendere a livello dei tuoi avversari». La celebre coppia dello spettacolo che da tempo si è buttata in politica ha dimostrato di non avere idea di come sia fatta una proposta di legge: ignora cosa sia un iter legislativo. Il famoso politico al quale è sempre piaciuto dare spettacolo ha confermato di mancare di senso delle proporzioni: se hai il 2% è suicida polemizzare con chi ha 24 milioni di follower. Come l'ideologia da salotto e il fatturato dei clic possono battere l'intelligenza e l'arte della politica. Ferragnez supremacy. E così, la Sinistra - che ha perso il popolo e ha guadagnato le «celebrity» - riparte dai #Ferragnez: qualunquismo (dire che i politici fanno schifo è solo un gradino sotto i Cinque Stelle), populismo (aizzare i propri follower contro il nemico lo è) e grandi patrimoni. L' élite all' italiana. I diritti civili ultimamente sono un trend sui social. E i #Ferragnez sono un marchio. Il combinato disposto, oltre a aumentare i ricavi della Ditta, influenza il dibattito pubblico. Probabilmente Enrico Letta ha anche messo un «Mi piace» alle Instagram Stories dei due influencer... Opportunismo commerciale, rap omofobo, unghiette arcobaleno e protagonismo comunicativo. Non ne usciremo, nonostante tutto l'impegno di Mario Draghi. E per il resto, se i #Ferragnez vogliono fare politica, come disse quel tale (di Sinistra), fondino un partito. E vediamo quanti voti prendono! (Speriamo di no).

Giuliano Guzzo per "la Verità" il 7 luglio 2021. Da quando domenica, in prima pagina su Repubblica, è uscita la notizia di alcuni emendamenti da parte di Italia viva al ddl Zan, il clima festoso tra i sostenitori della legge contro l' omotransfobia è improvvisamente venuto meno, lasciando spazio a critiche velenose, frecciatine, perfino insulti. Così, dove prima risplendeva l'arcobaleno, ora volano stracci. Ad accendere la miccia dello scontro ci ha pensato direttamente il primo firmatario del ddl, Alessandro Zan. Il deputato del Pd, in una diretta su Facebook lunedì pomeriggio, ha preso di mira il partito di Matteo Renzi e, in particolare, l'idea di Italia viva di espungere dal testo già approvato alla Camera a novembre il concetto di identità di genere, riprendendo quelli di omofobia e transfobia contenuti nel ddl a suo tempo proposto da Ivan Scalfarotto. Una proposta giudicata irricevibile. «La locuzione "contro tutte le discriminazioni motivate da omofobia e transfobia" del testo Scalfarotto», ha spiegato Zan, «non si può utilizzare da un punto di vista giuridico. Perché in una proposta di legge si devono inserire termini neutri, per garantire la tassatività dell'azione penale». «Per questo abbiamo usato "identità di genere", "orientamento sessuale" e "sesso", che sono parole che comprendono tutti», ha concluso il dem. Ora, a parte che il ddl Scalfarotto fu firmato appena due anni fa pure dallo stesso Zan, il quale dunque dovrebbe spiegare come mai ieri sottoscriveva proposte che invece oggi boccia così sonoramente, comunque il parlamentare Pd sul punto ha ragione. Nel senso che, in effetti, «omofobia e transfobia» sono termini che difettano di precisione e univocità. Beninteso, la stessa identità di genere è in realtà un concetto di vaghezza notevole - tanto che il suo significato ricade nell' inafferrabile sfera delle «percezioni di sé» -ma non si può dire che «omofobia e transfobia» siano parole il cui senso sia da tutti condiviso. Da tale constatazione, però, scaturisce un dilemma di non poco conto, e cioè: perché allora questi termini, così poco «neutri» da non poter rientrare in una norma a detta di Zan, possono restare centrali sui media e, ancor prima, nel dibattito pubblico? L' ambiguità non dovrebbe esser rifiutata sempre? L' impressione è che omofobia e transfobia, proprio per la loro vaghezza, siano clave lessicali perfette in mano al movimento Lgbt, che grazie ad esse può bollare in malo modo chiunque si opponga ai diktat arcobaleno. Del resto, gli indizi che vanno in questo senso abbondano. Per dire, nel marzo 2017 perfino Repubblica venne accusata di omofobia solo perché in un articolo aveva definito «compagno» - anziché marito - il partner del premier lussemburghese Xavier Bettel. A muovere l'accusa sul suo profilo Facebook, manco a dirlo, fu proprio Ivan Scalfarotto. Lo stesso che oggi, per aver detto che «il ddl Zan è un'ottima legge, ma senza modifiche non passerà», è sotto il fuoco delle critiche. Per rendersene conto, basta farsi un giro su Twitter, dove Scalfarotto è descritto in un modo al cui confronto Giuda Iscaritota diventa un emblema di fedeltà: «Stai deludendo tanti di noi», «non ti vergogni?», «ipocrita», «pagliaccio». Questo il tenore dei commenti grandinati a decine sul suo profilo in queste ore. Per completezza, va precisato che i critici non sono stati più teneri con Matteo Renzi. Contro l'ex sindaco di Firenze e quanti osano giudicare emendabile il ddl Zan sono infatti scesi in campo nientemeno che i Ferragnez. «Fate schifo», è stato il raffinato commento della reginetta delle influencer postato sotto una foto di Renzi, mentre il marito, per non essere da meno, ha rincarato la dose: «Stai sereno Matteo, oggi c' è la partita. C' è tempo per spiegare quanto sei bravo a fare la pipì sulla testa degli italiani dicendogli che è pioggia». Così, tra richiami urinari e accuse di tradimento, sia Renzi sia Scalfarotto sono finiti nel tritacarne social di chi osa dissentire dal verbo Lgbt. Il risultato è quindi che il ddl Zan finirà nell'aula del Senato il 13 luglio, e non solo manca un accordo tra le forze di governo, ma potrebbero davvero non esserci i numeri. Del resto, se si pensa che l'ago della bilancia è ancora una volta nelle mani di Italia viva - che, come dimostra il naufragio del Conte bis, quando si impunta poi son dolori -, c' è da aspettarsi di tutto. Nel frattempo, per tornare a noi, non si può che ringraziare Alessandro Zan per aver confermato che omofobia e transfobia sono termini da prendere con le molle. Peccato che siano tra quelli che lui per primo, ogni santo giorno, usa di più. 

Pietro Senaldi a gamba tesa: "Fate una legge per Renzi. Altro che gay, è lui l'unica minoranza che si può insultare". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 07 luglio 2021. Bisognerebbe fare una legge che punisca il reato di Renzi -fobia. In questo clima di tutela assoluta delle minoranze, i seguaci dell'uomo di Rignano e i parlamentari di Italia Viva sono la sola minoranza che chiunque può insultare, e perfino minacciare di morte, senza incorrere  in sanzioni o reprimende. Eppure, oggi in Italia i renziani sono molto meno degli immigrati, degli omosessuali o dei disabili che vuole tutelare la legge Zan, almeno a guardare i trattamenti Inps che vengono erogati. L'insulto a Renzi è di moda, lo si fa per sentirsi democratici. E se il tapino si difende, si passa direttamente alla lapidazione. Quanto successo ieri con Chiara Ferragni e Fedez è solo l'ultimo capitolo. La premessa è che il Matteo di sinistra, come quello di destra, non condivide la legge Zan e la vuol cambiare. L'influencer milionaria lo ha perciò insultato in rete, postando la sua foto sopra la scritta «i politici fanno schifo». L'ex potente ha risposto «parliamone» e per questo è stato investito dagli improperi del marito della signora, un Fedez in versione John Wayne. «Matteo stai sereno, guarda la Nazionale e smettila di pisciare in testa agli italiani» è stato il civile messaggio del rapper che ama la libertà d'espressione al punto da coltivare il vizietto di registrare a tradimento chi parla con lui al telefono. Il macho dalla parte degli omo ha alzato la voce per perorare la causa della sua donna come un bullo di periferia, malgrado la Ferragni sia in grado di difendersi da sé. Al momento Renzi non gli ha fatto rispondere dalla moglie Agnese, impartendo alla bella e al tatuato una lezione di stile. Non c'è da stupirsi. Per aver successo sui social basta vedere cosa dice la massa e ripeterlo con parole meglio confezionate. Se poi c'è un bersaglio facile, come è Renzi, gli si spara contro con la maggior violenza possibile e il gioco è fatto, si passa per maitre a penser sagaci, spietati e illuminati. Ci provano anche i politici, solo che non sono del mestiere e per questo gli va sempre male quando si scontrano contro i guru della rete. Il Pd lo ha capito meglio di tutti e ormai si serve di cantanti, calciatori e influencer per fare politica. Si limita a fornire loro l'obiettivo e questi sparano. Matteo Renzi è la preda preferita dalla sinistra, ancora più di Salvini e della Meloni. Ma perché tanto odio? Certo, Letta non gli ha perdonato di avergli fatto le scarpe con un messaggino canzonatorio, il famigerato «Enrico stai sereno». La sinistra poi mal sopporta che l'ex premier abbia cercato di usare il Pd come un tram e ora si faccia gli affari suoi. Ma quello che i dem non possono tollerare è che l'ex capo levi loro per la prima volta il pallino nella scelta del presidente dello Repubblica. Letta e i suoi sono terzi o quarti nei sondaggi, dopo le scissioni hanno una forza parlamentare del 14% scarso, ma ritengono di avere il diritto divino di decidere chi deve andare al Colle. Solo che, se Renzi si mette di traverso, con i grillini squagliati come sono, la sinistra non ha i numeri. La modifica della legge Zan suona alle orecchie dei dem come un campanello d'allarme, una prova generale di una nuova maggioranza, che oggi può cambiare la legge anti-omofobia e domani scegliere il sostituto di Mattarella. Per esempio Draghi, un nome che Letta dovrebbe trangugiare senza poter fare storie. Nel caso, chi sostituirà SuperMario a Palazzo Chigi, un tecnico indicato direttamente dal nuovo capo dello Stato, potrebbe essere poi lo stesso uomo che guiderà l'Italia del governo di centrodestra che scaturirà dalle elezioni del 2023. Una figura di garanzia, all'estero e in patria, inattaccabile dai soloni della sinistra.  

(ANSA il 6 luglio 2021) - "Fdi ha presentato in Parlamento una mozione per impegnare il Governo ad andare in Europa per chiedere che la UE condanni apertamente gli Stati che prevedono nei loro ordinamenti il reato di omosessualità e non stringa con loro accordi di cooperazione culturale. Sono ben 69 le Nazioni che, spesso in virtù dell'applicazione della legge coranica, prevedono pene variabili da un anno fino all'ergastolo e alla pena capitale. Vedremo come si esprimeranno i cosiddetti 'paladini dei diritti Lgbt', che oggi chiedono di censurare le leggi rimasti in silenzio quando si parla di difendere gli omosessualii"- Lo ha detto la Giorgia Meloni. 

Se il populismo chiude bottega. Marco Zucchetti il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. In attesa che gli storici indaghino sul peso della pandemia nei cambiamenti politici in Europa, per ora si segnala la crisi generale di quei movimenti generalmente e superficialmente considerati "populisti di sinistra". In attesa che gli storici indaghino sul peso della pandemia nei cambiamenti politici in Europa, per ora si segnala la crisi generale di quei movimenti generalmente e superficialmente considerati «populisti di sinistra». Dai 5 Stelle a Podemos, passando dai Pirati tedeschi e Syriza, le forze anti-sistema di estrazione più socialista sono in caduta libera, mentre quelle più nazionaliste e di destra (finora meno coinvolte nella responsabilità di governo, Lega esclusa) ancora tengono. Ognuno ha i suoi guai specifici, ma il contesto è comune: la loro offerta politica di decrescita e assistenzialismo non incontra più le esigenze degli elettori. Se la politica è l'outlet delle idee e il bazar delle soluzioni, non tutti i partiti «vendono» la stessa merce. Ci sono realtà storiche, tradizionali, magari esauste e in crisi di identità, ma che rispondono ad afflati senza tempo come l'uguaglianza, la conservazione, la libertà. E poi ci sono realtà sorte per dare risposte contingenti, i «temporary shop» della politica, che offrono quel che va di moda e occorre in un certo momento, come i negozi di dolciumi sotto Natale. Funzionano e sono utili. Ma se a gennaio non cambiano business rischiano di fallire. I movimenti nati dagli Indignados spagnoli o dal Vaffa-Day hanno avuto un ruolo innegabile. Segnalavano che il corpo politico era malato e che l'indomani della crisi economica era una palude. Perciò sono stati premiati nelle urne dal 2015 al 2018, andando al governo sia nelle città (Roma, Torino, Madrid, Barcellona), sia nei Parlamenti. Ed è allora che si sono dimostrati intrinsecamente deboli. Perché chi segnalava i sintomi del morbo, poi non sapeva curare il paziente. Se Podemos è passato dal 21% al 7% e il leader Pablo Iglesias ha lasciato, il M5s si è dimezzato (sia nei voti, dal 32% al 16, sia nella leadership dicotomica) e il movimento dei Gilet gialli - la cui anima di sinistra è discutibile - è scomparso, significa che gli europei non pensano più che le loro ricette siano utili in questo tempo di rinascita e ripartenza economica. Così come l'Ukip inglese ha perso senso dopo la Brexit, anche la loro missione è - se non compiuta - almeno giunta a un punto morto. La mobilitazione dal basso serve a fare pressione sulle istituzioni. La politica a corto raggio - non è anti-politica - cavalca richieste che somigliano a tendenze, dal disgusto per la corruzione all'ambientalismo. Ma quando poi entra nelle istituzioni, dove il focus si sposta su visione globale e competenza, allora si sfalda. La mancanza di struttura organizzativa e teoria politica solida si fa sentire; gli interessi di parte, le clientele e le lotte di potere interne prendono il sopravvento. E il messaggio iniziale di protesta e rivoluzione diventa una mesta ammissione di impotenza. Così, davanti a un «temporary shop» che offre merce demodé, i clienti ridanno fiducia ai partiti tradizionali, con le loro magagne e i loro vizi, ma con un progetto di costruzione e una classe dirigente in cui tornare a sperare. Almeno fino al prossimo ciclo di delusione e illusione collettiva. Marco Zucchetti

I grillini e le faide incomprensibili che fanno scappare gli elettori: l'inquietante precedente francese. Renato Farina su Libero Quotidiano l'1 luglio 2021. Occhio alla Francia e al suo fiasco. E non parliamo di calcio nel senso di football, ma di calci nel sedere che i cittadini elettori hanno rifilato ai partiti in quanto tali. I due turni per le elezioni regionali galliche hanno registrato un astensionismo che non ha avuto nessun carattere di protesta, o di nervosismo, ma è stato quanto di più sia mai somigliato allo sbadiglio nella storia della democrazia transalpina. È stato un voto, ha scritto Le Figaro, che ha sì eletto dei presidenti per l'Aquitania e per la Provenza eccetera, ma in realtà ha sancito la "secessione" dei francesi dal loro sistema politico. Alle urne si è recato solo un francese su tre. E dire che si è trattato di elezioni "di vicinato", che implicano interessi immediati, decisioni che pesano sul destino del tuo orticello. Niente da fare, si è comunque battuto ogni record. Cari politici italiani di destra, di sinistra e di centro, di sopra e di sotto, con i vostri bei candidati più o meno civici già bruciati o di là da venire, vi state rendendo conto o no che il rischio clamoroso è quello di aggiudicarvi un trofeo che conta come una patacca, delegittimato in partenza dalla diserzione delle urne e perciò debolissimo? Osserviamo il campo. Il governo Draghi è un'entità che regna da sopra le nuvole. La maggioranza vastissima (il 90 per cento dei parlamentari) su cui si regge è così multiforme e ideologicamente scombinata che accetta quietamente qualunque cosa Super Mario con i suoi scudieri gli ammannisca. C'è una specie di delega universale a prescindere. Come diceva quella pubblicità con Virna Lisi? Con quella bocca può dire ciò che vuole. Per fortuna Draghi non solo dice ma fa e pure bene, tant' è vero che il suo consenso popolare cresce e supera il 70 per cento. Ma tutto questo non fa guadagnare credibilità ai soggetti costituzionalmente abilitati a tradurre la volontà dei cittadini in rappresentanza e in programmi. Parliamo dei partiti, ovviamente. Essi stanno giocando in Italia una partita estenuante, una specie di surplace, in vista delle elezioni municipali delle grandi città del prossimo settembre. Stanno calcolando le mosse per battere l'avversario, e mandare a dama la loro pedina. È come se dessero per scontato che lo stadio sarà pieno e l'incitamento possente a favore dei rispettivi gladiatori. Ehi, forse per l'autunno gli anfiteatri del calcio, finita l'asfissia pandemica, torneranno ad essere la bolgia di una volta. Gli europei attualmente in corso ne sono una prefigurazione. Invece non si avverte nell'aria alcun desiderio di tornare a riempire le piazze per comizi e affini, né tanto meno le cabine elettorali.

Mediocrità. A sinistra le primarie per scegliere i candidati sono state la fiera della mediocrità. Le rincorse amorose di Enrico Letta dei Cinque Stelle hanno dimostrato la sua inconsistenza politica, il suo fiuto piuttosto scarsino lo ha condotto ad abbracciare un leader inesistente come Giuseppe Conte, impegnato da mesi a pretendere l'eredità esclusiva degli escrementi (come tradurre in italiano politicamente corretto le stronzate e i vaffa?) lasciati lungo la strada da Beppe Grillo. I sondaggi danno il Pd al 20 e il M5S al 15? Ma sono una graduatoria che equivale al conteggio dei followers, non hanno consistenza reale. Non fanno massa, ma ologramma. A destra (o centrodestra) va meglio sì ma mica tanto. Certo, l'alleanza dei tre partiti che in ordine alfabetico si chiamano Forza Italia, Fratelli d'Italia, Lega per Salvini (più Cambiamo, Noi per l'Italia, Cdu) è clamorosamente in vantaggio quanto a sondaggi rispetto ai concorrenti. Ma accidenti questa coalizione com' è possibile non riesca a trovare un candidato unitario in cui credere a Milano, Bologna, Napoli e in parecchie altre città e cittadine? Tutti dicono uniti -si-vince, non facciamo il partito unico perché la differenza è ricchezza, ma questo spettacolo di incertezza è dissipazione di quel bene raro che è oggi la fiducia. Un conto è rispondere al telefono o mettere una crocetta su un questionario che ti arriva in casa, come fanno i sondaggi (ricevere una telefonata nel mondo d'oggi, dove non ti vogliono vendere nulla, ma solo sentire un'opinione è molto gratificante, ormai ti telefonano soltanto quelli del gas e della luce). Un altro è dirigersi una domenica mattina alle urne. Perché andare alle urne dopo l'esperienza del Covid è in sé una dichiarazione di fiducia nel sistema, è come andare sulla strada a veder passare il Giro d'Italia invece che guardarselo un momento alla tivù, è un attestato di passione.

Antipolitica sconfitta. E lo spettacolo cui si assiste (finora: non disperiamo di qualche colpo di reni nei pressi del traguardo) non è tanto meglio di quello che in Francia ha preceduto il flop. La volontà di ribellione allo status quo, a Parigi e dintorni, non ha trovato la sua casa nell'opposizione radicale di destra o di sinistra. Il Rassemblement national di Marine Le Pen e La France insoumise di Jean-Luc Mélenchon hanno perso di brutto. In Italia l'antipolitica e l'odio contro parlamentari e affini aveva trovato il caravanserraglio nel grillismo i cui ragli d'asino avevano il loro fascino da gabbia dei matti. Quel tempo è finito. Il rischio è l'astenia, l'abitudine al coprifuoco morale. Gaël Brustier, politologo che va per la maggiore Oltralpe, parla di «domanda passiva di depoliticizzazione autoritaria». L'astensionismo oggi, traducendo la formula in soldoni, equivale a consenso a un governo scolorito purché forte, agisca tipo Draghi- Figliuolo, e non ci rompa troppo los cojones, dicendola stavolta alla spagnola. Al centrodestra va bene così? A quanto pare sì. Allora si vada avanti a invidiare i sondaggi gli uni degli altri, e a bruciare fantocci nel falò delle proprie vanità. 

Da Bersani a Travaglio: il partito di Conte già c’è e va oltre gli ex grillini. La nascita di una nuova forza politica in cui confluire, magari guidata dall'ex presidente del Consiglio, è una manna dal cielo per Art.1. Paolo Delgado su Il Dubbio l'1 luglio 2021. In discussione non c’è il ‘se’ ma il ‘quando’ e il ‘come’. Se anche Giuseppe Conte non volesse dar vita a un suo partito, e si tratta di un periodo ipotetico dell’irrealtà, sarebbe a questo punto costretto a farlo dalle pressioni imperiose che lo spingono da più parti in quella direzione. Ieri le agenzie di stampa erano un florilegio di dichiarazioni pentastellate nelle quali generali e ufficiali confessavano di interrogarsi sulla loro permanenza nel Movimento. Si interroga anche Vito Crimi, un fedelissimo fino a qualche nanosecondo fa, che ora non esita ad azzuffarsi con l’Elevato sulla legalità del voto sulla piattaforma Rousseau. La presa di Conte sugli eletti, o su una percentuale ampia di loro, è indiscutibile ma non c’è solo questo. L’incognita del doppio mandato pesa altrettanto e forse anche di più e chi verrebbe fatto fuori da quelle regola non più aurea è comprensibilmente attratto da un partito che avrebbe spiacevoli limiti del genere. Eppure neppure questo è decisivo. L’elemento chiave, come spesso capita, è la sensazione che quella sia la carta vincente, il carro destinato a correre, all’opposto dell’astro calante del gran capo descritto ormai da molti, inclusi parecchi sin qui adoranti, come una specie di pazzo furioso. La politica c’entra poco, anche perché se ne è discusso poco e niente. Per la prima volta forse nella storia una formazione politica cambia radicalmente il proprio dna senza neppure discuterne, senza che emergano dubbi, necessità di chiarimenti, richieste di chiarificazione. La partita è apertamente giocata solo sul nome del Cesare di turno, quale più adeguato ai tempi e quale passato di moda. Se per capriccio dei sondaggi domani si scoprisse che a tirare è ancora l’uomo del vaffa e non l’avvocato del popolo e se sparisse per incanto la maledizione dei due mandati molti di quelli che ‘ si interrogano’ sul senso della loro permanenza nel M5S si risponderebbero permanendo. Un capitolo a sé merita la sinistra del Pd, oggi concentrata in Articolo Uno, componente ( ormai quasi unica) di Leu. Da mesi nessuno esalta e difende Conte con trasporto maggiore di Bersani e del gruppo di ex notabili Pd ritrovatisi più o meno homeless. Neppure i 5S hanno difeso il governo Conte con più veemenza di loro. Nessuno si mostra a tutt’oggi più scettico nei confronti del governo Draghi. In termini di percentuale contano poco, è vero. Ma non ci sono solo i sondaggi e il gruppo di Articolo Uno porterebbe in dote quell’esperienza politica che manca sia a Conte che agli eventuali transfughi dei 5S, una rete di rapporti intessuti nel corso di una militanza a e di una carriera di lungo o lunghissimo corso, una capacità amministrativa, in alcuni casi, indiscutibile nonché un rapporto stretto con i sindacati e in particolare con la Cgil. La loro presenza basterebbe a qualificare come "di sinistra" il partito di un leader al quale la formuletta in questione non si riesce a estorcerla neppure con le tenaglie. Articolo Uno e i suoi leader, Bersani e Speranza, sono convinti da un pezzo che non si possa affrontare l’agone elettorale con il proprio simbolo. Prevedono risultati catastrofici e probabilmente hanno ragione. L’interlocuzione con il Pd è però faticosa e di dubbio esito. L’apparizione miracolosa di un partito nuovo di zecca e che oltre tutto se non proprio di sinistra sarebbe almeno ‘ contro la destra’ li trarrebbe fuori dal vicolo cieco di corsa. Poi c’è Il Fatto, ed è una presenza di primissima grandezza. Per gli elettori reali e potenziali dell’area pentastellata la parola di Travaglio è più o meno Vangelo e Travaglio punta dritto al partito contiano. Era schieratissimo sin dall’inizio ma negli ultimi giorni ha rotto gli argini fino a lanciarsi in un appello agli eletti 5S perché "lascino solo" il Folle che, parola di san Marco, ‘ scambia le allucinazioni per visioni’. Il partito che ancora non c’è insomma ha già un house organ, una massa di parlamentari, un certo numero di ‘ quadri’ e di amministratori esperti. Non basta a fare un partito. Ci vorrebbe un progetto politico, ma a queste facezie non guarda più nessuno. Ci vorrebbe una linea, e lì il guaio è più serio perché il partito di Conte non può essere troppo draghiano anche se gli anti draghiani doc resteranno o torneranno nella casa madre. Ma soprattutto ci vuole un leader e, al contrario delle apparenze, non è affatto detto che ci sia. O almeno non è detto che sia in grado di ricoprire il ruolo. Conte ha gestito peggio di come non si poteva la crisi finita con la sua dipartita da palazzo Chigi. Ha bissato con lo psicodramma della leadership 5S. Nulla autorizzi a credere che si comporti in questo frangente con maggiore perizia. Ma un primo segnale lo si avrà presto. Se come sua abitudine Peppi prenderà tempo e rinvierà la decisione invece di battere il ferro subito sarà il più infausto tra i presagi.

L'Ipocrisia dei due Mandati. Montesquieu per “La Stampa” il 19 giugno 2021. Dago: dietro il nom de plume, Montesquieu, si cela un ex altissimo dirigente dello Stato, Mauro Zampini, già Segretario generale della Camera. Fioccano interviste dei principali protagonisti del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Non tutto è chiaro, non tutto coincide. Una certa genericità nelle risposte, poco a che vedere con l'originale del movimento, nel cui nome popolano le camere centinaia di deputati e senatori. E nei cui confronti, e soprattutto nei confronti di tanti elettori, nessuno si pone interrogativi di coerenza. Permangono ambiguità ed imbarazzo a fronte della più semplice delle domande, quella sul limite dei due mandati parlamentari. Si conferma la distanza dall'idea di partito disegnata con pochi, ineludibili tratti, nell' articolo 49 della Costituzione, definito da Conte, con un certo distacco, partito «novecentesco». E con poco riguardo per l'art. 49 della nostra Costituzione, colpevolmente mai attuato dai partiti del tempo: partiti in regola con i requisiti richiesti, ma desiderosi di avere le mani libere dalle puntualizzazioni di una legge attuativa. Se questa lunga e misteriosa traversata nel deserto trasformerà il movimento in un partito, come sostengono in parecchi, sarà un partito come lo si intende da quasi tre decenni. Partiti personali, leaderistici, con una dissimulata ma incolmabile distanza tra vertice e militanti. Vengono capovolti, letteralmente, tutti i requisiti posti nell' articolo 49: l'iniziativa cala dall'alto, anziché essere coagulo spontaneo di persone unite dalle idee; nessuna collegialità, metodo democratico neanche a parlarne, un capo assoluto, spesso un proprietario. Si vanta la fine delle correnti, in realtà è la fine di ogni dialettica interna. La finalità di determinare la politica nazionale è incompatibile con l'interesse di una o poche persone. Di conseguenza, un leader disinvolto può esibirsi, in poco tempo, in veste di separatista e nazionalista, antimeridionalista e nazionale, estremista e moderato, europeista ed euroscettico, giustizialista e garantista. Il tetto ai mandati parlamentari è figlio di questa trasformazione, e si perfeziona con la ventata populista. Che nasce da lontano, con il trascinante successo di un libro sulla classe politica disegnata come una casta (di Rizzo e Stella, ndD); con la geniale avventura berlusconiana, che partorisce creature simili, anche a sinistra; si insinua nel grande e molle partito della Costituzione, il pd versione renziana, fino a specchiarsi nell' idea iperpopulista del «Senato gratis»; quindi, la sublimazione con il movimento di Grillo e Casaleggio. Nel tempo, i militanti di cui all' art. 49 sono diventati lavoratori dipendenti, e come tali vengono reclutati e neutralizzati. Deputati e senatori sono valutati con i parametri quantitativi del lavoro manuale, che si traduce spesso nella inutile e inerte presenza nelle aule. Cessa l'immagine di una figura la cui attività si prolunga dal collegio al parlamento e ritorno, senza soluzione di continuità: quello di parlamentare per la Costituzione costituzionale è uno stato permanente, come la rappresentanza, non una somma di gesti teleguidati. Oggi, con il concetto di rappresentanza, viene negata la stessa idea di popolo sovrano. I parlamentari rappresentano solo il proprio datore di lavoro, il capo del partito, a cui devono la "nomina" in una delle camere, senza alcun contributo degli elettori. Questo processo stritola un altro bastione della nostra Costituzione parlamentare, l'art. 67, l'autonomia del parlamentare. Così nasce e prospera l'ingiurioso fenomeno della migrazione parlamentare. Fenomeno praticamente assente nella prima Repubblica, legato solo a sporadici e nobili eventi politici, scissioni o altro di simile; oggi prodotto dalla condizione di lavoratori dipendenti e dalla naturale valutazione della convenienza di nuove offerte di impiego. Un fenomeno, questo delle migrazioni in parlamento, divenuto tristemente lavoro per magistrati e tribunali, e non raramente. Pezzi di Costituzione esplodono, come in un campo minato: l'art.72, il procedimento legislativo, strappato alle camere dai governi; gli articoli 49 e 67, l'essere partito e parlamentare di un partito, irriconoscibili. E tanto altro. Pezzi di costituzione che rimangono scritti, per l'ipocrisia dei partiti in tempi di populismo. La prima Repubblica - questa è una informazione probabilmente sconosciuta ai più - conobbe essa stessa situazioni di limitazioni di fatto a due mandati parlamentari. Praticate soprattutto dal partito comunista, attraverso la dichiarazione di inabilità per l'appunto dopo due mandati complessivi, e la conversione degli "inabili" al lavoro per il partito. Con assegno di inabilità. Pratica del tutto incommendevole, almeno sotto il profilo della liceità morale, attraverso certificazioni mediche ufficializzate dagli uffici di presidenza di Camera e Senato. Organismi in cui era ed è rappresentato l'intero ventaglio dei gruppi parlamentari. Ma pratica priva di ribellione costituzionale, come quelle successive; pratica semmai dovuta alla dovizia di militanti, al costo dei partiti, all' assenza di finanziamento pubblico della politica. Con aneddoti addirittura grotteschi, di parlamentari già dichiarati inabili al lavoro parlamentare, e rieletti in altri partiti. Costituzione sfigurata, in conclusione , ma corrosa dall'interno, mentre l' aspetto esteriore si presenta perfetto. La politica prospetta riforme istituzionali, anzichè eliminare la ruggine corrosiva che gli stessi partiti hanno provocato.

La fine di quella stagione è la prova che siamo in stallo. Segni e il referendum, storia di un sogno infranto. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 9 Giugno 2021. Sono passati ormai trent’anni da quel 9 giugno che inaugurò la stagione dei referendum elettorali. L’iniziativa, che ebbe come indiscusso leader e tenace promotore Mario Segni, fu uno dei punti più alti dello sforzo di riforma istituzionale e anche una delle poche occasioni in cui le speranze di rinnovamento durarono più dello spazio di un mattino. In quest’epoca in cui qualcuno si illude che i problemi della politica sarebbero miracolosamente risolti dalla democrazia diretta, bisogna ricordare che quel referendum non fu pensato per abbattere le istituzioni rappresentative. Al contrario fu il tentativo di innescare un processo riformista per rivitalizzare la democrazia parlamentare rendendola più efficiente e più responsabile di fronte al corpo elettorale. Esso, inoltre, si rivelò l’unico mezzo per sbloccare la stagnazione riformatrice, cui i partiti ormai da un quindicennio non riuscivano a far fronte. Tramontati i tentativi di rinnovamento per via istituzionale (la “Grande riforma” craxiana e la Commissione Bozzi) o politica (l’ambizione di costruire una democrazia dell’alternanza mediante la formazione di una sinistra europea anche attraverso il riequilibrio di forza tra socialisti e comunisti), la X legislatura (1987-1992) si rivelò l’apoteosi della stagnazione, simboleggiata dal famoso Caf (dalle iniziali di Craxi, Andreotti, Forlani) e priva di qualsiasi respiro strategico. Il referendum del 1991 (insieme al successivo del 1993) rappresentò inoltre l’estremo tentativo di cambiare il sistema “per via politica”, prima che su di esso si abbattesse la valanga di Mani Pulite nel 1992. Certamente sia il referendum che le iniziative giudiziarie concorsero oggettivamente all’abbattimento della prima Repubblica, ma sarebbe storicamente errato (benché questo ci dica la vulgata ufficiale) dimenticare che il movimento referendario precedette le inchieste. Queste, forse, avrebbero avuto un altro decorso se dal sistema politico fosse giunta una risposta più adeguata alle istanze di cambiamento. I referendum non furono un escamotage tecnicistico. Furono preparati da un lungo dibattito culturale. La riflessione sul compimento della democrazia e sulla necessità di superare il modello consociativo (figlio del contesto geopolitico della guerra fredda) fu ricchissima. Si invocava la democrazia dell’alternanza, resa difficile anche dalle scelte costituenti, che, per necessità, avevano privilegiato gli istituti di “mutua garanzia” tra i partiti, piuttosto che governi stabili ed efficaci. Alla caduta del muro di Berlino, nel 1989, la “massa critica” per tentare un cambiamento era ormai matura. Nel 1988 nacque il Movimento per la Riforma elettorale, di Segni, che incontrò sulla propria strada le proposte dei radicali di Marco Pannella. Sulle riforme poi si mostrò qualche attenzione di leader come De Mita e Occhetto e di studiosi come Roberto Ruffilli, ucciso nel 1988 dalla Brigate rosse. Ho avuto l’opportunità di partecipare a quelle vicende da un angolo visuale molto particolare. Fu, infatti, la Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) che io presiedevo insieme a Anna Maria Debolini (la parità di genere era praticata per statuto), a lanciare pubblicamente, nel suo 49° Congresso, a Bari, l’idea del referendum. Sul piano tecnico le soluzioni non erano semplici. Si trattava di superare una giurisprudenza costituzionale che escludeva simili interventi, qualora, all’esito del referendum, non fosse scaturita una “normativa di risulta” capace di funzionare (e consentire le elezioni) senza necessità di ulteriori interventi del legislatore. L’idea su cui si lavorava era quella di utilizzare l’impianto uninominale della legge elettorale del Senato togliendo le disposizioni (aggiunte a seguito di un emendamento in Assemblea Costituente) che, di fatto, trasformavano il sistema in un proporzionale pressoché puro. Il problema era che nel corso degli anni il numero dei collegi uninominali non era stato aggiornato: ne mancavano 77 su 315. Così, proposi di costruire il quesito in modo da sfruttare la normativa proporzionale solo per eleggere quei 77 senatori, trasformando in uninominale tutto il resto: un maggioritario corretto con una quota proporzionale. Purtroppo quel referendum fu comunque bocciato dalla Corte (il via libera arrivò solo nel 1993). Nel 1991 rimaneva solo il referendum sulla preferenza unica. Meno “dirompente” ma dal significato altamente simbolico. Le preferenze multiple erano, infatti, un elemento di inquinamento e, persino, di controllo del voto in alcune zone del paese. E il referendum passò con il 60% dei sì, la maggioranza assoluta degli italiani. A distanza di trent’anni, lo scetticismo sulle riforme è ormai dilagante. Tanto che persino il movimento referendario viene liquidato come un’ambizione illusoria e inconcludente. È una narrazione che conviene a tanti. A chi è contro il maggioritario, ma anche a chi preferisce giocare nella confort zone dello status quo, piuttosto che rischiare il cambiamento che magari gli converrebbe pure. In realtà quei referendum non furono affatto inutili. Fin quando durò, il maggioritario assicurò comunque (dati alla mano) la maggiore stabilità dei governi della storia repubblicana e pre-repubblicana. E consentì anche politiche economiche (e governo del debito) più virtuose di quelle che si ebbero prima e anche dopo. Il fallimento, invece, fu ancora una volta della politica. Le leggi elettorali, infatti, possono fare solo una parte del lavoro. Il resto devono farlo riforme costituzionali e regolamentari che nessuno riuscì mai a portare a termine. Per quelle, purtroppo, non c’era possibilità di un referendum popolare. La fine della stagione referendaria, insomma, più che essere una prova del fallimento dell’iniziativa è semmai una conferma della gravità dei problemi in cui il nostro sistema politico ormai da cinquant’anni langue e in cui continua ad agonizzare senza il coraggio e la capacità di affrontarli una volta per tutte. Coi risultati che vediamo. Giovanni Guzzetta

Da Scelba a Mancino fino alla legge Zan. Quell’attrazione irresistibile per il reato “ideologico”. David Romoli su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Stando alle premesse e alle promesse di questo primo ventennio, il XXI secolo sembra essere, per la giustizia italiana, quello delle “aggravanti”, della casistica minuziosa che calibra le pene non sul reato ma sulla maggiore o minore censurabilità delle sue motivazioni, distingue le vittime tarando la pena sulla loro vulnerabilità e sull’allarme sociale che di volta in volta le circonda, si concentra sull’istigazione a delinquere allargando l’area a dismisura, sino a confinare e spesso sconfinare con la lesione delle libertà di pensiero e di espressione. I rami sono fioriti come in una foresta tropicale in questo secolo, ma l’albero era stato piantato alla fine di quello precedente, con la legge Mancino del 1993 che prende il nome dall’allora ministro democristiano degli Interni, poi presidente del Senato. In realtà Nicola Mancino si limitò a proporre una legge, il cui contenuto fu invece messo nero su bianco soprattutto dall’allora deputato del Pri Enrico Modigliani, nipote del premio Nobel per l’Economia, Franco Modigliani. Il clima di allarme sul quale la legge interveniva era dovuto all’intensificazione in quei mesi di manifestazioni neofasciste, soprattutto a opera di un gruppo che esisteva già da una decina d’anni ma che, nel tracollo della prima Repubblica, aveva conquistato maggior visibilità e assunto caratteri più minacciosi, il Movimento Politico Occidentale guidato da Maurizio Boccacci, che infatti fu sciolto subito dopo il varo della legge. La legge si ricollegava alla famosa legge Scelba del 1952 sul divieto di ricostituzione del Partito fascista, molto citata e lodata anch’essa negli ultimi anni dimenticando che Scelba abbaiava contro l’estrema destra solo per mordere la sinistra, contro la quale le sue forze dell’ordine usavano abitualmente non le leggi ma le armi da fuoco. Le novità della Mancino erano essenzialmente nell’articolo 1, che fissava una pena fino all’anno e mezzo di carcere per chiunque propagandasse idee di superiorità razziale o etnica e dai 6 mesi ai 4 anni per chi incitasse a commettere atti di violenza o di “provocazione alla violenza” per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La legge Mancino, a tutt’oggi considerata ed elogiata come “il principale strumento contro i reati d’odio, fu una vera rivoluzione nella concezione del diritto. A essere sanzionati non erano i crimini e neppure l’istigazione a delinquere ma l’espressione di idee che avrebbero potuto portare a quell’istigazione e poi a violenze effettive. Per la prima volta, inoltre, la gravità del reato era misurata non sull’identità dei colpevoli, come nei casi del terrorismo o della criminalità organizzata, ma su quella delle vittime. Il rischio di degenerazione nella criminalizzazione non degli atti ma delle opinioni, la cui libera espressione sarebbe garantita, per quanto esecrabili, dall’art.21 della Costituzione, era evidente e fu segnalato sin dal primo momento. La legge del 2006 sui reati d’opinione intervenne infatti su quel testo modificandone in modo significativo i termini. La “diffusione” di idee razziste penalizzata dalla legge del 1993 fu sostituita con la “propaganda” delle stesse. A costituire fattispecie di reato non fu più l’ “incitazione” ma l’ “istigazione”. La legge Mancino restò più o meno lettera morta fino a che, nel nuovo secolo, le campagne contro i “discorsi d’odio” partite negli Usa, la diffusione dei social e il dilagare di umori ostili all’immigrazione a volte apertamente segnati e sempre venati dal razzismo, resero quella legge già vecchia lo strumento per intervenire su fenomeni nuovi. Nel 2007 l’allora ministro della Giustizia Mastella propose una legge che punisse il negazionismo, cioè qualsiasi posizione negasse la realtà storica della Shoah. All’epoca ci fu una vera e propria insurrezione degli storici che in massa bocciarono la proposta, impugnando non solo la difesa della libertà d’espressione e di ricerca ma anche l’inopportunità di offrire ai negazionisti l’occasione per “ergersi a paladini” della stessa. Mastella ingranò la retromarcia, ripose nel cassetto la proposta. La riprese nel 2012 il Pd, senza riuscire a convertirla in legge per lo scioglimento delle Camere l’anno successivo e stavolta le critiche degli storici e anche di alcuni esponenti di rilievo della Comunità ebraica furono molto più fievoli della levata di scudi di 5 anni prima e comunque rimasero inascoltate. Riproposta nel 2013, la legge contro il negazionismo è stata approvata nel giugno del 2016. È una “estensione” della Mancino che punisce con la reclusione dai 2 ai 6 anni chiunque neghi “in tutto o in parte” la Shoah e i crimini contro l’umanità e di genocidio. Qui il confine tra sanzione contro il reato commesso o l’istigazione a commetterlo e il divieto di espressione letteralmente scompare. Ma in generale gli anni a ridosso della pandemia sono quelli della grande fioritura delle leggi eccezionali miranti a colpire le parole più che gli atti, le espressioni, per quanto aberranti, più che non le azioni criminali. Nel 2017 l’allora presidente della Camera Laura Boldrini invocò a voce altissima una legge severa contro gli hate speech, i “discorsi d’odio”, in rete. Chiese punizioni severe e per dare l’esempio spedì la polizia a casa di un ragazzo colpevole di aver diffuso in rete fotomontaggi da lei ritenuti offensivi. La richiesta, avanzata più volte e sostenuta da numerosi opinionisti e politici, non è mai diventata effettiva proposta di legge ma si tratta solo di una sospensione dovuta alla pandemia. La prospettiva resta ed è recentissima la rinnovata richiesta di una legge contro i discorsi d’odio in rete avanzata da un gruppo di senatori di LeU e del gruppo Misto dopo le minacce in rete contro il ministro della Salute Speranza. Era invece arrivata all’approvazione della Camera la legge contro l’apologia di fascismo proposta nel 2017 dal deputato del Pd Emanuele Fiano, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz. Contava un solo articolo e penalizzava qualsiasi richiamo al fascismo, dall’oggettistica al saluto con il braccio destro teso. Bloccata prima dell’approvazione finale a palazzo Madama dalla fine della legislatura la legge, a differenza di quella sugli hate speech, potrebbe non risorgere, neppure in presenza di una maggioranza parlamentare disposta a votarla. Al momento l’ondata di panico da fascismo alle porte che per qualche anno ha percorso l’intera Europa, con qualche fondamento e molta esagerazione, sembra alle spalle. Certo bisognerà vedere quale sarà il quadro dopo la pandemia. Anche la legge approvata alla Camera e ferma al Senato per l’ostruzionismo in commissione Giustizia della Lega, quella Zan contro la transfobia, ha una lunga gestazione. Riassume infatti diversi ddl, a partire da quello presentato dalla Pd Paola Concia nel 2012. Anche in questo caso si tratta di una estensione della legge Mancino, che sfiora pericolosamente e forse oltrepassa i confini della libertà d’espressione costituzionalmente sancita in due punti chiave. Nel 2018 i contenuti della legge Mancino sono stati assunti dal Codice penale, in due articoli tra cui il 604-bis che penalizza la “propaganda di idee e istigazione a delinquere”. La legge sopprime la seconda parte della formula lasciando solo la propaganda di idee. Il testo assicura poi la piena libertà di esprimere opinioni “purché non idonee” a determinare il pericolo di conseguenti atti violenti. Formula, difficile negarlo, a maglie tanto larghe da rendere arduo determinare una casistica tanto precisa da escludere il reato d’opinione. Del resto la ratio delle leggi moltiplicatesi nell’ultimo decennio è proprio quella di “rieducare” a colpi di divieti e sanzioni, di intervenire sulle mentalità prima e più che non sugli atti. Con una missione non confessata ma neppure troppo nascosta simile: tracciare un confine preciso che metta al riparo dal reato d’opinione è semplicemente impossibile.

Il metapartito che ingloba tutti. Se Conte è il grillino dei poveri, Letta aspira ad essere il grillino dei ricchi. Michele Prospero su Il Riformista il 26 Marzo 2021. Una “affascinante avventura”, ha dichiarato Letta presentando la foto con Conte. Affascinante, può darsi. Avventura di sicuro. Se l’inizio ha sempre un che di evocativo, quello di Letta annuncia cadute inevitabili nell’alleanza organica con Grillo come destino. È in atto un passaggio significativo, di sistema. Croce parlava di quello liberale come di una sorta di metapartito. Non un singolo soggetto ma molteplici attori confluivano nella grande galassia liberale così elastica da essere per l’appunto un vero metapartito aperto e senza confini organizzativi. Oggi il metapartito, che raduna spezzoni diversi di ceto politico, ha le sembianze della vecchia Dc. Il sistema attuale è abitato quasi in ogni spazio politico disponibile dal metapartito democristiano. Le prove surreali di realismo in salsa Bettini-Zingaretti, con la fuga precipitosa dopo la trasformistica toccata, hanno reso al momento irreversibile l’omologazione di ogni cosa sotto la accogliente balena democristiana. Tranne la post-fascista Meloni, coerente con una identità come nessun erede del Pci è stato capace di fare con la propria storia, tutti i protagonisti della piccola politica sono organici a vario titolo allo scudo crociato, da Renzi ai centristi, dai populisti alla “sinistra”. Berlusconi è da tempo membro autorevole del partito popolare europeo. Persino nella Lega c’è Giorgetti che spinge per un analogo approdo post-sovranista. Il non più ribelle non-partito grillino spera in un democristiano moderato come Conte per sopravvivere come soggetto di potere e spartizione. Il Pd è finito per diventare una pura e semplice ridotta democristiana. A Letta si oppongono Guerini (di ascendenza andreottiana), Lotti (ultramoderato dc) e a suo fianco opera, come regista di ogni investitura del sovrano di turno, l’eterno Franceschini. Parafrasando Gentile, tutto nella Dc e niente all’infuori della Dc. Che differenza di fondo c’è da rilevare tra il populista “sano” Conte e il populista omeopatico Letta? Proprio nessuna. Conte gioca al populismo che parte dal basso. Letta predilige il populismo dei ceti elevati. Se Conte è il grillino dei poveri, Letta aspira a essere il grillino dei ricchi. La convergenza della foto sta nelle cose. Il neosegretario avrebbe potuto fissare alcuni punti differenzianti: sul piano sociale, spendendo qualche parola sullo sciopero degli invisibili di Amazon, sul piano politico, sulla necessità di correggere la sconcezza della soppressione della prescrizione. Nulla di tutto questo. Comunicazione e spot allo stato puro: voto a 16 anni, decapitazione delle correnti interne con l’imposizione di stampo virile di una donna ai vertici dei gruppi parlamentare. Dopo aver cancellato da presidente del consiglio il residuo di finanziamento pubblico dei partiti, Letta prosegue nel suo viaggio antipolitico chiamando alla segreteria un non iscritto al partito. Insomma, per stare nel clima curiale dell’epoca, un cardinale reclutato tra i non battezzati. Che adesso il democristiano Letta si proponga come traghettatore del M5S nel partito del socialismo europeo (dove peraltro il Pd è entrato su iniziativa dell’altro tosco crociato) svela come si è nel tempo ridotta ad essere quella casa che un tempo sembrava un miraggio irraggiungibile, un attestato di riconosciuta maturità per le forze politiche rimaste nel limbo del post-comunismo. Che un non-partito passi con disinvoltura dai banchi di Farage a quelli dei socialisti appartiene al grottesco, ed è una pura e semplice blasfemia che quale Virgilio dei grillini si proponga il capo del Nazareno. Il guaio è che alla sinistra, ridotta all’irrilevanza per la sua manifesta incapacità, oggi è riservato solo il lamento sterile verso il galoppante andamento del metapartito democristiano. Le tocca fare come Machiavelli nel Proemio al Libro secondo dei Discorsi, costretto dal bruciante pensiero della sconfitta a indignarsi sulle cose e quindi dal piano del politico scendere al momento etico. Una sconfitta bruciante, una vera disperazione politica senza rimedio nell’immediato.

Il dibattito. Il Pd di Letta non è erede dei democristiani, la Dc odiava il populismo. Marco Follini su Il Riformista il 27 Marzo 2021. Ma davvero sono diventati tutti democristiani? Letta, ma anche Conte e perfino un po’ Giorgetti. Democristiani loro, democristiano il loro retroterra e assai democristiana la trama dei loro rapporti. Un vero e proprio “metapartito”. Così almeno fa capire Michele Prospero sul Riformista di ieri. Il suo racconto è suggestivo, ma mi permetto di obiettare. Questa idea che ricorre tanto spesso del partito-spugna, capace di assorbire e mescolare gli umori più diversi, ma al fondo privo di una sua identità, duttile fino all’estremo, finisce infatti per saltare a piè pari molta della controversa storia del dopoguerra. La Dc aveva le sue furbizie, s’intende. E affrontava la battaglia politica concedendo il giusto – e a volte anche più del giusto – alle esigenze della mediazione, della manovra, dello scambio. Non aveva rigidità ideologiche, forse. Ma su alcuni, pochi, punti sapeva essere fin troppo rigorosa. Soprattutto, la Dc aveva piantato alcuni paletti pressoché insuperabili intorno a sé. Non si poteva trafficare con tutti. Agli eredi delle grandi ideologie del tempo si doveva opporre una barriera assai difficilmente valicabile. Ma soprattutto, verso il populismo c’era un’ostilità drammatica e profonda, che non conobbe mai neppure le eccezioni che forse la tattica avrebbe potuto consigliare. Tant’è che quando si affermò il movimento dell’Uomo Qualunque (il populismo dei tardi anni quaranta), De Gasperi si diede a contrastarlo con un’intransigenza assoluta. Togliatti civettò con Guglielmo Giannini, i democristiani no. Nessuno di loro. C’era in quella classe dirigente la consapevolezza che quando ci si divideva sull’idea di “popolo” non era più ammessa nessuna indulgenza. A quanti riducevano quel popolo alla massa, alla folla, a un insieme indistinto, privo di ogni articolazione, lasciato in balia degli imbonitori del momento, non si poteva far altro che opporre un’altra idea di popolo: quella fondata sui legami della rappresentanza. Verso il populismo la Dc tenne sempre un punto fermo. I nostri padri erano consapevoli che se si fosse imboccata quella strada si sarebbe messo in pericolo il carattere di una democrazia che per loro doveva fondarsi sulla mediazione. E dunque organizzarsi per corpi intermedi. Ma soprattutto esercitare tutte quelle virtù di ascolto, pazienza, tessitura che ora la nostra sgangherata “modernità” politica ha largamente disperso. Tutto questo per dire che no, di questi tempi non soffia più lo spirito democristiano. Forse tornerà a soffiare quando il vento del populismo dovrà ammainare le sue bandiere. Magari dopo aver dato una mano, anche noi, a farle ammainare.

Il dibattito. Quando Scoppola aprì al populismo della Democrazia Cristiana. Michele Prospero su Il Riformista il 30 Marzo 2021. Marco Follini su un punto ha ragione. La Dc ha poco a che fare con il populismo verso cui invece strizzano l’occhio Franceschini o Letta. Estranei al populismo erano anche gli altri grandi partiti dell’Italia repubblicana. Forse i liberali avevano una qualche debolezza verso Giannini ma solo perché il commediografo aggrediva un loro antico nemico (di Croce, di Mosca, di Orlando), il partito burocratico di massa con il professionismo politico. È chiaro che la democrazia dei partiti costituiva in sé l’antitesi “tecnica” al populismo. Solo quando declinano i partiti storici e cade la “mediazione” politica comincia il tempo lungo del populismo. Poiché non si dà un assoluto punto zero nei processi politici, deve esserci stato nella vicenda dei due principali protagonisti del bipartitismo imperfetto qualcosa che ha lasciato incuneare nel loro corpo il momento populista. E questa congiunzione, che dai partiti di integrazione di classe conduce alla egemonia dell’antipolitica, chiama in causa il modo con cui Dc e Pci-Pds hanno gestito (con il congedo dalle categorie istituzionali di Togliatti e di De Gasperi ispirate ad una “democrazia mediata”) la transizione italiana dei primi anni ’90. Il mito politico del passaggio “dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini” è nato nel cuore della cultura cattolica. Con sofferenza lo stesso Scoppola che coniò l’immagine avvertirà presto i rischi involutivi della sua formula-manifesto che in effetti si prestava a fughe mitologiche. La società civile divenne all’istante il canone legittimante del nuovissimo partito azienda che occupava lo Stato e l’elettore, dopo aver riconquistato lo scettro usurpato dai partiti, divenne nel tempo “il cittadino punto e basta” cantato nell’inno del finto ribellismo grillino contro la casta. Il movimento referendario che, parole di Segni, intendeva «dare un calcio al culo della partitocrazia» (è proprio il dc conservatore il vero inventore del “vaffa day”), la Rete con la mobilitazione etica contro lo Stato raffigurato come opaco livello del compromesso con la mafia stragista-imprenditrice, sono costole del partito-Stato che nella crisi dell’ordinamento invocano il nuovo inizio, i riti purificatori della discontinuità, la semplificazione moraleggiante della grammatica del sospetto. Il movimento referendario (che impone il rifiuto pregiudiziale di ogni riforma istituzionale incrementale gestita dal parlamento “degli inquisiti”) e il giustizialismo (che rigetta ogni risposta di sistema alla demolizione togata dei partiti) sono gli antecedenti storico-culturali del populismo trionfante. Nati nelle casematte del cattolicesimo democratico, e sorrette in gran spolvero dal partito di Repubblica, il nuovismo e il giustizialismo garantirono una identità ritrovata per il post-Pci smarrito in una confusa lotta contro il regime dei partiti, il consociativismo, la democrazia bloccata. La soluzione politica a tangentopoli venne rifiutata dinanzi alla insubordinazione delle toghe accorse sul Piave, alla indignazione del popolo dei fax. E il “procurattore”, che inveiva contro Forlani o Craxi rivolgendosi direttamente alle telecamere presenti in aula per la diretta video, proprio quando era caduto in disgrazia venne recuperato e, poco contavano le sue simpatie per il Msi, accompagnato a correre nella tranquilla pista rossa del Mugello. Altri tasselli della cultura dei cattolici democratici degli anni ’90 erano quelli della democrazia immediata (elezione diretta della carica monocratica con premi di maggioranza alla coalizione per sapere la sera stessa dello scrutinio il volto del vincitore), della ostilità alla forma partito (l’Asinello era proprio il simbolo del maltrattamento da riservare alla politica organizzata che aveva osato esiliare il padre dell’Ulivo ai vertici dell’Europa). Questa mitologia della disintermediazione e del partito-cartello elettorale sfonda senza alcuna resistenza a sinistra dove si afferma l’obsolescenza del partito di iscritti e di sezioni per inseguire il cittadino delle primarie che si presenta nei gazebo dove uno vale uno (principio metafisico seguito pure nelle candidature di Veltroni nel 2008). Se la “mediazione” è il bersaglio principale del populismo, è evidente che tracce di populismo sono ravvisabili nella cultura politica in età declinante della Dc e del Pds che sono stati senza colpi ferire sedotti dalla fascinazione ulivista, dai non-statuti, dai non-congressi, dalle non-identità, del non-radicamento nei conflitti di classe. La simpatia con cui questi ambienti (e persino figure come Bersani, D’Alema, Orlando) guardano ai grillini, anche dopo la loro disvelatrice esperienza di governo con Salvini, si giustifica solo con il populismo dormiente che dagli anni ’90 è depositato nel cervello annebbiato del Pds e della Margherita. Nella battaglia di potere (non certo di idee, di progettualità organizzativa) tra ex Ds ed ex Margherita ha vinto largamente quest’ultima che esprime il capo dello Stato, il presidente del parlamento europeo, il commissario europeo, il segretario del Pd e i leader dei suoi oppositori interni o dei suoi competitori esterni. Non c’è più contesa, il metapartito democristiano, erede di quella Dc smarrita e minore che negli anni ’90 da partito-istituzione si converte in un partito-movimento, ha stracciato i rivali che hanno ormai gettato la spugna per carenza di cultura politica. Accade come nei Paesi dell’est, dove quasi tutti i protagonisti della transizione democratica vengono (persino Orban) dal partito unico. Ciò non significa che sia tornato il comunismo. Lo stesso vale per l’Italia. Sono tutti figli della Dc i politici di successo (nei palazzi, non nella società che anzi potrebbe avvertire il vuoto di sinistra) ma da ciò non si deve inferire che sia ricostituita la vecchia balena bianca, che nei suoi molteplici residui odierni è solo un metapartito come furono i liberali (che divennero partito solo a dieci giorni dalla marcia su Roma). E anche Follini dovrebbe smettere di sognare lo scudo crociato come un partito e consolarsi dinanzi alla ancora più triste sorte degli eredi di Gramsci che non hanno neppure un metapartito e tocca loro convivere con la pura disperazione politica nell’età parrocchiale dell’anima e del cacciavite.

Il dibattito. Scoppola populista è una tesi infondata. Stefano Ceccanti su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Molte cose si possono sostenere nelle ricostruzioni storico-politiche, ma fare addirittura di Pietro Scoppola uno dei teorici (sia pure involontari) del populismo, come ha fatto ieri su queste colonne Michele Prospero, è operazione piuttosto ardita se non palesemente infondata, sempre che non si faccia del populismo una notte in cui tutte le vacche dell’innovazione politica sono nere e sempre che si ritenga possibile imbalsamare un sistema politico pre-esistente che aveva con evidenza esaurito la sua spinta propulsiva. Indubbiamente la rivista Appunti di cultura e di politica, che sotto la guida di Scoppola e di Giorgio Tonini (nonché con la partecipazione di altri tra cui il sottoscritto) fin dal dicembre 1988 lanciò le Nove tesi per l’alternanza, il Congresso della Fuci del marzo 1989 che prospettò con Giovanni Guzzetta e Salvatore Vassallo l’ipotesi dei referendum elettorali, il convegno della sinistra dc di Chianciano dell’ottobre 1989 in cui Beniamino Andreatta la sostenne con forza, il ruolo protagonista delle Acli di Giovanni Bianchi nelle campagne referendarie del 1991 e del 1993, costituirono uno dei perni principali su cui poggiò il movimento referendario, insieme al nuovo Pds di Occhetto, Veltroni e Barbera e ai radicali. Esso non poggiava su nessuna premessa populista o genericamente antipartitica, ma sull’idea del passaggio a una democrazia dell’alternanza in cui i cittadini decidessero sovranamente tra alternative offerte da forze politiche, non quindi nate nel vuoto, da una presunta società civile autosufficiente. L’obiettivo polemico non era quindi la mediazione dei partiti in sé, obiettivo in cui consiste certo uno dei pilastri del populismo in antitesi alla democrazia rappresentativa, ma quella particolare forma di “democrazia mediata” che aveva smarrito (come già capitato nella Quarta Repubblica francese in cui quella definizione era stata coniata da Maurice Duverger, anch’egli cattolico democratico, socialista in Francia, eletto dal Pci al Parlamento europeo), qualsiasi legame chiaro tra consenso, potere e responsabilità. Non quindi una condanna della mediazione in sé, che anzi la cultura della mediazione era ed è uno dei perni chiave della cultura cattolico democratica sia contro le pretese di deduzioni immediate di scelte politiche dalla fede religiosa sia contro una visione politica basata sul rigido schematismo amico-nemico, ma invece la condanna puntuale di un tipo oligarchico di mediazione, tutta bloccata nelle dinamiche oscure dei veti reciproci e dell’uso spregiudicato del potere di coalizione. Quel blocco senza alternanza che consentiva, caso unico nelle democrazie parlamentari, di accedere alla Presidenza del Consiglio a leader di forze politiche minori in coalizioni costantemente rinegoziate in corso di legislatura e che pertanto andava rimosso anche attraverso le opportune riforme elettorali e istituzionali, le quali accompagnassero il superamento politico delle due anomalie del sistema italiano tra loro strettamente intrecciate, l’egemonia comunista sulla sinistra e l’unità politica dei cattolici. Anomalie di cui era particolarmente cosciente quella parte del cattolicesimo democratico che, attraverso i legami europei, come la Fuci e le Acli, dove entrambe quelle anomalie non esistevano ed era pacifica la presenza di credenti nei partiti della sinistra non comunista. Non c’era quindi populismo nella scelta dei fini, dato che si trattava di giungere al funzionamento fisiologico delle grandi democrazie parlamentari, facendo, come aveva scritto profeticamente Ruffilli prima della caduta del Muro di Berlino (che vedeva in questo il compimento del disegno moroteo), del cittadino l’arbitro delle scelte dei Governi. Anche il richiamo di Scoppola a una “democrazia dei cittadini” che sarebbe subentrata al ruolo monopolistico dei partiti della prima fase repubblicana non aveva nulla della facile polemica antipopulista, specie se si considera che quella espressione era mutuata dal già citato Duverger, che in un suo testo del 1982 l’aveva ricollegata alle evoluzioni delle democrazie rappresentative nonché ad autori come Blum, Mendès-France e Popper. Non c’era populismo neanche nella scelta dei mezzi, giacché l’uso dello strumento referendario non era stato visto né come salvifico né come autosufficiente. Esso si era rivelato necessitato dopo che il Governo Andreotti nel marzo 1990 aveva posto per quattro volte la fiducia contro la maggioranza parlamentare trasversale favorevole all’elezione diretta del sindaco e non fu autosufficiente perché il Parlamento ben perfezionò nel 1993 il quesito referendario sui Comuni con una buona legge elettorale e un’ottima forma di governo (ripresa anche qui da Duverger attraverso la mediazione di Barbera), che non a caso nessuno propone di modificare da allora e che furono poi estesi, sempre dal Parlamento, alle Regioni nel doppio passaggio 1995 (legge elettorale) e 1999 (riforma costituzionale), mentre il disegno purtroppo non si è sinora compiuto coerentemente sul piano nazionale. Peraltro, non casualmente nessuno né dell’area cattolico democratica né del Pds sottoscrisse il referendum radicale sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. Neanche si può parlare del populismo giudiziario come levatrice del movimento referendario perché il successo del primo referendum elettorale del 9 giugno 1991 fu precedente alle inchieste di Tangentopoli ed esprimeva una domanda di politica a cui il sistema reagiva con colpevole lentezza. Le inchieste furono rese possibili per l’incapacità di ristrutturare l’offerta politica e fu quel vuoto a determinare anche le scorciatoie giustizialiste, certo estranee alla cultura del cattolicesimo liberale di Scoppola e Andreatta, della Fuci e delle Acli. In altri termini, questo è il punto-chiave, il movimento referendario nacque da una preesistente crisi del sistema dei partiti, a cui cercò di replicare in positivo, non fu invece esso la causa di quella crisi che le preesisteva in tutta la sua forza. Né si può parlare di populismo perché seguendo intuizioni di apertura già presenti nei partiti precedenti (gli esterni della Dc, gli indipendenti sinistra per il Pci) esse furono poi sviluppate originalmente dal Pd in un modello di partito che si voleva estroverso e contendibile e che, caso mai, fu presto neutralizzato nella sua costituzione reale. È stato anzi il persistere di forme tradizionaliste di politica nell’ambito del centrosinistra, di una mentalità per la quale l’Ulivo, il Pd, le nuove regole elettorali e istituzionali potevano essere viste solo come tristi necessità a cui rassegnarsi superando un’età dell’oro collocata nel passato, che si sono frenate le risposte adeguate e si è creato il terreno per scorciatoie populiste. Se viene riproposta la Messa in latino a chi non sa più il latino, se si pretende di sciogliere il popolo quando è in dissenso col Governo (come diceva Brecht a proposito della prima rivolta degli operai della Ddr nel 1953) allora sì che si è parte del problema e non della soluzione. Ma, per fortuna, anche il nuovo segretario del Partito Democratico Enrico Letta col suo maestro Andreatta ha ben vissuto quel crogiuolo di innovazione politica che è stato il movimento referendario ed è pertanto in grado non solo di difendere l’eredità del passato nelle nuove regole per comuni e regioni e nelle nuove forme del Pd, ma anche di rilanciarla, con l’aiuto di tutti, per completare coerentemente la transizione sul piano nazionale.

Le bordate di Segni, Cossiga e Orlando furono anomalie che la Dc visse male. Marco Follini su Il Riformista il 31 Marzo 2021. Il professor Prospero, quasi democristianamente, mi concede qualche ragione per potermi dare meglio torto. Si, egli dice, la Dc non fu populista, anzi. Però tra le tante cose che si agitavano nella sua pancia ribollivano argomenti, suggestioni, tentazioni che arrivavano a quei confini e qualche volta li valicavano. Segni, per esempio, in lotta contro la partitocrazia. E Orlando alle prese con l’“opacità” altrui. Perfino la Repubblica dei cittadini, evocata da Scoppola contro quella dei partiti, sembra richiamare qualcosa, sia pure involontariamente, delle parole d’ordine che all’indomani della Dc avrebbero preso il sopravvento. Da parte mia potrei aggiungere, come contributo non irrilevante a questo elenco, le “picconate” di Francesco Cossiga. Tutto sta ad intendersi, però, su quale sia la regola e quale invece l’eccezione. E io resto convinto che la regola democristiana sia sempre stata quella di considerare il populismo come un nemico mortale e la demagogia come un peccato politicamente imperdonabile. E dunque di giudicare quelle eccezioni, che pure di tanto in tanto infrangevano le sue regole e i suoi princìpi, alla stregua di vere e proprie minacce alla sua stessa identità. Naturalmente non si possono iscrivere tout court Segni o Cossiga tra i progenitori dell’ondata populista dei nostri giorni. Ma io ricordo bene a quel tempo come anche solo i primi vaghi accenni con cui quelle figure denunciavano i guasti della partitocrazia venivano giudicati a piazza del Gesù alla stregua di una pericolosa forma di avventurismo. Per non dire di Orlando che nella Dc appariva fin dagli inizi come l’emblema di una controversia che non si sarebbe mai potuta risolvere. E infatti, non per caso, quel che rimaneva del partito di un tempo anche quella volta tentò di far quadrato intorno alle sue storiche bandiere. E visse Segni come un figlio che rinnegava la sua famiglia, Cossiga come uno zio che se ne era posto ai margini e Orlando come un genero che aveva fatto il matrimonio più sbagliato. Nelle loro denunce i democristiani del tempo vedevano un rinnegamento delle proprie radici. E a loro volta in quelle denunce la Dc, ormai, non c’era già più. Quanto a Scoppola, egli immaginava che la Repubblica dei partiti avrebbe dovuto cedere il passo a istituzioni più severe, più asettiche, meno colorate dalle passioni e dalle parzialità della contesa politica. E cioè un percorso che andasse dalla parte opposta rispetto a quella che abbiamo poi imboccato. Confidava nella democrazia dei notabili evocata da De Gasperi e credo che oggi avrebbe anche lui la sua parte di difficoltà a fare i conti con l’esito di tante insofferenze che invocando il conte di Cavour si sono ritrovate alle prese con Juan Domingo Peron. E infine, per quanto riguarda il sottoscritto. Io non sogno affatto “lo scudo crociato come un partito”. Ma anche per questo vorrei almeno evitare l’incubo di certe sue caricature.

La seconda repubblica e il crollo del pentapartito. Il Pds fu complice del partiticidio, dopo fu solo populismo. Michele Prospero su Il Riformista il 4 Aprile 2021. In ogni disputa teorico-politica bisognerebbe, per evitare incomprensioni, condividere subito la mozione di Hobbes. Ovvero, precisare con definizioni rigorose i concetti evocati per impedire così un uso equivoco o metaforico delle parole. Per quanto riguarda il populismo, la migliore definizione rimane quella suggerita da Huntington. «Il populista nega la necessità di una struttura che colleghi il popolo ai leaders politici e vagheggia la democrazia senza partiti che sono ritenuti un ostacolo all’espressione della volontà di tutti». Si tratta non di un insulto quindi ma di una modalità di politica che salta le mediazioni, contrae le strutture organizzate denunciate come un diaframma che comprime la bella società civile, i mitici cittadini. Entro questa generale avversione alle mediazioni si possono distinguere una declinazione iperdemocratica, come quella americana del primo Novecento (primarie, limite dei mandati, revoca), e una versione illiberale come quella raccolta dal M5s in una chiave di ostilità alla rappresentanza. In America le istanze del forte movimento populista sono state istituzionalizzate, non hanno rotto il sistema politico-costituzionale. In Italia invece in un quadro assai più compromesso la richiesta del cattolicesimo democratico (e raccolta quale nuova ideologia dal “Pds di Occhetto, Veltroni, Barbera”, come dice Ceccanti) non ha trovato una rete di istituzioni forte e assorbente e anzi il cambiamento del sovrano (dai partiti al cittadino), accentuando la rottura del sistema già in crisi per molteplici cause, ha favorito l’insorgenza delle varianti illiberali di populismo. Il rimprovero, che Follini però non coglie, è anzitutto rivolto al Pds come principale partito sopravvissuto alla catastrofe e che avrebbe dovuto proprio per questa “fortuna” assumere con “virtù” una ottica di sistema (salvare i partiti storici come interesse prioritario della democrazia). Forse per una carenza di identità, e anche per una fragilità di cultura politico-istituzionale, insomma per una lacuna di “leczione ed experenzia”, la leadership postcomunista nella crisi di regime ha preso la strada più breve. È anche legittimo provare l’ebbrezza della potenza per sbarazzarsi degli antagonisti, soprattutto in una fase difficile per la sopravvivenza e accodarsi al movimento referendario e al clima dell’epoca che consentivano di convertire la crisi esterna (crollo del comunismo) in crisi interna (delegittimazione dei partiti di governo). Fa parte dell’essenza della politica sprigionare ambizione di potenza. Ma se questa esibizione di forza culmina nella sconfitta della gioiosa macchina da guerra, allora si è trattato semplicemente, come chiarisce Machiavelli, di una “cattiva ambizione” che scivola in “sciaura”. La liquidazione dello storico Psi con il tintinnio delle manette e le forbici referendarie ha aperto una ferita lacerante, mai riassorbita. Una soluzione politica era costosa, difficile da spiegare al popolo dei fax e delle monetine, ma non è stata mai presa in considerazione. Quando Gerardo Bianco ha chiesto una dilazione temporale del voto per consentire ai popolari di riorganizzarsi in vista del maggioritario, il Pds si è voltato dall’altra parte invocando quello che Occhetto chiamò il “lavacro democratico”. Il giornale di riferimento, Repubblica, dipingeva la richiesta del tutto ragionevole dei post-Dc come la prova di una controrivoluzione in atto. La volontà di incamerare una vittoria annunciata era così forte che il Pds aveva già pronti “manifesti, adesivi, depliant. Tutto pur di sostenere la petizione popolare per la richiesta di elezioni immediate” (A. Caporale, Repubblica del 17 novembre 1993). Certo il Pds ha avuto con la sua condotta egoista almeno dieci anni in più di vita rispetto ai competitori, ma l’assenza di una preoccupazione di sistema, accantonata per cavalcare l’onda ingannevole della “rivoluzione italiana”, ha contribuito al collasso storico della democrazia repubblicana e in definitiva alla triste scomparsa delle stesse forze post-comuniste. Il nodo dell’impatto delle aperture iperdemocratiche (i cittadini sono stati espropriati del loro potere da una casta, da una oligarchia, da una nomenclatura, da un regime) in un sistema semplificato e sfibrato dalla disintermediazione lo ha colto con efficacia Huntington rimarcando «il curioso paradosso per cui mentre la partecipazione popolare cresce, proprio la principale struttura pensata per organizzare e convogliare quella partecipazione –il partito politico- attraversa una fase di declino». Questo urto tra apertura (che raggiunge il culmine con i visitatori dei gazebo chiamati senza distinzioni a eleggere il segretario di un partito: il popolo è ritenuto dallo statuto del Pd come una entità omogenea, indifferenziata, il tutto nella grammatica specifica del populismo) e scomparsa della mediazione o politica organizzata provoca un insidioso corto circuito che alimenta in definitiva il sovranismo e il populismo. La fortunata formula della transizione dalla repubblica dei partiti alla repubblica dei cittadini ha provocato evidenti problemi di rendimento democratico. Proprio Scoppola ha richiamato questi nodi lancinanti parlando di un processo “che si è imposto in forme non guidate e senza un compiuto disegno politico”. Il mito della società civile, la retorica del cittadino-sovrano hanno estirpato le ultime radici di un sistema malconcio precipitando in un vuoto di direzione politica senza più poter contare su soggetti in grado di gestire la transizione. Il risultato del trentennio della seconda repubblica come complessivo momento populista è il susseguirsi non di regolari alternanze ma di crisi di regime con cadute e sostituzioni di interi gruppi dirigenti. La carenza di partiti quali soggetti per la selezione delle classi di governo, l’organizzazione del conflitto di classe, la socializzazione politica di massa ha prodotto un collasso della politica, del modello economico, della società civile. Ancora Huntington è illuminante al riguardo: «Uno Stato privo dei partiti è anche uno Stato privo dei mezzi istituzionali adatti a generare il mutamento e ad assorbirne l’impatto, la sua capacità di modernizzarsi, da un punto di vista politico, economico e sociale ne viene drasticamente limitata». Ma questa situazione non è più storia, è purtroppo ancora cronaca.

·        Perché esiste il negazionismo.

Perché esiste il negazionismo. Il grande intellettuale Saul Friedlӓnder ha speso tutta la vita documentando l’Olocausto, cambiando il modo di studiare la storia. E di fronte alle irrazionalità di oggi, si interroga sul perché neghiamo.  Wlodek Goldkorn su L’Espresso il 29 settembre 2021. Saul Friedländer è l’uomo che, negli ultimi decenni, ha cambiato il modo di fare la Storia. Oggi 89enne professore emerito all’Università della California a Los Angeles, a partire dagli anni Settanta in una disciplina che cercava oggettività, aveva introdotto invece elementi di psicanalisi, ha valorizzato diari intimi mai pubblicati, lettere private e via elencando fattori di esplicita soggettività. Considerato il massimo storico della Shoah e dei genocidi, ha insegnato a Ginevra, Tel-Aviv, Gerusalemme, si è formato come studioso a Parigi, è di casa in quattro lingue: l’inglese, l’ebraico, il francese e il tedesco e questa conversazione in occasione del conferimento del premio Balzan (ogni anno ne sono attribuiti quattro, la metà della somma di circa 700 mila euro è destinata a progetti di ricerca) si svolge in video, in ebraico. La scelta della lingua non è casuale (ci torneremo), ma intanto cominciamo dall’inizio, dalla biografia del nostro interlocutore, se non altro perché il suo modo di fare Storia è legato alle esperienze da bambino e da ragazzo. Friedländer nasce nel 1932 a Praga, e gli viene dato il nome Pavel. Quando ha sei anni, e mentre la Cecoslovacchia è in pratica regalata a Hitler con il Patto di Monaco, la famiglia si trasferisce in Francia. Pavel diventa Paul. Ma anche lì arrivano le truppe naziste. I genitori affidano il ragazzino a un convento dove assume l’identità di Paul Henri‐Marie Ferland, bambino cattolico, mentre madre e padre tentano di passare il confine con la Svizzera. Respinti dai gendarmi elvetici, finiscono in un convoglio diretto ad Auschwitz. Nel frattempo il ragazzo cresce, vorrebbe diventare sacerdote, proseguire gli studi in un collegio di gesuiti, quando un prete, «un italiano, Pietro Lorigola» ci tiene a sottolineare, gli rivela che lui è ebreo e che mamma e papà sono morti. Paul Henri‐Marie decide di cambiare il nome in Shaul (diventato poi Saul), il contrario di un altro Shaul che sulla via di Damasco diventò Paolo. Raggiunge Israele, è comunista e sionista. In pochi anni cambia quattro volte nome e identità. Sullo schermo del computer appare la faccia di un signore mite, occhi che sorridono. Si scusa perché non sempre sente bene, e la distanza e il mezzo non aiutano. Alla domanda se, alla luce dell’uso che fa delle fonti e della sua biografia è concepibile l’oggettività nella Storia, risponde «certo che no». Fa una pausa: «Però uno storico deve cercare di avvicinarsi quanto più possibile a ciò che egli vede non come la verità storica, ma agli eventi come erano». Ride, perché la frase «gli eventi come erano» è una citazione di Otto Rank, psicoanalista viennese, allievo e assistente di Freud e l’uomo che applicò la psicanalisi allo studio della letteratura e delle arti. Chiarita e ribadita l’importanza del metodo che indaga il subconscio, Friedländer prosegue: «Lo storico deve essere conscio della sua posizione. E io parlo dalla posizione di una persona che da bambino ha vissuto nascosto e ha perso la famiglia. Sono conscio della mia soggettività, anche quando faccio il mio mestiere». Il riferimento è chiaro. Negli anni Ottanta la Germania fu teatro di quella che veniva definita la “Historikerstreit” (la lite degli storici: alcuni sostenevano che il nazismo fosse una reazione al bolscevismo con, a volte, allusioni alle origini ebraiche di quel fenomeno). Spiega Friedländer: «Molti storici tedeschi all’epoca pensavano di essere in grado di vedere il Terzo Reich da un punto di vista oggettivo, cosa che io cercavo di mettere in dubbio». Oggi invece tutti parlano della memoria, pochi della Storia «come è successa davvero». E allora qual è la differenza fra memoria e Storia? Friedländer risponde: «Lo storico dovrebbe allontanarsi dalla memoria, nonostante senza di essa non saprà scrivere la sua storia». Un paradosso che spiega così: «Io ho la memoria dell’epoca su cui lavoro. Per questa ragione ho capito che avrei dovuto includere nelle mie opere le voci degli ebrei che hanno scritto i loro diari e in maggior parte sono morti. Però, cerco di controbilanciare la mia memoria e i miei ricordi con gli strumenti classici dello storico». Prosegue parlando del ruolo dei testimoni. Infatti, il testimone raramente comprende il contesto, quello è un compito che spetta allo storico, appunto: «Io, nelle mie ricerche, ho usato spesso testimonianze di persone molto giovani che esprimevano tutta la loro soggettività, per esempio ragazzi comunisti del ghetto di Vilnius o di Lodz. Ma non cercavo le loro idee politiche, per me era ed è importante la loro testimonianza su quello che hanno visto, sui fatti concreti». Cambiamo tema. In Germania, in particolare, ma il fenomeno è comune a tutto l’Occidente, c’è discussione sulla unicità o meno dell’Olocausto rispetto ad altri genocidi e alla storia coloniale. «L’unicità della Shoah non è nel numero delle vittime, né nella sofferenza. Le persone soffrono tutte allo stesso modo e muoiono tutte da sole. La differenza sta nel contesto. Il contesto della Shoah è diverso da quello del genocidio degli armeni, dei tutsi, da quello perpetrato in Cambogia e della carestia in Ucraina negli anni Trenta. Prima di tutto c’è l’ossessione non tanto per gli ebrei, quanto per l’Ebreo e per l’Ebraismo. Si voleva “purificare” il mondo attraverso l’annientamento dell’ebraismo». Fa un esempio di quella ossessione: «Pensi che nel 1944, mentre l’Armata Rossa avanzava verso la Germania da Est e gli Alleati dall’Ovest, i tedeschi hanno pensato di radunare gli ebrei di Rodi e Kos, poche migliaia di persone, trasportarli ad Atene, da lì ad Auschwitz». Insomma, far sparire l’ebraismo dalla faccia della terra era quasi più importante della difesa del Paese. Continua: «La visione del mondo nazista era costruita sull’odio basato su una tradizione religiosa, cristiana, vecchia duemila anni. Non esiste una base di odio simile nei casi del genocidio coloniale, né ovviamente una simile ossessione». Quando parla dell’ossessione e cita i casi di Rodi e Kos sta dicendo che c’è una base di nichilismo radicale nel nazismo? «Non del tutto nichilismo», è la risposta, «visto che c’era un elemento di ideologia. Un’ideologia che contemplava il Male (l’ebraismo) e il Bene (la razza ariana). E che aveva una meta: il Reich millenario». C’era anche un’idea di Redenzione? «Sì, un mondo redento perché purificato dagli ebrei». Nei suoi lavori, Friedländer porta alla luce testimonianze di ebrei che non volevano vedere quello che stava succedendo, lettere in cui si dice che persone siano state mandate a lavorare all’Est, mentre sappiamo che la destinazione erano le camere a gas. Noi citiamo la testimonianza di Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta nel ghetto di Varsavia sui miliziani del Bund, il partito socialista degli ebrei, che salirono sui treni per Treblinka convinti di andare a lavorare (i tedeschi avevano distribuito loro un tozzo di pane e un po’ di marmellata). La domanda è sul meccanismo che uno storico esperto di psicoanalisi certamente conosce: la negazione della realtà, dell’evidenza, come tratto comune della condizione umana, in situazioni estreme. «Guardi», dice Friedländer, «negare la realtà non è un’esperienza solo delle epoche difficili. Ci sono cose che chiunque di noi non vuole o non è in grado di guardare, affrontare e immaginare». Vale anche per chi rifiuta le notizie sulla pandemia? Un momento di silenzio, poi Friedländer risponde: «Asteniamoci da paragoni con l’Olocausto. Però esiste il fenomeno del rifiuto delle notizie. Io non so quali sono le motivazioni intime di coloro che non si vaccinano. So però che si tratta di un fenomeno che ha un fondamento politico, di destra e delle teorie cospirazioniste». All’ipotesi che forse il problema è nel rifiuto delle teorie scientifiche, perché il sapere è sempre più frammentato e forse è in crisi lo stesso paradigma dell’illuminismo, con la sua fede nel Progresso e nell’emancipazione dall’ignoranza, Friedländer reagisce con un lungo silenzio. Poi sorride, guarda la moglie che sta non lontano ma fuori dal campo visivo della telecamera, fa un respiro e lentamente dice: «È un fenomeno che viene dalla visione disfattista della realtà e del mondo che ci circonda. Spesso anch’io trovo attrazione per il pessimismo e spesso sono profondamente pessimista, ma non sono negazionista né provo attrazione per qualunque negazionismo». Aggiunge: «È la postmodernità, il rifiuto della ragione». A questo punto è lecito fare un’altra ipotesi. Friedländer è un maestro (lui ride quando sente la parola maestro) che ha usato strumenti della postmodernità: fonti non ortodosse, massicce dosi di soggettività, ma a un certo punto si è fermato nell’opera della decostruzione. Ha capito che l’illuminismo va criticato ma che non possiamo farne a meno. Friedländer risponde così: «Sono d’accordo sul fatto che l’uso delle fonti non ortodosse che lei ha menzionato è l’unica strada per arrivare a quello che comunque vogliamo conservare. La cosa più importante per me è opporsi a ogni tentativo di banalizzare la Shoah. E quindi reagisco. Ma di tutto il resto sono stanco». Obiezione: per reagire deve ribadire che il metodo scientifico esiste, che la Terra è una sfera e non è piatta e che la fisica quantistica non abolisce il mondo sensibile e misurabile. Deve in altre parole usare la postmodernità per difendere la modernità. «Sì, mi piace la formulazione: usare la postmodernità per restare fedeli alla modernità», sospira. Si potrebbe chiudere qui ma vale la pena di tornare alle questioni di identità. Friedländer sarebbe potuto essere un prete: «Forse cardinale come lo fu l’arcivescovo di Parigi, e ebreo, Lustiger», scherza. «Quando padre Lorigola mi ha rivelato chi ero, avevo capito che tornare ebreo era la mia strada. Però per due anni ero ambedue le cose: cattolico ed ebreo». Ora scrive testi su scrittori di doppia e plurima identità, come Kafka e Proust (non tradotti in italiano, purtroppo). «Kafka faceva parte di un ambiente simile a quello di mio padre: Praga, ebrei integrati, lavoro per una compagnia di assicurazioni. Ma poi, avendo avuto un problema assai complesso di identità, mi sono sentito molto attratto da Proust con il suo ebraismo, qualche volta negato o rimosso. Mi interessava ovviamente l’aspetto della memoria. Molte cose su Proust le ho capite grazie alla mia attrazione per la psicoanalisi. E poi, ecco, il bacio di addio di mia madre quando mi lasciò nel convento mi ha fatto venire in mente la scena che apre la “Recherche”, il bacio della buonanotte della madre del narratore». E di Israele, che pare così importante per la sua identità che dice? «Speravo che non mi avrebbe posto questa domanda. Ma visto che insiste e che abbiamo scelto di parlare in ebraico rispondo: quando si tratta delle cose più importanti, essenziali, della questione essere o non essere, ecco in quei casi io sono israeliano. E sono contento che ci sia oggi un governo che sembra più normale di quello precedente. Pensi che fortuna che noi due parliamo mentre l’epoca di Netanyahu è ormai alle nostre spalle».

·        L’Inglesismo.

Perché usiamo tutte queste parole inglesi e continueremo a farlo. Riccardo Luna su La Repubblica il 16 marzo 2021. “Chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”, disse Mario Draghi quel giorno (era il 12 marzo) al centro vaccinazioni di Fiumicino. Aveva appena pronunciato (perfettamente, senza “choc” simil renziani) “smart working” e “baby sitting” e a quel punto aveva smesso di leggere il testo che gli era stato preparato, aveva alzato lo sguardo verso gli astanti e pronunciato la frase fatidica che di lì a qualche minuto sarebbe diventata il titolo - giubilante - di tutti i siti di news. Allora, “chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”: ma chiediamocelo davvero e proviamo a darci una risposta che vada oltre il legittimo sovranismo digitale dell’Accademia della Crusca, da qualche secolo impegnata nella meritoria difesa della nostra bellissima lingua. Perché non è solo pigrizia, che a volte c’è; non è solo sciatteria, che non manca mai; e non è neppure per darci un tono che usiamo “tutte queste parole inglesi”. Il motivo fondamentale è che da troppo tempo ormai abbiamo smesso di innovare, di inventare cose, e visto che nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenza della cose, avendo smesso di inventare cose, non abbiamo neanche coniato i relativi nomi. E’ dannatamente semplice, la risposta. Prendiamo Internet: inizialmente si chiamava ArpaNet perché era la rete che collegava alcuni computer della agenzia governativa americana Arpa; poi è diventato Internet, che letteralmente voleva dire “rete di reti” perché collegava reti diverse, ma in italiano è rimasto Internet. Venti anni più tardi il world wide web di Tim Berners Lee non lo abbiamo tradotto “la grande ragnatela mondiale”, ma semplicemente il web o www. Lo smartphone secondo la Crusca dovremmo tradurlo come “telefono intelligente”, ma non è affatto intelligente, sarebbe una forzatura chiamarlo così. Un insulto alla nostra intelligenza. Ed è vero che Authority si può tradurre come Autorità (del resto non le hanno mica inventate negli Stati Uniti); ma privacy in italiano cosa diventa? Correttamente, “protezione dei dati personali”: appunto, meglio privacy (che peraltro come diritto nasce, questo sì, negli Stati Uniti, alla fine dell’800, con le prime macchine fotografiche per tutti). Allo stesso modo e-book teoricamente andrebbe tradotto come “libro elettronico”, così come  e-commerce è il  “commercio elettronico”, ma in questo modo si dà una importanza all’elettronica che nella percezione comune non esiste. La startup (tutto attaccato, senza trattino) non è “l’inizio di qualcosa”, ma una nuova azienda che punta sull’innovazione tecnologica per provare a crescere in fretta, come lo vogliamo dire in italiano? Startup, è facile. Similmente le app sono app, non sono “applicazioni”, e lo streaming non sarà mai “un flusso multimediale di dati audio e video”, ma semplicemente lo streaming. Il fatto è che tutte queste cose non le abbiamo inventate, le abbiamo adottate, parole comprese. Non è sempre stato così: gli inglesi e gli americani non si scandalizzano di chiamare pasta e pizza alcuni cibi, il tiramisù è intraducibile, mica lo chiamano “get-me-up”, lo ordinano al ristorante proprio come noi (così come a tavola il MontBlanc non è il Monte Bianco ma un dolce francese con molta panna). Non c’è solo la cucina ovviamente tra i nostri prima: il teatro, la musica classica e l’opera sono caratterizzati da moltissime parole italiane a cominciare dal “bravo” con cui il pubblico saluta gli interpreti, primo fra tutti il “maestro” (in italiano); e lo stesso per l’architettura (baldacchino, belvedere, campanile, chiaroscuro…). Del resto la Banca e la Posta, che sono nate in Italia, in inglese si chiamano Bank e Post mica per caso. Insomma, volendo provare a dare una risposta garbata e costruttiva al presidente del Consiglio alla domanda “chissà perché dobbiamo usare tutte queste parole inglesi”, dovremmo dire: perché nel nuovo mondo, digitale e connesso, siamo follower, oppure, in italiano, inseguitori. Abbiamo il futuro davanti e non lo raggiungiamo mai. Ma questo Draghi lo sa bene. Dobbiamo tornare leader, o comunque vogliate dirlo in italiano (non “capi” per favore). Dobbiamo farlo “a tutti i costi” (o “whatever it takes”, ma questa è una citazione, in inglese ci sta). 

·        Shock o choc?

Ho sempre letto il corrispettivo in italiano del termine "botta psicologica" con la parola "Shock". Fino a che non ho visto dal 2000 in poi che Libero Quotidiano e poi Il Giornale nei loro articoli usavano il termine "choc". Ho pensato che fosse una forma di "ignorantismo" o di "pigrizia" nello scrivere "shock" da parte di questi giornali nordisti.

Da Accademiadellacruscai.it. La resa grafica "incerta" tra choc o shock ha reso questo termine oggetto di molti quesiti; inoltre alcuni si domandano quale sia la grafia più corretta per i derivati scioccare, scioccante, scioccato.

Risposta.

Le due differenti grafie della parola sono il risultato dell’influenza delle lingue tramite le quali è penetrata in italiano: choc deriva dal sostantivo francese le choc (urto), mentre shock dal verbo inglese to shock (urtare, colpire). Si tratta di due forestierismi entrati in italiano, in ambito medico (si parla di choc/shock traumatico, anafilattico, emorragico ecc.) in un passato relativamente recente: L’etimologico di Alberto Nocentini registra la prima attestazione di choc intorno al 1892, mentre per shock occorre spostarsi al 1899.

Tutti i più grandi vocabolari sincronici lemmatizzano entrambe le forme senza dare informazioni su quale sia da preferire, ad eccezione del Devoto-Oli che segnala choc come ‘disusato’. Da notare l’edizione 2008 del dizionario Sabatini-Coletti che, pur considerandoli sinonimi, nelle definizioni cerca di dar loro una sfumatura leggermente diversa, estendendo l’ambito d’uso di choc:

Shock: "1) med. Stato morboso caratterizzato dall’abbassamento della pressione e dalla riduzione di tutte le facoltà fisiche e psichiche, causato da grave insufficienza circolatoria: grave stato di shock; shock anafilattico, postoperatorio, traumatico; 2) estens. Emozione intensa e improvvisa che provoca uno stato di confusione o di turbamento: riprendersi da uno shock, l’accaduto è stato per me un vero shock, dopo l’incidente sono ancora sotto shock [...] SIN choc";

Choc: "Shock; in questo significato e con valore aggettivale di scioccante, entra come secondo elemento in molti lessemi complessi e composti del lessico giornalistico: annuncio choc, intervista choc, videochoc". 

Il GDLI registra solamente la variante shock, attestandola soprattutto nel settore medico (shock traumatico, terapia di shock), dove probabilmente è entrata direttamente dall’inglese.

Rimanendo nell’ambito della medicina, per fare un po’ di storia, risulta curioso l’articolo L’uso del vocabolo shock nel linguaggio medico italiano del neuropsichiatra Arturo Donaggio apparso sulla rivista medica di epoca fascista Le forze sanitarie (Roma, Stabilimento tipografico Europa, 1940). Il dottore, in linea con le direttive di traduzione forzata dei forestierismi volute dal regime, denuncia l’uso di shock per indicare una forte scossa, scagliandosi contro l’ordine dei medici italiani che aveva abbandonato la lingua latina, universale e pura (come invece avevano continuato a usare negli altri paesi europei), per privilegiarne altre. Propone quindi di ritornare al latino, utilizzando il termine quassatio, da lui tradotto in italiano con squasso, il quale, a suo parere, avrebbe riscosso molto successo tra i neuropsichiatri. In realtà, come ben sappiamo, le cose non sono andate secondo le sue previsioni.

In italiano, la questione della compresenza attuale delle due forme trova spiegazione nell’ etimologia del termine e nella sua complessa penetrazione nella nostra lingua. L’Oxford Dictionary fa risalire il verbo to shock al francese choc, deverbale di choquer ("urtare qualcosa con più o meno violenza"/"causare un trauma a qualcuno") di origine probabilmente olandese. Si può parlare quindi di due fasi di diffusione, anche se molto ravvicinate: quella iniziale sotto l’influsso del francese, e quella successiva influenzata dall’inglese. Sono quindi da considerare corrette entrambe le forme, giustificate dalla generazione di appartenenza del parlante, in quanto l’influsso della cultura e della lingua francese ha ceduto il passo, negli ultimi decenni, a quello massiccio dell’inglese. Non a caso, nonostante la forma choc mantenga sempre il primato, analizzando gli archivi online dei quotidiani nazionali più rilevanti ("La Repubblica", "Corriere della Sera", "La Stampa") si nota una predominanza della grafia francese negli anni precedenti al duemila e una diminuzione successiva a favore della variante inglese shock. Per capire il motivo della prevalenza di choc in questo contesto, occorre tenere presente, accanto alla motivazione generazionale, che nel suo impiego in funzione aggettivale è più congeniale alla costruzione nominale tipica del lessico giornalistico (denuncia choc, frasi choc, decisione choc, terapia choc), come visto precedentemente nel Sabatini-Coletti.

Osservando i dati ricavati da Google Italia dal primo gennaio del Duemila ad oggi (15/12/2014), si rileva invece, nei risultati in italiano, una predominanza della forma shock: 598.000 occorrenze contro le 408.000 di choc. Questi risultati confermano quanto detto sopra e cioè che attualmente la parola viene percepita come anglicismo e quindi scritta come tale, soprattutto in un mondo giovane e dominato dall’inglese come quello del web. È lecito quindi ipotizzare che nei prossimi anni, data la sempre maggiore presenza dell’inglese nella nostra cultura, la grafia britannica surclasserà quella francese, che ancora resiste forse anche perché graficamente più semplice di quella inglese, che, specie in passato, quando la dimestichezza con l’inglese era minore, causava problemi per la presenza di h e di ck.

Per quanto riguarda la giusta forma dei derivati come scioccato, scioccante e scioccare non ci sono dubbi: graficamente si ha l’adattamento alla regole ortografiche italiane e quindi la fricativa e la velare vengono rese rispettivamente con il trigramma sci e il digramma cc; sono quindi da considerarsi inopportune tutte le altre varianti (es. shockato, shockante). 

A cura di Benedetta Salvi Redazione Consulenza Linguistica Accademia della Crusca

·        Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Caduti “in” guerra o “di” guerra? Risponde la Crusca. L'Inkiesta il 14/8/2021. Tratto dall’Accademia della Crusca. Un lettore ci chiede se sia corretto usare la parola caduti in mare (ormai diffusa nelle espressioni caduti in guerra, in mare, sul lavoro) anche per indicare gli annegati, che effettivamente non muoiono cadendo. Un altro, in occasione dell’inaugurazione a Riccione di un monumento ai caduti del mare, si domanda se sia meglio utilizzare la preposizione del o invece nel mare.

Risposta. Per rispondere alla prima domanda bisogna, almeno brevemente, riassumere che cosa si intende per “caduto” e in che rapporto questa parola sta con altre usate come sinonimi del sostantivo/aggettivo morto. La morte (come la malattia, il sesso, le funzioni corporali, ecc.) è un referente colpito da tabù linguistico, inteso come tendenza a evitare di far entrare nei discorsi le parole esplicite e dirette con cui tali concetti vengono nominati. Così le lingue hanno sviluppato strategie di sostituzione con sinonimi o con la creazione di metafore e forme eufemistiche per poter far riferimento a tali referenti, senza nominarli direttamente: restando nel campo semantico della morte e del morire basta pensare a espressioni come ultimo viaggio, passare a miglior vita, andare tra i più, mancare, ecc. Il sostantivo/aggettivo morto non fa eccezione e anche in questo caso abbiamo a disposizione alternative come defunto, scomparso, estinto (il caro estinto) e il più tecnico-burocratico deceduto. A questi sinonimi eufemistici va aggiunto anche caduto, che, a partire dai primi dell’Ottocento, si è specializzato per indicare ‘il morto in guerra, sul campo di battaglia o nell’adempimento del proprio dovere’: una parola che riproduce visivamente molto bene l’atto dell’andare a terra di qualcuno perché colpito, atterrato appunto, da un colpo nemico e che permette di evitare morto o ucciso, espressioni decisamente più crude e non nobilitanti. In effetti, proprio per dare dignità e grande considerazione pubblica ai moltissimi morti causati dalle guerre, tra Ottocento e Novecento in Europa si è formato il mito dei caduti (Cfr. George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 1998) e, con il concetto, si è diffusa e ha cominciato a circolare la parola. Si tratta di un processo che – come ha ben ricostruito Mosse – inizia dal 1813, con le guerre di liberazione: nella Germania protestante si cominciarono a commemorare i morti in guerra durante le regolari funzioni religiose (soprattutto venerdì santo e Pasqua) mettendo così in risalto il parallelo tra la morte dei caduti e il miracolo della resurrezione cristiana. Con gli inizi della guerra moderna e una nuova coscienza nazionale, i morti in guerra vennero assimilati ai martiri del cristianesimo o delle cause rivoluzionarie, sostituendo alla fede religiosa o laica, la nazione. Parallelamente cambiarono anche le strutture dei cimiteri, fino alla realizzazione dei sacrari di guerra intesi come templi del culto nazionale e poi all’istituzione dei monumenti ai caduti. Con la prima guerra mondiale e l’esperienza della morte di massa, nell’urgenza propagandistica di trascendere la morte in guerra, vengono alimentati “i simboli del Mito dell’Esperienza della Guerra” (Mosse, p. 54). Dal concetto di eroe/martire per la Nazione (in Francia e in Germania in primo luogo) si passa, soprattutto durante la Prima guerra mondiale, a costruire il mito del caduto in guerra, prima in forma personale, con il recupero dei corpi e le sepolture, e poi in forma collettiva con i cimiteri di guerra, i monumenti commemorativi e i parchi della rimembranza, fino all’istituzionalizzazione con i monumenti al milite ignoto che diventano il simbolo unitario nazionale per celebrare tutti i morti in guerra, senza più distinzione di status e di gerarchia militare. La lingua, anche in questo caso, segue le “necessità” della storia e degli eventi, tanto che l’uso di caduto come sostantivo per indicare il "morto in guerra, sul campo di battaglia o nell’adempimento del proprio dovere" è attestato, come detto sopra, a partire dai primi dell’Ottocento: lo utilizza Monti nella sua traduzione dell’Iliade (1810, “Sentì pietade del caduto il forte Asteropèo; e di zuffa desioso / si scagliò tra gli Achei”), e poi lo si trova in un esempio tratto dalla poesia di Tommaseo A Pio IX (1872, “Non io le membra de’ caduti in guerra / a’ piè nemici ed agli estivi ardori / empio esporrò, ma la dolente terra / ricoprirò di fiori”). Questo secondo esempio è davvero significativo perché mostra come lo stesso Tommaseo avvertisse uno iato tra l’uso a lui contemporaneo e la tradizione lessicografica: benché nella poesia utilizzi caduti come sostantivo (al plurale preceduto da preposizione articolata), nel suo vocabolario, il famoso Tommaseo-Bellini, caduto è registrato solo come aggettivo (dal part. pass. del verbo cadere) e prevalentemente riferito a cose, nei significati di ‘mancato’, ‘venuto meno’ (già peraltro presenti nel Vocabolario della Crusca); salvo poi inserire una brevissima osservazione alla voce cadere in cui lascia trapelare questa possibilità: “cadere, sottinteso ferito o morto”. Il GDLI, dopo queste due prime attestazioni (Monti e Tommaseo), elenca brani di autori otto-novecenteschi tratti da opere in cui si descrivono guerre, con toni più o meno celebrativi, da Guerrazzi (“Onore ai caduti!”), a Prati, Carducci, D’Annunzio fino a Pavese («Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?”»). Rimanendo ancora in ambito esclusivamente militare, i caduti in o di guerra non sono soltanto i morti sui campi di battaglia: la Marina militare e l’Aeronautica militare hanno dato un altissimo contributo di vite umane, perse in conflitti bellici o in disastri navali o aerei. La celebrazione dei caduti in guerra si estende così anche al ricordo dei marinai, a quei caduti del mare (questa la dizione ufficiale secondo l’Associazione Nazionale Marinai d’Italia – ANMI, marinaiditalia.com) in memoria dei quali si innalzano in tutta Italia monumenti e cippi: il sito ufficiale dell’ANMI offre una rassegna di 562 tra monumenti, cippi, targhe e intitolazioni dedicati ai caduti del mare e distribuiti su tutto il territorio italiano. In rete, attraverso la consultazione di Google libri, si rintraccia però anche un’altra espressione (forse di più antica attestazione): caduti in mare nel significato di "morti in operazioni belliche di mare": si tratta di un articolo pubblicato nel 1914 sulla rivista “Patria e colonie” (uscita dal 1912 al 1918, Letture mensili sotto gli auspici della Società Nazionale Dante Alighieri, anno III, sem. I, p. 382), che riferisce appunto dell’inaugurazione di un monumento per i “caduti in mare”: Un monumento per i caduti in mare. Forse nessun monumento ha più alto significato di pietà di questo che fu recentemente innalzato alla memoria dei caduti in mare. Ogni volta che nel mondo si spande la notizia di un disastro marittimo, noi sentiamo ridestarsi nell’animo nostro tutti gli affetti che ci stringono alla umanità in un senso di solidarietà che è quasi sempre a noi stessi sconosciuto. Scompaiono le divisioni di razza, scompaiono i dissidi politici, e solo resta avanti a noi l’immensità della tragedia, la inanità degli sforzi umani, di fronte alla forza bruta ma possente e suprema della natura. Il monumento per i caduti in mare dice la nostra debolezza di fronte al destino, e la nostra pietà per le vittime dell’ineluttabile. Purtroppo non si precisa il luogo in cui è avvenuta l’inaugurazione, ma è una coincidenza abbastanza indicativa il fatto che a Napoli, proprio nel 1914, fu completato il famoso monumento della colonna spezzata (che però riporta la dicitura “Ai caduti combattendo sul mare”; corsivo mio), con il posizionamento di una colonna di epoca romana su un basamento che, già collocato nel 1867 e rimasto “orfano”, avrebbe dovuto sostenere una lapide in ricordo di tutti i caduti del mare durante la battaglia di Lissa del 1866. L’articolo citato sopra sembra però riferirsi a tragedie marittime non causate da guerre: doveva essere ancora vivo il trauma dei disastri del Titanic (1912) e del recentissimo (maggio 1914) Empress of Ireland con migliaia di morti (in questo anche molti italiani), caduti in mare “vittime dell’ineluttabile”. A prescindere dalla locuzione impiegata, caduti del/in mare, per rispondere quindi al lettore che ci chiede se sia corretto l’uso di caduto esteso anche a vittime non di guerra, si vede come il termine caduto abbia ampliato il suo spettro semantico fino a indicare "il morto da celebrare, da onorare" non solo, dunque ‘chi si è sacrificato in guerra (per terra o per mare che sia), ma anche “chi rimane vittima in un conflitto, in una lotta (anche ideale), o cade nell’adempimento del proprio dovere, ecc.: i c. per la libertà; i c. sul lavoro” (Vocabolario Treccani online). La metafora della battaglia/guerra che genera morti e lascia come unica consolazione la celebrazione dei suoi caduti è stata adattata a eventi storici e sociali tragici: dai naufragi accidentali, alle morti sul lavoro alle terribili stragi di migranti nel Mediterraneo. Ed è senza dubbio la metafora più utilizzata per raccontare le questioni migratorie degli ultimi decenni: non stupisce quindi che, per esprimere la volontà di tener viva la memoria della perdita di così tante vite umane, si ricorra al termine caduti. Un nuovo impulso alla diffusione della sequenza caduti del mare (che abbiamo visto essere la dizione ufficiale scelta dall’ANMI) si è avuto dopo l’istituzione, l’8 luglio 2014, della Prima Giornata internazionale del Mar Mediterraneo, promossa da Earth Day Italia, Ancislink (International No-Profit Association), Asc-Coni (Attività Sportive Conferederate) con il supporto della Marina Militare Italiana e dedicata ai “caduti del nostro mare. Tutti i caduti del mare: dai migranti ai pescatori, ai marinai, alle persone che nel mare avevano trovato il lavoro o inseguivano una speranza”. Scopo dalla giornata è quello di tenere alta l’attenzione internazionale sui problemi geo-politici dell’area mediterranea, promuovendo il ricordo dei migranti che hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo. Nella denominazione di questa celebrazione, nata anche sull’onda dello sgomento di fronte alla strage di Lampedusa (3 ottobre 2013 con 368 morti; dal 2015 il 3 ottobre è la Giornata in memoria delle vittime dell’immigrazione), ritorna la formula caduti del mare. Nelle diverse espressioni fin qui considerate, è evidente la presenza di varianti dovute all’alternanza delle preposizioni di (caduti di guerra), in (caduti in guerra/battaglia/mare), della/del (caduti della guerra/del mare/del lavoro), sul (caduti sul campo/lavoro). Per un quadro quantitativo delle occorrenze di ciascuna variante Google può offrire qualche dato anche se, in questo caso in particolare, sono necessarie alcune precisazioni. Si tratta di numeri da prendere con molta cautela perché la ricerca risente inevitabilmente di interferenze dovute a più fattori: 1) le moltissime occorrenze di caduti senza specificazione nel significato di "morti in guerra"; 2) le ancor più numerose occorrenze di caduti nel significato letterale di "cascati"; 3) in particolare per caduti in mare la sovrapposizione con le occorrenze in cui l’espressione si riferisca effettivamente a qualcosa o a qualcuno cascato accidentalmente da un’imbarcazione.

·        Kitsch. Ossia: Pseudo.

Francesco Bonami per “la Repubblica” il 14 marzo 2021. Chissà se Nanni Moretti leggerà mai il libro a cura di Marco Belpoliti e Gianfranco Marrone Kitsch , lui che nel film Palombella Rossa aveva preso a schiaffi una giovane giornalista per aver pronunciato quella terribile parola. Se non si offende e più che altro non dà anche a noi uno schiaffo glielo suggeriamo. Anche perché è un libro che si può affrontare da qualsiasi parte, senza un inizio o una fine. È quello che gli americani chiamano "reader", una antologia, una guida per capire cosa diavolo davvero sia questo maledetto "kitsch". Parola, come diceva appunto il personaggio di Palombella Rossa Michele Apicella, a sproposito e quindi come tutte le parole usate male pericolosa. Il libro comunque, così come si presenta, contraddice il suo soggetto.

È elegante, accademico e anche gli esempi fotografici a cura di Elio Grazioli, per quelli che fossero interessati solo alle figure, sono riprodotti rigorosamente in bianco e nero. Che devo dire rende lo sforzo abbastanza inutile perché se al Kitsch togli il colore è un po' come togliere a un culturista i muscoli. Difficile e ingiusto, quasi discriminatorio, sarebbe tirar fuori un solo capitolo dell' antologia che per la sua esagerata ricchezza di contenuti, questo sì, diventa un po' kitsch. Ma, correndo il rischio di discriminare e avendo spazio limitato, il capitolo che mi porterei a casa da solo è quello dello scrittore russo Vladimir Nabokov. Lolita per intendersi. Un estratto di una sua conferenza del 1941. Il titolo è Filistei e filisteismo. Per Nabokov filisteo equivale a volgare e visto che in fondo viviamo in un' epoca politicamente dominata dalla volgarità egocentrica questa parte del libro mi pare una delle più appropriate ai tempi. Un altro termine che Nabokov usa riferendosi al Kitsch è la parola russa "poslost" che, semplificando, significa trivialità compiaciuta di se stessa e che, adattandola ai nostri tempi, si potrebbe chiamare "Postlost", la trivialità compiaciuta dei "post" che tutti vomitiamo con Instagram e gli altri social nel flusso perenne di un quotidiano senza fine. Si può dire con un margine molto basso di errore che il Kitsch di oggi sia presente nei social quando degenerazione privata, massificazione intellettuale, inautenticità personale, ripetitività, simulazione, contraffazione e dilettantismo la fanno da padroni. A confronto di quello che si vede dentro i profili social, versione virtuale dei giardinetti delle casette a schiera di periferia, i nani da giardino, soggetto del capitolo di chiusura a firma di Jean-Yves Jouannais, sono David di Donatello. Oltre che a essersi identificato con i social il Kitsch ha preso anche le sembianze della politica e dei suoi attori che con i social appunto s' identificano specularmente. Se il Kitsch doc parlava di pseudo arte, il Kitsch contemporaneo parla di pseudo politica e pseudo realtà. Il Kitsch vintage era indentificato dalla maggioranza delle persone con il cattivo gusto. Oggi si potrebbe dire che il Kitsch contemporaneo lascia un gusto cattivo nella nostra bocca e nella nostra anima. Che il Kitsch potesse mutare in una versione peggiore e più pericolosa di se stesso è una cosa sorprendente che scopriamo via via che ci inoltriamo nei meandri del libro. Come l' Underground, che praticamente non riesce a vivere più in maniera autonoma senza essere inglobato immediatamente dentro il consenso collettivo o essere rigettato come semplice fallimento da "sfigati", anche il Kitsch ha perso la sua autonomia, abbracciato dalle élite della moda come provocazione commerciale o abbandonato nelle fauci della disperazione dei diseredati esclusi dalla catena del lusso. L' Underground è inesplorabile perché nessuno vuol più andare in profondità. Il profondo è diventato semplicemente un sotto, una sepoltura, nulla di più. La superficie e la superficialità sono l' unico luogo e l' unica condizione di rispettabilità e d' identità. Così il Kitsch, quello vero, quello non guardabile, quello non indossabile, quello non discutibile o teorizzabile, non commerciabile. Siccome oggi tutto si deve poter guardare, tutto si deve poter vedere, tutti dobbiamo avere estrema visibilità per esistere, in questa condizione il vero Kitsch scompare per diventare stile estremo, pagliacciata di lusso, audacia esclusiva. Il Kitsch muore quando qualcuno dice "funziona" o quando viene definito "divertente". Il nano del giardino oggi occupa le sale e i porticati dei musei. Non fa più schifo, non fa più paura. Il nano da giardino oggi è il mediatore, il caronte buono che traghetta la beata ignoranza del pubblico dentro i luoghi sacri della cultura. Che c' è di male a mettere un nano da giardino vicino a un Caravaggio se questa combinazione aiuta lo sprovveduto a entrare nel museo per farsi il selfie, elevando il nano al Caravaggio. Davanti a questa brutalità comunicativa nemmeno il direttore o direttrice di museo più educati del mondo oseranno mai dire "mamma mia come è kitsch!", rischierebbero di finire nella gogna dei social. Il Kitsch come l' Underground erano aree culturali dove avveniva la sperimentazione più azzardata. La loro assimilazione ha spazzato via anche l' energia essenziale della sperimentazione e del progresso culturale. Leggersi, anche solo in parte, il libro di Belpoliti e Marrone, potrebbe aiutarvi a non dimenticare la differenza che c' è fra un nano da giardino e un Caravaggio. Se poi preferite il nano non c' è nulla di male, basta che almeno abbiate capito la differenza.

·        Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”? Risponde la Crusca. Tratto dall’Accademia della Crusca il 3/7/2021 su L'Inkiesta. Rispondiamo ai numerosi lettori che ci hanno scritto per conoscere la differenza di significato tra facsimile e template riproponendo la risposta di Gabriella Cartago, pubblicata sul n. 58 (I, 2019) della nostra rivista La Crusca per voi. Aggiungiamo inoltre una breve nota per rispondere a quanti ci chiedono quale sia la corretta forma di plurale di facsimile. 

Risposta

I madrelingua inglesi probabilmente risponderebbero: “No, facsimile e template non sono sinonimi”. I loro dizionari, in effetti, dentro ampi ventagli di sinonimi dell’uno non riportano mai l’altro. Si veda l’OED per facsimile: “copy, reproduction, duplicate, photocopy, mimeograph, mimeo, replica, likeness, carbon, carbon copy, print, reprint, offprint, image; double, lookalike, twin, clone, duplicate, perfect likeness, exact likeness, echo, replica, copy, imitation, picture, image, living image, mirror-image”. E per template: “cast, die, form, matrix, shape, container”.

In italiano, però, in cui entrambe le voci arrivano dall’inglese, qualche sovrapposizione di significato può crearsi. È facsimile, ambientatosi nella nostra lingua molto prima (addirittura nell’Ottocento) a invadere la sfera d’uso che spetterebbe più propriamente a template, di approdo recente, nella seconda metà del Novecento.

Facsimile significa, a norma di vocabolari, ‘copia, riproduzione esatta di un originale’ (Zingarelli 2019, Sabatini-Coletti 2008, Hoepli 2018, Devoto-Oli 2018, Garzanti 2017). Se scorriamo i giornali degli ultimi due o tre anni, troviamo i facsimile più disparati: Di Battista che straccia in tv un facsimile di 5.000 franchi africani; un fac-simile di vestiario dei deportati nei lager ispirato a fotografie d’epoca; un facsimile del celebre doppio ritratto dei duchi di Urbino; biglietti da 10 euro “fac-simile” in grado di ingannare i cambiavalute automatici. Come si vede nell’ultimo caso, la piena e secolare acclimatazione di facsimile negli usi italiani è tale da renderne possibile anche l’estensione metaforica (virgolettata). L’estensione metaforica non manca, peraltro, di essere puntualmente registrata nei vocabolari (‘esempio di imitazione o somiglianza’, ‘persona o cosa tanto simile a un’altra da sembrarne la copia’ e così via). Ma facsimile si usa anche con un valore sovrapponibile a quello di template, nuovo arrivato, in età digitale, a occupare uno spazio rinnovato. Sempre nella stampa quotidiana dei nostri giorni troviamo, infatti: “Il bando ed il fac-simile di domanda sono pubblicati nel sito web del Centro Studi”; “un facsimile del modello di autocertificazione da presentare alle scuole per le famiglie lombarde alle prese con l’obbligo dei vaccini per l’iscrizione a scuola”. Nel significato, dunque, di "modello".

Modello è, di fatto, il valore che viene attribuito a template nei dizionari italiani dell’uso generale che lo registrano, come i seguenti: Dunque, modello, ma, come si vede, in senso puramente formale, indipendente dal contenuto, privo di contenuto riproducibile, sinonimo, semmai, di format (un altro anglicismo), ossia formato, disposizione prefissata. Proprio perché ancora non altrettanto familiare a lettori e parlanti italiani, nella stampa si è incontrato spesso accompagnato da spiegazioni, che ruotano intorno a modello standard, schema, procedura. Per esempio: «abbiamo introdotto dei cosiddetti “template” ossia dei modelli standard, delle procedure in gran parte automatizzate, per tipologia di settore e di imprese». Nondimeno template ha, a sua volta, iniziato a conoscere impieghi metaforici: «Quello che è avvenuto nei 30 minuti del volo fra il Vaticano e l’eliporto di Albano, accanto a Castel Gandolfo, nell’elicottero troppo lontano per battere quel ritmo angoscioso che la storia contemporanea e il cinema ci hanno martellato in testa come segni apocalittici, sarà il “template”, il calco, la sagoma sui quali ogni futuro Sommo Pontefice dovrà plasmare e chiudere il proprio regno». Dove la sovrapponibilità con facsimile è piuttosto evidente.

Se, dunque, schematizzando, nel facsimile di un modello di autocertificazione si indicheranno i tipi di dati da inserire, il template del medesimo non differirà di molto (sempre, naturalmente, che non si tratti di usi figurati). Non dovrà specificare alcun elemento di contenuto, ma si presenterà con indicazioni relative alla loro sistemazione nel documento e, soprattutto, ne sarà lo scheletro virtuale, una sorta di realizzazione precostituita. Può aiutare a distinguerlo da template (modello “dinamico” dentro cui gli utenti inseriscono i propri dati), ricordare che facsimile ha generato, per riduzione, fax, servizio che trasmette copie di immagini “fisse”. In definitiva, facsimile va inteso come "copia di…", template come "modello su cui…".

·        Così il web ha “ucciso” i libri classici.

"Il libro non morirà. È il grande sopravvissuto della nostra Storia". Eleonora Barbieri il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. In "Papyrus" la filologa racconta le avventure (pericolose) dei volumi dall'antichità a oggi. Papyrus di Irene Vallejo è un po' la prova di ciò che racconta, ovvero, come spiega il sottotitolo del saggio (Bompiani, pagg. 566, euro 24), «La grande avventura del libro nel mondo antico»: una avventura fatta di peripezie, invenzioni, distruzioni, cura maniacale e incredibile passione, tanto che la filologa e scrittrice di Saragozza definisce i libri «grandi sopravvissuti attraverso i millenni». Per dire, i libri sono passati attraverso la pandemia con un inedito successo di vendite (+ 26,7 per cento nei primi tre mesi del 2021); e lo stesso Papyrus è stato un bestseller in Spagna, in via di traduzione in 33 lingue.

Come è nato Papyrus?

«Il primo germoglio è nato a Firenze, quando ero alla Biblioteca Riccardiana, grazie a una borsa di dottorato. Studiavo l'origine dei libri e gli inizi della lettura nel mondo antico e mi ha colpito l'idea di quanto fosse difficile e impegnativo creare uno di quei manoscritti, quanto amore e fatica ci siano in essi».

I libri sono a rischio?

«Il settore è incline a profezie apocalittiche, ma io volevo alzare una voce ottimista: la storia dei libri dimostra che sono dei grandi sopravvissuti attraverso i millenni, che hanno superato epoche e situazioni difficili, saccheggi, crolli di imperi, guerre, persecuzioni, incendi, inondazioni... Credo che i libri abbiano una cattiva salute di ferro, come certi malati».

Il libro non morirà?

«La sua morte è stata predetta così tante volte che credo abbia imparato a resuscitare meglio di chiunque altro».

Chi sono i cacciatori di libri da cui parte Papyrus?

«Erano emissari, inviati dai Tolomei, i re d'Egitto, nel III secolo a.C. verso la Grecia, lungo pericolose vie di terra e di mare, alla ricerca di libri e opere per alimentare la grande Biblioteca di Alessandria. Una avventura rischiosa, ma allora non c'era il commercio internazionale di libri. Una storia stupefacente e simbolica».

Che cosa rappresenta?

«Questi soldati per me sono la metafora del valore dei libri in un mondo in cui erano così scarsi che un sovrano poteva fare di essi il suo oscuro oggetto del desiderio. E poi sono il simbolo della lunga strada che abbiamo dovuto percorrere, da un passato in cui leggere era un privilegio, fino ai giorni nostri, in cui i libri sono oggetti quotidiani, facili da reperire. Anche grazie alle biblioteche».

E torniamo ad Alessandria.

«È il luogo dove, per la prima volta, nasce il sogno di raccogliere tutti i libri del mondo, il progetto folle e meraviglioso di concentrare in un edificio la totalità della saggezza allora conosciuta e di metterla a disposizione di ogni mente curiosa. E poi c'è un'altra cosa».

Quale?

«Ad Alessandria raccolsero le opere più importanti di egizi, persiani e indiani e le tradussero in greco, dando il via a un dialogo fra lingue e culture che non si è mai più zittito. Una eredità preziosa».

Oggi viene pubblicato un libro ogni mezzo minuto. Anche gli antichi erano così sommersi?

«Non come oggi, quando in casa possiamo avere più volumi di quelli di una abbazia medievale; ma già Seneca, a Roma, esprimeva l'idea che ci fossero troppi libri, più di quanti si potessero leggere».

E ad Alessandria?

«Gli studiosi della Biblioteca producevano tonnellate di volumi, studi, commentarii... Uno di loro, Didimo, arrivò a pubblicare quattromila monografie. Ad Alessandria accade, per la prima volta, che la bibliografia sulla letteratura riempia più libri della letteratura stessa».

Si voleva creare una biblioteca-labirinto?

«La prima finalità era salvare e proteggere i libri che amavano, i più preziosi, perché erano fragili: ogni anno si perdeva l'ultimo esemplare di un'opera».

E questo ci porta al materiale, il papiro.

«Il papiro fu una novità sensazionale rispetto alle tavolette in argilla della Mesopotamia e alle scritte su pietra: era sottile, leggero, flessibile e, una volta arrotolato, anche un grosso testo poteva occupare poco spazio. La storia dei libri è la storia delle lotte per ottenere un supporto fisico migliore».

Era costoso?

«Sì. I libri erano oggetti per un pubblico privilegiato: non c'era un vero commercio, bisognava poter viaggiare e avere degli schiavi che ne facessero una copia... Cicerone ne aveva una ventina. A Roma i libri circolavano principalmente in ambienti chiusi ed esclusivi, anche se ci sono stati più lettori nei territori dominati da Roma che in qualunque momento precedente, e fino alla modernità».

Quando compaiono i primi librai?

«In Grecia esisteva un commercio di libri, ma i dati sono pochissimi. Nel mondo romano Catullo, Orazio e Marziale parlano dei librai, descrivono le botteghe che facevano copie su ordinazione, anche rapidamente - Marziale dice che per i suoi Epigrammi bisognava aspettare solo un'ora - e Catullo parla di testi già pronti da comprare. Marziale indica anche dove trovare le sue opere...».

Gli scrittori sono sempre stati un po' poveri...

«Sì, perché non esisteva nulla di simile al copyright. Ed era considerato poco decoroso, per le persone perbene, guadagnarsi da vivere con la scrittura».

Il papiro è stato rivoluzionario, ma poi?

«L'umidità del clima, in Europa, lo scuriva e lo rendeva fragile. E poi era fabbricato solo in Egitto. Si dice che una volta Tolomeo V sospese le forniture al regno di Pergamo, per mettere in ginocchio la biblioteca rivale; ma a Pergamo risposero perfezionando l'antica tecnica orientale della scrittura su cuoio».

E nacque la pergamena.

«Fogli morbidi, sottili, più duraturi e meno costosi, e che permettevano la scrittura su entrambi i lati. Si afferma così il modello fatto di pagine. E il libro tascabile, più facile da nascondere, spinge a letture clandestine».

Le epoche più pericolose e le più propizie per i libri?

«L'era più pericolosa si è conclusa quando la carta si è diffusa in Europa in tempo per alimentare le macchine da stampa che hanno rivoluzionato la cultura occidentale. Da allora, la moltiplicazione delle copie è diventata sempre più routinaria ed economica. Abbiamo dimenticato i millenni in cui una poesia o una commedia potevano sopravvivere solo finché qualcuno era disposto a copiarle a mano: lettera per lettera, parola per parola».

Che cosa abbiamo perso?

«Gli studiosi stimano che possiamo leggere l'1% della letteratura greco-romana. Eppure questa percentuale minima, salvata consapevolmente dai bibliotecari di Alessandria, costituisce il quadro simbolico che configura il nostro modo di intendere il mondo, di leggere la realtà, di ordinare il caos della storia e le innumerevoli vite che viviamo. Questa piccola raccolta di parole sopravvissute è il nostro genoma culturale: la storia di chi siamo».

Il libro continuerà a essere di carta?

«I libri sono sopravvissuti per millenni perché hanno saputo cambiare e adattarsi ai tempi. Ci sono stati libri fatti di papiro, di pergamena, di carta e, ora, anche di luce. Non si tratta di una corsa per la vittoria tra digitale e cartaceo, bensì di garantire la sopravvivenza delle nostre idee e narrazioni migliori: per questo credo che il libro tradizionale continuerà a vivere insieme ai suoi giovani compagni, gli schermi». Eleonora Barbieri

Matteo Collura per “il Messaggero” il 31 maggio 2021. Sono uno di quelli che prima di buttare via un pezzo di pane lo baciano. Questo ci insegnavano genitori e nonni quando il pane costituiva gran parte del cibo quotidiano. Lo stesso ho sempre fatto con i libri. Anzi, non ne ho mai buttato uno. E ho fatto male, perché casa mia e altri spazi dei quali dispongo sono ingombri di volumi, molti dei quali tutt' altro che indispensabili, se non inutili o illeggibili. Ho fatto male, e mi dà ragione ragionandoci con libertà di pensiero e mandando a quel paese il politically correct uno che di libri ne sa qualcosa, come studioso della materia e collezionista, Luigi Mascheroni. I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) è il titolo di un suo pamphlet appena pubblicato da Oligo Editore e in cui si afferma: «Non dobbiamo temere i libri né avere falsi timori reverenziali. Buttiamo quelli inutili, usiamoli come strumenti, oggetti, merce, non adoriamoli come idoli. Consigliamo quelli che vanno consigliati, scartiamo quelli che vanno scartati, usiamoli invece di santificarli, distinguiamo fra buoni libri e cattivi libri, tra letture utili e letture inutili». Mascheroni ha ragione quando ci ricorda che i libri sono un prodotto del mercato come tanti altri e la lettura non rende certo migliori («se fosse così le persone più colte sarebbero sempre un esempio di moralità»). E questo lo spiega in modo fulminante Paul Valery: «I libri hanno gli stessi nemici dell'uomo: il fuoco, l'umidità, il tempo e il proprio contenuto». Leggere non basta, occorre leggere bene, saper scegliere. E questo porta a scartare una gran massa di carta stampata. Tuttavia e Mascheroni sarà d'accordo ha detto bene Umberto Eco: «Chi non legge, giunto a settant' anni, avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto cinquemila anni: c'era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l'infinito. Perché la letteratura è un'immortalità all'indietro».

Luigi Mascheroni per "ilgiornale.it" il 19 aprile 2021. Pinocchio's Adventures in Wonderland. Pinocchios äfventyr. Pinokkio. Pinocchiova dobrodruzstvi. Pinukyu. Thang nguòi gô. Phajonphai dek dong. Mu ou qi yun ji. L'avventuri ta' Pinokkjo... Come si dice Pinocchio in tutte le lingue del mondo? Inglese, svedese, ceco, arabo-egiziano, vietnamita, cinese, maltese...La domanda se la sono posti in molti, molte volte. Chi è lo scrittore italiano più tradotto nel mondo? La prima risposta - Dante - è sempre sbagliata. E così, un anno fa Sergio Malavasi, il Richelieu della bibliofilia, libraio antiquario d'eccellenza e motore umano di maremagnum.com (il sito più avanzato dove cercare libri antichi, moderni, fuori catalogo e introvabili), ha provato a risolvere la questione. E grazie all'aiuto della giovane ricercatrice, Noemi Veneziani, la quale per mesi ha scandagliato la Rete, gli archivi e le Fondazioni degli scrittori, oggi ha finalmente in mano il responso, di carta ça va sans dire. Eccolo qua: un piccolo ma eccezionale repertorio (che esce sotto la sigla MareMagnum in poche copie per collezionisti, ma scaricabile gratuitamente in pdf sul sito) dal titolo Quale è il libro italiano più tradotto al mondo? Risposta (e bisogna credere a quel bugiardo di burattino): Pinocchio. Numero totale di lingue in cui è tradotto: 260, dall'armeno al taiwanese, più una che in realtà è un dialetto. Il milanese. Fanno 261 (compresi catalano e basco, o afrikaans ed esperanto...).

Bene. Ma come si è arrivati alla classifica finale? La prima selezione, l'ha fatta lo stesso Malavasi. Attraverso WorldCat.org, un sito che raccoglie dati dalle biblioteche nazionali di tutto il mondo e che dà l'opportunità di scegliere per titolo e autore tra le 31 lingue più diffuse sul pianeta, ha individuato gli italiani più presenti come numero di edizioni. E scordatevi i Dante-Petrarca-Boccaccio, Ariosto-Machiavelli-Tasso, Foscolo-Leopardi-Manzoni. Il risultato, ovviamente, è molto più popolare. Questo: il Pinocchio di Carlo Collodi, di cui si è detto. Subito dopo viene il primo romanzo della serie di Don Camillo di Giovannino Guareschi con 59 traduzioni. E, sul terzo gradino del podio editoriale, Il nome della rosa di Umberto Eco, romanzo di cui si contano (per ora) 51 versioni.

Nota al testo: WorldCat.org è un luogo in cui si fanno scoperte sorprendenti, tipo che Le mie prigioni di Silvio Pellico conta 31 traduzioni, anche in turco...Comunque... Il primato quindi va a Pinocchio? Forse. Perché, come è facile immaginare, qui si contano solo le traduzioni ufficiali. Invece, come fa notare Guido Conti nella sua biografia di Guareschi uscita per Rizzoli nel 2008, è difficile quantificare le edizioni di Don Camillo in lingue particolari (si pensi ai mille dialetti africani o asiatici), eseguite normalmente da missionari in giro per il mondo su permesso a titolo gratuito dello stesso Giovannino. Senza tenere conto di un altro criterio di valutazione per quanto riguarda la popolarità di un autore. Se il libro più tradotto, dalle terre australi all'Islanda, è Pinocchio, l'autore, contando l'opera complessiva, e considerando l'intera saga di Don Camillo, è quasi sicuramente Guareschi. Per il resto, il lavoro curato da Noemi Veneziani offre molti dati, informazioni, stravaganze. Metà delle pagine del libro sono occupate dall'elenco di tutte le edizioni straniere delle tre opere, in ordine cronologico, divise per Paese, con titolo, nome del traduttore, editore e anno di pubblicazione (tipo: Hippeltitsch's Abenteuer Geschichte eines Holzbuben, trad. G.A. Gugen Andrae, Carl Siwinna, Kattowitz, 1905; e stiamo parlando di un'edizione polacca di Pinocchio con illustrazioni di E. Chioftri...).

Ad esempio: proprio nel caso di Pinocchio occorre tenere presente che le edizioni straniere, anche perché è il testo più «antico» fra i tre, sono molto più preziose dal punto di vista bibliofilo, e quindi di maggior valore economico. Poi resta il nodo da sciogliere delle cosiddette «pinocchiate», diffusissime, ossia le versioni alternative della storia rispetto al testo classico. Vale a dire: narrazioni che hanno come protagonista il burattino, ma cambiano ambientazione, personaggi di contorno e avventure. Come Il compagno Pinocchio di Aleksej Nicolaevic Tolstoj, del 1936: è una traduzione, una riscrittura o un romanzo autonomo? Per quanto riguarda invece l'immenso «Mondo piccolo» di Guareschi, va considerato che la popolarità di Don Camillo fu di certo amplificata dai film - intramontabili - con Fernandel e Gino Cervi (come in qualche modo Pinocchio deve parecchio al celebre cartoon della Disney del 1940). E Le petit monde de don Camillo decuplicò vendite e diffusione. Una forma di crossmedialità ante web molto efficace. In ambito doncamillesco va poi notato che: 1) negli Stati Uniti, dove il libro uscì nel 1950 dalla casa editrice Pellegrini&Cudahy - moglie americana e marito piacentino - il successo fu tale che, grazie anche ai numerosi «Club del libro» specializzati nella vendita per corrispondenza, le vendite arrivarono in un attimo a toccare le 250mila copie; 2) durante la Guerra fredda, nella versione statunitense la figura di don Camillo fu ulteriormente santificata mentre quella del comunista Peppone resa - diciamo così - più burbera... 3) d'altro canto il libro, vietato da Mosca, conobbe innumerevoli traduzioni clandestine messe poi segretamente in circolazione in tutti i Paesi satellite dell'Urss, dove apparvero «don camilli» in estone, lituano, ungherese, ucraino... Guareschi ecumenico. E per quanto attiene invece a Il nome della rosa, la fenomenologia editoriale è nota: da bestseller a longseller, il film-thriller di Jean-Jacques Annaud nel 1986, edizioni in una cinquantina di Paesi (il primo Paese a tradurre il libro fu la Polonia, nello stesso 1980, titolo: Imie rózy), versioni in vietnamita con in copertina i volti di Connery e Christian Slater, alla fine oltre 50 milioni di copie vendute nel mondo, di cui 7 milioni in Italia, con tanto di miniserie tv Rai nel 2019 con John Turturro e Rupert Everett...Postilla: lo stesso Umberto Eco una volta intravide una misteriosa edizione pirata in arabo del suo libro al Cairo. S'intitolava Sesso in convento. O qualcosa del genere. PS L'editore MareMagnum invita i lettori a segnalare integrazioni e correzioni a info@maremagnum.com. Qualche traduzione è certamente sfuggita. Si vince una copia del volumetto.

Dagospia il 31 marzo 2021. Caro Dago, leggo su Repubblica.it un puntuale e frizzante pezzo di Riccardo Luna intorno ai parallelismi del mondo tecnologico di oggi verso quello di ieri. Luna è uno studioso delle comunicazioni e dei costumi sociali; per questo, soprattutto rispetto al giornale che ospita il suo pezzo, sarebbe utile arricchire alcuni passaggi della sua analisi. Una cultura politica, quella socialista, tanto bistrattata e scriverei anche offesa dalla sua testata in anni passati - e anche presenti rispetto al suo passato - rivoluzionò culturalmente un Paese incagliato nella peggior sfiducia verso il suo futuro. Quel giornale aveva due Dioscuri culturali che insieme al fondatore Scalfari, già socialista e munito di una barba divinizzante, rimandavano a una trinità spirituale che con le sue battaglie di finto progressismo avrebbe zavorrato il Paese (facendolo spiaggiare nel futuro come l'Evergreen nel canale di Suez); si tratta di Ugo La Malfa, che vaticinava il rischio di una crescita del consumismo e dell'inflazione legati all’arrivo della tv a colori e di Enrico Berlinguer che trovava nella poetica dell’austerità il razionale esorcismo a queste provocazioni della modernità. Invece furono gli innovatori socialisti, tra finanziamenti leciti e illeciti, esclusivamente nazionali, a incrinare la cultura dominante con quella ventata di novità che portò colore, rinnovamento del costume - in questi giorni hai ben ricordato la saga “Arboriana”.  I loro “cugini” politici, comunisti, li risolsero annichilendoli prima organizzativamente - grazie al più grande apparato burocratico e culturale finanziato da una valanga di fondi provenienti dal più illiberale, potente e criminale sistema ideologico del novecento: l’URSS - quindi giudiziariamente. Poi arrivò la rivoluzione Morale a cui seguì la stagione dei Migliori e delle privatizzazioni; ne seguì il tempo dei Capitani Coraggiosi, ma assai poco danarosi, che arrestò lo sviluppo dell'allora terzo operatore delle comunicazioni mondiali: Telecom. Il Paese sodomizzò analogicamente il suo futuro digitale. Il resto è onanismo della chiacchiera. Giovanni Bertuccio

Il calcio su Dazn è la grande occasione di Internet. Riccardo Luna su La Repubblica il 29 marzo 2021. L’assegnazione dei diritti della seria A del calcio a Dazn, il 26 marzo, potrebbe segnare un momento di svolta per l’Italia sulla via della trasformazione digitale. Come accadde per l’arrivo della tv a colori negli anni ‘70. Anche su quella vicenda, come sulla diffusione di Internet, l’Italia era in ritardo, addirittura ultima. Negli Stati Uniti le tv a colori si vendevano dal 1953, in Francia, Germania e Regno Unito dal 1967. Da noi tutto era fermo o procedeva lentissimamente. Un po’ come per il digitale. I motivi erano diversi: intanto si era aperta una surreale disputa politica su quale tecnologia adottare fra PAL, tedesca, e SECAM, francese (il presidente del Consiglio tifava per la seconda, peggiore, per avere in cambio vantaggi commerciali).  Inoltre un leader politico molto ascoltato aveva fatto un appello a non introdurre la tv a colori perché era un lusso che gli italiani in quel momento non si potevano permettere (erano gli anni dell’austerity). Nell’estate del 1972 in occasione delle Olimpiadi di Monaco la Rai avviò una timida sperimentazione usando entrambe le tecnologie, PAL e SECAM; l’annuncio della presentatrice Rosanna Vaudetti fu un fatto storico, ma in tv i colori erano così sballati che le persone, che facevano capannello nei negozi, se ne tornavano a casa deluse. Nel 1975 la Rai fece un altro passetto in avanti: per due volte al giorno mandava in onda uno strano formato chiamato “Prove tecniche di trasmissione” che sulle note di una sonata per archi di Rossini alternava immagini a colori di donne che fanno le faccende domestiche, si truccano o giocano a tennis (oggi un programma simile sarebbe bandito per sessismo ma ai tempi c’era chi rimaneva incantato). Si arriva così al Natale del 1976 quando il ministro delle Poste andò in tv a dire che dal 1 febbraio 1977 sarebbero iniziate la trasmissioni a colori (con un tetto di 42 ore settimanali). A quel punto il vero grande acceleratore della diffusione è stato il calcio: il 6 febbraio la sintesi di Genoa-Torino fu la prima partita ad essere trasmessa; pare che fosse stata preferita a Fiorentina-Napoli perché le maglie rossoblu si adattavano meglio ai colori. Il calcio a colori fu un successo e così nel 1978, per il Mundial in Argentina, le nuove, costose, tv avevano già trovato posto in moltissime case italiane. Insomma grazie al calcio l’Italia allora fece un salto in avanti atteso da anni e ne farà un altro nel 1980 quando il neonato Canale 5 della Fininvest si presentò forte della aggiudicazione dei diritti del Mundialito che rompeva il monopolio Rai; e poi nel 2003 quando arrivò Sky portando in dote sulle sue parabole satellitari la serie A addirittura in esclusiva. Ora tocca a Dazn: le partite dalla prossima stagione passeranno sui cavi di Internet e questo porterà auspicabilmente ad un aumento della diffusione della rete: della copertura ma anche degli abbonamenti (che oggi languono: abbiamo una disponibilità di banda ultralarga molto superiore alla domanda). Insomma presto avremo più italiani connessi che in rete potranno fare molto di più che seguire la squadra del cuore. La vera partita per il paese sarà questa: portare ovunque Internet ad alta velocità e dare a tutti le competenze per starci. Sono cose che aspettiamo da un decennio. Con il calcio sarà più facile.

Così il web ha “ucciso” i classici. Pier Francesco Borgia il 2 marzo 2021 su Il Giornale. Difficile rendersene conto. Con tutte le emergenze nelle quali siamo ingolfati, sicuramente non ci siamo accorti che i classici stanno “morendo”. A cancellare dalla nostra memoria collettiva i grandi titoli della letteratura sicuramente non è la sciatteria della produzione editoriale. E sicuramente non è colpa degli insegnanti, appassionati difensori della nostra tradizione culturale. La colpa è di Wikipedia. Inutile girarci intorno. Internet sta uccidendo i classici, li sta archiviando in quegli scaffali della nostra memoria collettiva che nessuno vuole più spolverare. E questo proprio mettendoli in vetrina e quindi in bella mostra. Proverò a spiegare quello che ho appena scoperto. Vale a dire come è successo che i classici non vengono più letti dai giovani che dovrebbero essere coloro che formano la loro coscienza e che rafforzano la nostra identità collettiva leggendo e assimilando la lezione dei classici. E per spiegare le ragioni di questo allarme bisogna portare l’attenzione su un fatto sufficientemente insolito. Che accade nelle nostre scuole. Gli insegnanti, soprattutto delle scuole medie superiori, evitano di usare i classici come “testi” sui quali i ragazzi sono chiamati a forgiare la propria capacità di analisi e di sintesi. Spesso (ma ormai è quasi la norma) vengono dati in lettura ai nostri giovani titoli poco conosciuti. Di autori sicuramente validi ma contemporanei e spesso pubblicati da piccole (se non piccolissime) case editrici. Anche a me è capitato di vedere la lista dei libri di mio figlio e stupirmi. “Perché non danno in lettura Stevenson, Dickens o Dumas?” Mi chiedevo. “Perché questi sconosciuti quando c’è una disponibilità praticamente infinita di classici che offrono garanzie praticamente granitiche?” Poi ho capito. Me l’hanno dovuto spiegare perché nella mia vergognosa ingenuità non ci ero arrivato da solo. I classici a scuola non hanno più diritto di asilo. Colpa di Wikipedia. O, in generale, colpa dei motori di ricerca e di internet. Perché lo studente pigro troverà sempre sul web una sintesi del classico che dovrebbe leggere. E gli insegnanti – col tempo – l’hanno capito. Ecco perché hanno iniziato ad affidare in lettura ai ragazzi titoli “minori”, magari di autori minori e contemporanei. La poca fama e la scarsa eco su giornali e nel dibattito dei critici letterari rendono questi testi poco appetibili per chi confeziona le sinossi e le sintesi da affidare al mare del web. Chi – a differenza mia – le scuole le frequenta quotidianamente mi ha anche detto che sul web si possono trovare indirizzi e “motori” che selezionano sinossi di libri divisi addirittura per difficoltà e per anno scolastico. Basta selezionare la voce che si cerca (per esempio: “scheda libro prima media”, “riassunto libro primo liceo” e così via) e si trova tutto quello che si vuole.

I professori hanno mangiato la foglia e hanno trovato una soluzione. Però a rimetterci sono proprio i classici: vengono raramente dati in lettura ai ragazzi. Troppo facile per questi ultimi trovare sul web schede e sintesi da copiare evitando il fastidio di leggere i romanzi. Inutile ormai dire a questi giovani: “non sapete cosa vi perdete”. Ovviamente prendersela con i professori non ha senso. Loro fanno il possibile per spingere i ragazzi a leggere. E si inventano ogni diavoleria pur di non consentire ai ragazzi di copiare dal web. La questione, dunque, resta aperta. Come si fa a far leggere i classici ai nostri ragazzi? Come invogliarli a prendere in mano libri dei quali sul web si trova ogni sorta di sintesi, analisi, sinossi e schede? Se le nuove generazioni perdono il gusto di leggere i capolavori di Flaubert, Manzoni, Dostoevskij e Tolstoj cosa ne sarà della loro intelligenza e della loro sensibilità? Forse è meglio mettersi tutti intorno a un tavolo e pensare qualche soluzione. Altrimenti fra qualche anno anche le case editrici non avranno più la possibilità di irrobustire il “catalogo” e i titoli saranno sempre e solamente nuovi e non ci sarà più un dialogo fruttifero con il passato.

·        Ladri di Cultura.

Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" il 13 dicembre 2021. Il primo capitolo dell'inchiesta sul sacco della Rai, l'indagine che ha portato alla scoperta dei furti di centinaia di opere artistiche dalle sedi della tv pubblica, si conclude con un nulla di fatto. Il ladro reo confesso, che ha rubato nel 1973 un quadro di Ottone Rosai, l'ha fatta franca. Il dipendente furbastro che ha trafugato da Viale Mazzini un prezioso dipinto non subirà alcun processo. La procura di Roma ha chiesto l'archiviazione del caso. Il furto si è prescritto e i pm, perciò, non possono procedere. Purtroppo questo sembra essere il destino, almeno al penale, che accompagnerà la maggior parte degli altri saccheggi. Si tratta di colpi datati nel tempo. E sebbene la mancanza di queste opere, nelle principali sedi della televisione di Stato, sia stata scoperta da poco, grazie all'ormai ex direttore beni artistici Nicola Sinisi (poi licenziato in tronco dai vertici della Rai) questo rende il lavoro degli inquirenti quasi inutile. In dieci anni si prescrive il furto aggravato, in 8 la ricettazione e dal momento che il sacco della Rai va dagli anni Settanta alla prima decade del 2000 il lavoro dei pm diventa pressoché nullo. Non quello degli investigatori però. Va dato atto che i carabinieri tutela patrimonio culturale continuano a lavorare senza sosta. Inoltre la scoperta dei dipinti che mancano in Rai comporta, una volta individuati, pur sempre il sequestro. È il caso, appunto, dell'ormai famoso quadro del pittore Rosai. È il sacco della Rai. Quadri originali sostituiti con false riproduzioni e poi venduti. Semplicemente rubati. O nella migliore delle ipotesi, persi. Sono un centinaio le opere d'arte di cui non si ha più traccia tra dipinti e sculture di inestimabile valore. Il danno è milionario. Il sospetto che molte di loro siano state trafugate da dipendenti infedeli è molto più di un'ipotesi. Un centinaio di opere su un patrimonio che ne conta 1.500 tra tele, arazzi e sculture. È quasi un decimo insomma. Un saccheggio che riguarda tutte le sedi della televisione pubblica, da Nord a Sud. Un'indagine partita dopo una denuncia dei vertici della Rai che hanno deciso di fare luce sui mancati ritrovamenti. Tutto nasce dal quadro Architettura di Rosai. L'intera vicenda, di cui Il Messaggero ha dato notizia lo scorso 4 maggio, sarebbe nata per caso. La scoperta di un'opera che si pensava essere originale e invece originale non era. Il rinvenimento della patacca nei corridoi della sede di viale Mazzini sarebbe avvenuto l'anno scorso, accidentalmente dopo che l'opera cadendo avrebbe rivelato la sua vera natura: nient'altro che una copia. Un pezzo di notevole valore economico che qualcuno aveva rubato e sostituito con una replica e poi venduto a 25 milioni di lire negli anni Settanta. Quel qualcuno che nella televisione pubblica, si è scoperto dopo una delicata indagine, aveva lavorato per decenni. Un Lupin che candidamente aveva ammesso, di fronte agli inquirenti, di essere stato il protagonista della ruberia. Un ladro che l'ha fatta franca. La procura ha chiesto l'archiviazione. I reati contestati, furto e ricettazione, sono tutti prescritti, visto che il colpo sarebbe stato messo a segno 40 anni fa. Ora l'interrogativo è se l'uomo sia stato emulato da altri colleghi. Di sicuro in Rai manca un controllo su questi beni. Per fare solo alcuni esempi, non si ritrovano più quattro miniature, alcune in bronzo e altre in argento, del Cavallo dello scultore Francesco Messina. Si tratta della versione, in scala ridotta, del celebre cavallo di Viale Mazzini sempre dello stesso autore. O ancora la tela di Giovani Stradone Il Colosseo, di cui non c'è più traccia dalla sede in Prati a Roma a partire dal 2008. L'ultima volta che sono stati ammirati in Viale Mazzini Vita nei Campi di Giorgio De Chirico e La Domenica della Buona Gente di Renato Guttuso correva l'anno 2004. Stessa sorte per il Porto di Genova di Francesco Menzio assente dalla sede torinese di via Verdi dal 2010. Anche Composizione di Carol Rama, Kovancina di Felice Casorati, Dieci anni di televisione in Italia di Vincenzo Ciardo, Castello d'Issogne di Gigi Chessa, Giuditta di Carlo Levi, Parete Rossa di Sante Monachesi, Piazza di Luigi Spazzapan, Tristano e Isotta di Massimo Campigli, Tela Bianca di Angelo Savelli, Apologia del Circo di Giuseppe Santomaso, Orfeo di Gianni Vagnetti, Serata d'Epifania di Achille Funi e Numeri di Ugo Nespolo, mancano all'appello. C'è poi il capitolo relativo alle stampe di Modigliani, Sisley, Corot, Monet e Piranesi (in questo caso è una riproduzione). Di questi artisti sono scomparse nell'ordine Petit Fils, Hampton Court, La Route de Sevre, Paysage de Verneuil e Fontana Acqua Paola. Sono tutti lavori di pittori e scultori contemporanei che hanno un valore di mercato rilevante. In costante ascesa. Buona parte dei dipinti scomparsi nel nulla, secondo la ricostruzione investigativa, è assente dalle sedi Rai almeno a partire dal 1996. Questo fu l'anno in cui la televisione pubblica organizzò una mostra a Lecce: Opere del Novecento Italiano nella collezione della Radiotelevisione italiana. Ebbene gran parte di quelle tele oggi introvabili all'epoca erano esposte. I ladri, se scoperti, la farebbero franca. Le opere però verrebbero sequestrate.

Da nuovavenezia.gelocal.it il 7 marzo 2021. Nel corso degli anni era riuscito a creare, a casa sua, con certosina pazienza, una fornitissima biblioteca, con migliaia di rari e costosi manuali e volumi scientifici universitari, per un valore di circa 80.000 euro. Solo che per procurarsi i libri, un quarantottenne di Dolo, aveva adottato un sistema singolare e illecito: quello di depredare biblioteche pubbliche e universitarie. Nel mirino dell'uomo era finita, da qualche tempo, anche quella comunale di Mestre, solo che la sua presenza è stata alla fine notata dagli operatori della struttura. Nella tarda mattinata di lunedì, la responsabile del servizio bibliotecario comunale di Venezia ha così contattato il Nucleo Operativo della Polizia locale, segnalando che all'interno dei locali della biblioteca Vez era presente un utente sospettato di avere trafugato dei libri nelle settimane precedenti. Personale in borghese del Nucleo operativo si è così appostato all'esterno della struttura, attendendo l'uscita dell'uomo, che è stato poi perquisito: all'interno del suo zaino sono stati rinvenuti tre libri della biblioteca comunale, tutti con barre antitaccheggio asportate. I volumi sottratti alla Vez dal quarantottenne sono però una ventina: gli altri sono stati trovati all'interno della sua abitazione, con altre migliaia di pubblicazioni, rubate nelle biblioteche universitarie di Venezia, Padova, Udine, Ferrara e in quelle pubbliche di Venezia, Mestre, Spinea, Bassano, Martellago, Mira, Padova, Borgo Valsugana, Mirano, Scorzè, Castel Tesino, Ponte San Nicolò, Mogliano veneto, San Donà di Piave, Portogruaro, Abano Terme, Noale e Vicenza. Sono ancora in corso indagini per accertare l'utilizzo di tale materiale. L'uomo è stato nel frattempo deferito all'Autorità giudiziaria per i reati di furto pluriaggravato e continuato e di ricettazione.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 16 dicembre 2021. «Salvare un po' della bellezza del mondo» era l'obiettivo di Rose Valland, storica dell'arte e resistente francese che durante la Seconda guerra mondiale riuscì a sottrarre migliaia di opere d'arte ai saccheggi dei nazisti. Le sue parole danno ora il titolo alla mostra a Chambord fino al 2 gennaio, sul ruolo del castello come centro di raccolta e smistamento dei capolavori tra il 1939 e il 1945. Una parte importante dell'esposizione è dedicata al pezzo più prezioso, la Gioconda di Leonardo, che passò più volte da Chambord nel suo periplo attraverso la Francia per sfuggire ai bombardamenti e alle mire dell'occupante tedesco. Arrivata in Francia attraverso le Alpi assieme all'autore invitato da Francesco I ad Amboise nel 1516, poi regolarmente acquistata dal re, la Gioconda è stata spostata nell'arsenale di Brest nel 1870, per proteggerla dalla guerra franco-prussiana. Rubata dal vetraio italiano Vincenzo Peruggia e ritrovata a Firenze alla fine del 1913, Monna Lisa ha passato la Prima guerra mondiale a Bordeaux e a Tolosa, per poi venire appesa nella grande galleria del Louvre. Quando Hitler invade i Sudeti, il 27 settembre 1938 il dipinto di Leonardo lascia una prima volta il Louvre per Chambord. È la prova generale di quel che accadrà neanche un anno dopo. All'annuncio del patto Molotov-Ribbentrop tra Urss e Germania nazista, nell'agosto 1939, il direttore dei musei nazionali francesi Jacques Jaujard lancia il piano messo a punto ormai da anni: i dipinti vengono staccati dai muri dei musei nella notte tra il 23 e il 24 agosto 1939 e a partire dal 25 vengono caricati su 51 convogli su strada e trasportati prima a Chambord e poi verso gli undici depositi selezionati in tutta la Francia. Il 28 agosto 1939 un primo gruppo di otto camion lascia il Louvre in direzione della valle della Loira. A bordo c'è la Gioconda, accanto alla «Libertà che guida il popolo» di Delacroix e alla «Merlettaia» di Vermeer. Le condizioni di trasporto del dipinto di Leonardo sono uniche: «È il solo quadro a disporre di una sua cassa a parete doppia, che durante il viaggio poggia su una barella di ambulanza con le sospensioni elastiche ad assorbire le vibrazioni», dice la commissaria dell'esposizione, Alexandra Fleury. Tre mesi dopo l'arrivo a Chambord, la Gioconda riparte per Louvigny, nel dipartimento della Sarthe. Ad accompagnarla, seduto quasi abbracciato a lei nel retro del campion e non nella cabina di guida, c'è Pierre Schommer, il responsabile del deposito di Chambord, che racconterà l'avventura nel libro autobiografico «Il faut sauver la Joconde!» (bisogna salvare la Gioconda). Il capolavoro di Leonardo viaggerà poi verso l'abbazia di Loc-Dieu, poi al museo Ingres di Montauban, infine verso il castello di Montal, dove rimarrà fino alla fine della guerra. Grazie al piano di Jaujard e ai tanti che lo hanno aiutato, nonostante l'occupazione la Gioconda non è stata danneggiata né trafugata, e non è stata trasferita nel museo di Linz, in Austria, dove Hitler avrebbe voluto radunare i capolavori dell'arte «non degenerata».

Non solo la Gioconda. Quadri, sculture e arazzi: l'immenso tesoro della Camera dei deputati. Valeria Di Corrado e Alberto Di Majo su Il Tempo il 09 dicembre 2021. La Gioconda Torlonia, dimenticata per quasi cent’anni in un ufficio, è solo uno dei 134 dipinti che si trovano, o si dovrebbero trovare, a palazzo Montecitorio. Una collezione da fare invidia ai musei. Dai dati aggiornati al 31 dicembre scorso, infatti, risulta che i beni artistici presenti alla Camera dei deputati sono 4.857, di cui 4.305 di proprietà. Nell’elenco ci sono 526 dipinti, 82 busti, 92 sculture, 86 tra tappeti e arazzi, 98 reperti archeologici, 245 oggetti artistici di vario tipo e, incredibile a credersi, ben 3.176 tra disegni, stampe, incisioni, litografie e acquerelli. A questi beni se ne aggiungono 552 di proprietà di terzi (musei, collezioni private, Soprintendenze, ecc.), che la Camera tiene in deposito temporaneo. Un «deposito temporaneo» che in alcuni casi diventa definitivo, come accaduto con la Gioconda Torlonia: di proprietà della Galleria nazionale di Arte antica di palazzo Barberini, prestata a Montecitorio nel lontano 1925. Ma dove si trovano tutte queste opere d’arte? Girando per i corridoi e le stanze dei deputati, se ne può osservare solo una piccola parte. Per esempio, nel percorso che porta dal transatlantico alla galleria dei presidenti c’è il “Quinto Stato” di Mario Ceroli (ispirato al «Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo): una tavola gigante ultimata nel 1984 dallo scultore fiorentino e inaugurata nel 2008 dall’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti. Nella sala Salvadori, dove si riunisce il gruppo della Lega, c’è la “Battaglia tra cristiani e barbareschi”: un dipinto lungo circa 4 metri e alto 2,5 della scuola napoletana, risalente al XVIII secolo. “Quello splendido quadro era nostro e adesso lo vedete soltanto voi leghisti”, si sfoga un deputato di Fratelli d’Italia, mentre accenna un sorriso amaro al collega. Spesso, infatti, gli onorevoli si contendono le opere più belle, per arredare i loro uffici. Una piccola guerra sotterranea, quella dell’arte, dove i partiti di maggioranza hanno ovviamente la meglio. E così, spesso, con il cambio di legislatura, si assiste al trasloco di quadri, sculture e arazzi, da uno studio all’altro. La collezione si è arricchita con il passare del tempo. C’è stata una fase di mecenatismo più spinto negli anni Sessanta e Settanta, quando sono stati acquistati dipinti come la “Casa rosa” di Giorgio Morandi, “Composizione” di Mario Sironi, “Carro siciliano e carrettiere” e “Cristo deriso”, entrambi di Renato Guttuso, “Combattimento di gladiatori” di Giorgio De Chirico. Ma, nonostante la spending review, durante i 5 anni della presidenza di Laura Boldrini sono stati comprati altri 107 beni artistici. Nel 2015, in particolare, 50 tra stampe e litografie “per esigenze di arredo degli uffici e locali delle sedi Camera”; come se non bastassero quelli già presenti. Nel 2016, sempre «le esigenze di arredo di uffici e di locali di rappresentanza hanno determinato un incremento complessivo di 33 beni, 29 dei quali appartenenti alla categoria "disegni, stampe, incisioni, ecc.", e 3 alla categoria "oggetti artistici di vario tipo": 2 crocefissi e un barometro». Chissà chi era il deputato che aveva l’esigenza di misurare la pressione atmosferica... Il punto è che, girando per palazzo Montecitorio dopo aver sfogliato il catalogo delle opere, ne mancano all’appello tante. In quali locali si trovano? Sorge il dubbio, quindi, che non siano conservate come dovrebbero. “Io ero presidente della Commissione che ai tempi di Violante si era occupata di restituire le opere prestate dai musei alla Camera - spiega Vittorio Sgarbi -. Vennero quindi riportati indietro quadri di Tintoretto e Luca Giordano e in cambio i musei, come compensazione, hanno donato a Montecitorio dipinti che avevano nei magazzini e non esponevano, magari di grandi dimensioni, come quelli risorgimentali di Palazzo Pitti, Uffizi e Capodimonte. Poi abbiamo fatto una campagna di acquisti di opere d’arte contemporanea, ad esempio di De Dominicis e Bergomi. All’epoca - precisa Sgarbi - questi artisti, dopo aver fatto una mostra organizzata dal Parlamento stesso, lasciavano in donazione un loro dipinto. È tutto agli atti. Ci sono poi opere di grande valore di Morandi e de Pisis che stanno ancora nella stanza del presidente della Camera”. Proprio Roberto Fico (M5S) e uno dei vice, Fabio Rampelli (FdI), hanno deciso di raccogliere alcune opere d’arte che erano disseminate in studi di deputati, corridoi o nei magazzini, per allestire un nuovo spazio espositivo nella sala Aldo Moro, al secondo piano dell’ala berniniana del palazzo. È qui che si trovano la “Gioconda da Leonardo da Vinci” (fino a pochi mesi fa stava nella stanza del questore) e il “Ritratto di Napoleone Imperatore e Re d’Italia” di Andrea Appiani, di proprietà della Pinacoteca di Brera e in “deposito temporaneo dal 1927”. Alcune perplessità sulla manutenzione delle opere conservate a Montecitorio le ha anche il senatore leghista Stefano Candiani, che ha seguito il restauro della Gioconda Torlonia e del Salvator Mundi della bottega di Leonardo: “Alcuni dipinti non hanno restauri da almeno un secolo - attacca il senatore - Tanti sono abbandonati nei corridoi e molti parlamentari li considerano delle suppellettili”. Ma c’è anche un’altra questione: “Non si capisce dove si trovino molte di queste opere”. Per chiarire i dubbi, Candiani annuncia che presenterà un’interrogazione al governo Draghi: “Condivido l’idea, avanzata alla fine dell’Ottocento, che i palazzi delle istituzioni ospitino una rappresentanza di capolavori dell’arte italiana ma la disattenzione e l’ignoranza li hanno trasformati, in molti casi, in oggetti di arredamento. È ora di fare piena luce su dove siano e come siano curati”.

Usa, New York restituisce all'Italia 200 antichità rubate. Redazione Tgcom24 il 16 dicembre 2021. New York restituisce all'Italia 200 antichità rubate, e recuperate dagli investigatori americani, dal valore complessivo di 10 milioni di dollari. Il procuratore di Manhattan, Cyrus Vance, ha spiegato che  la maggior parte dei reperti è legata alle indagini condotte su Edoardo Almagià, un antiquario italiano che ha vissuto fino al 2003 a New York. Almagià era indagato in Italia per il traffico e la vendita di manufatti rubati ad acquirenti americani. Il Generale di Brigata dell'Arma Roberto Riccardi, che dirige il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, è volato negli Stati Uniti per prendere possesso degli oggetti. "La cosa più importante è che questi preziosi reperti archeologici tornino perché fanno parte della nostra identità culturale", ha detto al New York Times Roberto Riccardi. Tutti i reperti che saranno restituiti all'Italia erano in mano a persone ed istituzioni che volontariamente hanno accettato di riconsegnarli. Tutti li avevano acquistati da intermediari i quali a loro volta si erano interfacciato con Edoardo Almagià il quale ha operato come antiquario dal 1980 fino al 2006. Almagià si è difeso dicendo che "ci sono migliaia di oggetti d'arte che viaggiano per il mondo senza documenti e in passato era sempre così" solo ora, dice ancora, "la regolamentazione italiana e americana è diventata più severa". "Perché solo ora? Si potrebbero spendere tutti quei soldi per riparare i musei italiani anziché perseguitare i commercianti", ha detto ancora Almagià. Per decenni Edoardo Almagià è stato indagato dalle autorità americane e italiane. Nel 2012 subì un processo con l'accusa di saccheggio di tombe etrusce e romane, la magistratura italiana lo ha assolto ma gli ha imposto la confisca di tutte le reliquie in suo possesso scrivendo che i suoi affari hanno contribuito a "uno dei più grandi saccheggi del patrimonio culturale italiano". In una intervista anni fa Edoardo Almagià disse: "Ho venduto cose dall'Italia, ci sono oggetti nei musei statunitensi che indubbiamente sono stati rubati dagli scavi ma quando non sono oggetti della massima importanza, penso che dovrebbero rimanere lì in modo che possano essere apprezzati dai visitatori americani”.

·        Falsi e Falsari.

Massimo Sanvito per “Libero Quotidiano” il 15 giugno 2021. È il tarocco che brilla di luce propria. Il falso che assume una propria identità slegata da ogni altra, diventa famoso e acquista valore. Non c'è più bisogno dell'originale, quella è un'etichetta ormai superata. Una premessa in capo all'articolo che segue: questa è la vittoria della resilienza di chi si ostina a far passare una cosa come un'altra e alla fine centra l'obiettivo. È la storia di Raymond Hekking, mercante francese, che a metà degli anni Cinquanta compra una copia della Gioconda dalla bancarella di un antiquario di Magagnosc, piccolo villaggio in Costa Azzurra. Prezzo del quadro? Più o meno 70 euro di oggi. Valore attuale del falso? Base d'asta sui 200/300mila euro. E da Christie's, giurano gli esperti, si andrà ben oltre. Si arriverà al milione tondo? Chissà: per un falso sarebbe certo un record. La cosa certa, indiscutibile, è la magistrale campagna di comunicazione messa in piedi dallo stesso Hekking a partire da settant'anni fa or sono. Un'epoca in cui la potenza dei media non era quella attuale, dei social non c'era nemmeno l'idea e i fenomeni da like e condivisioni stile Ferragni erano lungi dal venire (nostalgia...). Eppure, questo geniaccio francese è riuscito nell'impresa: valorizzare la copia della Monna Lisa di Leonardo, dipinta da chissà chi, e risvegliare il mercato dell'arte anche oltre le opere originali. Dietro ogni suo passo si è nascosto un calcolo freddo e lucido. Lo scopo era colpire nel segno, non era importante in che modo. E così siamo nel '63. Gli Stati Uniti vogliono a tutti i costi la Gioconda per un tour itinerante in patria, ma la Francia non ci sente. Kennedy è presidente da appena quattro mesi quando tenta di convincere De Gaulle. Nulla di fatto. Fino a quando entra in partita la first lady, Jacqueline. Fascino e modi d'altri tempi ammaliano il generale: l'opera può finalmente lasciare il museo del Louvre e attraversare l'oceano. A Parigi scoppia il caos, i francesi scendono in piazza per protestare, anche solo prestare una tal icona è visto come un delitto, un tradimento nazionale. Ed è qui che si infila Hekking con scaltrezza. I riflettori sono tutti sulla Monna Lisa, lui ne approfitta per raccontare la sua singolare storia: è quella in suo possesso l'opera autentica! Senza troppi giri di parole spiega che quella conservata al Louvre è una copia. L'originale, secondo la sua versione, sarebbe andato perso dopo il celebre furto del 1911 a firma dell'italiano Vincenzo Peruggia, un dipendente del museo che la staccò dalla parete, la nascose sotto il cappotto e se la portò via. Due anni dopo il quadro ricomparve, ma Hekking ribadisce che non è quello vero. Per la stampa, le sue dichiarazioni sono a tutti gli effetti una notizia dirompente. Uno scoop di quelli che se ne trovano pochi. I giornalisti cominciano la processione verso il mercante, che li invita a esaminare il suo quadro. Finanzia persino un breve documentario realizzato dalla British Pathé per convincere il mondo della bontà dei suoi racconti. Nel filmato, girato all'interno della sua grande villa in Provenza, si vedono studiosi ed esperti impegnati nelle valutazioni: da una parte c'è la Gioconda del Louvre, dall'altra quella di Hekking. Una sorta di "trova le differenze" in mondovisione. Ma nonostante gli sforzi del suo proprietario, l'opera viene certificata come una copia risalente al Seicento, dipinta da un italiano sconosciuto che si ispirava a Leonardo. Hekking sconfitto? Nemmeno per sogno. Il suo obiettivo era far parlare dell'opera bis, metterla al centro di un dibattito internazionale studiato a tavolino nei minimi dettagli, ed era perfettamente riuscito. La prova è proprio l'asta che in questi giorni verrà battuta da Christie's: la Monna Lisa taroccata ha acquistato un valore da capogiro e ormai gode di autenticità propria. Certo, possedere una copia del Seicento, dipinta quando di fatto non esistevano riproduzioni dell'opera d'arte vinciana, non è comunque cosa disprezzabile. Appendere alla parte un doppione della Gioconda, sapendo che l'originale non potrà comunque essere mai comprato da nessuno, non è per niente male. «Ha una storia assolutamente unica e questo gli dà valore. È più di un'altra copia di un'opera di Leonardo. Quella Gioconda non è una riproduzione meccanica, ma un'autentica copia del XVII secolo di un'immagine iconica, ha una sua autorità culturale. Se c'è un'immagine che genera dibattiti sul valore delle copie e riflessioni sull'autenticità, è la Monna Lista di Hekking. Ciò si rifletterà nel prezzo che il dipinto otterrà all'asta», ha spiegato Gabriele Neher, professore di Storia dell'Arte all'Università di Nottingham. 

Cosa sarebbe la storia dell’arte senza il talento dei falsari? Quadri attribuiti a Pollock, Rothko, van Gogh, ma contraffatti. I truffatori li producono per soddisfare un mercato insaziabile. Che non ha nessun interesse a scoprire l’inganno. Helena Janeczek su La Repubblica il 4 maggio 2021. Pochi giorni dopo Pasqua si diffonde la notizia di un’altra resurrezione. Non è un evento che coinvolga il corpo di Cristo, ma una faccenda materiale che comunque esige un atto di fede. Il Cristo si presenta incoronato di spine, il volto pallido e dolente dell’Ecce Homo. La sua immagine arriva dal catalogo di una casa d’aste madrilena. Ma il 7 aprile, il giorno prima dell’asta, il quadro viene ritirato dalle autorità spagnole. Non per il sospetto che sia un falso, anzi, il contrario. Il dipinto, valutato 1.500 euro come opera di un seguace di José de Ribera, potrebbe essere di Michelangelo Merisi. Gli esperti, a quel punto, rompono il silenzio. «Ecce Caravaggio» decreta Vittorio Sgarbi. La storica dell’arte Maria Cristina Terzaghi, dialogando su Il Giornale dell’Arte con il collega Stefano Causa, racconta di aver fatto appena in tempo a volare a Madrid. «Se avessi pensato di essere l’unica a credere all’autografia dell’opera non penso che sarei saltata su aereo in tempo di Covid-19. Il sapere che anche tu ci credevi, che anche gli amici antiquari che mi hanno inviato l’immagine e altri con cui ne ho parlato pensavano che potesse essere lui, mi ha confortata nell’impresa. Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato è che non ci si salva da soli. Io sono convinta che non si può nemmeno essere storici dell’arte da soli…». Da metà marzo, quando la casa d’aste ha messo online il catalogo, fino al giorno in cui la scoperta è diventata di dominio pubblico, lo scambio sotterraneo tra studiosi mercanti e collezionisti ha dunque prodotto un parere quasi unanime. La fede si forma attraverso una comunità, persino quando c’è concorrenza tra chi si prepara a offrire dei milioni. Però la fede non è sufficiente. Come il San Tommaso dipinto da Caravaggio, bisogna vedere da vicino, toccare con mano. E sebbene Terzaghi ci sia riuscita, neanche questo basta. C’è da collegare il quadro proveniente dal salotto di una defunta signora madrilena all’origine nell’Italia del Seicento. Ci vuole una storia che collimi con l’intera vicenda dell’artista e delle opere, al costo di riscrivere quella finora ricostruita. Se è autentico l’Ecce Homo di Madrid smette di esserlo l’Ecce Homo di Genova identificato nel 1954 da Roberto Longhi. Il vero e il falso si scambiano di posto. Nei giorni della scoperta del Cristo caravaggesco mi è capitato di vedere il documentario “Made You Look: una storia vera di capolavori falsi”. Il film di Barry Avrich, disponibile su Netflix, ripercorre la maggiore truffa nel mondo dell’arte statunitense. Tra il 1994 e il 2011, la più antica galleria newyorchese, Knoedler, ha venduto per oltre 80 milioni di dollari una quarantina di opere attribuite a Rothko, Pollock, Motherwell e altri esponenti dell’espressionismo astratto. La direttrice Ann Freedman acquistava le tele da una sconosciuta mercante d’arte, Glafira Rosales, che le dichiarava provenienti da una collezionista di cui gli eredi chiedevano l’anonimato. Rendeva plausibile quella richiesta non insolita una storia che si dipanava tra il Messico, Paese nativo di Rosales, e la New York degli anni Cinquanta. In realtà, i quadri venivano da un garage del Queens, realizzati da un anziano pittore immigrato dalla Cina. Il compagno spagnolo di Rosales li invecchiava, li firmava e, infine, lei li portava alla galleria sontuosamente alloggiata a pochi isolati dal Metropolitan Museum. Nel 2009, anno in cui Freedman si dimette da Knoedler a causa dell’intensificarsi delle voci sulla dubbia provenienza delle opere da lei vendute, viene alla luce un’altra clamorosa truffa d’arte. A Magonza, città quanto mai dissimile dal centro d’affari globale di Manhattan, gli inquirenti scoprono un magazzino pieno zeppo di falsi bronzi di Alberto Giacometti. Meno ambiziosi dei newyorchesi, i due tedeschi arrestati hanno incassato solo nove milioni di euro sul mercato parallelo. Spacciandosi per un conte eccentrico, il piazzista offriva la “prova” di un libro da lui firmato (scritto in realtà dal socio esperto d’arte) che rivelava come Diego Giacometti gli avesse confidato di aver sottratto le statue agli impulsi distruttivi del fratello. Nel documentario “Il caso dei falsi Giacometti” (che si trova su Raiplay), la regista Claire Ott riserva un ruolo centrale al falsario olandese Robert Driessen, l’unico della banda tornato in libertà. I giudici tedeschi sono stati più clementi con Driessen, riconoscendogli di aver agito anche per motivi non venali: bisogno di riconoscimento, sfida, emulazione dell’altrui talento. A chi non deve stabilire una sentenza, i falsari d’arte tendono a stare ancora più simpatici. Devono usare delle capacità artistiche. Creano l’illusione - o l’aura - dell’oggetto unico e prezioso che è la quintessenza dell’oggetto del desiderio. Desiderio per pochi o pochissimi che possono spendere tanto, convinti di aver fatto un affare. Eppure Driessen, che in dieci anni ha sfornato circa 1.300 Giacometti, risulta privo del fascino dei grandi falsari del passato: a cominciare dal connazionale Han van Meegeren, capace di rifilare i suoi Vermeer persino a Himmler, passando per lo scintillante Elemyr de Hory immortalato da Orson Welles in “F come falso”, fino a Wolfgang Beltracchi che seguita a rivendicare la sua maestria con lo spirito contestatario degli anni Settanta. In “Made You Look”, l’artefice dei quadri da 80 milioni si nega alla troupe andata a rintracciarlo in Cina, dov’è tornato per sottrarsi alla giustizia americana. Non ne sarebbe comunque stato il protagonista, Pei-Shen Qian, pagato 5mila dollari a dipinto. Il Novecento è finito, i falsari producono per un mercato insaziabile, come se fossero le intercambiabili controfigure degli artisti più quotati. Così al centro del film di Avrich non ci sono gli autori della truffa, ma l’imperscrutabile direttrice della galleria d’arte che, trascinata in tribunale, riesce a uscirne in extremis con un accordo tra le parti. Sarebbe stato possibile dimostrare che Ann Freedman sapeva di rivendere dei falsi? E sono credibili alcuni esperti quando sostengono di non averle mai dato corda? Un altro elemento di fascinazione sono i collezionisti. Eleanor e Domenico de Sole non hanno resistito all’occasione unica di un Rothko, lo hanno appeso in casa, lo hanno intestato a una figlia. Lui, figlio di un generale calabrese, deve la sua fortuna americana al lavoro manageriale che lo ha portato ai vertici di Gucci. Soltanto loro, collezionisti all’antica, hanno deciso di trascinare Knoedler al processo, testimoniando prima davanti alla corte e poi nel documentario. Ma anche altri hanno reagito alla truffa con un furioso desiderio di vendetta. A cominciare da Pierre Lagrange, fondatore di un hedge-fund, che per pagare un divorzio da 160 milioni di sterline voleva mettere all’asta un Pollock, vedendoselo rifiutare da Sotheby’s e Christie’s. È lui che, facendo causa, ha reso pubblico lo scandalo, anche se alla fine ha preferito le riservate trattative di un accordo. Succede nel 2010, anno in cui persino chi, come Lagrange, deve alla finanza i milioni da investire in arte risente ancora della crisi finanziaria. Come mai gente che nella vita guadagna e perde - e fa guadagnare e perdere - incalcolabili somme di denaro desidera distruggere chi gli ha venduto un falso d’arte? Nel nuovo romanzo di Andrea Inglese “La vita adulta” (Ponte alle Grazie) un gallerista fiero di ritenersi uno degli ultimi borghesi fa una tirata contro i nuovi ricchi, per lo sconcerto della giovane artista che ha deciso di lanciare a New York. Le racconta di un tale che «non era certo uno tra i primi che da Wall Street saliva a Chelsea. Venivano gonfi dei loro bonus per diversificare gli investimenti e spalmarsi, nel contempo, una patina di spirito liberal». Quel trader smanioso di reinvestire delle azioni urgentemente liquidate, batteva le gallerie a ridosso dell’11settembre e metteva paura. «Vengono presentati come eroi del nuovo capitalismo, ma sono dei pazzi pericolosi», sostiene il gallerista. «Oggi più che mai il sistema è una questione di fede. Tutti ci vogliono credere. Anche il più sfigato risparmiatore di Detroit». Allora, se ha ragione il personaggio, forse chi muove e manovra quella fede non sopporta di essere tradito se, per una volta, anche lui crede totalmente nell’unicità dell’oggetto acquistato. L’opera d’arte sembra l’ultimo baluardo del valore attaccato alle cose in un mondo dove i valori - finanziari, ma non solo - sono sempre più immateriali. Può essere trattata come un asset da tenere in un caveau, può essere addirittura un falso: quel che conta non è l’opera in sé ma ciò che rappresenta. E se per stabilirne il valore vero e unico serve l’apporto di una storia, nulla vieta di percorrere all’indietro la storia della Knoedler. In fondo, per molti molti anni, tutti vissero felici e contenti dei loro capolavori. Se Lagrange non avesse divorziato, o perlomeno non nel mezzo della crisi, magari Glafira Rosales, l’unica ad aver scontato carcere e condanna, oggi non servirebbe breakfast e hamburger contando sulle mance.

·        La Bugia.

Ogni giorno diciamo 15 bugie. Roberta Damiata il 4 Novembre 2021 su Il Giornale. Un recente studio ha rivelato che siamo tendenzialmente dei mentitori seriali. Dalle bugie bianche, alle vere e proprie menzogne, ognuno di noi non dice la verità almeno 15 volte al giorno. La buona notizia? Chi lo fa, appare migliore agli occhi degli altri. Se siete convinti di essere persone sincere, probabilmente dovrete ricredervi. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Communication Monographs, condotto a Birmingham dagli scienziati dell'Università dell'Alabama, ognuno di noi dice almeno 15 bugie al giorno. Un numero non indifferente, di cui spesso neanche ci rendiamo conto. Da quelle bianche al mentire volutamente, ognuno di noi è potenzialmente un bugiardo seriale. Queste le conclusioni a cui è arrivato il team del professor Timothy Levine psicologo della comunicazione, che nei 91 giorni in cui ha condotto lo studio, ha esaminato oltre 100mila bugie, raccontate da 630 studenti universitari. In realtà questo è solo l’ultimo dei numerosi studi che sono stati fatti su questo argomento, che può sembrare quasi una cosa leggera, ma che in realtà racconta molto della nostra psiche e della modalità con cui ci rapportiamo con il mondo esterno. Qualche tempo fa sempre sulle bugie, fu condotto un altro interessante esperimento, dallo psicologo Robert S. Feldman, dell'Università del Massachusetts, pubblicato sul Journal of Basic and Applied Social Psychology. Dai risultati di questo, si è scoperto che la maggior parte delle persone mente nelle conversazioni quotidiane, perché cerca soprattutto di apparire simpatica e competente.

Nessuno dei partecipanti allo studio ha detto la verità

Il 60% degli intervistati ha mentito almeno una volta durante la conversazione a cui hanno partecipato. La percentuale sale a due/tre volte per il restante: “Le persone raccontano un numero considerevole di bugie nelle conversazioni quotidiane. È stato un risultato molto sorprendente. Non ci aspettavamo che la menzogna fosse una parte così comune della vita quotidiana” è stato il commento del professor Feldman. Lo studio ha anche scoperto che le bugie raccontate dagli uomini rispetto alle donne, differiscono nel contenuto. Non però sulla quantità. "Le donne intervistate, erano più propense a mentire per far sentire bene la persona con cui stavano parlando. Gli uomini invece mentivano per apparire migliori”. Anche in questo caso, come nel precedente, l’esperimento sociale ha coinvolto 121 coppie di studenti universitari. È stato detto loro che lo scopo era quello di esaminare come le persone interagiscono quando incontrano qualcuno che non conoscono. Tutti i partecipanti hanno avuto ad una conversazione di 10 minuti. Sono poi stati divisi in tre gruppi. Al primo è stato chiesto di apparire simpatici, al secondo competenti, e al terzo è stato chiesto di essere il più naturali possibili. Registrati a loro insaputa, gli è stato poi chiesto di rivedersi e correggere le varie "imprecisioni" dette durante la conversazione. In pratica sono stati incoraggiati a identificare tutte le bugie, sia grandi che piccole, raccontate. Nello studio pubblicato si legge che gli stessi studenti sono rimasti sorpresi di quello che hanno detto, non sapendo di essere stati ripresi. Da cose minime come essere d’accordo con la persona con cui stavano parlando, quando non era vero, fino ad arrivare a raccontare di essere una rockstar nei casi più estremi. "È così facile mentire", ha detto in conclusione Feldman. "Insegniamo ai nostri figli che l'onestà è la migliore politica, ma diciamo anche loro che è educato fingere che gli piaccia un regalo di compleanno che gli è stato dato. I bambini ricevono un messaggio molto contrastante riguardo agli aspetti pratici della menzogna, e questo ha un impatto su come si comportano poi da adulti". L’amara conclusione o forse il lato positivo, a secondo da quale parte lo si voglia vedere, è che lo studio ha rilevato che gli studenti più popolari in realtà erano quelli che raccontavano più bugie.

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi. 

Jessica D'ercole per "la Verità" il 20 luglio 2021. Centoquarant' anni fa, in questi giorni, sul Giornale per i bambini uscivano le prime puntate di Storia di un burattino scritte svogliatamente da un pigrissimo Collodi. Per lui altro non era che una «bambinata», buona solo a portare qualche spiccio a casa. Non aveva idea che il suo Pinocchio, con le sue fandonie e quel naso che gli si allungava ogni volta che ne diceva una, avrebbe fatto il giro del mondo fino a diventare emblema e sinonimo della bugia. Mark Twain diceva: «Mentiamo ogni giorno, a ogni ora, da svegli e nel sonno» e un sondaggio del 2005 realizzato in occasione della Biennale internazionale dell'umorismo nell'arte di Tolentino gli dava ragione. Lo studio aveva stimato in un miliardo e 400 milioni il numero di bugie raccontate dagli italiani in un anno, tre milioni 800.000 al giorno, 156.000 all'ora, 2.600 al minuto, oltre 43 al secondo. Un numero impressionante che sarebbe stato sicuramente più alto se Federico Fellini fosse stato ancora vivo. Il Maestro della Dolce vita era così bugiardo da dichiararsi di «una sincerità spudorata». Era solito mischiare invenzione e realtà per abbellire le sue storie, per dare un tocco di colore al mondo e anche per prendersi gioco di interlocutori spesso troppo creduloni. Era capace di negare l'evidenza senza alcuna vergogna spiazzando chi gli stava vicino. Ricorda Bruno Zanin, il Titta Biondi di Amarcord, in un'intervista a Stefano Lorenzetto, quella volta che gli diede buca al Théâtre de la Ville di Parigi: «Mi aveva promesso di venirmi a vedere con Giulietta Masina. Gli feci tenere due posti in prima fila alla première. L'indomani trovai in camerino un biglietto di scuse: era dovuto andare a cena con la moglie dall'ambasciatore italiano. Peccato che il diplomatico la sera prima fosse con la consorte a teatro proprio per incontrarvi Fellini. Era fatto così. Nella sua villa di Fregene imitava al telefono la voce della colf per non farsi trovare: "Il maestro non è in casa"». D'Altronde fu Fellini a dire: «Le cose più reali per me sono quelle che ho inventato». Come lui Orson Welles. Amava estasiare pubblico e amici con piogge di bugie su piccole verità. Del falso ne fece la sua arte, in fondo «la mia carriera è cominciata con un falso, l'invasione dei marziani. Avrei dovuto andare in prigione. Non devo lamentarmi: sono finito a Hollywood!». È vero che il suo successo arrivò con la finta radiocronaca dell'invasione aliena sulla Cbs che paralizzò New York, ma la sua carriera decollò con un'altra bugia. La prima volta che calcò il palcoscenico era a Dublino e per farsi scritturare s' era spacciato un noto attore americano, millantando pièces in cui avrebbe recitato o diretto solo qualche anno dopo. Le stelle del cinema che hanno mentito per ottenere un ruolo non si contano. Si va da Eddie Redmayne che disse d'essere un cavallerizzo nato quando sul set, neanche in sella, fu disarcionato, a Whoopi Goldberg che sul curriculum s' invecchiò di sei anni per ottenere ruoli più maturi, passando da George Clooney che per darsi un tono sostenne d'aver avuto una piccola parte in Il bacio della pantera di Paul Schrader ignorando di trovarsi difronte alla direttrice casting di quel film. Tornando a Welles: «A Hollywood tutto quello che si vede è vero, comprese le bugie». Straordinario contaballe anche Pupi Avati. Per lui la menzogna è il motore della sua vita: «È fondamentale mentirsi: se la mattina, quando mi alzo, dovessi fermarmi davanti all'immagine da vecchio riflessa nello specchio, è evidente che non andrei sul set. Invece uno si racconta quello che non è, e poi si affida all'autoillusione che il film che stai girando metterà in discussione la storia del cinema mondiale», raccontava ad Alessandro Ferrucci sul Fatto. Altro ballista professionista Paolo Villaggio. Ma lui le frottole le raccontava solo alla moglie per andare a cena fuori ed evitare la dieta. Ne diceva talmente tante Lucio Dalla - sulle Bugie ci fece anche un album - nessuno gli credeva mai. Quando si sentì male sul set di Allonsanfàn dei fratelli Taviani il produttore Giuliani De Negri convinto della sua malafede urlò: «Mi sta truffando, mi sta turlupinando! Lo denuncio, vi giuro che lo denuncio». Era sul piede di guerra e quando arrivò in ospedale per metterlo spalle al muro e lo trovò lì, ricoverato per un'ulcera perforata, ci rimase male. Usava le menzogne, ma solo per farsi bello, Ernest Hemingway. Millantatore, raccontava di imprese militari e prodezze eroiche mai compiute. Si vantava di essere stato al comando di un reparto di Arditi, di aver ucciso personalmente un numero inverosimile di austriaci, di aver liberato il Ritz di Parigi che però era già stato abbandonato dai tedeschi. Le sue pose da macho, diceva Zelda Fitzgerald, erano fasulle quanto un assegno non coperto. A farle eco la sua terza moglie, Martha Gellhorn, che lo piazzò al secondo posto di un'ipotetica classifica mondiale dei grandi bugiardi, secondo solo al Barone di Münchausen. Eroiche imprese militari anche quelle che Indro Montanelli raccontava a Tiziana Abate in Soltanto un giornalista: «Riuscii a indossare la mia uniforme da capitano dei granatieri: volevo arrendermi da soldato, non da imboscato. M' interrogava un ufficiale della Wehrmacht. Avevo avuto il permesso di vestire la mia giubba da capitano anche in cella e un giorno venne a interrogarmi un sottufficiale. Mi rifiutai di rispondergli perché il suo grado era inferiore al mio. Quell'orgoglio di soldato fu il collante che tenne insieme i miei nervi: la fierezza militare prevalse sulla paura». Peccato però che il principe del giornalismo italiano non divenne mai capitano, neppure tenente, restando sempre semplice sottotenente. Non era nemmeno un granatiere, bensì un fante. Non comandò mai neanche la banda di Ascari che, come fece notare Marco Bertoncini su ItaliaOggi, divenne una compagnia in due sue altre biografie, un battaglione di una lettera ad Arrigo Petacco, un plotoncino in una missiva ad Aldo Borelli. Ma in fondo, come disse Giorgio Bocca a Massimo Gramellini: «Montanelli era un attore, con tutti i difetti degli attori, ma una brava persona incapace di colpi bassi. Certo, un contaballe Durante la resistenza, ha raccontato così tante balle sulla sua amicizia con i partigiani che alla fine i fascisti sono stati costretti a metterlo in galera. Però era un uomo dell'Italia onesta che non rubava».  Per soldi Alexandre Dumas padre esaltava le gesta di Giuseppe Garibaldi all'Indipendente. Scriveva Giuseppe Buttà in I Borboni di Napoli: «Descrisse Garibaldi un Orlando furioso per la forza, un Federico II di Prussia ed un Napoleone I per la strategia militare. Fra le altre cose narrò che avea veduto innumerevoli schiere di soldati Napoletani combattere in Milazzo contro duemila e cinquecento ragazzi garibaldini. Fu questo un fenomeno ottico prodotto da que' belli sessantamila franchi». A Dumas però le bugie scorrevano nel sangue e nell'inchiostro delle sue penne. Ricorda Piero Citati sul Corriere della Sera che, nel 1832, lo scrittore sostenne che si era rivolto a lui un giovane americano, Edgar Poe. «"Al primo abordo riconobbi che avevo a che fare con un uomo rimarchevole, due o tre osservazioni ch' egli mi fece sul mio mobilio e gli oggetti che mi attorniavano, sulla maniera nella quale le mie robe erano sparse nella camera, sulla parte morale e intellettuale del mio individuo - mi colpirono per la loro giustezza e la loro veracità". Come gli accadeva spesso, Dumas mentiva. Non aveva mai conosciuto Poe, che non era mai stato in Francia e in Italia». «Io sono un bugiardo. Un bugiardo che dice sempre la verità» scriveva Jean Cocteau, frase che anche Truman Capote avrebbe voluto far sua quando se ne andava in giro a dire che la regina d'Inghilterra lo aveva invitato a pranzo mentre l'invito gli venne dal fotografo della regina madre al cui solo tavolo è poi stato. Ma il giornalista di Paris Review George Plimpton aveva capito come smascherarlo: «Quando iniziava a raccontare una bugia tendeva ad alzare gli occhi al cielo e a guardare verso l'alto». Beccata, ma dalla polizia, Lee Israel, una biografa americana che non riuscendo a sbarcare il lunario con la scrittura, dopo aver venduto un paio di lettere autografe rubate in una biblioteca, decise di inventarne altre di sana pianta per poi chiedere perdono - dopo qualche mese ai domiciliari - con un'autobiografia dal titolo Can you Ever Forgive Me?. Che la menzogna fosse nel Dna di uno scrittore lo diceva anche l'ottocentesco scapigliato Carlo Dossi, ma lui nel girone dei bugiardi ci mise anche i dottori: «Mentono entrambi, i medici per far del bene, gli scrittori per far del bello».

·        Il Film.

Claudio Strinati per affaritaliani.it il 13 aprile 2021. Questo libro, edito da Lamba Edizioni, è da un lato un vero e proprio manuale, esauriente e tecnicamente ineccepibile, relativo alla sonorizzazione dei lavori della cinematografia, della televisione e della comunicazione informatica fino alle forme più avanzate dei social e del sistema dei network. Per altri versi, poi, è invece un dottissimo trattato storico che ricostruisce, tappa per tappa, sia i progressi della storia della riproduzione dell’immagine fotografica, sia quelli della riproduzione del suono, prima procedenti su strade parallele poi convergenti verso un nuovo tipo di comunicazione visiva che è oggi moneta corrente. E qui se ne individua la lenta ma inarrestabile crescita attraverso un complesso e multiforme processo di perfezionamento dei mezzi di produzione,  registrazione e fissazione su diverse tipologie di supporti di cui quello informatico è ormai visto come quello se non definitivo, nell’assetto storico attuale, almeno risolutivo. Terzo aspetto, altrettanto fondamentale, è che il volume è anche una storia ricchissima di riferimenti, citazioni, dati documentari e bibliografici inerenti soprattutto alla musica per il film. E’ quindi una vasta e competente ricognizione sulla nascita e sviluppo del cinema sonoro, di cui la musica è componente essenziale anche se non esclusiva dato che non assumono minore rilevanza tutti gli ambiti inerenti alle diverse emissioni sonore del film, dalla “colonna sonora” propriamente detta con tutte le sue molteplici implicazioni, ai rumori e a qualunque tipo di componente “uditiva”, inglobanti infine le rilevanti e appassionanti problematiche del montaggio e del doppiaggio o comunque di moltiplicazioni dei campi sonori compresenti. La presa del suono, in tal senso, è uno dei più grandi argomenti relativi alla storia della riproduzione filmica e va di pari passo con la storia della evoluzione delle tecniche fotografiche e cinematografiche cui il libro dedica ampio spazio con dovizia di dati e di documentazione. Chi voglia essere informato in dettaglio di tali vicende trova in questo libro una capillare e analitica, nonché assai divertente, ricostruzione dei fatti. Si comprende bene come le tecniche di riproduzione e di costruzione del linguaggio cinematografico si sviluppino, tra Ottocento e Novecento, in stretto e consequenziale rapporto con lo sviluppo di quella che può essere considerata l’innovazione per antonomasia nella storia del genere umano: la scoperta dell’elettricità e delle sue potenzialità di utilizzo in ogni campo delle attività che ci competono, da quelle inerenti alla sopravvivenza e all’ordine sociale, a quelle spettanti a ricerca scientifica e tecnologica, a quelle rientranti nel dominio immenso delle arti. In questo senso risulta interessantissima nel libro la ricostruzione della nascita della fotografia, poi quella dei sistemi di captazione e fissazione del suono, poi la complessa genesi dei sistemi di riproduzione del movimento delle immagini, cominciati prima dell’elettricità ma divenuti sul serio operativi subito dopo. E le tabelle cronologiche di cui il volume è gremito permettono di verificare i prodigiosi e incalzanti progressi di questa che è la più grandiosa forma di evoluzione che l’umanità abbia conosciuto dalla preistoria ad oggi. Il cinema sonoro è uno dei punti culminanti di tale cammino e il libro ce ne racconta tutti gli aspetti, da quelli tecnici e tecnologici a quelli teoretici e speculativi, fino a tracciare una stimolante e per qualche momento pressoché inedita  ricostruzione degli eventi che per noi sono da un lato un prezioso retaggio di un imminente passato e dall’altro il viatico per capire meglio ciò che abbiamo costantemente sotto gli occhi ma di cui spesso non conosciamo né i presupposti operativi, né quelli più propriamente metodologici, né le esatte modalità di fruizione. Questo libro ce lo insegna, fungendo in sostanza da stimolo formidabile al fine di acquisire una concreta cognizione del funzionamento del mezzo filmico. C’è in questo volume un determinante ausilio per un effettivo apprezzamento tecnico ed estetico insieme di ciò che crediamo per lo più di conoscere ma che ci è invece soltanto noto nella sua esteriorità. Importantissime sono, così, le pagine sulle tappe fondamentali della storia della musica per i film, sul suo significato specifico, sui grandi autori che hanno consacrato questo genere peculiare, le cui origini, argomentano gli autori, possono risalire all’opera lirica di fine Cinquecento, di cui vengono ricordati alcuni tra i sommi teorici e fondatori come Vincenzo Galilei, celebrato maestro del tempo, padre di Galileo. Il libro è per più versi eminentemente tecnico. La sua lettura implica, infatti, cognizioni di carattere scientifico nel settore dell’elettricità e dell’elettronica, e di carattere specificamente musicale per quel che concerne le tecniche compositive ed esecutive che non sempre sono di universale dominio. E’ un libro, insomma, altamente specialistico ma, come sovente accade, proprio là dove si riscontra la maggior erudizione si trovano gli strumenti per attingere un’efficace e concreta divulgazione. I problemi e i temi posti dai tre insigni autori, Gilberto Martinelli che ha curato la trattazione sul suono in presa diretta sotto il punto di vista del linguaggio, Stefano Mainetti, che ha trattato gli argomenti relativi alla musica per immagini analizzando gli aspetti inerenti alla composizione e Simone Corelli che ha curato la storia del cinema sonoro e i vari aspetti della postproduzione, costituiscono una autentica sfida intellettuale per il lettore che deve orientarsi nei meandri di una materia di fascino supremo, ma anche di ardua complessità concettuale e tecnica. Ne scaturisce, quindi, uno strumento di studio indispensabile per chi lavora nel settore, nel contempo utilissimo agli storici e ai critici della musica, indispensabile agli addetti ai lavori nonché ai cultori della cinematografia in tutte le sue forme e diramazioni. Peraltro nel libro è contenuta un’incisiva analisi non solo del passato otto e novecentesco ma anche delle presumibili prospettive di un futuro che incombe su di noi ripromettendosi di essere foriero di colossali e sbalorditive mutazioni, sia nella produzione dell’opera d’arte sia della relativa fruizione. Chi legge può essere preso quasi da una vertigine di sconcerto nel constatare come un secolo di storia relativa a queste problematiche, per come sono illustrate e sviscerate in questo libro, sembri un millennio se confrontato con analoghe vicende inerenti alla storia della pittura o della scultura o dell’architettura stessa. Ciò conferma come le tecniche dell’audiovisivo siano arrivate a una svolta che presuppone una serie di fasi che il libro documenta come meglio non si potrebbe. E comprendiamo bene allora di essere oggi in un’epoca di passaggio, tale da giustificare appieno l’ampiezza di trattazione riscontrabile nel nostro volume. Il libro, quindi, ne è una testimonianza sintomatica e c’è da pensare che possa e debba essere considerato una vera e propria pietra miliare per la storiografia del settore, insieme popolarissimo e gremito di questioni tecniche altrimenti di ardua comprensione. Il libro ci fornisce gli strumenti per comprendere ogni aspetto di tale complessità in un quadro organico e nitido relativo ad ogni aspetto della questione, sia dal punto di vista pragmatico, sia da quello teorico sia da quello operativo.

·        La Poesia.

Poesia come convivio. Giancarlo Consonni su Il Quotidiano del Sud il 21 marzo 2021.

Perch’i’ no spero di tornar giammai,

ballatetta, in Toscana,

va’ tu, leggera e piana,

dritt’a la donna mia,

che per sua cortesia

ti farà molto onore.

Così inizia la celebre ballata di Guido Cavalcanti scritta a Sarzana poco prima di morire. Per decisione del priore (e caro amico) Dante Alighieri, il poeta era in esilio dalla sua città assieme agli altri capi della fazione bianca e nera. Riammesso a Firenze per le sue gravi condizioni di salute – aveva contratto la malaria -, spirava subito dopo, all’età di 42 anni. Perché riandare a questa strofa per parlare di poesia? Perché, oltre le contingenze, vi si intravede la condizione del fare poesia. Il poeta è sempre in esilio; tanto più nel mondo in cui ci è dato di vivere. Il suo riconoscimento in vita accade raramente e quando accade è pieno di insidie (e di equivoci). Il successo e la mondanità possono trasformarsi in zavorra e appesantire la capacità della scrittura di essere «leggera e piana» e di arrivare «dritta» al destinatario. Il «molto onore» che il poeta insegue è ben altra cosa dalla cosiddetta “fama”. Esso consiste nello stabilirsi di una condivisione e di una comunanza: un reciproco riconoscersi grazie al dono in cui la poesia essenzialmente consiste. Il dono di chi ha avuto la ventura e la capacità di ascoltare la parola dentro di sé, di farla crescere e fiorire e, infine, di fissarla sulla carta (o su un supporto elettronico). Nel suo andare per il mondo, la poesia è autonoma da chi l’ha scritta. Le si aprono possibilità che il suo stesso autore non può immaginare. Ogni volta che trova ospitalità, risuonando nel corpo e nell’anima di un lettore, la poesia vede rinnovarsi il dono originario. In quel risuonare ha luogo una sorta di (ri)nascita che rende il lettore partecipe del poiein: gli offre la possibilità di esser egli stesso poeta. Del resto cosa impedisce alla lingua di perdere forza e di decadere se non il rinnovarsi sorgivo della parola da un parlante all’altro? Ogni volta che questo si verifica, avviene un fatto creativo: un poiein diffuso che nutre la parola e le dà la forza di veicolare significati e produrre senso. Certo: c’è poi chi sa fissare l’avventura della parola in espressioni compiute che vanno sotto il nome di poesia; ma la poesia dei poeti non potrebbe vivere senza il convivio, ideale e concreto, di chi la sa riconoscere.

Christian Greco per "La Stampa" il 15 marzo 2021. Tre papiri e numerosi ostraca di età Ramesside contengono componimenti che sono generalmente definiti liriche amorose. Sviluppano i motivi della passione erotica e del desiderio per la persona amata, dando voce a personaggi maschili e femminili anche se gli autori, come studiato dalla professoressa Meskell della Stanford University, furono uomini. I temi trattati vanno dalla volontà di riuscire a cogliere lo sguardo della persona amata a quello di immaginarsi un futuro felice che potrà concretizzarsi dopo aver trascorso una prima notte assieme. Vi si trovano unità narrative ricorrenti quali la descrizione fisica dell'amata vista come semi divinizzata, la lamentala di un uomo che sosta sulla soglia della donna che gli nega l'accesso in casa, o il rimpianto, in questo caso femminile, per la fine dell'incontro amoroso a causa dell'irrompere dell'alba. Le strofe che danno voce a personaggi maschili esprimono la volontà di poter divenire dei servitori o addirittura degli oggetti per poter essere più vicini all'amata, mentre le figure femminili immaginano l'uomo desiderato come un messaggero regale, un cavallo o una gazzella che arriva correndo verso di loro. L'apparente naturalezza dei temi trattati ci fa pensare che questi versi siano l'espressione spontanea di sentimenti profondamente umani. La ricerca egittologica ha invece dimostrato che si tratta di componimenti frutto non di un'ispirazione popolare ma dell'abilità poetica degli scribi del tempo. Le liriche amorose ci fanno intravedere schemi ben definiti e dimostrano la volontà di riportare la passione causata dalla «perfezione» dell'amata all'interno di chiare convenzioni sociali e che ritroviamo già nel cosiddetto Insegnamento di Ptahotep, risalente all'Antico Regno: «Se sei una persona virtuosa, fonda il tuo focolare. Ama tua moglie con ardore, riempi il suo stomaco e vesti il suo dorso: l'unguento è un rimedio per il corpo» (traduzione di Edda Bresciani). Gli amanti, descritti in questi componimenti che dovevano essere cantati o recitati con accompagnamento musicale, vengono presentati, quindi, come una parte integrante del paesaggio sociale dell'élite, in cui anche gli afflati lirici che sembrano dettati da ardenti passioni spontanee sono tesi invece a descrivere ruoli predefiniti che si sviluppano all'interno di ambienti naturalistici in cui riconosciamo gli spaziosi giardini del Nuovo Regno, rappresentati in vividi colori nelle tombe e nei templi. 

STELLA FULGENTE, SPLENDE DI PERFEZIONE

LIRICHE AMOROSE EGIZI

L'unica, l'amata, la senza pari,

la più bella di tutte,

guardala, è come la stella fulgente

all'inizio di una bella annata.

Lei, che splende di perfezione,

che raggia di pelle,

lei, con gli occhi belli quando guardano,

con le labbra dolci quando parlano,

per le quali non c'è discorso superfluo;

lei, che lungo ha il collo, il petto luminoso,

con una chioma di vero lapislazzuli,

le cui braccia superano dell'oro,

le cui dita sono come bocci di loto;

lei, che ha pesanti le reni, strette le anche,

le cui gambe proclamano la bellezza,

il cui passo è pieno di nobiltà

quando posa i piedi sul suolo,

con il suo abbraccio mi prende il cuore.

Essa fa che il collo di tutti gli uomini

si giri per guardarla.

Ognuno ch'essa abbraccia è felice,

si sente il primo degli uomini.

·        Il Podcast.

Francesca D'Angelo per “Libero Quotidiano” il 28 febbraio 2021. Non vorremmo sembrare esagerati ma, di questo passo, rischiamo di avere più podcast che autobiografie celebri. Da quando infatti i vip hanno scoperto il fenomeno dei podcast, si sono scatenati: hanno mollato la penna, abbandonando qualsivoglia desiderio di raccontare quello che nemmeno ai parenti stretti osavano confidare (le autobiografie funzionano così), per mettersi invece a discettare sulla qualunque nell'etere web. Prima di addentrarci nel ginepraio delle proposte partorite, spieghiamo meglio il meccanismo per chi non mastica la materia: in principio i podcast erano i programmi radio on demand, scaricabili online sul proprio cellulare. Un modo, per capirci, per ascoltare quando vuoi e dove vuoi gli show radiofonici preferiti. Poi però con il tempo sono diventati anche molto altro: ora per podcast si intendono anche gli audiolibri, i radioromanzi ma soprattutto quelle clip audio a tema, incisi in serie (sono a episodi) da una persona "x", vip o non, che desidera sviscerare la materia. L'offerta spazia dai corsi di formazione alle interviste fino ai monologhi comici. Quindi, semplificando: i ragazzi (perché sono loro i principali utenti) vanno sulle piattaforme digitali come Spotify, Google Podcasts o Apple Podcast, guardano i temi affrontati dai vari podcast e ne scelgono uno. Se lo scaricano sul cellulare e poi se lo ascoltano, con gli auricolari, dove e quando vogliono. C'è chi sostiene che i podcast stanno sbancando perché stimolano la fantasia, ci riportano ai tempi dei cantastorie o delle favole della buona notte e chi invece, più prosaicamente, è convinto che il fenomeno sia legato alla pigrizia dei giovani. Piuttosto che sforzarsi di leggere qualcosa, preferirebbero ascoltare qualcuno che parla. In ogni caso, i podcast vanno fortissimo e non ce lo dice solo la società di ricerca Nielsen, secondo la quale nel 2020 almeno 14 milioni di italiani hanno ascoltato almeno una volta un podcast. A dircelo sono i suddetti vip: non farebbero mai qualcosa che non abbia seguito. E qui arriviamo al punto. Le proposte sfornate da cantanti, attori e giornalisti sono le più disparate. E, sì, ci sono pure i giornalisti. Dal 18 febbraio è disponibile L'avevo detto: il primo podcast di Enrico Mentana che, in 30', ripercorre le dichiarazioni rilasciate l'anno scorso da scienziati, virologi, politici e che poi sono state smentite dal Covid, pardon, dai fatti. E che dire dello slancio femminista di Francesca Michielin? La cantante discetterà di donne, parità e rivendicazioni nel podcast Maschiacci, disponibile dal 25 febbraio. Prima ospite Matilda De Angelis. Scommettono sul mondo audio anche i The Jackal che, quest'anno, hanno deciso di commentare Sanremo tramite podcast. Si chiamerà Tutto Sanremo ma dura meno, debutta mercoledì e già il titolo vale da solo il prezzo del biglietto. Ci sono poi anche sperimentazioni più articolate. Per esempio l'attrice Pilar Fogliati ha prestato la propria voce al primo progetto di lunga serialità audio: l'inedita fiction-podcast si chiama Sbagliate ed è prodotta da Sirene Records. In tutto questo c'è persino spazio per la spiritualità: don Alberto Ravagnani ha appena tenuto a battesimo il podcast DoncastOfficial, su Twitch. Lui non è un prete qualunque: è il sacerdote che ha detto no al Grande fratello e per questo grande rifiuto è diventato famoso. Lo segue persino Fedez e recentemente è stato ospite di Lui è peggio di me su Rai Tre. Insomma, c'è davvero di tutto.

·        L’UNESCO.

UNESCO. Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura

(EN) United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization

(IT) Organizzazione delle nazioni unite per la scienza, cultura e turismo

Abbreviazione: UNESCO

Tipo: agenzia specializzata dell'Organizzazione delle Nazioni Unite

Fondazione: 16 novembre 1945

Scopo: tutela del patrimonio culturale esistente, promozione dell'educazione, delle scienze e della cultura

Sede centrale: Parigi

Area di azione: 195 Paesi

Lingue ufficiali: Italiano, cinese, francese, inglese, russo, spagnolo

Motto: “Building peace in the minds of men and women”

Sito web, Sito web, Sito web, Sito web, Sito web e Sito web 

«Poiché le guerre hanno origine nella mente degli uomini, è nello spirito degli uomini che si debbono innalzare le difese della pace.» (Preambolo dell'Atto Costitutivo dell'UNESCO)

L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (in inglese United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, da cui l'acronimo UNESCO, pronuncia /u'nεsko/ o /u'nesko/) è un'agenzia specializzata delle Nazioni Unite creata con lo scopo di promuovere la pace e la comprensione tra le nazioni con l'istruzione, la scienza, la cultura, la comunicazione e l'informazione per promuovere "il rispetto universale per la giustizia, per lo stato di diritto e per i diritti umani e le libertà fondamentali" quali sono definite e affermate dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Fondata durante la Conferenza dei Ministri Alleati dell'Educazione (CAME), la sua Costituzione è stata firmata il 16 novembre 1945 ed entrata in vigore il 24 novembre 1946, dopo la ratifica da parte di venti Stati.

Storia

L'UNESCO venne messo a punto durante i lavori preparatori che si ebbero tra il 16 novembre 1945 e il 24 novembre 1946, nell'ambito della Conferenza dei Ministri Alleati dell'Educazione (CAME). Questo gruppo di Ministri dell'Educazione dei Paesi Alleati contro il Nazismo si riunì la prima volta a Londra nel 1942, in piena seconda guerra mondiale. Già a partire dal 1942 si manifestò tra i ministri europei, e per iniziativa della Gran Bretagna, l'esigenza della creazione di un organismo sovranazionale in grado di diffondere la cultura della pace, della democrazia e dell'uguaglianza degli uomini che si sarebbe dovuto occupare delle questioni intellettuali nel dopoguerra. Quasi immediatamente si sviluppò l'idea di costituire una organizzazione internazionale che avesse un impatto globale. Durante la Conferenza del 1943 venne redatto il testo dell'Atto Costitutivo dell'UNESCO, la Costituzione dell'UNESCO, che è stato firmato il 16 novembre 1945 ed è entrato in vigore il 4 novembre del 1946, dopo la ratifica da parte di venti Stati: Arabia Saudita, Australia, Brasile, Canada, Cecoslovacchia, Cina, Danimarca, Egitto, Francia, Grecia, India, Libano, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito, Repubblica Dominicana, Stati Uniti d'America, Sudafrica e Turchia. L'Italia è stata ammessa l'8 novembre 1947 all'unanimità durante la seconda sessione della Conferenza Generale che si svolse a Città del Messico. "Ammissione che fu perfezionata subito dopo, il 27 gennaio 1948, con il deposito a Londra dello strumento di ratifica dell'Atto costitutivo dell'Organizzazione da parte del nostro Governo. Questo riconoscimento ebbe il valore morale di un primo passo verso l'ammissione dell'Italia all'ONU, che stava purtroppo incontrando proprio in quel periodo notevoli difficoltà. In Italia, a ogni modo, una volta resa esecutiva con il Decreto presidenziale del 12 luglio 1949 la Convenzione di Londra sull'UNESCO, fu istituita la Commissione Nazionale per l'Educazione, la Scienza e la Cultura con il Decreto Interministeriale dell'11 febbraio 1950". Dopo la fine della seconda guerra mondiale molti Stati hanno deciso, per questioni collegate alla storia politica interna e alle vicende internazionali, di non partecipare più all'UNESCO ma sono poi tornate sui loro passi e attualmente l'Agenzia Specializzata delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e lo Sviluppo conta 195 Stati Membri e 11 Membri Associati.

Descrizione

Sono membri dell'UNESCO, dall'aprile 2016, 195 Paesi più 10 Membri Associati. Il quartier generale dell'UNESCO è a Parigi e opera programmi di scambio educativo, scientifico e culturale da Uffici Regionali che svolgono la propria attività su quasi la totalità del pianeta. I progetti sponsorizzati dall'UNESCO comprendono programmi scientifici internazionali; programmi di alfabetizzazione, tecnici e di formazione degli insegnanti; progetti regionali e di storia culturale; e cooperazioni internazionali per conservare il patrimonio culturale e naturale del pianeta e per preservare i diritti umani. Una delle missioni dell'UNESCO è quella di mantenere una lista di patrimoni dell'umanità: questi sono siti importanti culturalmente o dal punto di vista naturalistico, la cui conservazione e sicurezza è ritenuta importante per la comunità mondiale. Responsabile della fondazione dell'OANA, fornisce fondi al Consiglio Internazionale per la Scienza, è rappresentata da propri ambasciatori e promuove il Forum Universale delle Culture. Dal 2004 promuove anche il Network delle Città creative.

Sede centrale

La sede mondiale dell'UNESCO si trova a Parigi. All'interno di questo quartier generale trovano spazio per essere ospitati 186 Stati. La struttura venne realizzata dai tre designer Pier Luigi Nervi, Bernard Zehrfuss e Marcel Breuer, sotto la supervisione di un gruppo di cinque architetti di fama internazionale, chiamato Les Cinq, formato da Lucio Costa, Walter Gropius, Le Corbusier, Sven Markelius e Ernesto Nathan Rogers. Il complesso è formato da tre edifici principali, l'edificio a Y che ospita la segreteria generale dell'UNESCO, l'edificio a cura di Pier Luigi Nervi che contiene la sala conferenze, infine la sala del consiglio è nell'edificio ideato da Bernard Zehrfuss.

Controversie 

Bandiera dell'UNESCO

L'UNESCO è stata a volte al centro di controversie. Durante gli anni settanta e ottanta le nazioni occidentali, specialmente gli Stati Uniti e il Regno Unito, ritenevano che venisse usato dai Paesi comunisti e dal terzo mondo, come forum per attaccare l'occidente. L'UNESCO sviluppò un piano chiamato Nuovo Ordine Internazionale dell'Informazione, per fermare le presunte bugie e la disinformazione che veniva diffusa nelle nazioni in via di sviluppo. L'occidente lo respinse come un tentativo del terzo mondo e di alcuni regimi comunisti di distruggere la libertà di stampa; gli Stati Uniti si ritirarono dall'organizzazione in segno di protesta nel 1984 e il Regno Unito nel 1985 (il Regno Unito ha nuovamente aderito nel 1997 e gli USA nel 2003). Il 31 ottobre 2011 l'Assemblea generale dell'UNESCO ha accettato l'adesione della Palestina, con una votazione che ha visto 107 voti a favore, tra i quali quelli di Francia, Cina e India, e l'astensione di 52 altri Paesi, tra cui il Regno Unito. L'ammissione della Palestina ha creato un attrito politico con gli Stati Uniti e altri stati contrari, con un arresto dei finanziamenti a favore dell'organizzazione da parte di Stati Uniti e Israele. Il 12 ottobre 2017 gli Stati Uniti dichiarano la loro uscita dall'UNESCO. Il Dipartimento di Stato motiva la decisione sostenendo che negli ultimi anni la posizione dell'UNESCO ha assunto "persistenti pregiudizi anti-Israele". Il 31 dicembre 2018, gli Stati Uniti e Israele si sono ufficialmente ritirati dall’UNESCO. Nel febbraio 2012 l'UNESCO ha organizzato una conferenza su WikiLeaks non ammettendo ai lavori l'organizzazione di Julian Assange.

Tg2 Dossier: Italia, un patrimonio per l'Unesco. Il nostro paese quello che al mondo detiene il maggior numero di siti riconosciuti. rai.it/ufficiostampa il 4 dicembre 2021. Scoprire quanti luoghi in Italia siano considerati un tesoro da preservare per l’intera umanità. Si parlerà di questo a Tg2 Dossier nella puntata del 4 dicembre alle 23.20 su Rai2: “Italia, un patrimonio per l’Unesco” di Laura Gialli. 75 anni fa nasceva l’Unesco con l’obiettivo di favorire la pace fra gli Stati attraverso la cooperazione nel campo scientifico e culturale. Da qui successivamente la sfida di salvaguardare i siti ritenuti eccezionali per valore o bellezza culturale o naturale. Nel 1972 con la Convenzione di Venezia l’istituzione del Patrimonio Mondiale dell’Umanità, con una lista di siti che da allora viene continuamente aggiornata. Attualmente l’Unesco riconosce 1154 siti. E l’Italia è in cima a questa classifica delle meraviglie, il paese al mondo che ne detiene il maggior numero. Una lunga lista che va dalla Valle Camonica e la sua arte rupestre, primo riconoscimento nel 1979, fino ai portici di Bologna pochi mesi fa. X. La puntata sarà riproposta domenica 5 dicembre alle 10.05 circa sempre su Rai2. Da Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli a Villa di Oplontis a Torre Annunziata; dalle ville e giardini Medicei alle residenze sabaude. Rai Cultura propone un viaggio tra le residenze extraurbane del potere, dall’età romana fino al XIX secolo, patrimonio dell’umanità, nel documentario in onda lunedì 27 settembre alle 22.10 su Rai Storia per la serie "I Siti Italiani del patrimonio mondiale Unesco". Tra i siti Unesco italiani è rappresentata una straordinaria serie di resti archeologici, complessi monumentali ed edifici storici fatti costruire in ogni epoca dalle élites al potere: imperatori romani, prìncipi rinascimentali, sovrani settecenteschi. Sono le abitazioni costruite fuori dai centri urbani e dedicate ai cosiddetti “ozii”, alle arti, alla letteratura, al relax. Edifici che, proprio perché ispirati da una maggiore libertà creatrice dei committenti, hanno spesso raggiunto forme architettoniche e artistiche più alte e innovative, vere e proprie espressioni di un’epoca.

·        I Monuments Men.

R.Fr. per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 6 giugno 2021. Nelle anfore di età imperiale c'erano dei fiori. Le statuette di epoca romana erano sparse in giardino, a terra, insieme con frammenti di altre sculture antiche, un capitello, qualche pezzo di bassorilievo. Tutto abbandonato nel giardino di una villa a Monteverde di proprietà di una ex funzionaria diplomatica francese, oggi 76enne, che è in attesa di traslocare. E che prima di lasciare la sua abitazione aveva deciso di regalare quei reperti pensando che non valessero nulla, mettendo annunci sul sito «Marketplace». Invece erano pezzi unici, molto preziosi, come hanno scoperto casualmente due archeologi del Parco dell'Appia Antica, impegnati nel restauro di alcune parti dell'acquedotto romano, che andando a pranzo in un bar pizzeria di via Frascati, hanno riconosciuto le anfore che due ristoratori titolari del locale scaricavano da un furgone. «Cercavamo qualche oggetto per arredare gli esterni del bar e li abbiamo trovati on line», hanno riferito ai poliziotti del commissariato Appio, diretti da Pamela De Giorgi, subito intervenuti dopo la chiamata al 113 dei due archeologi. I tre, che in qualche modo hanno dimostrato la loro buona fede, sono stati comunque denunciati per ricettazione e violazione delle leggi che proteggono i beni archeologici. L'ex funzionaria, con un passato nel jet set romano degli anni Settanta-Ottanta, ha raccontato di averli avuti in regalo proprio all'epoca da un nobile romano del quale era ospite al suo arrivo nella Capitale, con il quale poi si era separata per vicende legate anche a epidosi di cronaca nera. Pensando non valessero nulla, li aveva messi in giardino come arredamento, e adesso se ne voleva solo sbarazzare, anche in modo non clandestino e gratuito. E gli altri due, di 25 e 64 anni, sono andati solo a prenderli per portarli nei loro locali con vista sull'acquedotto. Ma qualcosa nel comportamento in commissariato del più anziano, con qualche precedente penale, non ha convinto i poliziotti, che lo hanno accusato anche di resistenza e minacce a pubblico ufficiale: ha insultato gli archeologi e anche gli agenti. Fra i reperti sequestrati ci sono un'anfora «africana grande» con bollo rettangolare sull'orlo e un'ansa è ricomposta, di epoca imperiale, come anche un'altra anfora simile, una scultura in marmo verde di un mostro mari no, con onde e scogli, alcune tracce di lavorazione in epoca successiva, altri frammenti antichi, una statuetta marmorea raffigurante una lotta fra un centauro e un putino, un'altra di Poseidone e ancora reperti da identificare. Nel corso della stessa operazione è stato arrestato un 30enne, cliente del bar, sorpreso con un amico a fumare marijuana davanti agli agenti impegnati nella perquisizione: a casa aveva un etto e mezzo di marijuana.

Grazia Longo per “la Stampa” il 5 giugno 2021. Non solo i caschi blu delle missioni di pace Onu, ma anche quelli dei carabinieri impegnati nella tutela dell'arte nei teatri di guerra o dove sono presenti calamità naturali. I caschi blu della cultura nascono dalla collaborazione tra l'Arma, i funzionari del ministero guidato da Dario Franceschini e l'Unesco, e rappresentano la prima e unica organizzazione al mondo per la difesa del patrimonio culturale. Una task force concepita per intervenire in aree colpite da emergenze, in una cornice di sicurezza. L' obiettivo è quello di salvaguardare i siti archeologici e i luoghi della cultura, ma anche di contrastare il traffico internazionale di reperti illecitamente sottratti. Attualmente sono in corso attività in Iraq e in Croazia, mentre in Italia l'attenzione è concentrata nelle zone terremotate di Abruzzo, Marche e Umbria, dove sono stati messi in sicurezza 30 mila beni culturali. La quota carabinieri di questi particolari caschi blu appartiene al Comando Tutela patrimonio culturale (Tpc), che costituisce uno dei fiori all' occhiello dell'Arma, di cui oggi si celebra il 207° anniversario della fondazione. L' attività del Tpc si muove ad ampio raggio a livello internazionale. Tra gli impegni a breve termine il recupero, a San Francisco, di un busto romano, risultato trafugato, acquistato dall' influencer Kim Kardashian, e il rientro dal museo Getty di Los Angeles dell'Atleta di Fano, un bronzo ellenistico attribuito a Lisippo, anch' esso risultato rubato in Italia, del valore di 4 milioni di euro. Sono soltanto due degli 8 milioni di opere d' arte di cui è composta la banca dati del Comando Tpc e di cui 1 milione e 300 mila sono ancora da ricercare. Otto milioni di file rappresentano un record, se si pensa che la banca dati dell'Interpol comprende 52 mila opere. Non a caso anche l'Interpol si appoggia ai carabinieri. «È inevitabile che la richiesta di aiuto per recuperare opere rubate ci giunga da molti Paesi stranieri - precisa il generale Roberto Riccardi a capo del Comando del Tpc -. A partire proprio dall' Iraq, ricco di reperti archeologici nell' area della vecchia Mesopotamia». Un caso molto più vicino è quello della nuova porta del Bataclan, il locale di Parigi attaccato nel novembre del 2015 dai terroristi dell'Isis, disegnata dall' artista inglese Banksy. Venne rubata un anno fa e sono stati proprio i carabinieri a ritrovarla a Tortoreto, in Abruzzo. «Il nostro impegno è comunque concentrato sul patrimonio culturale italiano - prosegue il generale Riccardi -: sia in termini ideali sia economici, è il primo al mondo ed è stimato in 986 miliardi di euro». Per l'ampliamento della banca dati il Tpc ha appena ottenuto un finanziamento dall' Unione Europea di 5 milioni di euro per la creazione di un software ancora più sofisticato, in grado di individuare reperti rubati non solo online, ma anche nel dark web e sui social media.

Pierluigi Panza per il Corriere della Sera il 28 aprile 2021. La storia dei Monuments men è nota al grande pubblico dal 2014 grazie al film diretto e interpretato da George Clooney. Ricostruendo le biografie dei componenti britannici e americani della sottocommissione «Monuments, Fine Arts and Archives» che operarono nella Penisola, Alberto Meomartini e Andrea Villa hanno raccolto in un libro (Identity Men. Gli uomini e donne che hanno difeso il patrimonio culturale italiano 1943-1951 Skira, pp.285 euro 18) alcuni episodi che mettono in luce anche l'impegno di protagonisti italiani. Le conseguenze della risalita in Italia degli Alleati furono gravi per il Patrimonio: si va dal semplice bivacco dentro il Tempio di Paestum al bombardamento di Montecassino, a quello di Milano dal quale scampò il Cenacolo ma non la Scala (della quale Meomartini è consigliere). I nomi dei salvatori vanno da quello di Rodolfo Siviero a Emilio Lavagnino, Palma Bucarelli... ma se l'archeologo Leonard Woolley fu lo 007 dei Monuments men inglesi (anche Agatha Christie si ispirò a lui), il James Bond italiano fu Gian Alberto Dell' Acqua che negli anni dal '39 alla Liberazione mise a repentaglio la sua vita per mettere in salvo i capolavori di Brera, dove lavorava con Fernanda Wittgens. Nella primavera del '44 corse voce che si stava preparando un bombardamento su Bergamo. Dell' Acqua si precipitò per rimuovere i capolavori di Lorenzo Lotto, in particolare l'enorme tavola nella chiesa di San Bartolomeo. Il dipinto fu caricato di traverso su un camion sgangherato messo a disposizione dall' azienda tranviaria di Milano. Durante il trasferimento l'autocarro perdette una ruota e si inclinò paurosamente, quasi scivolando nel Lago Maggiore. Dell' Acqua ebbe un'idea per sistemare l'ingombrante «Pala Martinengo»: nasconderla all' interno della statua del San Carlone di Arona alta oltre 30 metri. Il 25 settembre 1939 due automobili Lancia salirono i tornanti che conducevano al santuario di Montevergine a 1.270 metri sulla cima del Monte Partenio. A bordo monsignor Paolo Brusa e monsignor Giuseppe Gariglio, cappellani di Vittorio Emanuele III che portavano in salvo, chiusa in una cassa di legno ben foderata, cinta con uno spago, la Sacra Sindone. Per la prima volta il lenzuolo usciva dalla cappella del Guarino Guarini dove era finita dopo l’acquisto da parte dei Savoia in Francia. La reliquia aveva «dormito» una notte nella cappella dell'Annunziata del palazzo del Quirinale prima dell'ultimo strappo verso l'Irpinia. Il nascondiglio fu comunicato a Pio XII ma non al duce. La Sindone rimase a Montevergine sino al settembre del 1943 quando l'area diventò l'immediata retrovia del fronte a seguito dello sbarco a Salerno. L' Unesco ha stimato che a causa dei bombardamenti tra la fine del 1942 e la primavera del 1945 siano andate distrutte nella Penisola una ventina di biblioteche pubbliche, con perdita di tre milioni di volumi stampati e 40 mila manoscritti. Su iniziativa dello storico Adolfo Omodeo si istituì una commissione per il recupero di documenti. Emerse che presso la Scuola apostolica dei padri Passionisti di Calvi Risorta si trovavano centinaia di casse provenienti dalla Biblioteca Nazionale di Napoli: furono riportate a Napoli dal generale Clark. Altri libri furono ritrovati da Diane Keller nel convento di San Francesco a Minturno, vicino a Gaeta. I Monuments men più anonimi furono, però, i cittadini. Nel bombardamento di Padova dell'11 marzo 1944 furono danneggiati il santuario di Sant' Antonio e la chiesa degli Eremitani e la Cappella Ovetari di Mantegna. L' indomani centinaia di cittadini si misero a raccogliere i frammenti degli affreschi in previsione di un futuro restauro, concluso nel 2006.

·        L’Archeologia in bancarotta.

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 3 dicembre 2021. Tutti d'accordo, quando si parla di beni culturali, nel ritenere l'Italia detentrice di una percentuale elevatissima rispetto agli altri Paesi del mondo. Le nostre città d'arte sono musei a cielo aperto, stratificate testimonianze nei secoli sempre foriere di scoperte e sorprese. Un altro dato suona però incredibile: ciò che vediamo potrebbe rappresentare la cosiddetta "punta dell'iceberg" rispetto ai patrimoni sommersi che per motivi diversi giacciono nei depositi e per ragioni altrettanto diverse non sono visibili se non in condizioni del tutto particolari. A fine mese esce per Utet un volume prezioso e, se gli autori mi passano il termine senza pensarlo in termini diminutivi, divertente; si intitola Il tesoro invisibile. Viaggio nell'arte custodita nei depositi dei musei italiani (22 euro). Lo hanno scritto Daniela Bianco, architetto, e Filippo Cosmelli, storico dell'arte, fondatori di IF Experience che si dedica al cosiddetto "lusso esperienziale". Non si tratta peraltro del tipico saggio sulla situazione precaria in cui versa il sistema museale italiano, con lamentazioni annesse, ma di un petit tour nel Bel Paese che vorrebbe somigliare a una wunderkammer di stranezze, curiosità, pezzi rari ed eccentrici. La prosa è scorrevole e postmoderna, mescola l'erudizione dello specialista alle canzoni di Francesco Guccini, la filologia a James Bond, il gossip alla letteratura. E, per una volta, nessuna tirata sull'inadeguatezza della politica culturale. Poiché la funzione specifica del museo è conservare, a maggior ragione ciò vale per i segreti e i misteri, cominciando dai Musei Vaticani che restano i più visitati sul nostro territorio anche nell'era pandemica. Quasi tutti ci vanno per la Cappella Sistina ignorando di camminare sopra un bunker, 85 chilometri di scaffalature che compongono l'Archivio Apostolico istituto da papa Paolo V Borghese nel 1612, inaccessibile fino al 2019 quando papa Francesco decise di desecretare il materiale ante 1958 per far luce sulla posizione assunta dalla Chiesa durante i regimi e nella Seconda Guerra Mondiale. Nei depositi del Parco Archeologico di Pompei sono custoditi oltre 80mila reperti e tra i più interessanti quelli dei Granai del Foro, gli instrumenta domestica, oggetti e manufatti che raccontano storie umane della civiltà distrutta dall'eruzione del 79 dC. Impressiona da un lato la quantità, dall'altro la qualità. Nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia, che per inciso offre ai visitatori capolavori come la Tempesta del Giorgione, si trova una delle chiavi di volta della cultura rinascimentale e non solo, il disegno dell'Uomo vitruviano che Leonardo realizzò intorno al 1490: ragioni di tutela impongono di conservare questo esemplare eccezionale, esposto solo in rare occasioni, in un ambiente protetto dalla luce, con un costante controllo dei valori microclimatici. Più di una volta scoperte del tutto impreviste hanno riportato alla luce testimonianze straordinarie, basti pensare all'espressione sbalordita sul volto di chi ha trovato nel 1998, durante il riordino del Museo Pigorini all'Eur, una camicia in finissimo lino bianco, decorata con caratteri arabi tracciati in inchiostro rosso, dorato e nero. Gli esperti del British Museum, incaricati di studiare l'indumento, lo hanno giudicato tra i più rari esempi di manufatto dell'impero Ottomano, forse proveniente dal Sudan, dal potere talismanico e magico che, anche per questo, non potrà mai essere esposto in permanenza, troppo fragile e troppo unico. Ciò che si trova è sempre frutto di ricerche lunghe e complesse, talora costellate di piccole pepite. Da Roma risaliamo a Milano ed entriamo nell'Archivio Storico Diocesano che raccoglie 55mila documenti, un'attività capillare iniziata dal vescovo Carlo Borromeo dopo il Concilio di Trento. Altro che digitalizzazione, tutto è originale e cartaceo, a cominciare dai due certificati di battesimo datati 1571 e relativi a un bambinello milanese che diventerà famoso con il soprannome di Caravaggio. Oggi una superstar della pittura, deve la propria fortuna critica alla mostra di Palazzo Reale nel 1951 voluta da Roberto Longhi, che lo tolse dall'isolamento studiandone le relazioni con l'ambiente barocco. L'atto dimostra che Caravaggio non era nato nell'omonimo borgo accanto a Bergamo nel 1573, ma due anni prima proprio vicino alla chiesa di Santo Stefano in Bardo a Milano. Curiosità, i suoi genitori si chiamavano Fermo e Lucia, Manzoni potrebbe non avere scelto a caso i nomi dei Promessi sposi. Nel libro, che scorre via e ti fa venir voglia di visitare questi luoghi con altri occhi, c'è tanta Roma, Venezia e un po' di sud, il Museo Archeologico di Taranto che, a testimonianza della potenza della città ionica tra IV e I secolo aC, raccoglie meravigliosi ori di incommensurabile valore, talmente belli da essere stati sepolti con la proprietaria medesima. 

Laura Larcan per “il Messaggero” il 12 dicembre 2021. A volte le opere d'arte ritornano (anche) a casa. Nei luoghi d'origine o d'adozione. Madonne e paesaggi romantici, teste di leone in bronzo e gladiatori marmorei. Una sorta di viaggio ideale, come un libro Cuore, dagli Appennini alle Ande. Gioielli fantasma che escono dai depositi, da lustri e secoli di nobile silenzio, per resuscitare alla luce delle sale di piccoli grandi musei statali disseminati sul territorio. In principio fu il Cratere di Eufronio, il gioiello millenario restituito dopo decenni e decenni alla sua dimora etrusca di Cerveteri. Ora è la volta di cento opere d'arte, tra tele e reperti archeologici, statue e pale d'altare, praticamente sconosciute al grande pubblico, protagoniste del nuovo progetto lanciato dal Ministero della Cultura, voluto fortemente dal ministro Dario Franceschini per promuovere e valorizzare il patrimonio storico, artistico e archeologico italiano conservato nei depositi dei grandi musei statali. Ma soprattutto per rivitalizzare i luoghi culturali sul territorio, piccoli mondi antichi che riconquistano brani di identità artistica. Cento opere pronte a partire con un'agenda già definita di trasferimenti e arrivi. Per un viaggio che sarà al centro di documentari di Rai Doc (diretto da Duilio Gianmaria). E per soggiorni che, come annuncia Franceschini, dureranno almeno dieci anni. Con un costo dell'operazione di un milione di euro iniziale: «Non solo per movimentare le opere dai depositi ma anche per restaurarle», precisa il ministro. Qualche esempio? Da Palazzo Barberini a Roma sono partiti ieri pomeriggio due paesaggi giovanili dipinti su tela da Salvator Rosa datati al 1635 destinati alle sale del Museo nazionale di Matera che può così arricchire la sezione dedicata al genere del paesaggio. «Si vede già l'anima romantica di questo fine artista del Seicento, dove compaiono figure misteriose e si percepisce una visione personale della natura - racconta la direttrice Flaminia Gennari Santori - Sono state acquistate nel 1907 sul mercato antiquario dall'allora direttore Federico Hermanin molto interessato alla pittura di paesaggio». Altro protagonista è il Museo Nazionale Romano. È il direttore Stèphan Verger a raccontare il repertorio delle partenze: «La Testata di leone in bronzo, l'originale arredo delle navi di Caligola datate al 37 e 41 d.C. che il 17 dicembre arriveranno al Museo delle Navi Romane di Nemi». A curare l'operazione, i vertici della Direzione generale Musei, con Massimo Osanna e Caterina Bon Valsassina. È lei ad illustrare alcune perle.  Il nucleo di tele dai depositi di Brera che voleranno alla Galleria nazionale di Urbino, come la Madonna con il Bambino in gloria e l'Ecce Homo di Federico Barocci, la Madonna con il Bambino del Pomarancio, la Madonna con il Bambino in gloria di Simone Canterini detto il Pesarese. E sempre da Brera, la tela di Giovanni Baglione, dal titolo Immacolata concezione tra i santi Pietro e Paolo, il 14 dicembre, andrà a Palazzo Altieri a Oriolo Romano (nel viterbese. Così come la Crocifissione con la Vergine del Garofalo (1522), o il San Bruno in preghiera di Carlo Bonomi confluiranno alla Pinacoteca di Ferrara, dove era stato concepito intorno al XVII secolo. Anche la Galleria Borghese svela due dipinti del Garofalo per Ferrara. E dai depositi di Palazzo Pitti a Firenze (gli Uffizi) esce il Ritratto di Carlo V di Tiziano diretto in Lombardia, a Palazzo Besta a Teglio. Preziosa, l'Allegoria di Trieste e dell'Istria di Annibale Strata del 1861, che dai depositi dei Musei Reali di Torino tornerà al Castello di Miramare a Trieste.  E il gruppo scultoreo del Gladiatore che uccide un leone che decorava la peschiera di Villa Giustiniani e il torso restituito dal Getty Museum nel 1999, dal Parco Archeologico di Ostia Antica, torneranno a impreziosire la Villa di Vincenzo Giustiniani a Bassano Romano (sempre nel viterbese). E La Cista Prenestina dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli tornerà al Museo Archeologico di Palestrina. Il tesoretto di cento opere è solo un inizio. Il primo nucleo di una banca dati composta da 3.652 opere dai depositi di oltre 90 musei statali che possono essere movimentate. È Franceschini a dare la misura di un patrimonio invisibile. «A fronte di circa 480 mila opere esposte nei musei italiani, ce ne sono oltre 4,5 milioni che sono custodite nei depositi, senza contare le circa 187 mila cassette di materiale archeologico». Insomma, l'obiettivo è continuare per gradi. Intanto il calendario delle partenze è fitto. Si procede fino al 24 gennaio per poi registrare le ultime consegne nei primi giorni di febbraio. Al momento resta fuori dalla rosa dei trasferimenti, il famoso e chiacchierato San Francesco in meditazione del Caravaggio, in consegna a Palazzo Barberini, ma proveniente da Carpineto Romano.

Andrea Velardi per “il Messaggero” il 12 dicembre 2021. Circa due anni fa un giovane storico d'arte il marchese Bertrand De Royère, trasferitosi da anni a Roma, si imbatte in alcuni argenti francesi negli armadi della Vasella del Quirinale. Grazie alla sua conoscenza delle incisioni ottocentesche fa riemergere un intero servizio di Casa Savoia andato perduto che verrà presentato prossimamente al Palazzo Reale di Torino. Filippo Cosmelli e Daniela Bianco hanno davvero colto uno degli aspetti sorprendenti dell'incalcolabile patrimonio artistico nazionale. Il tesoro invisibile. Viaggio nell'arte custodita nei depositi dei musei italiani mostra come dagli antri dei depositi e dei faldoni accatastati negli archivi riemergano di continuo sorprese sbalorditive. Nel 1980, durante il riordino delle collezioni africane del Museo Preistorico Luigi Pigorini all'Eur, oggi parte del Museo delle Civiltà, uno dei curatori individua un misterioso manufatto di cui si era persa ogni memoria: una camicia talismanica di lino bianco con preghiere guerresche e capitoli del Corano in arabo incastonati in essenziali ed eleganti comparti geometrici. La cultura ottomana credeva avesse il potere di rendere invincibile in battaglia, di proteggere dal malocchio, di donare fertilità e numerosa discendenza. La camicia aveva viaggiato dal Sudan fino al fatidico museo di piazza del Collegio Romano in cui nel 1651 il gesuita Atanasius Kircher aveva costruito il suo Gabinetto delle Meraviglie, andato poi smembrato e disperso nell'800. Il tesoro invisibile è un viaggio per Roma e le città d'arte italiane dove realtà e fantasia, patrimonio nascosto e irrimediabilmente perduto si intrecciano in un romanzo storico dove l'immaginazione dell'artista e quella del lettore si incontrano e camminano insieme. Spostandoci alla fontana di Trevi presso l'Istituto della Calcografia ritroveremo il progetto di Piranesi sul Caffè degli Inglesi, aperto all'inizio del 700 vicino Piazza di Spagna, le cui decorazioni sono state smantellate nel secolo successivo facendoci perdere le sale in cui Byron, Keats e Shelley hanno discusso sorseggiando la bevanda il cui consumo si era diffuso in Europa nel XVIII secolo come un vezzo alla moda e un rito di moderna socialità. Integra ma non accessibile è invece nei Musei Vaticani la lettera con cui i Lord di Enrico VIII chiesero al Papa di annullare il matrimonio con Caterina d'Aragona. E pochi sanno che nel gabinetto dei disegni delle Gallerie dell'Accademia di Venezia è custodito l'Uomo Vitruviano con cui Leonardo da Vinci ha compiuto una sintesi perfetta del Rinascimento come epoca di una nuova visione del mondo fondata sulle proporzioni. Il viaggio di Filippo Cosmelli e Daniela Bianco non si disperde tra migliaia di tesori, procede per epifanie e intensità e al suo termine la nostramappa delle città d''arte è completamente trasfigurata. 

La bellezza celata. Le meraviglie dei depositi di Pompei che il visitatore non vede. Filippo Cosmelli sdu L’Inkiesta il 7 Dicembre 2021. I musei italiani custodiscono più capolavori di quanti vengano esibiti. Per scoprirli Filippo Cosmelli e Daniela Bianco hanno raccolto alcuni esempi in un libro (pubblicato da Utet) pensato per essere anche un Gran Tour del Paese, dalle rarità archeologiche agli archivi abbandonati, passando per le soffitte di antichi palazzi nobiliari. Ma una grande riscoperta significa anche assumersi il compito di conservare e tutelare la bellezza, e mentre i visitatori possono ancora, come nel XVIII secolo, immergersi in una eleganza e ricchezza stupefacenti, parte di questa meraviglia continua a vivere nei depositi chiusi al pubblico, dove sono custoditi circa 80.000 reperti provenienti dagli scavi della città e del suo territorio. Vista la necessità di adattarsi agli spazi disponibili in un sito sorto gradualmente, tali depositi sono diffusi in luoghi adibiti lungo il percorso, anche se ignorati dalla maggior parte dei visitatori. Uno dei principali depositi, per esempio, è quello dei cosiddetti Granai del Foro, scavati tra il 1806 e il 1823, affacciati sul lato orientale del Foro civile. Contiene l’immensa mole di materiale fittile e di instrumenta domestica proveniente da case, botteghe e officine: gli utensili di uso quotidiano adoperati da persone come noi, la cui vita e le cui attività, come vedremo, sono state spazzate via in poche ore. Ma c’è un deposito che conserva, invece, oggetti straordinari, che già ai tempi in cui Pompei era una città viva e fiorente solo in pochi potevano permettersi. Questi oggetti raccontano una storia umana lunga, dolorosa, appassionante, incredibile. In precedenza erano in cassaforte al Museo archeologico di Napoli, ma ora sono qui, raccolti e custoditi in una cassaforte nei depositi della Casa di Bacco, un ambiente riscoperto all’inizio del xix secolo, bombardato nel 1943, e ora scrigno di tesori. Sapendo quali beni preziosi protegge, sentire il rumore della chiave che apre la porta di questo ambiente e vederla dischiudersi lentamente procura una grande emozione, mista al turbamento di trovarsi in un luogo dove si è svolta una storia tanto drammatica. All’interno, una cassaforte di metallo grigio contiene, ripartito in astucci foderati, un tesoro giunto fino a noi attraverso morte, fuoco, distruzione, e quasi duemila anni di oblio. Uno scintillare di gioielli di epoca imperiale, monete d’oro e d’argento, unguentaria in vetro che preservano fondi oleosi di rare essenze profumate provenienti da paesi lontani. Anelli d’oro a fascetto con castone ovoidale liscio o inciso, arricchiti di smeraldi, perle, crisopazi, corniole, sardonici, paste vitree e granati. Bracciali e armillae che ornavano polsi, braccia e caviglie femminili: lisci o sbalzati, talvolta dotati di un unico, sobrio ed elegantissimo punto luce costituito da uno smeraldo; a forma di serpente, a una o più spire, con la testa squamata e gli occhi in pasta vitrea o corniola. Un bracciale d’oro ispirato allo stile dei popoli gallo-celtici, costituito da una serie di dischi concavi a forma di piccoli scudi finemente decorati a rilievo e uniti da un doppio giro di catenella. Collane corte a girocollo (monilia) oppure lunghe, lunghissime, da far girare più volte intorno al collo, al seno e ai fianchi (catellae) fissandole con fermagli scorrevoli. Pendenti di gusto siriano e greco a forma di ruota o di luna crescente (lunula), con piccolissimi globi alle estremità. Orecchini d’oro a spicchio di sfera: completamente lisci come nella tradizione etrusca, o ricoperti di una fitta puntinatura a sbalzo. Orecchini con grappoli di piccole gemme, tenute da fitti castoni o da un canestro di fili d’oro. Oppure pendenti di perle, singole, doppie o triple (crotalia), che stando ai racconti di Seneca e di Petronio e ai ritratti delle donne di Al-Fayyum erano i più amati dalle matrone romane. O semplici cerchietti d’oro, impreziositi da una gemma. È ciò che resta degli agi e dei piaceri di Oplontis, odierna Torre Annunziata, ma all’epoca lussuosa località per gli otia della buona società poco fuori dal grande centro urbano di Pompei. Nonché, dal 1997, patrimonio dell’unesco per il suo straordinario valore. Una comunità opulenta (e forse è proprio questa l’origine del suo nome), elegante e sofisticata, così ottimista e abituata al proprio benessere da ignorare le avvisaglie della tragedia che l’avrebbe seppellita sotto un’infernale pioggia di fuoco lasciando soltanto, come cantò secoli dopo Giacomo Leopardi, «campi cosparsi di ceneri infeconde, e ricoperti dell’impietrata lava». da “Il tesoro invisibile. Viaggio nell’arte custodita nei depositi dei musei italiani”, di Filippo Cosmelli e Daniela Bianco, Utet editore, 2021, pagine 208, euro 22

Paradosso Italia: è record di siti dell’Unesco ma gli archeologi non possono lavorare. Marco Grieco su L'Espresso il 4 novembre 2021. Nelle soprintendenze manca il personale. La carriera universitaria è un miraggio. E a Roma il Pnrr prevede di assumere solo cinque esperti. Come in tutti gli organismi complessi, in Italia l’archeologia ha un Dna suscettibile. Nel Paese che racchiude il maggior numero di siti Unesco, 58 su un totale globale di 1.154 siti distribuiti in 167 Paesi, la professione più affascinante per eccellenza vive ancora di contraddizioni, attanagliata da una retorica romantica figlia del Grand Tour settecentesco e un futuro che ritrae bene la facciata site specific realizzata dall’artista JR su Palazzo Strozzi: un dialogo con il mondo esterno talmente urgente da prendere la forma di una ferita. Stando agli ultimi dati Istat, almeno un Comune italiano su tre ospita un museo nel suo territorio: è il cosiddetto “patrimonio diffuso”, che conta in media 1,6 strutture museali ogni cento abitanti. Queste cifre appaiono, però, meno confortanti se si guarda ai numeri del ministero della Cultura. Solo quest’anno, il Consiglio Superiore dei beni culturali ha denunciato un aumento di carenza del personale nelle soprintendenze del 10 per cento rispetto a cinque anni fa, con una progressione nelle posizioni apicali: la carenza dei dirigenti raggiunge punte del 60 per cento, fino al 75 per cento nel settore degli archivi, luogo indispensabile per la ricerca: «L’archivio è il luogo di connessione tra pubblico e privato. Se io ho bisogno di consultarlo e lo trovo chiuso, questo impatta sul mio lavoro da libero professionista», afferma Alessandro Garrisi, presidente dell’Associazione nazionale archeologi (Ana). Gli fa eco Italo Muntoni, presidente degli Archeologi del pubblico impiego, che rappresenta chi lavora dall’altra parte della barricata: «Oggi tutta la responsabilità operativa ricade sulle spalle dei funzionari perché mancano quelle figure tecniche che sono state per anni l’ossatura operativa del ministero. E così, se dei professionisti hanno la necessità di accedere ai magazzini, devo andarci io di persona perché non ci sono gli addetti ai servizi di vigilanza», dice. La stessa criticità emerge nei sopralluoghi ai cantieri pubblici o privati, dove la figura dell’archeologo è prevista per legge. In Liguria, per esempio, l’istituzione della Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Imperia e Savona (che ha sede ancora a Genova) voluta dal ministro della Cultura, Dario Franceschini, non ha risolto le difficoltà operative dei funzionari, troppo pochi e con altrettanto poche risorse in una regione difficile da coprire senza finanziamenti a causa della sua conformazione territoriale: «Per un sopralluogo a Ventimiglia, un soprintendente deve fare oltre cento chilometri con una sola auto, spesso neppure a sua disposizione. Come può un funzionario stare sul territorio e fare sopralluoghi ai cantieri in queste condizioni?», denuncia Garrisi. A monte, manca una fiducia politica. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza mostra esiti ambivalenti. A casi come quello di Roma, dove alla vigilia del Giubileo e dell’Expo il governo prevede di stanziare 500 milioni di euro per la «valorizzazione del patrimonio archeologico, culturale e turistico», fanno da contraltare episodi di miopia strategica. Per comporre la Soprintendenza Speciale prevista nel Pnrr, per esempio, il bando lanciato prevede solo cinque archeologi laureati in Beni culturali o con indirizzo archeologico a dispetto di trenta figure di professionisti quali architetti, ingegneri o avvocati: «Il Pnrr impone all’Italia di procedere con un passo veloce, ma il ministero non ha quel ritmo per correre alla stessa velocità», spiega Muntoni che, come portavoce dei funzionari ministeriali che operano nelle soprintendenze e nei musei, da mesi punta il dito sui rischi alla tutela del patrimonio culturale e del paesaggio paventati da alcuni progetti di transizione ecologica. La figura dell’archeologo viene, per giunta, additata come l’ostacolo a un fantomatico progresso, come emerso dallo scambio di battute tra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il ministro della Cultura, Dario Franceschini, in un fuori onda al recente G20 della Cultura: «Se uno ascolta troppo gli esperti non fa niente», ha detto il premier. È questa la realtà che si ritrovano gli aspiranti archeologi se non scelgono, altrimenti, di respirare l’aria stantia dell’università. In Italia, la carriera accademica è un percorso riservato solo al tre per cento degli studenti di archeologia. Lo sa bene Andrea Crisci, 27 anni, specializzando in Archeologia bizantina all’Università di Perugia, che guarda al suo futuro lavoro come a un Giano bifronte: «Vorrei lavorare come professore all’università, ma anche ricavarmi la possibilità in ambito pubblico, all’interno della soprintendenza». Basta, però, lo spazio di poche parole perché le sue aspirazioni lascino spazio al disincanto: «In questi anni ho toccato con mano la difficoltà da parte della mia università di reperire fondi per gli scavi. Questa penuria, unita alla mancanza di tutele, mi fa sperare poco per il futuro», ammette. Il pessimismo di Andrea, comune a tanti, troppi studenti e specializzandi, è smorzato solo dalla passione. Come quella di Linda Di Falco, pronta a specializzarsi in archeologia classica: «L’Italia non è un Paese per archeologi, sia per il tasso di disoccupazione della mia categoria che per la poca importanza che si dà alle potenzialità del nostro territorio. Eppure, penso che la soluzione sia far cooperare le specializzazioni, perché solo così si può spingere lo Stato ad investire di più nella ricerca e a creare nuovi posti di lavoro». Spesso nelle università l’archeologia è percepita come una tradizione che si perpetua da una cattedra all’altra. Ma i pensionamenti e la scarsità di posizioni accademiche hanno reso gli atenei anacronistici rispetto agli orizzonti professionali. Come presidente dell’Ana, Garrisi denuncia nelle università la mancanza di un avviamento al mondo del lavoro: «Si tramanda un tipo di archeologia vista esclusivamente come scavo, ma l’archeologo si occupa anche di progettazione, assistenza e curatela. Nel mio caso, per esempio, gli scavi rappresentano il 20 per cento della mia attività professionale». Così le università diventano templi dove una professione si arrocca in un culto incantato di sé, rendendo gli stessi studenti inconsapevoli delle possibilità professionali: «Per molti il professionismo diventa una sala d’attesa, dove siedono archeologi che aspettano di iniziare un percorso accademico o vincere un dottorato, ma sempre con l’idea di fare altro nella vita», continua Garrisi. La mancanza di formazione e consapevolezza diventa, così, deleteria per il libero professionista, sempre meno competitivo nel mondo del lavoro: «Vogliamo puntare alla formazione dei neo-laureati attraverso tirocini mirati, perché capiscano quanto occorre essere pagati. Ciononostante, è necessario che si attivino anche le università: non è accettabile che un laureato esca dall’università senza capire come si redige un contratto o un curriculum professionale». Un paradosso, in netto contrasto con all’apporto che il decreto ministeriale 233/2019 ha dato al riconoscimento dell’archeologo come professione, con i suoi specifici ambiti. Per Christian Greco, occorre una rivoluzione. Il direttore del Museo egizio di Torino, esempio virtuoso di valorizzazione della cultura materiale, ha vissuto in prima persona i limiti di una professione simile a un percorso a ostacoli: «Quando mi iscrissi a egittologia in Olanda, il mio professore mi ripeteva continuamente che non avrei mai trovato lavoro come archeologo. Era vero in parte: il mio primo lavoro pagato in ambito umanistico è stato a 34 anni», ammette. Da quell’esperienza, Greco ha compreso che non è più tempo di tollerare che i laureati nelle discipline umanistiche siano visti senza competenze spendibili nel mondo del lavoro: «Un archeologo può fare di tutto! Conosce a fondo la realtà, può lavorare con meticolosità nell’estremamente piccolo occupandosi, allo stesso tempo, di ricostruire connessioni estremamente grandi. È una persona fondamentale per capire che la realtà è complessa e che non ci sono risposte semplici a fenomeni articolati», aggiunge. È quanto generano gli estremismi, che spesso giovano nel ridurre all’osso realtà che uno spirito critico, invece, scruta e sa tradurre. Per Greco, un mondo più giusto e socialmente accettabile passa anche da una visione che supera la tutela e la valorizzazione del patrimonio come due nuclei distinti, lasciando posto alla loro osmosi: «Propongo che si arrivi alla cura del patrimonio, perché la nostra cultura materiale sia accudita attraverso la ricerca in un dialogo costante fra musei, soprintendenze, parchi archeologici e università. Ce lo chiede in modo chiaro l’articolo 9 della Costituzione: la tutela del patrimonio culturale non può reggere su proibizioni o esclusività: è, di per sé, inclusiva». Lo dice il direttore di un museo-scrigno di reperti che, provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo, racchiudono ancora quell’intimo, universale potere di insegnarci l’accoglienza, trasformando i luoghi della cultura in quelle che discipline come l’archeologia rendono autentiche scuole di vita. 

·        La Storia da conoscere.

Da “La Stampa” il 29 ottobre 2021. Il ritrovamento della tomba del «faraone bambino» Tutankhamon (traslitterato anche come Tutankhamen), nel 1922 da parte dell'egittologo inglese Howard Carter con il sostegno finanziario di Lord Carnarvon, è l'exploit archeologico più noto e importante del XX secolo. In vista del centenario, Garzanti ripropone il libro in cui lo stesso Carter raccontò la sua esperienza nella Valle dei Re, Tutankhamen - Il mistero di un faraone e l'avventurosa scoperta del suo tesoro (pp. 444, € 18). Il volume si avvale di un saggio introduttivo scritto dal direttore del Museo Egizio di Torino, Christian Greco, di cui pubblichiamo uno stralcio. Nell'estate del 1922 Carter incontrò Carnarvon presso la sua residenza a Highclere Castle. Il conte insistette per trovare una nuova concessione in un luogo che potesse essere più promettente, ma Carter chiese altro tempo per poter investigare l'area al di sotto della tomba di Ramses VI e offrì la copertura delle spese. Carnarvon accordò allora un'ultima stagione nella Valle dei Re e si fece carico di tutte le spese della spedizione. Per poter condurre i lavori prima che il flusso di turisti potesse ostacolare le operazioni, si decise di anticipare l'inizio dello scavo al 1° novembre. Tre giorni dopo, i resti delle baracche degli antichi operai furono rimossi, e al di sotto venne trovato un gradino tagliato nella roccia. Già il 5 novembre ben dodici gradini di una scala discendente cominciarono ad affiorare. Prima ancora di ripulire tutta la scalinata, venne rinvenuta la parte superiore di una porta murata e intonacata. Sulla superficie si vedeva lo stampo di vari sigilli ovali in cui si poteva chiaramente distinguere la raffigurazione di uno sciacallo sopra nove prigionieri con le mani legate dietro la schiena. Si trattava del sigillo della necropoli. Nella parte superiore della porta non era possibile leggere alcun nome regale. Carter aprì un piccolo pertugio e vide che vi era un corridoio ricolmo di detriti alla fine del quale era situato un altro passaggio murato. Decise di ricoprire tutto, risotterrare la scala e il giorno seguente, il 6 novembre, scrisse un telegramma al conte Carnarvon, che era ancora in Inghilterra a Highclere, congratulandosi, annunciando una scoperta magnifica di una tomba con sigilli intatti e comunicandogli di aver ricoperto il sito fino al suo arrivo. Il 23 novembre Carnarvon e la figlia Evelyn Herbert arrivarono alla stazione di Luxor e il giorno successivo i lavori nella tomba ripresero. Carter non aveva solo fatto interrare l'ingresso, ma aveva messo due squadre di guardiani a controllare il sito e a tenersi d'occhio l'un l'altro per evitare ogni possibile penetrazione nella tomba. La scala fu presto liberata e nella parte inferiore del passaggio murato, sull'intonaco, fu possibile leggere il nome di Tutankhamon. L'entusiasmo fu subito smorzato quando si notò, sul lato sinistro in alto, che l'intonaco era stato tolto e ripristinato, un chiaro segno di una chiusura secondaria e quindi un indizio di una violazione antica della tomba. Blocco dopo blocco la muratura fu smontata e si vide come il corridoio fosse riempito fino al soffitto di frammenti calcarei. In mezzo a questo ammasso era stato scavato un tunnel da possibili ladri, e questo poi era stato successivamente riempito. Alle quattro del pomeriggio del 26 novembre il corridoio era stato svuotato, ma il passaggio era bloccato da una seconda porta murata, intonacata e riportante i sigilli ovali della necropoli. Anche qui, nell'angolo superiore sinistro, si notava un pertugio che era stato richiuso in passato. Non sapendo cosa aspettarsi Carter operò un foro e inserì una candela. Il flusso di aria calda che uscì dalla stanza pian piano cessò e la fiamma della candela si stabilizzò. Carter poté scrutare l'interno e alla domanda di Carnarvon su cosa riuscisse a vedere rispose con la frase divenuta immortale: «Vedo cose meravigliose», anche se in realtà non sappiamo se queste sono davvero le parole pronunciate da Carter o se si tratta della rielaborazione letteraria di Arthur Mace. A turno Carter, Carnarvon e Lady Evelyn osservarono attraverso il pertugio le due statue nere che fungevano da sentinelle a un'altra porta murata, quella che dava accesso alla camera sepolcrale, e, sparse tutto attorno nell'anticamera, un ammasso di grandi quantità di oggetti. Carter racconta che, dopo aver osservato ogni cosa con attenzione, richiusero il foro, serrarono la griglia di legno posizionata sul primo passaggio, lasciarono le guardie in loco e tornarono al Castello Carter II. L'archeologo riferisce che dormirono molto poco quella notte. Probabilmente proprio allora tornarono in segreto nella tomba, entrarono nell'anticamera e attraverso un foro, che era stato richiuso in antico nella parte inferiore della porta che conduceva nello spazio più interno, giunsero fino alla camera sepolcrale. Qui videro le cappelle dorate che circondavano il sarcofago in quarzite e forse entrarono anche nel «tesoro». Poi occultarono l'accesso alla camera sepolcrale con un cesto di vimini e uscirono. A confermare questa visita segreta, prima dell'apertura ufficiale della tomba, c'è una lettera scritta da Lady Herbert a Carter il 26 dicembre 1922 in cui riferisce dell'eccitazione che prende il padre, anche nei momenti in cui non si sente bene, quando lei gli racconta del sancta sanctorum (ovvero la camera sepolcrale, che sarà ufficialmente aperta solo il 16 febbraio 1923) e questo ha l'effetto dello champagne. Anche Alfred Lucas, chimico, grande esperto dei materiali e della tecnologia antichi, che lavorò fianco a fianco con Carter alla documentazione della tomba e alla conservazione degli oggetti, fa menzione di questo ingresso avvenuto notte tempo e di come il pertugio utilizzato per entrare nella camera sepolcrale fu poi coperto dal cesto e da altri oggetti in vimini. Anche Mervyn Herbert, fratellastro di Carnarvon, fa riferimento a questo episodio. L'apertura ufficiale della tomba avvenne il 29 novembre 1922 e il giorno successivo Carter accompagnò in visita Pierre Lacau, direttore generale del Servizio di Antichità, e altri ospiti. -

Migrazioni: i primi uomini nel Nord America. Luigi Bignami su Focus il 4 ottobre 2021.  La datazione di semi trovati accanto a impronte fossili dimostra che l'uomo è arrivato nel Nord America migliaia di anni prima di quanto si pensava. Una nuova importante scoperta offre la prova definitiva che l'uomo aveva colonizzato il Nord America ben 7.000 anni prima rispetto a quanto gli archeologi hanno finora pensato. Impronte fossili di uomini trovate sulla riva di un antico letto di un lago nel White Sands National Park (New Mexico), nel sud degli attuali Stati Uniti, risalgono infatti, a 23.000 anni fa, rendendole le più antiche mai trovate in Nord America. Lo studio, pubblicato su Science, racconta che le prime impronte erano state scoperte nel 2009, ma solo nel 2016 sono iniziate le analisi e le ricerche su alcune di esse. Alla conclusione che sono così antiche si è giunti dopo essere riusciti a datare dei semi trovati negli stessi sedimenti dov'erano impresse le tracce degli uomini. In passato non si era mai riusciti a fare lo stesso e tutte le datazioni erano effettuate su manufatti rinvenuti in prossimità di calchi - impossibile datare impronte in assenza di manufatti. E se ci si rifà a questi ultimi, non ne sono mai stati trovati che avessero più di 13-14.000 anni. Ecco perché si è sempre pensato che i primi uomini fossero arrivati in America del Nord sfruttando l'ultima glaciazione, la quale, causando un abbassamento dei mari, avrebbe permesso di passare dall'Asia alle Americhe attraverso ponti naturali. Tuttavia quegli uomini si sarebbero dovuti stabilire vicino all'Artico perché le calotte glaciali che coprivano il Canada avrebbero reso impossibile andare verso sud. Solo in seguito, tra 16.000 e 13.500 anni fa, quando i ghiacciai iniziarono a ritirarsi, sarebbe iniziata anche la migrazione verso il sud. La nuova scoperta impone però di rivedere questa narrazione dei fatti.

100.000 ANNI FA... Per Sally Reynolds (Bournemouth University, UK) «la nuova scoperta colloca definitivamente gli esseri umani nel Nord America in un momento in cui i ghiacci polari erano notevolmente espansi. Questo significa che gli umani sono migrati a sud in più ondate e una di queste è avvenuta prima dell'ultima era glaciale. Quelle prime persone potrebbero aver navigato lungo la costa del Pacifico. Poi, dopo che i ghiacciai si ritirarono, ci sono state altre migrazioni». Se l'ipotesi è corretta, vuol dire che i primi uomini arrivarono nelle Americhe prima di 100.000 anni fa.

PROVETTI NAVIGATORI. Indizi precedenti a questa ricerca che facevano pensare alla possibile esistenza di uomini nelle Americhe ben prima di 15.000 anni fa furono avanzate dopo che in una grotta del messico furono trovati reperti e manufatti che sembravano avere 32.000 anni: gli indizi, però, erano troppo vaghi per averne certezza. La domanda, a questo punto, è: come sono arrivati quei primi uomini al sito di White Sands? Al momento non c'è una risposta certa, ma un'ipotesi: forse in barca, salpando dall'odierna Russia o dal Giappone e navigando il Pacifico sottocosta. Se fosse così, erano provetti navigatori.

Luigi Bignami su Focus il 4 ottobre 2021.  

Viaggio nel "Pozzo dell'Inferno": ecco i misteri che nasconde. Alessandro Ferro il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. Prima volta di un team di speleologi all'interno di una enorme voragine nel deserto dello Yemen conosciuta come Pozzo di Barhout: tra miti e leggende, ecco cosa hanno ritrovato. Una squadra di speleologi dell'Oman è diventata la prima a scendere nel "Pozzo dell'Inferno", nel deserto dello Yemen, profondo 367 piedi (112 metri) che i media locali considerano essere una porta infestata da creature del mondo sotterraneo.

Di cosa si tratta. La voragine naturale ufficialmente conosciuta come il Pozzo di Barhout, ha un inquietante ingresso circolare che si estende per 30 metri di diametro e si trova nel mezzo del deserto nella provincia di al-Mahra nello Yemen orientale, vicino al confine con l'Oman. Esploratori di caverne dilettanti erano già entrati nella dolina, ma fino ad ora nessuno era riuscito ad essere arrivato fino in fondo. Pochi giorni fa, una squadra di 10 esploratori dell'Oman Caves Exploration Team (OCET) ha esplorato il pozzo di Barhout utilizzando un sistema di carrucole che ha abbassato otto dei membri verso il basso mentre i restanti due sono rimasti in cima. Una piccola folla di intrepidi spettatori si è radunata per assistere all'evento, nonostante i timori locali che circondano la voragine. "La passione ci ha spinto a fare questo", ha affermato all'agenzia francese AFP Mohammed al-Kindi, professore di geologia presso l'Università tedesca di tecnologia in Oman che faceva parte del team OCET. "E abbiamo sentito che è qualcosa che rivelerà una nuova meraviglia e parte della storia dello Yemen". Gli esploratori hanno inoltre riferito di aver trovato cascate, serpenti, animali morti, stalagmiti e perle di caverna, ma non sorprende che non abbiano trovato creature leggendarie o una porta per l'inferno.

Miti e leggende sul pozzo.L'età esatta del pozzo di Barhout è attualmente sconosciuta ma, secondo l'AFP, potrebbe avere milioni di anni. Esistono numerosi miti e leggende locali che spiegano la voragine, la maggior parte delle quali la descrivono come una prigione per jinn (parola araba che indica i geni, come il genio della lampada), che di conseguenza causa sfortuna. Alcune persone credono anche che se ci si avvicina troppo, la voragine possa risucchiare le persone mentre altri ancora sostengono che il buco è un supervulcano in grado di distruggere la Terra anche se non esistono prove scientifiche a sostegno di ciò. Come si legge su Livescience, in passato molte persone hanno anche segnalato un cattivo odore che sale dal grande buco: da qui la nascita di storie e dicerie sul fatto che fosse una porta per l'inferno come indica il suo soprannome.

Cosa nasconde l'interno. Come descritto dal team di speleologi che si è calato all'interno, è stata ritrovata una specie di pavimentazione irregolare e frastagliata coperta di stalagmiti, alcune dei quali raggiungevano un'altezza di 9 metri. Alcune parti del pavimento erano anche ricoperte da "perle di caverna", che sono anche un tipo di speleotemi, in pratica strutture tipiche delle caverne, come stalagmiti e stalattiti, che si formano dal graduale accumulo di minerali come il carbonato di calcio a causa dell'acqua gocciolante. Queste perle sono rare e possono crescere soltanto su alcune parti del pavimento di una grotta che sono completamente piatte in modo che il nucleo non si muova. Dall'interno della voragine (o dolina), il team ha anche scoperto che l'acqua emerge da diversi fori nelle pareti della grotta a circa 213 piedi (65 m) sotto la superficie creando piccole cascate.Gli esploratori hanno anche riferito di aver visto serpenti, rane e coleotteri oltre a diversi animali morti, principalmente uccelli, che sembravano essere caduti all'interno della fossa. I cadaveri in decomposizione avrebbero potuto causare la puzza segnalata dalla gente del posto, ma "non c'era cattivo odore travolgente" all'interno della dolina, ha dichiarato uno degli speleologi. Il team ha prelevato campioni che potrebbero anche rivelare ulteriori informazioni sulla dolina e su come si è formata. "Abbiamo raccolto campioni di acqua, rocce, suolo e alcuni animali morti, ma non li abbiamo ancora analizzati", ha detto al-Kindi all'AFP. Nelle prossime settimane è atteso un rapporto finale sull'esplorazione del Pozzo di Barhout. 

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Le pietre del sole usate dai Vichinghi funzionavano davvero come bussole. I leggendari cristalli dei navigatori del Nord avrebbero permesso di risalire alla posizione del Sole anche quando si viaggiava in giornate coperte e burrascose: lo dimostra una moderna simulazione. Elisabetta Intini il 5 aprile 2018 su focus.it. La ricostruzione di una nave vichinga, perfettamente orientata. Come fecero i Vichinghi a navigare per secoli nelle acque fredde e aperte del Nord Atlantico, schivando gli iceberg e orientandosi anche in pessime condizioni meteo, prima di bussole e gps? Questa domanda attanaglia da decenni storici e scienziati: ora, una serie di simulazioni computerizzate sembra dare credito a un misterioso strumento spesso citato nei racconti dei popoli del Nord: i cristalli polarizzanti o "pietre del sole". In base allo studio, pubblicato su Royal Society Open Science, queste pietre potevano in effetti servire a rintracciare la posizione del Sole anche quando il cielo era completamente coperto, e ad orientarsi di conseguenza.

UTILE EREDITÀ. Dei cristalli polarizzanti non c'è traccia, nei diversi relitti vichinghi ritrovati finora. Tuttavia, una possibile prova indiretta del loro utilizzo viene da un piccolo cristallo squadrato rinvenuto in una nave britannica affondata nel 1592 vicino all'isola di Alderney, nel canale della Manica. È possibile che i marinai britannici avessero appreso alcuni segreti della navigazione dai vichinghi che avevano solcato quelle acque prima di loro.

A CACCIA DI LUCE. L'ipotesi sul banco di prova è che alcuni cristalli particolarmente puri, come quelli di calcite o lo Spato d'Islanda, una varietà particolarmente trasparente di calcite, potessero servire a rilevare la polarizzazione della luce solare - quel fenomeno che si verifica quando la luce incontra, nel suo percorso, un ostacolo, come un banco di nebbia.

Osservando il cielo attraverso queste pietre e sfruttando le loro proprietà birifrangenti (ossia la capacità di scomporre un raggio di luce in due raggi) era possibile risalire alla direzione di polarizzazione della luce e quindi alla posizione del Sole nel cielo, necessaria a stabilire la rotta. Ma questa tecnica poteva realmente funzionare?

PROVE GENERALI. Alcuni scienziati della Eötvös Loránd University di Budapest, Ungheria, hanno realizzato simulazioni computerizzate dei viaggi dei vichinghi tra la città di Bergen, Norvegia, e l'insediamento di Hvarf, sulla costa sudorientale della Groenlandia. Questo viaggio verso ovest avrebbe richiesto tre settimane di navigazione su una tipica imbarcazione vichinga, a 11 km orari.

I ricercatori hanno simulato 3600 viaggi nella bella stagione, tra l'equinozio di primavera e il solstizio d'estate, variando parametri come l'intensità della copertura nuvolosa, il tipo di cristallo utilizzato e il numero di volte in cui i marinai lo avrebbero adoperato. A ogni utilizzo delle pietre, la rotta virtuale veniva aggiustata di conseguenza. Quando i navigatori della simulazione hanno osservato i cristalli 4 volte al giorno, hanno raggiunto la Groenlandia tra il 32% e il 59% delle volte. Ma quando le hanno consultate ogni tre ore, sono arrivati alla meta tra il 92% e il 100% delle volte.

La chiave del successo, oltre alla frequenza delle osservazioni, era la loro equa distribuzione nell'arco della giornata, con un ugual numero di "letture" delle pietre al mattino e al pomeriggio: le prime infatti facevano virare più spesso verso nord, le seconde verso sud. Per raggiungere la Groenlandia, serviva un giusto equilibrio.

Il mistero del frate che già nel '300 conosceva l'America. Luigi Mascheroni il 17 Settembre 2021 su Il Giornale. Trovata la citazione, 150 anni prima di Colombo, di una terra situata oltre l'Oceano. Molti popoli toccarono quelle coste: vichinghi, cinesi, fenici, romani...La storia dell'America prima dell'America è molto lunga. Dal punto di vista della storiografia, dell'insegnamento scolastico e del pensiero comune, il continente americano entra nell'orbita delle conoscenze degli europei con la spedizione di Cristoforo Colombo del 1492. E se anche altri viaggiatori toccarono quelle terre prima dell'impresa del grande navigatore (le origini genovesi del quale sono anch'esse oggetto di discussione da secoli) nulla cambiò per l'uomo. È solo con l'impresa conclusasi nell'ottobre del 1492 sull'isola poi battezzata di San Salvador che la storia ebbe uno scarto. Se anche altri incrociarono quel mondo sconosciuto, lo fecero senza conseguenze. Con Colombo, invece, inizia la colonizzazione europea delle Americhe. Ed è ciò che conta. Però è indubbio che il viaggio - molto oleografico - delle tre caravelle abbia misteriosi antecedenti molto affascinanti. Che oggi si arricchiscono di una nuova scoperta. Un progetto scientifico attivo da alcuni anni all'interno del Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici dell'Università Statale di Milano, coordinato dal professore Paolo Chiesa, ha portato infatti alla luce la clamorosa menzione di una terra situata al di là dell'Oceano Atlantico che precede di centocinquant'anni il viaggio di Colombo. La citazione si trova nella Cronica universalis del frate domenicano Galvano Fiamma (1283-1344), cappellano di Giovanni Visconti e cronachista milanese. Si tratta di un manoscritto risalente al 1340, rimasto fino a oggi inedito, ma che gli straordinari risultati della ricerca porteranno presto alla pubblicazione. Qui si trova il clamoroso riferimento a una terra di nome Marckalada, forse da identificare con la «Markland» delle saghe norrene. Ecco la traduzione del passaggio di Galvano, curata da Giulia Greco, dell'Università di Trento: «I marinai che percorrono i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l'Islanda. Più oltre c'è un isola detta Grolandia...; e ancora oltre, verso occidente, c'è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però non c'è mai stato nessun marinaio che sia riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche». Probabilmente - è l'ipotesi del gruppo di studio dell'Università Statale di Milano - la notizia di quel luogo sconosciuto giunse a Galvano Fiamma dalla città di Genova, dove il frate aveva contatti, e che i marinai di cui si parla siano navigatori genovesi che commerciavano con le regioni del nord. Ed eccoci alle mille teorie, che di tanto in tanto vengono rilanciate, sull'America prima di Colombo. È indubbio, innanzitutto, che alcuni popoli si erano imbattuti, ben prima di lui, in coste sconosciute a occidente del continente europeo. I vichinghi certamente giunsero in Groenlandia e a Terranova (nell'attuale Canada), che chiamavano Vinland, «terra del vino», attorno all'anno Mille, come testimoniano alcune tombe vichinghe scoperte nel 1961 a L'Anse aux Meadows. È documentato invece che i portoghesi occuparono le Azzorre, nell'Atlantico. Mentre alcuni colonizzatori islandesi giunseri in Groenlandia forse addirittura nel II secolo. E da anni circola l'ipotesi, formulata dal comandante della Royal Navy Gavin Menzies, che fra il 1421 e il 1434 - quando la Cina vantava l'ingegneria navale più avanzata del pianeta - una grande flotta di giunche al comando dell'ammiraglio Zheng He navigò attraverso aree del mondo ancora sconosciuto lungo il Pacifico, toccando le coste orientali degli odierni Stati Uniti... Nessun popolo però di fatto colonizzò su larga scala le terre scoperte, abbandonandole nel corso del tempo, o perché troppo lontane o perché inospitali. Non solo. Secondo una tesi molto affascinante, portata avanti da anni con diversi studi dal giornalista Ruggero Marino, la scoperta dell'America da parte di Colombo sarebbe da anticipare di qualche anno: il navigatore avrebbe toccato le coste del Nuovo Mondo già nel 1485, in un viaggio tenuto segreto voluto da papa Innocenzo VIII (morto il 25 luglio 1492, alcuni giorni prima della partenza delle caravelle da Palos de la Frontera, il 3 agosto, ma sulla cui tomba è riportata la frase «Durante il suo regno la scoperta di un Nuovo Mondo»). Forse l'Ammiraglio del Mare Oceano Cristoforo Colombo possedeva un codice o una mappa della biblioteca vaticana con conoscenze geografiche rivoluzionarie... E qui entra in scena la celebre mappa del navigatore turco Piri Reìs, realizzata nei primi decenni del XVI secolo, su cui è annotato che la zona delle Antille era stata scoperta nell'anno del calendario islamico 896, corrispondente al 1490-91 dell'era cristiana, da parte di «un infedele di Genova di nome Colombo». Di Colombo si è detto che fosse addirittura figlio illegittimo dello stesso Innocenzo VIII. Che fosse un frate laico francescano, o un israelita che cercava nelle Indie una patria per gli ebrei iberici minacciati di espulsione (lo sostenne Simon Wiesenthal, il «cacciatore di nazisti»). Che fosse un templare e sfruttò le segrete conoscenze scientifiche e astronomiche del potente ordine religioso. Che per giungere in America usò una mappa rubata dal fratello Bartolomeo in Portogallo dall'Archivio segreto del regno (ipotesi molto probabile). Senza contare le antiche civiltà mediterranee. Alcuni storici e archeologi non escludono, sulla base di alcune stele ritrovate sul suolo brasiliano, che durante il VI secolo a.C. i fenici avrebbero potuto arrivare in America attraversando l'Atlantico. Così come ne sarebbero stati capaci i romani, i quali possedevano ottime conoscenze in campo nautico ed erano grandi navigatori e commercianti. Tanto che - ipotizzano alcuni studiosi - in età imperiale alcune galere romane raggiunsero anche l'America, che i geografi del tempo ritenevano essere la «terza India», equivoco che rimarrà anche dopo la scoperta di Colombo. Insomma, in molti, ben prima di Colombo, sapevano bene cosa ci fosse al di là delle colonne d'Ercole.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).

Mariavittoria Zaglio per corriere.it il 6 settembre 2021. La chiamano la sirena di Milano. Ad incantare gli uomini che la studiano non sono le sue forme avvenenti o la mitologica bellezza che di solito si associa alla creatura anfibia ma le sue origini misteriose. Più simile a un essere mostruoso piuttosto che alla Sirenetta di Christian Andersen o alla Madison di «Splash, Una sirena a Manhattan». Eppure, nonostante l’oggettiva bruttezza dell’artefatto, la curiosità riguardo alla sua storia si alimenta da decenni. La sua casa è il Museo di Storia Naturale, non si sa dire da quanto. «Ogni Museo ha i suoi scheletri nell’armadio», racconta Giorgio Bardelli, curatore della sezione di zoologia dei vertebrati. Il ritrovamento della sirenetta mostruosa risale agli inizi degli anni Ottanta, per mano di Giorgio Teruzzi, paleontologo oggi in pensione. «Si trovava all’interno di uno dei locali seminterrati dove ci sono i depositi di studio del Museo, dietro ad un’intercapedine, oltre una parete sottile — continua Bardelli —. Nessuno ne conosceva la provenienza, non c’erano documenti o bigliettini allegati. Il sospetto è che potesse appartenere ai fratelli Villa, collezionisti milanesi che regalarono pezzi al Museo prima del conflitto». Probabilmente la sua permanenza milanese è databile a prima della seconda guerra mondiale e delle fiamme che nel 1943 distrussero molti dei reperti all’interno del Museo in corso Venezia. La scienza ha chiarito che la piccola sirenetta (che misura circa 30 centimetri) è un falso: «Dalle radiografie sappiamo che al suo interno ci sono un’intelaiatura in legno e inserti di ferro mentre la parte più ampia del corpo è in cartapesta».  I dettagli fanno la differenza: capelli umani, unghie di uccello e pinne di pesce. La ricetta da brivido compone un oggetto strano che rimanda, secondo le ricerche svolte nel Museo (quelle più recenti avviate insieme all’interesse di un ragazzo che ne ha scoperto l’esistenza, ndr), alla seconda metà dell’800 giapponese. Un periodo in cui la fascinazione per questi fantocci appassionava collezionisti e pubblico occidentale. La sirena delle Fiji che il circense Barnum portò in America (e che poi andò distrutta in un altro incendio) ne è un esempio noto. Nel mondo la sirena di Milano non è sola: ci sono oggetti simili al Museo di Storia Naturale di Venezia, a Modena, a Salisburgo, in Inghilterra e in una fattoria di alligatori in Arkansas (negli Stati Uniti). L’interesse per queste strane creature (anche da parte del Cicap, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze), «ritorna ciclicamente. Io ho iniziato a incuriosirmene quando arrivai al Museo ancora studente nel 1990, la sirena era esposta nella sala introduttiva. Poi negli anni ho accumulato indizi e consapevolezza», sottolinea Bardelli. Oggi le ricerche continuano, come se ci fosse ancora qualcosa da scoprire riguardo all’affascinante mostriciattolo (che non è esposto nelle sale del Museo). «Più sappiamo e più ci rendiamo conto che ci sono tantissime cose che non conosciamo», conclude il curatore.

Se vuoi conoscere il futuro di un paese islamico chiedi agli archeologi. Scavi continui. Scoperte sensazionali. Nuovi musei. Iran, Egitto, Arabia Saudita accendono i riflettori sui popoli che vivevano prima dell'età di Maometto. Una tattica politica. Un richiamo per turisti. Ma anche un modo per ricostruire radici comuni intrecciate dalla tolleranza. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia della cultura araba. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso l'1 giugno 2021. L'evento più spettacolare l'ha firmato al-Sisi: una carovana notturna ha portato ventidue mummie di regnanti dell'Antico Egitto - anche Ramses II e la regina Hatshepsut - dal vecchio, fascinoso e caotico Museo archeologico del Cairo alla nuova - verrebbe da dire “faraonica” - sede del Museo Nazionale della civiltà Egizia, in via di apertura dopo anni di lavori. Non ha destato lo stesso interesse una notizia meno clamorosa ma più significativa: l'annuncio dei ritrovamenti degli archologi italiani e iraniani al lavoro nel sud dell'Iran nella città di Shahr-i-Sokhta, ribattezzata “Pompei d'Oriente”. E poche settimane fa, all'aperto per attirare più pubblico possibile malgrado le restrizioni per il Covid-19, due piazze centrali di Milano e di Roma sono state invase da gigantografie di Al-Ula, ieri capitale del regno dei nabatei, oggi centro del lancio turistico a cui l'Arabia Saudita sta lavorando con grande profusione di mezzi. Non sarà sfuggito che dietro i tre eventi archeologici più clamorosi arrivati di recente dal mondo islamico ci sono tre regimi tra i più sanguinari della zona, responsabili di continue violazioni dei diritti umani che scandalizzano tutto l'Occidente. Certo, in parte è una coincidenza: la costruzione del nuovo museo alla periferia del Cairo è iniziata ben prima della sparizione di Giulio Regeni, e lo stesso vale per il rilancio di Al-Ula rispetto all'omicidio di Jamal Khashoggi. Ma solo in parte: la riscoperta dell'archeologia infatti risponde a una strategia precisa, è un richiamo mirato verso l'Occidente. Un richiamo interessato ma comunque prezioso. Interessato per un fine politico, perché i Paesi occidentali apprezzano che si valorizzino i reperti preislamici - greci, romani e dei loro predecessori - ed economico, perché l'archeologia attira quei viaggiatori colti e benestanti che sono il sogno di ogni operatore turistico. Nel caso dell'Egitto in particolare tutto quello che richiama la civiltà dei faraoni – come la recente scoperta della “città d’oro perduta” di Aten, presentata come «il più importante ritrovamento dalla scoperta della tomba di Tutankhamon» - indica che il governo vuole «prendere le distanze dalla tradizione islamica del paese, e dalla politica islamista (Al-Sisi è al potere dopo aver rovesciato il governo dei Fratelli Musulmani)», come ha spiegato l'archeologo Leonardo Bison nel sito Finestre sull'arte. Dario Nicheri su East Journal si sofferma invece sul nazionalismo che nella Turchia di Erdogan non perde occasione per sottolineare la supremazia turca su tutti i popoli precedenti: si cerca insomma di far passare «l’idea dell’esistenza di popoli primordiali territorialmente stanziati in Anatolia, con un’identità collettiva prodotta attraverso le epoche e perfezionatasi con l’arrivo della stirpe turca». Malgrado questi doppi significati, l'interesse per l'archeologia resta comunque prezioso, soprattutto quando viene da Paesi come l'Arabia Saudita che in passato erano del tutto disinteressati, se non proprio iconoclasti, rispetto alle testimonianze preislamiche: come se Maometto fosse comparso in una zona disabitata e ignorata dalla storia precedente, come scriveva Samir Kassir nel fondamentale saggio su “L'infelicità araba”. L'archeologia del Medio Oriente è essenziale anche per conoscere la civiltà occidentale. È il messaggio fondamentale di “Negli scavi” di Eric H. Cline (Bollati Boringhieri): un abbiccì della ricerca dell'antichità basato sulle esperienze di lavoro dello studioso americano in diversi paesi tra cui Israele, Egitto, Giordania. «I nostri tempi sono davvero stimolanti per fare l'archeologo», annuncia Cline all'inizio del libro: che spiega l'uso di strumenti diversi, dal piccone alla ricognizione LiDAR, e dimostra, en passant, quanto sia indissolubile il legame tra archeologia e Medio Oriente: dove si sono susseguite culture e popolazioni diverse, e dove l'abitudine alla “damnatio memorie” ha periodicamente cercato di cancellare le tracce dei predecessori. Il primo scopo degli scavi in Israele per esempio è generalmente la ricerca di prove dei racconti biblici, salvo poi trovare quasi sempre reperti interessanti delle dominazioni greche e romane e di popolazioni precedenti. Le tracce della civiltà islamica che si erano sovrapposte a questi resti più antichi vengono invece trascurate o distrutte, come ha denunciato di recente Kamal Aljafari in un'intervista al Manifesto. C'è molto Medio Oriente in quell'atlante dell'archeologia che è “Scavare nel passato” (Carocci), dove Andrea Augenti racconta tutte le scoperte di cui si è occupato in una fortunata trasmissione per Radio3. Dalla Turchia di Çatalhöyük e Göbekli Tepe alla “Versailles d'Andalusia” di Medinat al-Zahra, è affascinante il viaggio in compagnia di un divulgatore che non ha dimenticato il libro che fece nascere il suo amore per l'antichità: il leggendario “Civiltà sepolte” di Ceram. In un capitolo torna il soggiorno di Agatha Christie in Mesopotamia, dove il marito Max Mallowan lavorava agli scavi di Ur: un modo per ricordare i pericoli corsi dai siti archeologici finiti nelle mani dell'Isis. L'esercito islamista li ha devastati irrimediabilmente seguendo due strategie: non solo ha distrutto statue e edifici sul posto (e ne ha ucciso i custodi), ma ha anche contrabbandato statue, gioielli e ogni tesoro che potesse finanziare la loro guerra contro ogni forma di tolleranza. Gli scavi di Shahr-i Sokhta sono solo l'esempio più recente dell'intreccio pacifico di popoli che è alle radici della galassia islamica. La “Pompei d'Oriente” era all'incrocio di quattro grandi civiltà fluviali: Oxus, Indo,Tigri-Eufrate e Halil. C'è ancora molto da scoprire: «Abbiamo scavato appena il cinque per cento della superficie» ha detto Enrico Ascalone dell’Università di Göttingen, direttore artistico del progetto nato in collaborazione con l'università del Salento. Ma è già chiaro che la città non aveva mura difensive né un apparato militare. E non c'era traccia di culto di dei, «probabilmente perché senza un'elite al comando non c'era neanche bisogno di veicolare messaggi di propaganda», ha spiegato ancora Ascalone. Tutti segni di una tolleranza tra popoli e culture diverse che sarebbe bello poter rispolverare e ricostruire come i cocci di giare, sigilli e tavolette riemersi dagli scavi.

 Stati Uniti, esseri umani presenti 23mila anni fa: trovate le impronte che riscrivono la storia. Libero Quotidiano il 25 settembre 2021. Gli esseri umani erano presenti in America già 23mila anni fa: lo dimostrano alcune impronte di piedi appena scoperte in Nuovo Messico. Si tratta della più antica traccia della presenza umana nel continente e dimostra che qualcuno viveva lì già prima dell’ultima Era Glaciale. A fare questa scoperta sono stati i ricercatori della Bournemouth University, in collaborazione con lo US Geological Survey. Le impronte in questione sono state trovate all’interno del Parco Nazionale di White Sands, nel Nuovo Messico. Le impronte sono state lasciate nel fango morbido sul fondo di un lago, dove poi si sono solidificate e conservate per tutti questi millenni, intrappolando al loro interno anche semi di piante primitive. La cristallizzazione delle impronte - poi giunte fino a noi - è avvenuta anche grazie alla glaciazione del lago dovuta al periodo di intenso freddo. "Le nostre datazioni dei semi antichi sono molto precise e dimostrano una stratificazione dei semi appartenenti ad epoche storiche diverse all’interno di una stessa impronta – ha spiegato Kathleen Springer della US Geological Survey. – L’analisi al radiocarbonio ha permesso di datarle". Si tratta di una scoperta straordinaria. Finora, infatti, si è sempre pensato che gli insediamenti umani più antichi nel continente americano risalissero a circa 16mila anni fa. Gli archeologi ritenevano improbabile la presenza dell’uomo prima di questo periodo. La recente scoperta, invece, dice il contrario. Le impronte trovate sono di vario tipo: ci sono quelle umane, ma anche quelle di alcune specie animali come uccelli, mammut e lupi. Questo fa pensare a un’interazione fra esseri umani, animali e anche ambiente naturale. "Possiamo ipotizzare che i nostri antenati erano pragmatici, dediti alla caccia e all’adozione di strategie di sopravvivenza, ma ciò che vediamo attraverso queste impronte è un’attività di gioco che coinvolge individui di età diverse - ha spiegato il professore Matthew Bennett -. Un vero e proprio spaccato nella vita quotidiana dell’epoca".

Dagotraduzione da Gizmodo il 27 luglio 2021. Le analisi sul contenuto dello stomaco di un uomo dell’età del ferro mummificato stanno fornendo nuovi risultati sul suo ultimo pasto e sul suo stato di salute generale. Tollund Man è stato ucciso intorno al 400 a.C. in quella che oggi è la penisola dello Jutland, in Danimarca. Morto per impiccagione, probabilmente per un sacrificio rituale, il suo corpo è rimasto per 2.400 anni nella palude, che lo ha conservato. Le nuove scoperte, pubblicate su Antiquity, suggeriscono che l'uomo di Tollund abbia consumato il suo ultimo pasto circa 12-24 ore prima della sua morte mangiando porridge e pesce, entrambi piatti comuni durante la prima età del ferro danese. Si trattava di un pasto nutriente, probabilmente gustoso, ma Tollund Man non godeva di ottima salute, perché era stato infettato da diversi parassiti. La nuova ricerca è stata condotta dall'archeologa Nina Nielsen del Silkeborg Museum in Danimarca. I resti ben conservati dell'Uomo di Tollund sono stati scoperti per caso nel 1950. Nello stesso anno è stata condotta un'analisi forense per studiare e documentare, tra l’altro, il contenuto del suo stomaco. L’autopsia aveva rivelato che Tollund Man aveva mangiato orzo, lino, semi d’oro del piacere, semi di persicaria pallida e altre 16 specie di piante. «Dal momento che la conoscenza dei macrofossili delle piante e dei metodi per analizzare il contenuto dell'intestino è migliorata notevolmente dal 1950, abbiamo deciso di riesaminare il contenuto dell'intestino di Tollund Man», ha detto Nielsen in un comunicato stampa via e-mail. Rivisitare il tratto digestivo di Tollund Man con nuovi occhi si è rivelata un'idea intelligente. Le mummie conservate naturalmente offrono uno sguardo unico sul passato perché rivelano tra l’altro dettagli come l'aspetto fisico di una persona (sicuramente il nostro caso), l'abbigliamento, la salute, la dieta. In questo caso, Nielsen e i suoi colleghi hanno cercato di documentare meglio ciò che l'uomo ha mangiato, determinare come è stato preparato il cibo e controllare il suo contenuto intestinale per scoprire segni di malattia. Quantificando gli ingredienti dell'ultimo pasto dell'uomo, il team sperava di segnalare eventuali cibi insoliti legati ai sacrifici rituali. Per l'analisi, che si è svolta dal 2019 al 2020, il team ha analizzato materiali prelevati dall'intestino crasso di Tollund Man, inclusi macrofossili, polline, palinomorfi non pollinici (noti anche come NPPS, cose come frammenti microscopici di piante, spore e uova di parassiti), proteine e grassi. «Ora possiamo praticamente ricostruire la ricetta dell'ultimo pasto di Tollund Man», ha detto Nielsen. «Il pasto era abbastanza nutriente e consisteva in un porridge d'orzo con alcuni semi di persicaria pallida e lino». Sono state rilevate circa 20 specie di piante, ma in meno dell'1% del contenuto totale, e per questo i ricercatori ritengono che fossero solo ingredienti accidentali. L'analisi delle proteine suggerisce che il pesce faceva parte del pasto, ma non è noto se il pesce sia stato aggiunto al porridge. L'autopsia del 1950 non riuscì a rilevare questo ingrediente. Inoltre, le nuove prove suggeriscono che il porridge è stato cotto in una pentola di terracotta. «In questo modo, ci avviciniamo molto a una situazione specifica del passato: si riesce quasi ad immaginarli, seduti accanto al camino a preparare il porridge d'orzo e il pesce», ha detto Nielsen. L'ultimo pasto di Tollund Man non sembra essere nulla di straordinario, ed è probabilmente rappresentativo di un piatto tipico servito nel nord Europa durante l'età del ferro. La presenza di semi di persicaria pallida invece è considerata un po' strana. La Persicaria è un'erbaccia e cresceva insieme all'orzo e al lino ma veniva raccolta insieme ai cereali. I suoi semi venivano generalmente rimossi durante la trebbiatura, ma in questo caso, secondo la ricerca, i rifiuti della trebbiatura che cadevano a terra, semi inclusi, insieme a granelli di sabbia e carbone, venivano raccolti e gettati nel porridge. «Per ora, non sappiamo se l'uso degli scarti della trebbiatura nella cucina dell'età del ferro fosse una pratica normale o se questo ingrediente fosse usato solo in occasioni speciali come i sacrifici umani», ha osservato Nielsen. Nonostante gli ingredienti estranei, questo pasto era abbastanza nutriente, e fornì a Tollund Man una mezza giornata di calorie. «Il nostro studio mostra che può essere utile rianalizzare il contenuto intestinale del corpo delle paludi immagazzinato nelle collezioni dei musei e che la combinazione di analisi di polline, NPP, macrofossili, steroidi e proteine può fornire ulteriori dati utili», concludono gli scienziati nel loro studio. «La nostra quantificazione e identificazione dei diversi ingredienti nell'ultimo pasto di Tollund Man a un nuovo livello di dettaglio può essere utilizzata per il confronto in progetti futuri». Tollund Man non era in perfetta salute, poiché il team ha trovato prove di parassiti intestinali, in particolare tricocefali, tenie e vermi. Probabilmente è stato infettato da cisti da tenia dopo aver consumato carne cruda o poco cotta. Il tricocefalo e il verme vengono trasmessi dalle uova nella cacca umana, quindi l'infezione di Tollund Man potrebbe essere dovuta a scarsa igiene. Le sue molteplici infezioni potrebbero anche essere un segno di persone che vivono a stretto contatto con animali e di un accesso limitato all'acqua pulita.

Dagotraduzione dal Guardian il 28 giugno 2021. La scoperta di un enorme teschio fossile che è stato avvolto e nascosto in un pozzo cinese quasi 90 anni fa costringe gli scienziati a riscrivere la storia dell'evoluzione umana. Analizzando i resti gli archeologici hanno trovato un nuovo ramo nell’albero genealogico umano, che indica un gruppo di sorelle finora sconosciuto e più simili agli uomini moderni rispetto ai Neanderthal. I ricercatori cinesi hanno chiamato lo straordinario fossile Homo longi o “Uomo drago” e lo hanno catalogato come nuova specie umana. «Penso che questa sia una delle scoperte più importanti degli ultimi 50 anni», ha affermato il professor Chris Stringer, leader della ricerca presso il Museo di storia naturale di Londra, che ha lavorato al progetto. «È un fossile meravigliosamente conservato». Il cranio ha una storia avvincente. Rinvenuto nel 1933, durante l’occupazione giapponese, da alcuni operai impegnati a costruire un ponte sul fiue Shonhua, ad Harbin, nella provincia settentrionale della Cina, è stato coperto e nascosto in un pozzo abbandonato per evitare che finisse nelle mani dell’oppressore. È rimasto lì finché nel 2018 l’uomo che lo aveva nascosto non ne ha parlato con il nipote poco prima di morire. Un team internazionale, guidato dal professor Qiang Ji della Hebei Geo University in Cina, ha utilizzato tecniche geochimiche per datare le ossa, che risalgono ad almeno 146.000 anni fa. Il cranio ha una combinazione unica di caratteristiche primitive e moderne. Il viso, in particolare, ricorda più da vicino l'Homo sapiens, nonostante l’enorme molare. Il cranio, lungo 23 cm e largo più di 15 cm, è più grande di quello di un essere umano moderno e ha ampio spazio, 1.420 ml, per un cervello umano moderno. Sotto la spessa cresta sopraccigliare, il viso ha grandi orbite quadrate, ma è delicato nonostante le sue dimensioni. «Questo ragazzo aveva una testa enorme», ha detto Stringer. I ricercatori ritengono che il cranio appartenesse a un maschio di circa 50 anni, che sarebbe stato un esemplare fisico impressionante. Il suo naso largo e a bulbo gli permetteva di respirare grandi volumi d'aria, ad indicare uno stile di vita molto attivo, mentre le dimensioni lo avrebbero aiutato a resistere agli inverni brutalmente freddi della regione. «L'Homo longi è di costituzione pesante, molto robusto», ha affermato il professor Xijun Ni, paleoantropologo dell'Hebei. «È difficile stimare l'altezza, ma la testa massiccia dovrebbe corrispondere a un'altezza superiore alla media degli umani moderni». Per capire in che punto della storia dell’uomo si inserisca l'individuo di Harbin, gli scienziati hanno inserito i dati del fossile e di altri 95 crani in un software che ha compilato l'albero genealogico più probabile. Con loro sorpresa, il teschio di Harbin e una manciata di altri dalla Cina formano un nuovo ramo più vicino agli umani moderni rispetto ai Neanderthal. I ricercatori cinesi ritengono che il cranio di Harbin sia abbastanza diverso da renderlo classificabile come una nuova specie, ma Stringer non ne è convinto perché lo trova simile a un altro cranio trovato nel 1978 nella contea di Dali in Cina. «Preferisco chiamarlo Homo daliensis, ma non è un grosso problema», ha detto. «La cosa importante è che si tratta del terzo lignaggio di umani successivi che sono separati dai Neanderthal e separati dall'Homo sapiens». I dettagli sono pubblicati in tre articoli su The Innovation. Qualunque sia il nome, una possibilità è che il teschio di Harbin sia Denisovan, un misterioso gruppo di esseri umani estinti conosciuti soprattutto per i frammenti ossei recuperati dalla Siberia. «Certamente questo esemplare potrebbe essere Denisovan ma dobbiamo essere cauti. Quello di cui abbiamo bisogno è materiale scheletrico molto più completo dei Denisova insieme al DNA», ha detto Stringer. Il professor John Hawks, un paleoantropologo dell'Università del Wisconsin-Madison, ha affermato che l'idea di un nuovo lignaggio di umani è «un'affermazione provocatoria», perché i teschi possono sembrare simili anche tra parenti lontani. Il cranio di Denisovan era una buona ipotesi, ha aggiunto, anche se era meno entusiasta di un nuovo nome di specie. «Penso che sia un brutto momento per la scienza per nominare nuove specie tra questi umani dal cervello grande che si sono incrociati tra loro», ha detto. «Ciò che stiamo scoprendo ripetutamente è che le differenze nell'aspetto non significavano molto per queste antiche persone quando si trattava di allevamento». Mark Maslin, professore di scienze del sistema terrestre all'UCL e autore di The Cradle of Humanity, ha dichiarato: «Il cranio umano arcaico cinese di Harbin splendidamente conservato aggiunge ancora altre prove che l'evoluzione umana non è stata un semplice albero evolutivo ma un denso cespuglio intrecciato. Ora sappiamo che c'erano fino a 10 diverse specie di ominidi nel momento in cui è emersa la nostra specie». «L'analisi genetica mostra che queste specie hanno interagito e si sono incrociate: la nostra genetica contiene l'eredità di molte di queste specie fantasma. Ma ciò che fa riflettere è che, nonostante tutta questa diversità, circa 60.000 anni fa emerse dall'Africa una nuova versione dell'Homo sapiens che chiaramente superò in competizione, e persino si battè contro queste altre specie strettamente correlate, causandone l’estinzione. È solo attraverso una scrupolosa ricerca e l’analisi dei fossili, come il teschio di Harbin, che conosciamo la loro esistenza».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 giugno 2021. Gli archeologici hanno scoperto in Israele un nuovo tipo di uomo preistorico che viveva 400.000 anni fa e probabilmente si è incrociato con l’Homo Sapiens. I ricercatori dell’Università di Tel Aviv e dell’Università Ebraica di Gerusalemme hanno ritrovato frammenti di techio e mascella di “Nesher Ramla” Homo, datati a circa 140-120.000 anni fa. Il Nesher Ramla Homo aveva una morfologia molto diversa da quella degli uomini moderni - i grandi denti, la struttura del suo cranio, il mento assente – ma alcune caratteristiche in comune con il Neanderthal, in particolare i denti e la mascella. La scoperta potrebbe rispondere a un grande enigma nell’evoluzione umana: come hanno fatto i Neanderthal ad avere geni dell’Homo Sapiens molto prima che i due gruppi si incontrassero in Europa. Secondo i ricercatori il popolo di Nesher Ramla potrebbe essere quella popolazione “scomparsa” che a lungo si è ipotizzato si fosse intrecciata con gli uomini moderni 200.000 anni fa. Il team crede che il popolo Nesher Ramla sia stato la fonte da cui si sono sviluppati molti umani del Pleistocene medio, compresi i Neanderthal "europei". «La scoperta di un nuovo tipo di Homo è di grande importanza scientifica», ha detto l'autore dell'articolo e antropologo biologico Israel Hershkovitz dell'Università israeliana di Tel Aviv. «Ci consente di dare un nuovo senso ai fossili umani trovati in precedenza, aggiungere un altro pezzo al puzzle dell'evoluzione umana e comprendere le migrazioni degli umani nel vecchio mondo», ha aggiunto. «Anche se hanno vissuto così tanto tempo fa, nel tardo Pleistocene medio (474.000–130.000 anni fa), il popolo di Nesher Ramla può raccontarci una storia affascinante, rivelando molto sull'evoluzione e sullo stile di vita dei loro discendenti». I resti sono stati trovati durante uno scavo nell'area mineraria del cementificio Nesher. Scavando a 8 metri di profondità, i ricercatori hanno anche trovato grandi quantità di ossa di animali, inclusi cavalli, daini e uri simili a buoi, e strumenti di pietra. L'analisi della morfologia ossea ha confermato che appartenevano a un nuovo tipo di Homo, il primo ad essere classificato in base ai resti rinvenuti in Israele. «Questa è una scoperta straordinaria. Non avremmo mai immaginato che insieme all'Homo sapiens, l'arcaico Homo vagasse nell'area così tardi nella storia umana», ha detto l'autore dell'articolo e archeologo Yossi Zaidner dell'Università Ebraica di Gerusalemme. «I reperti archeologici associati ai fossili umani mostrano che "Nesher Ramla Homo" possedeva tecnologie avanzate di produzione di utensili in pietra e molto probabilmente interagiva con l'Homo sapiens locale». «Prima di queste nuove scoperte, la maggior parte dei ricercatori credeva che i Neanderthal fossero una "storia europea"," ha affermato il professor Hershkovitz. La teoria prevalente, ha spiegato, proponeva che «piccoli gruppi di uomini di Neanderthal fossero stati costretti a migrare verso sud per sfuggire ai ghiacciai in espansione, e che alcuni siano arrivati nella Terra d'Israele circa 70.000 anni fa». «I fossili di Nesher Ramla mettono in dubbio questa teoria, suggerendo che gli antenati dei Neanderthal europei vivessero nel Levante già 400.000 anni fa, migrando ripetutamente verso ovest verso l'Europa e verso est verso l'Asia». «In effetti, le nostre scoperte implicano che i famosi Neanderthal dell'Europa occidentale sono solo i resti di una popolazione molto più ampia che viveva qui nel Levante, e non viceversa». «La gente pensa per paradigmi. Ecco perché sono stati fatti sforzi per attribuire questi fossili a gruppi umani noti come l'Homo sapiens, l'Homo erectus, l'Homo heidelbergensis o i Neanderthal», ha affermato l'autrice dell'articolo Rachel Sarig. «Ma ora diciamo: "No". Questo è un gruppo a sé, con caratteristiche distinte», ha aggiunto l'antropologo odontoiatrico dell'Università di Tel Aviv. «In una fase successiva, piccoli gruppi del tipo Nesher Ramla Homo migrarono in Europa - dove si sono evoluti nei Neanderthal "classici" con cui abbiamo familiarità - e anche in Asia, dove divennero popolazioni arcaiche con caratteristiche simili ai Neanderthal». Il membro del team Gerhard Weber, un antropologo evoluzionista dell'Università di Vienna, è d'accordo, e aggiunge che crede che la storia dell'evoluzione di Neanderthal sarà raccontata in modo diverso ora. «L'Europa non era il rifugio esclusivo dei Neanderthal da dove si sono occasionalmente diffusi nell'Asia occidentale», ha detto. «Pensiamo che ci sia stato molto più scambio laterale in Eurasia e che il Levante sia geograficamente un punto di partenza cruciale, o almeno una testa di ponte, per questo processo». I risultati completi dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Science.

L'uomo di Neanderthal viveva al Circeo. Ed era più evoluto di noi. Nino Materi il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. I resti fossili trovati nella Grotta Guattari svelano l'acume dell'antenato del "Sapiens". Nel tecno-slang giovanile della Generazione Alpha (quella successiva alla Generazione Z) il termine «Neanderthal» starebbe, grossomodo, a significare una «persona arretrata che pensa e si comporta da vecchio». Con tutto il rispetto per le moderne tribù iGen, Post-Millennial , Centennial , Zoomer e Plural , la buonanima dei 9 uomini di Neanderthal (i cui resti fossili sono stati scoperti ieri nella Grotta Guattari a San Felice Circeo) si rivolteranno nella tomba, benché non ne abbiano mai avuta una: 100 mila anni fa (anno più, anno meno) le bare infatti non avevano mercato, idem per lapidi, funerali, crisantemi e messe in suffragio del de cuius; insomma, il business del caro estinto non aveva ancora preso vita e l'estremo viaggio dei defunti preistorici procedeva su un binario morto. Eppure all'epoca della famiglia Flinstone, i nostri antenati neanderthaliani non erano meno sapienti del tanto celebrato (e sopravvalutato) Homo Sapiens, dal quale - pare - discendiamo tutti noi, con la sola differenza di brandire tra le mani un iPhone al posto di una clava. Ma ora le ossa dei nove individui venute alla luce grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza archeologia per le province di Frosinone e Latina con l'Università Tor Vergata, sono qui a dimostrare che, in quanto a «intelligenza pragmatica», i Neanderthal boys non erano secondi a nessuno; anzi, considerati i loro tempi e gli strumenti a disposizione, erano avanti alla grandissima, padroneggiando già gran parte delle attività (tessitura, caccia, comunicazione, trasporti, ecc.) che avrebbero trovato pieno sviluppo nelle ere successive. E che la Grotta Guattari fosse una sorta di galleria del vento di una nuova civiltà work in progress è evidente dai rilievi affiorati dall'ultima scoperta: la fotografia di una tappa fondamentale per l'evoluzione della specie umana», sottolineano. «Le caratteristiche di questo luogo - spiegano gli archeologi - permettono di tracciare un itinerario cronologico che dal passato remoto giunge fino al presente. Le condizioni di oggi sono infatti sostanzialmente le stesse di 100 mila fa e la presenza di fossili rende la grotta un'eccezionale banca dati». Un archivio i cui cassetti non riguardano il solo genere umano, ma interessano pure il mondo animale, faunistico e climatico. Consentendo di ricostruire virtualmente un intero ambiente naturale dove figurano resti di iena e diversi gruppi di mammiferi di grande taglia, tra cui l'uro: il grande bovino estinto che, raccontano gli esperti, «risulta una delle specie prevalenti insieme a cervi, rinoceronti, elefanti, orsi e cavalli». Le ricerche, per la prima volta, hanno riguardato parti della Grotta mai studiate, tra cui anche quella che l'antropologo Alberto Carlo Blanc ha chiamato «Laghetto» per la presenza di acqua nei mesi invernali. E proprio in quell'area sono stati rinvenuti diversi resti umani «tra cui una calotta cranica; frammenti di occipitale, cranio e mandibola; due denti; tre femori parziali e altri elementi ossei in corso di identificazione». «L'uomo di Neanderthal rappresenta il vertice del primo nucleo di società di cui possiamo parlare - precisa l'archeologo Francesco Di Mario -. Quelli scoperti nella grotta sono tutti individui adulti tranne uno forse in età giovanile. È una rappresentazione soddisfacente di una popolazione che doveva essere abbastanza numerosa in zona». Raggiante il ministro della Cultura, Dario Franceschini: «Davvero una cosa eccezionale. Ne parlerà tutto il mondo». Sperando che l'«evoluzione» del nostro Paese non si fermi qui.

Da “Leggo” l'8 maggio 2021. A più di 80 anni dalla scoperta della Grotta Guattari a San Felice Circeo (LT), una ricerca della Soprintendenza archeologica di Frosinone e Latina in collaborazione con l'Università di Tor Vergata ha portato alla scoperta di reperti fossili «attribuibili a 9 individui di uomo di Neanderthal». Lo annuncia il ministro della Cultura Franceschini, che sottolinea: «Un ritrovamento eccezionale che arricchisce le ricerche sul tema». Emersi anche resti di iena, rinoceronte, elefante, cervo gigante, dell'orso delle caverne e di altri animali. Le indagini, ancora in corso, sono cominciate nell'autunno del 2020 nell'ambito di una operazione di messa in sicurezza della grotta Guattari, che prende il nome dal suo scopritore, proprietario del terreno su cui insiste il sito e dove nel febbraio del 1939 fu rinvenuto un primo cranio. Già all'epoca, grazie agli studi del paleontologo Alberto Carlo Blanc, si era compresa immediatamente la grandissima rilevanza di questo sito, classificato come uno dei più importanti del paleolitico medio europeo. «Un ambiente assolutamente unico», spiega Mario Rolfo, docente di archeologia preistorica dell'Università di Tor Vergata, perché un crollo, forse dovuto ad un terremoto, ne chiuse l'ingresso circa 60 mila anni fa. Al suo interno, stratificata nel tempo, una straordinaria banca dati di elementi fossili, resti di vegetali, di umani e anche di animali dei quali non si conosceva la presenza in queste zone, elementi che secondo i ricercatori permetteranno ora di ricostruire la storia di tutto il Circeo e della pianura pontina, luoghi che l'uomo di Neanderthal ha frequentato per un arco di tempo che va da 300mila ad almeno 50mila anni fa. E questo, sottolinea Francesco Di Mario, funzionario archeologo della soprintendenza e direttore dello scavo, «grazie anche alle tecnologie attuali, di cui gli studiosi di metà Novecento non potevano assolutamente disporre». La nuova indagine si è estesa in particolare ad un'area della grotta che non era stata toccata nemmeno dal lavoro di Blanc. Si tratta della zona detta «del laghetto», perché da ottobre ad aprile viene allagata dalla falda sottostante. Proprio in quell'area sono stati rinvenuti diversi resti umani, tra cui una calotta cranica, un frammento di occipitale, frammenti di cranio (tra i quali si segnalano due emifrontali), frammenti di mandibola, due denti, tre femori parziali e altri frammenti in corso di identificazione. Tra i nuovi individui ricostruiti dagli archeologi, 9 in tutto che si aggiungono ai 2 già ricostruiti nel 1939, c'è una sola femmina. I resti risalgono comunque ad epoche diverse. In particolare 8 sono di ominidi vissuti tra i 50mila e i 68mila anni fa, mentre il più antico di loro avrebbe tra i 100mila e i 90mila anni. Ad arricchire il quadro una moltitudine di resti animali, a partire dalle iene che sono state le ultime ad usare la grotta come tana dove trascinavano le carcasse delle loro prede. Un elenco incredibile e affascinante che va dall'uro, un grande bovino oggi estinto, al cervo nobile, dal rinoceronte al cervo gigante (Megaloceros), dall'orso delle caverne all'elefante e al cavallo selvatico. Le indagini coinvolgono studiosi di diversi enti di ricerca: INGV, CNR/IGAG, Università di Pisa, Università di Roma La Sapienza. L'obiettivo, spiegano, è ricostruire il quadro paleoecologico della pianura Pontina tra i 125mila e i circa 50mila anni fa, quando quelli che sono sempre stati indicati come 'cugini’ dell'homo sapiens - misteriosamente estinti all'incirca nel 26.000 a.C. - frequentavano il territorio laziale. Scavi e indagini sono stati estesi anche all'esterno della grotta dove sono state individuate stratigrafie e paleosuperfici di frequentazione databili tra i 60mila e i 125mila anni fa che testimoniano i momenti di vita dell'uomo di Neanderthal, i luoghi dove stazionava e dove, accendendo il fuoco, si cibava delle proprie prede. Il ritrovamento di carbone e ossa animali combuste, spiegano i ricercatori, autorizza a ipotizzare la presenza di un focolare strutturato. «Una scoperta che permetterà di gettare una luce importante sulla storia del popolamento dell'Italia - fa notare Mario Rubini, direttore del servizio di antropologia della SABAP per le province di Frosinone e Latina -. L'uomo di Neanderthal è una tappa fondamentale dell'evoluzione umana, rappresenta il vertice di una specie ed è la prima società umana di cui possiamo parlare».

Giovanni D’Alessandro per “Avvenire” il 4 maggio 2021. Ci sono mostre di archeologia per specialisti e mostre a più esteso richiamo, ma poche entrano nell'immaginario collettivo con la forza di Gladiatori, inaugurata il 31 marzo scorso in anteprima digitale (per le limitazioni imposte dalla normativa Covid) al Museo Archeologico Nazionale di Napoli e che ha finalmente aperto i battenti al pubblico mercoledì 28 aprile (fino al 6 gennaio 2022). Un tesoro dentro al tesoro, questa mostra: le collezioni d'arte antica farnesiane, borboniche o di altra provenienza, coeve all'epoca dei gladiatori, fanno del MANN uno dei musei archeologici più importanti del mondo. Chi erano i gladiatori? Il loro nome li indica quali combattenti armati di gladio, cioè - di regola, non sempre - della corta spada usata nel combattimento corpo a corpo dei legionari romani, ma quanto esposto in mostra rivela tante altre forme di armamentario, da offesa o da difesa: come la spatha o spada, parola di origine germanica, lunga, dritta, ricurva, completamente diversa dal gladio e importata dall'esperienza bellica con altri popoli, annessi all'impero di Roma. I gladiatori erano specialisti, divisi per categorie non come gli odierni pugili per peso, ma in base appunto all'armamentario con cui si affrontavano tra categorie prefissate, sempre uguali. Il famoso mirmillone (dalla lunga spada e dal pesante elmo che copriva tutto il capo, con altre protezioni sul torace e le gambe) aveva come avversario fisso il trace (con elmo e spada anch' essa lunga, ma con più leggere protezioni per la testa e la parte superiore del corpo), il cui nome rivela l'origine dalla Tracia, le attuali Bulgaria e Romania del sud; mentre al notissimo reziario (l'armato di rete a pesi, per imbrigliare l'avversario, protetto da un giustacollo che dalla spalla sinistra si allungava a riparargli la gola) veniva contrapposto il secutor, 'l'incalzante' (dallo scudo ricurvo per non dare appigli alla rete, finire nella quale significava non avere più scampo dal coltello del reziario); infine il provocator (con gladio ed elmo liscio dotato di paranuca) era il gladiatore più mobile e l'unico a gareggiare solo con altri della propria categoria. La mostra si articola in sette sezioni di cui questa, 'Armi', è la seconda; nella prima, 'Riti per i funerali degli eroi e duello in onore dei defunti' si indaga, con qualche dubbio per la verità, la derivazione dal mondo greco di questo tipo di combattimenti (in realtà, prima di Roma la Grecia conosceva la lotta e il pugilato, non il combattimento mortale armato; semmai lo conoscevano gli etruschi); la terza sezione è dedicata alle 'Venationes o cacce di animali feroci', nelle quali si stima che nel corso dei secoli siamo stati sacrificati non meno di due milioni e mezzo di animali, catturati in ogni parte del mondo conosciuto; segue la toccante sezione 'Vita da gladiatori' la quale reca come sottotitolo 'Chi c'era sotto l'elmo' e narra la vita di questi esseri umani nella loro intimità e famiglia, quando ne avevano una; poi 'Anfiteatri della Campania', dove si trovavano arene e palestre tra le più importanti, come quelle di Santa Maria Capua Vetere, Pompei, Nola; ancora, 'I gladiatori erano dappertutto', perché c'erano arene in ogni parte dell'impero (moltissimi scheletri di gladiatori britanni sono stati recuperati a York, quasi ai confini con la Scozia); ultima sezione, 'Gladiatorimania', la più tecnologica, destinata anche al pubblico più giovane, con supporti multimediali coinvolgenti. La mostra si caratterizza per lo specialismo, che tuttavia non va a discapito della fruibilità da parte dei non addetti ai lavori: tutti godranno anche delle più particolari acquisizioni scientifiche recenti, o dei prestiti, di musei stranieri, per la prima volta giunti qui in Italia. Un'attenzione particolare viene riservata all'immensa ricaduta mediatico-narrativa dei gladiatori in ogni tipo di cultura contemporanea (per esempio anche nei fumetti, nei videogiochi, nelle serie televisive, nelle animazioni) lungo tutto il percorso espositivo, che presenta 160 reperti. Non si può dar conto qui nemmeno dei più importanti, ma va citato almeno il più raro, che proviene non dal Colosseo o dalla Campania, bensì da Basilea in Svizzera, esattamente dal contiguo sito archeologico di Augusta Raurica, e dunque da una provincia gallica. Da lì un mosaico pavimentale a tema gladiatorio di ben 70 mq (scoperto nel 1961) ha preso la via dell'Italia per la prima volta. Lo si guarda come un film; metro per metro, inquadratura per inquadratura, racconta i combattimenti non come farebbe un regista dì oggi; come farebbe invece una telecamera dimenticata nel fango della storia, che li avesse registrati al tempo in cui il grande mosaico (fine II sec. d.C.) veniva realizzato, e i gladiatori riempivano le arene dell'impero. 

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 29 aprile 2021. Centinaia di strumenti in pietra realizzati circa 700,000 anni fa sono stati scoperti in una miniera d'oro nel deserto del Sahara. Si ritiene che sia il più antico esempio confermato di produzione di utensili nel Sahara orientale con una cronologia ben confermata. Il "capanno degli attrezzi" preistorico è stato scoperto in una miniera abbandonata a circa 72 chilometri a est della città di Atbara, nell'area del deserto orientale Atbara River (EDAR). La corsa all'oro nel Sahara orientale ha portato alla luce numerose miniere a cielo aperto, offrendo agli archeologi una rara opportunità di esaminare gli strati di sedimenti esposti. I minatori hanno trovato strumenti che hanno un lato tagliente trasversale che assomiglia a un pugno e mannaie a forma di mandorla con bordi smussati su entrambi i lati. Poiché alcuni frammenti di pietra noti come "debitage" sono stati scoperti insieme agli strumenti finiti, gli archeologi ritengono che il sito fosse un laboratorio per la produzione di strumenti di pietra. Gli strati di terra e sabbia appena sopra gli strumenti sono stati datati a circa 390.000 anni fa grazie alla luminescenza otticamente stimolata (OSL), che utilizza l'ultima volta che il sedimento di quarzo è stato esposto alla luce. È possibile che parti più profonde della miniera contengano strumenti ancora più vecchi, ma l'instabilità della situazione politica nella regione ha reso difficile l'accesso.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 10 aprile 2021. Un team di archeologi ha annunciato la scoperta di una “città d'oro perduta” risalente a 3.500 anni e costruita dal nonno del re Tutankhamon: potrebbe essere la scoperta più significativa da quando la sontuosa tomba del ragazzo-faraone fu portata alla luce quasi un secolo fa. L'antica città faraonica, conosciuta come Aton, fu costruita dal re Amenhotep III, che governò intorno al 1390 a.C.. L'insediamento di Luxor è la più grande città antica scoperta in Egitto ed è completo di quartieri, strade, panetterie, laboratori e persino un sistema di sicurezza. La squadra si era posta l'obiettivo di scoprire il tempio funerario di Tutankhamon, dove il giovane re è stato mummificato, ma si sono imbattuti in qualcosa di molto più grande: dopo poche settimane di scavi, hanno scoperto "formazioni di mattoni di fango in ogni direzione." Ha detto in un comunicato Zahi Hawass dalla missione egiziana. "Molte missioni straniere hanno cercato questa città e non l'hanno mai trovata", ha dichiarato Hawass. Oltre alla città ben preservata, gli archeologi hanno portato alla luce stanze piene di strumenti usati nella vita quotidiana come anelli, vasi di ceramica colorata e mattoni di fango con i sigilli di Amenhotep. Luxor è famosa per essere sede della Valle dei Re e di alcuni dei siti archeologici più antichi d’Egitto. La zona un tempo era chiamata la "Grande Necropoli di Milioni di Anni di Faraoni", poiché vi sono state scoperte numerose mummie e strutture antiche. “La scoperta della Città Perduta ci darà non solo uno sguardo raro sulla vita degli antichi egizi nel momento di massimo splendore dell'Impero, ma ci aiuterà anche a far luce su uno dei più grandi misteri della storia: perché Akhenaton & Nefertiti decisero di trasferirsi ad Amarna.” Ha detto Betsy Brian, professore di egittologia presso la John Hopkins University di Baltimora. Gli scavi sono iniziati a settembre 2020 e gli archeologi sono riusciti a datare l'insediamento grazie all’analisi di iscrizioni geroglifiche trovate su tappi di argilla di vasi di vino. "I riferimenti storici ci dicono che l'insediamento era costituito da tre palazzi reali del re Amenofi III nonchè centro amministrativo e industriale dell'Impero" hanno detto gli archeologi in una dichiarazione. La maggior parte della città è venuta alla luce durante gli scavi durati solo sette mesi, il che ha portato alla luce quartieri con diverse strutture. Il team sta ancora lavorando su una seconda parte di Aton che, sebbene ancora parzialmente coperta: ritengono sia il distretto amministrativo e residenziale. Quest'area è circondata da un muro a zig-zag e presenta un unico punto di accesso che conduce a corridoi interni e zone residenziali. "L’ingresso unico ci fa pensare che si trattasse di una sorta di sicurezza, con la capacità di controllare l'entrata e l'uscita in aree chiuse - hanno spiegato i ricercatori - I muri a zigzag sono uno dei rari elementi architettonici dell'antica architettura egizia, utilizzati principalmente verso la fine della XVIII dinastia." Una terza area sembra contenere le officine che hanno costruito i mattoni di fango utilizzati per costruire la città. Infatti, sono stati ritrovati dei mattoni con sopra i sigilli del re Amenhotep III e altri con iscrizioni che in cui si legge: "gm pa Aton" che può essere tradotto come "Il dominio dell'abbagliante Aton", ovvero il nome di un tempio costruito dal re Akhenaton a Karnak, il padre del re Tutankhamon. In un’altra parte del sito archeologico, gli esperti hanno anche scoperto grandi stampi per la realizzazione di amuleti e delicati oggetti decorativi. "Questa è un'ulteriore prova della vasta attività in città per la produzione di decorazioni sia per i templi che per le tombe", hanno detto gli archeologi. Oltre agli elementi strutturali, all'interno delle mura cittadine sono presenti anche sepolture rinvenute di animali insieme ai resti di una persona trovata con le braccia tese e una corda a brandelli avvolta attorno alle ginocchia. Il team ha affermato di essere ottimista sul fatto di poter rilevare ulteriori importanti scoperte, confermando di aver individuato gruppi di tombe raggiunte tramite "scale scavate nella roccia" molto simili a quelle trovate nella Valle dei Re. "La missione prevede di scoprire tombe incontaminate piene di tesori".

Dagotraduzione dalla Bbc il 22 aprile 2021. I Rotoli del Mar Morto, antichi e misteriosi manoscritti giudaici, sono stati realizzati da due persone diverse. È quanto ha scoperto un gruppo di ricercatori dell'Università di Groningen, nei Paesi Bassi, grazie all'Intelligenza Artificiale. I Rotoli, tra i quali è stata ritrovata la più antica versione conosciuta della Bibbia, sono stati fonte di mistero e fascino fin dalla loro scoperta, circa 70 anni fa. I primi manoscritti sono stati ritrovati da un beduino in una grotta a Qumran, vicino al Mar Morto, in quella che ora è la Cisgiordania occupata da Israele. Scritti in ebraico, aramaico e greco, si ritiene risalgano al III secolo a. C. circa. Negli anni 40 e 50 ne sono stati rinvenuti circa 950. Per la loro ricerca gli studiosi hanno analizzato il Rotolo di Isaia per via della sua particolarità: le sue 54 colonne sono infatti divise a metà. E hanno scoperto che a realizzare il manoscritto sono stati probabilmente due scriba diversi. In un articolo Mladen Popovic, Maruf Dhali e Lambert Schomaker, che hanno seguito il progetto, hanno detto di essere «riusciti a estrarre le antiche tracce di inchiostro. Le antiche tracce di inchiostro si riferiscono direttamente al movimento muscolare di una persona e sono specifiche di ognuno». «Lo scenario probabile è quello di due scribi diversi che lavorano a stretto contatto e cercano di mantenere lo stesso stile di scrittura ma rivelando se stessi, la loro individualità». I ricercatori hanno spiegato che la somiglianza nella scrittura suggerisce che gli uomini potrebbero aver seguito la stessa formazione in una scuola o in famiglia, come quella di «un padre che insegna a scrivere a un figlio». Non solo. La loro grande capacità di imitarsi l'un l'altro è stata così buona che finora gli studiosi moderni non erano stati in grado di distinguerli.

Davide Frattini per corriere.it il 20 ottobre 2021. Le conchiglie, la sabbia ormai diventata pietra e il sale del mare trasformato in pietre preziose coprono il ferro. Non nascondono che quella reliquia un tempo serviva per difendersi o attaccare e uccidere lungo questa costa che novecento anni fa era un approdo di guerra. Al largo del monte Carmelo, verso il nord e il Libano, un sommozzatore israeliano ha individuato il reperto che gli archeologi fanno risalire ai tempi dei crociati. In una delle baie più protette fortificarono le mura di San Giovanni d’Acri considerata la porta d’ingresso verso Gerusalemme, i bastioni resistettero anche all’assedio di Napoleone che provò a conquistare la cittadina per due mesi. Shlomi Katzin era sceso sott’acqua in cerca di metalli, ancore e resti di navi, ha individuato la spada lunga un metro probabilmente emersa da sotto la sabbia per le correnti più forti in questa stagione che porta le prime tempeste autunnali. Ha deciso di portarla via per evitare che venisse rubata e adesso è conservata al Dipartimento per i tesori nazionali e gli studiosi sono convinti che nella baia si nascondano altri simboli delle tante guerre nel Levante che ancora non finiscono.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 15 aprile 2021. Un team d’archeologi in Israele afferma di aver trovato il "tassello mancante" nella storia del primo alfabeto grazie a un'iscrizione su un frammento di ceramica scoperto a Tel Lachish, risalente intorno al 1450 a.C. I ricercatori affermano che la data del frammento è importante in quanto individua un momento nell'evoluzione dell'alfabeto in precedenza sconosciuto. Il frammento di ceramica è lungo poco meno di 4 cm e sembra che facesse parte del bordo di una ciotola cipriota importata. La superficie interna è inscritta con un inchiostro scuro, mentre l'esterno presenta un motivo angolare. Secondo gli esperti, la maggior parte delle lettere è simile ai geroglifici egiziani già in uso centinaia di anni prima. Anche le lettere sul frammento si basano su questi primi geroglifici, dicono. Sebbene la natura frammentata del coccio renda difficile la traduzione, i ricercatori suggeriscono che ci sia scritto "schiavo" (forse parte del nome di qualcuno) e "nettare" o "miele". Nonostante il significato dell'iscrizione sia ancora sconosciuto, ha comunque un "impatto drammatico" sulla comprensione della storia dell'alfabeto. "Questo frammento è uno dei primi esempi della prima scrittura alfabetica trovati in Israele", ha affermato il dott. Felix Höflmayer dell'Accademia austriaca delle scienze e autore principale della ricerca. "La sua semplice presenza ci porta a ripensare l'emergere e la proliferazione del primo alfabeto nel Vicino Oriente." I ricercatori avevano precedentemente trovato prove dello sviluppo dell'alfabeto nel Sinai (una penisola in Egitto) intorno al 1800 a.C., prima che si diffondesse nel Levante (regione nel Mediterraneo dell'Asia occidentale) intorno al 1300 a.C. Da lì, iniziò a diffondersi in tutto il Mediterraneo, sviluppandosi infine nell’alfabeto greco e latino. Questo frammento - che è stato analizzato con tecniche di datazione al radiocarbonio - rivela che il primo alfabeto è stato introdotto prima. Sebbene gli scavi siano stati intrapresi a Tel Lachish negli anni '70 e '80, sono stati rinnovati nel 2017 per “approfondire la comprensione della media e tarda età del bronzo” con l'aiuto della datazione al radiocarbonio. Il frammento è stato trovato nel 2018 da un team archeologico austriaco nel sito di Tel Lachish nella regione di Shephelah nell'odierna Israele, ma i ricercatori hanno appena riportato la loro scoperta sulla rivista Antiquity. Il team spera di effettuare ulteriori scavi nel sito per rivelare di più su questo importante periodo della storia del primo alfabeto.  

Da "leggo.it" l'8 aprile 2021. In un primo momento si credeva che fosse una semplice lastra ornamentale, utilizzata per una tomba. In realtà, dopo oltre un secolo, gli archeologi hanno scoperto che si tratta, con tutta probabilità, della mappa 3D più antica d'Europa. La lastra in questione era stata rinvenuta da alcuni archeologi nel 1900 a Leuhan, nella regione della Bretagna, in Francia. Il rinvenimento si deve all'archeologo Paul du Chatelier, che aveva individuato con esattezza che si trattava di una lastra ornamentale risalente all'inizio dell'Età del Bronzo (2150-1600 avanti Cristo), ma che non aveva capito la ricchezza del messaggio che quella scoperta celava in sé. La lastra faceva parte di una tomba e, dopo la sua scoperta, era stata trasferita al castello di Kernuz, che Chatelier utilizzava come residenza e museo privato. La lastra era sempre rimasta lì, conservata in una cavità nel seminterrato per oltre un secolo. Solo nel 2014, quella lastra era stata nuovamente rinvenuta e tre anni dopo gli archeologi avevano iniziato a studiarla con attenzione, esaminando ogni minimo dettaglio con diverse tecniche analitiche. Grazie alle tecniche fotografiche e ad alcuni strumenti 3D e HD, gli esperti dell'Istituto francese di indagini archeologiche (Inrap), quelli del Centro nazionale di indagini scientifiche (Cnrs) e i ricercatori delle università di Bournemouth e della Bretagna occidentale, hanno potuto fare una scoperta assolutamente clamorosa, rivelata nelle conclusioni di uno studio. I dettagli presenti sulla lastra hanno permesso di stabilire che quell'oggetto non è altro che una mappa cartografica di epoca preistorica, la quale presenta una composizione omogenea, una ripetizione di motivi come linee rette o curve, ma anche simboli associati tra loro da una relazione spaziale. Per comprovare la loro ipotesi, i ricercatori hanno comparato quella lastra con altri oggetti simili della preistoria europea, ma anche con quelli dei tuareg e degli aborigeni australiani. Il blocco analizzato dai ricercatori, realizzato in scisto, ha un colore grigio tendente all'azzurro ed ha una lunghezza di 2,20 metri, una larghezza di 1,53 metri e uno spessore di 16 centimetri. Esaminando più attentamente la superficie, i ricercatori sono arrivati a concludere che la topografia di quella lastra era stata modellata per rappresentare, in tre dimensioni, la valle del fiume Odet, che attraversa quasi tutta la Bretagna prima di sfociare nell'Oceano Atlantico. Si tratta probabilmente, spiegano i ricercatori, di una mappa 3D ricostruita mentalmente, dal momento che alcuni elementi rappresentanti possono essere sovradimensionati e le posizioni degli elementi non rispettano in proporzione le distanze che li separano. La lastra di Saint-Bélec, come è stata ribattezzata, secondo gli esperti rappresenterebbe il territorio di un'entità politica fortemente gerarchizzata, che controllava in maniera totale un determinato territorio all'inizio dell'Età del Bronzo.

"Figli di Marte": così Roma piegò i suoi nemici. Tito Livio scrisse che i romani potevano legittimamente definirsi "figli di Marte" per la padronanza dell'arte della guerra. Gastone Breccia ha indagato il rapporto tra l'Urbe e gli affari militari. Andrea Muratore - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. La storia di Roma è una storia di progetti, uomini, idee. Storia dell’ambizione di una città, della sua classe dirigente, di una civiltà partita dal cuore profondo del Lazio per farsi egemone dell’Italia e del Bacino del Mediterraneo. Trasversale alle fasi di espansione, consolidamento e crisi di Roma è la storia delle sue armate. Che per circa un millennio hanno combattuto in nome della Res Publica, fondato le premesse per l’arte della guerra moderna, evoluto con pragmatismo tecniche e approcci, appreso dalle disfatte e dal sangue versato. Pochi libri nella pubblicistica italiana permettono di capire il legame ombelicale che unisce la storia delle aquile legionarie romane alla storia dell’Urbe quanto I Figli di Marte – L’arte della guerra nell’Antica Roma (Mondadori, 2012), saggio dello storico militare Gastone Breccia. Breccia, nel saggio presta una grande attenzione al fattore umano nello sviluppo delle strategie e delle dinamiche militari. Ne I figli di Marte questa chiave di lettura assurge a filo conduttore. Lo capiamo laddove Breccia descrive l’esercito di Cesare schierato in Gallia nel 57 a.C: “i legionari” – scrive – “non sono solo bene armati e bene addestrati, ma sono così esperti nelle cose della guerra (superioribus proeliis exercitati) da non perdere la testa nemmeno davanti a una crisi improvvisa; più ancora, sono uomini capaci di iniziativa individuale, benché sempre nel contesto di un’azione collettiva”. Una lettura attenta, che segnala l’originalità dello studio operato da Breccia nell’opera. L’autore è attento a leggere trasversalmente i fattori che hanno caratterizzato l’evoluzione degli eserciti romani: la caratteristica del soldato “medio”, la composizione degli eserciti, l’evoluzione degli armamenti, le codificazioni del pensiero strategico. Studiando il miles, comprendiamo il vir, l’uomo romano, nella sua evoluzione da cittadino in armi a soldato professionista sulla scia dell’espansione della Repubblica e dell’Impero e dell’ampliamento della cittadinanza romana a una platea crescente di provinciali. Mai nella storia umana si è verificata una consustanziazione tale tra un popolo e le sue forze armate, tra il pensiero civile e gli ideali animanti le forze armate. Mai nell’antichità uno Stato ha saputo programmare una forza armata capace di essere al tempo stesso capace di conquistare, presidiare e trasformare materialmente con le opere di ingegneria e la colonizzazione i territori in cui avanzava. Il titolo stesso del libro prende il nome dalla celebre espressione di Tito Livio, che legittimamente affermava che Roma avrebbe potuto rivendicare come vera la sua discendenza dal Dio della Guerra. Le legioni sono state Roma, Roma è stata le sue legioni. Il legame è stato a doppio filo: per un abitante delle province l’espressione civis Romanus sum, fonte di orgoglio e della possibilità di accedere ai privilegi della civiltà dell’Urbe, si sovrapponeva con la consapevolezza della necessità di contribuire alle prospettive strategiche della Res Publica. Così come il legame privilegiato tra l’Impero e le terre conquistate veniva saldato dall’invio di truppe ausiliarie da parte delle province e dei clientes. Non a caso, nota Breccia, nel giudizio della storia su Roma il ruolo della guerra è rimasto ai primi posti come canone interpretativo, “anche nella valutazione dei moderni che nei secoli hanno studiato e ammirato la gloria di Roma, tentando più o meno efficacemente di interpretare, attualizzare e imitare i suoi ordinamenti militari: da Machiavelli a Justus Lipsius, da Francesco I di Francia a Napoleone, dai teorici del XVIII secolo a Sir Basil Liddell Hart, che reputava Scipione l’Africano uno dei più grandi condottieri di ogni tema”. Machiavelli e prima di lui Tommaso d’Aquino, non a caso, elogiarono la “Bibbia” dei testi militari romani, l’Epitoma rei militaris scritta da Publio Vegezio nella prima metà del V secolo; Bonaparte, von Clausewitz e Federico il Grande lo considerarono un punto di riferimento della loro formazione strategica. Interessante è anche la lezione che Breccia fa della capacità romana di resistere e sopravvivere alle diverse disfatte belliche in cui la Res Publica incorse durante la sua storia. Disfatte che, fatto interessante per una macchina bellica rodata come quella romana, erano riconducibili generalmente a due possibili “canovacci”: o l’accerchiamento delle unità (come a Canne contro Annibale) o la caduta delle legioni in un’imboscata (come a Teutoburgo nel 9 d.C.). Disfatte a cui si aggiungono casi atipici come la rotta di Crasso a Carre, del 53 a.C., in seguito all’inghiottimento delle legioni nel deserto e all’azione della cavalleria dei Parti, o la sconfitta di Adrianopoli, nel 378 d.C., che segnò l’inizio della fase finale dell’Impero. Che sarebbe, comunque, restato in piedi ancora per un secolo. Da queste disfatte Roma imparò la capacità di reagire strategicamente e con un filo conduttore politico a cui quasi mai i governi dell’Urbe derogarono: mai negoziare dopo una sconfitta. Solo un popolo in grado di padroneggiare i segreti e i misteri dell’arte della guerra avrebbe potuto porre come regola aurea una scelta tanto impegnativa e coraggiosa. Ma la costanza dell’esercito romano stava proprio nella sua capacità di imparare dall’esperienza, sia che si trattasse del contatto con un territorio nuovo da plasmare attraverso opere ingegneristiche a uso e consumo delle armate sia che si trattasse di recuperare il morale e la volontà di riscossa dopo una sconfitta sanguinosa. Roma fu figlia della guerra e “levatrice” della sua trasformazione in strutturata professione umana. Breccia aiuta a leggere l’opera dei “figli di Marte” da una prospettiva storica e a capire perché l’influenza della macchina militare romana sia rimasta così viva nei secoli.

Laura Larcan per il Messaggero il 6 marzo 2021. Gli archeologi la chiamano già la rotonda sul mare. Anzi, sotto al mare, perché la monumentale struttura circolare del diametro di oltre cinquanta metri è completamente sommersa. E la suggestione è sempre forte. A riaccendere i riflettori su questa titanica struttura che affonda (è proprio il caso di dirlo) le murature nei fondali sabbiosi di fronte a Cerveteri, in località Campo di Mare, sono stati gli ultimi fortuiti ritrovamenti. Lunedì scorso un capitello perfettamente conservato nelle sue decorazioni a rilievo, e due giorni fa la sua ciclopica colonna in marmo cipollino di ben quindici quintali di peso e oltre due metri e mezzo di lunghezza. Erano sul fondo, liberati dai sedimenti sabbiosi, a quasi tre metri di profondità e appena dieci dalla costa etrusca. Quando si dice che l' acqua restituisce la storia millenaria del territorio. Complice, nel bene e nel male, l' erosione del lido, che sta scavando nel vero senso della parola fior di testimonianze. «Questa gigantesca struttura circolare sommersa era nota fin dagli anni Sessanta del secolo scorso quando venne intercettata e interpretata come peschiera per l' allevamento del pesce - commenta Rossella Zaccagnini, archeologa responsabile di zona per la Soprintendenza dell' Etruria meridionale - ma queste nuove scoperte ci spingono a rivedere tutta l' interpretazione del sito. L' interrogativo è immediato: perché mai in una peschiera dovrebbe esserci una colonna, decorata finemente con tanto di capitello? Non è l' elemento architettonico tipico di una peschiera». Si ricompongono i pezzi di un puzzle enigmatico per un monumento dalla fisionomia sempre più insolita. «L' ipotesi - continua l' archeologa - è che si tratti in realtà del triclinio acquatico pertinente ad una villa romana di età imperiale che per ora resta sconosciuta». Una sala circolare per banchetti, un luogo di delizie e otium, tanto caro a senatori e personalità aristocratiche che su questo versante di costa amavano soggiornare nelle loro ville ad un solo giorno di distanza da Roma(lo stesso Pompeo ne è un esempio). «La colonna forse faceva parte di un porticato che caratterizzava una porzione del triclinio». Insomma, di lavoro sull' arenile ce n' è stato nelle ultime ore, dopo la segnalazione provvidenziale scattata la settimana scorsa dal pescatore subacqueo Roberto Gallo che durante un' immersione aveva intercettato il capitello, chiamando subito la Municipale di Cerveteri. La sinergia con la Capitaneria di porto di Ladispoli e l' équipe di archeologi subacquei della Soprintendenza guidata da Margherita Eichberg è stata risolutiva. Le prime indagini, in un' acqua torbida dopo le mareggiate (condizione che non rendeva semplicissime le manovre), sono state condotte da Barbara Barbaro e Egidio Severi. Poche ore dopo, l' individuazione della colonna, che si abbinava perfettamente al capitello, proprio a ridosso del monumento: «Siamo di fronte a strutture in opera laterizia e tufo, molto robuste, disposte ad anello secondo un doppio muro circolare, che conservano anche grossi fasciami di legno, lunghe tavolate protette dalla sabbia», racconta Zaccagnini. Le indagini ora non finiscono qui. L' obiettivo dello staff della Soprintendenza è di allargare le analisi a tutta l' area da cui si aspettano altre sorprese. La costa etrusca sembra essere molto generosa in questo periodo. Dalle acque di Santa Marinella è riaffiorato qualche giorno fa persino un miliario romano dell' antica via Aurelia, con un' iscrizione intatta.

Chiara Clausi per “il Giornale” il 19 febbraio 2021. Un mistero durato 3.600 anni, una storia di regni grandiosi e maestosi. E che ora uno studio su Frontiers of Medicine ha svelato: sono i dettagli sull' uccisione del faraone Seqenenre Taa II, «il valoroso», che regnò sull' Egitto meridionale, e guidò le truppe contro gli Hyksos, una dinastia di origine dell' Asia occidentale che aveva conquistato il delta del Nilo. Il sovrano governò intorno al 1.558 A. C., durante l' occupazione dell' Egitto da parte degli Hyksos. Questa popolazione controllava l' Egitto settentrionale e richiedeva tributi alla parte meridionale del regno. È nella guerra tra questi due domini che perse la vita il faraone Seqenenre Taa II: potrebbe essere stato catturato sul campo di battaglia, travolto da aggressori armati di pugnali, asce e lance. Le nuove scoperte suggeriscono che Seqenenre era davvero «in prima linea con i suoi soldati, rischiando la vita per liberare l' Egitto», ha precisato l' autore principale dello studio Sahar Salim, professore di radiologia all' Università del Cairo. Il suo corpo - scoperto nel 1881 nella necropoli tebana - era stato esaminato ai raggi X negli anni Sessanta, rivelando ferite alla testa nascoste con cura dagli imbalsamatori. In base a questi studi si pensava che il faraone fosse stato ucciso in battaglia o in un assassinio a palazzo. Ma dopo aver utilizzato i raggi X da più angolazioni per costruire un' immagine 3D della mummia del sovrano egizio l' archeologo Zahi Hawass e Salim hanno concluso che era stato ucciso in una «cerimonia» dove venne «giustiziato» dopo essere stato fatto prigioniero. I ricercatori hanno poi studiato le ferite confrontandole con varie armi Hyksos conservate al Museo Egizio del Cairo, tra cui un' ascia, una lancia e diversi pugnali. In base alle analisi, sembra che il faraone sia stato ucciso da almeno cinque boia e scansioni ossee mostrano che aveva circa 40 anni quando morì. Ma sono emersi anche altri particolari sulla macabra uccisione. Le mani deformate della mummia indicano che Seqenenre Taa II potrebbe essere stato catturato sul campo di battaglia, e le sue mani legate dietro la schiena, impedendogli di deviare l' attacco feroce sferrato sulla sua testa. Ma la scintilla che fece scoppiare la battaglia tra i due imperi è degna di un racconto di terre lontane e mitiche. Secondo alcuni frammenti di papiro, Seqenenre Taa II si ribellò contro gli occupanti Hyksos dopo aver ricevuto una lamentela da parte del loro re. Il sovrano sosteneva che il rumore degli ippopotami in una piscina sacra a Tebe stava disturbando il suo sonno. Il sovrano viveva nella capitale Avaris, a 644 chilometri di distanza. Quindi era un chiaro pretesto, per scatenare un conflitto per espandere il proprio territorio. Ma il re Hyksos non si fermò solo a questo: chiese che la piscina sacra fosse distrutta, un grave affronto a Seqenenre Taa II, che non si tirò indietro per difendere il suo regno. Questo si pensa possa essere stato il preludio alla guerra. Ma sebbene Seqenenre Taa II abbia perso la vita in battaglia, i suoi successori alla fine hanno vendicato il suo onore, vincendo la guerra. E «il valoroso» è stata riabilitata: ha lottato fino alla fine con coraggio.

Da "Ansa" il 15 febbraio 2021. Archeologi americani ed egiziani hanno scoperto quello che potrebbe essere il più antico birrificio di cui si conosca l'esistenza e uno dei maggiori siti archeologici in Egitto al momento noti. Lo scrivono diverse testate internazionali fra cui il Guardian. L'antica fabbrica di birra è stata scoperta ad Ayudos - ha spiegato Mostafa Waziri, segretario generale egiziano per il Consiglio egiziano delle antichità - territorio che fu dedicato alla sepoltura dei defunti che si trova nel deserto a ovest del Nilo, oltre 450 km a sud del Cairo. Apparentemente il birrificio risale ai tempi del re Narmer, o anche noto come il faraone Menes, semi-leggendario primo unificatore dell'Alto e del Basso Egitto. La missione archeologica è copresieduta da Matthew Adams, dell'Institute of Fine Arts, della New York University, e da Deborah Vischak, docente di Storia dell'arte antica egiziana alla Princeton University. Secondo Adams probabilmente il birrificio era stato costruito in questa zona per fornire la birra utilizzata in alcuni dei riti sacrificali dell'epoca.

Stefano Porciello per “il Messaggero” il 14 febbraio 2021. I resti del leggendario pirata inglese Samuel Black Sam Bellamy potrebbero essere stati finalmente trovati nei pressi del sito del naufragio della sua nave, il Whydah, affondata al largo di Wellfleet, nel Massachusetts, nel 1717. Uno scheletro? Non proprio: si tratta resti umani appartenenti a diversi pirati e della speranza di un colpo di fortuna. Secondo le notizie riportate da diversi media angloamericani, che citano fonti del Whydah Pirate Museum di Yarmouth, le ossa o quanto ne rimane di sei pirati sarebbero state identificate all' interno di alcuni ammassi compatti di materia recuperati nei pressi del sito che, se passati ai raggi X, rivelano il loro segreto. Si tratta di concrezioni di sabbia e roccia formate sul fondo dell' oceano e che, a quanto pare, avrebbero catturato al loro interno manufatti, monete e in questo caso anche resti umani. «Ci auguriamo che la tecnologia moderna d' avanguardia ci aiuti a identificare questi pirati e a riunirli con eventuali discendenti che potrebbero essere là fuori», ha dichiarato l' esploratore subacqueo Barry Clifford, che nel 1984 ha scoperto il sito del naufragio. Ora, si spera nel colpo grosso: riuscire a ricollegare almeno uno dei resti umani ritrovati al leggendario pirata, identificando i resti di Bellamy grazie al Dna. A disposizione del team investigativo del museo ci sarebbe un campione adatto al confronto, ottenuto nel 2018 da un discendente inglese del capitano del Whydah. Già allora, infatti, il ritrovamento di resti umani aveva fatto trattenere il fiato finché l' analisi del DNA non ha rivelato che l' osso analizzato proveniva da un uomo in qualche modo legato all' area del Mediterraneo orientale, ma che purtroppo non era Bellamy. Ora, la notizia delle nuove scoperte riaccende l' interesse verso la storia del pirata e su parte del suo tesoro raccolto al Whydah Pirate Museum. La collezione del museo è infatti basata sui ritrovamenti fatti nel sito archeologico scoperto nell' 84, e vanta anche una collezione di 15.000 monete dell' epoca. Si tratta solo di una parte del patrimonio di manufatti recuperati in questi 38 anni, che secondo un recente articolo del Boston Globe sarebbero circa 180.000. Non a caso, Samuel Black Sam Bellamy è ricordato per una carriera piratesca eccezionale, per quanto breve. All' epoca del naufragio aveva circa ventotto anni, ma era già riuscito ad accumulare un patrimonio impressionante. Nel 2008, Forbes aveva scritto di lui come del pirata con i più grandi guadagni di sempre, valutando in circa 120 milioni di dollari il patrimonio accumulato nella sua carriera. Uno dei colpi più importanti sarebbe stata proprio la cattura del Whydah, precedentemente usata per la tratta degli schiavi, dove - scrive Forbes - sarebbero state contenute qualcosa come quattro tonnellate di oro e argento. E se la storia della ricerca dei resti di Samuel Black Sam Bellamy dovesse concludersi con un fiasco anche questa volta, nel sito archeologico del Whydah sembra esserci ancora molto da scoprire. «Abbiamo portato su meno del 10% di quello che dovrebbe essere sulla nave», ha dichiarato Clifford al giornalista del Boston Globe, in un articolo pubblicato all' inizio di quest' anno. Articolo in cui si accenna all' esistenza di ben 300 concrezioni già recuperate e che erano, allora, ancora da aprire.

Francesca Mancuso per "greenme.it" il 2 febbraio 2021. Una linguaccia direttamente dall’antichità. Un gesto di scherno per noi che viviamo in un’epoca di incertezze? In Egitto un team di archeologi ha appena ritrovato una mummia risalente a 2000 anni fa, con una particolarità: ha una lingua d’0ro perfettamente conservata. Un’altra scoperta arriva dall’Egitto e in particolare da quello che anticamente era il sito di Taposiris Magna. Qui un gruppo di scienziati dell’Università di Santo Domingo ha fatto un bizzarro ritrovamento. Gli archeologi, guidati da Kathleen Martinez hanno scoperto la mummia in una delle 16 tombe di Taposiris Magna, che vanta templi dedicati a Osiride e Iside. Nello stesso luogo, in passato, è stato trovato un tesoro di monete decorate con il volto di  Cleopatra VII, suggerendo che i templi fossero in uso durante il regno della regina. Ma l’ultimo ritrovamento riguarda una particolare mummia, con lo strano organo in bella vista. Il ministero delle antichità egizie presume che gli imbalsamatori possano aver posto la lingua d’oro sulla mummia per assicurarsi che il defunto potesse parlare nell’aldilà. Ad esempio, se la mummia dalla lingua d’oro avesse incontrato Osiride, il dio degli inferi, sarebbe stata in grado di parlare con il dio. Rimane comunque il mistero sul materiale con cui è stata realizzata. Insieme alla mummia, sono state trovate altre 15 tombe tutte risalenti a circa 2.000 anni fa e contengono un tesoro notevole. In una di esse è presente una mummia di sesso femminile con una maschera mortuaria che copre gran parte del suo corpo e la raffigura con un copricapo mentre sorride.  Due delle mummie sono state trovate con i resti di rotoli, che gli studiosi stanno attualmente analizzando e decifrando. Gli strati intonacati che racchiudono una di queste mummie hanno decorazioni dorate dedicate a Osiride. I ricercatori hanno anche trovato diverse statue che raffigurano le persone sepolte nel sito. Alcune sono così ben conservate che si possono ancora distinguere le acconciature. Non si sa con precisione quando siano morti tali individui ma per gli archeologi il lasso di tempo è quello in cui l’Egitto era governato dai Tolomei (dal 304 a.C. al 30 a.C.), i discendenti di uno dei generali di  Alessandro Magno.

Da lastampa.it il 10 maggio 2021. I ricercatori polacchi hanno scoperto che un'antica mummia egizia, che stavano esaminando, è di una donna incinta di sette mesi, e non di un sacerdote maschio come avevano ipotizzato inizialmente. Si tratta del primo caso al mondo noto di una mummia di una donna incinta così ben conservata. La mummia è arrivata a Varsavia nel 1826 e l'iscrizione sulla bara fa riferimento a un sacerdote maschio. Nessun esame fino a quello attuale aveva smentito la convinzione che si trattasse di un uomo. «La nostra prima sorpresa è stata che non aveva un pene, ma il seno e capelli lunghi, poi abbiamo scoperto che è una donna incinta», ha detto Marzena Ozarek-Szilke, antropologa e archeologa, «Quando abbiamo visto il piedino e poi la manina (del feto), siamo rimasti davvero scioccati». Gli studiosi stimano che la donna avesse tra i 20 e i 30 anni e che fosse incinta di 26-28 settimane, a giudicare dalle dimensioni del cranio del bambino. I ricercatori affermano che l'eccellente qualità dell'imbalsamazione suggerisce che potrebbe essere stata eseguita ben prima del I secolo a.C., così come era stata datata. Le scoperte del Warsaw Mummy Project su questa e altre mummie al Museo Nazionale di Varsavia sono state pubblicate questa settimana sul Journal of Archaeological Science.

"Alessandro Magno non era gay". Tutto su Alexander. Alexander è il film epico che porta sul grande schermo la figura di Alessandro Magno. Tuttavia, il ritratto fornito dal regista Oliver Stone ha fatto storcere il naso a un gruppo di avvocati greci, contrari alla rappresentazione della bisessualità del protagonista. Erika Pomella, Mercoledì 20/01/2021 su Il Giornale. Alexander è la pellicola firmata dal regista Oliver Stone che cerca di portare sul grande schermo la figura storica del condottiero Alessandro Magno che nel film viene interpretato dall'attore irlandese Colin Farrell. Il film, in onda questa sera su Iris alle 21.10, fa affidamento su un cast davvero eccezionale. Oltre al già citato Farrell, infatti, nel film trovano spazio Angelina Jolie nei panni di Olimpiade, Val Kilmer in quelli di Filippo e Anthony Hopkins in quelli di Tolomeo.

Alexander, la trama. L'anno è il 323 a.C. e a Babilonia Alessandro Magno sta esalando l'ultimo respiro. Tutto ciò che è stato del grande re della Macedonia sembra morire insieme a lui. Tuttavia la sua storia viene raccolta a tramandata da Tolomeo, re d'Egitto, che comincia a raccontare della storia del giovane Alessandro, da quando veniva addestrato da Aristotele, a quando viene bandito dal padre, che aveva sempre avuto delle difficoltà ad accetterlo. Tuttavia quando il padre Filippo muore, Alessandro è ormai un uomo e può iniziare la sua marcia di conquista, con lo scopo di diventare un personaggio immortale. Intanto, mentre le sue capacità di leadership aumentano e si manifestano come innarrestabili, l'uomo deve affrontare anche i suoi sentimenti, soprattutto quelli che lo legano all'amico Efestione (Jared Leto).

La minaccia legale contro Alexander e la sua omosessualità. Con la sua durata di 207 minuti, il film Alexander uscì al cinema nel 2004 e sebbene venne considerato un fallimento al botteghino, riuscì ad avere ottimi incassi nel mercato home video. Tuttavia le reazioni non furono positive in ogni angolo del mondo. Come racconta il sito dell'Internet Movie Data Base, infatti, Alexander andò incontro alla rabbia di alcuni avvocati greci che non solo annunciarono di voler boicottare il film, ma addirittura minacciarono un'azione legale contro il regista Oliver Stone. Secondo una ricostruzione del The Guardian, gli avvocati mandarono una nota alla Warner Bros. annunciando di essere pronti a intraprendere un'azione legale se non si fosse sottolineato come Alexander fosse un'opera di fantasia e che perciò non ricalcava la realtà dei fatti. Il problema, in Alexander, era che Oliver Stone aveva deciso di tratteggiare i lineamenti di un re guerriero, mostrandone anche la bisessualità e l'aperta attrazione verso i ragazzi. Il leader di questo movimento legale, Yannis Varnakos, spiegò i motivi dietro la minaccia di una causa legale e disse:"Non stiamo dicendo di essere contro i gay. Ma stiamo dicendo che la casa di produzione dovrebbe rendere chiaro che il film è un'opera puramente di fantasia e non rappresenta una reale rappresentazione della vita di Alessandro Magno." A questa dichiarazione fu allegata una nota aggiuntiva in cui si chiedeva che nei titoli d'apertura del film venisse scritto a chiare lettere che Alexander era un'opera di fantasia sulla vita dell'imperatore macedone. "Non abbiamo visto il film," disse Varnakos nella sua dichiarazione, per poi continuare a battere sempre sullo stesso punto: "Ma da quello che sappiamo sono stati fatti dei riferimenti all'omosessualità di Alessandro Magno e sono inappropriati. In nessun documento o archivio ci sono riferimenti all'omosessualità dell'imperatore. O mettono in chiaro che è un'opera di fantasia o procederemo." Tuttavia, alla fine gli avvocati greci dovettero arrendersi all'evidenza che non c'erano elementi validi per procedere con il boicottaggio o le azioni legali. Alexander uscì nelle sale greche e debuttò piazzandosi immediatamente al primo posto.

Giuseppe Pullara per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 18 gennaio 2021. Un bel vizio, quello degli architetti: voler lasciare a tutti i costi un ricordo di sé ai posteri, tentando di trasformare il lampo di una vita in una quota di eternità. È per questo che ogni architetto vorrebbe costruire una chiesa: loro dicono per «misurarsi con la dimensione spirituale», quella più difficile da trasformare in architettura. Ma in realtà perché è molto difficile che una chiesa venga distrutta nei decenni successivi alla sua costruzione come capita alle opere civili tipo Velodromo dell'Eur e «ponti» del Laurentino III, distrutti dalla dinamite innescata dal Campidoglio. Così deve essere accaduto a Carlo Fontana (1638-1714), grande architetto del tardo Barocco, esponente di una stirpe ticinese di progettisti di primissimo livello, cominciando da Domenico che eresse quasi tutti gli obelischi romani, sistemò le gigantesche colonne di Marc'Aurelio e Traiano, progettò il palazzo del Quirinale e tanto altro. Carlo a vent'anni lasciò Como e venne a Roma, che riempì di opere. Allievo del Bernini, Filippo Juvarra ne fu a sua volta un discepolo. Da ricordare il suo progetto «ante-mussoliniano» di abbattere la Spina di Borgo. Giuseppe Bonaccorso, docente di Storia dell'architettura all'università di Camerino, ci ricorda che «Carlo Fontana tendeva a proporre progetti che si fondavano sulla trasformazione di opere antiche, modificandone la destinazione d'uso». In tal modo la sua proposta architettonica si avvaleva anche del prestigio del sito archeologico. Nella parte finale della sua lunga vita Carlo tentò il gran tuffo nell'immortalità con un progetto che gli avrebbe offerto una doppia garanzia di essere ricordato a lungo, come se altri celebri lavori (S.Maria Maggiore, Montecitorio, il S.Michele, la Casanatense ecc.) non ne sarebbero stati capaci. Unire sacro e profano, in un colloquio indissolubile tra il Colosseo e una chiesa speciale, ai bordi dell'arena e dedicata ai Martiri cristiani. «A partire dal tardo Cinquecento - spiega Bonaccorso - il clima controriformista contribuì ad attribuire all'Anfiteatro Flavio un nuovo significato, quello del luogo emblematico del martirio dei primi cristiani». Secondo il professore «il progetto di Carlo di porre una chiesa barocca, a pianta circolare, con cupola, nell'ellisse del Colosseo creava un'ambientazione fortemente emotiva». Dice Bonaccorso: «L'idea di unire Colosseo e un tempio cristiano in un solo progetto ("La Gran Gioia della chiesa legata attorno a si' stupenda mole" si compiaceva Carlo) è certamente la sua più riuscita e spettacolare iniziativa, anche se traeva origine da un'idea del Bernini. In ogni caso fu il progetto più ambizioso della sua vita». Il progetto non fu realizzato. Fu un libro di Carlo Fontana che raccontava la storia del Colosseo pubblicato undici anni dopo la sua morte a dare i dettagli del progetto, con ampie illustrazioni. Uno studio del professor Bonaccorso spiega ora la storia di questa vicenda. Scorrono i nomi di papi, da Innocenzo XI Odescalchi a Clemente XI Albani, interessanti spigolature come l'uso dei marmi del Colosseo crollati con il terremoto del 1707 per costruire il porto di Ripetta e, anni prima, l'utilizzo del Colosseo come deposito di letame per ricavarne salnitro. E non manca la minuziosa descrizione della preparazione del libro sull'Anfiteatro Flavio con cui Carlo Fontana voleva sponsorizzare la chiesa dei Martiri. Quanto ad altri architetti in cerca di quote di eternità, si possono ricordare i nomi di Marcello Piacentini (Cristo Re), Renzo Piano (Padre Pio sul Gargano), Paolo Portoghesi (Moschea), Alessandro Anselmi (San Pio a Malafede), Richard Meier (Tor Tre Teste), Piero Sartogo (Santo Volto, alla Magliana) oltre a tantissimi «classici», tra cui Michelangelo e Borromini.

Quando Cesare passò il Rubicone e cambiò la storia di Roma. L'epopea del passaggio del Rubicone è una lezione di leadership e di perseveranza. La lezione più grande di Cesare è il fatto che gli uomini hanno il potere di cambiare e plasmare la storia e non solo di farsi trascinare da essa. Andrea Muratore, Giovedì 14/01/2021 su Il Giornale. Tra il 10 e l'11 gennaio del 49 a. C. Gaio Giulio Cesare guidò le sue truppe nello storico passaggio del Rubicone. L'evento sancì un vero e proprio cambio di passo nella storia della Roma antica: inaugurò, ufficialmente, la guerra civile romana tra i cesariani e gli ottimati vicini al Senato e a Gneo Pompeo; accelerò il processo che, attraverso una lunga e sanguinosa serie di battaglie (Farsalo, Tapso, Munda le principali), avrebbe condotto il conquistatore della Gallia ai vertici del potere romano e, dopo il suo assassinio nel 44 a. C., portò all'istituzionalizzazione del principato dopo l'ascesa di Ottaviano Augusto; sconvolse, una volta per tutte, regole politiche e istituzionali consolidate nel tempo. Il Rubicone, nella Roma repubblicana, era il confine estremo settentrionale del pomerium, il confine che separava l'Urbe dal resto del mondo, la delimitazione che originariamente coincideva con lo spazio circoscritto dalle "mura di Servio Tullio" e che poi l'avanzata delle legioni dello Stato romano aveva spinto sempre più in là. Ai comandanti come Cesare, che dopo i lunghi anni di conquista della Gallia si era visto recapitare dal Senato l'ordine di lasciare il proconsolato, di congedare il suo esercito personale e di tornare nella capitale, era vietato condurre truppe in armi oltre i confini del pomerium, pena l'automatica dichiarazione di ostilità nei confronti dello Stato. Uno Stato che, a detta di Cesare, si era però incancrenito sulla scia dell'ambizione del rivale Pompeo e di un Senato che temeva di esser messo in ombra dal comandante; una Res Publica in cui i leader intendevano sfruttare ogni arma a loro disposizione per castrare le ambizioni del figlio della Suburra e nipote di Gaio Mario. Cesare passò il Rubicone tra il 10 e l'11 gennaio, in un inverno freddo che aprì la stagione delle guerre civili romane, alla testa della sua più fidata unità, la Legio XIII Gemina, le cui aquile erano state innalzate per la prima volta nel 57 a. C. durante la campagna contro i Belgi, avevano visto l'assedio di Gergovia e, secondo alcuni storici, anche la battaglia di Alesia in cui era affondata l'estrema resistenza dei Galli guidati da Vercingetorige. Una vera e propria guarda privata del comandante, alle cui azioni Cesare dedicò la celebre espressione greca riportata da Svetonio: "Ἀνερρίφθω κύβος", ovvero "sia lanciato il dado!", un'allocuzione riportata molto spesso in latino, in maniera apocrifa, come "il dado è tratto" (Alea iacta est). E la mossa, più simbolica che decisiva sul piano militare-strategico, sortì effetti a cascata. Inducendo sul piede di guerra i Senatori ostili a Cesare, ma provocandone il panico, la fuga a Oriente. Tagliando i ponti alle spalle di Cesare e dei suoi uomini, che furono condannati a andare avanti di vittoria in vittoria. Imponendo a Roma di trovare finalmente una quadra al grande scollamento che aveva portato alla guerra civile: la difficile coesistenza tra sempre più grandi appetiti espansionistici, dinamiche sociali complesse che soprattutto nella Capitale prendevano la forma di vaste disuguaglianze di opportunità e ascesa nella vita pubblica, un crescente desiderio di integrazione dei popoli espressione della provincia dello Stato romano nel progetto nazionale della Res Publica, l'impossibilità per lo Stato stesso di contenere l'ambizione dei partiti concorrenti ("popolari" contro "ottimati") stante la mole degli interessi il gioco. E da allora in avanti fu proprio il passaggio del Rubicone a costringere la civiltà romana ad andare in cerca delle risposte. Il passaggio del Rubicone fu per Cesare il nodo gordiano di Alessandro, da tagliare piuttosto che sciogliere; fu il momento in cui vennero doppiate le Colonne d'Ercole e l'avvertimento "Non plus ultra!"; fu uno dei rari momenti in cui le volontà di un uomo e il destino del suo popolo si sono trovati, seppur solo temporaneamente, a coincidere appieno. Cesare, ambizioso e cinico, era figlio degli eventi che Roma aveva vissuto dopo la conquista di Cartagine e dell'egemonia mediterranea, dai tumulti dei Gracchi alla guerra tra Mario e Silla, ma su tali eventi seppe imporre il suo personale sigillo nel contesto della corsa che lo avrebbe portato al ruolo di Dictator. Per farlo Cesare aveva dovuto scegliere, a un certo punto, di giocare a dadi col destino. Di mettere la storia alla prova con un solo atto. Di mettere in movimento lo spirito del mondo. E tutto ciò avvenne tra il 10 e l'11 gennaio del 49 a. C., sulla scia dell'avanzata oltre il Rubicone delle aquile della Legio XIII. Il pomerium era violato, la storia accelerava, il percorso voluto da Cesare si apriva. Percorrerlo sarebbe costato a Roma lutti senza precedenti, battaglie da decine di migliaia di morti tra eserciti fatti di compatrioti, che uniti avrebbero potuto moversi da conquistatori fino ai confini estremi del mondo conosciuto. Come Alessandro Magno prima di lui, come Timur Beg e Napoleone dopo di lui, Cesare volle portare fino in fondo la sua campagna personale per il potere e la gloria, sovrapponendola alla gloria e al bene del suo popolo. "Cesare" non sarebbe diventato il nome associato al potere per antonomasia se il suo più celebre portatore non avesse avuto il coraggio di compiere un'azione di rottura simile. Preparandosi al redde rationem con la storia senza alcuna certezza di uscirne vincitore, Cesare programmò e scommesse al tempo stesso, ma il suo fu un calcolo vincente. Non sempre i grandi azzardi nella storia sono riusciti e forse per questo ogni mossa di radicale rottura si richiama alla storia del Rubicone, a quel passaggio di un fiume piccolo e simbolico che aprì a un nuovo capitolo della storia di Roma. Solo che non dappertutto c'è un Cesare dotato di una mente capace di percorrere gli eventi sul ponte di comando. Non ovunque una Legio XIII Gemina pronto a seguirlo fino alle estreme conseguenze. Quasi mai, nei grandi decisori, la percezione della responsabilità di poter effettivamente evolvere e condizionare il destino. Una forza che spaventa. Ma che mette alla prova i comandanti nell'ora del cimento. E chi nella propria vita, anche su esperienze di vita quotidiana o comune, si trova di fronte alla necessità di attraversare un suo, personale Rubicone prova lo stesso brivido e lo stesso pensiero: perchè in fin dei conti il Rubicone ci ricorda che siamo tutti, con diversi gradi di influenza, attori senzienti capaci di condizionare, se non addirittura stravolgere, la realtà a noi circostante. E che ognuno, anche nelle scelte più radicali, rimane in fin dei conti sempre artefice del proprio destino.

Chi era il cardinale Richelieu. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 26 giugno 2021. L’espressione eminenza grigia, dal francese éminence grise, è parte integrante del vocabolario universale dell’umanità. L’eminenza grigia è una figura, solitamente anziana – sebbene il grigio sia più un riferimento alla natura caliginosa del personaggio che all’età –, che affianca e supporta costantemente, ma riservatamente, il capo di Stato, fornendogli consigli, suggerendo politiche da adottare e formulando strategie da implementare. L’eminenza grigia è il consigliere per antonomasia, una persona che, essendo più realista del re, spesso e volentieri può combaciare con o sovrapporsi ad altre figure simili, quali sono il potere dietro alla corona e il grande burattinaio. Ogni capo di Stato che si rispetti ha una o più eminenze grigie: loschi ma preparati figuri, battezzati alle arti sacre della guerra e della diplomazia, che sanno come muoversi nel mondo, che conoscono le leggi del bellum omnium contra omnes e che aiutano i loro re Davide ad affrontare e vincere i Golia di turno. Ma da dove proviene questo modo di dire che ha segnato l’immaginario collettivo (non soltanto occidentale)? Da quell’epoca di grandi stravolgimenti politici, guerre religiose e rivalità dinastiche che ha fatto la storia dell’Europa: la guerra dei trent’anni. E colui che, più di ogni altro, avrebbe lavorato per eternare il proprio nome, spingendo la posterità a ricordarlo come l’eminenza grigia, fu il cardinale Richelieu, colui “che faceva tremare con la sua politica la Francia e l’Europa”.

Le origini del mito. Il cardinale Richelieu, al secolo Armand du Plessis, nasce a Parigi il 9 settembre 1585 da una famiglia della piccola nobiltà di Poitou. Suo padre, François, era signore di Richelieu e sua madre, Susanne, proveniva da una famiglia di giuristi. Non avrebbe mai avuto il modo di conoscere realmente suo padre, morto in battaglia durante le guerre di religione francesi, mentre il futuro cardinale aveva soltanto cinque anni. Immiserito e di salute cagionevole, il piccolo Armand fu inviato dalla madre al collegio di Navarra (Parigi) per studiare filosofia all’età di soli nove anni. Conclusi gli studi, il giovane avrebbe voluto intraprendere la carriera militare, ma un improvviso dono proveniente dall’allora re Enrico III, per commemorare la vita e la morte di François, lo avrebbe infine condotto verso la Chiesa. Investiti del titolo di reggenti della diocesi di Luçon, i restanti du Plessis optarono per iniziare Armand alla carriera ecclesiastica. Accettato l’onere-onore, non prima di aver studiato nei dettagli il cattolicesimo e di aver ottenuto un via libera ad hoc da parte di Paolo V per via della giovane età, Armand fu intronizzato vescovo di Luçon nel 1607. Una carriera scelta da altri per lui, quella del clero, ma che lui, Armand, avrebbe fatto propria e dimostrato subitaneamente di amare con ardore. Ad esempio, poco dopo aver assunto la guida della diocesi di Luçon, Armand diventò il primo vescovo di Francia ad implementare le riforme istituzionali prescritte e delineate dal Consiglio di Trento. E fu precisamente qui, all’interno dell’influente Chiesa cattolica, che Armand fu introdotto alle arti sacre della guerra e della diplomazia segreta, venendone completamente stregato. Qui, all’ombra di campanili e sagrestie, avrebbe imparato ogni segreto utile a diventare l’uomo più potente di Francia dal frate cappuccino François Leclerc du Tremblay, anche noto come l’eminenza grigia, dal quale avrebbe preso anche il soprannome.

La scalata ai vertici del potere reale. Nominato dai chierici di Poitou quale loro rappresentante agli ultimi Stati generali del diciassettesimo secolo, quelli dell’anno domini 1614, quivi poté mostrare alla Francia che contava il proprio volto, le proprie idee e il proprio acume. Nel dopo-stati generali, non a caso, entrò a far parte della corte di Luigi XIII in qualità di grande elemosiniere. Una volta fatto ingresso alla corte del re, il giovane ma saggio vescovo entrò nelle grazie di Concino Concini, il capo del governo di Luigi XIII, aiutandolo nell’elaborazione di strategie attinenti alle relazioni internazionali del regno. Dalla gestione degli affari religiosi a quella degli affari esteri il passo fu relativamente breve: nel 1616 fu nominato Segretario di Stato. Ma l’incarico sarebbe stato mantenuto soltanto per poco tempo: una volta assassinato Concini, rimasto vittima di un intrigo di palazzo, Armand fu destituito. Il re, comunque, lo avrebbe richiamato rapidamente, affidandogli l’incarico di mediare tra lui e la regina, che, sconvolta dall’omicidio di Concini, aveva dato inizio ad una ribellione tra gli aristocratici. Il vescovo-stratega riuscì nell’ardua impresa di riportare la regina a più miti consigli, restaurando la pace in famiglia e nel regno con il trattato di Angouleme. A partire da quel momento, saggiate ufficialmente le sue abilità diplomatiche e la sua lealtà alla Corona, Luigi XIII lo avrebbe impiegato come proprio consigliere – un ruolo ricoperto fino alla morte.

Il vescovo-stratega. Il cardinale Richelieu avrebbe dato prova di essere più realista del re, o meglio di possedere ciò che soleva definire il senso per la raison d’Etat (ragion di Stato), poco dopo essere divenuto il consigliere di Luigi XIII. Aveva capito che per evitare che la Francia venisse soverchiata dall’accerchiante dinastia Asburgo, che all’epoca regnava sia sulla Spagna sia sull’Austria, la Corona parigina avrebbe dovuto scendere a compromessi con i propri nemici, utilizzando l’astuzia e l’imprevedibilità come armi. Fu così che, allo scoppio della crisi valtellinese, per evitare che il ramo spagnolo degli Asburgo prendesse il controllo dell’odierna Lombardia, il cardinale decise di supportare le armate dei Grigioni (svizzeri protestanti). Un cattolico, per di più appartenente al clero, che aveva cacciato dei cattolici con l’aiuto di protestanti: una prima assoluta di “ecumenismo strategico“, in un’epoca bagnata dal sangue delle guerre religiose, che lo avrebbe reso un nemico, quasi un eretico, agli occhi del Papa, ma che lo avrebbe reso grande in Francia. Politica estera a parte, il cardinale aiutò il re ad accelerare il processo di centralizzazione del potere, suggerendogli di ridurre l’influenza della nobiltà feudale nell’ottica di prevenire rivolte in tempi di crisi. Chiunque avrebbe potuto essere una potenziale quinta colonna al servizio altrui, soprattutto i piccoli nobili alla costante ed avida ricerca di maggiori ricchezze, perciò il cardinale persuase il re della necessità di privare i castelli delle loro fortificazioni, indebolirne le armate e controllarne le finanze. Rimanendo sul fronte interno, il cardinale, realizzando l’incredibile potere di quello strumento allo stato embrionale chiamato stampa, spinse il re a imporre dei controlli sulla pubblicazione dei contenuti – una censura ante litteram – onde evitare la diffusione di notizie esiziali per l’ordine costituito. Non meno duro sarebbe stato nei confronti della minoranza ugonotta, effettivamente supportata da Londra in chiave antifrancese, che, dopo averla sconfitta a La Rochelle, decise di privare dei diritti politici e di protezione. I protestanti avrebbero continuato ad essere tollerati, come stabilito dall’editto di Nantes del 1598, ma il lungimirante cardinale li aveva messi nella posizione di non nuocere alla sicurezza dello Stato. Divenuto ufficialmente duca di Richelieu nel 1629, a seguito delle innumerevoli vittorie conseguite in una varietà di fronti simultaneamente, il cardinale avrebbe trascorso gli anni successivi a combattere contro l’accerchiamento della Francia da parte della dinastia Asburgo, divenendo il più grande sostenitore di una Germania mantenuta divisa e frammentata in centinaia di staterelli in guerra tra loro. Quest’ultimo fu il motivo per cui, allo scoppio della guerra dei trent’anni, il cardinale persuase il re a parteciparvi: Parigi doveva impedire la materializzazione di una nuova potenza nel cuore d’Europa – Berlino –, che, stesa su una terra ricca di risorse naturali e forte di una mentalità improntata all’efficienza e di una cultura militare di tutto rispetto, avrebbe potuto egemonizzare l’intero continente. Sullo sfondo dello stato di guerra permanente fuori e dentro la Francia, il cardinale dovette affrontare una serie di minacce alla propria vita. Consapevole di essere inviso alla piccola nobiltà, nonché alla stessa famiglia del re e alle corti di tutto il continente, Richelieu creò un ristretto ed esclusivo sistema di spionaggio personale – non al servizio del re, ma al proprio – che, negli anni, si sarebbe rivelato fondamentale, sventando complotti, intrighi e tentativi di assassinio. Richelieu, diplomatico, stratega e capo di uno dei servizi di spionaggio più efficienti ed estesi di tutta Europa – rispondenti non ad uno Stato, quanto ad un solo uomo –, grazie alla propria rete di spie sarebbe riuscito a sopravvivere a diversi attentati contro la sua vita e, cosa non meno importante, a prevedere la trasformazione di propri seguaci in nemici, come l’insospettabile Henri Coiffier de Ruzé, un marchese, amico di famiglia, che il chierico avrebbe fatto giustiziare a seguito della scoperta di un complotto ordito con gli Asburgo di Spagna. Morì sul finire della guerra dei trent’anni, il 4 dicembre 1642, a soli 57 anni, a causa di una salute cagionevole mai fortificatasi. Morì circondato da invidie e inimicizie, perché dotato di un’intelligenza fuori dal comune, che gli permise di prevedere il futuro come un chiaroveggente, ma non prima di lasciare un ultimo dono al mondo: il cardinale Giulio Mazzarino. Quest’ultimo, iniziato dall’eminenza grigia alle arti della strategia e della diplomazia, avrebbe raccolto il legato del maestro e tentato di portarne avanti la lungimirante agenda per l’Europa basata sul mantenimento in stato di divisione delle terre germaniche, sul rafforzamento dello Stato centrale francese e sul doppio contenimento degli Asburgo di Spagna ed Austria.

Gli insegnamenti di Richelieu. Richelieu ha lasciato una mole di insegnamenti alla posterità, un bagaglio immane di lezioni in materia di statismo, diplomazia e geopolitica da cui sarà possibile attingere per sempre. Perché, oggi (e domani) come ieri, il vissuto dell’eminenza grigia (ci) rammenta che: Il nemico del mio nemico è mio amico – gli svizzeri, gli olandesi e gli svedesi protestanti contro gli Asburgo cattolici.

La religione, come ogni altra cosa nelle relazioni internazionali, è semplice politica – Stati cattolici possono combattersi tra loro, ed un protestante può aiutare l’uno a vincere l’altro. Accadde nell’Italia settentrionale, con il supporto francese alle forze svizzere in chiave antiaustriaca, ma anche negli attuali Paesi Bassi, con l’aiuto agli olandesi in chiave antispagnola, e con il regno di Svezia, alleato contro gli Asburgo. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio – avere un controspionaggio personale e parallelo che veglia sugli organi spionistici ufficiali può risultare salvavita, permettendo di stanare doppiogiochisti e sventare intrighi di palazzo altrimenti impossibili da scoprire. Prevenire è meglio che curare – privando feudatari e piccoli nobili dei loro eserciti, e sguarnendo le loro fortezze, lo stratega con il rosario voleva impedire che proliferassero quinte colonne potenzialmente letali nei territori di Francia. La stessa strategia sarebbe stata impiegata nei confronti degli ugonotti, una minoranza protestante permeabile alle infiltrazioni esterne, specialmente inglesi, e dunque da monitorare e spogliare di alcune concessioni. Possedere lungimiranza – cercando di evitare l’unificazione dei territori tedeschi sotto un’unica bandiera, il cardinale avrebbe voluto impossibilitare l’emergere di una superpotenza nel cuore d’Europa, di gran lunga più pericolosa di Austria, Inghilterra e Spagna, e la storia successiva gli avrebbe dato ragione. L’imprevedibilità è un’arma – il cardinale Richelieu seppe sorprendere i rivali di Francia ricorrendo all’impiego di mercenari, ufficialmente sul libropaga inglese, per operare sabotaggi nelle terre tedesche. Ricostruire dalle fondamenta può essere più conveniente di un restauro – diffidente nei confronti del sistema Francia basato sul duopolio di alta borghesia e nobiltà feudale, l’eminenza grigia persuase il re della necessità di limitare il raggio d’azione politico-militare dei più abbienti, finanche privandoli dei loro eserciti, e creò un nuovo sistema di riscossione dei tributi basato sulle figure degli intendenti in sostituzione del precedente centrato sugli ufficiali locali, notoriamente corrotti e inaffidabili. L’importanza di trasmettere i sogni – trovando nel futuro cardinale Mazzarino il proprio erede, da Richelieu iniziato alle arti dell’inganno, della diplomazia, della guerra e dello statismo, la visione di una grande Francia concepita dal cardinale-stratega sarebbe sopravvissuta e avrebbe prosperato negli anni a venire. I suoi contemporanei lo avrebbero odiato, attentando più volte alla sua vita, ma la storia avrebbe dato ragione ai suoi sforzi: la Francia, alleandosi tatticamente con le forze protestanti durante la guerra dei trent’anni, sarebbe uscita dal conflitto come una grande potenza in ascesa. La dinastia Asburgo, condotta all’astenia finanziaria perché mirabilmente trasformata da accerchiatrice ad accerchiata, nel dopoguerra sarebbe entrata in un lungo periodo di declino. Altrettanto determinante si sarebbe rivelata l’agenda di Richelieu per gli affari interni, con il processo di accentramento e riorganizzazione funzionale alla costruzione della macchina burocratica più avanzata d’Europa e con l’avanguardistica rete spionistica utile per i successori a scovare quinte colonne e agenti stranieri e a completare la foggiatura del futuro Stato. Per i motivi di cui sopra, il cardinale Richelieu è ritenuto da alcuni storici il padre degli stati-nazione europei. L’eredità dell’eminenza grigia, però, è molto più vasta e tangibile. A lui è debitore la scuola del realismo politico – essendo stato un teoreta professante del muscolarismo, della ragion di Stato e dell’amoralità in politica –, a lui si deve la presenza del francese nell’America settentrionale – vide del potenziale nelle missioni dell’esploratore Samuel de Champlain, supportandolo nella fondazione della città di Québec, perciò ivi si trova un fiume che porta il suo nome – ed è sempre a lui, o meglio alla sua idea di una Germania frammentata per il bene dell’Europa, che pensarono Roosevelt e Stalin nel secondo dopoguerra, avallando la bipartizione dello stato tedesco – inizialmente diviso in quattro parti.

Quando Cesare Lombroso andava a caccia di "criminaloidi" nella Rivoluzione Francese. Daniele Abbiati il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. L'antropologo indagava sul punto di equilibrio tra politica e violenza di massa. In qualità di antropologo e criminologo, Cesare Lombroso non poté non calcare il terreno della politica. Dunque, non poté non affrontare anche il tema della rivoluzione. Lo fece prendendo di petto la regina delle rivoluzioni moderne, quella francese, in una conferenza del 1886 alla Biblioteca Laurenziana di Firenze. Il titolo: La delinquenza nella rivoluzione francese (Aragno, pagg. 71, euro 12). Lecito aspettarsi, da un antropologo e criminologo, la sottolineatura dell'esplosione di violenza pubblica e privata. Ma abbiamo anche altro. Leggiamo: «Il delitto politico ha la sua base nel ribrezzo naturale nell'uomo per ogni novazione, sia essa politica, religiosa o artistica, talmenteché, ogni progresso diventa un fatto antisociale, quindi un delitto, quando urta troppo profondamente gli istinti conservatori delle masse».

Ecco il punto nodale, «gli istinti conservatori delle masse». «Conservatori», non «rivoluzionari». Dunque per Lombroso, se è vero che i rivoluzionari compiono delitti politici, è anche vero che i conservatori, quando esagerano nell'opporsi alla «novazione», non sono esenti da colpe. La parola chiave è dunque «misoneismo», ovvero l'odio per il nuovo. Parola che non sorprende, in bocca o nella penna di Lombroso, il quale politicamente parlando era molto meno tranchant che da scienziato, attestandosi sulle posizioni del socialismo conservatore... Infatti afferma: «Abbiamo oggidì, si dice, la libertà, la giustizia per tutti; ma in fondo i privilegi non fecero che cambiare da una all'altra casta; non sono più i sacerdoti ed i nobili, ma pochi avvocati politicanti che predominano ed al cui vantaggio lavorano tutti - senza o quasi senza compenso - gli onesti ed i disonesti». Prima di sciorinare alla sua maniera la galleria di «uomini delinquenti» in azione nel 1789 e dintorni, i vari Jourdan, Carrier, Marat, Legendel, Roussignol..., e di fare un rapido excursus storico-geografico fra differenti scenari di sollevazioni rivoluzionarie nel mondo, Lombroso distingue «tra le rivoluzioni propriamente dette che sono effetto lento, preparato, necessario, al più reso di un poco più rapido da qualche genio nevrotico, o da qualche accidente storico, - e le rivolte o sedizioni, le quali sarebbero un'incubazione precipitosa, artificiale - a temperatura esagerata - di embrioni tratti perciò a certa morte». Il darwinismo dell'autore emerge da questo passaggio: «La rivoluzione è l'espressione storica della evoluzione: dato un assetto di popolo, di religione, di sistema scientifico, che non sia più corrispondente alle nuove condizioni, ai nuovi resultati politici, ecc., essa li cambia col minimo degli attriti e col massimo del successo, per cui le sommosse e le sedizioni che provoca, se pure ne sono una parte necessaria, sono appena avvertite e svampano appena comparse: è la rottura del guscio del pulcino maturo». Insomma, Parigi valeva bene un pulcino destinato a diventare galletto, ma la follia dei rivoluzionari, anzi dei sediziosi, lo ha fatto nascere morto prima del tempo. Perché «le riforme esagerate dell'89, improvvisate colle stragi e in mezzo alle stragi, dalla prepotenza di pochi, provocando una naturale reazione, per la stessa loro eccessività, impedirono quella evoluzione lenta e feconda che si andava manifestando in tutte le classi». E se «la Repubblica non ebbe mai un capo se non in colui che la uccise: Napoleone», responsabile della tara che l'ha minata è un «delinquente e pazzo di genio, il Rousseau». In mano di quel «lipemaniaco» l'idea, in sé ottima, della «sovranità popolare» diventa un mito, una favola ingannatrice, uno specchietto per le allodole. O per i pecoroni: «Così certo, le pecore, cadute nel baratro dietro al pastore, fino al momento in cui sentono il cranio frangersi sul duro fondo, opinano di andare per la via diritta».

Terrore e rivoluzione. Chi era Robespierre, il tribuno che da carnefice diventò vittima. Alessandra Necci su Il Riformista il 23 Giugno 2021. «Ha annientato tutti, quest’uomo di così modesta apparenza… che per tanto tempo si era tenuto nascosto dietro le figure gigantesche dei suoi predecessori… Da quando Mirabeau, Marat, Danton, Desmoulins, Vergniaud, Condorcet sono spariti, da quando sono spariti cioè il tribuno, il ribelle, il duce, l’oratore e il pensatore della giovane Repubblica, egli concentra tutto nella sua persona, è il pontifex maximus, il dittatore, il trionfatore». Queste parole, scritte da Stefan Zweig nella biografia su Joseph Fouché, si riferiscono a Maximilien de Robespierre. Freddo, livoroso, amante del potere, indifferente ai sentimenti, ossessionato dal proprio mito e dalla propria missione, l’Incorruttibile ha stretto il paese nel Terrore, elevando la Virtù a sistema politico. Sulle prime ha favorito la “scristianizzazione” della Francia, poi si è inventato una religione di Stato, “il culto dell’Essere Supremo”, insieme alla Dea Ragione. Affiancato da Louis-Antoine Saint-Just (“l’arcangelo della morte”) e Georges Couthon, l’antico giacobino che si sente la personificazione della Repubblica e della Libertà ha mandato alla ghigliottina – “il rasoio nazionale” – i suoi nemici, bollati come nemici della Nazione. Grazie al Comitato di Salute Pubblica del 6 aprile 1793, all’espulsione dei Girondini dalla Convenzione, alla “legge dei sospetti” ha riunito nelle sue mani le redini del potere. Sono considerati “indiziati”, e dunque passabili di arresto, praticamente tutti. Famosa è la formula per identificare i possibili sospetti: «Coloro che non hanno fatto nulla contro la libertà e non hanno neppure fatto nulla per essa». Categoria fluida, incerta, proteiforme, rete a strascico nella quale può rimanere impigliato chiunque. Per “sputare la testa nel cesto”, come si usa dire con aulico linguaggio, basta una delazione, una lettera anonima, una parola di troppo, un’invidia, un posto da liberare, un conto in sospeso…Non è Robespierre uno degli iniziatori della Rivoluzione, ma è riuscito a cavalcarla, contribuendo a eliminare degli uomini della prima fase. Agli esordi, del resto, era impossibile comprendere dove avrebbe portato quella trasformazione, quello smottamento del sistema a cui avevano contribuito gli ideali illuministi, i philosophes, l’opinione pubblica, i giornali, la Rivoluzione americana, la crisi economica, i club (i partiti politici del tempo, fra cui Girondini, Giacobini, Foglianti, Cordiglieri), lo screditamento della monarchia e dell’Ancien Régime. Dopo secoli di immobilismo, il tempo ha ripreso a scorrere a velocità vertiginosa. Nel maggio 1789 c’è stata l’apertura degli Stati generali; il 20 giugno la riunione della Pallacorda; il 14 luglio la presa della Bastiglia. Luigi XVI, pieno di buone intenzioni ma privo di tempra, non è in grado di «domare il mostro che ha imprudentemente liberato dalle catene». Il 4 agosto l’Assemblea ha approvato l’abolizione dei privilegi, il 26 ha redatto la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (donne e schiavi non sono contemplati). La situazione ha preso quindi a degenerare, gli ideali di Liberté, Égalité, Fraternité a mescolarsi con derive feroci. Lungi dal rientrare negli argini, il fiume è destinato a esondare con maggior violenza. Fra tumulti sobillati, sans-culottes urlanti, pescivendole con i coltellacci, teste sulle picche, i sovrani sono stati obbligati a tornare a Parigi. Nel giugno 1791 è fallita la fuga di Varennes; poi la famiglia reale è stata rinchiusa nel Tempio. Il 16 gennaio 1793, la Convenzione – assai più radicale dell’Assemblea – ha deciso la condanna del re. Per costringere il Parlamento, l’Incorruttibile non ha lesinato: «La monarchia è un crimine di lesa maestà… Chiedo che la Convenzione dichiari Luigi colpevole di tradimento verso la Nazione francese, di crimini contro l’umanità». A dargli man forte ci si è messo Jean-Paul Marat, il sedicente ami du peuple, che ha imposto il voto palese e per appello nominale. La Convenzione ha quindi inviato i suoi “proconsoli” a stroncare le tentazioni realiste e “i nemici della rivoluzione”. Mentre vengono adottate misure eccezionali e la Francia è in guerra con quasi tutta Europa, mentre massacri e esecuzioni sono all’ordine del giorno, si consuma lo scontro interno. Usi e costumi riflettono il clima. A Parigi si è scatenata una voluttà, un gusto del sangue: le signore inalberano pettinature à la victime e nastri rossi al collo, i bambini giocano con macchine per decapitare, in giro si intonano inni a “Madame la Guillotine”. Robespierre e i suoi premono per la revolution intégrale – la dittatura – lanciandosi alla gola dei loro avversari, siano essi moderati o “arrabbiati”. Il regolamento di conti è allo zenith; i notabili si affrontano simili alle belve nell’arena e, come si dice, “la Rivoluzione divora i suoi figli”. Honoré de Mirabeau è morto, Georges Danton finisce sulla ghigliottina per volere dell’Incorruttibile – «Mostrerai la mia testa al popolo, non capita spesso di vederne del genere», ingiunge al carnefice – Nicolas Condorcet si suicida come molti altri, Marat è stato ucciso da Charlotte Corday, Sono scomparsi Camille Desmoulins (e anche la moglie, l’innocente Lucille, di cui Robespierre era testimone di nozze) Jacques-René Hèbert, Fabre d’Eglantine e altri. Fra i condannati c’è Philippe Ėgalité, il duca d’Orléans che aveva votato la morte del cugino Luigi XVI. Sembrerebbe che il vincitore sia l’Incorruttibile, “consacrato re dalla morte di Danton” e di cui Mirabeau aveva detto: «Quest’uomo andrà lontano, perché crede in tutto ciò che dice». Invece Robespierre – che pure troverà diversi sostenitori fra gli storici, i letterati e i politici dell’avvenire – ha i giorni contati. Ha governato con il Terrore, verrà eliminato a causa di esso. Nessuno si sente più sicuro, con lui al vertice. E così Paul Barras, Joseph Fouché, Joseph Sieyés, Jean-Lambert Tallien e altri ordiscono la congiura che porterà a Termidoro. Il discorso vago ma pieno di paurose allusioni, che Robespierre tiene alla Convenzione il 26 luglio 1794, è la goccia che fa traboccare il vaso. Il giorno successivo la sua orazione è interrotta, lui non riesce a parlare, qualcuno grida: «È il sangue di Danton che ti soffoca!». Nel pomeriggio tutto è finito, il “pontefice massimo” viene arrestato insieme ai suoi. «La Repubblica è perduta… i briganti trionfano», commenta allora. Il giorno dopo, orrendamente sfigurato, viene condotto alla ghigliottina. E quello stesso popolo che tanto lo aveva acclamato, grida di gioia nel vedere la sua testa caduta. Fra “Osanna” e “Crucifige”, la distanza è minore di quello che si pensi. Ed è sempre pericoloso brandire l’arma della virtù, unita allo strumento politico della giustizia da usare contro i nemici di ieri e domani per conquistare il potere, inteso come dominio assoluto. Allora come oggi, il risultato è un “cannibalismo” in cui le diverse fazioni si dilaniano nel disprezzo di ogni regola liberale. Alessandra Necci

GIORDANO TEDOLDI per Libero Quotidiano il 28 giugno 2021. Emilio Fede è un signore di novant' anni, infermo (si sposta su una sedia a rotelle) che giovedì ha perso la moglie, giornalista come lui, Diana de Feo. Lei viveva a Napoli, lui sta a Milano, così ha chiesto l' autorizzazione al Tribunale di sorveglianza della sua città per partecipare alle esequie della consorte: infatti sta scontando, in affidamento ai servizi sociali, una pena a quattro anni e sette mesi per il suo coinvolgimento nel cosiddetto caso Ruby - ricorderete, la presunta nipotina di Mubarak, le olgettine, le serate allegre a Arcore...Cose di questo tenore: non ci permettiamo di soppesarle sul piano giuridico, quello è il lavoro dei magistrati, ma certo non delineano una pericolosità criminale pari a quella di Al Capone. Eppure, singolarmente, forse per meri automatismi burocratici, il nonagenario invalido Emilio Fede viene fatto oggetto di controlli e sorveglianze che lo fanno apparire più letale di un capomafia. La certezza della pena, concetto non di rado puramente teorico nei confronti di personaggi rei di gravi delitti, con Emilio Fede - e ripetiamo, sarà una casualità -, diventa una morsa implacabile. Un anno fa, sempre a Napoli, dove era sceso per cenare con la moglie in occasione del di lei compleanno, gli agenti della polizia l'avevano arrestato al ristorante. Diciamo che ci sono modi meno traumatici di far notare a un uomo molto anziano che non aveva ancora ottenuto l’autorizzazione ad allontanarsi da Milano, pur avendola regolarmente chiesta. Perché di questo si trattava. La vicenda suscitò scalpore, perché anche chi non ha mai amato Fede per le sue posizioni politiche e per il suo giornalismo, non poté fare a meno di notare un certo eccesso nelle modalità di intervento. Poi naturalmente ci sono quelli per cui Fede, se non altro perché deve scontare la sua fedeltà berlusconiana, deve morire a prescindere, come direbbe Totò, e con quelli c' è poco da ragionare. Ma lasciamo perdere gli eterni rancorosi (che farebbero bene a scrutare dentro se stessi) e torniamo a Fede. Giovedì, nella chiesa di San Gennaro ad Antignano, al Vomero, assiste ai funerali della moglie, con la quale era sposato da sessant' anni. La sera cena al ristorante con la figlia Sveva, poi torna al suo albergo, il Santa Lucia di Napoli. Nella notte, intorno alle quattro di mattina, viene svegliato dagli agenti della polizia, che prima lo fanno chiamare in camera dalla portineria, poi bussano alla porta della donna che lo assiste perché, si è detto, è vecchio e non autosufficiente. Quindi, altra irruzione nella stanza di Fede, sempre per il medesimo motivo che lo fece arrestare al ristorante con la moglie un anno prima: controllare che il Tribunale di sorveglianza di Milano abbia autorizzato la trasferta napoletana. Stavolta però, riferisce lo stesso Fede, dopo le verifiche durate circa un'ora, nei documenti suoi e anche della sua assistente era tutto a posto. E Fede è rimasto a Napoli, da dove, scaduto il permesso, tornerà a Milano. Ora, dal punto di vista procedurale, immaginiamo che non si possa eccepire nulla alle forze dell'ordine e ai magistrati responsabili di queste operazioni. Però la giustizia non può essere una macchina cieca e impersonale, fredda e burocratica, perché diventa vessazione. La giustizia la fanno gli uomini, non un algoritmo, e quindi bisognerebbe che fosse umana in tutti i suoi atti. Umanità vuole, ad esempio, che un novantenne malato cui è notoriamente morta la moglie, possa ottenere un trattamento meno aspro se gli si vogliono controllare i documenti. Altrimenti ha ragione lui a esclamare: «Dimenticatevi di me!» e a domandarsi in che paese siamo. Si badi, facciamo questo discorso a favore di Fede, ma lo faremmo pari pari nei casi analoghi di cittadini sconosciuti. Fede, naturalmente, per via della sua popolarità, diventa un caso, ma temiamo che altrettanta eccessiva rigidità colpisca anche altri che, come lui, scontano una pena pur non essendo, con ogni evidenza, il mostro di Firenze. Uomini che avete l'onere di amministrare la giustizia e di applicarla: non dimenticatevi della dignità delle persone.

 Talleyrand-Périgord, lo stregone della diplomazia. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 28 giugno 2021. L’Ottocento è stato il secolo di Napoleone, Metternich e Bismarck, i tre uomini universali – perché furono tutto: condottieri, strateghi, soldati e diplomatici – alla cui fervida immaginativa si deve l’attuale conformazione dell’Europa e, in parte, del mondo. L’Ottocento è stato anche il secolo della grande svolta che ha preludiato all’ingresso del mondo nel turbolento Novecento, essendo stato il tempo delle ultime guerre d’indipendenza dei popoli europei, della decadenza dell’impero ottomano, dell’estinzione dello Stato pontificio e della progressiva diffusione degli ideali rivoluzionari di Marx ed Engels. L’Ottocento, questo secolo che è stato tutto e il contrario di tutto, non sarebbe stato lo stesso se dal grembo fertile della Francia, madre di re cristianissimi e di illuministi votati alla distruzione del Cattolicesimo, non fosse nato Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord, lo Stregone della diplomazia sopravvissuto alla ghigliottina degli illuministi, alle manie distruttive di Napoleone e ai cambi di regia della Restaurazione.

Infanzia e formazione. Charles-Maurice de Talleyrand-Périgord nasce a Parigi il 2 febbraio 1754 da una famiglia altolocata. Il padre, Charles-Daniel, era un cavaliere appartenente all’ordine di San Michele, nonché uno dei luogotenenti del re di Francia e conte di Périgord. Suo zio paterno, invece, era Alexandre-Angélique de Talleyrand-Périgord, un carismatico chierico che, prima di morire, sarebbe divenuto cardinale arcivescovo di Parigi. A causa di una forma di invalidità manifestata dalla nascita – era zoppo, forse perché affetto dalla sindrome di Marfan o perché vittima di un incidente durante i primi mesi di vita –, sarebbe stato ribattezzato “il diavolo zoppo” nell’adultità e maltrattato dai genitori fin dall’infanzia perché ritenuto antieconomico e una ferita all’onorevolezza della dinastia Talleyrand – per muoversi aveva bisogno di una protesi metallica. Privato del diritto di maggiorasco – il diritto del primogenito all’eredità familiare –, che i genitori girarono a suo fratello Archambaud, il piccolo zoppo fu prima “consegnato” alle cure della bisnonna, Marie-Françoise de Rochechouart, e dopo iniziato alla carriera ecclesiastica. L’obiettivo dei genitori, in ambedue i casi, era il medesimo: allontanare il piccolo Talleyrand dalla quotidianità domestica. Nel 1769, a soli quindici anni e dopo averne trascorsi sette presso il collegio d’Harcourt, si iscrive al seminario di Saint-Sulpice. Avrebbe ottenuto i voti minori sei anni più tardi, nel 1775, venendo dirottato alla cattedrale di Reims – all’epoca amministrata dallo zio Alexandre-Angélique. Diventerà sacerdote effettivo soltanto nel 1779, investito del titolo ad una cerimonia di ordinazione alla quale non avrebbe presenziato nessun Talleyrand. Pur essendo stato assegnato all’abbazia di Saint-Remi, inquadrata nella diocesi di Reims, il don zoppo sceglie di stabilirsi nella capitale, Parigi, perché guidato da obiettivi di rivalsa nei confronti di tutti coloro che lo hanno ripudiato e trattato alla stregua di un reietto appestato. Gli eventi successivi gli avrebbero dato ragione: aiutato dallo zio Alexandre-Angélique, unico membro della famiglia che lo ha sempre sostenuto, riesce a farsi rapidamente strada nel clero che conta, avvicinandosi successivamente alla massoneria e alla diplomazia.

La scalata ai vertici del potere. Il 1780 è l’anno della svolta per Talleyrand. Dopo aver mediato (con successo) la controversia tra casa reale e Chiesa cattolica concernente l’autonomia dei beni ecclesiastici – proponendo uno scambio: un contributo libero (ma ingente) alle casse statali da parte del clero in cambio dell’intoccabilità del patrimonio immobiliare –, viene nominato agente generale per il clero dall’Assemblea della Chiesa gallicana. È nel contesto delle controversie tra clero e Stato che Talleyrand scopre la sua vera vocazione: la diplomazia. Crescentemente vicino al reame, aiutato a mezzo di preziosi suggerimenti in materia di economia e finanze, il Diavolo zoppo degli anni Ottanta del Settecento è un carrierista in ascesa che avrebbe scalato gradatamente i vertici della piramide del potere anche senza l’aiuto del potente zio. Eloquente, carismatico e in possesso di un bagaglio di conoscenze e competenze in una grande varietà di settori, dal diritto canonico all’economia, Talleyrand viene nominato vescovo di Autun alla vigilia della Rivoluzione francese. Proveniente da una famiglia di cavalieri, chierico e sostenitore dell’Ancien Régime, il fato di Talleyrand sembrava già scritto: ghigliottina. Sorprendentemente, invece, il Diavolo zoppo sarebbe uscito indenne dagli spasmi anticattolici della Rivoluzione. Come? Facendo proprie le doglianze dei fedeli, in sede di Assemblea degli Stati generali, e reinventandosi voce del Terzo Stato. Colta l’inevitabilità del cambio d’epoca, Talleyrand vuole assicurarsi di salire sul carro giusto – quello dei vincitori –, perciò propone agli Stati generali di adempiere ad ognuna delle richieste dei dimostranti: dal superamento della monarchia all’abolizione dei privilegi dei feudatari e del clero. Convinto di aver fatto la scelta giusta, nonostante l’opinione contraria di una maggioranza soverchiante ed armata, Tallyerand si unisce ai membri dell’Assemblea nazionale costituente. La storia gli avrebbe dato rapidamente ragione: poco tempo dopo, dinanzi agli occhi increduli di reame e clero, la Francia verrà sconvolta dall’inizio della Rivoluzione.

Talleyrand, il camaleonte che sopravvisse a tutte le epoche. Noto ai membri dell’Assemblea nazionale costituente per le sue qualità diplomatiche, Talleyrand diventa nottetempo il formulatore dell’agenda degli aspiranti rivoluzionari. È lui che propone di confiscare i beni immobili alla ricca Chiesa di Francia – prendendo parte al saccheggio a scopo di autoarricchimento. È lui che propone di privare il cattolicesimo del titolo di religione di Stato, nonché di estendere la cittadinanza ad ebrei e avignonesi. È lui che scrive la maggior parte degli articoli della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Ed è sempre lui che mette la firma sulla Costituzione civile del clero, divenendo uno dei primi a prestarvi giuramento e a subirne gli effetti – la perdita della guida della diocesi di Autun e la scomunica da parte di Pio VI. Non avrebbe agito in tal modo perché realmente convinto della e dalla Rivoluzione, ma perché obbligato dalla necessità, perché spinto da ragioni di sopravvivenza. Nel dietro le quinte della partecipazione ai lavori dell’Assemblea, invero, avrebbe continuato a supportare il re nella speranza-aspettativa di ribaltare le sorti degli eventi. Un supporto che sarebbe durato fino a quando, vistosi rifiutare un piano per decapitare l’intera Assemblea e porre fine ai moti, comprese che il re aveva inconsciamente accettato il proprio destino e che i Rivoluzionari sarebbero stati i soli e totali vincitori del conflitto. Nel 1792, mentre l’ordine rivoluzionario va ottenendo crescente istituzionalizzazione e riconoscimento tra le masse, Talleyrand viene inviato in Inghilterra con l’obiettivo di rassicurarne la famiglia reale: la Rivoluzione francese non rappresenta una minaccia per il resto d’Europa. Al di là di ogni pronostico, Talleyrand rincasa con la promessa di neutralità da parte britannica, ma il momento trionfale dura poco: qualcuno scopre e invia alla stampa le lettere segrete fra il diplomatico e il re, oramai prossimo alla ghigliottina, determinando la formulazione di un mandato di cattura nei suoi confronti. Talleyrand riesce ad evitare l’arresto, e la probabile condanna a morte, perché al momento dello scandalo si trova in Inghilterra. Qui aveva fatto ritorno poco dopo aver siglato il patto di neutralità, perché preoccupato dal regime del Terrore instauratosi in Francia. Un’intuizione che gli avrebbe salvato la vita. Da Londra si imbarca alla volta di Filadelfia, nell’attesa che si calmino le acque – o meglio, che i suoi gregari in loco le calmassero –, e qui avrebbe avuto l’onore di conoscere uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, Alexander Hamilton. Nel 1796, morti sia il re sia Robespierre, Talleyrand può rientrare in Europa. Accolto freddamente e con diffidenza dal Direttorio, memore dei suoi trascorsi con il defunto sovrano, riesce a riottenerne la fiducia completa sventando un colpo di Stato orchestrato da nostalgici realisti in combutta con alcuni membri dello stesso Direttorio, tra i quali l’arcinemico Lazare Carnot. Eliminata ogni forma di concorrenza, Talleyrand può ricominciare l’ascesa ai vertici della Francia: nel 1797, invero, gli viene affidata la guida del ministero degli Esteri. La prima (ostica) missione che deve affrontare il diavolo zoppo riguarda gli Stati Uniti, una nazione che ebbe modo di conoscere durante la breve fuga dalla Francia. Il governo francese vorrebbe siglare un trattato commerciale con questa potenza in ascesa ricalcante quello angloamericano, ma gli sforzi negoziali non avevano prodotto risultati. Talleyrand, allora, ha un’idea: massimizzare la tensione per poi ridurla mediante trattato, ovvero spirale bellica controllata. Richieste di tangenti e sequestri di mercantili da parte francese avrebbero dato vita alla cosiddetta “quasi-guerra” con gli Stati Uniti, che le rispettive diplomazie avrebbero risolto nel 1800 con il celebre trattato di Mortefontaine. È nel contesto della quasi-guerra che Talleyrand ha un’intuizione simile a quella del pre-Rivoluzione: il Direttorio è agli sgoccioli. La prognosi del diplomatico chiaroveggente è infausta: geopoliticamente miope, strategicamente morta, nonché crescentemente scollata dalla realtà, l’entità rivoluzionaria viene ritenuta in stato di morte cerebrale. E come profittare del cambio di paradigma, considerato inevitabile, Talleyrand lo capisce dopo aver fatto la conoscenza del giovane Napoleone, all’indomani della campagna d’Italia. Le ambizioni golpiste di Talleyrand, in qualche modo comprese dal Direttorio, gli valgono l’allontanamento dal ministero degli Esteri nel luglio 1799. Il Direttorio, ad ogni modo, più che impedire la propria fine, l’avrebbe soltanto ritardata. Il 9 novembre dello stesso anno, invero, Napoleone consuma un colpo di Stato e pone fine all’esperienza repubblicana. Colpo di Stato che sarebbe stato impossibile senza il supporto dell’astuto Talleyrand, il cui uomo nel governo, il potente ministro della Polizia Joseph Fouché, ordinò alle autorità di sicurezza pubblica di non intervenire nella faccenda, permettendo a Napoleone, de facto, di assumere il potere senza colpo ferire.

L'epoca napoleonica. Napoleone non avrebbe mai dimenticato l’aiuto prezioso ricevuto da Talleyrand, colui che ne facilitò e rese possibile l’ascesa al trono. Nell’immediato post-Direttorio, Napoleone lo ristabilisce a capo del ministero degli Esteri e lo trasforma nella propria ombra, facendolo consigliere. Le manie di grandezza dell’imperatore, però, che lo spingono ad interferire pesantemente in quasi tutti i processi negoziali, impediscono a Talleyrand di esercitare il ruolo ministeriale come vorrebbe, potrebbe e dovrebbe. Compreso il carattere totalizzante del nuovo sovrano, il Diavolo zoppo opterà per una massimizzazione del profitto orientata al lunghissimo termine, ovvero profitterà degli innumerevoli viaggi all’estero per tessere amicizie internazionali che si riveleranno fondamentali al termine dell’epoca napoleonica. Napoleone è abile e carismatico, ma la sua scontentezza quasi-cronica lo acceca (geo)politicamente, perciò il diplomatico-indovino ha una nuova intuizione: l’epopea imperiale è destinata a naufragare, soccombendo al peso delle pressioni economiche e delle perdite umane provocato dalle campagne militari infinite. Neanche la vittoria di Austerlitz convincerà il pessimista Talleyrand, che, contrariamente all’imperatore, non crede nella possibilità di egemonizzare singolarmente e direttamente l’Europa, credendo, invece, nella possibilità di controllarla in maniera morbida, ossia informale, attraverso schemi di alleanze e meccanismi di dialogo e cooperazione basati sull’equilibrio.

Guidato da questa visione di lungo termine, all’interno della quale si possono intravedere i semi del futuro Concerto, e consapevole che i contemporanei lo avrebbero ringraziato a tempo debito e in sede opportuna, Talleyrand apporterà alcune modifiche al celebre trattato di Presburgo, rendendo le condizioni di pace meno dure per l’Austria, e trascorrerà gli anni successivi a persuadere l’imperatore della necessità di non infliggere misure eccessivamente punitive ai vinti – perché sorgenti di pericolosi risentimenti –, sullo sfondo di rumoreggiati carteggi con i colleghi moscoviti, prussiani e viennesi. Lo scoppio dei moti antifrancesi in Spagna è rivelatorio per Talleyrand, nel frattempo espulso dal ministero degli Esteri per via dei dissapori con l’imperatore. L’episodio, considerato per ciò che è realmente – un presagio della prossima fine –, incoraggia il diplomatico a fare la mossa più azzardata: scrivere una lettera a Klemens von Metternich, titolare degli esteri austriaco, suggerendogli di attaccare la Francia. La missiva viene scoperta dallo spionaggio napoleonico, ma a Talleyrand, sorprendentemente, al posto del patibolo, verrà proposto di tornare agli Esteri – offerta che rifiuterà, accettando, però, di riassumere il ruolo di consigliere. Il ritrovato idillio tra Napoleone e Talleyrand, però, avrà vita breve. Poco dopo aver sposato Maria Luisa d’Asburgo-Lorena – un matrimonio reso possibile dalla mediazione di Talleyrand con Metternich –, Napoleone deciderà di dichiarare guerra alla Russia, nonostante la contrarietà del proprio consigliere. Nel 1814, dopo aver rifiutato per l’ennesima volta di assumere la guida degli Esteri, Talleyrand avvia un processo di pace parallelo con lo zar Alessandro e con Metternich, illuminandoli su come prendere Parigi nella maniera meno cruenta e più veloce. Il sovrano russo, eloquentemente, dopo aver catturato la capitale francese, risiederà presso gli alloggi di Talleyrand.

La fine. Non dimentichi del supporto ricevuto dallo scaltro diplomatico, i sovrani europei acconsentono alla nascita di un governo Talleyrand, funzionale, necessario e propedeutico ad una transizione pacifica verso il post-napoleonismo. I lavori dell’esecutivo condurranno all’ascesa al trono di Luigi XVIII, che, a sua volta, affiderà a Talleyrand la guida degli Esteri e la gestione dell’intero processo di pace con le potenze vincitrici. Il Diavolo zoppo, facendo leva sul rapporto amichevole instaurato con gli omologhi di tutto il continente negli anni napoleonici, ottiene un trattamento più che equo: nessuno smembramento della Francia, ma una semplice e celere restituzione dei territori conquistati dal 1792 in avanti. Lo stesso anno, poi, parteciperà ai lavori del Congresso di Vienna in qualità di protagonista, contribuendo in maniera determinante a ridisegnare i confini dell’Europa nel nome dell’equilibrio e del concerto. Napoleone sarebbe morto solo ed esiliato, pochi anni più tardi, dopo un ultimo e disperato tentativo di riconquista del potere. Talleyrand, invece, sarebbe deceduto nel 1835, quasi ottantenne, non prima di aver coronato il suo ultimo sogno: riottenere la reinvestura episcopale, morendo in pace e in comunione con la Chiesa cattolica.

Luigi XIV il re rivoluzionario che ritardò la rivoluzione. Philip Mansel racconta l'ascesa di un monarca ragazzino che stabilizzò la Francia ma ad un prezzo altissimo. Matteo Sacchi, Mercoledì 17/02/2021 su Il Giornale. In che anno è iniziata la Rivoluzione francese? Nel 1789, lo sappiamo tutti. Avrebbe potuto avvenire con più di un secolo d'anticipo ed essere, nel bene o nel male, molto diversa. Probabilmente più simile a quella che costò la testa a re Carlo I d'Inghilterra, nel 1649. Per rendersene conto niente di meglio della corposa biografia di Luigi XIV appena pubblicata per i tipi di Mondadori e a firma di Philip Mansel: Il re del mondo. La vita di Luigi XIV (pagg. 824, euro 35). Mansel ricostruisce con acribia la vita (1638-1715) e il lungo regno del monarca che più ha caratterizzato, dalla guerra alla moda passando per la cultura, la seconda metà del Secolo di ferro e i primi anni del Secolo dei lumi. E proprio nelle pagine che tratteggiano il primo periodo del regno del giovane Luigi si può vedere come sarebbero facilmente bastati una reggente (Anna d'Austria) e un primo ministro, il cardinale Giulio Mazzarino, meno accorti perché la Francia andasse incontro a profondi rivolgimenti politici ben prima della nascita di Robespierre. Il Paese, stremato dal lungo confronto con la Spagna degli Asburgo, alla morte di Luigi XIII nel 1643 era una vera e propria polveriera sociale. Le grandi famiglie nobili, soprattutto i principi del sangue, erano ancora dotate di enorme potere e di eserciti privati, il parlamento di Parigi, ma anche le altre corti di giustizia sparse per il Paese, erano composte da una nobiltà di toga recalcitrante verso il potere centrale ed erano pronte ad impugnare ogni legge della monarchia che apparisse lesiva di libertà e «costumi della terra». Non solo, esistevano ancora tensioni tra ugonotti e cattolici, il sistema di tassazione era percepito come assolutamente vessatorio... Insomma, erano in corso tutti quei movimenti centrifughi che avrebbero provocato quei movimenti di rivolta noti come le due «Fronde». E qui si inserisce il miracolo Luigi XIV. Salito al trono a 5 anni, a lungo fu solo il, fragile, simbolo di una monarchia ancora rivestita di un potere mistico e magico ma sotto assalto sotto molti altri aspetti. A lungo la corte del giovane re fu costretta a vagare per le città francesi, essendo Parigi ingovernabile e il re a rischio di cattura da parte del potente di turno. I quattro anni che vanno dal 5 gennaio 1649, quando la corte dovette fuggire da Parigi, e il 3 febbraio 1653, quando riuscì a rientrarvi, sono tra i più confusi della storia di Francia. Ma intanto il giovane re iniziava a mostrare doti non comuni, a undici anni partecipò per la prima volta ad un consiglio di Stato. Nel 1650 contribuì con un pericoloso stratagemma a favorire l'arresto di due dei suoi principali nemici, i principi di Condé e di Conti. Li intrattenne fingendosi un ragazzino docile e timoroso, sino a condurli nel salone dove li attendevano guardie rege ben armate... Nel frattempo studiava sotto l'attenta sorveglianza di Mazzarino: latino, italiano, geografia e molta matematica. Gioco preferito di Luigi quando ne aveva tempo? La guerra. Addestrò sin dalla giovinezza una piccola truppa di nobili chiamati gli enfants d'honneur. Alcuni divennero ufficiali fidati dei suoi veri eserciti. Appena compiuti 13 anni, equivalenti alla sua maggior età, venne ripetuta la cerimonia d'incoronazione. Iniziava un maggiore percorso d'autonomia che però Luigi XIV si guardò bene dal forzare. Si tenne stretto Mazzarino che sarà stato pure molto lesto a convogliare verso le sue finanze private molti dei redditi della corona, ma sapeva come muoversi in ogni contesto diplomatico militare. Solo dopo il 1661, e la morte del cardinale, Luigi prese in mano completamente il regno. Ma l'esperienza costruita sino a quel momento lo rese capace di rintuzzare qualsiasi tentativo di destabilizzare il suo potere. Stroncò il potente sovrintendente alle finanze Nicolas Fouquet (1615-1680) noto come «lo scoiattolo». Aveva iniziato a distrarre grandi cifre dall'erario, a crearsi delle forze navali personali e a fortificare un'isola con 400 cannoni... Finì in carcere per il resto della vita ed iniziò l'ascesa di Colbert. Colbert compilava personalmente dei librini con cifre dorate, in cui Sua maestà poteva vedere l'andamento dei conti. Nonostante il noto sfarzo della costruenda reggia di Versailles in Luigi fu sempre presente l'idea dell'importanza del pareggio di bilancio e della creazione di manifatture francesi, capaci di far competere il Paese con le ben più avanzate, commercialmente parlando, Inghilterra e Olanda. Giusto per fare un esempio, tra i molti ricordati da Mansel, i francesi iniziarono una vera e propria guerra contro i veneziani per la fabbricazione dei pizzi. E ci scapparono pure un paio di morti, due maestri traditori trasferitisi in Francia e liquidati dagli agenti della Serenissima. Ovviamente questi buoni propositi economici portarono la Francia prima alla guerra dei dazi con i vicini e poi anche verso lo scontro aperto. C'era in Luigi un desiderio di egemonia che era sia ambizione personale sia la volontà di non veder mai più la Francia e la monarchia sull'orlo di sfaldarsi, sotto il peso delle pressioni esterne ed interne. Così Luigi si rivolse a quella che veniva chiamata Ultima ratio regum: ovvero le armi. Del resto proprio quel motto era inciso sui 13mila cannoni del suo esercito. Luigi sapeva bene, come del resto scriveva il suo segretario: «Dio è dalla parte dei grandi squadroni e dei grandi battaglioni contro quelli piccoli, e lo stesso vale per gli eserciti». Ma in questo caso Luigi dimenticò anche che Dio non è quasi mai dalla parte di chi ha troppi nemici. Dal 1688 in poi fu quasi solo e soltanto guerra. In un certo senso quelle stesse guerre che un secolo dopo travolsero il nuovo sogno della Francia forte incarnato da Napoleone. In questo caso Luigi riuscì a salvarsi sulla soglia del baratro. Dal 1697 si rassegnò a cedere terreno ai nemici. Morì nel 1715 di cancrena al centro della sua corte magnifica essendo ancora il sovrano più potente d'Europa. E di certo nessuno in Francia avrebbe mai osato, a quel punto, ribellarsi alla monarchia. Ma era un sovrano isolato, nonostante avesse garantito ai Borbone il dominio della Spagna. E un sovrano che per vincere e unire il Paese aveva prosciugato tutte le risorse, anche morali, disponibili alla monarchia. Versailles era un enorme monumento al potere dei re, ma un monumento funebre. Il più grande dei sovrani non può cambiare il destino di una Nazione o di una monarchia. Al massimo ritardarlo di un secolo.

Dagotraduzione dal dailymail.com l'11 aprile 2021. Secondo un nuovo studio, l’eruzione del Vesuvio che ha devastato la città di Pompei nel 79 dopo Cristo è durata circa 15 minuti. I ricercatori hanno stabilito che le temperature e la forza delle colate ad Ercolano erano talmente elevate da rendere impossibile la sopravvivenza, mentre a Pompei, più lontana dal Vesuvio rispetto ad Ercolano, sarebbe stato possibile sopravvivere se le colate fossero durate solo qualche minuto. Gli studi hanno stabilito che la città di Pompei è stata avvolta da una nube tossica per circa 17 minuti, abbastanza per rendere letale l’aspirazione di polveri presenti nell’atmosfera. Secoli dopo la riesumazione del sito archeologico i ricercatori continuano a fare nuove scoperte: a dicembre il direttore del Parco Archeologico di Pompei Massimo Osanna ha annunciato la scoperta di un Thermopolium, la versione antica dei ristoranti fast-food. La presenza di murali raffiguranti anatre, polli e altri animali suggeriscono la composizione del menu, dandoci una chiara idea di cosa si mangiava a Pompei ai tempi dell’eruzione.

Da tgcom.mediaset.it il 6 novembre 2021. Importante scoperta alle porte di Pompei. La grande villa suburbana di Civita Giuliana restituisce una stanza abitata dagli schiavi, ancora intatta. «Eccezionale. È rarissimo che la storia restituisca i particolari della vita dei più umili», spiega il direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel. Scoperte, dice il ministro Dario Franceschini, «che fanno di Pompei un modello di studio e ricerca unico al mondo». Lo scavo offre uno sguardo straordinario su una parte del mondo antico che normalmente rimane all'oscuro, dalla quale affiora uno spaccato rarissimo della realtà quotidiana degli schiavi. Grazie all’affinamento della tecnica dei calchi inventata da Giuseppe Fiorelli nell’Ottocento, sono stati portati alla luce letti e altri oggetti in materiali deperibili, che permettono di acquisire nuovi interessanti dati sulle condizioni abitative e di vita degli schiavi a Pompei e nel mondo romano. Nella stanza sono state trovate tre brandine in legno, disposte a ferro di cavallo: hanno misure diverse, la più piccola, non più lunga di un metro e quaranta, probabilmente destinata a un bambino. L'aspetto è quello di mobili essenziali, semplicissimi, «più che letti, brandine», dice il direttore. Costruiti con ingegno, però, con un sistema di modularità che permetteva di allungare o accorciare il giaciglio, a seconda dell'altezza di chi lo doveva occupare. Niente materassi, solo una pezza di tessuto stesa su una rete di corde che il calco in gesso ha fatto ritornare alla luce con impressionante precisione. E nulla a che vedere con i letti dei signori, sempre dotati di una tavola e di un morbido materasso. I muri sono spogli, nessun colore a parte una macchia di vernice bianca in alto sotto alla piccola finestra, nel punto dove veniva appesa una lucerna. «Serviva probabilmente ad amplificare il chiarore prodotto dal fuoco», ipotizza Zuchtriegel. Al di sotto delle brandine si trovavano pochi oggetti personali, tra cui anfore poggiate per conservare oggetti, brocche in ceramica e il "vaso da notte". Un discorso a parte meritano i tanti oggetti da lavoro: appoggiato al letto del bambino c'è proprio il grande timone del carro, era di legno ma il calco in gesso ha fatto riemergere su una parte della forcella una vistosa rappezzatura fatta con lo spago. Al centro del locale, invece, una grossa cassa con gli angoli in metallo custodiva i finimenti dei cavalli, avvolti in una pezza di stoffa. Oltre a fungere da dormitorio per un gruppo di schiavi, forse una piccola famiglia come lascerebbe intuire la brandina a misura di bambino, l'ambiente serviva come ripostiglio, come dimostrano otto anfore stipate negli angoli lasciati appositamente liberi per tal scopo. «Pompei è la prova che quando l'Italia crede in se stessa e lavora come una squadra raggiunge traguardi straordinari ammirati in tutto il mondo. Questa nuova incredibile scoperta a Pompei dimostra che oggi il sito archeologico è diventato non soltanto una meta tra le più ambite al mondo, ma anche un luogo dove si fa ricerca e si sperimentano nuove tecnologie - ha dichiarato il ministro della Cultura Dario Franceschini - Grazie a questo nuovo importante ritrovamento si arricchisce la conoscenza sulla vita quotidiana degli antichi pompeiani, in particolare di quella fascia della società ancora oggi poco conosciuta. Pompei è un modello di studio unico al mondo». «Si tratta di una finestra nella realtà precaria di persone che appaiono raramente nelle fonti storiche, scritte quasi esclusivamente da uomini appartenenti all’élite, e che per questo rischiano di rimanere invisibili nei grandi racconti storici - ha dichiarato il direttore generale, Gabriel Zuchtriegel - È un caso in cui l'archeologia ci aiuta a scoprire una parte del mondo antico che conosciamo poco, ma che è estremamente importante. Quello che colpisce è l'angustia e la precarietà di cui parla questo ambiente, una via di mezzo tra dormitorio e ripostiglio di appena 16 mq, che possiamo ora ricostruire grazie alle condizioni eccezionali di conservazione create dall’eruzione del 79 d.C. È sicuramente una delle scoperte più emozionanti nella mia vita da archeologo, anche senza la presenza di grandi 'tesori': il tesoro vero è l’esperienza umana, in questo caso dei più deboli della società antica, di cui questo ambiente fornisce una testimonianza unica». «Ancora una volta uno scavo nato dall'esigenza di tutela e salvaguardia del patrimonio archeologico, in questo caso grazie ad una proficua collaborazione con la procura di Torre Annunziata, ci permette di aggiungere un ulteriore tassello alla conoscenza del mondo antico - dichiara Massimo Osanna, direttore generale dei Musei sotto la cui direzione al Parco archeologico di Pompei sono stati avviate nel 2017 le attività di scavo - Lo studio di questo ambiente, che sarà arricchito dai risultati delle analisi in corso, ci permetterà di acquisire nuovi interessanti dati sulle condizioni abitative e di vita dagli schiavi a Pompei e nel mondo romano». 

Pompei, scoperte sensazionali? "Tutto falso", bomba precedenti sul ministro Franceschini.  Libero Quotidiano il 10 novembre 2021. Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini continua ad annunciare "scoperte eccezionali" a Pompei - e non solo - ma secondo il Fatto quotidiano, in realtà, queste scoperte di "speciale" hanno ben poco, è solo un modo del ministero per ottenere "un impatto sull'immaginario collettivo, utilizzando l'archeologia come propaganda politica". Una delle ultime "sensazionali" scoperte, si legge nell'articolo è la  "stanza degli schiavi" a Pompei. Nell'agenzia Ansa si parlava di "ambiente intatto", in realtà, si trattava di "una colata di gesso, usata per riempire i vuoti lasciati nella cenere dai materiali deperibili scomparsi - con una tecnica usata dal 1863 -, dava l'impressione di stuoie e letti ben conservati - in realtà ricostruiti nelle forme dal gesso". E poi, ci sono "l'ultimo fuggiasco", "il tesoro della fattucchiera", l'affresco "a luci rosse", e ancora la "bottega dello street food", o "calchi di gesso presentati come corpi o ambienti intatti, quando non lo sono". Addirittura, attacca il Fatto, Franceschini "nel 2019 è arrivato a parlare di 'iscrizione che cambia la storia'- spostando la data dell'eruzione di Pompei da agosto a ottobre - per un'iscrizione che non faceva che corroborare l'ipotesi di una eruzione autunnale, già fatta propria dagli archeologi da decenni". 

Ercolano, scoperto lo scheletro di un uomo in fuga dall’eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. A cura di Giuseppe Cozzolino il 15/10/2021 su Fanpage. Scoperto lo scheletro di un uomo di età 40-45 anni durante gli scavi nel Parco Archeologico di Ercolano: si tratta di una delle vittime dell’eruzione del 79 dopo Cristo, trovato a pochi metri dall’allora linea del mare. Una scoperta dall’immenso valore storico ed archeologico che potrebbe aiutare a comprendere meglio l’eruzione che cambiò profondamente il territorio costiero napoletano. Scoperto lo scheletro di un uomo di età 40-45 anni durante gli scavi nel Parco Archeologico di Ercolano: si tratta di una delle vittime dell’eruzione del 79 dopo Cristo, trovato a pochi metri dall’allora linea del mare. Una scoperta dall’immenso valore storico ed archeologico che potrebbe aiutare a comprendere meglio l’eruzione che cambiò profondamente il territorio costiero napoletano. Lo scheletro di un uomo di circa 40 anni è riemerso dagli Scavi Archeologici di Ercolano: si tratta di una persona che era in fuga dall'eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. Una scoperta sensazionale, che oltre al valore storico e archeologico inestimabile, consentirà anche di ricostruire ulteriori dettagli di quell'eruzione che cancellò buona porta delle città della costa napoletana e cambiò in maniera radicale anche la morfologia del territorio. Impossibile al momento identificare il ruolo dell'uomo in quella notte che cambiò il corso della storia di Ercolano e delle città vicine. La posizione è particolare: lo scheletro era riverso con la testa all'indietro e in direzione del mare, circondato da pesanti legni carbonizzati. Era a pochi metri dall'allora limite della costa, e questo lascia formulare alcune ipotesi: forse un uomo che, in fuga dalla città, potrebbe essersi girato per vedere quanta distanza aveva dal muro di lava, cenere e gas che invece lo avrebbe in quell'istante travolto in pieno. Ma non solo. Si pensa possa essere un militare romano, di "vedetta" alle navi della flotta di Plinio il Vecchio, che fissando quindi la terraferma aveva il compito di imbarcare quante più persone possibile per sfuggire alla catastrofe. O ancora, qualcuno rimasto indietro durante l'evacuazione disperata di quei momenti. Forse ad ucciderlo potrebbero essere stati una serie di fattori: le ossa appaiono infatti particolarmente "rosse", segno del sangue che si è rappreso all'istante sulle ossa stesse, segno di un processo di combustione quasi istantaneo. Ma all'altezza della testa c'è anche una pesante trave di legno carbonizzato: forse il pezzo di un tetto che, crollando, potrebbe averlo colpito poco prima che la lava lo raggiungesse. Tante ipotesi, tutte da verificare: la zona di ritrovamento è quella del vecchio arenile di Ercolano, dove poco distante furono trovati i resti di circa 300 persone ammassate nei magazzini del porto, in attesa dei soccorsi. Caio Plinio Secondo, conosciuto come Plinio il Vecchio, era accorso da Miceno con la flotta prima per "studiare" il fenomeno naturale che si stava scatenando, e poi per salvare quante più persone possibile una volta capita la gravità della situazione. Anche lui morì per le esalazioni dei gas sprigionati dalla furia del Vesuvio in quella eruzione. Di sicuro, però, il corpo ritrovato non può essere il suo: seppur appare sicuro (dalle testimonianze del nipote, Plinio il Giovane) che morì nei pressi del porto, aveva un'età di 56 anni nel 79 dopo Cristo. Troppi rispetto ai 40-45 dello scheletro ritrovato in questi giorni ad Ercolano.

 (ANSA il 27 febbraio 2021) Elegante e leggero, stupefacente per la complessità e la raffinatezza dei decori a tema erotico in stagno e bronzo, ancora con le tracce dei cuscini, delle funi, persino l'impronta di due spighe di grano lasciate su un sedile. A Pompei, gli scavi della villa di Civita Giuliana restituiscono uno straordinario carro da parata destinato forse al culto di Cerere e Venere o più probabilmente ad un'aristocratica cerimonia di nozze. "Per l'Italia un unicum" anticipa all'ANSA Massimo Osanna, direttore uscente del Parco Archeologico. Potrebbe trattarsi, di un Pilentum, antico carro cerimoniale usato dalle élites.

Antonio E. Piedimonte per “la Stampa” il 18 agosto 2021. Si chiamava Marcus Venerius Secundio, aveva sessant' anni, era un ex schiavo che aveva fatto carriera e amava la cultura, in special modo la musica e il teatro. Come un magico portale in grado di aprire finestre su duemila anni fa, lo scrigno pompeiano continua a distillare meraviglie, è di ieri l'ultima scoperta: un corpo mummificato - una rarità per gli Scavi più famosi del mondo - dentro una tomba senza precedenti che racconta la storia di un liberto riuscito a raggiungere un elevato status sociale ed economico sino a diventare un augustale, ovvero un membro del collegio di sacerdoti dediti al culto imperiale nonché a ricoprire il ruolo di custode del Tempio di Venere. Inoltre, ecco cosa si legge sull'epigrafe scoperta dagli archeologi: «Diede ludi greci e latini per la durata di quattro giorni». Frase che potrebbe sembrare solo una curiosità ed è invece è un'altra ragguardevole notizia: per la prima volta, infatti, si fa esplicito riferimento all'uso della lingua greca nella città romana distrutta dal Vesuvio. Un rito funerario eccezionale, un'iscrizione inedita, una pratica mai prima attestata in maniera diretta, ce n'è abbastanza per dire che il "battesimo" del nuovo direttore del Parco archeologico è stato all'altezza della situazione. «L'archeologia è un lavoro solitamente lungo ma può offrire grandi e improvvise sorprese», racconta a La Stampa Gabriel Zuchtriegel, che solo sei mesi fa raccoglieva il testimone dalle abili mani di Massimo Osanna grazie alla nomina firmata da Dario Franceschini («Pompei non smette di stupire e si conferma modello internazionale per la ricerca», ha commentato ieri il ministro). «È una sepoltura altamente insolita - spiega il responsabile degli Scavi - perché nella fase romana di Pompei il rito funerario di norma prevedeva la cremazione, e soltanto bambini piccoli venivano inumati. Si tratta di uno degli scheletri meglio conservati ritrovati, con capelli e un orecchio ancora visibili. Nel recinto sono state riscontrate due incinerazioni in urna, una in un bellissimo contenitore in vetro con il nome di una donna: Novia Amabilis. E abbiamo recuperato due unguentaria». Ora c'è da attendere nuovi studi per capire se la mummificazione è dovuta a un processo naturale (grazie al microclima creatosi nella tomba perfettamente sigillata) oppure se è stata intenzionale, ipotesi che aprirebbe il campo a rituali magico-sacrali e religiosi. «Nulla è casuale - dice Zuchtriegel, che ha studiato archeologia classica, preistoria e filologia greca - ma ora dobbiamo aspettare le analisi di laboratorio. Di certo sappiamo che Marcus è citato nell'archivio di Cecilio Giocondo e che preferì finanziare uno spettacolo d'arte piuttosto che i soliti giochi gladiatori, ma soprattutto che volle sottolineare (nell'iscrizione, ndr) il fatto che fosse in lingua greca, la lingua della cultura per antonomasia». Soddisfatto e grato il direttore ha voluto ricordare le preziose attività di scavo e di recupero curate dall'università di Valencia e coordinate dal professor Llorenç Alapont, e i funzionari del Parco: l'archeologa Luana Toniolo, la restauratrice Teresa Argento e l'antropologa Valeria Amoretti. Inoltre ha avviato gli interventi di messa in sicurezza della necropoli di Porta Sarno, che attualmente non è visitabile perché si trova al di là della linea ferroviaria, anche se è stato già varato uno studio per includerla nell'area aperta al pubblico. Per ora bisognerà accontentarsi della storia di Marcus, che seppe affrancarsi dall'oppressione della schiavitù sino a diventare un mecenate della cul

Laura Larcan per “il Messaggero” il 18 agosto 2021. La testa appare ricoperta di fitti, esili capelli bianchi, un orecchio risulta parzialmente integro, piccole porzioni di tessuto umano sono ancora conservate. L'ultima sorpresa di Pompei è il corpo mummificato (in parte) di un uomo di circa 60 anni. Le ossa sono in perfetta connessione, ma c'è dell'altro ad emozionare gli archeologi e antropologi. Lo scheletro rivela tracce di una sostanza che potrebbe essere asbesto: «Si tratta di una stoffa particolare che si usava per l'imbalsamazione, per preservare i corpi o una parte di essi dalla decomposizione». Lo racconta con l'emozione nella voce il professor spagnolo Llorenç Alapont dell'Università di Valencia, esperto di archeologia funeraria, che ha coordinato la campagna di scavo sotto la responsabilità del Parco Archeologico di Pompei guidato da Gabriel Zuchtriegel.

LE IPOTESI «Quell'uomo forse potrebbe davvero essersi fatto addirittura imbalsamare con l'intento di preservare il suo corpo dall'inumazione», riflette Alapont. Siamo nella necropoli di Porta Sarno, nella porzione orientale della città vesuviana, presso uno degli importanti varchi di accesso al centro urbano. Ed è qui che si sta scrivendo il nuovo, ennesimo, capitolo avvolto dall'aura del mistero. A riemergere dagli strati di cenerite compatta è stata una tomba a camera assai singolare. All'esterno, la facciata è decorata con figure di piante verdi su fondo blu, mentre all'interno la camera ha svelato la sepoltura per inumazione (rito usato in epoca molto più antica ma non a Pompei, dove i corpi degli adulti venivano sempre incenerati). Ad alimentare l'enigma, il ritrovamento di due urne: una, in vetro, appartiene ad una donna, Novia Amabilis, forse la moglie, per la quale si sarebbe usato un rito più propriamente pompeiano. Dall'iscrizione ritrovata, sappiamo che la tomba, che risale agli ultimi decenni di vita di Pompei (distrutta dalla furia del Vesuvio nel 79 d.C.) appartiene a Marcus Venerius Secundio, un liberto: ossia un ex-schiavo che aveva raggiunto un certo agio economico e sociale, abbastanza da potersi permettere una tomba a recinto (ad evocare l'immagine di un giardino felice). E tanto da potersi vantare, come si legge nell'iscrizione, di aver offerto «ludi greci e latini per quattro giorni». Ecco, dunque, la prima conferma che nei teatri di Pompei si recitava pure in lingua greca. «Un'ipotesi che gli studiosi negli anni hanno avanzato più volte - ricorda l'ex direttore del parco Massimo Osanna - soprattutto dopo il ritrovamento di una piccola tessera circolare in osso con inciso il nome Eschilo». Lo stato di conservazione del defunto è impressionante: una miniera d'oro di dati scientifici.

L'IDENTIKIT Perché la storia dell'uomo è incisa nelle ossa. «Doveva avere più di 60 anni e non aveva mai svolto lavori particolarmente pesanti», spiega Zuchtriegel. Ma resta il giallo della mummificazione. Una delle ipotesi è che il corpo del liberto fosse stato volontariamente mummificato, una cosa assolutamente non comune, «di cui non ci sono precedenti a Pompei». Un'altra possibilità, aggiunge, è che il corpo sia stato cosparso di sostanze naturali sempre con lo scopo di preservare: «Saranno le analisi chimiche a chiarirci il mistero», azzarda Alapont. Dopo i calchi, la mummia, insomma. Fino ad oggi erano state le tecniche sempre più sofisticate per realizzare i calchi in gesso dall'impronta dei corpi nella cenerite, a restituire nelle pieghe della pelle, gli abitanti di Pompei. Ora, arriva la mummia. Soddisfatto il ministro Dario Franceschini: «Pompei non smette di stupire e si conferma una storia di riscatto». Resta ora un altro nodo: la necropoli di Porta Sarno non rientra ancora nel percorso di visita perché al di là della ferrovia Circumvesuviana. E precisa il direttore: «Siamo al lavoro su uno studio di fattibilità».

Sensazionale scoperta a Pompei. Elena Fontanella il 28 febbraio 2021 su Il Giornale. Un raro esempio di carro romano da cerimonia, scoperto nella villa extraurbana di Civita Giuliana, è stato strappato alla furia dei tombaroli. Gli scavi di Pompei ancora una volta hanno riportato alla luce un importante tesoro che permetterà di ampliare le conoscenze sulla vita quotidiana degli antichi e sul nostro passato. «Un unicum per l’Italia – afferma il direttore uscente del Parco Archeologico di Pompei, Massimo Osanna – una scoperta di grandissima importanza per l’avanzamento delle conoscenze del mondo antico». Si tratta di un pregiato carro da parata emerso intatto a sei metri di profondità nello scavo della villa in località Civita Giuliana, finalmente strappata allo scempio dei tombaroli che negli anni hanno scavato profondi e lunghi cunicoli per sottrarne i tesori. Questo particolare mezzo di trasporto detto piletum era usato dai ceti abbienti (soprattutto dalle donne) per partecipare a cerimonie, ai giochi e per condurre la sposa alla focolare del marito dopo il matrimonio. Erano carretti di grande pregio, realizzati in legno dipinto di azzurro o di rosso e riccamente decorati sui fianchi con placche in stagno e rame raffiguranti scene erotiche tra satiri e ninfe tipiche del culto di Cerere e Venere. Venivano ornati con nappe e corone di fiori come i "carretti siciliani" con cui condividono molti tratti comuni soprattutto nel loro uso per le cerimonie matrimoniali. Qui il video dello scavo. Il carro ritrovato è composto da un cassone leggero in legno di faggio dipinto di rosso posato su quattro alte ruote in ferro connesse tra loro con un sistema meccanico di ottima tecnologia. All’interno una seduta contornata da bracciali e schienali metallici poteva contenere uno o due passeggeri. Grazie ai moderni metodi di scavo multidisciplinare il passato riemerge dal silenzio tempo in tutto il suo splendore. Il carro era pronto per essere usato prima che l’eruzione seppellisse la cittadina. Sono ancora visibili il colore rosso, tracce dei cuscini utilizzati sul sedile, le impronte delle funi che reggevano le corone di fiori e due spighe di grano lasciate sul sedile. La grande villa di Civita Giuliana si trova al di fuori dell’area di Pompei (pallino giallo). È particolarmente preziosa per la ricostruzione della vita quotidiana dei romani poiché al momento dell’eruzione era ancora abitata, diversamente da molte altre case pompeiane che si trovavano in corso di ristrutturazione per i danni del terremoto di pochi anni prima (62 d.C.). Negli scavi del 2018 furono rinvenuti sotto un portico i resti di due uomini (forse il signore con il suo schiavo ricostruiti dagli archeologi con la tecnica dei calchi) e, nella stalla che ospitava il carro, le ossa di tre cavalli sauri, uno dei quali sontuosamente bardato pronto per essere utilizzato. Grazie alla collaborazione con le forze dell’ordine e i carabinieri del Nucleo Tutela, gli scavi proseguono al riparo dalle intrusioni dei tombaroli e gli archeologi sono certi che la villa potrà restituire altri interessanti indizi per ricostruire la vita e le ultime ore di quanti la abitavano.

Pompei nella bufera per il nuovo direttore ma un "carro di lusso" zittisce la polemica. Due consiglieri scientifici si dimettono. Il ministro: "Guerra ai tombaroli". Nino Materi - Dom, 28/02/2021 - su Il Giornale. Sarà certamente una coincidenza. Ma sta di fatto che ogni volta che attorno al Parco archeologico di Pompei c'è aria di polemica, ecco spuntare - con altrettanta puntualità - la notizia di una «clamorosa scoperta archeologica»; ottima per «rilanciare nel mondo l'immagine di Pompei», ma buona pure per attutire il polverone del dissenso. E negli ultimi giorni in quel di Pompei le grane non sono mancate, a cominciare dalla querelle «diplomatica-istituzionale» relativa alle dimissioni di due (Stefano De Caro e Irene Bragantini) fra i quattro «grandi saggi» del Consiglio scientifico del parco a seguito della nomina appena decisa dal ministro per i Beni culturali, Dario Franceschini, del nuovo giovane direttore tedesco, Gabriel Zuchtriegel, al posto dell'italianissimo Massimo Osanna, «principale artefice del grande rilancio di Pompei» (Franceschini dixit). Nei giorni scorsi la coppia De Caro-Bragantini aveva scritto una lettera a Osanna che si concludeva così: «Non ci sono le condizioni per collaborare con il Suo successore». Apriti cielo. Ma ora a richiuderlo - il cielo, ma soprattutto l'imbarazzo per le dimissioni dei due consiglieri - è giunta, provvidenziale, la scoperta di un «reperto unico, finora mai rinvenuto in Italia, miracolosamente scampato all'azione di saccheggio dei tombaroli». Quando si dice la combinazione. Ma pensare male sarebbe davvero una pretestuoso. Non ci resta quindi che esultare con i vertici del Parco Archeologico e dalla Procura della Repubblica di Torre Annunziata che ieri hanno all'unisono spiegato la valenza storica e culturale del «carro da parata emerso dallo scavo della villa suburbana in località Civita Giuliana, a nord di Pompei, oltre le mura della città antica». Un successo arrivato «nell'ambito dell'attività congiunta, avviata nel 2017 e alla luce del Protocollo d'intesa sottoscritto nel 2019, finalizzati al contrasto delle attività illecite ad opera di clandestini nell'area». «Pompei continua a stupire con le sue scoperte e sarà così per molti anni con venti ettari ancora da scavare - ha dichiarato un radioso Dario Franceschini -. Ma soprattutto dimostra che si può fare valorizzazione, si possono attrarre turisti da tutto il mondo è contemporaneamente si può fare ricerca, formazione e studi». Il ministro della Cultura ha quindi ringraziato i carabinieri del nucleo Tutela patrimonio culturale per «aver scongiurato che reperti così straordinari fossero trafugati e illecitamente immessi sul mercato». Il grande carro cerimoniale a 4 ruote è stato rinvenuto nel porticato antistante alla stalla, dove nel 2018 erano emersi i resti di tre cavalli. «Si tratta di un ritrovamento unico, che non ha precedenti in Italia, in ottimo stato di conservazione», ha sottolineato Massimo Osanna, neo direttore generale dei musei del ministero dei Beni culturali. Da parte invece del nuovo direttore del Parco archeologico di Pompei, Gabriel Zuchtriegel, nessuna dichiarazione. Chissà perché.

Laura Larcan per "il Messaggero" l'11 febbraio 2021. Lo sguardo fiero, gli occhi neri ipnotici con quell' iride plasmata in pasta vitrea, e la tensione del busto che sembra mosso da un fremito, le braccia si alzano con energica eleganza e la veste, attraversata dall' aria, s' increspa in mille pieghe. È un virtuosismo di bronzo la statua di Diana Saettante proveniente dal Tempio di Apollo a Pompei, che spicca ora sotto le titaniche volte del Colosseo ad impreziosire la mostra Pompei 79 d.C. Una storia romana, evento a lungo annunciato e rimandato per la quarantena da Covid e da oggi visitabile fino al 9 maggio (organizzazione di Electa).

Quanto deve Pompei a Roma?

«L' idea di questa mostra è nata per raccontare quattro secoli di storia fondamentale, dal 308 a.C. anno in cui viene siglato un trattato di alleanza tra Roma e Pompei, fino al 79 d.C. momento dell' eruzione che distrusse la città, ma che allo stesso tempo la consegnò ai posteri ad eterna memoria, cristallizzata in quell' epoca esatta», precisa la direttrice Alfonsina Russo. Una mostra che deve molto del suo percorso alle intuizioni del maestro archeologo Mario Torelli, recentemente scomparso, e che vanta la sinergia con il parco di Pompei e il Museo archeologico nazionale di Napoli (rappresentati ieri da Massimo Osanna e Paolo Giulierini).

LA PARABOLA. È un viaggio nel tempo, lungo l' ambulacro del Colosseo, che indaga la fase di alleanza tra le due città, la fase della colonia fino al declino e al dramma della furia del Vesuvio. Con due momenti chiave che segnarono la vita della città campana: «L' assedio da parte di Silla nell' 80 a.C. durante le guerre sociali, e il terremoto del 62 d.C.», aggiunge la Russo. Non tutti sanno che l' immagine di Pompei consegnata alla storia dall' eruzione del Vesuvio è quella di una città faticosamente impegnata a risollevarsi da un terribile sisma: era il 5 febbraio di un anno imprecisato (il 62 o il 63 d.C.) sotto il regno di Nerone, e la terra a Pompei tremò. Ci son voluti due anni di lavoro per raccogliere i reperti confluiti nell' allestimento di Maurizio di Puolo. La fase dell' alleanza è raccontata perfettamente dall' Artemide Diana Saettante (in prestito da Napoli) che merita tutta la visita. «Ci piace pensare che fosse un dono proveniente dal bottino di guerra del console Lucio Mummio che nel 146 a.C. conquistò Corinto - dice la Russo - Le fonti ci tramandano che il console romano donò diverse statue ai templi pompeiani e questa è sicuramente una statua di fattura greca». E ancora il raffinato mosaico dei pesci della Casa del Fauno di Pompei, un capolavoro impressionante di virtuosismo, che testimonia la presenza nella città vesuviana di maestranze alessandrine abilissime a comporre quadri con tasselli minuscoli di marmi preziosi e pasta vitrea. Spicca, poi, una sorprendente statuetta di divinità in avorio originaria dell' India, che evoca le rotte internazionali dei commerci che Roma e Pompei intrecciavano con i popoli dell' Asia tra II e I secolo a.C. Piccola ma epica per la sua forza e grazia, proviene da un' abitazione di Pompei, appartenuta forse ad una famiglia di impresari navali benestanti. Mosaici, statue e corredi funerari a confronto, ma soprattutto affreschi. Con quel rosso pompeiano che esplode sulle pitture parietali che arrivano dal Museo Nazionale di Napoli, messe in rapporto con il grande pannello in stucco e pitture policrome dalla casa di Meleagro. Un' opera che racconta tanto del cosiddetto IV Stile pompeiano, regalando estro e vivacità dei colori che ora si possono ammirare nella Domus Aurea: «Va ricordato che la grande pittura nasce a Roma, e che Pompei ne è il riflesso. Sono le circostanze dello stato di conservazione di Pompei che, a differenza di Roma, ci hanno restituito lo splendore dei colori».

LA DOMUS SEGRETA. Per capire quanto le famose e leggendarie domus di Pompei devono anche a Roma, basta scoprire la Domus del Gianicolo, una chicca del percorso di visita. Per la prima volta è stata ricostruita con i materiali originali l' architettura di questa Domus scoperta sul colle romano nel 2000. E dove, davvero, sembra che si possa dipingere con il marmo, tanta è la raffinatezza decorativa. «L' aspetto particolare è che al momento della scoperta, i materiali marmorei decorativi preziosissimi erano tutti accatastati in un solo ambiente - racconta Alfonsina Russo - Probabilmente era in corso una ristrutturazione dell' edificio perché gli elementi decorativi erano più antichi, databili al I secolo d.C., rispetto alle strutture murarie che erano pertinenti al II secolo». Capitelli, statue, fregi e rilievi, erano chiusi da anni nei depositi del Museo Nazionale Romano. Ora lo spettacolo.

I CALCHI RITROVATI. «La ricostruzione dà l' idea del lusso delle case romane imperiali che sono state prese a modello dall' aristocrazia pompeiana. Pompei d' altronde ha avuto una storia diversa da Roma perché dopo la furia del Vesuvio non ha conosciuto le stratificazioni successive». Ci si trova di fronte ad una grande parete scandita da lesene e capitelli realizzati in tasselli di marmi preziosi provenienti da tutto il Mediterraneo. Si aprono nicchie, e qui brilla la statue di Afrodite insieme ad un sistema di capitelli scolpiti con due delfini in posizione araldica a incorniciare un tridente. Forse era un ninfeo dove l' elemento acquatico era protagonista. Il finale è un coup de théâtre. Con un cortometraggio ispirato all' epistolario di Plinio e Tacito, in cui si ricostruiscono le ultime ore tragiche della città, seguendo la storia di una fanciulla nella disperazione della fuga, e del suo cane legato ad una catena. E quando si riaccendono le luci, compaiono i calchi originali dei corpi. Prestiti da Pompei. Commovente.

Il pacco anonimo e il biglietto di scuse recapitato alla Sovrintendenza. Visitatore pentito restituisce reperto trafugato a Pompei 50 anni prima: “Mi vergogno, scusate”. Rossella Grasso su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. Un pacco anonimo contenente il frammento del volto in terracotta di una donna e un biglietto di carta bianco con su scritto a penna: “Cinquanta anni fa ho asportato da un edificio questo frammento. Me ne vergogno e lo restituisco al proprietario. Scusate”. È questo il contenuto del pacco recapitato alla Sovrintendenza con il curioso pentimento a distanza di 50 anni. A raccontare la vicenda è stato Massimo Osanna, direttore generale ad interim della Soprintendenza con un post su Instagram. “A volte ritornano, per posta, ormai settimanalmente”, ha detto. Postando la foto e il biglietto di scuse il direttore ha lasciato intendere che pentimenti di questo tipo sono diventati sempre più frequenti. Nel pacco c’era un frammento di antesissa, che ritrae il volto di una donna in terracotta e che solitamente rappresenta una parte sporgente decorativa dei tetti delle domus antiche. Un reperto grande una decina di centimetri ed è datato 79 dopo Cisto. Il Parco archeologico di Pompei da anni è stata vittima del furto di reperti antichi e per questo motivo si è dotata di un sistema di videosorveglianza composta da 400 telecamere. I custodi vigilano attentamente che le regole siano rispettate ma la cultura della cura di quel bene di valore storico archeologico senza pari nel mondo ha preso piede. E così “settimanalmente”, come dice Osanna, qualcuno restituisce all’umanità qualcosa che aveva indebitamente sottratto.

Precisazione di Massimo Osanna pubblicata da "Italia Oggi" il 2 gennaio 2021. "In riferimento all’articolo apparso su Italia oggi “Fast food  di Pompei con la bufala” che chiama in causa il Parco archeologico per presunta scorrettezza della comunicazione, ci preme sottolineare quanto segue. Il docufilm su Pompei ha avuto un successo in Italia e all’estero tale che, a nostro avviso,  rappresenta motivo di orgoglio e vanto  generale per il Paese, soprattutto rispetto all’opportunità di diffondere cultura, attraverso la carta stampata, i canali social, e in particolare attraverso la televisione, che notoriamente raggiunge il grande pubblico. In merito ai tempi di annuncio della scoperta, non si comprende invece  la polemica. Come specificato nel comunicato divulgato dal Parco archeologico, il termopolio è stato portato in luce parzialmente nel febbraio 2019, quando nell’ambito dell’intervento di manutenzione dei fronti di scavo previsto dal Grande Progetto Pompei ne è emersa la facciata, con l’affresco della Nereide sul fronte  e la figura del bancone con  le anfore su uno dei lati. All’epoca, gli scavi si sono dovuti inevitabilmente limitare alla sola facciata del termopolio, al fine di rientrare nel progetto previsto dai fondi europei. Per ulteriori esigenze di tutela, non potendo conservare gli affreschi  in situ in quelle condizioni  di parziale scavo, ed evitare di doverli staccare e decontestualizzare, oltre che per la straordinarietà della decorazione – a Pompei non sono stati rinvenuti  termopoli con banconi così riccamente dipinti - si è deciso di  lavorare a un ulteriore progetto su fondi ordinari del Parco, per indagare l’intero ambiente. Lo scavo iniziato il 26 ottobre 2020 - con la rimozione graduale dei primi strati superficiali di terreno, e via via di cenere e lapilli - si è concluso il 18 dicembre. Fino al 24 dicembre scorso si è poi  lavorato con le analisi di Laboratorio sui materiali organici rinvenuti, per acquisire i dati sui contenuti,  e si è contestualmente proceduto alla messa in sicurezza dell’ambiente, nonché alla completa documentazione fotografica. Solo a cantiere terminato se ne è potuto dare notizia. La stessa Rai ha potuto filmare le ultime scoperte solo il 18 dicembre, per integrare il documentario trasmesso. Qualsiasi cantiere  - come ben noto agli archeologi - richiede settimane di accurato e graduale lavoro  come attestano i report delle attività di scavo che includono documentazione fotografica e diario di scavo di dettaglio, con relativa datazione. Dispiace pertanto che polemiche gratuite mettano in discussione un  grande lavoro di equipe, che ha dato grandi risultati, con una divulgazione di successo che contribuisce ad una sempre maggiore conoscenza del nostro straordinario patrimonio culturale italiano."

La risposta di Claudio Plazzotta. Grazie molte per la puntuale ricostruzione dei tempi degli scavi che hanno portato alla luce il Termopolio a Pompei. Ma ItaliaOggi non contesta le opportune prudenze nei lavori del parco archeologico, ne il fatto che ogni scavo necessita di puntuali finanziamenti. Semplicemente si sottolineava questa stranezza: una opera di importanza mondiale (basti vedere la eco avuta il 26 e 27 dicembre scorsi sulla stampa internazionale) viene scoperta nel febbraio 2019, ma la scoperta viene comunicata solo il 26 dicembre 2020, quasi due anni dopo, guarda caso il giorno prima della messa in onda del documentario su Rai Due. Tutto qui.

Giorgio Gandola per "La Verità" il 2 gennaio 2021. La tavola calda di Pompei ci ha servito una Luisona. La brioche rafferma resa immortale dall'autore satirico Stefano Benni nel libro Bar Sport se la sono mangiata tutti, dai giornali alle tv ai social, in un sabba mediatico postnatalizio che negli ultimi anni ha avuto pochi eguali nel panorama archeologico italiano. Sembrava che il Thermopolium, una specie di fast food di 2.000 anni fa, fosse stato portato alla luce da Babbo Natale in persona e consegnato come cadeau al ministro della Cultura, Dario Franceschini, che nelle dichiarazioni e nelle interviste dei giorni scorsi si è dimenticato di sottolineare un dato rilevato ieri con sagacia da Italia Oggi: il ritrovamento è vecchio di almeno un anno e mezzo ed è stato utilizzato a orologeria per lanciare un documentario francese su Rai2. Il sospetto del semi-tarocco è sorto il 27 dicembre alla messa in onda del docufilm Pompei ultima scoperta che anche per il furbo battage pubblicitario ha ottenuto una media share dell'11,4% (2.976.000 spettatori), molto al di sopra della media del 6% scarso della rete in prima serata. Un termopolio intatto, con affreschi straordinari, nel quale gli abitanti andavano a rifocillarsi nel 79 dopo Cristo, ha costituito un'attrazione liberatoria per telespettatori costretti all'asporto con mascherina nel plumbeo Natale apparecchiato da Giuseppe Conte. Della serie: che invidia. In realtà lo scavo era cominciato nel 2018 e il bar pompeiano era stato portato alla luce nel 2019. Dirlo chiaramente non avrebbe offeso nessuno e avrebbe sollevato il servizio pubblico da un'imbarazzante situazione. È bastato qualche minuto di proiezione per smascherare la furbata: alla scoperta del sito sono stati dedicati i primi dieci minuti, appiccicati con cura su un documentario dedicato alle ultime ore di Pompei raccontate dal direttore del parco archeologico Massimo Osanna, l'unico che in un comunicato aveva specificato che il termopolio era stato «solo parzialmente indagato nel 2019». Titolo originale curiosamente in francese: Les dernières heures de Pompéi. Perché? Il motivo costituisce la seconda sorpresa di questo regalo natalizio. Il prodotto non è stato creato in Italia e non è della Rai, nonostante l'azienda si avvalga di una sezione interna chiamata appunto Rai Documentari diretta da Duilio Giammaria. Il manager è stato nominato in quota Movimento 5 stelle con voti favorevoli in cda di Fabrizio Salini, Beatrice Coletti (scelti da Luigi Di Maio) e del rappresentante sindacale Riccardo Laganà. Il film appartiene alla Gedeon Programmes ed è stato realizzato in coproduzione con il Parco archeologico di Pompei, France Télévision, la televisione belga, l'Ebu (Unione europea di radiodiffusione), l'americana Curiositystream ed NHK, il servizio pubblico giapponese. Tutti tranne la Rai, anche se la voce narrante è quella di Osanna, dirigente molto vicino al ministro Franceschini che nel 2014 lo mise a capo delle rovine di Pompei. La massima azienda culturale italiana ha acquistato il documentario, ha costruito l'incipit sul fast food del primo secolo dopo Cristo, lo ha mandato in onda ed è passata a incassare i complimenti. Tecnicamente, come ha spiegato il direttore Giammaria «lo abbiamo attualizzato con l'équipe interna». È curioso notare che una sezione come Rai Documentari, dedicata e finanziata con denari pubblici, si limiti ad attualizzare iniziative altrui dopo averle lautamente pagate. Si attendono segnali di risveglio dalla Commissione parlamentare di Vigilanza. L'intera faccenda ha creato non pochi mal di pancia interni (effetto non solo della Luisona) e dopo l'accrocchio tecnologico è venuto alla luce il solito accrocchio politico. In questo caso un'alleanza fra pentastellati (l'ad Salini e Giammaria) e i manager del Mibact impegnati a realizzare il sogno del ministro: costituire la Netflix italiana. Orgoglioso per l'audience, lo stesso Salini si è sbilanciato: «Il successo sottolinea la sintonia della Rai con il suo pubblico giustamente esigente. Ed è il riconoscimento del grande lavoro dei dipendenti e di Rai documentari». Per la verità i due docufilm precedenti erano stati un flop epocale: Food revolution - Il futuro del cibo, anch'esso comprato all'estero, aveva ottenuto il 3,2% di share (746.000 spettatori) e Butterfly l'1,94% con 313.000 spettatori. Quest'ultimo è stato prodotto in Rai e portato avanti con grande favore proprio dal ministero della Cultura. Con questi numeri una major americana avrebbe già mandato a casa tutti. Franceschini pensa alla sua Netflix fuori dalla Rai, o comunque sfruttandone solo in minima parte le risorse interne. Orgoglioso della sua legion d'onore, ha un occhio di riguardo per la cinematografia francese anche se si tratta di illustrare Pompei. Di conseguenza i costi pubblici lievitano e la struttura mormora. Il ministro è particolarmente presente in questi ultimi tempi in azienda con i suoi uomini di riferimento; non dimentichiamo che il famoso presepe laico divenuto ingombrante per Nicola Sinisi è stato trasferito agli Uffizi per chiudere le polemiche. Vive la France. Eppure in Rai i documentari sono sempre stati una risorsa primaria. Alberto Angela li propone con successo da una vita, ha un contratto con l'azienda e ne utilizza le potenzialità. Proprio nel mitico sito archeologico aveva realizzato per Rai 1 con successo Stanotte a Pompei. A detta di chi lo conosce bene, ultimamente si è sentito emarginato, senza la piena libertà di girare le riprese necessarie, stranamente frenato da Osanna. Il 27 sera, davanti alla Luisona d'Oltralpe, deve avere capito il motivo.

Così l'arte e la filosofia del cibo hanno reso l'uomo più uomo. Dall'homo sapiens ai giorni d'oggi, la cucina ci ha cambiato radicalmente. E ci ha spronati ad esser sempre migliori. Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Domenica 10/01/2021 su Il Giornale. In principio fu il fuoco. È infatti grazie ad esso che siamo diventati ciò che siamo oggi. È ciò che differenzia il nostro modo di mangiare da quello degli animali. Di più, nota Massimo Montanari in Il cibo come cultura (Laterza): "Il crudo e il cotto, a cui Claude Lévi-Struss dedicò un saggio giustamente celebre, rappresentano i poli opposti della contrapposizione - peraltro ambigua e per nulla semplice - fra Natura e Cultura". Il fuoco ha modificato non solo i nostri stomaci, ma anche i nostri volti. E, soprattutto, ci ha dato molto tempo libero. Sia lode al fuoco. Avete presente cosa fanno le scimmie nelle foreste o le mucche al pascolo? Masticano. Per ore. L'uomo no. Merito anche del fuoco. Come nota Michael Pollan, in un libro che non poteva che chiamarsi Cotto (Adelphi), "l'avvento del cibo cotto modificò il corso dell'evoluzione umana: fornendo ai nostri progenitori una dieta più facile da digerire e con una maggior densità di energia consentì al nostro cervello (un organo che, com'è noto, è un gran divoratore di energia) di diventare più voluminoso, e al nostro intestino di accorciarsi". Non solo: il fuoco detossifica e, così facendo, allarga (e non poco) le possibilità di nutrirsi. Cucinare è qualcosa di magico. E non in senso romantico. Si prende una materia prima e la si trasforma, anche mettendola semplicemente sulla brace. Il suo colore e il suo sapore cambiano. Si arricchiscono. Ed è forse per questo che, nell'antica Grecia, c'era un solo termine per indicare il cuoco, il macellaio e il sacerdote: mageiros, una parola che ha la stessa radice etimologica di magia. Mettersi ai fornelli è dunque tutto questo. Anche se ce lo siamo dimenticati, nonostante il numero sempre maggiore di programmi di cucina. Secondo i dati degli ultimi anni, infatti, gli italiani passano sempre meno tempo in cucina (lockdown a parte). Siamo attratti dal cibo, ma non abbastanza da dedicargli il tempo che si merita. Ci buttiamo così sul già pronto, senza renderci conto che, così facendo, diventiamo schiavi. Scrive giustamente Pollan: "Cucinare per il piacere di farlo, dedicare una parte del nostro tempo libero a questa attività, significa dichiarare la nostra indipendenza dalle industrie che cercano di di organizzare, così da farne un'ulteriore occasione di consumo, ogni nostro singolo istante di veglia (e a pensarci bene, non solo quelli: la pillola di sonnifero vi dice qualcosa?). Significa respingere, almeno fintanto che siamo a casa, l'idea che la produzione sia svolta meglio da qualcun altro, e che l'unico modo legittimo per impiegare il tempo libero sia il consumo: un'idea che ci sottrae forza. I venditori chiamano 'libertà' questa forma di dipendenza. Cucinare non ha soltanto il potere di trasformare piante e animali: trasforma anche noi, da meri consumatori a produttori". Cucinare stimola la nostra intelligenza, oltre alla nostra creatività. E, soprattutto, ci permette di sopravvivere. Pensate alla Caesar Salad, per esempio. Siamo in pieno proibizionismo quando, il 4 luglio del 1924, il ristorante dello chef italiano Caesar Cardini viene preso d'assalto dai soliti turisti americani in cerca di alcolici. Lui, per cercare di sfamarli (e non far prendere loro una sonora sbronza), mette insieme gli avanzi che ha in cucina: lattuga romana, uova, crostoni, salsa Worcestershire, parmigiano, succo di limone e olio di oliva. È un successo, tanto che alcuni anni dopo Cardini deve brevettare questo dressing. Il suo smette di essere un piatto ed entra nella leggenda. La sua storia è raccontata in Quando un piatto fa storia. L'arte culinaria in 240 piatti d'autore (L'ippocampo). Che non è solo un libro di ricette - tranquilli, alla fine trovate anche quelle - ma un libro di storia della cucina, da Procopio Cutò ("l'inventore" del gelato) a Christophe Pelè. In questi quattrocento anni di storia trovate di tutto, dai voulevant di Marie Antoine Carême, il cuoco di Luigi XV, al Riso, oro e zafferano di Gualtiero Marchesi, lo chef che rivoluzionò la cucina italiana: "Per Marchesi - si legge in Quando un piatto fa la storia - la scena culinaria degli anni '70 era un imbarazzante sfoggio di romanticismo bucolico che brillava per assenza di tecnica. (...) Considerata il suo capolavoro, la ricetta sintetizzava i principi di Marchesi: non solo coinvolgeva il gusto in modo innovativo, ma suscitava anche una riflessione sul contesto storico e sulla tavola come autentica messa in scena. Coniugando i dualismi pericolo-attrazione e veleno-nutrimento, il piatto era al tempo stesso visivo, letterale, metaforico, spettacolare ed effimero. Se lo zafferano era ritenuto fin dal Medioevo la versione commestibile dell'oro, accompagnare il risotto con l'autentico metallo significava riconoscere che la tradizione culinaria si tramanda da una generazione all'altra arricchendosi nel corso del tempo". Era dai tempi di Pellegrino Artusi che l'Italia non vedeva una rivoluzione simile in cucina. A proposito: La Nave di Teseo ha da poco ripubblicato La scienza in cucina e l'Arte di mangiare bene, il celebre volume dell'Artusi, oggi curato da Fabio Francione, che scrive: "Gli italiani ebbero da lui la loro cucina. Non che non l'avessero in precedenza, tutt'altro, ma era loro riconosciuta per regioni, particolareggiata per città e province e non come blocco unico a cui attingere liberamente anche nella commistione dei nomi e delle varianti locali. Ciò lo annovera a tanti altri scrittori italiani che hanno saputo inventare e dare nomi a mondi sconosciuti come ad esempio Pasolini". Nel libro, l'Artusi propone 790 ricette, la gran parte delle quali ancora attuali. È da qui che bisogna partire se si vuol cominciare a spadellare seriamente. Qui ci sono le basi, come le paste ripiene, gli arrosti e i bolliti (che sono un'altra cosa rispetto i lessi), che tutti dovrebbero conoscere. Ma non solo. Sempre La Nave di Teseo ha dato alle stampe Pantagruel, una rivista quadrimestrale che, come scrive Elisabetta Sgarbi, "ha in sé una vocazione al disordine, alla voracità, alla fame e sete di un tutto mai veramente circoscrivibile. C’è un principio di anarchia e di sovversione, non gridato, non roboante ma silenzioso e persino pudico. Come La nave di Teseo". Pantagruel è una rivista per chi ha fame. Per chi è vorace. Non solo di cibo, ma anche (e soprattutto) di cultura. Ed è disposto a mettersi in gioco e a cambiare i piani, come ha fatto la stessa casa editrice. Il primo numero, lo zero, sarebbe dovuto essere infatti sulla filosofia del cibo e del vino. Ma così non è stato. Già perché, nel frattempo, Elisabetta Sgarbi si è imbattuta in Matera e nel suo pane e così ha cambiato tutto, dedicando il volume pilota proprio a questo alimento. "Partito prima, dunque, il progetto di "Pantagruel - Filosofia del cibo e del vino" arriva in libreria dopo, con un tempo più lungo di gestazione, necessariamente più ricco del numero zero, che, tuttavia, mostrava la freschezza e l'auta che spettano agli inizi". Buona lettura dunque. O buon appettito (anche se non si dovrebbe dire). Ma questa è un'altra storia...

Quando i meridionali greco-latini già cucinavano, i barbari al nord ancora a macerare la carne cruda sotto la sella. Pompei, la straordinaria scoperta: riportato alla luce il Termopolio. Per Massimo Osanna, direttore del Parco Archeologico di Pompei, la scoperta "restituisce un'incredibile fotografia del giorno dell'eruzione". Gabriele Laganà, Sabato 26/12/2020 su Il Giornale. Pompei non smette di regale sorprese sensazionali. Dopo millenni è tornata alla luce un Thermopolium, una sorta di antica bottega di alimentari con smercio di street food, genere molto amato dai cittadini dell’epoca. Una struttura quasi integra formata da un grande bancone ad "elle" decorato con immagini così realistiche da apparire quasi tridimensionali che riproducono una ninfa marina a cavallo e animali dai colori accesi. A stupire non solo i disegni ma anche il ritrovamento in alcuni recipienti di tracce di alimenti che venivano venduti in strada, dal capretto alle lumache passando per una specie di antica paella e il vino corretto con le fave. Tutto praticamente fermo al giorno dell’eruzione del Vesuvio. Un po’ come una capsula del tempo formata dal materiale piroclastico espulso dal vulcano che ha avvolto, sigillandone, gli elementi fondamentali. "Una fotografia di quel giorno nefasto", è stato il commento rilasciato all'Ansa dal direttore del Parco Archeologico di Pompei Massimo Osanna. "Oltre a trattarsi di un'ulteriore testimonianza della vita quotidiana a Pompei- ha aggiunto- le possibilità di analisi di questo Termopolio sono eccezionali, perché per la prima volta si è scavato un itero ambiente con metodologie e tecnologie all'avanguardia che stanno restituendo dati inediti". Un team interdisciplinare di specialisti (tra cui un antropologo, un fisico, un archeologo, un archeobotanico un archeozoologo, un geologo ed un vulcanologo), stanno già studiando, attraverso analisi chimiche, il materiale per verificare quanto questa scoperta possa ampliare le conoscenze sulle abitudini alimentari di età romana. Il Termopolio è collocato nella Regio V, all'angolo fra il vicolo dei Balconi e la casa delle Nozze d'Argento, era stata individuato e parzialmente scavato nel 2019 durante gli interventi del "Grande Progetto Pompei" per la messa in sicurezza e consolidamento dei fronti di scavo storici. In quell’anno era riemersa l'impronta lasciata sulla cenere da uno dei grandi portoni in legno ed era stato ritrovato il balcone del primo piano insieme con una prima parte del bancone. Di fronte al Termopolio erano già emerse una cisterna, una fontana e una torre piezometrica per la distribuzione dell'acqua, dislocate a poca distanza dalla bottega già nota per l'affresco dei gladiatori in combattimento. Sono stati gli scavi recenti a restituire al mondo quelle opere, oggi di immenso valore, che si pensava andati persi a causa dalla potenza del Vesuvio. L’aver riportato oggi alla luce l’intera struttura è motivo di grande soddisfazione. Anche il ministro per i Beni e per le Attività culturali e per il Turismo, Dario Franceschini, applaude alla scoperta sottolineando il frutto del lavoro di squadra che si sta facendo nella storica località della Campania: "Un grande esempio per la ripresa del Paese Con un lavoro di squadra, che ha richiesto norme legislative e qualità delle persone, oggi Pompei è indicata nel mondo come un esempio di tutela e gestione, tornando a essere uno dei luoghi più visitati in Italia in cui si fa ricerca, si continua a scavare e si fanno scoperte straordinarie come questa". In questa nuova fase di scavo sono emerse altre suggestive scene di nature morte con rappresentazioni di animali, probabilmente macellati e venduti nel locale. Come ha spiegato nella sua relazione l'archeozoologa Chiara Corbino, i resti dei piatti in menù "con l'impiego congiunto di mammiferi, uccelli, pesce e lumache nella stessa pietanza", rappresentano di fatto una specie di paella. Valeria Amoretti, funzionario antropologo del Parco, ha annunciato i primi rinvenimenti: "Le prime analisi confermano come le pitture sul bancone rappresentino, almeno in parte, i cibi e le bevande effettivamente venduti all’interno del termopolio: tra i dipinti del bancone sono raffigurate due anatre germane, e in effetti un frammento osseo di anatra è stato rinvenuto all’interno di uno dei contenitori, insieme a suino, caprovini, pesce e lumache di terra, testimoniando la grande varietà di prodotti di origine animale utilizzati per la preparazione delle pietanze". Frammenti ossei, probabilmente appartenenti agli stessi animali, sono stati inoltre rinvenuti all'interno di recipienti facenti parte del bancone contenenti cibi destinati alla vendita. Altrettanto interessante è il rinvenimento di ossa umane: alcune sono di un individuo di almeno 50 anni che, verosimilmente, al momento dell'arrivo della corrente piroclastica, era su un letto di cui incredibilmente restano tracce. Altre ossa, ancora da indagare, sono di un altro individuo e sono state rinvenute all'interno di un grande vaso. Questi ultimi resti forse potrebbero essere stati occultati lì da scavatori forse del XVII secolo. Rinvenuto anche lo scheletro di un cagnolino trovato a un passo da bancone, proprio vicino al dipinto che ritrae un cane al guinzaglio. C’è anche una ironica, forse omofoba, iscrizione graffita: "Nicia cinede cacato", si legge sulla cornice che racchiude il dipinto del cane. Ovvero: "Nicia (probabilmente un liberto proveniente dalla Grecia) Cacatore, invertito". Gli studiosi presumono che tale frase sia stata lasciata per prendere in giro il proprietario o da qualcuno che lavorava nel termopolio. La ricerca è solo agli inizi ma, come ha sottolineato ancora Osanna, che promette di avere "sviluppi molto interessanti". "La bottega sembra essere stata chiusa in tutta fretta e abbandonata dai proprietari – ha spiegato il direttore del Parco - ma è possibile che qualcuno, forse l'uomo più anziano, fosse rimasto al suo interno e che sia morto nella prima fase dell'eruzione, schiacciato dal crollo del solaio. Il secondo potrebbe essere invece un ladro o un fuggiasco affamato, entrato per racimolare qualcosa da mangiare e sorpreso dai vapori ardenti con in mano il coperchio della pentola che aveva appena aperto". Intanto anche in questi giorni il cantiere va avanti tanto che si è al lavoro per il consolidamento e il restauro della struttura e per il riposizioneremo anche il balcone. L'idea è di aprire alle visite il Thermopolium, se l’emergenza sanitaria lo permetterà, già la prossima primavera, allestendo un percorso che passi anche dal cantiere della casa delle Nozze d'Argento.

Il lungo ritorno al cibo dei "barbari". Massimo Montanari su La Repubblica.it il 31 maggio 2009. Crudo è sinonimo di Natura. Ce lo ha insegnato Claude Lévi-Strauss e ce lo insegnano i testi antichi, che inevitabilmente associano le pratiche crudivoriste all' idea di non-civiltà. Il mito di Prometeo, che ruba agli dèi il segreto del fuoco per regalarlo agli uomini, fonda un' idea di cultura come capacità di trasformare la natura: di questa capacità, la cucina è una dimensione essenziale. Perciò i Greci e i Latini, volendosi rappresentare come i depositari unici della civiltà, amano descrivere gli altri, i «barbari», come mangiatori di carne cruda: i Germani di Tacito, gli Unni di Ammiano Marcellino (che si limitano a scaldare la bistecca fra il dorso del cavallo e il proprio corpo) sono il prototipo di un modello mentale che durerà nei secoli: ancora nel Medioevo sono descritti come «barbari» i popoli che non cuociono le carni (gli Scandinavi di Paolo Diacono) o i cereali (i Mauri di Procopio). E gli eremiti cristiani, quando vogliono esprimere la loro contestazione radicale del «mondo» e della «civiltà», scelgono di cibarsi di sole erbe crude (e selvatiche). A questi pregiudizi culturali si sovrappone la generale diffidenza del pensiero medico-dietetico nei confronti dei cibi crudi. A queste premesse si attengono i libri di cucina, totalmente sbilanciati verso le pratiche di cottura: tutto in tavola si vuole cotto, non solo carni e pesci ma anche frutta e verdura e persino i formaggi, i salumi, i tartufi. Qualche eccezione non manca: Antimo, nel Sesto secolo, allude all' uso dei Franchi di mangiare lardo crudo per curare le affezioni del ventre e nota, con stupore ma senza scandalizzarsi, che i popoli abituati a mangiare carni crude solitamente godono di buona salute. Ma il più ampio spiraglio crudista è legato al gusto tutto italiano per le verdure, a cui sono dedicati, fra Cinque e Seicento, appositi trattati di Costanzo Felici, di Salvatore Massonio e di Giacomo Castelvetro (particolarmente significativo il titolo di quest' ultimo: Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l' erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano). Due profondi cambiamenti accompagnano la definitiva riabilitazione del crudo nella gastronomia contemporanea. L' uno di carattere filosofico: il pensiero illuminista e quello romantico, da angolature diverse, per la prima volta rappresentano la Natura come qualcosa di buono, come un "buono originario" (pensiamo a Rousseau) che non va modificato, ma conservato così com' è. Il secondo di natura scientifica: solo nel corso del Novecento si è scoperto che ci sono componenti nei cibi, le vitamine, fondamentali per l' equilibrio nutrizionale ma che scompaiono con la cottura. Aggiungiamo lo sviluppo delle tecniche di conservazione, oggi più efficaci e sicure di un tempo. Su queste basi si è rovesciata la nostra prospettiva, che non pensa più al Crudo come a un arcaico residuo, ma come a un segno della modernità alimentare. Il percorso dal Crudo al Cotto pare sulla via del ritorno.

Alla tavola dei nostri antenati - Estratto da "Alla Tavola della Longevità". di Valter Longo nel 2017 su macrolibrarsi.it. Leggi in anteprima un estratto dal libro di Valter Longo e scopri i piatti della nostra cucina che aiutano a preservare la giovinezza del corpo e la buona salute. Come descrive lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari in Il cibo come cultura, ciò che mangiamo può essere interpretato per comprendere e comunicare ciò che siamo e la cultura a cui apparteniamo.

L’Italia al centro del Mediterraneo: dagli etruschi al Rinascimento. Anche la semplice pasta al pomodoro ci racconta la storia del nostro Paese: la diffusione della pastasciutta grazie alla dominazione araba in Sicilia intorno al IX e X secolo, l’introduzione del pomodoro dalle Americhe durante l’epoca delle esplorazioni e il suo utilizzo nel Settecento e la creazione e la diffusione di piatti «nazionali» per unire l’Italia frammentata dopo l'unificazione del 1861. Nelle pagine che seguono ripercorriamo la storia dell’alimentazione nella penisola italiana dall'epoca etrusca al XXI secolo, cercando di ricostruire e comprendere ciò che si trova e trovava sulle nostre tavole, ma soprattutto cercando di evidenziare che la Dieta della Longevità e molti dei suoi ingredienti, descritti nel mio primo libro, sono parte centrale dell’alimentazione dei nostri antenati del Mediterraneo. La storia dell’alimentazione nella nostra penisola evidenzia anche che il consumo di molti prodotti di origine animale non è una cosa nuova, ma che quei prodotti arrivavano sulle tavole italiane molto meno frequentemente di oggi ed erano sicuramente di qualità superiore, grazie all'allevamento locale degli animali e al consumo regionale di carne, uova, latte e formaggio.

Gli etruschi. Dal IX al III secolo a.C. la penisola italiana, al centro del Mediterraneo, è un luogo importante di incontro, interazione, commerci e scambi tra popolazioni: fenici, greci, egiziani ed etruschi. Nel momento di massima espansione, i territori di questi ultimi si estendono dal Po all'isola d’Elba, alla Corsica e alla baia di Napoli. Della loro civiltà sono una ricca testimonianza le necropoli della Toscana e del Lazio. Grazie ai reperti archeologici oltreché alle testimonianze degli storici latini sappiamo che gli etruschi producevano ed esportavano grandi quantità di frumento e cereali (grano, farro, orzo, miglio)" che, trasformati in farine, servivano alla preparazione di farinate, pappe o polenta che costituivano la base della loro alimentazione. Le proteine erano principalmente fomite dai legumi (piselli, ceci, lenticchie e fave), spesso utilizzati per la preparazione di zuppe. A questi si aggiungevano vegetali, uva, frutta fresca e secca, olive e formaggi. Come in molte società antiche, il consumo di carne avveniva solo dopo il sacrificio degli animali alle divinità durante feste e celebrazioni, e nelle classi meno benestanti era molto limitato. Gli aristocratici, invece, potevano godere anche della selvaggina cacciata in una terra ricca di cinghiali, cervi, lepri, caprioli, uccelli acquatici, come testimonia La Tomba della Caccia e della Pesca nella necropoli di Monterozzi a Tarquinia. A differenza dei greci, gli etruschi mangiavano due volte al giorno, ma il loro amore per i banchetti e i festeggiamenti viene indicato dagli storici latini come una delle cause della loro decadenza. I poeti non sono da meno: Catullo li chiama «obesi etruschi» e Virgilio «pingui tirreni».

I romani: quasi vegetariani fino alla caduta dell’Impero. Agli albori della loro civiltà, i romani erano pastori e agricoltori e la loro dieta era influenzata da quella della vicina popolazione etrusca. L’importanza di una dieta a base vegetale non muta profondamente nel corso dei secoli; secondo i testi medici del periodo tardo repubblicano e imperiale i prodotti del suolo coltivato, le fruges, sono essenziali per la salute, tanto che da loro deriva il termine frugalitas, sinonimo di una vita regolata dal punto di vista calorico. Le verdure potevano anche essere mangiate crude, in quanto venivano considerate già «cotte» dal sole; la «cottura» continuava poi nello stomaco e nel fegato che, secondo le idee dell’epoca, trasformava il cibo digerito in sangue, muscoli e ossa. Le insalate, come osserva Plinio nella Naturalis Historia, permettevano inoltre di risparmiare il fuoco ed erano sempre pronte e disponibili. I legumi - fave, lenticchie, ceci, lupini - erano considerati meno «cotti» e venivano essiccati, bolliti e utilizzati per minestre oppure trasformati in farina e impiegati nella produzione di farinate. Lo stesso valeva per i cereali - orzo, grano, farro, miglio, segale e sorgo - utilizzati per minestre, pane, polente (puls) o farinate. Il pane più comune era dapprima quello di farro, sostituito poi da quello bianco di farina di frumento e quello nero per i poveri e gli schiavi, che lo mangiavano con il pulmentarium: olio, sale, aceto, olive e fichi, gli unici frutti non riservati esclusivamente alle classi elevate. Inserito al primo posto tra i cibi necessari dall’imperatore Diocleziano nel suo Editto dei massimi prezzi (Edictum de pretiis rerum venalium) del 301 d.C., già a partire dal regno dell’imperatore Aureliano (270 a.C.-5 d.C.) il pane veniva distribuito ai cittadini al posto del frumento. Era anche considerato segno di civiltà, insieme all'olio d’oliva e al vino. Nei primi secoli della storia romana il consumo di carne (peduces) includeva solo animali offerti in sacrificio agli dei; nel periodo imperiale la carne si diffuse anche tra gli strati meno benestanti, e iniziò ad apparire anche selvaggina esotica proveniente da vari angoli dell’Impero. Anche il pesce entrò tardi nella dieta romana, considerato comunque un genere di lusso. Nel mondo romano i pasti erano tre: la prima colazione, ientaculum, sostanziosa e a base di alimenti semplici come olive, formaggi, uova, per alcuni privilegiati carne e anche degli avanzi della sera precedente; il prandium, uno spuntino veloce solitamente a base di verdura, frutta (olive, cipolle, verdure sott'olio, insalata, fichi) e talvolta pane, pasto tipico di coloro che erano impegnati in attività lavorative e dei soldati (per i quali era spesso anche il pasto serale); e infine la cena, tipica delle classi abbienti e dei ceti elevati, che nel periodo imperiale diventò vera e propria esibizione di ricchezza. Era composta da diverse portate, dall’antipasto (gustatio) alle portate principali di carne e pesce, alle secundae mensae, costituite solitamente da frutta e seguite da una commisatio, un brindisi, e un momento finale dedicato al vino e alla conversazione. Molte ricette e piatti protagonisti di questi banchetti si trovano nel famoso ricettario di Apicio De re coquinaria, redatto tra il I e il II secolo d.C., mentre la descrizione forse più famosa di un banchetto di età imperiale è quella del Satyricon attribuito a Petronio Arbitro e risalente al I secolo d.C. Nello stesso periodo, l’abbandono della frugalitas viene stigmatizzato da Seneca nelle Epistole a Lucilio, in cui il filosofo e precettore di Nerone descrive i benefici di una dieta vegetariana.

La dieta dei «barbari» e quella medioevale. Abbiamo visto che per i romani, soprattutto nel periodo delle origini e in quello repubblicano, nutrirsi per la maggior parte di pane, olio d’oliva e vino distingue i popoli civilizzati del Mediterraneo da quelli che vengono definiti dai romani stessi «barbari», ossia le tribù germaniche che si cibano principalmente di carne e prodotti animali come latte e formaggi e bevono birra. Con il collasso dell’Impero romano e sotto la spinta di quelle popolazioni, non più propense a essere assimilate, la Penisola vede la creazione di un sistema economico in cui tutte le classi sociali hanno accesso a una dieta maggiormente variata, distinta solo in base a differenze di quantità e qualità degli alimenti. Il regime alimentare dell’Alto Medioevo dal V al X secolo si basa su prodotti dell’agricoltura quali cereali, legumi e verdure e su alimenti presenti nelle aree «selvagge» come pesce, selvaggina, bestiame, frutti ed erbe selvatiche. Al sistema di alimentazione romano a forte caratterizzazione vegetale si affianca un sistema «nordico» in cui la carne, in particolare di maiale, è prevalente al posto di pane e polente di frumento - sono invece presenti pappe d’avena e focacce d’orzo; il burro e il lardo vengono utilizzati per cucinare e come bevande si scelgono il latte di giumenta, il sidro derivato dalla fermentazione dei frutti selvatici e la birra. I valori dei nuovi conquistatori sono legati a una visione del potere rappresentato dalla forza fisica, dal vigore e dalla capacità di combattere che si rispecchia nel consumo di carne, fonte di potenza ed energia. Il guerriero dell’Alto Medioevo consuma grandi quantità di carne per mostrare il suo prestigio e la sua prestanza fisica. D’altro canto, le popolazioni germaniche e nordiche, e in particolare la nuova classe dirigente, sono affascinate dalla raffinata cultura romana e iniziano gradualmente ad assorbirla e con essa la religione cristiana, divenuta religione ufficiale dell’Impero e che si presenta come l’erede della civiltà romana e mediterranea, di cui ha assunto come simboli sacri proprio il pane, il vino e l’olio d’oliva. Grazie alla religione il modello alimentare romano-cristiano raggiunge l’Europa del Nord e le isole britanniche, dando vita a quella che viene descritta come «una inedita integrazione fra la cultura della carne e quella del pane». È proprio il pane il protagonista principale, essendo il vino e l’olio molto più difficili da reperire nelle regioni interne e settentrionali dell’Europa e quindi considerati prodotti preziosi e pregiati di prerogativa delle élite. Per quanto riguarda la produzione di pane e cereali, il frumento, più difficile da coltivare e meno produttivo, è spesso sostituito da grani di qualità inferiore: la segale diviene il cereale più coltivato e il pane di segale, nero (o composto anche da altri cereali) e spesso raffermo, viene consumato dalle classi meno abbienti, mentre il frumento e il pane bianco, lievitato e fresco sono riservati alle classi privilegiate. Altri cereali come orzo, avena, farro e miglio vengono utilizzati insieme ai legumi per polente e zuppe insaporite con carne e lardo, che costituiscono la base fondamentale dell’alimentazione dei ceti più umili di quel periodo. Anche le verdure (cavoli, rape, cipolle, aglio, porri, lattuga, carote), coltivate in orti e aree non sottoposti a tassazione, costituiscono un complemento per cereali e legumi.

Gradualmente, anche altri animali oltre il maiale, in particolare bovini, allevati allo stato semiselvaggio ai bordi delle foreste, iniziano a essere consumati dai ceti poveri. La carne bovina diviene una fonte importante di carne per alcuni, anche se considerata «volgare» rispetto alla selvaggina, riservata quasi esclusivamente all'aristocrazia. Il pesce (storione, anguilla, trota e luccio), ritenuto meno nutriente della carne, è consumato principalmente nei monasteri.

L’influenza araba. Con l’invasione araba della penisola iberica (711-1492) e della Sicilia (827-902), il cibo diventa simbolo di forte identità sociale, culturale e religiosa. L’abbinamento tra pane e maiale che caratterizzava l’Europa fino a quel momento perde la sua forza nei territori sottomessi alla dominazione islamica: il pane non ha il significato simbolico tipico del Cristianesimo e la carne di maiale viene rifiutata in quanto impura. Tramite la mediazione araba fanno la loro apparizione nel Mediterraneo molti nuovi prodotti, spesso provenienti dal mondo persiano come gli spinaci, le melanzane, gli agrumi, l’anguria, la canna da zucchero (utilizzata per la frutta candita e il marzapane), la pasta, il riso e una grande abbondanza di spezie, già note al mondo romano come il pepe, ma ora maggiormente disponibili. La cultura gastronomica araba riprende la tradizione romana, la rielabora e consolida il suo influsso. La propensione verso l’agrodolce tipica del mondo romano si rafforza, e l’aceto e il miele vengono ora sostituiti dagli agrumi e dallo zucchero di canna. Si intensifica l’uso delle spezie che, dato il costo elevato, diventano simbolo di prestigio e ricchezza sulle tavole dei ceti elevati fino all'inizio dell’Età moderna.

Campagna e città. Dall'XI al XV secolo il continente europeo conosce un vero e proprio boom demografico, interrotto solo dalle epidemie e dalle carestie nei secoli XIV e XV, in particolare la peste nera che tra il 1348 e il 1350 decima un terzo della popolazione europea. La crescita demografica ha come conseguenza una forte richiesta di prodotti alimentari e quindi uno sviluppo dell’agricoltura a discapito di aree incolte, boschi e foreste che vengono distrutti per essere coltivati o riservati ai signori locali per la caccia. Gli aristocratici esercitano ora il loro controllo su intere aree e sulle attività produttive, sulla pubblica amministrazione e sulla giustizia e spingono i contadini e la manodopera a produrre un surplus di prodotti da poter vendere nei mercati cittadini. Da un’economia di autosussistenza si passa a una fondata sul mercato e sul commercio e nelle città fiorisce la classe dei mercanti. Il divario tra campagna e città si fa sempre più importante, così come quello nell'alimentazione tra le diverse classi sociali. I contadini ora non possono più cacciare, far pascolare il bestiame né raccogliere frutta in territori ormai non più liberi e la loro dieta si limita a cereali, legumi e verdure. Il pane nero è l’elemento essenziale nella dieta delle classi povere, tanto che ogni altro ingrediente non è altro che un accompagnamento, come testimonia il sostantivo «companatico». A coltivare in piccolissimi orti i legumi e le verdure sono donne e bambini e la frutta, che non possono più raccogliere, torna a diventare un privilegio delle élite. Le proteine animali tornano a essere quelle del maiale, consumato sotto forma di carne salata, lardo o salsicce, mentre il pollame è utilizzato per produrre uova e mangiato solo in occasioni speciali. Anche il formaggio diviene raro se non nelle regioni montuose. Il consumo di carne, soprattutto fresca e in particolare selvaggina, è un privilegio dei ceti alti e delle élite urbane, così come le esotiche e vagheggiate spezie provenienti dall'India e dall'Estremo Oriente, la cui aggiunta favoriva, secondo le conoscenze mediche dell’epoca, la digestione, considerata un processo di cottura del cibo nello stomaco. Grazie all’influsso arabo, sulla tavola dei privilegiati appare anche la pasta secca, dapprima in Sicilia e poi a Napoli e in Liguria. Infine compaiono i biscotti preparati con gli avanzi della farina e consumati a fine pasto con il vino o a colazione, e le torte fatte con carne, pesce, formaggio, uova e verdura.

Moderazione e penitenza. Tutti questi mutamenti sono testimoniati dai libri di cucina indirizzati ai cuochi: il primo pubblicato in Italia è l’anonimo Liber de coquina, nel XIV secolo. Per distinguersi, ora l’aristocrazia esalta non più la quantità, quanto la raffinatezza e la cura nella preparazione delle vivande, le buone maniere, la conversazione e l’intrattenimento con musica e spettacoli. Sulla scia di questo nuovo modello, in tutti i ceti elevati l’ingurgitare grandi quantità di cibo lascia spazio all’idea di moderazione e misura. La stessa idea di temperanza si ritrova nei consigli offerti a coloro che si occupano della salvezza dell’anima del popolo, agli oratores, la classe monastica. La frugalità è un mezzo di perfezionamento spirituale e penitenza; la gola uno dei sette peccati capitali. Quindi, dal primo ottobre alla Quaresima in convento si consumano due pasti al giorno, consistenti in due piatti caldi: una zuppa vegetale, comunemente di fagioli, e un piatto di verdure. Da Pasqua a settembre la cena è composta dagli avanzi del pranzo con l’aggiunta di qualche frutto. Ai religiosi dediti al lavoro, i malati e gli anziani era servita anche una scarsa colazione, un pezzo di pane e vino, e nelle ricorrenze speciali veniva offerto un vino aromatizzato con miele, pepe e cannella chiamato pigmentum. Durante i periodi dedicati al digiuno, l’Avvento, la Quaresima e in alcune occorrenze speciali, si consumava solo un pasto al giorno, simile a quello ordinario e durante la Quaresima veniva eliminato il lardo per cuocere le verdure. Nei periodi di digiuno religioso, la dieta della popolazione era molto simile a quella ordinaria dei monaci e si basava su prodotti sostitutivi della carne quali legumi, formaggi, uova e pesce. Tuttavia, il pesce, maggiormente difficile da conservare in quanto più deperibile, entra a fatica nell'alimentazione di «magro» della classi subalterne. Quello fresco è molto costoso e di lusso e quello salato o essiccato, come le aringhe o le carpe, è troppo leggero per calmare i morsi della fame e considerato troppo «umile». Se in alcuni ordini monastici era ammesso consumare pesce, formaggio, uova, latte, lardo e olio, i cistercensi e i nuovi ordini mendicanti che si diffondono nel XII e XIII secolo a partire dall'esempio di santi quali Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman predicavano la povertà, la penitenza, la sobrietà e la temperanza anche sul piano alimentare. Si giunge anche ai casi estremi dell’anorexia mirabilis, del rifiuto e spesso totale rinuncia del cibo, da parte di sante come Angela da Foligno (1248-1309) e Caterina da Siena (1347-1380), spesso accompagnato da eventi miracolosi come stigmate, apparizioni e penitenze fisiche estreme come le flagellazioni. Con il digiuno queste sante cercavano di punire la carne e il corpo, considerato (soprattutto quello femminile) fonte di peccato, purificandoli attraverso la penitenza per condividere la sofferenza di Cristo ed espiare i propri peccati e quelli dell’intera umanità.

La dieta del Rinascimento. Il Rinascimento, epoca di straordinaria fioritura delle arti, vede operare anche celebri cuochi come Bartolomeo Scappi (1500-1557) e Cristoforo da Messisbugo (7-1548), autori di spettacolari banchetti, rispettivamente alla corte papale e a quella di Ferrara, e di trattati di cucina. Non ci sono sostanziali cambiamenti nella dieta delle classi inferiori, che continuano a consumare pane nero, verdura, erbe, legumi, raramente carne e pesce, qualche volta uova. Nelle cucine vengono ancora preparati per le famiglie povere grandi paioli di zuppe di cipolle, fave, cavoli, erbe di campo, con un po’ di lardo o olio o polente o la panata, pezzetti di pane cotti a fuoco lento con acqua, pancetta e verdure, e nei giorni di festa frittelle e pasticci. Il tutto insieme a vino di scarsa qualità. La tavola aristocratica, invece, è prima di tutto messa in scena di vivande accompagnata da musica e rappresentazioni teatrali, e viene introdotto per la prima volta l’uso individuale della forchetta. L’apparizione nella penisola italiana di questa posata è legata al suo utilizzo per mangiare la pasta, condita con molto formaggio e talvolta pepe o sugo di came o brodo ristretto. Compaiono anche i trattati di buone maniere, come Il Cortegiano del diplomatico Baldassar Castiglione (1528) e il Galateo dell’arcivescovo Giovanni della Casa (1558). In particolare, nel capitolo V del Galateo ci si occupa dei comportamenti a tavola sia dei commensali sia dei servitori e si osserva come non ci si dovrebbe ingozzare a tavola, sporcarsi mentre si mangia né imbrattare la tovaglia, non usare il pane per pulirsi le dita unte e i servitori non dovrebbero tossire, sputare o starnutire. La carne e soprattutto la selvaggina, sempre simbolo di prestigio, è protagonista accanto al pesce, alle spezie e a una grande abbondanza di zucchero importato da Genova e soprattutto da Venezia, dove si sviluppano le arti della confetteria e della pasticceria. Lo zucchero, introdotto dagli arabi nel Mediterraneo, è coltivato in India, nell'area della Persia, in Cina e dal 1300 a Cipro, in Andalusia e dai portoghesi a partire dal 1400 anche a Madeira. Il gusto dell’agrodolce domina la cucina rinascimentale e tracce di essa giungono fino ai giorni nostri: basti pensare alla mostarda di Cremona e all’unione di pepe e zucchero nel panpepato. Anche elementi tipici della cucina delle classi meno abbienti entrano a far parte di quella delle élite. L’Italia è la prima a presentare queste combinazioni di cucina «povera» e «ricca»: viene consumata una grande varietà di formaggi, dal parmigiano al pecorino, caciocavallo e mozzarella; verdure quali i carciofi e finocchi, frattaglie come cervella, occhi e orecchie, carne di manzo e vitello e pesce come merluzzo e storione. I legumi diventano la base per la preparazione di minestre, frittelle e torte e si preparano i «maccheroni», cioè gnocchi fatti di farina e mollica di pane. Tutto ciò è documentato dal Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, cuoco della seconda metà del XV secolo alla corte milanese di Francesco Sforza. «Piacere» è il termine essenziale per comprendere la cucina del Rinascimento. I sensi non sono più visti come fonte di peccato, ma come mezzo di conoscenza del mondo e della natura delle cose e affidarsi al proprio corpo, costruito a immagine e somiglianza di Dio, non può che portare beneficio. Riprendendo l’antica teoria degli umori di Ippocrate, rafforzata grazie agli studiosi arabi Averroè e Avicenna e alla scuola medica di Salerno, Bartolomeo Sacchi, nel suo Il piacere onesto e la buona salute (De honesta voluptate et valetudine, Roma 1470-5 e Venezia 1475), consiglia comportamenti alimentari salutari. Il cibo viene visto come elemento essenziale per raggiungere armonia, equilibrio e una vita sana e felice e il valore della temperanza riappare tra i ceti elevati, in particolare i dotti e i letterati.

Alla Tavola della Longevità. Un viaggio tra tradizione e scienza alla scoperta dei piatti della longevità per la ricerca contro le malattie dell'invecchiamento di Valter Longo.

·        Alle origini di Moby Dick.

Andrea Cionci per “la Stampa” il 25 dicembre 2020. «La balena ci fu addosso urtando con il capo la prua della nave; l' impatto fu tanto violento e inatteso che per poco non ci ritrovammo tutti faccia a terra; la nave si rizzò di scatto come se avesse urtato contro uno scoglio e per alcuni secondi tremò come una foglia». Non è un passo tratto da Melville, ma da Il naufragio della baleniera Essex di Owen Chase pubblicato in edizione critica italiana dalla SE di Milano. Sono passati 200 anni da quel tragico evento di cui il primo ufficiale Owen Chase lasciò uno sconvolgente resoconto: scritto con l' asciuttezza di un tempratissimo lupo di mare, non riesce a nascondere la drammaticità di una delle più terrificanti avventure nella storia della marineria. A esso si ispirò Melville per il suo capolavoro, Moby Dick, il cui titolo rievoca il nome di un gigantesco e aggressivo capodoglio realmente esistito: era carico di arpioni, deturpato dalle cicatrici e soprattutto albino. Il suo nome era Mocha Dick. Nell' 800, quando la caccia alle balene non aveva ancora decimato questi mammiferi marini e l' oceano era traboccante di cibo, si potevano incontrare capodogli enormi. Come testimonia una mascella di questo cetaceo conservata presso il Museo di Nantucket, alcuni esemplari potevano raggiungere anche i 28 metri. Nell' agosto 1819 da quest' isola a Nord degli Stati Uniti, sull' Atlantico, prese il largo la Essex, una nave di 20 anni, piccola ma ben costruita, comandata dal capitano George Pollard jr., rampollo di una stimata famiglia di balenieri. Era manovrata da un equipaggio di una ventina di uomini. Il viaggio sarebbe dovuto durare due anni e mezzo con l' obiettivo di riportare a terra almeno 2000 barili d' olio di balena. Preda particolarmente ambita era il capodoglio, detto in inglese «sperm whale» poiché nella sua grossa testa il cetaceo racchiude lo spermaceti, un olio ceroso che, cambiando densità a seconda della temperatura, gli consente di inabissarsi o risalire in superficie senza sforzo, come la cassa di zavorra di un sommergibile. L' olio di spermaceti era richiestissimo per la sua purezza, tanto da essere impiegato nella cosmesi, come lubrificante per orologi, confezionare candele speciali, unguenti ecc.  Deluso da un bottino di appena 800 barili d' olio, il capitano Pollard, doppiato Capo Horn, decise di spingersi in acque sconosciute, nel Pacifico. Il 16 novembre 1820, avvistato un branco di capodogli, il comandante diede ordine di calare in mare le lance. Per i cetacei era il periodo degli amori: tre femmine vennero arpionate facilmente, ma la scialuppa di Owen Chase fu danneggiata da un colpo di coda di un cetaceo. Tornato sulla Essex per riparare la falla, l' ufficiale vide un gigantesco capodoglio maschio di circa 26 metri di lunghezza dirigersi verso lo scafo della nave. La Essex non fece in tempo a evitarlo che l' animale colpì la prua della nave; poi strusciando il dorso contro la chiglia vi passò sotto e, dopo un minuto in cui parve intontito dall' urto, caricò nuovamente la Essex, sfondandone definitivamente il fasciame prodiero. Di fronte ai balenieri attoniti, la nave cominciò ad affondare. Gli uomini recuperarono in fretta viveri, acqua, strumenti di navigazione e qualche arma, dopodiché attrezzarono dei piccoli alberi con vele per le loro tre fragili scialuppe, rimaste ormai l' unica salvezza. Cominciava una terribile odissea: navigarono per un mese, razionando il cibo e soffrendo la sete, quando finalmente avvistarono terra: era l' isola di Henderson, un piccolo atollo corallino a metà strada tra Australia e Cile, oggi nota per essere praticamente sommersa dalla plastica portata dal «vortice del Pacifico meridionale». I naufraghi poterono rifocillarsi nutrendosi di molluschi, di uccelli marini e delle loro uova, ma la vera svolta fu quando scoprirono una piccola sorgente che veniva però periodicamente ricoperta dalla marea. A spegnere i primi entusiasmi giunse presto la consapevolezza che le scarsissime risorse dell' isola non avrebbero consentito ai venti marinai una lunga sopravvivenza. Così, dopo una decina di giorni decisero di riprendere il largo, ma tre di loro, in condizioni fisiche precarie, restarono sull' isola. In mare aperto, presto le lance cominciarono ad andare alla deriva e si separarono. Dopo pochi giorni le provviste terminarono e gli uomini cominciarono a morire. I primi corpi furono consegnati al mare, ma dopo un mese si comprese che l' unico modo per sopravvivere era cibarsi di chi non resisteva. Racconta Owen, che quando il marinaio Isaac Cole morì, si decisero all' extrema ratio. La carne dei suoi arti fu messa a seccare in piccole strisce e successivamente arrostita. Sulla scialuppa del capitano Pollard avvenne altrettanto, ma quando anche questa risorsa alimentare finì fu necessario ricorrere a un drammatico sorteggio: uno di loro si sarebbe dovuto sacrificare per nutrire gli altri. Toccò a un 19enne, Owen Coffin, cugino di Pollard, che, molto coraggiosamente, insistette dicendo che era suo diritto far fronte al proprio destino. Con un altro sorteggio fu deciso chi doveva sparargli alla testa con la sola pistola rimasta a bordo. Della terza scialuppa non si seppe più nulla. Dopo circa tre mesi alla deriva, la lancia di Pollard e quella di Chase incontrarono delle navi che li raccolsero in condizioni prossime alla fine e li poterono rifocillare. Di venti uomini se ne erano salvati cinque. I superstiti tornarono a Nantucket e furono accolti da una folla ammutolita che si aprì al loro passaggio. Il primo ufficiale Chase, nel giugno 1821, ritrovò la moglie e conobbe la propria figlioletta di 14 mesi, ma in tarda età, tormentato dagli incubi, impazzì. Il capitano Pollard ottenne il comando di un' altra baleniera, la Two Brothers, ma anche questa affondò, tre anni dopo, alle Hawaii. Nel 2008 è stato scoperto il relitto, completo di varie attrezzature di bordo. Dopo il secondo fallimento, Pollard abbandonò il mare e visse a Nantucket come guardiano notturno. Di lui Melville disse: «Per gli isolani lui era un nessuno. Per me, l' uomo più imponente, più totalmente senza pretese e anche umile che io abbia mai incontrato». Il volume della SE riporta non solo il resoconto di Chase, ma anche quello - più breve - di Pollard e anche di Thomas Chappel, uno dei tre marinai che scelsero di rimanere sull' isola di Henderson. Costoro, su segnalazione dei superstiti, furono recuperati un anno dopo. L'esperienza segnò Chappel nel profondo e lo convertì: «Spesso ci imbattiamo in pericoli inattesi e in soccorsi che sembrano provvidenziali, ma pochi sono più straordinari di quanto è stato sin qui narrato. Possano essi condurre il lettore a un sempre maggiore e completo abbandono alla grazia divina».

·        Gli Intellettuali.

Gli intellettuali "eretici" contro il politicamente corretto. Andrea Indini il 7 Dicembre 2021 su Il Giornale. Da Ricolfi a Rampini, da Cacciari a Flores d'Arcais: si sgretola il monolite del pensiero unico della sinistra. Ecco le firme che si stanno esponendo in prima persona contro la deriva del politicamente corretto.

Per gentile concessione dell'associazione Nazione Futura pubblichiamo l'articolo di Andrea Indini uscito sull'ultimo numero della rivista.

Lo spartiacque è la morte di George Floyd. L'escalation degenera, infatti, in violenza quando, il 25 maggio dell'anno scorso, un poliziotto ammazza il 46enne afroamericano mentre lo sta arrestando. L'ondata di proteste esplosa nelle vie di Minneapolis dilaga velocemente in tutti gli Stati Uniti fino a trasformarsi in quella che ora è divenuta una delle più ottuse rivolte culturali. Un delirio iconoclasta senza senso che ha portato alla rimozione ignorante di statue e monumenti considerati, talvolta anche solo per futili motivi o per grossolane riletture, razzisti o addirittura schiavisti. Dopo il tritacarne sessuofobico del #MeToo, l'Occidente ha così iniziato a provare sulla propria pelle la brutalità e la ferocia della cancel culture, un movimento nato inizialmente su Twitter nel 2017 e propagatosi poi lentamente nelle università, nelle redazioni dei giornali, a Hollywood e nelle pagine della stragrande maggioranza dei libri mandati in stampa. Un movimento che ha come unico dio il politicamente corretto. Un dio falso, oscurantista e soprattutto illiberale.

Da anni il politicamente corretto rende il clima letteralmente irrespirabile. L'anno scorso, complice la campagna elettorale che ha visto contrapporsi il presidente uscente Donald Trump e il democratico Joe Biden, il livello di scontro si è fatto insostenibile. In sé covava già tutti i germi del #MeToo. Sbattuto in carcere Harvey Weinstein per 23 anni, con una doppia mandata in una cella nell'istituto penitenziario di Rikers Island, i progressisti si sono messi al servizio della cancel culture e dell'ideologia woke innalzando al cielo il degenerato simulacro di quella che il 31 dicembre 2020 il musicista australiano Nick Cave ha brillantemente etichettato come "la più infelice religione del mondo": l'immonda religione del politicamente corretto, appunto, che ha portato a bandire dai programmi di insegnamento testi come Il buio oltre la siepe, La lettera scarlatta e Le avventure di Tom Sawyer. E che dire di Dante condannato per aver spedito all'inferno Maometto? Sbianchettato pure lui.

In Italia, ovviamente, non siamo ancora arrivati a questi livelli di follia. Ma siamo sulla buona strada. Anche qui da noi abbiamo subito la deriva iconoclasta di certe pseudo-associazioni sinistrorse, scimmiottando gli aspetti più grotteschi delle proteste oltreoceano. È il caso, per esempio, dell'assurda crociata contro Indro Montanelli. Poi, in ordine sparso, ci siamo dovuti sorbire: l'imposizione di asterischi e "schwa" per far contente le varie Michela Murgia, gli inginocchiamenti (a fasi alternate) di Laura Boldrini e compagni a sostegno della causa BLM, la storpiatura della lingua italiana per far contente le femministe, la cancellazione di "madre e padre" dai certificati pubblici per appagare i movimenti LGBT, le marce degli ultrà dell'immigrazione a sostegno delle ong, le scampagnate delle Sardine per le cause più improponibili, gli smalti di Fedez e gli articoli liberticidi del ddl Zan, la progressiva cancellazione dei simboli della cristianità per non urtare le altre religioni (leggi: l'islam). E così via. Ci si potrebbe scrivere un libro intero. Salvo poi vederlo finire in una delle tante liste di proscrizione dei radical chic che oggi decidono cosa è degno di essere letto e cosa no. Anche perché questo movimento si sente depositario della Verità e ritiene chiunque non la pensi come loro nel torto.

Dinnanzi a questa delirante guerra, che mina la conoscenza umana, cancella il passato e impoverisce la crescita dei nostri figli, un manipolo di 150 intellettuali coraggiosi ha messo la faccia per dire pubblicamente che finirà "questa atmosfera soffocante" per danneggiare "le cause più vitali del nostro tempo". Il 7 luglio 2020 penne come Noam Chomsky, J.K. Rowling, Salman Rushdie, Margaret Atwood e Francis Fukuyama (non certo estremisti pensatori vicini a Trump) hanno pubblicato su Harper's Magazine "A letter on justice and open debate" per condannare non solo il "conformismo ideologico" al soldo del politicamente corretto ma anche "la gogna pubblica e l'ostracismo" che si sono venuti a creare nel dibattito pubblico. Anche in Italia a sinistra sembra (s)muoversi qualcosa. Non tutti sono più disposti a soccombere al politicamente corretto e così accade che firme storicamente in forza all'esercito progressista hanno iniziato a opporsi al conformismo culturale che da sempre trasforma una sparuta minoranza in maggioranza. È una prima frattura in quella intellighentia rossa che da decenni fa la voce grossa per schiacciare tutte le altre posizioni.

I nomi degli intellettuali italiani che sono usciti da questo giogo non sono molti, ma fanno sicuramente discutere e sono una crepa in un muro che fino a qualche anno fa sembrava indistruttibile. È il caso di Federico Rampini che la scorsa estate si è schierato contro il "fracasso vacuo" sugli atleti inginocchiati in onore dei Black Lives Matter. Ma poi c'è anche Luca Ricolfi che recentemente ha pubblicato con Paola Mastrocola il Manifesto del libero pensiero (La nave di Teseo), un libro che mette in guardia dalla degenerazione del politicamente corretto (la cancel culture, appunto) e dal "razzismo al contrario che colpevolizza il maschio bianco eterosessuale in quanto tale, ossia a prescindere dai suoi comportamenti". E ancora, Paolo Flores d'Arcais che su Micromega sin dall'inizio ha scritto contro il politicamente corretto e in più di un'occasione ha rinfacciato alla sinistra di essere diventata "la paladina della censura". Già nel 2019, parlando del dibattito politico che degenera in turpiloquio, Massimo Cacciari lamentava che "quando si fa strame di un linguaggio si fa strame di un pensiero" (video). Per il filosofo, complice l'emergenza Covid e gli accesi dibattiti che ne sono scaturiti, si è addirittura arrivati al punto in cui "regna un pensiero unico che non ammette neanche l'esercizio del dubbio". Tanto che ora si è ripromesso addirittura di fondare un "gruppo di controinformazione".

A sinistra, per Ricolfi, sono in molti a rendersi conto che la libertà di parola è minacciata ma, come ha spiegato in una intervista a ilGiornale, il problema è che, salvo rari casi (e fa il nome di Piero Sansonetti), la maggior parte "non ha il coraggio di uscire allo scoperto, per paura del fuoco amico dell'establishment" progressista. Non deve quindi stupirci se, quando è approdato a Repubblica, è finito sotto il fuoco incrociato di soloni del calibro di Gard Lerner, Christian Raimo e Michela Murgia. Ed è di quest'ultima il tweet che, più di tutti, la dice lunga sul livello culturale (infimo) della sinistra nostrana: "Leggo Ricolfi su Repubblica e non posso fare a meno di pensare che il clitoride ha 8.000 terminazioni nervose, ma ancora non è sensibile quanto un editorialista italiano maschio bianco eterosessuale quando sente minacciato il suo privilegio".

Finché la sinistra sarà rappresentata da questo odio livoroso non potrà mai fare un passo avanti. E così, dopo il #MeToo, dopo la cancel culture, dopo i woke, spunterà sempre fuori un altro movimento sempre più radical chic, sempre più politicamente corretto, sempre più elitario che epurerà chiunque la pensi diversamente. Per questo la demonizzazione del populismo ha presupposti profondamente sbagliati. "Il populismo è una cosa seria - ha spiegato Mario Tronti, storico fondatore del movimento operaio, in una intervista al Riformista - ha dentro la radice 'popolo'. Alzare il sopracciglio elitario per combatterlo è la cosa politicamente più sbagliata che si possa fare. Ne vanno capite le profonde ragioni sociali, luogo per luogo, tempo per tempo".

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Stefano Folli per “Robinson - la Repubblica” il 30 novembre 2021. Servono ancora gli intellettuali nel dibattito pubblico? Hanno ancora senso i "sapienti" nell'epoca in cui il populismo si coniuga con l'ignoranza di massa? In un centinaio di pagine che lasciano il segno, Sabino Cassese affronta un tema reso attuale dal declino dei partiti "liquefatti", dall'affermarsi del cortocircuito logico per cui "uno vale uno". Che non è solo lo slogan coniato da Casaleggio padre con Grillo per lanciare il movimento Cinque Stelle: è la cifra della nostra epoca. Magari lo si rifiuta sul piano razionale, ma poi lo si accetta attraverso il pulviscolo di Internet e il bombardamento quotidiano di una certa informazione televisiva. In questa cornice l'intellettuale si ritrova spaesato, il suo ruolo che fu essenziale per dar vita alla società occidentale e per affermare i valori della democrazia liberale, improvvisamente diventa marginale. Dovrebbe rinchiudersi nelle scuole e nelle università, ma è proprio quello che non ci si attende da lui: che rinunci alla presenza pubblica, dove dovrebbe o potrebbe esercitare una funzione non legata a un segmento del sapere. L'intellettuale civile è un umanista, individua nessi e lega fili anche remoti, ha una conoscenza larga delle cose. Cassese cita Tocqueville e i suoi studi sulla Francia del vecchio regime per capire la rivoluzione e poi per connettersi alla società americana. Ma ricorda anche la frase di von Hayek per cui «nessuno può essere un grande economista se è solo un economista». Max Weber la pensava allo stesso modo. E allora si torna al quesito iniziale: come possono gli intellettuali recuperare l'influenza perduta? È evidente che Cassese non condivide lo scetticismo di Julien Benda, che accusava di tradimento quei "chierici" che avessero sposato l'impegno civile. Quello che serve oggi è il contrario dell'eremitaggio. Non aiuta riproporre la figura dell'intellettuale impegnato "che si butta in politica". Invece, conclude Cassese, si tratta di «non abbandonare il proprio mestiere di studiosi, ma allargarlo, farvi partecipare un pubblico più vasto, se si ha qualcosa da dire che interessi tale pubblico. Ciò richiede capacità di reinventarsi senza tradire il proprio mestiere».

Alessandro Barbero è un intellettuale. E chi non ne tiene conto è in malafede. Luca Bottura su L'Espresso il 14 settembre 2021. Sui social intellettuali e accademici sono inseguiti dalle bugie infamanti solo perché non si piegano alla vulgata maldestra di chi per sovrammercato è politicamente irrilevante. Il vostro scriba non è un intellettuale. Pigia i tasti in un italiano forse plausibile, talvolta con presunta sagacia, più spesso in modo goffo, ma non ha studiato abbastanza. O forse è questione di hardware, va’ a sapere. In ogni caso, si applica a questioni semplici con argomentazioni semplici. Ad esempio, sul Green Pass, si contenta. Ossia: sarebbe a favore dell’obbligo vaccinale, certo. E sa bene che il codice Qr è un apostrofo verde tra le parole “con la Lega al Governo” e “non si poteva”. Però si occupa, come viene, anche di comunicazione. E sa bene che l’obbligo (sacrosanto, necessario, coperto dalla Costituzione in modo esemplare) avrebbe portato i soliti liberali alle vongole a strillare contro lo Stato di Polizia. Dunque, che il Signore o un suo superiore, tipo il generale Figliuolo, protegga e diffonda il Green Pass. Alessandro Barbero, il professor Alessandro Barbero, la rockstar della divulgazione Alessandro Barbero, è invece un intellettuale. Colto. Profondo. Sfaccettato. Perciò in grado di approcciare il tema da una posizione laterale eppure diretta. Dice, Barbero, che il Green Pass è ipocrita e che avrebbe voluto l’obbligo. Per questo ne contesta la diffusione negli atenei. Mai creduto alla sciocchezza (apocrifa) di Voltaire secondo cui si dovrebbe dare la vita perché un altro esprima la sua opinione, e non la darei neppure per quella di Barbero. Che non condivido. Ma lui gioca un altro campionato. E tarare le sue opinioni su quelle di chiunque, ad esempio il sottoscritto, sarebbe sbagliato. A meno che non si sia in malafede. A meno che non si voglia punire Barbero, l’amato Barbero, l’ecumenico (fin lì) Barbero, perché nei giorni precedenti aveva appoggiato, e non poteva essere altrimenti, la posizione del professor Tomaso Montanari sulle foibe: una corretta contestualizzazione storica - prima c’era stato il protettorato di Lubiana, dove i fascisti avevano usato i civili come piattelli - che non negava il dramma cagionato dai comunisti titini ma mirava a restituirgli una prospettiva storica. Solo che Montanari è un nemico della polizia politica che agisce sui social, ma ormai anche nei giornali, e la squadretta di lotta e sottogoverno gliel’ha fatta pagare in tutti i luoghi e in tutti i laghi appiccicandogli l’etichetta del revisionista. Sul tema, il revisionismo vero è quello di chi insiste con la favola degli “italiani brava gente”. Ma, soprattutto, la vicenda era stata sventolata in modo del tutto strumentale, a freddo, per far scontare allo stesso Montanari la sua ostilità a certe nomine pubbliche che non condivideva. A questo siamo: il dissenso annichilito, le vendette mafiose per interposto tweet, intellettuali e accademici inseguiti dalle bugie infamanti solo perché non si piegano alla vulgata maldestra di chi per sovrammercato è politicamente irrilevante. Ma mena. Sarebbe ora che qualcuno se ne accorgesse anche nelle redazioni dei giornali, che corrono dietro al web e alle polemiche create dai troll dei social su mandato degli uffici stampa pagati da noi. Perché intossicare il dibattito in questo modo non è degno di un Paese democratico. E comunque il green pass fatelo. Serve. Dopo essere scese in piazza per manifestare a favore dei diritti civili, le donne afghane hanno lanciato sui social una campagna contro le restrizioni del nuovo regime talebano che impone rigide regole anche sul codice di abbigliamento. L'hashtag è #DoNotTouchMyClothes ("Non toccare i miei vestiti"). Le donne hanno postato foto e video con abiti dai colori vivaci, caratteristici della tradizione afghana, in segno di opposizione al burqa. Un gesto di rivendicazione della propria cultura e della libertà. La campagna è nata da un'idea di Bahar Jalali, ex docente di storia all'Università americana di Kabul, che per prima ha condiviso una foto indossando un tradizionale abito verde. "Questa è la cultura afghana", ha scritto. In tante hanno accolto la proposta e hanno deciso di seguire Jalali nell'iniziativa. In poco tempo, #DoNotTouchMyClothes è diventato virale sul web.

Luigi Mascheroni per "il Giornale" il 22 ottobre 2021. Dura, durissima la vita dell'intellettuale. Basta un niente e da maître à penser precipiti alla categoria, senza appello, di «cretino». Guarda cosa è successo a Massimo Cacciari, uno che peraltro legge Heidegger in lingua, o a Giorgio Agamben... Hanno dubbi sul Green pass? Anche un Gramellini qualsiasi o una studentessa fuori corso può irriderli. Del resto basta pensare al caso Carlo Freccero. Per trent'anni ci hanno detto che era un genio, un guru, il migliore di tutti, mago assoluto della comunicazione, il filosofo della televisione, uno dal quale si può solo imparare quando parla di giornalismo. Poi è bastato manifestasse una perplessità su come è stata gestita l'informazione sul Covid, ed è diventato un cialtrone, un vecchio rimbambito da invitare nei talk show nella parte dello zio scemo. E ora tocca ad Alessandro Barbero, fino a ieri il più grande comunicatore - sbarra - divulgatore del Paese, il «prof» che tutti gli studenti vorrebbero avere, il nipote intelligente di Piero Angela, un campione della scuola, salvatore dei nostri figli che studiano sui suoi podcast. Poi ha inopinatamente ventilato un leggerissimo dubbio sull'imposizione del Green pass in Università, ed è scivolato dall'Empireo degli intellettuali al Purgatorio: «Vade retro, Barbero!», «Ma cosa sta dicendo!?». «Scandalo!». «Una persona così a modo...». «Da lui non ce lo saremmo mai aspettato». «Si è rimbecillito!». «Peggio: è diventato di destra...». Neanche il tempo di tornare da trionfatore dal Salone del Libro di Torino, seguitissimo e applauditissimo dal pubblico, ed è precipitato all'Inferno. Ieri, sulla Stampa, ha rilasciato un'intervista in cui, provando a spiegare il perché le donne restano più indietro degli uomini nella corsa al potere e nel fare carriera, si domandava se non fosse possibile che, in media, «le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?». «Vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest' ultima più difficile avere successo in certi campi». Oh my God! Non serve leggere tutto l'articolo, è sufficiente un post sui social con la frase incriminata per scatenare l'indignazione digitale e le peggiori accuse di sessismo. Conseguenze: linciaggio mediatico (!), richiesta di pubbliche scuse (!!), ingiunzione alla Rai di sospendere immediatamente ogni collaborazione con il colpevole (!!!). Peccato. Era il migliore, l'intellettuale più amato dall'intellighenzia, un modello di democrazia e progressismo. Poi ha buttato lì due opinioni, ma di quelle fuori dal mainstream, che non piacciono soprattutto a Sinistra - area peraltro dove il fascismo culturale abbonda - ed eccolo lì, il «prof» Barbero. Cacciato nell'angolo dei ripetenti. Che vergogna (e non sappiamo se più per lui o per gli altri).

Onere e onore. Gli intellettuali secondo Sabino Cassese. Corrado Ocone su Il Riformista il 22 Ottobre 2021. L’intellettuale è una figura che ha attraversato il Novecento. Sabino Cassese, che ha appena pubblicato un chiaro e dotto libro sul tema (Intellettuali, Il Mulino, Bologna 2021, pagine 123, euro 12) ne colloca la nascita con l’affaire Dreyfus quando Émile Zola lanciò allora un J’accuse dalle pagine del giornale L’Aurore. In verità, questa figura si lega al secolo scorso per un motivo più essenziale, perché quello è stato il secolo delle “ideocrazie” per antonomasia, cioè del progetto, rivelatosi abbastanza velleitario, di imporre, con le buone o (più spesso: da cui i totalitarismi) le cattive, un’idea considerata vera, buona, giusta, alla storia, alla realtà recalcitrante. E chi più di un individuo aduso a trafficare con opinioni e concetti, cioè l’intellettuale, poteva individuare i contorni dell’idea giusta e delinearne anche i tempi e i modi della sua “applicazione” pratica? Più in generale, quello ideocratico è il progetto più proprio della modernità, almeno nel filone che ne ha segnato il tono e la cifra. Ovviamente, ove c’è una tendenza ci sono anche le forze che la avversano. E Cassese non è certo tenero con i vari antiintellettualismi che si sono affacciati nella storia, come l’altro lato della medaglia, per lui il lato d’ombra. Eppure, c’è lotta e lotta all’intellettualismo. C’è infatti un antiintellettualismo proprio di chi non mostra comprensione per i vari irrazionalismi ma, con un movimento tutto razionale, ritiene che non possa esserci passaggio, più o meno necessitato, fra una teoria che comprenderebbe la realtà e una prassi a cui il risultato della comprensione possa essere e vada “applicato” in modo più o meno aderente. La comprensione sorge a cose fatte e l’azione umana si svolge quasi sempre in un cono d’ombra, che aumenta con le dimensioni a cui essa intende applicarsi, se non altro perché si interseca con altre mille e parimenti degne intenzioni-azioni umane. La sintesi volitivo-pratica, meglio che allo scienziato sociale, spetta perciò al politico, che ha intuito e visione e non solo dotte conoscenze. Questo ci dice la filosofia. Nessuno pertanto può pretendere di avere un ruolo privilegiato nella conversazione pubblica. Il pregiudizio epistocratico, cioè favorevole al governo dei competenti, che percorre le brillanti e stimolanti pagine di Cassese, non regge perciò a mio avviso da un punto di vista teorico. E mai come in questo caso la storia, l’empiria, conferma la teoria. Tutte le volte che l’epistocrazia si è provata a governare ha generato problemi non indifferenti se non lutti e tragedie. Come si può perciò affermare, come fa lo studioso americano Jason Brennan, che il governo dei competenti, come la vecchia utopia platonica dei re-filosofi, “condurrebbe a migliori decisioni, più giustizia, più prosperità” (p.74)? Cosa deve allora fare l’intellettuale? Isolarsi nel mondo degli studi, e disinteressarsi del mondo, come fa lo specialista? Oppure unirsi a un partito e, come “intellettuale organico”, “prostituire” (perché di questo in fondo si tratta), la sua scienza agli interessi politici? A me sembrerebbe, come anche a Cassese, che non sono queste strade auspicabili per chi voglia dare il suo contributo intellettuale alla società in cui vive. Ci vorrebbe per intanto, da parte dell’intellettuale, un gran bagno di umiltà. Se conoscere, come diceva Benedetto Croce (che ritorna spesso nelle pagine di Cassese), è solo “un soffrire più in alto”, ma forse sarebbe meglio dire “in modo diverso”, il compito dell’intellettuale potrebbe essere non quello di arrogarsi privilegi che non ha ma di far vedere sempre l’altro lato delle questioni, i disvalori che sempre possono accompagnare i più sublimi a “nobili”, valori umani. In sostanza di richiamare costantemente al concetto di limite, facendo i conti con la costitutiva, non contingente, imperfezione umana. C’è sempre un “punto critico” che porta ogni concetto o valore a contraddirsi e a diventare il contrario di se stesso. Ha proprio ragione Cassese quando dice che «all’intellettuale, nella funzione che gli è propria, non fa male una certa dose di umiltà. Non deve ritenersi un ‘unto’ e pensare che non risponde a nessuno» (p.94). Corrado Ocone

·        Narcisisti ed Egocentrici.

Narcisismo. Veronica Mazza per “La Stampa” il 26 agosto 2021. Dalla ricerca spasmodica dei like e dei follower sui social, al bisogno incontrollato di avere sempre l'approvazione degli altri, nella sfera privata e nel lavoro. Tutti l'abbiamo vissuto, almeno una volta nella vita, questo desiderio di sentirsi accettati, amati e benvoluti dagli altri, per avere la loro considerazione e, in maniera più ampia, riconoscimento sociale. È nella natura umana, è normale desiderarlo. Se però la necessità di piacere a tutti e a tutti i costi diventa ricerca incessante di conferme, si trasforma in paura del rifiuto e così si inizia a vivere in base alle aspettative degli altri. Perdendo il giusto equilibrio tra il dare e il ricevere. Nello studio di Roberta Milanese, psicologa e psicoterapeuta, un giorno si è seduta Paola, 39 anni, che pur di stare con Alessio si adatta e si «deforma» in base alle sue esigenze. Ma non è certo l'unica. Milanese spiega: «La paura dell'impopolarità è la paura di fare o dire qualcosa che ci faccia perdere l'approvazione o l'affetto delle persone a cui teniamo. Può riguardare qualunque tipo di relazione, personale, virtuale o professionale». 

Come nasce?

«Generalmente alla base c'è una profonda insicurezza relativa alla propria desiderabilità. La paura è quella per cui se la persona si concedesse di essere sé stessa fino in fondo e non assecondasse sempre i bisogni altrui, gli altri non la vorrebbero, stimerebbero o amerebbero. Queste persone finiscono quindi per essere abili nel tessere relazioni che in apparenza funzionano bene, ma che comportano per loro una grande fatica e la paura di non poter mai mollare, pena il rischio di impopolarità o abbandono». 

Uomini e donne si comportano in maniera diversa?

«Nelle donne questa paura si riscontra più frequentemente nella vita affettiva. E quando si tratta dei partner il copione risulta particolarmente fallimentare perché determina uno sbilanciamento eccessivo del rapporto. Mettendo l'altro sempre al centro, infatti, la persona finisce per vivere con il continuo timore di essere lasciata o non amata nel caso in cui facesse valere i propri bisogni. Nei casi peggiori, impedisce la costruzione di un vero rapporto di coppia, dal momento che questa iper-disponibilità risulta poco attraente agli occhi del candidato partner. Negli uomini la paura dell'impopolarità si registra soprattutto in ambito professionale, dove si manifesta con il timore di prendere decisioni che possano far perdere il consenso o l'approvazione. Le decisioni rischiose vengono quindi evitate o delegate ad altri, in modo tale da mantenere intatta la propria popolarità». 

Quanto i social possono alimentare questo timore?

«La ricerca di popolarità è un gioco che viene facile, in ambito virtuale: si posta la foto della spiaggia più bella, della silhouette più in forma, della serata più romantica, dei resort più esclusivi, della famiglia più felice.... In alcuni casi, la popolarità virtuale tampona le difficoltà o addirittura l'incapacità di creare relazioni nella vita reale e, apparentemente, soddisfa il bisogno di approvazione di chi la vive. Ovviamente, fino a quando i follower o i like diminuiscono». 

Tra i vari gradi di paura dell'impopolarità, qual è il più diffuso?

«Parliamo di una versione light di questa paura: la provano persone molto attente alle esigenze degli altri, che si mostrano sempre disponibili anche quando non ricevono analoghe attenzioni. Solitamente finiscono per ritrovarsi in relazioni in cui il loro altruismo patologico crea negli altri una sorta di egoismo insano. Difatti, quanto più le prime sono disponibili a dare sempre e comunque, tanto più gli altri si abituano a prendere senza dare, come se fosse un diritto».

Quando questo meccanismo diventa patologico?

«Nella versione più estrema abbiamo una persona che finisce letteralmente per prostituirsi: intrappolata nel suo bisogno di essere benvoluta, è incapace di dire no a qualsiasi tipo di richiesta, fino ad arrivare a perdere di vista sé stessa o fare cose per lei sgradevoli. A volte questo copione da prostituta relazionale si irrigidisce così tanto da rendere la persona poco desiderabile agli occhi altrui, specie nelle relazioni sentimentali. In altri casi questa persona ha una vita ricca di relazioni, ma quando realizza che gli altri la vogliono solo per quello che fa e non per quello che è, finisce per scoprirsi sola. In entrambi i casi la sofferenza può divenire così acuta da portare a disturbi depressivi, anche severi».

Quali sono gli errori più comuni commessi da chi è ossessionato dal piacere agli altri?

«Si tende ad assecondare e compiacere gli altri, anticipandone i desideri e i bisogni, incapace di dire no alle richieste. Inoltre, si evita di dire o fare cose che teme che gli altri non approvino. Sul momento queste finte soluzioni danno alla persona l'illusione di gestire bene la propria paura e le proprie relazioni mentre in realtà non fanno che aumentare sempre di più la sua insicurezza, perché continua a pensare che gli altri l'apprezzino solo se fa le cose giuste».

Come superare la paura dell'impopolarità?

«Due regole. La prima, non si può piacere a tutti. Cercare di ottenere questo obiettivo significa rinunciare a sé stessi in nome di un'illusoria approvazione, che peraltro non arriverà mai. La seconda, le relazioni sono come un ballo di coppia: è importante fare un primo passo, dando un segnale di interesse e apertura ma, una volta iniziata la relazione, questa deve proseguire con una sana reciprocità, un giusto equilibrio tra il dare e il ricevere. Come nel tango, si balla in due e ognuno deve fare i suoi passi, in sintonia con quelli dell'altro».

Dal punto di vista pratico?

«Correre ogni giorno il piccolo rischio di mostrare sé stessi agli altri. Si può esprimere un'opinione, avanzare una richiesta e poi verificarne gli effetti. Scopriremo che questo non ci condanna inesorabilmente al giudizio o abbandono da parte degli altri, anzi, spesso accresce la nostra desiderabilità e la stima che gli altri hanno di noi. Il secondo passo è imparare a dire piccoli no. Si possono usare modi morbidi (tipo: scusa, vorrei ma non posso) e poi risposte più decise: scusa, vorrei ma ho una cosa più importante da fare o, infine, scusa, non mi va, passo finale della meravigliosa scoperta di poter essere voluti e amati per quello che siamo. O, parafrasando Victor Hugo, a dispetto di quello che siamo»

Giuseppe Scaraffia per Tuttolibri-La Stampa il 13 luglio 2021. Chi vedeva ogni mattina i due fratelli passeggiare in cilindro nel Bois de Boulogne non poteva sapere che quei silenziosi flâneur stavano scrivendo la storia segreta della loro epoca. Malgrado otto anni separassero Edmond da Jules, avevano diviso ogni momento della loro vita e talora anche le amanti, ma soprattutto l’umiliazione di non essere considerati. La loro ferita, la loro sensazione di essere stati sottovalutati dopo avere inaugurato nei loro romanzi il realismo e nei loro saggi storici la petite histoire divenne un’acuminata lente d’ingrandimento.  Storici della quotidianità, nel loro immane diario si alimentavano dell’orgoglio malinconico di sapersi inattuali, inguaribilmente distanti dalla società che frequentavano, malgrado non li capisse. Aragno, che ha meritoriamente pubblicato i 7 volumi dello straordinario “Journal” dei Goncourt, oggi ne propone un florilegio piccante, “La civile indiscrezione”. Eccentricità, vizi e manie ricostruiscono la trama nascosta della vita letteraria nel XIX secolo. Certo i due fratelli avevano viaggiato in Italia gustandone le bellezze, come spiega invece Carlo Alberto Petruzzi, curatore del pittoresco “Venezia di notte”, Damocle editore. Ma il loro terreno di caccia preferito era Parigi. Anche se le verità nascoste venivano catalogate come malignità, per loro “la maldicenza restava il più grande legame sociale”. Con un’intuizione straordinaria in quel secolo devoto all’ipocrisia, Edmond sapeva che “l’indiscrezione può solo ingrandire la memoria” di un autore altrimenti destinato all’oblio. Quando Jules, il più giovane, era morto precocemente di sifilide, Edmond aveva proseguito da solo il loro diario. Una sera in un salotto il giovane Proust aveva notato con dispiacere “i maneggi” delle dame per non fargli sapere quando ricevevano: “Ascolta, riferisce, scrive delle memorie su di noi”. Non era facile essere lo specchio segreto dell’epoca. “Ah, la verità! Che dico la verità? No, ma soltanto una milionesima parte di questa verità, com’è difficile dirla e come ve la fanno pagare!”. Nessuna particolarità sfuggiva ai diaristi. Al ristorante con Flaubert bisognava cenare in una saletta privata perché lui, per godersi la cena, doveva togliersi giacca e stivali. Registravano compiaciuti la teoria di Balzac, secondo il quale i rapporti sessuali dovevano limitarsi ai preliminari. Infatti era fermamente convinto che ogni eiaculazione fosse “un’emissione di pura sostanza cerebrale”. Per questo, dopo un incontro d’amore, aveva gridato: “Stamattina ho buttato via un libro!”. Ascoltavano imperturbabili il timido Zola dilungarsi su temi erotici: in gioventù, raccontava, gli capitava di passare più giorni senza alzarsi dal letto con una donna. Dopo, insisteva, era talmente esausto che doveva aggrapparsi ai muri per non cadere. Ma i Goncourt sapevano che, quando era andato a trovare una celebre cortigiana, alla ricerca di documentazione per “Nanà”, era fuggito temendo di esserne insidiato. Riportavano compiaciuti gli aneddoti sulla brutalità di un autore di successo come Maupassant che, dopo essersi lamentato con l’amante dei tormenti della sifilide, l’aveva stuprata lasciandola terrorizzata all’idea del contagio. E che dire di Turgenev, “il dolce gigante”, che assicurava di avere provato il più grande piacere della sua vita possedendo una sconosciuta sulla tomba di un cimitero? O di Daudet che, divorato dalla sifilide, spiegava: “Per godere mi occorre, stretta alla mia carne, la carne di due donne” e una pioggia di parolacce volgari?. “In fondo, concludeva Zola, le mogli sono prive di buon senso… se sua moglie gli consentisse quello che gli accordano le cameriere delle brasserie, la sua sarebbe la casa più felice della terra… e il donnaiolo, un cagnolino fedele”. Sorridevano dentro di sé dell’imbarazzo di Flaubert che, accusato di essere un sentimentale, si difendeva: “Ma sono anch’io un porco!”, evocando le sue esperienze mercenarie in Egitto con una donna che aveva “le natiche fredde come il ghiaccio”, ma dentro era “calda come un braciere”. Salvo, senza temere di contraddirsi, replicare a chi riduceva il sesso a una ginnastica salutare: “Quello che conta è l’amore, l’emozione, il tremito di stringere una mano”. La realtà era sempre deludente: l’anziano teorico del dandysmo, Barbey d’Aurevilly, indossava pantaloni di lana bianca “che sembrano mutandoni”. Eppure “sotto questo costume ridicolo e pederastico c’è un signore dai modi eccellenti”. Neanche la morte sfuggiva al loro sguardo disincantato: Quella di Victor Hugo – “titano del luogo comune” - veniva celebrata stancamente sui giornali proprio da Dumas che pure l’aveva sempre disprezzato apertamente. Solo le prostitute l’avevano omaggiato la notte prima dei funerali offrendosi gratis alla folla in lutto. Grandi collezionisti del Settecento e profeti del nipponismo, i due si ritiravano a elaborare gli aneddoti appena vissuti nella loro squisita dimora, in cui ogni oggetto era stato scelto con cura. Spesso prendevano di mira l’egocentrismo dei colleghi. Niente sembrava arginare il narcisismo di Zola, inesauribile su se stesso, nemmeno l’insuccesso di uno suo dramma: “Mi ringiovanisce… mi ridà i miei vent’anni”. O la meschinità di sua moglie che, con una voce aspra da pescivendola, infieriva sul romanzo su una prostituta dei poveri Goncourt, ampiamente superati dal loro emulo Zola: “Qui tutti sappiamo che in quelle case [chiuse] niente accade come è descritto nel libro”. Ma gli spietati fratelli, in viaggio con Zola, si vendicavano notando le ansie del presuntuoso collega, tormentato da una vescica esigente: “Il numero delle volte che piscia, o almeno tenta di pisciare, è inimmaginabile”. Ma era sempre Zola che, in una sera di cattivo umore, si chiedeva, senza sapere di stroncare così i due diaristi: “La vita vissuta, la credete necessaria? So bene che è l’esigenza del momento, di cui siamo un po’ la causa… Ma i libri di altre epoche se ne sono infischiati…”.

Jessica D'Ercole per “La Verità” il 13 giugno 2021. «Non avrai altro Dio al di fuori di me», così recita il primo dei dieci comandamenti incisi su due tavole di pietra, comandamento puntualmente infranto da famosi e milionari che, fagocitati dal proprio successo, si sono fortemente convinti di essere l'onnipotente. «Io sono Dio, e tu mi hai preso». Questa frase non è scritta né sulla Bibbia né sul Vangelo. Viene dalla bocca di Eric Clapton. Fu così che negli anni Ottanta, all'apice del successo, si presentò a Lory Del Santo. Affetto da una forma di narcisismo patologico, fece suo il graffito Clapton is God che qualche fan gli dedicò su un muro davanti al quale si trovò a passare. A quel tempo la fama e i soldi portarono Clapton sulla strada della perdizione, e, alcol e droghe esaltavano il suo ego smisurato fin quando non toccò il fondo e decise di redimersi. Fu proprio in una clinica di riabilitazione che trovò la fede: «Da quel giorno, non ho mai smesso di pregare al mattino, in ginocchio, chiedendo aiuto, e la sera, per esprimere gratitudine per la mia vita e soprattutto per il fatto di essere sobrio». Non intende redimersi George Soros, l'uomo che grazie a una speculazione finanziaria riuscì a portarsi a casa 1 miliardo di dollari in sole 24 ore. Da anni questo imprenditore sogna di controllare gli Stati Uniti finanziando con fior di milioni le campagne di quei politici che predicano le sue cause liberaliste e progressiste. E fin qui non ci sarebbe niente di male se non che, qualche anno fa, spiegando il suo progetto, affermò: «Per dirla senza tanti complimenti, ho immaginato di essere una specie di dio». E quando il quotidiano britannico Independent gli chiese lumi in merito, alla sua affermazione aggiunse un bel carico da 90: «È una specie di malattia quando ti consideri una specie di dio, il creatore di tutto, ma ora mi sento a mio agio da quando ho iniziato a viverlo». Ha un ego altrettanto smisurato Fabrizio Corona che, dopo anni di spola tra galera e domiciliari, ha dichiarato nel 2020 a Silvia Nucini di Vanity Fair: «Le ho già detto che sono Dio? Vuole una prova? Sono riuscito a portare il mondo fuori, qui dentro. Da casa muovo 4 programmi televisivi, sono mie le 12 storie più importanti degli ultimi mesi, do da lavorare a 15 persone. Nell'ultimo anno - 55 giorni in comunità, 1 mese in un albergo, 8 mesi qui ai domiciliari - avrò fatturato 2 milioni di euro. Col Covid. Sono sempre impegnato a parte il sabato. Il sabato dormo un po' di più, mangio tutto quello che voglio, leggo i giornali, guardo la tv. Il sabato è l'unico giorno in cui, per statuto, non scopo []. Da quando sono ai domiciliari avrò fatto l'amore con 60 donne diverse». Si potrebbe dire forse che, con queste affermazioni, Corona del signore non s'è guadagnato neanche la «s» minuscola. Meno megalomani sono i grandi narcisisti, che il culto lo hanno solo per la propria personalità o per la propria immagine. Tra loro si annoverano conquistatori (uno su tutti Alessandro Magno), imperatori (come non citare Napoleone), reali (le manie di onnipotenza di Luigi XIV di Francia), dittatori (tanto per dirne uno Hitler) e poi terroristi, politici, un'infinità di ignoranti ma anche una schiera di illustri, e talvolta simpatici, egocentrici che si sentono una spanna sopra agli altri. Basti pensare a Curzio Malaparte, che stando a Leo Longanesi era tanto pieno di sé da sentenziare: «È così egocentrico che se va ad un matrimonio vorrebbe essere la sposa, a un funerale il morto». O ancora a Achille Bonito Oliva che come scriveva Mario Perazzi su Sette è il «Gran Narciso della critica d'arte italiana. Blandito e osannato, dileggiato ed esecrato a seconda dell' andamento ondivago del suo potere nell'industria delle esposizioni». Alla Zanzara di Giuseppe Cruciani e David Parenzo - dopo aver vinto una causa per diffamazione contro Vittorio Sgarbi - strapazzò il suo collega spiegando cosa li rendeva diversi: «Non c'è nessun saggio o libro suo che si ricordi, i miei sono stati tradotti anche in Cina. Io ho due cognomi e lui uno solo. Io sono famoso e lui è popolare, io sono narcisista lui è vanitoso ma la vanità è il prêt-à-porter del narcisismo». Per dirla con le parole di François de La Rochefoucauld: «Ciò che rende la vanità degli altri insopportabile, è che offende la nostra». Non si può parlare di vanità senza citare Oscar Wilde che ostentava il suo talento: «Non ho nulla da dichiarare eccetto il mio Genio». Lo scrittore e drammaturgo di ineccepibile cultura fece di Narciso Dorian Gray, un romanzo dove il culto dell'estetica la fa da padrona. Attento all'estetica era Giorgio Strehler un altro genio del teatro, tanto umile nella sua arte quanto vanitoso nella vita. Scrive Cristina Battocletti nel suo Il ragazzo di Trieste (La Nave di Teseo) che si faceva azzurrare i capelli, che aveva un pettinino sempre in tasca e portava scarpe col rinforzo e che amava che le donne lo amassero. Vittorio Lingiardi nel suo saggio Arcipelago N. (Einaudi) ricorda che esistono diverse variazioni di narcisismo. C'è quello maligno, che manipola le persone a proprio piacimento e che apre le porte a una vera e propria psicopatia, quello arrogante che manifesta segni di onnipotenza e quello fragile di cui soffre chi si innamora di stesso. Tra questi ritroviamo anche una Marta Marzotto, musa di pittori, regina della mondanità, definita da Alberto Moravia «una narcisista naturale» perché sin da piccola il papà la issava sul carretto per farle vedere «il mondo dall'alto». Nonostante sia stata molto amata da Vittorio Marzotto, Renato Guttuso, Lucio Magri, era solita ritagliare le poesie che la colpivano per poi spedirle a sé stessa: «Che emozione l'arrivo del postino! Era come se un misterioso spasimante l'avesse dedicata a me», disse in un'intervista a Stefano Lorenzetto. E, fino all'ultimo, anche in clinica, è stata animata da uno sconfinato desiderio di piacere. Innamorata di sé era anche Wally Toscanini: «La bellezza per me ha significato la conquista, la sicurezza. Da ragazzina, ero tanto narcisista che mangiavo di fronte allo specchio. Mi punivano, mettendomi addosso un grembiule nero. Ma spero che il narcisismo e il piacere della frivolezza non mi abbiano mai impedito di dare e di farmi in quattro». Allo specchio si guardava ogni mattina anche Salvador Dalì: «E ogni mattina provo sempre lo stesso e immenso piacere: quello di essere Salvador Dalì». Andrea Kerbaker, che lo scorso anno gli dedicò una mostra Me ne faccio un baffo, sostiene che il pittore spagnolo sia stato tra i più grandi egocentrici della storia: «Tutto ciò che disegnava, diceva, scriveva, era riferito anzitutto a lui». Kerbaker racconta che quando subì un processo da parte degli altri artisti che volevano cacciarlo dal movimento per le sue idee filo-naziste, lui non li ascoltò nemmeno perché era così stanco che voleva solo dormire, oppure di quando inventò il Paranoico-critico: «Di fatto è un metodo per parlare di arte, ma sempre partendo da sé stesso e dal suo personaggio». Altro grande egocentrico era Gabriele D'Annunzio, che anticipò quel desiderio di fama e gloria oggi comune alla gran parte degli uomini. E la sua cultura e la sua scrittura, raffinata e pregiata, rendevano il suo ego spettacolare senza però dimenticare la sua fede: «Il nostro dio è sempre davanti a noi come l'orizzonte o come la colonna invisibile di fiamma». Non come Friedrich Nietzsche che tentò di sostituirlo con l'Otreuomo: «Ciò che ci distingue non sta nel fatto che non ritroviamo un Dio [] ma nel fatto che non consideriamo, come divino, ciò che fu venerato» (Frammenti postumi 1887-1888). La conclusione la lasciamo a Umberto Saba: «I poeti (questo lo sanno tutti) sono egocentrici. Per essi, il mondo esterno esiste; solo gira esclusivamente intorno alla loro persona. I filosofi (metafisici) avevano fatto un passo più avanti nel cammino della regressione: erano egocosmici».

·          "Genio e Sregolatezza".

 

Benedetta Marietti per “Il Venerdì di Repubblica” il 16 novembre 2021. «Mia cara Livy, vorrei che ricordassi di lasciare nella stanza da bagno, per quando arrivo, una bottiglia di scotch whisky, un limone, dello zucchero in polvere e una bottiglia di angostura. Da quando sono stato a Londra ho preso l'abitudine di bere un calice di quello che viene chiamato cocktail (preparato con gli ingredienti che ho indicato) prima di colazione, prima di cena e appena prima di coricarmi». In una lettera scritta nel gennaio del 1874 alla moglie Olivia Langdon, Mark Twain, di ritorno negli Stati Uniti, confessava la sua passione per i cocktail così come li conosciamo noi e in particolare per lo scotch whisky che beveva tre volte al giorno. La bevanda alcolica lo aiutava nella digestione e, soprattutto, dava nuovo impulso alla sua vita amorosa, dato che in cambio del favore prometteva alla moglie di ricoprirla di «un mare di baci». 

Le magie della fata verde

Il creatore di Le avventure di Tom Sawyer e Huckleberry Finn non fu certo l'unico scrittore a subire un'attrazione smodata nei confronti dell'alcol; al contrario alcol e letteratura costituiscono un connubio antico, fatale, spesso indissolubile. A raccogliere ricette, dosi, consigli, aneddoti sui più grandi scrittori e poeti di tutte le epoche e i loro drink preferiti ci ha pensato un volume dal titolo Bere come un vero scrittore. 100 ricette per ricreare i drink che hanno ispirato i giganti della letteratura (testi a cura di Margaret Kaplan, illustrazioni di Jessica Fimbel Willis, traduzione di Camilla Pieretti, Il Saggiatore, pp. 296, euro 15,90) in libreria dal 18 novembre. Jane Austen, ad esempio, sembra che adorasse il Negus - una miscela a base di porto ruby, acqua calda, zucchero, succo di limone e noce moscata, creata nel primo '700 dal colonnello Francis Negus - e che sorseggiasse questo vino caldo e speziato durante i balli a cui partecipava, oltre a menzionarlo in Mansfield Park. Nello stesso periodo, in Francia, andava di moda l'assenzio, un distillato derivato dai fiori e dalle foglie dell'Artemisia absinthium. Soprannominato "fata verde" a causa del suo colore, a inizio '900 divenne una bevanda amata dagli scrittori e poeti che affollavano i banconi e i caffè della Rive Gauche parigina: Charles Baudelaire, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud trassero ispirazione da questo aperitivo ad alta gradazione alcolica con note di assenzio maggiore, finocchio e anice. Baudelaire, per rincarare la dose, lo mescolava con laudano e oppio. Rimbaud, invece, lo associava a un pizzico di hashish. L'assenzio era noto soprattutto per le sue proprietà allucinatorie. «Che differenza c'è tra un bicchiere d'assenzio e un tramonto?», si chiedeva Oscar Wilde. E ancora: «Sono stato sveglio per tre notti a bere assenzio, convinto di essere particolarmente equilibrato e lucido. Il cameriere entrò e iniziò a bagnare la segatura. I fiori più incredibili, tulipani, gigli e rose fiorirono all'improvviso, trasformando il caffè in un giardino. "Non li vede?" chiesi. "Ma monsieur, non c'è niente lì"».

Racconti alterati

Per Scott Fitzgerald una delle sue due ossessioni (l'altra era Zelda) portava il nome di Gin Rickey, che beveva in quantità industriali e che faceva sorseggiare anche ai personaggi dei suoi romanzi. Come Tom Buchanan, che nel settimo capitolo del Grande Gatsby se ne scola quattro mescolati tutti insieme. «Prima tu prendi un drink, poi il drink prende un altro drink e infine il drink prende te», pare dicesse Fitzgerald (in realtà era un detto diffuso ai suoi tempi). Scrisse: «Quando bevo, le mie emozioni si intensificano, e io le riverso nel racconto. Poi però diventa difficile equilibrare ragione ed emozione». Zelda non era da meno. Amante della danza e delle feste, fu una scrittrice tanto brillante che il marito riprese materiale per i suoi romanzi dalle sue lettere e dalle sue battute di spirito. La coppia però condivideva ben più dell'amore reciproco: in comune avevano anche la passione per l'alcol, che per Zelda coincideva con il Vodka Lemon. Compagno di bevute di Scott fu un altro grande della letteratura: Ernest Hemingway. I due si conobbero nel 1925, a Parigi, si piacquero subito, si influenzarono a vicenda e consumarono insieme litri e litri di superalcolici. Hemingway diventò cliente abituale di una serie di bar sparsi per il mondo. Secondo la leggenda, entrò per caso nel Floridita dell'Havana, a Cuba, vide che il barista serviva drink ghiacciati, volle provarli e dichiarò: «Non male, ma li preferirei senza zucchero... e con il doppio del rum». Nacque così il Papa Doble o Hemingway Special (un doppio Daiquiri). Alla Bodeguita del Medio, sempre all'Havana, pare invece che bevesse il Mojito. William Faulkner prediligeva il Mint Julep, da prepararsi in una coppa di metallo ghiacciata, Flannery O' Connor amava una bevanda a base di rum, caffè e Coca-Cola, Jack Kerouac impazziva per il Margarita, soprattutto durante i suoi soggiorni in Messico, mentre Sylvia Plath e Anne Sexton dopo i loro laboratori di poesia andavano al Ritz-Carlton di Boston e ordinavano (almeno) tre Vodka Martini a testa.

Il goccetto mattutino

In un'intervista del 1990 per Paris Review, Maya Angelou rivelò che era solita scrivere in una stanza d'albergo in compagnia di una Bibbia, un dizionario dei sinonimi, un blocco giallo per gli appunti, un portacenere e una bottiglia di sherry. In genere ne beveva un bicchiere verso le 11, ma a volte, come racconta, cominciava a sorseggiarlo appena arrivata, alle 6.15 del mattino. Questa sua trasgressione, tuttavia, non sembra averne minato la produttività: oltre ad aver pubblicato un gran numero di scritti, ha fatto parte di due comitati presidenziali, ha ricevuto la Medaglia della libertà da Barack Obama ed è stata insignita di più di cinquanta lauree ad honorem. 

Davanti e dietro al bancone

Lo scrittore giapponese Murakami Haruki, che per qualche tempo ha lavorato come barman in locali jazz, scrive in La fine del mondo e il paese delle meraviglie, con poco senso del politically correct: «Il whisky, come una bella donna, ha bisogno di essere apprezzato. Prima si osserva, poi si può bere». Il Cutty Sark scozzese viene citato sia in L'uomo che girava le viti del mondo sia in 1Q84, mentre in Kafka sulla spiaggia uno dei personaggi si chiama Johnnie Walker. Infine non si possono tralasciare gli scrittori amanti del vino. Tra questi Jay McInerney che in ben tre volumi (in Italia ne è uscito uno per Bompiani, I piaceri della cantina) ha raccolto le sue recensioni enologiche apprezzate molto in America, ma criticate nel nostro Paese. «Scrivere di vino può essere pericoloso quanto scrivere di sesso», ha sentenziato McInerney. E ha aggiunto: «Volevo scrivere come Hemingway e bere come Jake Barnes», il protagonista di Fiesta. Se è noto che Marguerite Duras, autrice dell'Amante, riusciva a far fuori fino a otto litri di Bordeaux al giorno, sembra che la scrittrice di racconti e vincitrice del premio Nobel per la letteratura Alice Munro ami accompagnare la cena con un bicchiere di Sauvignon Blanc freddo. Joan Didion, a Los Angeles, adora sorseggiare un bicchiere di vino la sera mentre finisce il lavoro della giornata. 

Tornare lucidi. o quasi

I rimedi degli scrittori per riprendersi dalle baldorie alcoliche sono spesso peggiori dei mali. Hemingway beveva birra e succo di pomodoro, Scott Fitzgerald si scolava tre whisky forti, Zelda faceva una bella nuotata mattutina seguita da un Vodka Lemon. Raymond Carver, reduce dalle nottate all'Università dell'Iowa in compagnia del grande amico John Cheever («Io e lui non facevamo altro che bere. Credo che nessuno di noi due abbia mai neanche tolto la copertura alla macchina da scrivere») aveva messo a punto un sistema secondo lui infallibile: un Bloody Mary defibrillante a base di vodka, succo di pomodoro, liquido dei cetrioli, succo di limone, rafano, Tabasco, salsa Worcestershire, sale, pepe, semi di sedano, peperoncino di Cayenna e gamberi da cocktail per guarnire il bicchiere. Fino alla prossima sbronza.

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 13 novembre 2021. Su Mubi, preziosa piattaforma che ha sostituito il defunto cinema d'essai e la cui programmazione è un mix tra chicche d'autore e trombonate impegnate di sinistra, è in programma in questi giorni Moments Like This Never Last, il documentario di Cheryl Dunn dedicato a Dash Snow e alla New York alternativa tra fine anni '90 e il trauma dell'11 settembre. Antieroe che mal sopportava di discendere da una famiglia ricca e famosa (sua nonna Christophe de Menil è stata una delle collezioniste più importanti al mondo), fotografo, performer, dotato di un talento che al suo scopritore Jeffrey Deitch ricordava addirittura Jean-Michel Basquiat, Snow muore nel 2009, ucciso dall'eroina e dal male di vivere, non per caso a 27 anni, il numero maledetto tra i votati all'autodistruzione, il club che annovera tra gli iscritti gente famosa come lo stesso Basquiat, Kurt Cobain, Jim Morrison, Jimi Hendrix e Amy Winehouse. Non gli bastò, per dare un senso alla propria vita, neppure diventare padre di una splendida bimba, se il dolore ti divora non c'è niente da fare. «Muore giovane chi è caro agli dei». Il frammento dell'aforista greco Menandro da secoli sorregge la convinzione che chi nell'arte, nella letteratura, nella musica, nel cinema, nella cultura in generale se ne va dalla terra prima del tempo lascia dietro di sé una scia luminosa, come una stella cometa, che gli permette di splendere in eterno e assurgere a mito per le generazioni future. Sin dai tempi della scuola abbiamo empatizzato con il destino infelice di Rimbaud, Sylvia Plath, Van Gogh, James Dean, Marilyn Monroe, convinti che invecchiare non fosse il destino dell'artista. «It' s better to burn out than fade away», meglio bruciare in fretta che tirare avanti, un bel motto da tatuarsi sulla pelle, sai quanta scena con le ragazze...A proposito di addii prematuri, venerdì 12 novembre apre al Palazzo Blu di Pisa la mostra di Keith Haring, scelta alquanto pertinente visto il suo legame affettivo con la città della Torre Pendente, dove l'artista americano realizzò Tuttomondo uno dei suoi ultimi e più importanti lavori murari. Scomparso nel 1990 a causa dell'Aids, Haring manifestava nella pittura una gran voglia di vivere e un'innocenza a tratti ingenua, eppure fu tra le vittime illustri di un male che colpiva soprattutto chi aveva scelto la strada della promiscuità che negli anni '80 fu equiparato a dramma sociale. Meno "glorioso" che sfondarsi di alcol e droga, meno simbolico del suicidio, anche il sesso troppo libero finì per essere colpevolizzato da certa opinione pubblica. Miti assoluti della gioventù, se uno ha la fortuna di invecchiare (e bene) finisce per amarli sempre di meno e affezionarsi invece a esempi ben più longevi. Durante l'età verde l'artista tende a produrre lavori molto intensi e carichi, crescendo è destinato a cambiare. Se Piero Manzoni fosse vissuto oltre i 29 anni avrebbe continuato a defecare nei barattoli oppure si sarebbe indirizzato verso una pittura più classica e armoniosa? E le figure di Egon Schiele, morto a 28, sarebbero state ancora così tristi e cupe se le avesse dipinte, ipoteticamente, da uomo adulto, maturo e con l'aiuto di un buon terapista? Capita con l'età. Da giovane ti identifichi in Caravaggio, poi invecchi e vorresti essere Tiziano, esempio più unico che raro di longevità nel '500, autore di tardivi quadri strepitosi dove la materia si sfalda in pennellate dense e pastose. Ho conosciuto ragazzi fan assoluti di Jackson Pollock e del suo malessere generalizzato, quando crescono e acquisiscono saggezza il loro modello diventa Pablo Picasso, superattivo oltre gli 80 anni nell'arte e nella vita. La maturità, in effetti, serve anche a superare i luoghi comuni, diventare riflessivi e dosare le energie perché l'arte non è un lavoro usurante come l'operaio, il panettiere, l'autista, il medico (versione maschile e femminile, sia chiaro) e al contrario ti consente di stare sul palco fino all'ultimo dei tuoi giorni. Se dura vuole dire che è andata bene. Prendiamo il caso di Michelangelo Pistoletto (88 anni), attivo dagli anni '50 prima ancora dell'Arte Povera, oggi considerato un vecchio saggio, un guru capace con il proprio pensiero di affascinare anche le giovani generazioni. Gerhard Richter a 89 anni continua a essere il più importante pittore al mondo, Yayoi Kusama ne ha compiuti 92, non lavora più tanto eppure resta una figura leggendaria, confermando l'orientamento per il quale soprattutto il lavoro delle donne artiste viene riconosciuto in tarda età - Carolrama, morta a 97 anni nel 2015 vinse il leone d'oro a Venezia solo nel 2003, Maria Lai scomparsa a 94 anni oggi ha un gran successo di mercato e Maria Lassnig, austriaca, fece in tempo a ottenere lo stesso premio alla carriera nel 2013 prima di andarsene l'anno dopo a 95 primavere. Nella creatività, dunque, non tira più il falso mito della morte giovane. Speriamo piuttosto che il signore conservi la salute a Bob Dylan che a 80 ha sfornato l'ennesimo capolavoro. Conviene proprio invecchiare, credo che di 'sti tempi ci metterebbero la firma persino quelli che fecero di tutto per sparire con clamore.

Raffaella De Santis per “Il Venerdì di Repubblica” il 18 marzo 2021. La maledizione bohémienne oggi appare anacronistica. Jim Morrison o Janis Joplin sono diventati santini e gli scrittori maledetti si contano sulle dita di una mano. Il maledettismo classico, quello ottocentesco della triade Baudelaire-Rimbaud-Verlaine, è qualcosa che appartiene al passato, morto forse per mancanza di tabù da infrangere, probabilmente  per overdose di edonismo. Ma se i maledetti alla vecchia maniera non ci sono più, o meglio non fanno più notizia, non sono però scomparsi gli scrittori e gli artisti "contro", che non corteggiano il gusto dominante ma preferiscono sfidarlo. E se il mito "genio e sregolatezza" fosse solo un'invenzione letteraria? In realtà i grandi dannati ottocenteschi lavoravano da sobri, la dissipazione aveva bisogno di disciplina per tradursi in qualcosa di scritto. Inoltre è evidente che non bastano le droghe a fare un maledetto. Walter Siti ridimensiona il mito del maledettismo tossico: "L'uso delle droghe non necessariamente porta a scrivere contro la società. A Carlos Castaneda il peyote serviva ad allargare i limiti della coscienza e in un libro come Sotto il vulcano di Malcolm Lowry l'alcol aiuta il protagonista ad avere visioni. Non so neanche se Rimbaud avesse davvero bisogno di droga. Probabilmente era come Obelix, c'era caduto dentro da piccolo".

Gli scrittori salmone. Comunque stiano le cose, oggi sarebbe impensabile atteggiarsi a nuovi Rimbaud. Continuano però ad esistere romanzi che hanno il potere di turbare il senso comune e scrittori "controcorrente": "Penso a Michel Houellebecq o a Bret Easton Ellis. Di fronte a una letteratura che chiede sempre più di essere morali, di mandare messaggi positivi, vanno nella direzione opposta, si mettono in ascolto della parola, non decidono in anticipo dove portare il libro. Li definirei "scrittori salmone" perché non assecondano la corrente ma risalgono il fiume al contrario". Nel suo prossimo saggio, Contro l'impegno, che uscirà per Rizzoli in primavera, Siti parlerà anche di questo. C'è chi ritiene Siti stesso un maledetto, ma lui si smarca: "Io? Tuttalpiù potrei essere un commerciante di maiali della Bassa modenese. Ci sto bene al mondo, mi piace mangiare, amo la buona compagnia. È vero però che quando scrivo mi riescono meglio i ritratti in negativo, è come se fossi più attirato dall'ombra". Gli chiediamo se Pier Paolo Pasolini possa considerarsi l'ultimo dei maledetti: "Quando era giovane era lui stesso a percepirsi così. La poetessa friulana Novella Cantarutti, che lo conosceva bene, mi raccontò che rompeva  le scatole a tutti con la storia che lui era Rimbaud. Dopo, nel corso della sua vita ha iniziato a interessarsi al Vangelo, ha scoperto le borgate. È tornato a fare una cosa contro tutto e contro tutti con Salò. È un film che si fa fatica a vedere. Quando lo proiettavo agli studenti non reggevo di fronte a certe scene, fingevo di rispondere al telefono e uscivo. Forse Salò può rientrare nella categoria dei film maledetti".

Le "svergognate". Alle donne è bastato solitamente molto poco per essere giudicate streghe e "maledette" dai benpensanti. Margherita Giacobino, saggista, romanziera e traduttrice, ha dedicato gran parte della sua opera a donne fuori dagli schemi come Patricia Highsmith, Renée Vivien o Violette Leduc, che si affaccia anche nell'ultimo libro Il tuo sguardo su di me (Mondadori): "Violette narrava senza pudore i propri sentimenti. Era bisessuale, si esponeva moltissimo, basta leggere libri come Thérèse e Isabelle o La bastarda per averne un'idea. Così Vivien, apertamente lesbica, coraggiosa a sfidare la morale. Era però alcolizzata e faceva uso di sostanze, è morta a soli 32 anni". In genere le donne libere erano ostracizzate dalla società: "Dovevano stare zitte, custodire la vita nel silenzio, altrimenti venivano considerate "svergognate". Nel saggio Guerriere, ermafrodite, cortigiane (edito da Il Dito e la Luna) Giacobino parla proprio di questo: "Forse la più maledetta del XX secolo è stata Valerie Solanas. Era una barbona, una donna ai margini. Aveva scritto una commedia e un manifesto e lottato invano per affermare le sue opere. Sparò a Andy Warhol perché l'aveva illusa di produrre la sua opera teatrale. Lo considerava un maschilista, uno che collezionava intorno a sé emarginati ma in fondo era un uomo di potere".

Gli edonisti. Achille Bonito Oliva traccia la linea di confine nella storia dell'arte recente: al di là del trasgressivo Jackson Pollock, protagonista nel secondo dopoguerra dell'action painting americana, "oggi parlerei di edonismo più che di rivolta". Anche la Beat Generation non aveva i tratti classici dei paradisi artificiali ottocenteschi: "I Beat erano fuori dalle regole sociali, usavano droghe, andavano in oriente, ma non erano ribelli, erano semmai edonisti, volevano dilatare i sensi, provare nuove esperienze". Perfino Basquiat, morto a ventisette anni per overdose, secondo Bonito Oliva voleva solo "creare un flusso tra vita e creazione artistica". Forse lo stesso flusso che trascinava artisti "dannati" come Mario Schifano, Tano Festa e Franco Angeli e il gruppo della scuola di piazza del Popolo: "Non erano veri maledetti. Era una generazione che approdava al successo sfiorata dal boom economico, la droga ormai era un oggetto di consumo non più elitario. Non esisteva più una società moralista che giudicava". Questo però non vieta di produrre opere che continuano a scioccare. Bonito Oliva ricorda un episodio accaduto alla mostra Contemporanea che aveva organizzato a Villa Borghese nel 1973: "Quando Marina Abramovic fece il gioco dei coltelli fra le dita, ferendosi e sanguinando davanti a un pubblico inorridito, mise in scena qualcosa di eccessivo. Ma più che di maledettismo parlerei di shock estetico. In fondo l'arte contemporanea è un massaggio del muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva".

Dai rocker ai trapper. Rimarrà deluso chi pensava ai trapper come ai nuovi maledetti. Valerio Mattioli, critico culturale e autore di Remoria (minimum fax), libro dedicato alle realtà marginali romane, archivia il maledettismo come reperto del Novecento: "Anche nella musica l'idea dell'artista maledetto è molto romantica ma è una mitologia, una costruzione". I maledetti storici nell'immaginario comune rimangono Jim Morrison, Janis Joplin o Brian Jones, oggi i loro eredi potrebbero essere rapper e trapper? Per Mattioli si tratta di mondi diversi: "Achille Lauro  e Sfera Ebbasta sono dei narratori, non hanno altri scopi se non raccontare la realtà cruda della vita quotidiana. La loro musica non ha intenti provocatori, è del tutto assente l'aspetto bohémien".

·        Le Stroncature.

Classici, ignoti, bestseller. Ecco i libri più tradotti. Luigi Mascheroni il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Un'azienda privata ha mappato, con tante sorprese, i testi letti nel maggior numero di lingue sul pianeta. Tolti i testi religiosi, quali sono i libri più tradotti nel mondo? Il primo forse è intuitivo: Le Petit Prince - che noi leggiamo come Il piccolo principe - di Antoine de Saint-Exupéry, tradotto in 382 lingue. Già il secondo forse è una sorpresa, anche per noi italiani: è il romanzo per ragazzi Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, letto in oltre 300 lingue. Il terzo, invece, non stupisce: è Alice nel Paese delle meraviglie di Lewis Carroll: oltre alla versione originale inglese, esistono almeno 175 edizioni straniere... La curiosità di sapere quale sia l'autore che parla più lingue nel mondo è legittima, e la risposta spiega molto in merito all'universalità di certi temi, di certi personaggi, di certi archetipi, di certi meccanismi narrativi. Purtroppo però avere dati certi non è facile: fonti non istituzionali, criteri di valutazione differenti, edizioni pirata eccetera rendono tutto molto complicato, e a volte i risultati sono incompleti o contraddittori. Ora però ecco una ricerca molto specifica, che non fornisce un risultato «certificato», riconosciuto da tutti (notiamo per esempio la strana mancanza di Harry Potter...), ma offre cifre, nomi e «geografie» di grande utilità. La ricerca - ovviamente con scopi commerciali, ma ciò non toglie validità allo studio - l'ha eseguita Preply, una piattaforma globale di apprendimento delle lingue che mette in contatto 15.000 insegnanti con decine di migliaia di studenti in tutto il mondo. Fondata nel 2012, Preply ha un obiettivo preciso: mostrare il sistema più efficace per imparare una lingua. E così, per confrontarsi con «modelli» universali, Preply ha analizzato, su un campione di 195 Paesi, i libri tradotti in più lingue, nazione per nazione e divisi per continenti (dove non erano disponibili altri dati, è stata controllata la disponibilità dei singoli testi in diverse lingue nella Worldcat Library, il più completo database mondiale di informazioni sulle collezioni delle biblioteche) costruendo un gruppo di dettagliatissime infografiche con libri e autori, dal Nord America all'Oceania. Trovate tutto qui, e vi divertirete a curiosare tra le varie slide, scoprendo, ad esempio, che nei Paesi europei l'ambito editoriale più gettonato è quello della letteratura per ragazzi, mentre in Africa è il genere autobiografico che riesce a generare il maggior interesse internazionale. O che negli Stati Uniti il più richiesto, per tradurlo, è un manuale di auto-aiuto: La via della felicità del fondatore di Scientology Ronald L. Hubbard. Non c'è da stupirsi...Comunque. Vediamo la Top ten dei più tradotti al mondo. Dei primi tre abbiamo già detto. C'è solo da aggiungere, curiosità nella curiosità, che Il piccolo principe - incoronato anche dal Guinness World Record come singolo libro più tradotto nel pianeta - fu pubblicato il 6 aprile 1943 a New York da Reynal&Hitchcock prima nella traduzione inglese (The Little Prince, tradotto dal francese da Katherine Woods) e qualche giorno dopo, dallo stesso editore, nell'originale francese. Solo nel '45, dopo la morte di Antoine de Saint-Exupéry, uscì in Francia, da Gallimard. Il capolavoro di Collodi, invece, ha una storia editoriale più complicata: i primi otto episodi apparvero originariamente a puntate tra il 1881 e il 1882 sul «Giornale per i bambini», il supplemento settimanale del quotidiano Il Fanfulla, col titolo Storia di un burattino. Il romanzo completo - su cui l'autore ebbe sempre grossi dubbi... - apparve come Le avventure di Pinocchio a Firenze nel febbraio 1883. Infine, Alice's Adventures in Wonderland: il romanzo fu pubblicato da Charles Lutwidge Dodgson, sotto lo pseudonimo di Lewis Carroll, nel 1865, tre anni dopo che l'autore, assieme al reverendo Robinson Duckworth, portò le tre figlie di un loro amico in una gita in barca sul Tamigi, raccontando alle ragazze la storia di una bambina annoiata di nome Alice in cerca di un'avventura... Come finì, lo sanno in molti, oggi, nel mondo. Per il resto, ribadendo che sono stati omessi i libri religiosi e quelli di autori anonimi, la classifica regala molte sorprese. Giù dal podio, al quarto posto, spiccano le Fiabe di Hans Christian Andersen, tradotte dal danese in 160 lingue (e siamo a tre libri per «bambini» barra «ragazzi» su quattro). Al quinto il Testamento di Taras Shevchenko (1814-61), letto in oltre 150 lingue, poesia simbolo dell'Ucraina, con quel famosissimo incipit: «Quando morrò seppellitemi/ sull'alta collina/ nella nostra steppa/ della bella Ucraina...». Al sesto posto? Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, un classico tradotto in 140 lingue (ma forse anche in qualcuna in più). Al settimo, lo abbiamo già citato, un libro-culto dell'America: La via della felicità di L. Ronald Hubbard che dal 1981 a oggi ha conosciuto 112 traduzioni. All'ottava posizione la serie a fumetti belga Le avventure di Tintin, ideata e disegnata dal 1929 al 1983 da Hergé, nom de plume di Georges Prosper Remi: attualmente è letta in 93 lingue, e speriamo continui ad esserlo, viste le accuse di razzismo che hanno colpito alcune avventure... Dalla cancel culture non c'è scampo. Ne mancano due. Nono posto per La tragedia dell'uomo di Imre Madách, tradotto in più di 90 lingue: si tratta dell'opera teatrale, largamente rappresentata nel mondo, scritta nel 1852 dal celebre - lo confessiamo: non per chi scrive - drammaturgo ungherese. E all'ultimo posto della Top ten, ecco un bestsellerista assoluto, il brasiliano Paulo Coelho con L'Alchimista, che dal 1988 a oggi ha venduto oltre cento milioni di copie tradotte in 80 lingue. Sapevate già tutte queste cose? Allora vi stupiremo, spulciando dalla ricerca di Preply, con i libri in assoluto più tradotti in Africa: La rivoluzione verticale: o sul perché gli uomini camminano eretti del keniano (vivente) Ngugi wa Thiong'o (63 lingue); in Asia: Autobiografia di uno Yogi di Paramahansa Yogananda (oltre 50 lingue); e in Oceania: The Thorn Birds dell'australiana, appunto, Colleen McCullough (oltre 20 lingue). La traduzione italiana, lo sapete, è: Uccelli di rovo.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Emily Capozucca per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2021. Amazon, il colosso tecnologico statunitense, è impegnato a contrastare le false recensioni. Nell'ultimo anno, come parte degli sforzi per prevenire e rilevare frodi e manipolazioni, la società ha cancellato oltre 200 milioni di recensioni false di prodotti dai suoi siti web in tutto il mondo oltre ad aver intrapreso azioni legali contro società che vendono falsi feedback. Lo scorso anno sono state cancellate un numero maggiore di recensioni rispetto agli anni passati, tanto che la multinazionale di Seattle ha fatto sapere che spende 700 milioni di dollari l'anno in tutto il mondo in dipendenti e software dedicati alla prevenzione e al rilevamento di questo tipo di attività. C'è da dire che Amazon non è l'unica a reprimere il fenomeno ma spesso risulta essere complicato intentare azioni legali contro società che spesso operano dall'estero.

Testo di Livio Garzanti pubblicato dal "Corriere della Sera" l'8 luglio 2021. La critica dell'editore vive della passione dell'industria. L'editore non può lasciarsi andare alla passione personale e non può affidarsi alla disinteressata freddezza della critica dei critici, l'editore è una media fra la critica dei critici e la vita, non di sé stesso ma degli altri. Ed è soprattutto nel capire gli altri che sta il capire degli editori, sentire il pubblico vuol dire giungere oltre il gusto del pubblico. Il gusto è sempre qualche cosa di freddo, è la conseguenza di un qualche cosa di realizzato. Se l'editore segue il gusto del pubblico, giunge sempre di un minuto in ritardo […]. L'editore è un critico che il pubblico non conosce, un critico che non segue una sua logica rigorosa. [..] Sempre mi capita l'amico, il conoscente, l'uno che ti incontra per la prima volta e appena sa che vivi nel mondo editoriale ti affonda di domande e di consigli; sembra tanto facile quanto dar consigli e far critiche a un editore. Si iniziano forti discorsoni, e si discute, che mai si arrivi a un punto. L'editore è un industriale come tutti gli altri, deve conoscere la sua clientela e deve saperla accontentare, il libro è per l'editore un prodotto come gli altri, bisogna che piaccia e bisogna che sia ben presentato. Lanciare un libro è come lanciare un lucido da scarpe. Questa è la conclusione cui mi par di dover giungere dopo lunghe discussioni, mi sembra semplice e pure quel che mi han detto tanti librai e tanti che passano la loro vita vicino ai banchi di vendita. Poi quando si parla con i colleghi e si discute d' un libro di una collana, mi trovo spesso a fare la parte del critico più raffinato. C' è un dovere cui l'editore deve ubbidire, un dovere verso la cultura, verso la morale.

Quanta carta sacrificata sull'altare dei libri inutili. Massimiliano Parente il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Il luogo comune vuole che la lettura sia sempre un bene. Ma è vero l'opposto. Perché scrivono tutti. Quante volte avete sentite dire che leggere fa bene? Quante volte sentite fare l'elogio dei libri? Quante volte sentite dire che un libro ti cambia la vita? Quante volte sentire dire queste stronzate? Ecco, ci voleva un giustiziere mascherato, anzi neppure mascherato, ci voleva un giustiziere Mascheroni. Cioè Luigi Mascheroni, uno dei più raffinati giornalisti culturali italiani (e anche figo, diciamolo, fossi una donna lo avrei corteggiato subito), di cui in questi giorni esce un pamphlet che solo lui poteva scrivere. Un piccolo libro che per me è già un culto, dal titolo emblematico: Libri. Non danno la felicità (tanto meno a non chi li legge), edito Oligo Editore. È una sfolgorante e colta invettiva contro la retorica del libro, anche perché dire libro non significa niente. Ci sono libri fondamentali e libri di merda, libri che danno al lettore e libri che gli tolgono qualcosa, come dice Aldo Busi. In genere i libri che ti tolgono sono letti da non lettori, sono quelli che vanno in classifica e vengono premiati dal solito premio giudicato da mediocri (che si leggono tra loro), quindi aggiungono nulla al nulla, per questo vendono, come vendono i prodotti omeopatici. Mascheroni non risparmia nessuno sulla quantità di carta straccia che farebbe bene leggere (al massimo fa bene a chi, non essendo uno scrittore, potrà definirsi un «e scrittore»), «libri-non-libri scritti da alieni della letteratura, pseudolibri, surrogati, libri-Vip: cioè libroidi che di solito occupano posizioni invidiabili nelle classifiche di vendita, le vetrine delle librerie e le aperture delle pagine di cultura dei giornali () firmati da personaggi celebri in mille campi tranne quello delle Lettere: calciatori e sportivi vari, chef, cantanti, attori, presentatori, comici, politici, pornostar, vallette, show girl, influencer, imprenditori, personaggi della cronaca (anche nera) e giornalisti, soprattutto giornalisti». Con quel «soprattutto» Mascheroni si inimicherà la maggior parte dei suoi colleghi (tutti rigorosamente «giornalisti e scrittori», da Scanzi alla Lucarelli), ma questo è un valore aggiunto al suo libro contro la retorica del libro, della bellezza di leggere, perfino che leggere renda più buoni, ma quando mai. Mascheroni ricorda che Hitler era un lettore accanito, e così Stalin, e così Pol-Pot, Khomeini che lanciò una fatwa contro Salman Rushdie, e così gli inquisitori della Chiesa e via dicendo. Sarebbe stato meglio non avessero letto niente (a proposito, Mascheroni, Hitler di libri ne ha anche scritto uno, dunque diventando di fatto «dittatore e scrittore»). Mascheroni desacralizza il libro, riportandolo a quello che è: raramente un capolavoro, spesso un prodotto come un altro. «I libri non si buttano!» ti dicono, ma chi l'ha detto? Perché? Nel mio ultimo trasloco ne ho buttati un migliaio, e no, non li ho regalati, perché il rispetto per la letteratura vera implica anche il disprezzo per i libri che sono solo libri, cioè di per sé niente di speciale, spesso e volentieri spreco di carta e di alberi e di neuroni di chi, se li legge, se ne troverà ancora meno. Ah, e poi il piacere di leggere? «Leggere cosa? L'importante non è leggere per leggere, indistintamente o prendere in mano un libro solo perché pacifica la coscienza. Bisogna intendersi su quale libro». Dire che tutti i libri sono belli è come dire che tutte le donne sono belle, che in realtà è un po' il mantra delle femministe, leggermente sospetto e di parte una volta viste chi sono quelle che vanno per la maggiore (e anche loro pubblicano libri su libri, ci mancherebbe), infatti hanno inventato il body shaming e il body positivity. A Mascheroni non frega niente di ottenere il consenso del demi-monde letterario giornalistico mondano, se non di denunciare la verità, e vi dirò, ha scritto una piccola opera che avrebbe potuto scrivere un grande scrittore, con lo stile di uno scrittore vero, come per esempio Arbasino. Che in Fratelli d'Italia riporta un dialogo tra lui e un amico intellettuale su una ragazza bella e avvenente: «Ma è anche intelligente?». «Sì, sì, senz'altro almeno credo. Tutto me lo fa pensare. Molto spiritosa, molto. Prontissima. E ha letto tutto, sai, ma ti rendi conto? Tutti i libri giusti!». I libri giusti, appunto. E questo di Mascheroni è uno di quelli. Tra l'altro lo leggete in venti minuti, poi se non avete voglia di leggere Proust, o Beckett o me potete tranquillamente tornare a Netflix o alla Playstation.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 maggio 2021. Caro Dago, stavo per scriverti una frase che suonasse più o meno così: “Che bello quando ti arriva un libro che decanta il piacere della lettura, un libro che tu divori tutto d’un fiato”. Solo che a scrivere così avrei corso il rischio di offendere questo raggiante librino di Luigi Mascheroni, “Libri”, secondo volume di una nuova ed elegante collana dell’editore Oligo di Mantova. E questo perché Mascheroni, scrittore/giornalista che lavora alla redazione cultura del “Giornale” di Milano ben noto a noi bibliofolli, questo libro lo ha scritto nell’intento di demitizzare l’idea che il leggere sia un “piacere” e che la sorte migliore di un libro sia quella di essere letto “tutto d’un fiato”. Leggere è una scelta faticosa, talvolta ardua, talvolta ti ci devi arrampicare a mani nude per le pareti di un libro. Una scelta tanto più ardua in un Paese in cui si pubblicano 70mila volumi ogni anno e non c’è vedette televisiva che non ne firmi uno dopo esserselo fatto scrivere da un ghost writer. “Il libro è una sfida, non un passatempo” scrive Mascheroni. Una sfida di chi lo scrive che viene raccolta da chi decide di leggerlo. Un fare a pugni talvolta tra scrittore e un lettore non pigro. E a parte che c’è “leggere” e “leggere”. Ancora Mascheroni: “L’importante non è leggere indistintamente o prendere un libro in mano solo perché pacifica la coscienza. Bisogna intendersi su quale libro. Tra Alberto Arbasino, o Guido Ceronetti, e gli ultimi venti Premi Strega; tra Cesare Pavese e il romanzo di un youtuber o di un deejay; ma anche soltanto fra Aldo Busi e Jonathan Bazzi; o fra Anna Maria Ortese e Teresa Ciabatti; ecco fra questi estremi ci sono dieci gradi di separazione a livello di costruzione narrativa, venti di ricchezza espressiva, e cinquanta per capacità di costruire un mondo e una lingua”. Non esiste un astratto “leggere”, o un astratto “piacere della lettura” e tanto più in un mondo in cui sono in atto delle forme di comunicazione più possenti che non un romanzo, ad esempio le serie televisive, di cui Mascheroni ha perfettamente ragione nel dire che sono oggi quanto di più notevole ci sia in fatto di ricchezza e persuasività narrativa. Leggere è ogni volta un’avventura ed è bene che lo sia, e questo vale tanto per un romanzo quanto per un saggio. (Premesso che il pubblico potenziale della saggistica colta, quella che non ripete a ogni riga quanto sia brutta la mafia o prende a calci negli stinchi ora Silvio Berlusconi ora Matteo Renzi, è oggi del 30/40 per cento numericamente inferiore a quello di 10/15 anni fa.) Non aggiungerò nulla a quel che Mascheroni dice del valore delle classifiche di vendita, fermo restando che io auguro ogni bene agli azzeccatissimi libri del mio amico Aldo Cazzullo, che restano in classifica per sei mesi, e questo sì che non è uno scherzo: significa che quei libri hanno occupato uno spazio grande dell’anima del pubblico reale. Di certo i posteri si faranno una strana idea del nostro tempo, stando al fatto che in cima ai saggi più venduti in questi ultimi mesi c’è stato un libro di Michela Murgia, sia detto senza voler offendere nessuno. Resta il fatto nudo e crudo, quanto sia bello avere sul proprio tavolo un libro come quello di Mascheroni e leggerlo fino all’ultima riga, e non perché ti renda migliore o altro. E’ bello e basta.

PS, Con una sola osservazione dissenziente. Lì dove Mascheroni dice che uno potrebbe tirar via dalla propria biblioteca i libri ormai “superati”. Ma nemmeno per idea. Ciascuno di quei libri contrassegna (e immortala) un momento della nostra esperienza umana che ogni giorno che passa “supera” sé stessa. Sta in questo il valore di una biblioteca, il palpitante archivio di ciò che abbiamo vissuto e di ciò in cui abbiamo creduto. Come Mascheroni che di libri ne ha 20/25mila sa benissimo, libri di cui lui al modo di un’antifrasi scrive che “ne ha letti pochissimi”.

Matteo Collura per "il Messaggero" il 28 marzo 2021. Fëdor Dostoevskij, lo scrittore che sempre abbiamo creduto sia riuscito a dare voce all' inesprimibile e all' inconscio; il romanziere che nelle sue opere avrebbe osato scandagli psicologici da vertigine, altro non era che un manipolatore di storie tenute in piedi non dal genio dell' artista, ma da un abile uso del sensazionale e della sorpresa a ogni costo. Questo il giudizio dello scrittore suo connazionale Vladimir Nabokov, autore del celebre (o malfamato, dipende da chi lo ha letto e in che epoca) romanzo Lolita. La stroncatura di opere come Delitto e castigo e I fratelli Karamazov è contenuta nel volume, appena pubblicato da Adelphi, in cui sono raccolte le lezioni di letteratura russa che Nabokov tenne negli Stati Uniti tra gli anni Quaranta e Cinquanta.

ANTIPATIA. «Ho una gran voglia di ridimensionare Dostoevskij»: parlando ai suoi studenti, Nabokov non nascondeva l' antipatia per l' autore de I demoni; un' antipatia che forse fu pregiudizio. Spiegava il professor Nabokov che la sua posizione su Dostoevskij era «singolare e difficile», perché nei suoi corsi egli si accostava alla letteratura dall' unico punto di vista che lo interessava, «quello dell' arte duratura e del genio individuale». E perciò, secondo la sua opinione «Dostoevskij non è un grande scrittore, è uno scrittore piuttosto mediocre, con lampi di humour eccellente ma, ahimè, inframezzato da desolate distese di banalità letterarie». Intere generazioni hanno creduto che nei libri di Dostoevskij la ricerca dell' esistenza di Dio e della sua manifestazione nel mistero della vita abbia raggiunto esiti insuperabili, così come il trionfo del male come demoniaca scelta degli uomini. Niente di tutto questo. Per Nabokov, il tema del trascendente, del male e del bene nel cuore umano (quello che nei Fratelli Karamazov è un campo di battaglia in cui lottano Dio e il Diavolo) è frutto di un «cristianesimo nevrotico» che in Dostoevskji si radicò nel corso della sua drammatica esistenza. Durissimo il giudizio su quello che è ritenuto il capolavoro di Dostoevskij, I fratelli Karamazov: soltanto un romanzo poliziesco. Abile quanto si vuole, ma alla fine un raccontone che induce a chiedersi «tumultuosamente chi-è-il-colpevole». Nessun accenno, nella lezione dedicata ai Fratelli Karamazov, alla spaventosa leggenda del Grande Inquisitore, in cui Cristo, tornato sulla terra, si vede nuovamente condannato a morte per eresia, colpa gravissima per l' autore in un mondo che si organizza, si dà regole, mentre sistematicamente elimina tutti coloro che ne mettono in discussione la legittimità. A proposito del tema religioso che permea il romanzo, come quasi sempre in Dostoevskij, Nabokov annota, per esempio, che «tutta la prolissa e zoppicante storia del monaco Zosima avrebbe potuto essere cancellata senza arrecare danno; anzi, la sua cancellazione avrebbe dato al libro maggiore unità e una costruzione più bilanciata».

I TRUCCHI. Dostoevskij per Nabokov fu più drammaturgo che romanziere. Infatti: «Ciò che i suoi romanzi rappresentano è una successione di episodi, dialoghi, scene in cui i personaggi vengono riuniti assieme con tutti i trucchi del teatro, ad esempio l' ospite inatteso, il sollievo comico, ecc.» Dostoevskij è scrittore che punta più al sentimentale che al sensibile, afferma categorico Nabokov. E in questo l' autore di Lolita si produce in un virtuosismo critico senz' altro ammirevole: «Bisogna distinguere fra sentimentale e sensibile. Un sentimentalista può diventare un perfetto bruto nel tempo libero. Una persona sensibile non è mai crudele. Il sentimentale Rousseau, che poteva versare lacrime su un' idea progressista, distribuiva i numerosi figli naturali nei vari ospizi e ricoveri di mendacità, infischiandosene poi per sempre. Una zitella sentimentale può vezzeggiare il suo pappagallo e avvelenare la nipote Stalin amava i bambini, Lenin singhiozzava all' opera, specialmente con La traviata. Un intero secolo di autori ha tessuto le lodi della vita semplice dei poveri. Ricordate che quando parliamo di sentimentalisti tra loro Richardson, Rousseau, Dostoevskij intendiamo l' esagerazione non artistica delle emozioni più familiari, allo scopo di provocare automaticamente nel lettore una scontata compassione».

IL PARAGONE. Saper scrivere un romanzo per Nabokov non significa essere un grande scrittore. E la trama non è tutto. Essa può essere sviluppata con abilità, con brillanti stratagemmi volti a prolungare la suspense, ma non raggiungere le vette di un Tolstoj, che Nabokov considera «il più grande scrittore russo di narrativa in prosa» (straordinaria la lezione su La morte di Ivan Il' i). In conclusione, Dostoevskij per Nabokov è, nella sostanza, «uno scrittore di gialli, un tessitore di trame intricate, che riesce a trattenere l' attenzione del lettore, costruendo i suoi climax e mantenendo la suspense con consumata maestria».

Maurizio Caverzan per La Verità il 22 gennaio 2021. Stroncature di Davide Brullo è aprire uno scrigno di preziosi. In mezzo ai quali, certo, si confondono anche pietre fasulle. Ma sono poche. Definizioni fulminanti. Ritratti al vetriolo. Scudisciate lisergiche. Da Alessandro Baricco a Gianrico Carofiglio, da Roberto Saviano a Gianfranco Ravasi, nessuno è risparmiato. Leggere Brullo, poeta, scrittore, critico, firma delle pagine culturali del Giornale, residente a Riccione, è anche scoprire un mondo. Una concatenazione alternativa. Un sottosuolo di trame. Un ribollire critico. Innanzitutto Pangea, «rivista avventuriera di cultura e idee», da lui fondata nel 2017. Bengodi di controletture e irregolarità, collegato con Intellettualedissidente.com, altro sito incandescente che si presenta «contro tutti, contro noi stessi». Infine c'è Gog, editrice che pubblica gli autori di questo emisfero. Come nel caso di Stroncature, il cui sottotitolo è: «il peggio della letteratura italiana (o quasi)». Alla fine del tour underground, ripartiamo dal via.

Davide Brullo è un Mowgli della letteratura, il personaggio di Kipling con cui si identifica perché sciolto da vincoli d'appartenenza e da timori reverenziali?

«Magari. Brullo è un verbo greco molto raro testimoniato nei Cavalieri di Aristofane. Bru bru è l'espressione dei bambini che chiedono da bere. Vengo dal mondo della poesia e questo verbo-cognome mi piace molto».

Come il protagonista del Libro della jungla lei è un cucciolo di scrittore che tira fendenti per difendersi dagli agguati della natura ostile?

«Mowgli è una figura mitica che non sta da nessuna parte. Caccia le bestie, ma non vuole stare nemmeno con gli uomini. Grazie a uno stratagemma sconfigge chi è più forte di lui e diventa il re della jungla, domando le forze ostili».

Ovvero i potentati dell'editoria?

«Sì. Anche gli scrittori che rifiutano il dialogo e preferiscono ricorrere le querele anziché la disfida sulle pagine dei giornali. O i direttori che ti scaricano perché non vogliono difenderti in battaglie meramente culturali».

Per esempio?

«Per queste stroncature il direttore di Linkiesta Christian Rocca mi ha gentilmente scaricato».

Altra ipotesi da lei formulata: Brullo è «un dandy nonostante si creda un samurai»?

«Mi mancano sia il denaro che l'estro modaiolo dell'essere dandy. Che nello stile di queste stroncature ci siano snobismo ed elitismo è indubbio».

Scrive che stiamo vivendo nell'era del politicamente scorretto?

«Siamo massacrati dal politicamente corretto, ma bisogna distinguere. Della politica si può dire il peggio con violenza inaudita. Anzi, se non lo fai sei un cretino. In campo culturale lo stesso atteggiamento non è accettato. È come se tutto fosse avvolto in un grande profilattico di cristallo, non si può rompere le palle».

Cioè, «in Italia si può essere politicamente scorretti ma non culturalmente anarchici»?

«Esattamente. Siccome si ritiene che i lettori siano cretini, allora tutto è giustificato. Pubblichiamo un libro di Dario Franceschini, poi un giallo di Walter Veltroni che male vuoi che faccia».

Francesco Permunian li chiama libroidi.

«Non solo quelli di politici e cantanti. Nell'acquiescenza diffusa anche scrittori ritenuti autorevoli continuano a produrre libroidi o mattoni».

La stroncatura è un genere da eroe solitario, da cavalier perdente?

«Per sua natura ha bisogno di un'individualità accesa, forse infuocata, certamente sconfitta. Di un debole che cerca di abbattere i titani. Dopodiché cosa c'è di più bello che incarnare don Chisciotte?»

È un genere che rimanda a duelli ottocenteschi.

«Anche del primo Novecento, quando nasce la terza pagina e subito se le scrivono di santa ragione. Giuseppe Ungaretti sfidava a duello chi non la pensava come lui. Al netto del narcisismo è una tempra da riscoprire. La scrittura nasce come lotta, come polemica, altrimenti è inutile».

Definisce Baricco una specie di «Vincenzo Mollica della letteratura» perché eccede in aggettivazioni. Però lo vedrebbe ministro della Cultura.

«Considerato che la politica è ridotta ad avanspettacolo devo ammettere che Totem era una bella trasmissione. Per altro Baricco è più fotogenico del ministro attuale».

Mi era parso di capire che il giovamento stesse nell'inevitabile rarefazione della sua produzione letteraria.

«Meglio un romanzo di Baricco che un saggio di Franceschini. Anche se Baricco mi ha sempre dato l'idea di uno che attraverso la letteratura voglia raggiungere un trono e poco gli importi della letteratura in sé stessa».

Sulle Consapevolezze ultime di Aldo Busi osserva che non basta scrivere un tango di subordinate per pagine e pagine per ritenersi pari «al sub-dio», anagramma dello stesso. Ce ne fossero di Busi.

«Le stroncature hanno diverse gradazioni. Un conto è stroncare Eugenio Scalfari e Baricco, un altro un grande scrittore come Busi. Il quale, in quel libro, piscia fuori dal vaso. Per restare nella metafora, altre sue stronzate sono molto più belle».

In Conversazione con Tiresia Andrea Camilleri cita «un Montalbano qualsiasi» e sottolinea di esser «stato regista teatrale, televisivo, radiofonico». Non si può concedere un briciolo di vanagloria a un novantenne?

«La letteratura è spietata: Goethe ha dato il meglio dopo gli ottanta».

È troppo spietato quando scrive che Gianrico Carofiglio vorrebbe essere un autore alla Michael Mann, ma le sue storie si avvicinano al Maresciallo Rocca?

«Dei giallisti italiani non se ne può più. Se penso che dall'altra parte dell'oceano c'è un "cane demoniaco della letteratura poliziesca" come James Ellroy... I nostri giallisti sembrano giocare con i lettori, piuttosto che affondare il pugnale nella storia italiana. Basterebbe studiare Alessandro Manzoni: con Storia della colonna infame ha inventato il genere giudiziario».

In che senso Elena Ferrante è «l'emblema della banalità del bene»?

«La cosa grave è che sia l'indegna rappresentante della letteratura italiana nel mondo soprattutto anglofono. Una letteratura che si riassume in Sud Italia, storia di una famiglia, scritta banalmente bene».

È massimalismo scrivere che «c'è più sapienza in una canzone qualsiasi dei Thegiornalisti che in una pagina qualunque di Paolo Giordano»?

«Divorare il cielo è il romanzo di uno che con il primo libro è candidato a essere uno dei grandi scrittori italiani. Invece scrive una sciocchezza inaudita, nella quale non c'è rischio né nella costruzione del romanzo né in ciò che viene romanzato».

Voleva scrivere la Pastorale italiana.

«Ma o sei Philip Roth o scrivi il Doctor Faustus. Altrimenti diventi il commentatore del coronavirus in Italia».

Scrive che il lettore di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati a pagina 300 si dice: me ne mancano altre 500 e non ho ancora scoperto nulla di nuovo. Invidia il successo di Scurati?

«Il successo è l'unica cosa di cui sono contento per Scurati. Quanto al resto non trovo nulla di invidiabile perché è stato totalmente vampirizzato dal tema, di fronte al quale ci sarebbe voluto il talento di Curzio Malaparte. È un'ottima idea tuffarsi nel periodo più tragico e folgorante del Novecento italiano. Ma al lettore resta l'impressione di una sfida perduta e tragicamente banalizzata».

Umberto Galimberti «è un fatale chiosatore di cliché», in realtà è considerato una philostar.

«Io preferisco l'insegnamento di Eraclito che preferì allontanarsi dai cittadini di Efeso e giocare con i bambini all'ombra del tempio di Artemide. Per poi ritirarsi definitivamente nei boschi».Definisce il presidente del Pontificio consiglio della Cultura Gianfranco Ravasi «l'Arci-arcivescovo».

Il suo Breviario dei nostri giorni soffre di «bulimia citatoria» inclinata dalla parte delle mode.

«Di fronte a un tema di capitale importanza, Dio, Ravasi mi appare un impresario della cultura enciclopedica. Preferisco figure marginali ed eroiche come Sergio Quinzio. E consiglio la lettura del Quinto evangelio di Mario Pomilio».

Che effetto le fa Francesco sulla copertina di Vanity Fair?

«Preferisco il Beato angelico che dipinge nelle celle nascoste dei monaci, certo di avere come unico spettatore Dio».

In risposta a L'ora del blu, raccolta di poesie di Scalfari, propone la lettera di rifiuto che Einaudi avrebbe dovuto scrivere per evitargli «l'effetto stridente da pittore della domenica che si creda Cézanne».

«Se il romanzo è spietato la poesia non perdona. Mi ha sempre incuriosito come uomini di successo, potenti, capi d'azienda, prima o poi sentano la necessità di pubblicare le loro poesie, benché grottesche».

Roberto Saviano non è un giornalista né un romanziere, ma ha solo creato il genere «pummarola western». Se il paragone è con Fedor Dostoevskij si salvano in pochi.

«Chiunque scriva si mette al confronto con alti ideali. Dopodiché non è vero che la letteratura italiana non ha grandi scrittori. Li ha, ma studiano al posto di andare in tv».Il sottotitolo del libro è «Il peggio della letteratura italiana (o quasi)».

Cosa c'è in quel quasi?

«Il libro è una selezione delle stroncature che ho scritto. L'ipotesi iniziale era un'antologia di 500 pagine. Per fortuna ridotta».

Che spazio c'è oltre la nebbia avvolgente del pensiero unico?

«Ci sono moltissime isole di resistenza. Piccole zattere dove alcuni corsari leggono libri insoliti e fanno risorgere dall'oblio autori dimenticati».

Da che cosa è nata Pangea?

«Innanzitutto dall'esigenza molto terrena di continuare a sopravvivere con il giornalismo dopo il fallimento della Voce di Romagna, il quotidiano nel quale lavoravo. In secondo luogo, dalla mia passione di raccontare storie, leggere e commentare libri che mi paiono indispensabili».

Perché ha tradotto i Salmi e il Libro della Sapienza?

«Perché mi sono laureato in Letteratura cristiana antica e sono affascinato dalla Bibbia, che mi pare il libro fondamentale della nostra tradizione letteraria».

L'ultimo suo articolo è su Clemente Rebora: nell'epoca dei selfie qual è l'attualità di un poeta che teorizzava il suo stesso annullamento?

«L'attualità di Rebora sta proprio nella sua assoluta inattualità. Uno che nel 1930 decide di incenerire sé stesso per la ricerca di qualcosa di più grande».

In chiusura le chiedo di farsi violenza elogiando qualche scrittore.

«Filippo Tuena e Gian Ruggero Manzoni sono due romanzieri straordinari e poco considerati rispetto al loro valore. Tra i poeti, che vanno scovati nelle miniere della nostra letteratura, cito Francesca Serragnoli e Alessandro Celi».

Servono riflettori potenti?

«E un desiderio folle per avventurarsi nel sottosuolo».

·        La P2 Culturale.

Metri quadrati e conti a posto. Editori come padri di famiglia. Paolo Bianchi il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Si punta sulle proposte per bambini e ragazzi e sugli autori di maggior visibilità, da vendere subito. Torino. Per quelli come noi che vengono al Salone del libro da trent'anni non è difficile calcolare il rapporto tra lo spazio e il numero degli espositori. Questa volta il colpo d'occhio rivela subito che non tutti ce l'hanno fatta, a venire. Si sono presentati gli ottimisti, quelli che «già il fatto che siamo qui» come ci dicono allo stand del piccolo editore milanese La vita felice. In effetti, ogni partecipante attivo affronta il rischio non tanto di contagi da virus, quanto di bagno di sangue del bilancio, visto che il più piccolo degli stand costa migliaia di euro (16 mq 4mila euro, 8 mq poco meno di 2mila, più gli extra). Il primo giorno è sempre difficile fare una stima dei visitatori, o prevedere quanti di essi saranno qui per comperare. Il ministro Franceschini, dopo le incoraggianti parole di prammatica, mi dice che in effetti «non c'è la ressa del primo giorno degli altri anni». In compenso, aggiunge, «la gente si sente sicura». Meno male. Per portare a casa un po' di fieno, chi può punta sui libri per bambini e ragazzi. Il gruppo Giunti-Bompiani ne ha accatastati per più di metà del suo vasto spazio espositivo. Sono quelli che vanno meglio, perché i genitori li comprano ai figli e, come fa notare lo scrittore Giordano Bruno Guerri, «il picco di lettura nelle famiglie italiane va dai 4 ai 6 anni, poi molti non avranno più niente a che fare coi libri per il resto della vita». Anche Stefano Mauri, presidente del GeMs (il secondo in Italia per fatturato dopo la Mondadori) spiega: «Quest'anno abbiamo puntato su uno stand più sostenibile, più piccolo del solito, portando soprattutto libri commerciali e augurandoci di non perdere il soliti 100mila euro». Certo, chi più ha, più ha da perdere, anche perché partecipare si deve, è una questione, se non di prestigio, almeno di buon gusto. Il Salone quest'anno è più che altro un Salotto. Nostrano, poiché pochi sono gli ospiti stranieri, però chi conta nel Paese deve farcisi vedere. I pezzi grossi del marketing affiancano i direttori editoriali, perché bisogna pur mettersi d'accordo e trovare una quadra fra vendibilità e qualità. Allo stand Neri Pozza si respira un'aria positiva. Qui puntano sui cavalli di battaglia: l'opera omnia di Romain Gary, e soprattutto La vita davanti a sé, divenuto film Netflix con Sophia Loren e presto spettacolo teatrale con Silvio Orlando, o Tre piani di Eshkol Nevo, per via del film di Moretti. In generale, non sembra ci sia molto spazio per il catalogo. I grossi spingono le novità, gli scrittori premiati e quelli che vanno bene in tv o sui social. In altre parole, quelli che vanno smaltiti subito, i ferri caldi da battere adesso o mai più. Le case editrici di ricerca sono quelle piccole, per esempio la romana Avagliano, dove si trovano scrittori nuovi e fuori del giro dei soliti noti, per esempio Francesca Bonafini. Al loro stand corre una brezza lieta per essere ancora qui. È un piacere incontrarli, le fiere servono anche a questo, a rimettere insieme i redivivi. Paolo Bianchi

La sagra dei dittatori comunisti: il Salone del Libro sembra un Soviet, altro che fascismo. Federica Argento venerdì 15 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Al Salone del Libro di Torino ovvero alla sagra dei dittatori comunisti. Le case editrici presenti alla kermesse propongono una cospicua messe di  memorie di Mao, Castro, Lenin, Stalin, Trotsky e Che Guevara. Sarà contento così lo zelante gendarme dell’ortodossia editoriale del Fatto Quotidiano? Novelli si era turbato tanto per le “ombre nere” che  sul Salone avrebbero portate  Idrovolante Edizioni e Historica  Edizioni. Fa ridere tutto ciò, altro che fascismo. Libero oggi in edicola lo definisce il “Soviet del Libro” a giudicare da molti testi in esposizione o nei cataloghi delle case editrici presenti agli stand.  Red Star Press pubblica Il libretto rosso di Mao in cui sono condensate le massime del dittatore comunista:  il volume – si legge- aiuterebbe a comprendere la «straordinaria epopea che portò alla nascita della Cina comunista».

Al Salone del Libro testi di Castro, Stalin, Che Guevara

La stessa casa editrice ha in catalogo Il libretto rosso di Cuba di Fidel Castro. Andatelo a spiegare al milione e passa di cubani fuggiti dal regime. O ai detenuti nelle carceri isolane. Immancabile Hasta la victoria siempre di Che Guevara, in cui «il Comandante spiega la teoria e la pratica della rivoluzione». Allo stand di Editori Riuniti ci si può abbevverare a un classico della rivoluzione comunista,  Stato e rivoluzione di  Lenin. Dello stesso editore, Stalin. Vita privata: il feroce dittatore in chiave domestica, parliamone….  La casa editrice Ibis presenta  Intervista a Stalin di H. G. Wells, appena rieditato.

Presenti testi di ex brigatisti rossi, altro che fascismo

Abbiamo poi un altro “gentiluomo”, Lev Trotsky: la casa editrice Alegre, anch’ essa al Salone, lo celebra, pubblicandone Storia della rivoluzione russa, presentato addirittura come «capolavoro letterario». Poi c’è Il Che inedito, saggio su Guevara, mitizzato come «geniale riscopritore del marxismo». Ma non è finita qui: dalal sagra dei dittatori rossi si passa ad ex brigatisti, come leggiamo nel reportage di Libero. Abbiamo titoli come “77 e poi…”  di Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio. Per intenderci: condannato per partecipazione ad associazione sovversiva (reato poi prescritto). Abbiamo poi testi filosofici di Toni Negri, teorico della sinistra extraparlamentare; condannato per associazione sovversiva e concorso morale nella rapina di Argelato. altri testi di Negri sono nel catalogo di Ponte alle Grazie, presente al Salone.  C’è lo stand di Jaca Book, che ha pubblicato in passato i saggi di Giorgio Pietrostefani: condannato come mandante dell’omicidio Calabresi; e un testo di Barbara Balzerani, terrorista Br che partecipò alla strage di via Fani.

 Chi ha paura di Italo Balbo?

Tutti hanno diritto di scrivere e pubblicare. Ma il doppiopesismo fa orrore quando si grida al fascismo additando due editori seri come Idrovolante e Historica per il solo fatto che sono non conformi al mainstream contemporaneo. Sarebbero, in quest’ottica, “sgraditi” i loro titoli sui diari originali delle trasvolate oceaniche di Italo Balbo; volumi che parlano del Ventennio fascista; scritti da storici che non danno parte della cerchia radical chic. Oppure titoli come la biografia che Roberto Alfatti Appetiti ha scritto su un giornalosta scomodo come Nino Longobardi. Già, a Novelli fa più paura Italo Balbo che i libri di ex terroristi comunisti. Il delirio a sinistra è fuori controllo. Sarebbe ridicolo se non fosse vergognoso. Che roba è la democrazia a sinistra. 

Cheap, borghese, ricercato o top: anche la cultura è una questione di classi. Luigi Mascheroni il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Esauriti i convenevoli istituzionali, il Lingotto torna "in presenza" a essere lo specchio del Paese.  Torino. Code all'ingresso, ma non si capisce se per il numero dei visitatori o i tempi necessari alla verifica di green pass, temperatura e biglietti, tanti studenti, le solite scolaresche, non così tante in effetti, persino alcune classi elementari, e qualcuno si chiede se era il caso..., la sfilata imperdibile - per loro - delle autorità, gli editori che sono circa un terzo in meno rispetto alle stagioni pre-Covid, tanto più che quest'anno infilare l'appuntamento di Torino fra tutti i festival autunnali e la Buchmesse di Francoforte non era economicamente semplice; e più di una incognita: il mese non usuale, ottobre rispetto al tradizionale maggio, il biglietto online e i timori non del tutto scomparsi legati alla pandemia. Benvenuti al Salone del Libro di Torino, trentatreesima edizione, finalmente in presenza al cento per cento: una scommessa e una sfida a cui era impossibile rinunciare. Oltre che simbolo della vita culturale del Paese, il rito che si celebra al Lingotto rappresenta una forza economica e sociale troppo importante. Era un anno e mezzo che non ci si rivedeva tutti quanti...E rieccoci qui: editori, scrittori, giornalisti e lettori. «Comunque vedo che i visitatori hanno le mascherine, ma gli espositori no...». Tutto riparte dal nuovo padiglione Oval, ore 10,30, inaugurazione istituzionale. Sala Oro, elogio a scena aperta politicamente bipartisan da destra a sinistra della tessera verde, il governatore Alberto Cirio in un improbabile abito azzurro acceso e logo del Salone, come da tradizione, che richiama l'arcobaleno. Inclusività prima di tutto: se entri sul sito SalTo+, ti danno il «Benvenut*» neanche con l'asterisco, con la schwa - già bocciata dall'Accademia della Crusca, chissà cosa diranno allo stand della Treccani - e lectio di apertura della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, molto femminile, molto femminista. Tutto corretto. La cerimonia d'apertura è ricca di interventi e giustamente festosa. Organizzare un Salone «normale» dopo un anno e mezzo di pandemia, di chiusure e di paure non era facile. La Regione, la città di Torino e la squadra di Nicola Lagioia, direttore arruffato e sempre entusiasta, qualsiasi catastrofe si abbatta sul suo mandato, sono stati bravi e coraggiosi. Chapeau. Giù il cappello e su la mascherina, si apre la festa. Lettura del messaggio augurale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Videomessaggio del neo Nobel per la Fisica Giorgio Parisi, a rimarcare la necessità di un abbraccio sempre più stretto fra cultura scientifica e cultura umanistica. Saluti della sindaca - qui ci tengono, alle desinenze - Appendino, la quale ha iniziato e finito il suo mandato con il Salone. Intervento del ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, impegnato nella non facile mission, per usare un italianismo, di convincere i ragazzi a leggere non solo i messaggi WhatsApp di 15 parole, «ma anche libri lunghi», e speriamo di farcela. Il ministro della Cultura Dario Franceschini (in ritardo...) che celebra questo Salone - e giustamente, sia chiaro - come «il momento simbolico della ripartenza». E quindi, dichiariamo aperta la trentatreesima edizione del Salone Internazionale (è vero, da qui a domenica ci saranno anche Javier Cercas, Valerie Perrin, David Quammen, Michel Houellebecq, André Aciman, Alicia Giménez-Bartlett...) del Libro di Torino. «Benvenute e benvenuti a tutt*». Resta solo un dubbio: ma davvero, come hanno ripetuto ministri e politici, durante l'emergenza Covid i libri sono stati un rifugio contro la solitudine e lo sconforto? I dati diffusi per l'occasione dall'Aie, sono impietosi: i lettori sono in calo, e a crollare è soprattutto la fascia anagrafica macellata dalla Dad. Comunque, su 100 italiani: 56 leggono almeno un libro l'anno, ma il guaio è che 44 non ne leggono neppure uno. E per il resto, il Salone di Torino è sempre bellissimo. Il Covid ha cambiato tutto, per lasciare tutto uguale. I soliti stand spogli, solo un po' più distanziati dell'ultima volta, un programma sterminato con migliaia di incontri, sempre i soliti scrittori vip, bestselleristi, ottimisti e di sinistra, il «pubblico del Salone» che non se ne perde uno (ma oggi, anche se è solo il primo giorno, i numeri non sono quelli di una volta), e la strana sensazione di una fiera che replica implacabilmente, e inesorabilmente, le differenze sociali della vita quotidiana. Più sali verso la testa del Lingotto, più si alza lo status, un po' come il treno di Snowpiercer. Il Padiglione 1: cheap, poco luminoso, editorialmente più disagiato tra comics, Poste Italiane, Edizioni del Baldo, Unione Montana Val di Susa, Libraccio e stocazzoeditore.it (è vero, esiste)... Il Padiglione 2: spazi molto ampi da apparire semivuoto, illuminazione migliore, Hoepli, fantasy, Manni, Editori del Piemonte, Effatà, Lonely Planet... Il Padiglione 3: luce e colori azzurri, target medio-alto, Sellerio, La nave di Teseo, Polizia di Stato, NN Edizioni, Voland.. E poi l'Oval: il top, completamente nuovo, vetrate, luce naturale, musica in filodiffusione, Mondadori, Treccani, Aragno, Giunti, Feltrinelli, Adelphi, Audible, due bar, sala stampa soppalcata e Lounge... Anche la cultura alla fine è una questione di classi.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).

L' "Inclusività" tiranneggia il Lingotto a colpi di asterisco. Paolo Bianchi il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. A partire dai libri per bambini le questioni di genere o del "diverso" sono un mantra che sfiora il ridicolo. Torino. Oltre alla parola «sostenibilità», pronunciata talmente tante volte che ormai nessuno sa neanche più che cosa voglia dire, il sostantivo astratto più maneggiato durante gli incontri di Torino è «inclusione». Serpeggia la Sindrome dell'Inclusione. A corollario dell'inclusione c'è la «diversità», sulla base del concetto per cui nessuno dev'essere diverso dagli altri, ma tutti si devono adeguare a un canone stabilito dagli Inclusori stessi. Qualche esempio. La Mondadori ha presentato l'altro ieri un libro la cui autrice spiegava come «le leggi, che cercano di includere e integrare, vengono messe in discussione in un Paese in cui i diritti civili e sociali sono costantemente sotto attacco». Questo nello spazio dedicato ai bambini, chiamato Arena Bookstock, un territorio seminato di tutti i nuovi cliché che si ritiene le nuovissime generazioni debbano assimilare prima ancora di imparare a scrivere. Un bombardamento continuo. A partire dall'incontro Piccol* femminist* crescono, scritto proprio così, con questa demenziale trovata dell'asterisco a sostituire i generi, nel nome appunto di un cosiddetto «linguaggio inclusivo» sostenuto da sociolinguisti militanti come Vera Gheno, pronta a sbarcare oggi in pompa magna, con tutto l'armamentario ideologico. Andiamo avanti. Ai bambini dai 3 ai 6 anni viene inflitto un seminario così denominato: «Letture per l'inclusione con i libri in simboli della Comunicazione Aumentativa Alternativa». Speriamo che almeno gli insegnanti sappiano di che cosa si parla. Poi veniamo a sapere che esiste una Rete Teatro e Diversità, la quale «accomuna cooperative e associazioni piemontesi che da anni utilizzano il teatro come strumento di inclusione e di empowerment per le persone con differenti abilità». Il che, intendiamoci, va benissimo, ma non potrebbe essere detto con altrettanta efficacia in italiano? Proseguiamo. Parlano le autrici di Una scuola arcobaleno. Dati e strumenti contro l'omotransfobia in classe. Ora, all'ascolto di queste prediche sono condotte scolaresche in esilio coatto. Gli stessi a cui è dedicata la lectio magistralis «È da maschi o da femmine? E se fossimo liberi di essere bambine e bambini, come più ci piace?». Altri vengono costretti a sentire un'omelia su «L'identità di genere raccontata dai ragazzi, per i ragazzi», a cura di un editore che si chiama MIMebù. Si parla del libro di una scrittrice norvegese, Line Baugstø, dove una bambina di 12 anni scopre che la sua migliore compagna di scuola è trans. Ancorché diversi fra gli allievi deportati manifestassero un interesse catatonico, o se ne andassero, l'indottrinamento è continuato in una costellazione di contorsioni verbali, da «unità nella diversità» a «importazione di cultura», fino all' «atto politico e linguistico» della traduzione di cotanto libro scandinavo, destinato a «costruire ponti e abbattere barriere». Segue pubblicità a un podcast che illustrerà quanto coraggio ci voglia per «abbracciare la diversità». Ce ne vuole molto di più per arrivare alla fine di queste euforiche dichiarazioni di coming out ossessivo compulsivo. Teniamo presente che queste operazioni editoriali si avvalgono dei contributi di fondi dell'Unione europea, e sono sempre condotte in parallelo con il sistema scolastico, giusto per avere un pubblico assicurato a cui vendere, insieme ai libri, anche dei gadget mirati. Un piccolo marketing dell'inclusione, diciamo. Oggi c'è anche una spiegazione di come la traduzione della letteratura straniera diventi una «lezione di accoglienza». Che cosa devono fare gli editori? «Tradurre il linguaggio inclusivo», naturalmente, qualunque cosa questo voglia dire, ma immaginiamo si tratti di testi scritti per esempio in inglese con forme grammaticali, verbali, ortografiche rispondenti a questa nuova griglia di regole, peraltro imposta dall'alto, visto che nessuno nella vita normale parla così. Altri in effetti cominciano a porsi dei dubbi. Perfino il fantomatico Assessorato ai Diritti della città di Torino, che sostiene una conferenza sul tema della «comunicazione di genere e sul linguaggio non discriminatorio» intitolata «Non si può dire più niente?» In effetti, si può sempre dire tutto, purché sia come lo dicono loro. Paolo Bianchi

Stefano Montefiori per corriere.it il 23 settembre 2021. Due autori scrivono entrambi una storia familiare a cavallo tra le due guerre mondiali. I due romanzi vengono selezionati nella prima lista dei sedici candidati al Prix Goncourt. Uno dei due autori è il compagno di una giurata. La giurata tace sul libro del compagno, ma stronca l’altro. Normale? Non molto, e infatti in questi giorni il mondo delle lettere di Saint-Germain-des-Prés è scosso dal caso di conflitto di interessi che coinvolge Camille Laurens. 

Compagna e giurata. Laurens è scrittrice, critica letteraria per Le Monde e compagna del filosofo e saggista François Noudelmann. Il romanzo di Noudelmann, intitolato Les enfants de Cadillac, racconta le vicende del padre e del nonno attraverso i due conflitti mondiali. Al momento di scegliere i primi sedici selezionati Laurens non si è astenuta dal voto, ma questa scelta è rivendicata dal presidente dell’Académie Goncourt, Didier Decoin. «Sì, Laurens e Noudelmann stanno insieme, ma abbiamo pensato che questa non fosse una buona ragione per penalizzare un buon libro», ha detto Decoin a France Inter. 

Tra congiunti e discendenti. Il segretario dell’Accademia, Philippe Claudel, ha aggiunto che «una maggioranza tra noi avevano apprezzato il libro, e abbiamo scoperto in seguito che c’era un legame tra François Noudelmann e Camille Laurens. Ci siamo interrogati, abbiamo fatto una votazione e abbiamo concluso che sì, potevamo includere il libro nella lista, non si trattava di un problema etico o deontologico come se fossero coinvolti un congiunto, un discendente o ascendente. L’Accademia ha scartato il conflitto di interessi». Già il fatto che il libro scritto dal compagno di una giurata sia ammesso, mentre non lo sarebbe se fosse scritto dal marito, il figlio o il padre, è piuttosto curioso. Ma si tratta forse di non essere troppo rigidi con le frequentazioni, in un mondo editoriale che è circoscritto a Parigi, anzi a Saint-Germain-des-Prés, e nel quale tutti conoscono tutti. Il problema sorge però quando la stessa Camille Laurens stronca, anzi massacra il libro concorrente, La carte postale scritto da Anne Berest.

La stroncatura. Il romanzo di Berest parte da una cartolina, ritrovata vent’anni fa nella cassetta delle lettere. Anonima, la cartolina porta solo i nomi di Ephraim, Emma, Noémie e Jacques, quattro familiari morti ad Auschwitz nel 1942. L’autrice allora racconta le ricerche per venire a capo del mistero, solo che a giudizio di Camille Laurens finisce per scrivere una specie di manuale La Shoah per negati. Anne Berest è accusata di essere una «esperta di chic parigino» (è un’amica della maison Chanel), e di avere scritto un libro «senza ombra né spessore, all’inverso della Storia che vorrebbe onorare». Qui le cose si complicano, perché la prassi vuole che i giurati del Goncourt si astengano dal commentare libri che sono stati selezionati. Laurens ha rotto questo uso scrivendo la critica di un romanzo scelto dai colleghi giurati, e in più lo ha distrutto con una violenza inusuale, riservando attacchi personali ad Anne Berest. A questo punto, il conflitto di interesse si fa più imbarazzante, e infatti il presidente dell’Académie Goncourt Didier Decoin ha annunciato che chiederà spiegazioni a Laurens, per ora silenziosa.

Non è il primo scandalo. I giurati del Goncourt sono gli stessi del Renaudot, e negli ultimi anni i due premi erano stati toccati da scandali poco piacevoli. Dal premio Renaudot per la saggistica attribuito a Gabriel Matzneff, sostenitore della pedofilia nei suoi scritti, alla scoperta dell’antisemitismo giovanile di Yann Moix, che si è dimesso dalla giuria. Nell’edizione 2020 il Goncourt ha ottenuto un grande successo premiando L’anomalia (edito in Italia dalla Nave di Teseo) di Hervé Le Tellier, che si avvia a raggiungere il milione di copie vendute solo in Francia. Le polemiche dell’edizione 2021 potrebbero fare pubblicità, o al contrario danneggiare un premio che è fondamentale per il mondo editoriale francese e non solo.

«In Italia ci sono pochi scrittori e troppi impiegati in carriera che vogliono solo un premio». Massimiliano Parente su L'Espresso il 22 settembre 2021. L’autore grossetano interviene sul dibattito lanciato da Roberto Cotroneo sul futuro del romanzo e la replica di Antonio Moresco contro la stampa che ignora alcune opere. Caro direttore, ho letto su L’Espresso la risposta di Antonio Moresco a Roberto Cotroneo, polemica interessante. Per chi se la fosse persa: Cotroneo dice che in Italia i romanzi sono tutti uguali, non rompono gli schemi, e ha ragione. Moresco replica a Cotroneo che non è vero, perché c’è lui, Moresco, e Cotroneo dovrebbe leggersi le sue opere, perché è un grandissimo scrittore, e anche Moresco ha ragione. Al che Cotroneo risponde: «Avrei molte cose da dire anche sulla tua imbarazzante ansia autopromozionale e autopubblicitaria, sul tuo ossessivo ripetere che saresti il più grande scrittore della galassia dopo Proust e l’unico che dice la Verità ecc ecc, cosa che non dicevano di sé neanche i grandi scrittori del passato, non avevano bisogno di dirlo, non passava loro neanche per la testa». No, scusate, mi sto sbagliando, questa non è la risposta di Cotroneo a Moresco, ma la risposta che ha dato Moresco al sottoscritto pochi mesi fa, sul suo sito Il primo amore, rispondendo a una questione molto simile a quella posta da Cotroneo. Motivo per cui non mi metterò certo a parlare delle mie opere, ma dell’ipocrisia dei letterati italiani, e anche della non ipocrisia di altri, che non rientrano né nella visione di Moresco né in quella di Cotroneo. Il punto è che gli scrittori, quelli veri, sono tenuti volutamente fuori dai vari circoli culturali mainstream, anche perché nessuno davvero legge. Per non parlare dei premi, gli Strega, i Campiello, i Mondello: gli autori passano la vita a scrivere il libro giusto per vincere il famoso premio, deve essere una sindrome scolastica, e sono pronti a tutto pur di vincere il famoso premio, soprattutto a frequentarsi tra di loro, usare la lingua non per scrivere ma per leccarsi l’uno con l’altro, e circoscriversi le proprie lobby e sfere di influenza (altro che, come pensava Thomas Bernhard: «ricevere un premio è come farsi cagare in testa»). I libri, in tutto questo, passano completamente in secondo piano (figuriamoci le antologie in cui vuole finire Moresco, devono ancora metabolizzare Morselli e D’Arrigo, i quali oggi continuano a essere ignorati anche da morti, perché in Italia gli scrittori sono tollerati purché non siano geni), anche per questo sono tutti uguali, basta che respirino (non i libri, chi li scrive) e bazzichino i salottini giusti, per cui vedi sempre gli stessi in giro per l’Italia a presentare i loro i libri (ve lo immaginate Proust che presenta la Recherche? Magari dalla Gruber? «Ci dica, com’è questo tempo perduto? E di Renzi cosa ne pensa?»), o a fare la lagna perché sono stati esclusi dalla cinquina del famoso premio dei quattrocento catatonici della domenica, dopo aver fatto di tutto per andarci (incluso Moresco). Vorrei ricordare che del famoso premio se ne sono sempre fregati grandi scrittori ignorati sia da Cotroneo che da Moresco: mai uno strega a Alberto Arbasino, mai uno a Aldo Busi, mai presi in considerazione Piersandro Pallavicini o Giuseppe Culicchia o il sottoscritto (una volta in realtà mi hanno proposto di partecipare ma li ho mandati a quel paese, se combatto la massoneria non entro in una loggia massonica per poi lamentarmi che è una loggia massonica, così come le redazioni televisive sanno quanto sia impossibile invitarmi nei loro talk show per farmi talk di quello che vogliono loro, preferisco starmene a casa, a scrivere, sono uno scrittore, non un opinionista, non una soubrette), mai neppure, nel proliferare di narrativa femminista con o senza schwa, ho visto prese in considerazioni scrittrici vere, da Barbara Alberti (qualcuno, di grazia, ristampa il suo “Delirio”?), a Isabella Santacroce (che si pubblica da sola ormai, e non piace alle femministe perché si definisce “scrittore”) a Gaia De Beaumont (una nipotina di Arbasino, delicata e feroce) e non perché siano donne (uno scrittore non è né maschio né femmina quando scrive), ma perché i loro romanzi sono molto più belli di chi partecipa al conformismo dominante delle idee politicamente corrette e femministicamente corrette, di chi va in giro per presentazioni, perché i libri non contano, non sono opere, sono al massimo pere, per questo vanno a presentarle, presentano se stessi, altro non c’è. A proposito ancora di Moresco, a differenza di Cotroneo, che è stato un critico (non so se lo sia ancora o si definisca solo scrittore: in Italia i critici si sono resi conto che in fondo, per le ragioni suddette, bastava poco salire sul podio loro anziché studiare e leggere i libri degli scrittori), io da scrittore sono stato tra i primi a accorgermene e a scrivere delle sue opere sul Giornale, a tal punto che Antonio Franchini, all’epoca direttore della Mondadori, mi disse: «Senza i tuoi articoli non sarei riuscito a farlo passare in Mondadori», con il risultato che adesso le opere di Moresco sono in Mondadori, e l’ho fatto per la letteratura e non certo per Moresco, che mi considera uno scrittore nichilista, di destra (a destra però mi considerano di sinistra), e non si capacita del perché da suo fan sia diventato un avversario. Cioè prima dice che la letteratura è realtà, poi deve continuare a piacermi anche quando lui si trasforma in una suora con le visioni mistiche. Ma nel frattempo, sistemato Moresco e la sua setta religiosa, non si trovano più le opere di Aldo Busi, che giustamente visto l’andazzo generale è sparito pure lui sia dai media che dalle librerie, per celebrarlo o renderlo reperibile dobbiamo aspettare che muoia (e tra l’altro, avendo già sprecato per un altro Antonio, - Pennacchi - la definizione di “grandissimo scrittore”, non so cosa si dovranno inventare per Busi, ma almeno lo ristamperanno).  Infine resta il mistero del perché Moresco non sia accolto dall’establishment culturale come pretende, in fondo va benissimo: lotta per salvare il pianeta, si interessa alla scienza ma solo per vedere nella materia oscura un possibile paradiso, è un complottista che vede nel capitalismo il male, denuncia l’uomo che sta commettendo un genocidio di specie (quella umana? ma magari) insomma è un prete, un vitalista che vuole la redenzione del mondo, il suo caos è un’altra favola consolatoria, come consolatori sono quasi tutti, in letteratura non usano il cervello perché hanno un’anima.

Tuttavia enorme artista, Cotroneo dovrebbe leggerlo, un visionario come non ce ne sono altri, fosse un pittore sarebbe El Greco, ma non abbiate paura di lui (anche El Greco alla fine dipingeva le stesse cose, madonne e giù di lì), visto che l’Italia è un paese di preti, lui potrebbe fare il papa. No, mi rendo conto, non sono intervenuto per parlare di scrittori, ma di impiegati in carriera. Vogliono premiarsi tra loro, vogliono un premio, vogliono la benedizione di Cotroneo, dategli tutto, per favore, e festa finita. Quanto a me vi svelo un segreto: come mi insegnò Aldo Busi «per fare il buffone devi potertelo permettere con l’annichilente forza dei tuoi romanzi». Per questo non mi vedrete mai da nessuna parte a tenere presentazioni, convegni, lectio magistralis o pietire per un premio: fuori dai miei romanzi, nella vita, non sono Parente, io sono Batman.

“Abbiamo tradito la letteratura. E trasformata in ancella del cinema”. Roberto Cotroneo su L'Espresso il 26 ottobre 2021. Si chiude la riflessione iniziata su L’Espresso: dove sono gli scrittori italiani? “Si esalta lo scrittore rivelazione. Ma gli scrittori non devono rivelarsi. Semmai devono rivelare. Cioè devono dirci cose che noi altrimenti non vediamo”. E invece troppo spesso sono malati di narcisismo. Sono consapevole che il pensarsi narratori porta a pagare un prezzo molto alto in termini emotivi. Credo che valga per tutti, anche per i troppi, sempre di più purtroppo, che trovano nell’idea di scrivere un romanzo una risposta alle proprie ambizioni e al consolidamento della propria identità. Scrivere è ormai sempre più una faccenda personale, una scommessa tra sé e il mondo, una sfida tra sé e il mercato dei lettori, persino tra sé e gli editori, e gli amici, e i familiari. Scrivere è questo, è una questione privata, parafrasando Fenoglio, che diventa pubblica solo per alimentare narcisismo. Sono rassegnato: appena apri una discussione letteraria, e cerchi di capire delle cose, gli scrittori ti rispondono: “Io”, con la i maiuscola. Perché la faccenda è tutt’altra. Non ho citato Daumal a caso (l’alto il basso, la base e la cima della montagna) non ho chiamato in causa Solmi per mostrarmi sofisticato. Non entro nel complottismo letterario, che è sempre complottismo, solo in minore: sempre gli stessi, il potere di pochi, le cricche che vincono, che scrivono sui giornali, che pubblicano con editori importanti e che sbarrano la strada ai meritevoli. Può anche essere accaduto, può accadere, ma resta complottismo. E oggi, con la quantità di case editrici che esistono, e con il numero dei libri che si pubblicano ogni anno c’è spazio per tutti. E a tutti è data una possibilità. Non parlo neppure degli alti e bassi, di quelli che sarebbero Dante Alighieri ma il destino li ha lasciati ai margini. Se non altro perché anche Dante stesso pagò nei secoli i momenti bui. E se li ha conosciuti lui, possiamo stare tutti tranquilli. Dico un’altra cosa. C’è un problema di narratività. Non un problema letterario in generale. La poesia non ha mai goduto di buonissima salute, ma è sempre di alto livello e fa le cose che deve fare. Non solo Merini, che continua ad avere successo di mercato, l’elenco sarebbe lungo: Patrizia Cavalli, Chandra Candiani, Valerio Magrelli, Bianca Maria Frabotta, Mariangela Gualtieri, e potrei continuare. Il punto è: “il romanzo”, questo genere che esiste relativamente da poco, e che ha documentato, raccontato, il secolo della borghesia e poi il secolo breve, cosa è oggi se non un setting analitico a cielo aperto dove tutti mettono narcisismi, frustrazioni e ambizioni, guardandosi soltanto allo specchio? Con che lingua si racconta? Attraverso quale italiano si leggono i best seller internazionali, che ormai occupano la gran parte dei banchi delle librerie? Su quale lingua letteraria stiamo esercitando le nuove generazioni? Quella dei traduttori. Che non è quasi mai una lingua letteraria, ma quando va bene soltanto l’adattamento di una lingua letteraria altrui. La seconda metà del Novecento non ha forse sovrapposto la narratività cinematografica a quella letteraria, con una efficacia e un riconoscimento più vasto? Certo. Ha finito poi per mettere in secondo piano il racconto come lingua, innanzi tutto, lasciando che si imponessero strutture narrative che si direbbero efficaci e avvincenti. Molti giallisti, di gialli sempre più ingialliti, non sono altro che questo. E anche gli autori di saghe obbediscono a questa logica. Ed è pensabile – con il rispetto per le scuole di scrittura – che si possa insegnare la propria lingua, la propria tonalità di racconto? No, non è pensabile. E allora le famose regolette, che regolette restano, diventano il pane quotidiano dei docenti di scrittura, che sono, quando va bene, docenti di storie buone per le serie, o per i film. Il delta di questo fiume in piena è il mercato, è il successo, è la riconoscibilità dello scrittore come autore, l’autorialità come condizione indispensabile di una identità frammentata e confusa. È a questo che si aggrappano i festival, i saloni, dove la letteratura diventa spettacolo. Per cui quando vince il Nobel uno scrittore della Tanzania, Abdulrazak Gurnah, naturalizzato inglese, la prima domanda non è: cosa avrà scritto? Bensì: chi lo ha mai visto? O meglio: chi lo conosce? Non i suoi testi, ma lui. Una volta Alberto Arbasino mi ha detto: «Ma questa fissazione delle classifiche dei libri, secondo te, no? Che senso hanno? Tu la faresti la classifica dei migliori ristoranti per numero di coperti? Vincerebbe il motel Agip». Ma la faccenda è ancora più complicata. Da un lato c’è tutto un chiacchiericcio sui grandi scrittori che ci hanno rappresentato: Gadda, Manganelli, Calvino, Bassani, Elsa Morante, Moravia, Sciascia, Eco, Arbasino, e si potrebbe continuare. E poi ti dicono che il libro ti deve togliere il fiato. Dimenticando che nessuno di questi ha mai pensato di volerci togliere il fiato. Ma gli agenti letterari - tanti bravi, consapevoli di fare un lavoro difficile – ti scrivono sempre le stesse frasi per promuovere il loro autore: le narrazioni serrate, il ritmo che non ti lascia via di uscita, lo scrittore che si rivela a te, che è la rivelazione dei prossimi anni. Ma gli scrittori non devono rivelarsi: semmai devono rivelare. Cioè devono dirci cose che noi altrimenti non vediamo, e devono farlo con la lingua. Ma gli autori rivelano solo sé stessi, sé stessi come persone che operano e agiscono nel mondo. Non credo che il punto sia che mancano i critici e che le università si occupano ormai solo di comparatistica. Il punto è che abbiamo tradito la letteratura. L’abbiamo trasformata in un’ancella del cinema, abbiamo incoraggiato a scrivere in quel modo. Abbiamo srotolotato centinaia di red carpet lisi e goffi su cui far sfilare autori di libri modesti che non legge nessuno. Perché è l’oggetto libro a fare status, non il contenuto. Pubblicare un romanzo è uno step identitario. Un accessorio elegante che prima o poi nella vita devi indossare, come un cronografo prezioso, un abito elegante, un gioiello ricercato. Siamo nell’epoca della retorica delle grandi storie, e in questo il giornalismo ha delle terribili responsabilità: ha inventato un genere letterario vero e proprio che ormai finisce in romanzi su romanzi con una lingua banale, una struttura sintattica priva di qualsiasi consapevolezza, attraverso uno scimmiottamento ostinato di autori americani soprattutto, sempre tradotti s’intende. Però poi, quando si fanno discorsi letterari, allora è un citare continuo i nostri autori del passato che invece facevano tutt’altro. Quei grandi che citavo prima: gente sottile, discreta, lontana, consapevole che il testo è una cosa e l’autore un’altra. E fatemi aggiungere a quei grandi autori anche Roberto Calasso e Daniele Del Giudice, scomparsi proprio in questo periodo, due che il mestiere di mostrarsi non lo hanno mai praticato. Qualcuno mi dice che io ho smesso di fare il critico perché a un certo punto mi sono messo a fare l’autore. Peccato che il mio primo libro sia del 1991, e il primo romanzo del 1995. Vorrei sapere dove collocare quel “certo momento”, ho sempre fatto tutte le cose assieme, per fortuna. E oggi anche fare l’editor significa esercitare una forma di critica, sottile, attenta: ne sanno qualcosa gli autori che lavorano con me, perché gli editori non sono i giudici di un talent dove ti arriva il libro ed è subito capolavoro. I libri si inventano, si pensano con gli autori, si seguono, si cambiano persino. I libri sono il risultato di consapevolezze, sono risposte a domande sulla contemporaneità, sono ricerca, innanzi tutto. Ma la critica ormai è impigrita in quella terra di mezzo dove c’è sempre qualcuno che prova a toglierti il fiato, dove il metro è il successo. Si è fuori strada nel parlare continuamente e ossessivamente di sé stessi. La domanda è un’altra: aveva ragione Daumal, aveva ragione Solmi quando si augurava, a tempo debito una nuova letteratura? Oppure non è così? Stiamo morendo di narcisismo, che è la pandemia psicologica di questo tempo. E dobbiamo prenderne atto: è stato eroso uno spazio letterario, mangiato da altri mezzi nati per raccontare, e la letteratura deve ripensarsi in una forma diversa, in una forma ibrida dove l’autofiction, il saggio, e persino i versi poetici possono convivere. Mi sorprende lo sviluppo di questa polemica. E mi sorprende perché la cristallizzazione del ruolo dell’autore, e aggiungerei anche la banalizzazione, genera meccanismi imitativi in tutti i nuovi aspiranti scrittori di questi anni. Si scrive come scrivono “quelli lì”: non i letterati che si sono studiati a scuola ma quelli che si ritrovano nelle pile delle librerie, nelle classifiche, nei luoghi del narcisismo autoriale, inclusi i social, dove a esserci c’è l’autore, che interviene, sfidando il ridicolo di continuo, sul proprio libro, che ringrazia il critico, che si commuove per i tanti che sono arrivati alla presentazione, e via dicendo. Ma intanto i lettori sono sempre più in difficoltà su testi scritti anche solo vent’anni fa, perché scritti in un italiano che non è quello di oggi e di ora. Per cui semplificare è una necessità e aumenta sempre di più il numero degli analfabeti colti. E che rapporto hanno queste cose con quello che vediamo in giro. Con una società indifesa che finisce nelle reti delle banalità complottiste, che non sa capire le parole, che ripete slogan sempre uguali. Quanti, nella mia generazione e in quelle prima, hanno imparato a orientarsi e a difendersi leggendo Moravia e Pasolini, Parise e Umberto Eco? Tantissimi. E quanti oggi? Questa è l’unica domanda sensata che ci dobbiamo fare.

I premi letterari sono utili, ma il valore è un altro. Filippo La Porta su Il Riformista il 17 Settembre 2021. Una improvvisa bomba d’acqua ha turbato la placida, sonnolenta estate letteraria: si è tornati a discutere dei premi, del loro significato e della loro effettiva utilità. Senza entrare troppo nel merito delle argomentazioni – dei detrattori e degli apologeti – vorrei qui formulare un teorema generale in proposito. Allora: i premi letterari sono a volte utili, fanno vendere di più (mescolando lettori forti e lettori deboli), permettono spesso la ristampa dei libri e ne aumentano la visibilità, generano scambi culturali, in qualche caso rivelano titoli che altrimenti sarebbero rimasti ai margini, etc., ma il punto è che tutto questo lo fanno perlopiù a caso (rarissime le giurie in cui si discute davvero). Il teorema che intendo proporre consiste allora in ciò: tra gli innumerevoli premi che si danno nel nostro paese (poesia, narrativa, saggistica, traduzione…) e il cosiddetto “valore letterario” non vi è alcuna relazione di cogenza. Sono due cose distinte, e appartengono a universi separati. Né questo implica giudizi moralistici: si tratta solo della descrizione di una situazione. Lo Strega – il premio più prestigioso – ha premiato alcuni dei capolavori assoluti della nostra letteratura, e gli scrittori davvero fondamentali del ‘900 – Flaiano, Moravia, Soldati, Morante, Ginzburg, Tomasi di Lampedusa, Volponi, Ortese, Primo Levi, Parise… (anche per la narrativa contemporanea disegna un canone attendibile e spesso non subalterno al mercato: solo due nomi, Siti e Albinati) – , tuttavia molti titoli premiati restano alquanto dimenticabili, mentre altri autori altrettanto decisivi degli ultimi decenni sono stati ignorati. E così per le vendite: alcuni libri premiati non hanno ricevuto alcun incremento tangibile dall’aver vinto. Ciò dimostrerebbe che il pubblico dei lettori non è così influenzabile o manipolabile. I meccanismi che sottendono i premi sono in genere extraletterari (ripeto: salvo rarissime eccezioni) o legati a dinamiche imperscrutabili, del tutto accidentali, che – bisogna sottolinearlo – nessuno è in grado di governare. In questo senso mi sento tutt’altro che complottista: non penso tanto e solo a pressioni editoriali, alleanze tattiche, voti di scambio, ma a cose più impalpabili, come: capacità di relazioni pubbliche dello scrittore stesso, coincidenza imprevedibile del libro con mode e umori passeggeri, desiderio di “risarcimento” psicologico verso autori che – si ritiene – siano stati ingiustamente trascurati finora (premiati infatti mai per il loro libro più importante!). Non siamo distanti dal mondo rappresentato nelle Illusioni perdute di Balzac. Una spia di questa situazione – e di un disagio reale – fu la modesta proposta da parte di un editore, appena qualche anno fa, di sostituire proprio allo Strega il voto con il sorteggio, riconoscendo onestamente alla sorte la sua centralità e piena sovranità (un po’ l’equivalente della “democrazia del sorteggio”, che a partire dall’antica Atene e dai Comuni italiani nel pre-Rinascimento, e fino al romanzo di esordio di Philip K.Dick, Lotteria dello spazio, nel 1955, è rimbalzata fino ai nostri giorni con lo scopo forse impossibile di “democratizzare la democrazia”). Si trattava di una provocazione. Sorprende però che alla luce di questa rinnovata consapevolezza anche scrittori refrattari alla società letteraria, eccentrici e intrattabili, vengano periodicamente colpiti – come da nuove varianti di un virus misterioso – dalla febbre dei premi (perfino Pasolini dovette tormentare i suoi amici per farsi votare allo Strega!). Ma allora, se i premi e il “valore letterario” non comunicano tra loro – tranne che accidentalmente – , se appartengono a regimi distinti, quel valore oggi dove si trova e dove si forma? Chi lo decide? Chi lo custodisce e amministra? Una volta era, tacitamente, la comunità dei critici a farlo, una minoranza illuminata, ascoltata e socialmente autorevole. Ma quando nessuna autorevolezza è riconosciuta a chicchessia, quando la critica viene esercitata – nel bene e nel male – da un folto esercito di book influencer, quando il canone letterario – mutevole certo, ma dotato di prestigio – si è disperso in una moltitudine di microcanoni (che si ignorano a vicenda), anche il “valore letterario” potrebbe infine dissolversi, almeno come è stato concepito per secoli. Filippo La Porta

L’événement: la sorpresa di Venezia è un film sull’aborto clandestino. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 6 settembre 2021. La rivelazione della Mostra è della giovane regista Audrey Diwan che ha portato in concorso il romanzo autobiografico di Annie Ernaux. La rivelazione della 78ma Mostra del Cinema di Venezia è una regista franco-libanese nata nel 1980 con un solo altro film alle spalle e un premio letterario in tasca. Si chiama Audrey Diwan e ha adattato con rigore e talento il romanzo autobiografico di Annie Ernaux, “L’événement” (L’evento, pubblicato in Italia da L’Orma), storia di un aborto praticato a 23 anni, nel 1963, quando l’interruzione di gravidanza in Francia era un reato e la parola stessa era tabù. Tanto più in provincia, dove la protagonista del film (una portentosa Anamaria Vartolomei), una ragazza di estrazione semplice, vive e prepara il concorso d’ammissione a una “Grande école” fra coetanei e coetanee non sempre molto solidali, anzi. Il segreto del film (della sua bellezza e della sua crudezza: la scena dell’aborto è quasi insostenibile) è semplicissimo. Si tratta di accordare a ogni elemento della vicenda, visivo, narrativo, emotivo, lo stesso peso e la stessa attenzione. L’epoca dunque è ricreata con la massima precisione possibile. Corpi, luci, colori, ambienti, posture, inquadrature. Dal formato “quadrato” alla gestualità dei personaggi, tutto è perfetto. Di conseguenza anche emozioni, paure, slanci, mentalità, meschinità, dei giovani come degli adulti, risultano sempre perfettamente credibili e coerenti. Così aderenti a quell’epoca remota da essere, con paradosso solo apparente, universali. Il resto lo fa il racconto minuzioso fino alla spietatezza della Ernaux, che all’epoca stava maturando la propria vocazione e con quella gravidanza imprevista rischiava di giocarsi tutto. Dai genitori (apparizione rapida ma luminosa di Sandrine Bonnaire) ai compagni di studio, dai medici ai professori, dai maschi quasi sempre indifferenti, cinici o inetti, alle compagne gelose, infide o spaventate, ogni personaggio, anche minimo, viene inquadrato e definito in pochi secondi con una precisione chirurgica che ricorda a tratti addirittura Kieslowski. Anche se il centro del film resta sempre lei, Anne, la sua solitudine, la sua forza, la consapevolezza di non avere altra scelta, il coraggio con cui va per la propria strada rischiando il tutto per tutto, vendendosi anche gli amati libri e la catenina d’oro per pagarsi l’intervento clandestino. Nessuno infatti sa e tantomeno vuole aiutarla. Tutti la mettono in guardia, rischia il carcere, la morte, alla meno peggio la gogna. E intanto tornano a galla ombre e miserie di un’epoca. La repressione sessuale. L’ipocrisia. La pornografia. Il conformismo. Miserie che impallidiscono confronto a ciò che ci aspetta quando Anne cerca di procurarsi un aborto da sola, poi ricorre a una mammana che opera nella sua cucina (inaspettatamente, Anne Mouglalis) in una lunga scena terribile e definitiva dopo la quale nessuno, maschi in testa, potrà mai più dire non credevo, non sapevo. È bello che in una Venezia sempre più attenta al successo e agli Oscar ci sia ancora spazio per film di questo rigore. È terribile constatare quanto questa epoca apparentemente così remota sia ancora vicina a noi, al nostro presente, alle nostre rimozioni, alla nostra voglia e forse al nostro bisogno di non sapere.

Mostra del cinema. A Venezia vince con polemica il film sull'aborto. Alessandra De Luca e Massimo Iondini sabato 11 settembre 2021 su avvenire.it. Il Leone d'oro alla regista francese Diwan con "L'evenement", film su una tenace negazione della vita. A Sorrentino Il Leone d'argento - Gran Premio della Giuria con "È stata la mano di Dio". Il cinema italiano piace alla giuria della 78esima Mostra del Cinema di Venezia presieduta dal coreano Bong Joon Ho che d’altra parte non ha mai nascosto l’ammirazione per i nostri registi e i nostri capolavori, vecchi e nuovi. E così Paolo Sorrentino, un “nuovo” Paolo Sorrentino, conquista il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria con È stata la mano di Dio, un film intimo e commovente, tra i più apprezzati al Festival anche dalla critica, che nella Napoli degli anni Ottanta, quella in festa per l’arrivo di Diego Armando Maradona, rievoca la tragedia famigliare che si è abbattuta sul regista a soli diciassette anni. “Guardate dove sono arrivato facendo film con Toni Servillo – dice il regista – e in lacrime durante i ringraziamenti aggiunge: “Ci sono due scene che non ho inserito nel film, una è un sogno che non ho fatto dove Maradona vi ringrazia e l’altra è quella del giorno del funerale dei miei genitori. Il preside mandò solo quattro ragazzi e io ci rimasi male. Ma stasera è venuta tutta la classe, e siete voi». Il film, che arriverà nelle sale il 24 novembre e sarà poi disponibile su Netflix da 15 dicembre, vede protagonista il giovane Filippo Stocchi, che si è aggiudicato il Premio Marcello Mastroianni dedicato proprio agli attori emergenti. Michelangelo Frammartino ottiene invece il Premio Speciale della Giuria per Il buco, ambientato nelle viscere nella terra, nell’Abisso del Bifurto, dove giovani speleologi si sono calati con le macchine da presa per ricostruire la spedizione speleologica che nell’Italia dei grattacieli e del boom economico degli anni Sessanta portò alla scoperta di una grotta che ai tempi era la terza più profonda del mondo. Un lavoro sperimentale, “un salto nel vuoto produttivo”, che rappresenta una vera sfida anche per lo spettatore, molto apprezzato da una giuria composta da ben quattro registi. Ma a vincere a Venezia quest’anno sono anche le donne. Dopo Nomadland, che la scorsa edizione consegnò il principale riconoscimento della Mostra alla cino-americana Chloé Zhao, chiamata in questa volta in giuria, a vincere il Leone d’oro di VeneziaDiwa78 è un’altra regista, la francese Audrey Diwan con L’événement, tratto dall’omonimo romanzo di Annie Ernaux, che racconta di un’adolescente decisa ad abortire nella Francia degli anni Sessanta, dove l’interruzione di gravidanza era un reato. Doloroso, a volte sgradevole, ma sostenuto da una messa in scena molto efficace, il film restituisce tutta la determinazione della giovane, disposta anche a rischiare la propria vita affidandosi a pratiche mediche brutali, spesso letali, ma traccia anche un vivido affresco di una società estremamente crudele nei confronti delle donne che concepivano dei figli fuori dal matrimonio. A causa della sua gravidanza la giovane protagonista viene cacciata dalla scuola e se darà alla luce suo figlio non le verrà consentito di proseguire questi studi universitari che le consentiranno di diventare una delle più apprezzate scrittrici contemporanee. «Ogni film su questo argomento è difficile, il mio è un viaggio nella pelle di questa giovane donna». E in lacrime invita a salire sul palco la protagonista del film, Anamaria Vartolomei. Il premio della regia va a un’altra donna, Jane Campion, che a partire dal romanzo di Thomas Savage costruisce un complesso e ambiguo romanzo di formazione, Il potere del cane (nei cinema a novembre e su Netflix dall’1 dicembre), ambientato in un west che maschera crisi e tensioni sotto una durezza destinata a creparsi. A Penelope Cruz va invece la Coppa Volpi per il suo difficile ruolo in Madres Paralelas di Pedro Almodovar in cui interpreta una madre forte e fragile al tempo stesso, generosa e meschina, vitale e ambigua, alle prese con la scoperta dell’identità di sua figlia e di quella dei desaparecidos in una fossa comune del suo villaggio. «Dedico il premio ad altre due madri parallele, la mia e quella di mio marito, Javier Bardem, che è da poco scomparsa e che mi aveva predetto questo premio». È una madre imperfetta ma straordinariamente umana anche Olivia Colman, protagonista di The Lost Daughter. Il Premio per la migliore sceneggiatura è andato a Maggie Gyllenhaal, che qui dirige il suo primo film adattando sul grande schermo La figlia oscura di Elena Ferrante, il che aggiunge un altro pezzetto d’Italia ai premi di questa edizione. La Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile va invece a John Ancilla per On the Job: the Missing 8 del filippino Erik Matti, su un giornalista filogovernativo che dopo la scomparsa del fratello giornalista, di sei suoi colleghi e del nipotino comincia a indagare sull’accaduto scoperchiando un sistema di corruzione e criminalità capeggiato proprio dai politici che difendeva con le sue trasmissioni radiofoniche. Nel concorso della sezione Orizzonti trionfa invece Piligrimai del lituano Laurynas Bareiša che mette in scena una personalissima elaborazione del lutto attraverso il pellegrinaggio di un uomo sui luoghi che hanno visto la presenza del fratello poco prima della sua morte. Il frenetico A plein temps del francese Èric Gravel su una madre quotidianamente in lotta contro il tempo vince per la regia e l’interpretazione di Laure Calamy, mentre il Premio Speciale della Giuria va a El gran movimiento di Kiro Russo. Il miglior attore è Piseth Chun per White Building del cambogiano Kavich Neang la migliore sceneggiatura è quella di 107 Mothers dell’ucraino Peter Kerekes. Migliore opera prima infine è Immaculat di Monica Stan e George Chiper-Lilemark, presentato alle Giornate degli Autori, sul percorso di una ragazza vittima della dipendenza. (Alessandra De Luca)

Secondo noi. QUANDO L'IDEOLOGIA PREVALE SULL'ARTE di Massimo Iondini. Nell’imbarazzo della scelta ha vinto il ruggito del “politically correct”. Il film della regista francese Audrey Diwan non è il più bello, non è il più originale e nemmeno il meglio girato tra quelli in concorso, ma questa non è una novità né una notizia perché è sovente capitato che alla Mostra di Venezia (così come per la Palma di Cannes e per l’Orso di Berlino) il Leone d’oro non finisse nelle mani più meritevoli. Il fatto è che stavolta di mani più meritevoli ce n’erano tante. Italiane comprese, a partire da quelle di Paolo Sorrentino che di consolarsi avrà comunque modo con il Gran Premio della Giuria. Il concorso al Lido finisce invece con un segno diametralmente opposto rispetto a quello dell’inaugurazione, illuminata dalla proiezione di Madres paralelas di Pedro Almodóvar. Lì il vitale, seppur drammatico, incontro in una stanza d’ospedale tra due partorienti pronte a mettere al mondo le loro inattese e, all’inizio, non desiderate creature. Qui, nel film Leone d’oro L’événement, la cruda e disperata rappresentazione di una pervicace negazione della vita. Che trova il proprio abisso nella durezza della scena di un aborto clandestino. Come se, alla fine, debba sempre prevalere una letale ideologia fintamente progressista, anche a spese dell’arte.

Festival del cinema di Venezia. Si parla di aborto, ma non dei nascituri. Anna Bonetti su provitaefamiglia.it il 10/09/2021. Al festival del Cinema di Venezia 2021 si parla anche dell’aborto. Non  si tratta di Unplanned, il film che recentemente sta facendo riflettere migliaia di persone in tutto il mondo sulla verità di questo orribile massacro. Il film in questione, ambientato e girato in Francia, si intitola “L’événement” (l’evento). La protagonista è la 20enne Anne, una giovane studentessa universitaria che  scopre di essere incinta nel 1963 quando in Francia l’aborto era reato e nonostante ciò vuole abortire ad ogni costo. Il messaggio controverso del film è dunque quello di associare ancora una volta l’aborto illegale alla negazione della libertà della donna. “Una scelta umanamente complessa e difficile, ma oggi praticabile senza grossi rischi per la salute. Solo che la storia di Anne va retrodatata un tantino, giusto quei cinquant’anni fa, nel 1963, in piena epoca conservatrice” queste le parole riportate da “Il Fatto Quotidiano”. Ancora una volta, dunque, i cosiddetti “pro-choice” negano che in realtà i soggetti in questione siano due: la madre e il figlio. Quest’ultimo, nell’ipocrisia abortista, non esiste. Cancellando l’esistenza del concepito e riducendolo a “grumo di cellule” si nega la sua umanità, che è ciò di cui viene privato tramite l’aborto. Nel film, la protagonista Anne ritiene che portando avanti la sua gravidanza  non possa inseguire il sogno di diventare scrittrice o insegnante. L’inizio di una nuova vita viene visto come una minaccia per il suo futuro. Come se i bambini fossero un ostacolo ai sogni degli adulti e quindi per questo vada negata la loro esistenza. Un gesto di inaudita crudeltà, nonché un grande inganno per le donne alle quali ancora una volta, l’aborto, viene spacciato per “diritto umano”. Un inganno che tenta di inculcare loro la convinzione che quello non è il loro figlio, bensì il famoso “grumo di cellule”. Eppure, quello che spesso omettono gli abortisti è che in quelle cellule che spesso paragonano  a un parassita, o addirittura a un tumore, è contenuto il DNA di un individuo unico e irripetibile. Sopprimere quel “grumo di cellule” significa negare l’esistenza a un nuovo essere umano. Le descrizioni del film, inoltre, definiscono la condizione della protagonista avvolta da un senso di terrore e isolamento psicologico, dunque si pone l’accento non sulla vita del nascituro, ma su una situazione a prescindere terribile e da evitare a tutti i costi. Senza dubbio, la povera Anne viveva in  una condizione di isolamento sociale e di mancato supporto da parte degli amici e in un periodo difficilmente paragonabile a quello attuale, ma si parla anche di un netto miglioramento delle condizioni sanitarie in cui l’aborto avverrebbe in totale sicurezza. Eppure di che sicurezza parliamo quando il concepito si trova condannato a morte con la controversa accusa  di “non essere ancora nato”? Sarebbe utile proporre a tutti coloro che hanno visto questo film, ma anche a chi semplicemente vuole approfondire ciò che realmente è l’aborto, di vedere anche “Unplanned”, il film sulla vera storia di Abby Jhonshon, ex dirigente di Planned Parenthood, la più grande clinica abortista americana e oggi una delle più grandi attiviste pro-life su scala internazionale. Per sapere cosa realmente è l’aborto è infatti fondamentale ascoltare entrambe le campane e avere il coraggio di guardare in faccia la verità. Altrimenti continueremo a vivere nella menzogna.

"Spero che tu sia donna: non è una disgrazia bensì una sfida che non annoia mai". Oriana Fallaci il 5 Novembre 2019 su Il Giornale. Le parole di coraggio e amore in «Lettera a un bambino mai nato». Ti ho portato dal medico. Più che la conferma, volevo qualche consiglio. Per risposta ha scosso la testa dicendo che sono impaziente, che non può ancora pronunciarsi, ripassi tra quindici giorni, pronta a scoprire che eri un prodotto della mia fantasia. Tornerò solo per dimostrargli che è un ignorante. Tutta la sua scienza non vale il mio intuito, e come fa un uomo a capire una donna che sostiene anzitempo di aspettare un bambino? Un uomo non resta incinto e, a proposito, dimmi: è un vantaggio o una limitazione? Fino a ieri mi sembrava un vantaggio, anzi un privilegio. Oggi mi sembra una limitazione, anzi una povertà. V'è un che di glorioso nel chiudere dentro il proprio corpo un'altra vita, nel sapersi due anziché uno. A momenti ti invade addirittura un senso di trionfo e, nella serenità che accompagna il trionfo, niente ti preoccupa: né il dolore fisico che dovrai affrontare, né il lavoro che dovrai sacrificare, né la libertà che dovrai perdere. Sarai un uomo o una donna? Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d'accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: «Ah, se fossi nata uomo!». Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicar l'assassinio di un uomo e di una donna. Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare la vita, la prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio è un vecchio con la barba bianca mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell'Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un'incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante. È un'avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che chiede d'essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere. Non è neanche un dovere. È solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto a ripeterlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. Sì, spero che tu sia una donna: non badare se ti chiamo bambino. E spero che tu non dica mai ciò che dice mia madre. Io non l'ho mai detto. Oriana Fallaci

La vera cultura italiana non finirà mai. La casta degli intellettuali è già finita. Oriana Fallaci il 14 Settembre 2021 su Il Giornale. Il dibattito c'è ancora ma ha abbandonato le torri d'avorio. Per gentile concessione dell'editore Rizzoli, pubblichiamo uno stralcio di Sveglia, Occidente di Oriana Fallaci in uscita oggi. È lo stralciodi una lettera sulla cultura inviata all'Europeo. Oriana Fallaci

Direttore, diciamo subito che a me sembra molto imprudente avventurarsi su un terreno insidioso come un discorso sulla cultura. È un terreno senza confini e, nella sua vastità, uno rischia di perdersi in fatti superficiali e dunque di rompersi l'osso del collo. Io, appena ho visto che strada infilavi, ho scosso la testa e ho pensato: Non lo seguirò. Da certe trappole è meglio tenersi alla larga. Ma sono donna imprudente, è noto. Pei rischi ho una specie di attrazione maligna e, in molti sensi, sono la nipote di Bruno Fallaci: non so starmene zitta, specie se la faccenda mi riguarda un poco. E questa mi riguarda un poco, anzi molto. Appartengo anch'io a quel popolo i cui cervelli, secondo te, avrebbero smesso di pensare. Faccio parte anch'io di quella cultura che, secondo te, sarebbe oggi un cimitero di anime morte. Certo, bisognerebbe anzitutto decidere cosa intendi con la parola «cultura». Ciò che intendono gli antropologi per cui ogni manifestazione di società organizzata è cultura, compresi i riti cruenti e il tam-tam, oppure ciò che intendono i bramini del sapere, per cui la cultura è cibo esclusivo di una casta chiusa nella sua torre d'avorio? Il primo concetto mi lascia perplessa perché è troppo facile, comodo, e pericoloso. Se anche mangiare il nonno o divorare il fegato del nemico è cultura, allora tutto è cultura; perfino la televisione italiana nel momento in cui ci trasmette Canzonissima e Rischiatutto, perfino la mafia e il fascismo, perfino i furti delle opere d'arte e il cingomma. Il secondo concetto invece mi irrita perché il sapere fine a se stesso è un albero privo di foglie e le torri d'avorio non servon neanche a chi ci sta. Cosa servì allo zio Bruno aver scritto pagine meravigliose che poi bruciò? Sviluppando le estreme conseguenze di tale cultura, si arriva al Dalai Lama che intervistai nel suo esilio di Dharamshala. Povero Dalai Lama. Dall'età di sei anni, prigioniero di monaci eruditi e spietati, non s'era nutrito che di filosofia-astronomia-poesia e, a trentatré anni, non aveva che un sogno: fare il meccanico. Quel che è peggio, ai suoi sudditi non aveva nemmeno insegnato che esiste una cosa chiamata elettricità. Di conseguenza, guarda: io preferisco credere che per cultura tu intenda ciò che intendeva lo zio Bruno prima del falò, cioè quando la trasferiva ai giornali e alle donne. Diciamo l'insieme delle conoscenze che assimilate e diffuse contribuiscono a nutrire il cervello di tutti, a rendere più accettabile la fatica d'essere nati. Diciamo la somma delle nozioni che digerite e scambiate servono a non mangiare il nonno, a non guardar Rischiatutto, a non giudicare bellissimo l'Ultimo tango a Parigi, a non bruciare i boschi ed anzi a piantare un cipresso nel punto giusto. Come vedi, qualcosa che inevitabilmente sfocia in un giudizio morale ed estetico: sfidando le trappole che la morale e l'estetica portano dentro di sé. Allo stesso tempo, qualcosa che si inserisce nella vita e nella realtà quotidiana. Sono arrivata al dunque, o ad uno dei dunque. Perché tu affermi che la cultura italiana ha fallito, non agita, non discute, non ha eco nel Paese, si isterilisce in un lavoro privo di rispondenza con la realtà. Chiedi aiuto a Zavattini il quale ti dichiara che non solo la cultura ma l'uomo di cultura è finito, e per prima cosa ti rispondo: ma i giornali dove li metti? Le idee, le discussioni, che vengono sollevate dai giornali dove le piazzi? Non vorrai mica limitare la stampa d'oggi a un compito di informazione e basta? Perché, anche se fosse così, ti ricorderei che il primo veicolo della cultura è l'informazione: non esiste cultura senza informazione. Ma, poiché non è così, ti ricordo che coi giornali noi offriamo molto più dell'informazione. E qui permettimi un atto d'orgoglio. Se vuoi, di superbia. Io non credo che un mio reportage dal Vietnam, una mia inchiesta nel Medio Oriente, una mia intervista con Henry Kissinger o Hailé Selassié o Giovanni Leone siano meno importanti di un romanzetto scritto da una Françoise Sagan. Non credo che un mio reportage sui bambini di una scuola elementare o un mio ritratto di Mastroianni siano intellettualmente inferiori a una poesia di Carducci. Questo lavoro io lo ritengo un esercizio di cultura, mi ci consumo come ci si consuma in un esercizio di cultura, e i giornali li vedo come i messaggeri più vivi dell'intelligenza. Non ti sei accorto, facendoli, che hanno sostituito i salotti letterari e i cenacoli? Non ti sei accorto, dirigendoli, che grazie a loro le notizie e le idee non sono più un lusso riservato a una minoranza di eletti che frequentano il salotto della contessa Maffei tra un fruscio di sete e un luccicar di gioielli? Non sono nemmeno più un privilegio degli intellettuali che si riunivano al caffè delle Giubbe Rosse, quando a saper leggere erano in pochi. Oggi sanno leggere tutti. E, se è vero che abbiamo perso l'arte di conversare e discutere intorno a un tavolino, tu per primo perché te ne stai sempre solo e se non stai solo stai zitto, è anche vero che lo scambio di idee non si fa più a voce ma leggendo. Oriana Fallaci

L’inchiesta. Il Far West dell’editoria. Paolo Di Paolo su La Repubblica l'1 settembre 2021. Caporalato e violenze contro i lavoratori di una delle più importanti aziende di stampa e confezionamento dei libri. Turni di lavoro massacranti e senza tutele per la distribuzione. E scrittori, redattori e traduttori con salari da fame. Scrivo libri. Parte del mio reddito è frutto del cosiddetto diritto d’autore. Tra i 78.279 volumi stampati nel 2019 in Italia ce n’è anche uno mio, forse un paio. Comunque, prezzo di copertina: 16 euro. Stampato presso Grafica Veneta S.p.A. di Trebaseleghe, provincia di Padova, la più importante azienda italiana nella stampa di libri. Quella al centro dell’inchiesta su caporalato, violenze e minacce ai lavoratori pachistani della ditta a cui era appaltato il processo di confezionamento dei pacchi di libri. Su Repubblica (28 luglio) è intervenuto lo scrittore Maurizio Maggiani: «Ho schifo, sì, ma tanto per cominciare ho schifo di me stesso.

L'editoria è commedia. Parola di editore chic. Massimiliano Parente il 22 Giugno 2021 su Il Giornale. Un viaggio alla Buchmesse di Francoforte diventa una rassegna di vizi (e virtù) del mondo del libro. Se non ne potete più di leggere le cronache culturali degli autorini da premio italiani, quelli che vivono per un premio, scrivono tutti la stessa lagna sociale o intimistica di provincia o letteraria ammuffita e però sempre tutti buoni e consolatori perché la vita è bella (mai che premiassero almeno uno cattivo e stronzo), vi do un consiglio: andate in libreria e comprate l'ultimo libro di Matteo Codignola, Cose da fare a Francoforte quando sei morto, che non poteva che essere edito da Adelphi, di cui Codignola è editor, traduttore e anche raffinato scrittore. È un romanzo che vi porta dietro i retroscena della Fiera di Francoforte, ma anche un road movie con l'amico fotografo Basso (Basso Cannarsa, I suppose), una spy story di agenti non segreti ma editoriali, un backstage adelphiano sulla casa editrice più snob e elegante che abbiamo, una commedia elegante e spietata e balzacchiana dove «ogni riferimento a persone esistenti, o a fatti realmente accaduti, non è per niente, ma proprio per niente casuale». Illusioni perdute fin dall'inizio, dove ci si reca al proprio stand come criceti nella ruota, con Basso, impelagato in una storia d'amore e a cercare più libri di fotografia da rubare che prede da fotografare (non quel ronzino di Jelinek, «per cui nessuno sganciava un 30 nonostante il Nobel», con commento del narratore «Te credo»), «per tacere di quell'idiota di Pamuk, s'era fatto fotografare talmente tanto che ancora un po' ti pagavano per non dargli un altro scatto» (commento del narratore: «Ma allora c'è una giustizia»). Niente di culturalmente nobilissimo, tra sinologi pazzi e scout che propongono bestseller imperdibili facendo il doppio o triplo gioco e voci che si rincorrono per capire su quale cavallo puntare, con un passaparola dove da scampoli di trama si cerca di capire di cosa si tratta, qual è il trend, «travisando tutti quasi tutto, per intendersi bastava salvare solo un elemento, anche perché si dava per scontato che gli altri se li perdesse per strada come gli stadi del Saturno V». Per cui, seguendo il narratore e Simonetta (sua partner professionale e coprotagonista), si spettegola su libri caldi, libri tiepidi, libri né carne né pesce, mentre un anno si cerca un romanzo con un protagonista omosessuale, un albanese, uno scozzese, anche un americano ma espatriato a Praga, perché è più chic, più multiculturale. Tra equivoci e strategie, Codignola rivela anche segreti su «un libro del 1955, che aveva dato risultati del tutto inattesi, e sensazionali, pagandolo una miseria», e gli adelphiani capiranno subito che il riferimento è allo Zia Mame di Patrick Dennis, e sapeste come continua la storia (non ve lo dico, leggete il libro). Sì, bisogna essere un po' adelphiani per cogliere bene tutto, ma che libro adelphiano sarebbe se non ci fosse stato un po' di esoterismo, non mistico ma editoriale. Seguono andirivieni nelle feste, incontri segreti, malintesi, trattative da concludersi in fretta, mentre Roberto Calasso (mai chiamato per nome, è l'Editore, lo dovete sapere) va in giro a comprare prime edizioni di libri rari per poi approvare o meno quello che hanno ottenuto i suoi collaboratori, decidere se firmare o meno un assegno.

Gli anni passano, la società cambia, i fax vengono sostituiti dalle mail e dagli smartphone (a proposito del fax «il mio odio per il fax è sempre stato virulento, di quell'attrezzo mi infastidiva tutto, a cominciare dalla posizione in cui, non ho mai capito perché, moltissimi aspettavano i messaggi: in piedi davanti alla macchina, quasi curvi, nella postura dei pentiti della Rivoluzione Culturale, o degli adoratori di feticci sanguinari»), e anche la Buchmesse cambia, ma, come ho detto, Matteo non è Lucien de Rubembré, appassionato del suo lavoro, laureato in Lettere e Filosofia sì, ma disilluso da subito. Nelle aste non c'è più nessuno, di soldi ne girano meno, gli squali bianchi sono diventati squali balena quando delle carpe addormentate. Certo, «se leggendo le pagine precedenti vi siete fatti l'idea che, almeno per il periodo in questione, per vivere e lavorare nel nostro ambiente fossero richieste dotazioni superiori alla media di pressappochismo, cialtroneria, unite a qualità istrioniche fuori dal comune, non sentitevi in colpa, è vero». Tuttavia, «ora in molti casi sembra di nuovo contemplata la possibilità che tu un libro, prima di comprarlo, debba avere il tempo di leggerlo». Mentre la Buchmesse viene accorpata al salone dei Cosplayer tedeschi («così, vi arrivasse una foto dalla prossima edizione, non c'è bisogno che vi chiedate a chi sono avvinghiati Simonetta e il vostro aff.mo: è semplicissimo, a Chewbacca»). Una commedia colta, adelphissima, che sarebbe piaciuta o avrebbe potuto scrivere Alberto Arbasino. Non a caso edito tutto da Adelphi, pure lui. Massimiliano Parente

Dagoreport il 17 giugno 2021. Aurelio Picca dice che “ai tempi di Elsa Morante e Raffaele La Capria avrebbe sicuramente vinto il Premio Strega” e forse anche il Campiello e il Comisso. Ai tempi di Veronesi, invece, non l’ha vinto. Forse perché, come scrive lui, “oggi la letteratura è un gioco di carriera”. Ecco, forse possiamo identificare una data d’inizio di questo “gioco di carriera”: il 25 giugno 1996. È in questa data che un centinaio di giurati del premio Strega rimangono allibiti. Lo scrittore Sandro Veronesi, romano classe 1959, che ha esordito circa dieci anni prima con il romanzo “Per dove parte questo treno allegro”, è entrato nella cinquina dell’agone capitolino con un suo libro, “Live”, che raccoglie articoli e inchieste. Veronesi passa dalla Belgrado dei primi anni '90 a un’intervista a Ian McEwan, dagli esami di maturità in un liceo tecnico su via della Bufalotta al Giro d'Italia: insomma, un collage di storie. Non soddisfatto di essere entrato in cinquina con un libro di pezzi tenuti insieme con lo scotch, invia in questa data a un centinaio di Amici della domenica (che sono i giurati dello Strega) una lettera con su scritto: “Le scrivo per chiederle il voto finale... Non vorrei sembrarle sfrontato… ma sono sincero. Tengo molto a fare buona figura, non foss’altro per contribuire a dare dignità letteraria (visto che la cosa è controversa) a una narrativa contaminata e border line, bastarda, accaldata affaticata e di frontiera”. Hai capito, caro Picca, perché oggi gli scrittori non vincono? Non solo Veronesi chiede il voto con tono melenso, ma lo fa ergendosi a critico di se stesso e spacciando per “narrativa border line” (due parole) una raccolta di articoli già editi (un po’ come oggi “Due vite” di Emanuele Trevi, un memoir in parte già pubblicato). Intanto, mentre Veronesi invia le sue letterine, la zarina del premio, Anna Maria Rimoaldi, rilascia ai giornalisti dichiarazioni sullo Strega che deve “ringiovanire”, facendo indignare il concorrente più anziano di quell’anno, Antonio Spinosa. Vincerà, come al solito, Mondadori con Alessandro Barbero (“Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo”). Ma letterine di Veronesi non sono valse a nulla (e qualcuno degli Amici della Domenica ancora la conserva)! Veronesi dovrà aspettare ancora dieci anni, ma l’agognato Premio Strega (non sappiamo se dopo altre letterine o meno) gli sarà assegnato nel 2006 con “Caos calmo”. Qualcuno dei corrispondenti si precipita a recensirlo, gli amici (e parenti) romani suggeriscono che sarebbe adatto a un film… L’anno scorso allo scrittore non sono servite letterine agli Amici della Domenica: ci ha pensato dal lunedì al sabato il “Corriere della Sera” con più di cinquanta recensioni e citazioni (contate alla buona da “Il Fatto Quotidiano”) a far decollare “Il colibrì” di Veronesi al secondo Strega. Hai capito, Picca? Mettitelo bene in testa! È così che si fa. Inoltre, tu sei un “conservatore rivoluzionario”; Veronesi e compagnia sono progressisti, un po’ radical, un po’ chic, un po’ correct (e un po’ no quando scrivono le letterine ai giurati).

Paolo Conti per il Corriere della Sera - articolo del 25-06-1996. Niente preamboli, già alla prima riga siamo nel pieno della trama: "Le scrivo per chiederle il voto nella finale del Premio Strega". Sandro Veronesi non potrebbe essere più Live di così, per coerenza con il titolo del suo libro (Bompiani editore) che è entrato nella cinquina finale del premio fondato da Goffredo e Maria Bellonci cinquant'anni fa. Ma quella frase non è fiction, è realtà. Così inizia la lettera che lo scrittore ed editorialista del l'Unità ha spedito a un centinaio di "Amici della domenica", la giuria chiamata a votare il 4 luglio nel Ninfeo di Villa Giulia, tutti pazientemente scelti tra i non amici personali. La missiva, per fare due esempi, non è stata recapitata a Enzo Siciliano nè a Elisabetta Rasy. Peccato. Avrebbero letto: "Non vorrei sembrarle sfrontato..." fino all' ammissione, assai under 40 e in perfetta sintonia con l'età di quattro finalisti su cinque: "Sono sincero, tengo molto a fare buona figura". La lettera era destinata a un uso interno allo Strega. Ma gli scritti, si sa, a differenza delle parole rimangono. E rischiano di diventare pubblici. Però Veronesi non si dispiace più di tanto dell'involontario esito: "So bene che nessuno potrebbe prendere nemmeno vagamente per il verso sbagliato la mia lettera. Diciamo che è la prova della purezza di cuore che ho conservato negli anni". Non è una pressione? "Non avrei da dare alcunchè a nessuno. Un gesto così esplicito, che prevede la possibilità di attacchi diretti, mi pare sia anche un modo di fare letteratura. Piccola piccola, magari, ma letteratura". Annamaria Rimoaldi, anima della Fondazione Bellonci che dà vita allo Strega, non si scandalizza: "Scrissero lettere simili già Carlo Sgorlon e Roberto Pazzi. Nemmeno Maria Bellonci avrebbe da ridire, felice com' era della "natura elettorale" del Premio. E nelle elezioni ci si candida, esponendosi in prima persona". Anzi, la signora ammette che il metodo Veronesi va addirittura preferito alle pressioni delle case editrici che, stando allo spirito bellonciano, non dovrebbero nemmeno esistere. Naturalmente in teoria. Perchè nella pratica chi fa e disfa i misteriosi "pacchetti di voti" sono gli editori, mai gli autori. Gli altri concorrenti della cinquina? Una bocciatura senza esitazioni arriva dal settantenne Antonio Spinosa che concorre con Piccoli sguardi (Piemme). La sua risposta al pepe risente del recente, per niente amichevole confronto sulla figura del "giovane scrittore" che la stessa Rimoaldi vorrebbe laureare, per trasformare le nozze d' oro dello Strega nel trampolino di lancio di un letterato della nuova generazione: "Povero Strega, dal giovanilismo della Rimoaldi siamo caduti nella goliardia di Veronesi. Ci si agita troppo, si dimostra di aver paura di affogare". Segue un interrogativo forse retorico, forse no: "Veronesi vuole arrivare secondo e soffiarmi la posizione o cerca di arrivare primo?". Ma perchè Spinosa candida Spinosa al secondo posto? "Ho già detto che quest' anno "non" vincerà il migliore... il libro di Barbero non sembra scritto da un narratore ma da un archivista. Tornando a Veronesi, ciò che mi pare giusto della sua lettera è l'accenno al nuovo modo di narrare: è tempo che cadano vecchie riserve". La parola ai famosi quarantenni: il resto della cinquina. Alessandro Barbero (Bella vita e guerre altrui, Mondadori) quasi applaude: "Non trovo da obiettare. Tutti fanno e non dicono, meglio chi fa e ammette. Anzi, lo dice. Chi, se non lo stesso scrittore, deve darsi da fare per essere votato in un premio?". Giulio Mozzi (La felicità terrena, Einaudi): "Mi pare una lettera scritta con civiltà e nelle regole della cortesia. Forse Veronesi ritiene di riuscire a vincere e non c'è niente di male nel desiderarlo". Lei avrebbe scritto una lettera del genere? "Attenzione, il mio non è un giudizio, ma una constatazione del carattere. No, io non credo che avrei fatto qualcosa del genere". La parola a Melania Mazzucco (Il bacio della Medusa, Baldini e Castoldi): "Nulla di particolarmente strano, soprattutto apprezzo la richiesta di Veronesi che si leggano i libri in gara. Sembra un suggerimento strano, ma non lo è affatto". Avrebbe firmato quel messaggio? "La giudico un'iniziativa come le altre, nè migliore nè peggiore". Infine bisognerebbe parlare dell'enigma dei bicchieri. "Per evitare l'imbarazzo di scrivere solo del voto" Veronesi ha proposto, in calce alla letterina, un gioco surreale ai suoi interlocutori: perchè i bicchieri di casa Bellonci cadono, si rompono e subito scompaiono? Si autorigenerano all' istante perchè sono fatati e stregati? Forse, scrive Veronesi, sarà merito della "gloriosa governante Luigina, pura di cuore e appena nominata Cavaliere del lavoro... Io non l'ho mai vista". Il testo si chiude con la richiesta di non comunicare all' autore l'eventuale chiave del segreto. Se Veronesi avesse letto le memorie di Maria Bellonci avrebbe scoperto che già nel ' 44, nella casa di viale Liegi, si assisteva al "miracolo delle tazze": erano nove ma, lavate e rilavate in silenzio, bastavano a servire il tè ai primi quaranta "amici". Cioè il seme dello Strega.

Da “la Repubblica” il 5 maggio 2021. Caro Merlo, perché i critici cinematografici non scrivono mai la verità? Siamo andati, tutta la famiglia, a vedere Nomadland e ne siamo usciti un po' peggiori di come eravamo entrati. Mi sono ricordata che lei aveva scritto che facciamo troppa retorica sui premi Oscar che spesso spengono i talenti. E questo ne ha presi tre! Il film è lento e deprimente, ma supponente e ricco di virtuosismi tecnici. Ci sono la vecchiaia, la malattia e la vita grama sul camper. A mio marito, che ogni tanto diceva "affittiamo un camper e partiamo", è passata completamente la voglia ed è il solo motivo per non rimpiangere il tempo (più di due ore) e i soldi dei biglietti. Nel film non c' è un solo momento di gioia, non c' è una vera trama e non ci sono neppure i cattivi contro cui combattere (e tutto questo sulle strade americane dove spesso esplode la cattiveria del mondo). A mio suocero, che ha l' età, Nomadland ha ricordato i film italiani "impegnati" degli anni Sessanta: silenzi eterni, interminabili primi piani, imbarazzanti zoom sulle pietre, bei paesaggi con la presunzione di fare poesia e mai nulla da dire: lo chiamavano il cinema dell' incomunicabilità (urca!). Ovviamente Frances McDormand è bravissima (bella scoperta) e le musiche di Ludovico Einaudi hanno la forza di tenerti compagnia mentre ti annoi. Eppure non lo scrivono: il successo non misura la qualità e il premio Oscar a Nomadland è la nuova Corazzata di Paolo Villaggio. Giulia Acciarito - Roma

Risposta di Francesco Merlo: Meglio non si poteva dire. La sua lettera è una lezione ai "critici" che hanno ormai una soggezione imbarazzante nei confronti di Oscar, Nastri, Leoni e Papere d' argento. Brava e grazie.

Lettera a “la Repubblica” il 7 maggio 2021. Caro Merlo, tutte le opinioni sui film sono legittime, quindi le scrivo come Presidente del Sindacato dei Critici non per contestare il giudizio di Giulia Acciarito su "Nomadland", ma per correggere alcune imprecisioni della sua lettera, che esprime un' acrimonia per la categoria dei critici che lei mostra di condividere. Non è vero che "Nomadland" sia stato esaltato: i giudizi sono stati complessivamente positivi, ma la media dei voti, come si evince dalla pagella di "Film & TV", è 6,8 decimi. E il giudizio è stato espresso prima dell'assegnazione dei riconoscimenti e quindi non si può parlare di soggezione verso gli Oscar e gli altri premi. Sparare sui critici è un'abitudine, ma almeno lo si dovrebbe fare senza inventare frottole. Franco Montini (SNCCI)

Risposta di Francesco Merlo. Lascio la risposta a Giulia Acciarito. Non mi par vero, caro Merlo, di avere suscitato, con la letterina su "Nomadland", l'ira del Sindacato dei critici (bello l' acronimo SNCCI che rimanda alle iscrizioni paleocristiane). Mi compiaccio con il signor Montini per la prestigiosa carica e per l'autorevolezza delle fonti (le pagelle di Film&TV) che gli permettono l'insolenza di darmi della bugiarda. Lo ringrazio perciò di rendermi famosa, ma con i versi del mio Iacopone: “Fama mia, t’aracommando al somier che ragghiando”. Giulia Acciarito

Marco Giusti per Dagospia l'8 maggio 2021. C’era una volta un merlo canterino. Posso capire la polemica Fedez-Pio e Amedeo, per quanto bassa. Ma la polemica sui critici (ma dove stanno?), assurdamente innescata da Francesco Merlo su “Repubblica” con auto-lettera, che parlano troppo bene di “Nomadland” di Chloe Zhao, un film che ha davvero vinto tutto quello che poteva vincere quest’anno, e, ovviamente, i giurati di tutti festival e premi ne sapranno meno di tutti i Merlo del mondo, mi sembra davvero ridicola. Ma non hanno di meglio, con tutti i problemi che abbiamo, con tutte le toppe che il poro Molinari deve mettere alle pensate del proprietario, quello che puntava tutto sulla Superlega, e con tutti gli articoli che scrivono gli arzilli novantenni “vacinadi” Scalfari-Aspesi-Augias, da mettere in prima pagina? In più. I pochi critici rimasti in circolazione, penso al settantenne intransigente Paolo Mereghetti (“Corriere”) e al professorino Emiliano Morreale (“Repubblica”), sono riusciti a parlarne pure male di “Nomadland”. L’Aspesi preferiva di gran lunga “Mank”, l’ho letto proprio su “Repubblica”. Giornale forse poco letto da Merlo. Detto questo trovo strepitosa la risposta di Franco Montini, un altro che scrive su “Repubblica”, di guardare le tabelline dei critici su “Film Tv”. Ma dove siamo? A “O.K. il prezzo è giusto?”. Già ci sono poche sale. Sale dove si danno solo pochi film da festival, come “Nomadland”, “Minari”, o “Due”, il film d’amore sul pianerottolo di due anziane signore. E vedo che è finito in sala per la platea degli ottanta-novantenni anche l’allegro film di Pupi Avati sulla famiglia Sgarbi con Pozzetto-Sgarbi che parla con la moglie morta Sandrelli-Sgarbi. Sale, insomma, ormai destinate solo agli arzilli vacinadi sessanta-settantenni. Vogliamo togliere loro anche questo piacere? Forse vorrebbero vedere anche cosette un po’ più allegre.

Marco Giusti per Dagospia il 9 maggio 2021. Complice Merlo, torniamo a parlare di critici, di palle e di stelline. Anche se in fondo aveva ragione Carmelo Bene, "Se uno domanda a un bambino: tu cosa farai da grande?, le risposte che può ottenere sono: lo spazzino, il direttore delle poste, l'attore. Nessun bambino direbbe il critico cinematografico". Parole sante. Ieri il critico Pedro Armocida ha tirato fuori una tabellina anni 60 dei critici della rivista "Ombre rosse", da Goffredo Fofi a Gianni Rondolino a Paolo Bertetto. Guardate come trattano film fondamentali della storia del cinema degli ultimi 50 anni come "Persona" di Ingmar Bergman o "Il buono il brutto il cattivo" di Sergio Leone. Una lista di due palle negative, cioè ORRIBILE. Mentre viene esaltato un buon film western politico progressista di Richard Brooks, "I professionisti", che non ha avuto certo la stessa importanza dei film di Bergman e Leone. Solo il dotto Pio Baldelli rifila una stellina al capolavoro di Leone. Perfino il bellissimo film di Giulio Questi, "Se sei vivo spara", western militante, viene massacrato. Si dirà che erano critici trinariciuti, Fofi trattava gli spaghetti western di Leone e soci come se fossero merda (leggetevi Positif), anche se oggi ne scrive in ben altro modo. Ma guardate le pagelle di una rivista meno barricadiere come "Film Mese", dove scrivono Callisto Cosmiche, Claudio Bertieri, il critico genovese che tormentava Paolo Villaggop coi cineclub sulla Corrazata Potemkin, Riccardo Redi. Beh, per il "Satyricon" di Fellini è il massacro. Mentre Luis Bunuel viene esaltato. Insomma, alla faccia di Merlo, non è mai stato facile muoversi seguendo la critica cinematografica. Faccio mia la saggia dichiarazione del mio fratello e maggiore Tatti Sanguineti, "L'importante è avere un punto di riferimento. Il mio è Paolo Mereghetti. Dove sta lui, non sto io".

Gloria Satta per il Messaggero il 6 aprile 2021. Gli anni più belli, l'emozionante lavoro di Gabriele Muccino, ai David di Donatello non ha avuto la nomination né come miglior film né per la regia. In finale ai premi, che verranno consegnati l'11 maggio, sono arrivati solo la protagonista femminile Michela Ramazzotti e la canzone di Claudio Baglioni, mentre il film concorre al David Giovani. E il regista, che nei giorni scorsi aveva manifestato il proprio disappunto su twitter, è nuovamente sbottato: «Sto meditando di uscire dall'Accademia dei David di Donatello come giurato e non presentare mai più in futuro i miei film in gara», ha postato, «non lo si può più considerare, come fu, il premio più prestigioso del cinema italiano nel mondo». Ha poi rincarato: «Mi tiro fuori con amarezza, non certo per invidia, per aver adorato il nostro cinema più nobile e vederlo ridotto a una schermaglia tra film minori, ignorati e/o sopravvalutati». È un vero peccato che Gli anni più belli sia stato tagliato fuori dalle statuette principali. Ma le giurie sono inappellabili e quella dei David, composta da 1700 votanti e recentemente riqualificata dalla presidente e direttrice Piera Detassis, ha scelto di mandare in finale Favolacce di Fabio e Damiano D'Innocenzo, Hammamet di Gianni Amelio, Le sorelle Macaluso di Emma Dante, Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, Miss Marx di Susanna Nicchiarelli. «Come crediamo di riportare il pubblico a tifare per il nostro cinema se i titoli in gara sono sconosciuti ai molti, e peraltro nemmeno tra i più amati!?», si è chiesto Muccino, pur mandando un «saluto rispettoso a Detassis che sta cercando di risolvere con tutta sé stessa gli enormi problemi ereditati». Non è la prima volta che il regista attacca i David sui social. In passato li definì «una pagliacciata lobbistica der cinema italiano» e nel 2015, commentando la cerimonia, twittò: «Volavano più coltelli che in una macelleria».

Marco Ciotola per mowmag.com il 29 marzo 2021. Ha pochi segreti il Premio Strega per Gian Paolo Serino, critico letterario tra i più attivi sulla scena culturale (il Giornale, la Repubblica, Libero, Avvenire, Il Riformista, L’Espresso, Rolling Stone, Vanity Fair e tanti altri). Questo in particolare lo definisce “il Premio Strega più prevedibile di tutti i precedenti”. Lo ha fatto annunciando – o meglio, anticipando – la rosa dei cinque finalisti: Ciabatti, Bruck, Trevi, Bajani, Di Pietrantonio. E tra questi, ancora pochissimi dubbi: vincerà Teresa Ciabatti con il suo Sembrava bellezza; certezza frutto di un semplice calcolo (Mondadori non vince dal lontano 2012), come calcolabile è l’intero percorso che descrive e definisce il Premio Strega, un insieme di “logiche editoriali e commerciali” che porteranno sul gradino più alto del podio un romanzo che – sottolinea – vincerà con tutto demerito, perché più che un romanzo è “una bara senza maniglie… non se ne esce vivi”. Alla base – spiega – c’è una logica viziata, quegli Amici della Domenica che chiama “addetti ai favori”, più che addetti ai lavori. Inutile dire che la sua cinquina c’è tutta negli attuali 12 candidati, tra i quali loda in particolare Emanuele Trevi (Due vite, Neri Pozza), anche se è un romanzo la cui brevità potrebbe finire per penalizzarlo in ottica premio. Perché – evidenzia – il calcolo è nient’altro che matematico: vince il Premio Strega chi assicura una vendita di 100mila copie. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente in un tardo pomeriggio di marzo, trovandolo particolarmente ispirato. Ne è uscita una chiacchierata brillante nella quale non risparmia nessuno.

Gian Paolo, hai anticipato la cinquina ed effettivamente ci sono tutti nell’attuale dozzina dei candidati al Premio Strega. Che idea ti sei fatto dei libri in lizza?

Io ritenevo molto valido quello di Carmen Pellegrino (La felicità degli altri, La nave di Teseo, ndr), che è secondo me un po’ la vincitrice morale perché si tratta di un romanzo molto bello, com’è molto bello e sono felice sia nella dozzina quello di Emanuele Trevi, Due vite, anche se temo che la brevità non lo aiuti, e credo proprio che la vincitrice annunciata sia Teresa Ciabatti. Anche perché Mondadori non vince dal 2012 quando se l’aggiudicò Alessandro Piperno, quindi per logiche editoriali appare inevitabile. Ma io gli avrei preferito un ottimo libro di Giuseppe Cattozzella che si chiama Italiana, sempre edito da Mondadori.

Il fatto che Nicola Lagioia abbia deciso di non partecipare è quasi un lasciapassare per Teresa Ciabatti?

Sì, si può dire così. Nicola Lagioia aveva già vinto con La Ferocia – di cui, mi preme sempre sottolineare, ho messo in palio 100 libri con prime edizioni americane per chi mi sa risolvere questa frase di Lagioia, tra le tante imperscrutabili del suo romanzo La Ferocia: “Aveva più di 30 anni ma sicuramente meno di 25”. Tu sai cosa vuol dire? Se la indovini io ti regalo 100 libri prime edizioni americane… Poi va detto che Lagioia oltre ad aver già vinto il premio ora ha un ruolo istituzionale come presidente del Salone del Libro…

Antonio Pennacchi non meritava di finire almeno nella dozzina?

Be', sì, però lì sono discorsi più interni a Mondadori; lì devono fare dei ragionamenti sul piano editoriale perché il Premio Strega – come ho evidenziato anticipando la cinquina – è più una logica commerciale e di calcoli… ma io i premi li lascerei ai cavalli non agli scrittori. Certo è che siamo di fronte a un caso quasi unico in Italia, perché negli Stati Uniti restano abbastanza indipendenti a livello di letture, mentre qui avendo degli analfabeti di ritorno vedono “Premio Strega” e chiaramente lo comprano tutti. È in questi aspetti che subentra la logica commerciale: basta farsi due calcoli e appare chiaro che quest’anno vincerà la Ciabatti, ma secondo me con tutto demerito, perché è un romanzo ombelicale, e poi ha improntato tutta la sua carriera giornalistica ad arrivare dov’è adesso, e di questo son contento per lei, ma è una cosa che non mi piace. Questo suo ultimo più che un romanzo è una bara senza maniglie… ti piace questa definizione?

Molto.

Cioè, non se ne esce vivi. Ho provato anche a leggerlo al contrario per capire se ci fosse qualcosa tipo, sai, dischi dei Beatles o simili, qualche messaggio satanico, ma niente, neanche quello. Un romanzo che mi piace molto è quello di Bajani, Il libro delle case (Feltrinelli), oltre ad Aurelio Picca, che Le Figaro ha definito il nuovo Pasolini, e secondo me lui meritava anche per la carriera che ha fatto di entrare nella cinquina. Quello che non c’entrava assolutamente un cazzo è quello di Edith Bruck, (Il pane perduto, La nave di Teseo, ndr), ennesima testimonianza su Aushwitz che sa molto di essere stata studiata a tavolino.

Emerge sempre di più un quadro commerciale…

Sì, se negli ultimi anni qualche sorpresa c’è stata, ad esempio con “M” di Scurati – un libro anti-commerciale sotto diversi punti di vista – quest’anno in particolare è un solo gioco editoriale. È una cosa risaputa da molto tempo; diciamo che vince il Premio Strega chi fa vendere 100mila copie.

Ricordi negli ultimi anni un Premio Strega che ti ha davvero stupito?

Io sono rimasto molto contento per “M” di Scurati e per quello che secondo me è il più bel libro degli ultimi 20 anni: La scuola cattolica di Edoardo Albinati.

E qualcosa che hai trovato completamente fuori dalle logiche commerciali?

Ma anche i romanzi fuori dalle logiche commerciali, ad esempio Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio), rientra a sua volta in logiche commerciali. La logica del Premio in questo senso è: facciamo entrare Mozzi nella dozzina, in modo che non si possa dire che noi seguiamo solo ragionamenti commerciali.

Tutto è comunque parte di un piano molto calcolato…

Ma certo! Basta che pensi agli Amici della Domenica… voglio dire, quale altro premio al mondo ha una logica del genere alla base? Gli Amici della Domenica sono “addetti ai favori”, più che addetti ai lavori. Se poi loro son della domenica, immaginati cosa viene fuori con quelli del lunedì…

A proposito di addetti ai lavori, un’ultima domanda: che ne pensi di Michela Murgia?

Michela Murgia più che una scrittrice è una arrampicatrice, un’arrampicatrice di lettere: usa come scalini le lettere. Ma chiaramente mettendole in verticale non funzionerà mai come in orizzontale.

Maurizio Caverzan per la Verità il 6 aprile 2021. Con la faccia da attore del cinema e la statura, e con le macchine ferme nel garage della casa tra gli ulivi della collina di Velletri, Aurelio Picca me lo immagino come una fiera in cattività. Inquieta. Niente ristoranti, niente spaghettate sul lago. Lettura. Un po' di scrittura. Attesa. Quando lo chiamo, accetta al volo: «Ma non mettete la solita foto con la pistola».

Come sta, Picca? Che fa?

«Penso, in questo periodo va così. Guardo la mia vita e conto le stagioni. Dicevamo che non esistevano più. Invece, con la pandemia la percezione è cambiata. Siamo usciti da un inverno complicato e mo' siamo in questa primavera... Fino a poco tempo fa cercavo di eternizzare la giovinezza in un rilancio continuo, anche nei libri Ora comincio a srotolare le stagioni».

All'hotel Miralago, Alfredo Braschi, suo alter ego in Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani), si specchia in Laudovino De Sanctis per fare il suo bilancio.

Il suo qual è?

«Diciamo che sono contento che questo ex ragazzino è diventato un uomo attraverso il lavoro che - anche se ne ho fatti mille - per me è la letteratura. Me l'hanno insegnato da bambino che con il lavoro ti costruisci il tuo nome. Mi sento come tutti gli uomini, pieno di rimpianti per aver vissuto poco. Invece, forse ho vissuto tanto, mi sento quello che volevo essere».

Cioè?

«Non uno scrittore per le copertine, ma uno scrittore con la sua piccola leggenda. Non volevo far parte della storia, ma della leggenda e credo di esserci riuscito. Quindi, quando certi apparati culturali mi fanno dei torti, non sanno che mi fanno un favore. Per me questi torti sono una vittoria perché rafforzano ciò che volevo e ho ottenuto: la singolarità, la mia assoluta libertà».

Le caste di sacerdoti non reggono lo scandalo?

«Non lo tollerano, ma non per questioni morali. Per questioni vitali».

Per un fatto di maniera da una parte e di sangue dall'altra.

«Sono gli ultimi feticci tarlati della decadenza della cultura italiana. Non c'è niente da fare. Il problema è che io sono uno scrittore scandaloso perché metto in gioco la mia vita, il mio carattere, la mia innocenza, la mia virilità, la mia fragilità. Paradossalmente, è ciò che dovrebbe dare energia, l'energia del talento. E dovrebbe permettere di gustarsela. Invece, questa vitalità è vista come qualcosa di eversivo rispetto a un copione che vuole restare sul piano della comunicazione, della ripetizione, dell'annacquamento. Non deve cercare l'assoluto, non deve avere lo scandalo della verità».

Lei è uno scrittore non conforme.

«Gli apparati sono contraddetti dalla gente che mi legge e mi ama, anche certi lettori privilegiati. Sono stato apprezzato dai Luigi Baldacci, Geno Pampaloni, Domenico Rea, Alfredo Giuliani. Io che non ho avuto un padre, ho trovato il lasciapassare dei padri della letteratura. Quelli che stanno negli apparati non hanno né passato né futuro. Sono bloccati nel carpe diem, in un eterno presente, dilatato come se non avessimo una storia. Ma questo è blasfemia, è nichilismo».

Come fa chiuso in casa senza ristoranti?

«Non sono un mondano pur conoscendo la mondanità. Il mio è il monachesimo della libertà».

Spieghi.

«Posso stare pure due mesi filati a casa perché ho la testa libera. Poi alle 10 di sera vado a cena a Nettuno. Questo mi manca, ci dicono di restare a casa. Con il tesserino da giornalista potrei andare dove mi pare, ma dovrei giustificarmi. La limitazione è più psicologica che altro. Io mi muovo in un teatro di visione, i Castelli romani come Los Angeles. Per bilanciare questo azzeramento, basta cambiare visione e cogliere il grumo di energia dove sta».

Per esempio?

«Con un po' di soldi rubati ai miei sperperi vorrei comprare un angolo di un palazzotto alla Don Rodrigo qui a Velletri, con un portale tardo nobiliare del Seicento. Serve per arpionarmi alla realtà, qualcosa che non galleggia nel vuoto».

Per darsi un progetto reale.

«Per me che sono un sepolcrale, la cosa più reale è lo strazio per la morte. L'ho già detto in un'altra intervista, le bare che si son viste sfilare ci hanno buttato addosso la morte. E adesso è già rimossa, numerizzata nel taglio basso dei giornali. Mentre è la cosa più sacra che abbiamo».

Il palazzo di Don Rodrigo è un pezzo di passato che la porta nel futuro.

«Ho un'idea di futuro su cui sto scrivendo un pamphlet per Einaudi. Una cosa per ragazzi, contro Pinocchio che è solo un burattino, un pezzo di legno. Invece, propongo di ripartire da Cuore di Edmondo De Amicis o da I ragazzi della via Paal. Dopo la pandemia credo ci sarà un nuovo neorealismo, tutti dovremo ri-alfabetizzarci».

In che senso?

«Ridare il nome alle cose reali. Lo sforzo principale va fatto sulla scuola. Oggi i ragazzi non sanno distinguere un rovere da un castagno, scrivono con il pennarello in stampatello, non conoscono il corsivo. Bisogna cambiare le priorità, altrimenti lo Stato continua a dare i fondi alle solite compagnie di teatro e di cinema che producono la solita comunicazione, il solito linguaggio televisivo declinato in tutti i modi. Invece le istituzioni educative devono ripartire dalla nostra storia. Per rinominare le cose in un sistema di vita, in un ordine coerente».

Nel libro, mentre sta raccontando l'attesa di Laudovino del riscatto per il sequestro di Giovanni Palombini, lei scrive: «Il tempo correva. Il tempo non è lento».

 Com' è il tempo della pandemia?

«È una specie di purgatorio degli orrori, giacché si parla tanto di Dante... Nel suo purgatorio le anime sono briganti e sanno di dover stare lì in attesa. Noi non siamo come le anime dantesche che pregano in una luce azzurrina, con l'oceano sotto la montagna. Noi siamo bruciati perché siamo in una risacca putrida dove il tempo è abolito. Viviamo un non tempo. Il presente ha senso se stai al lavoro, per congiungere passato e futuro. Ma siccome si cancella il passato, questo lavoro è abolito e viviamo un tempo psicotico».

Un tempo vuoto o pieno?

«Assolutamente vuoto perché non c'è più confine. Come nella testa delle persone, anche nello spazio. Sono state abolite le patrie, le identità. Tutto galleggia sospeso».

C'è più o meno voglia di lottare?

«Non c'è voglia di lottare. La lotta si è trasformata in una reazione muscolare, nella finzione dell'agire. Il vero problema è cosa accadrà dopo».

Durante il primo lockdown si parlava di più del dopo.

«Perché eravamo già sull'orlo del precipizio, la crisi economica, il Medio oriente, la Cina che avanzava, la Russia respinta. Eravamo già vicini al collasso. Il primo lockdown era una sospensione, assomigliava alla crisi del petrolio degli anni Settanta, uno stop passeggero. Ora invece siamo dentro il cul de sac del vuoto. La pandemia cambia tutto lo scenario».

Addirittura.

«Sì, tutto. Finora dicevamo che il Novecento era il secolo breve e che nel nuovo millennio i gruppi della new economy hanno creato la globalizzazione. A me sembra che la pandemia abbia allungato il Novecento, mostrando la fragilità della globalizzazione. Si sta chiarendo che non era una costruzione voluta dai popoli, ma messa su con gli stuzzicadenti dal potere, dalla finanza e da Internet. Strumenti non per tutti e di tutti, ma delle oligarchie».

C'è meno voglia di lottare. E di amare?

«Io vedo una solitudine sterminata che i social, invece di alleggerire, aumentano. I contatti reali sono quasi azzerati e i nuovi media danno l'illusione di averli. Sono lo Xanax della solitudine, un surrogato. È la stessa differenza che passa tra la sensualità e la sessualità, e la pornografia orizzontale».

Segue la politica?

«Da dilettante intelligente».

Che sensazione le provoca?

«Sono anti ideologico perché vengo da una cultura repubblicana e laica che però credeva in Dio. Noto che la sinistra non fa più gli interessi degli ultimi e di chi lavora e invece è alleata del grande capitale. Mentre, curiosamente, una certa destra, ancora da definire, si è avvicinata alle classi subalterne, al popolo. Credo che, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, in Italia serva una destra repubblicana, antifascista e anticomunista. Una destra conservatrice, in grado di saldare le istanze del popolo alle istituzioni. Era l'idea della Voce di Giuseppe Prezzolini».

Ottimista?

«Paradossalmente, la pandemia potrà creare le condizioni per un fermento libero dalle sovrastrutture ideologiche che finora hanno controllato l'arte e la cultura italiana. A destra vedo premesse migliori che a sinistra. Capisco più gli ex comunisti alla Marco Rizzo di tante figure di presunti innovatori».

Perché vede più possibilità a destra?

«Apprezzo Giancarlo Giorgetti, una persona giovane ma di vecchio stampo, che sta dentro le cose senza apparire. Salvini è rimasto movimentista. È una situazione che deve trovare equilibrio. Se ce la faranno, potrebbero innescare un'evoluzione che potrà essere utile anche alla sinistra. Altrimenti, se si sbrodola tutto, si perderà un'occasione».

Ha paura della malattia?

«Sì, mentre non ne ho della morte. La malattia mi rompe i coglioni perché ti accorgi che sei vecchio, è la perdita del sogno della giovinezza».

Perché in Francia la amano?

«Perché hanno il coraggio di riconoscere il talento, l'individualità. Hanno messo su Le Figaro littéraire la mia foto da ragazzo che gioca con la propria fragilità».

Che destino avrebbe avuto Michel Houellebecq in Italia?

«Forse non l'avrebbero pubblicato o forse solo un piccolo editore... Hanno accettato Oriana Fallaci perché era trasversale e ha scritto a favore dell'Occidente e dell'America. In altri tempi non so se avrebbe trovato la stessa sponda. Certi rimasugli di intellighenzia italiana si dimostrano pavidi con i potenti e superbi con il talento».

Scriverà un romanzo sulla Roma dei premi letterari?

«Non è il mio genere. Ho già sette-otto grandi libri da scrivere. In testa, sono già scritti. Devo solo mettermi a lavorare, non ho tanto tempo. Perché non voglio morire troppo vecchio».

Dagospia il 25 marzo 2021. LA P2 CULTURALE - GRIDA VENDETTA L'INCOMPRENSIBILE ESCLUSIONE DAL PREMIO STREGA DEL ROMANZO DI AURELIO PICCA - NON SOLO: È RIMASTO FUORI PAOLO DI STEFANO CON "NOI" (BOMPIANI). OSSIA LO SCRITTORE CHE, NELLE VESTI DI CRITICO LETTERARIO, STRONCÒ, COME NESSUNO AVEVA MAI FATTO CON UN ESORDIENTE, IL PRIMO ROMANZO DI TERESA CIABATTI, "ADELMO TORNA DA ME", CHE ORA E' IN CORSA PER LA VITTORIA. ERA IL 2002 E QUASI VENT'ANNI DOPO E' ARRIVATA LA "VENDETTA".

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 25 marzo 2021. Ieri sono stati selezionati i 12 libri che parteciperanno alla LXXV edizione del Premio Strega. Il 10 giugno sarà scelta la cinquina. E l'8 luglio sarà la volta del vincitore. Teresa Ciabatti, con Sembrava bellezza, edito da Mondadori. Scherziamo...Mica tanto. Comunque è indubbio che quest'anno è già partito il mood Ciabatti. Un po' come l'anno scorso con Sandro Veronesi, il quale poi vinse con Il colibrì. Il quale, quest'anno - ma è solo un caso - ha presentato il romanzo della Ciabatti allo Strega. Accanto alla Ciabatti, ecco gli altri 11 autori in gara: Andrea Bajani con Il libro delle case (Feltrinelli); Edith Bruck con Il pane perduto (La nave di Teseo); Maria Grazia Calandrone con Splendi come vita (Ponte alle Grazie); Giulia Caminito con L'acqua del lago non è mai dolce (Bompiani); Donatella Di Pietrantonio con Borgo Sud (Einaudi); Lisa Ginzburg con Cara pace (Ponte alle Grazie); Giulio Mozzi con Le ripetizioni (Marsilio); Daniele Petruccioli con La casa delle madri (TerraRossa); Emanuele Trevi con Due vite (Neri Pozza); Alice Urciuolo con Adorazione (66thand2nd) e Roberto Venturini con L'anno che a Roma fu due volte Natale (Sem). Colpo di scena: cinque scrittori e sette scrittrici. L'anno prossimo, in nome della parità di genere, si potranno invocare le quote azzurre. Per il resto, la «dozzina» è ottima. Niente da dire. Chi scrive non è un critico letterario, ma un giornalista culturale. E dire che a noi piace molto il libro di Giulio Mozzi, non aggiunge molto. Stupisce però che nella dozzina non sia entrato il romanzo di Aurelio Picca Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani). Peccato perché sono tanti i critici letterari che ne hanno scritto benissimo. E perché ad elogiarlo - una volta tanto che la stampa straniera si occupa di un romanzo italiano contemporaneo - è stato, con paginata trionfale, il 17 marzo, Le Figaro. Titolo: L'Arsenal de Rome détruite d'Aurelio Picca, dans l'ombre des ragazzi. Sottotitolo: «Dans les bas-fonds de Rome sur les traces de Pasolini». Pasolini, nientemeno. Strano. Perché nel Comitato direttivo del Premio (Pietro Abate, Valeria Della Valle, Giuseppe D'Avino, Ernesto Ferrero, Alberto Foschini, Paolo Giordano, Helena Janeczek, Melania G. Mazzucco, Gabriele Pedullà, Stefano Petrocchi, Marino Sinibaldi e Giovanni Solimine) il 90% dei membri cita ogni due per tre Pasolini, l'impegno, l'intellettuale «che ci manca»...Infine, fra le note a margine della notizia riguardante la «dozzina», due curiosità. La prima: l'unico serio concorrente della Ciabatti, quest'anno, è un vero intellettuale pasoliniano, Emanuele Trevi con Due vite, presentato - ma anche qui, è un caso - da un altro premio Strega, ossia Francesco Piccolo. La seconda curiosità è che dai 62 titoli in lizza è rimasto fuori Paolo Di Stefano con Noi (Bompiani). Ossia lo scrittore che, nelle vesti di critico letterario, stroncò, come nessuno aveva mai fatto con un esordiente, il primo romanzo di Teresa Ciabatti, Adelmo torna da me, Einaudi, era il 2002 (e magari aveva ragione lui). Però, come rivincita, non c'è male.

Mirella Serri per "la Stampa" il 25 marzo 2021. Siamo al nastro di partenza dello Strega 2021. Ma già si sente odore di zolfo e si annuncia uno scontro accanito. Quest' anno infatti il sangue scorrerà nella famiglia dell' ammiraglia dell' editoria italiana, il gruppo Mondadori. Ieri sono stati selezionati i dodici scrittori finalisti che aspirano a portarsi a casa il trofeo capitolino. La 75ª edizione ha registrato un record di concorrenti, ha sottolineato il presidente della Fondazione Bellonci, Giovanni Solimine: il comitato direttivo del riconoscimento letterario romano ha dovuto scegliere da una rosa di ben sessantadue candidati. Tra i prescelti, per la casa editrice di Segrate sarà in gara Teresa Ciabatti con Sembrava bellezza (a proporla è stato Sandro Veronesi, vincitore dello scorso anno). Già si prefigura lo scontro con lo Struzzo: l' editrice torinese, che fa parte del medesimo gruppo, parteciperà alla selezione finale con Donatella Di Pietrantonio, autrice di Borgo Sud. Sarà un conflitto al calor bianco: alla Mondadori sono convinti di non poter mancare l' appuntamento con la vittoria: «Non è possibile che in nove anni l' editore più grande d' Italia, malgrado i romanzi di altissimo livello che pubblica, non sia riuscito a conquistare l' alloro, è uno scandalo», osserva un editor che si fa portavoce del sentimento di rivalsa che serpeggia a Segrate. Il transatlantico dell' editoria non vince dal 2012, quando si era classificato al primo posto con Alessandro Piperno. La Ciabatti è una narratrice molto divisiva: nel 2017 la scrittrice di Orbetello aveva ottenuto il secondo posto nella finalissima, dopo Paolo Cognetti pubblicato da Einaudi, e aveva protestato con una lettera stizzita. Adesso, ironia della sorte, se la dovrà vedere di nuovo con lo Struzzo. Negli ultimi due anni allo Strega la stessa Einaudi era stata dilaniata da lotte interne: il gruppo romano di Einaudi Stile libero si era schierato contro i colleghi torinesi. Ma ora le due anime dello Struzzo hanno rinfoderato le daghe (non rientra tra i dodici ammessi alla selezione finale la candidata di Stile libero Alessandra Sarchi che si era proposta con Il dono di Antonia). Gli einaudiani hanno capito che uniti (forse) si vince e sono pronti a lottare per la Di Pietrantonio. Come alla Mondadori, anche nelle sedi romane e torinesi dell' Einaudi circola l'«indignazione», così dicono, per il fatto che dal 2017 non vince un autore dello Struzzo. La singolar tenzone si giocherà dunque tra le due «sorelle» del gruppo che si tallonano nelle classifiche della narrativa? La Rizzoli Libri, che fa capo anch' essa al gruppo Mondadori, quest' anno ha invece scelto di non concorrere, pur avendo una candidata ideale in Silvia Avallone con Un' amicizia, altrimenti le lotte fratricide sarebbero state ancora più cruente. Ma gli spifferi stregoneschi individuano nell' entrata di Due vite di Emanuele Trevi nella lista dei dodici finalisti il libro che potrebbe costringere alle corde Ciabatti e Di Pietrantonio. Lo scrittore romano, edito da Neri Pozza, personalmente è al di sopra dei giochi, si disinteressa e va a Panarea per una lunga vacanza. Le malelingue sussurrano che il narratore abbia la vittoria in tasca in quanto supportato dalla direzione del premio, pronta a scommettere su di lui e a sostenerlo con il suo tesoretto di schede. Trevi aveva perso contro Alessandro Piperno nel 2012 per due soli voti e aveva invocato uno «stop allo Strega degli editori». Non mancano altre sorprese: si è affacciata nell' agone capitolino una personalità di gran peso, Edith Bruck, che ne Il pane perduto, edito da La nave di Teseo, ripercorre la sua sofferenza di prigioniera nei Lager nazisti. Di recente, in un tête-à-tête intenso e commosso, ha ricevuto nella sua casa romana di via del Babuino la visita di papa Francesco. I circa 600 Amici della domenica votanti al premio si stanno però interrogando se possa rivincere lo stesso editore che l' anno scorso aveva conquistato lo Strega con Il colibrì di Sandro Veronesi. Gli «addetti ai livori» che ambiscono a mettere le mani sui voti dei simpatizzanti della casa editrice di Elisabetta Sgarbi sono pronti a negarlo. Nel traffico di schede e di favori, tra i concorrenti decisi a scontrarsi duramente quantomeno per entrare in cinquina, vi sono poi Andrea Bajani, con Il libro delle case edito da Feltrinelli, e Giulio Mozzi, con Le ripetizioni pubblicato da Marsilio. Ponte alle Grazie è entrato nell' agone con ben due autrici: Maria Grazia Calandrone, con Splendi come vita, e Lisa Ginzburg, con Cara pace. Sono in gara inoltre Daniele Petruccioli, con La casa delle madri, TerraRossa; Alice Urciuolo, con Adorazione, 66thand2nd, e Roberto Venturini con L' anno che a Roma fu due volte Natale, Sem. Per Bompiani è in corsa Giulia Caminito, con L' acqua del lago non è mai dolce. Tra gli esclusi di questa prima selezione troviamo invece Antonella Lattanzi, con Questo giorno che incombe, HarperCollins, e per la Bompiani Paolo Di Stefano, con Noi, Loredana Lipperini, con La notte si avvicina, e Aurelio Picca con Il più grande criminale di Roma è stato amico mio. Autore di un libro che la critica ha giudicato duro e sconvolgente, Picca dà voce al risentimento degli esclusi: «Allo Strega non vogliono scrittori veri. Vogliono solo libri dolciastri». Toccherà agli Amici della Domenica giudicare: il 10 giugno sarà designata la cinquina dei finalisti e l' 8 luglio arriverà il vincitore.

Davide Brullo per lintellettualedissidente.it il 25 marzo 2021. In copertina, per dire, c’è lui, nudo, sdraiato, collana-anelli-bracciali, che ti punta la pistola in faccia, con quel visto tra Diabolik, Curzio Malaparte e Michael Madsen, pio di una noia violenta. Su “Le Figaro”, dieci giorni fa, Christophe Mercier ha scritto del suo libro accennando a “eccessi, forza e la brutalità di una bellezza malsana che ricordano l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Aurelio Picca ti punta la pistola in faccia perché sa cosa vuol dire sfracellarsi, scrivendo. In Francia, Christian Bourgois ha tradotto L’Arsenal de Rome détruite (edito nel 2018 da Einaudi come Arsenale di Roma distrutta). È l’unico autore che è diventato la copertina del suo libro: come a dire, consustanzialità tra corpo e corpus, tra verbo e carne. Nello stesso tiro di mesi, per intenderci, Christian Bourgois ha pubblicato Denis Johnson, Hanif Kureishi, Wright Morris e William S. Burroughs. Parrebbe una specie di nobiltà per Picca. L’investitura, diciamo così. Egli è uno dei cardinali della letteratura recente, uno che per lignaggio non disdegna la pugna, l’offesa, il clangore del perdono. Dall’esordio come poeta, nel 1990, per Rotundo, con Per punizione, al romanzo, possente, edito l’anno scorso per Bompiani, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio, che con una lingua sconfitta e onnipossente, epica e lacerata, d’oro e di melma, racconta per morsi e visioni moribonde la storia di Laudavino De Sanctis detto ‘Lallo lo Zoppo’, è una verticale di una ventina di libri che fanno di Picca, per gradi marziali, per corrusco carisma, uno dei grandi scrittori italiani degli ultimi decenni. Recentemente, Arnaldo Colasanti, nell’antologia Braci. La poesia contemporanea (Bompiani, 2021), ne ha esaltato l’estro lirico, e lo descrive così: “Aurelio Picca è oggi l’uomo più antico che conosca. Smanioso, sfrontato, gatta e toro, magnanimo, narciso e inerme, ‘campione dall’esile fierezza’, il magnifico, il poeta luminoso e leale…”. Eppure, Picca non è fatto per la gloria e la quiete, per il triclino di applausi. È uomo pronto al patto di sangue, fraterno, e al sacrificio supremo. Dietro le maschere, il vagabondaggio nel sottosuolo, il censimento degli eccessi, l’“Henry Miller dei Castelli Romani”, c’è l’uomo che ti abbraccia, che ama la cartografia della carne, che non sopporta le mediazioni, men che meno quelle telematiche – “e chiamami, no…” –, una fragilità in vetro – dunque, pericolosa. Che porcata, lo Strega, trogolo dei soliti noti, con la solita dote, gli dico, perché l’hanno tagliato fuori, fuorilegge. Lui nicchia, avvezzo al miracolo più che al cinismo, alla lotta più che alla cagnara. “Nella vita ogni nodo viene al pettine. E se non decidi tu, ci pensa lei. Non credo nella fortuna, né alle scorciatoie. Sono stato un bambino orfano. La mia ferita era talmente bianca che già allora l’anima tagliava e illuminava il corpo. Forse sono diventato uno scrittore per sostituire, attraverso le parole, la legge del padre e poi di un nonno che fu per me patriarca”, mi ha detto, la prima volta che gli ho telefonato. Qualcosa di frantumato, di increscioso, di innocente giace tra i libri di Picca, una via mediana tra Kaputt e Il ramo d’oro, una gita tra gli arcani. “Il Cristo l’ho sentito a trent’anni, con la potenza di Grünewald. Dobbiamo ricordarci che Cristo è un uomo che muore, sulla croce. Cristo era uomo quando è morto, mica Dio, e questo è sconvolgente. Il cristianesimo è pietà e combattimento. Come si può capire, io sto con i papi che impugnano la spada”, mi diceva, allora, quell’uomo dotato al massacro, interamente romano, che ha derubato al giorno un guaito di eternità.

Non sei tra i 12 discepoli dello Strega: forse perché sei re, immolato alle ambizioni altrui. Ti frega qualcosa, infine?

So che non vincerò mai lo Strega. Ogni tanto dimentico che è una latrina di oggettistica, retta da una piccola oligarchia di straccioni intellettuali. Da uomo che ha mantenuto in sé la ferita dell’infanzia, vagheggio a volte che i libri siano giudicati magari da Luigi Baldacci, Geno Pampaloni, Alfredo Giuliani, Rosanna Bettarini…E che lo Strega sia quello dei Comisso, Piovene, Morante, Parise. È nel mio destino non vincerlo come quando da bambino, siccome i compagni di giochi li dominavo in interiorità e ingenuità, mi bastonavano. Sono fiero di questa consapevolezza. Del resto so anche di cosa morirò.

Eppure, sei in Francia. Lì si sprecano i paragoni: sei Pasolini, sei Henry Miller, sei lo scandalo formale permanente. Ma chi è, infine, Aurelio Picca?

I francesi, pur carichi di contraddizioni, sono lontani dalla P2 culturale. Amano l’eversione dell’arte. Aurelio Picca è un uomo delicato che si batte senza difese e che ha scelto la letteratura per avere una legge e onorare il nome del padre.

Cosa significa scrivere? Come si pone lo scrittore nei confronti della Storia, della politica?

La scrittura è corpo e politica. È puro Eros. È gesto reazionario e rivoluzionario.

Ravanare dentro Roma, come fosse l’immane corpo, glorioso e putrescente, dell’Uomo, del mondo, immondo. È così?

In questi due ultimi romanzi è stato così. La corsa dei “mortacci” senza il silenzio della morte. Infatti il più grande cimitero monumentale di Roma, il Verano, è un cadavere devastato.

Cosa si scrive nell’era pandemica, dove scopriamo – ops… – che l’uomo è contagio permanente, la carne un mattatoio di virus? Cosa stai scrivendo? Cosa stai vivendo?

Sì, l’uomo è un contagio permanente. Non ho nessuna speranza per il genere umano che avanza nella irrealtà. Solo gli individui, gli angeli custodi incarnati si salvano. Non scrivo niente. Penso. Il pensiero ora è abisso. Per la scrittura ci vuole il desiderio e la giovinezza. Ora bisogna pensare a come scacciare i demoni. La scrittura non va sporcata né contaminata. Vivo sdraiato sul letto a pensare.

Che fine ha fatto il sacro nel mondo dissacrato, nell’era del sacrilegio? Tu, dove lo odori il sacro?

Il sacro è solo la morte.

Mirella Serri per "la Stampa" il 25 marzo 2021. «Quando a gestire lo Strega era la cosiddetta "Zarina" Anna Maria Rimoaldi, il premio aveva regole assai chiare. Un esempio? Era il 1998 e io avevo appena pubblicato da Rizzoli Tutte stelle. La Zarina mi chiamò a casa sua e mi ricevette in camera da letto. "Siedi lì, quello era il posto di Pier Paolo Pasolini quando mi veniva a trovare". Poi annunciò: "Avrai il mio voto», e mantenne la parola data. Funzionava così, lo Strega, con grande trasparenza». Oggi non ci sta Aurelio Picca a essere escluso dai giochi dell' alloro romano: ha protestato con veemenza fin da ieri quando ha saputo che il suo libro, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (Bompiani) non è rientrato tra i dodici narratori finalisti al prestigoso certamen.

Il suo romanzo, presentato allo Strega da Edoardo Nesi, è stato infatti definito dalla critica «una narrazione formidabile», «una storia unica e coraggiosa». Allora perché è stato escluso?

«Il Comitato direttivo dello Strega (presieduto dalla scrittrice Melania Mazzucco e di cui fanno parte numerosi illustri intellettuali, ndr) ha dato vita a una falsa democrazia», spiega Picca. «Con la Rimoaldi tutto avveniva alla luce del sole. Adesso il Comitato ha messo in moto un monstrum culturale e comunicativo che promuove gli scrittori senza valutarne la qualità letteraria e li tratta come "oggettistica" da vendere. Preferisco una vera oligarchia, questa riforma è antidemocratica».

Il narratore di Velletri s' interroga dunque se dalla dozzina, per favorire maneggi e trame editoriali, non siano state fatte fuori firme di gran valore. Come la pensano gli altri esclusi?

«Mi avrebbe fatto piacere essere tra gli scrittori designati per salire al Ninfeo. Ma non mi sento di formulare alcuna critica», risponde Antonella Lattanzi che, con Questo giorno che incombe (HarperCollins), ha portato in libreria un thriller connotato da una scrittura fluida, appassionata.

«Siamo stati illusi dal forte consenso dei librai e dei lettori», osserva Carlo Carabba, responsabile editoriale della narrativa e della saggistica italiane HarperCollins, «il romanzo di Antonella è stato accolto come una delle presenze letterarie più importanti dell' anno. Ci sentivamo confortati dall' adesione generale e siamo dunque un po' abbacchiati».

Più distaccata è Loredana Lipperini, che ha visto rimandato al mittente La notte si avvicina (Bompiani), dove si narra il flagello di una micidiale peste che colpisce gli abitanti di un paese immaginario. «Sapevo di partecipare a un gioco, conoscevo le regole. Peraltro sono in buona compagnia, non sono state incluse bravissime scrittici come la Lattanzi, Alessandra Sarchi e Carmen Pellegrino».

La Pellegrino, scesa in campo con La felicità degli altri (La nave di Teseo) per il quale si è parlato di «ritorno al grande romanzo», mostra di comprendere le ragioni del risentimento di Picca: «È un grande narratore. Le Figaro lo ha paragonato a Pasolini. Io invece sapevo che la mia casa editrice, avendo vinto lo scorso anno con Il Colibrì di Sandro Veronesi, era difficile facesse il bis al Ninfeo in questa stagione. Inoltre, pubblicata sempre dal mio editore, è entrata Edith Bruck: un libro alto, forte, che racconta la tragedia della Shoah. Ma certo, se avessero scelto due autori della mia stessa casa, come hanno fatto per Ponte alle Grazie, non mi sarei tirata indietro!».

Non è entrata nel gruppo che ambisce alla cinquina nemmeno la Sarchi, in gara con Il dono di Antonia (Einaudi Stile libero), racconto connotato da una straordinaria introspezione psicologica: «Ho affrontato la competizione con atteggiamento consapevole. Le regole dello Strega non sono facilmente decifrabili. Quali sono i rapporti tra il premio e le case editrici? Chissà! Del perché si stringano alcuni legami piuttosto che altri non abbiamo nessuna prova. Esiste un "non detto" di cui tanti sono a conoscenza. Il re è nudo e tutti fanno finta di non vedere».

·        Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

Il poeta è uno scrittore striminzito. Il Romanziere scrive una realtà inventata. Il Saggista riporta, spesso, una verità scomoda.

Il tesoro nella penna. Si può diventare ricchi scrivendo libri? Rainer Zitelmann su L'Inkiesta l'11 Novembre 2021. L’autrice britannica di Harry Potter Joanne Kathleen Rowling ha accumulato una fortuna pari a 1,2 miliardi di dollari. Ma è un’eccezione. Ci sono molte buone ragioni per scrivere libri, ma quella di fare soldi non è purtroppo tra queste. Ho avuto l’idea di scrivere questo articolo dopo che un’agenzia cinese mi ha contattato per chiedermi un parere in merito a questo tema: “Dallo scoppio della Covid–19, scrivere libri è diventato popolare in Cina e molte persone sono curiose di sapere come si diventa uno scrittore – e soprattutto se si può diventare ricchi facendolo”. L’agenzia cinese mi ha contattato perché molti dei miei libri vendono molto bene in Cina. E sanno che sono una persona benestante. Quello che non sapevano è che la ragione per cui posso permettermi di passare tutto il giorno a scrivere libri è perché negli anni sono riuscito a mettere da parte un buon patrimonio e pertanto non ho bisogno di contare su un reddito regolare. Ma questo patrimonio l’ho accumulato come imprenditore e investitore immobiliare, non come saggista, anche se i miei libri hanno avuto successo in alcuni Paesi. Ogni volta che parlo dei miei libri sui social media, alcuni dei miei follower commentano: «Stai solo cercando di fare pubblicità al tuo libro!» E hanno ragione. Non conosco un solo autore che scriva libri perché non vengano letti – o comprati. Ma quello che questi follower con i loro commenti un po’ invidiosi stanno probabilmente cercando di dire è: «Non ne hai mai abbastanza – vuoi solo arricchirti ancora di più con i tuoi libri». Beh, non avrei assolutamente nulla in contrario!

Tuttavia, mentre sono felice di rassicurare tutti gli invidiosi là fuori, sono anche triste di deludere tutti coloro che vogliono guadagnare soldi scrivendo libri: in quasi nessun’altra professione le ricompense economiche sono così esigue come in quella di autore di libri.

Quanto guadagnano gli scrittori

Lo sapevo già prima di scrivere il mio primo libro, perché mio padre (Arnulf Zitelmann) è un autore di successo i cui libri sono stati pubblicati in molte lingue, anche in italiano. Ma non sarebbe stato in grado di vivere solo con il suo reddito di scrittore. Certo, ci sono delle eccezioni, ma sono diffuse come i vincitori della lotteria.

Secondo Forbes, l’autrice britannica e creatrice di Harry Potter Joanne Kathleen Rowling ha accumulato una fortuna pari a 1,2 miliardi di dollari. La Rowling ha scritto i suoi primi libri di Harry Potter mentre era una madre single che viveva grazie alla previdenza sociale (social security). Il manoscritto del suo primo romanzo di Harry Potter è stato rifiutato da 12 editori. Per il suo primo libro della saga, ha ricevuto un anticipo di 1.500 sterline.

È diventata ricca, naturalmente, ma soprattutto perché i suoi romanzi sono stati adattati come film. In totale, la serie di film è composta da otto episodi ed è diventata una delle saghe cinematografiche di maggior successo di tutti i tempi, con incassi, a livello mondiale, di 7,7 miliardi di dollari.

Prendiamo ora un normale autore. Sarebbe bello se riuscisse a vendere 5mila copie di un libro di saggistica. Secondo le stime, negli Stati Uniti, il libro medio vende appena 500–1.000 copie. Ma immaginiamo che un autore venda 10mila copie del suo libro, il che sarebbe ben al di sopra della media ed è più raro di quanto molti lettori possano pensare. E supponiamo che l’autore riceva una royalty pari al 10 per cento del prezzo di copertina, che – specialmente per un esordiente – sarebbe una cifra straordinaria, perché le royalties dell’autore sono di solito comprese tra il 5 e il 7 per cento del prezzo.

Tuttavia, se l’autore ottiene il 10 per cento, ciò equivale a 2 euro per un libro che ne costa 20. Se il libro vende 10mila copie, sono 20mila euro. Se l’autore ha impiegato due anni per scrivere il libro e prepararlo per la pubblicazione con l’editore, sono 10mila euro all’anno, o circa 830 euro al mese.

È così poco che in Germania – per fortuna – l’autore non dovrebbe nemmeno pagare l’imposta sul reddito. In ogni caso, una donna delle pulizie guadagna di più. E, come ho detto, questo calcolo contiene una serie di ipotesi abbastanza ottimistiche sul numero di copie vendute e sulla percentuale dei diritti d’autore spettanti all’autore.

Naturalmente, la situazione è diversa per un autore che ha scritto diversi libri, tutti ancora disponibili e venduti. In questo caso, l’autore ha costruito una “backlist”, come viene chiamata in gergo editoriale.

E che dire di un autore i cui libri – come nel mio caso – sono venduti non solo nel proprio Paese, ma in molti Paesi? Il reddito aggiuntivo che ne deriva è di solito trascurabile, anche se – come nel mio caso – l’autore vende più libri in Cina che in Germania, per esempio. La Cina è un grande mercato, ma se si converte il prezzo del libro in valuta cinese in euro o dollari, non è molto. Inoltre, l’editore che per primo ha pubblicato il libro nel tuo Paese d’origine tratterrà una parte significativa delle royalties.

Questo perché, nella maggior parte dei casi, gli autori assegnano i diritti di pubblicazione globale dei loro libri al loro editore “di casa”. Se non lo fanno, devono vendere da soli i diritti del loro libro in altri paesi (il che è difficile) o assumere un agente (che chiederà anche una parte delle royalties, con il 25 per cento che è un tasso abbastanza normale).

Il self-publishing come alternativa?

Considerato quanto sopra, alcuni autori oggi si stanno rivolgendo al self-publishing come alternativa. Ci sono molte aziende che aiutano un autore a pubblicare un libro senza il coinvolgimento di un editore, gestendo molte delle fasi del processo di auto-pubblicazione e assicurandosi anche che il libro sia disponibile attraverso le principali piattaforme di libri online (come Amazon in Europa e negli Stati Uniti).

Con il self-publishing, l’autore riceve molto di più per libro che con un editore tradizionale. Ma l’autore deve farsi aiutare da un proprio editor e correttore di bozze, oltre che da un grafico per creare la copertina. Anche questo costa denaro – e non consiglierei a nessuno di pubblicare un libro senza prima averlo fatto passare per un editor e correttore di bozze professionista. Dopo tutto, pochi autori sono stilisticamente precisi o hanno la perfetta padronanza dell’ortografia come gli editor e i correttori professionisti.

Poi c’è il fatto che gli autori che ricorrono al self-publishing sono anche responsabili della promozione dei loro libri. Naturalmente, ogni autore dovrebbe comunque fare pubblicità ai propri libri, anche se ha un editore, perché la maggior parte degli editori non sono particolarmente abili nel fare campagne di marketing. Per l’editore, ogni libro è solo uno dei tanti.

Quindi sì, il self-publishing può funzionare, ma in molti casi le vendite saranno molto più basse che con un editore a causa della mancanza di distribuzione e marketing. Inoltre, è improbabile che un libro autopubblicato sia recensito su giornali e riviste. Di conseguenza, le royalties più elevate per ogni copia venduta sono spesso bilanciate dal fatto che si vendono meno copie.

“La vanità è una parte essenziale del processo di scrittura”

Non fraintendetemi. Non voglio scoraggiarvi dallo scrivere libri. Al contrario, scrivere è la mia attività preferita in assoluto. Attraverso la scrittura, si crea qualcosa che durerà. Ti senti felice e orgoglioso quando finalmente tieni il tuo libro finito tra le mani, e sei ancora più felice quando leggi recensioni e articoli positivi sul tuo libro. Per un autore, queste recensioni positive sono l’equivalente degli applausi che un musicista riceve dal suo pubblico.

Ma se stai puntando a diventare ricco, allora diventare uno scrittore non è una grande idea. Le probabilità sono bassissime – anche se questo, naturalmente, non significa che sia completamente impossibile. Scrivere un libro può anche, in qualche misura, ripagarti finanziariamente in maniera indiretta. Se hai scritto un libro di saggistica, sarai considerato un esperto dell’argomento. E gli esperti, ad esempio, vengono invitati a tenere conferenze, che sono spesso meglio pagate dei libri.

In ogni caso, gli autori non scrivono per arricchirsi, ma perché – come me – hanno un messaggio che vogliono trasmettere. O perché (questo vale anche per me) tendono ad essere piuttosto vanitosi.

Il noto critico letterario tedesco di origine polacca Marcel Reich-Ranicki disse una volta in un’intervista: «Senza vanità, non ci può essere scrittura. Non importa se sei uno scrittore o un critico letterario, la vanità è una parte essenziale del processo di scrittura. Altrimenti non si crea nulla. Thomas Mann era una primadonna, Richard Wagner anche, e così pure Goethe e, naturalmente, Schiller».

Cos’è il romanzo? Tra attacco e difesa, la polemica non si spegne. Sabina Minardi su L'Espresso il 12 ottobre 2021. Libri omologati per compiacere il mercato o una letteratura che spinge per allargare i suoi orizzonti? E si può ancora esercitare la critica come giudizio di valore? Alla vigilia del Salone del Libro di Torino, prosegue il dibattito lanciato da L’Espresso con nuovi interventi di Giuseppe Culicchia, Evelina Santangelo, Gilda Policastro e Wlodek Goldkorn. Libri omologati, standardizzati dalle scuole di scrittura e pronti a compiacere il mercato. E una letteratura che invece spinge sugli argini dei generi per allargare forme e contenuti. Che cos’è più il romanzo? Roberto Cotroneo, editor della narrativa italiana della casa editrice Neri Pozza, ha lanciato il quesito con un pezzo dal titolo “Romanzi senza fine”. Sono intervenuti, nelle settimane scorse, gli scrittori Antonio Moresco e Massimiliano Parente, che hanno allargato la questione del futuro del romanzo al senso della critica oggi, all’influenza dei premi letterari. Replicano ora gli scrittori Evelina Santangelo, Gilda Policastro, Wlodek Goldkorn e Giuseppe Culicchia. Con quattro appassionati contributi che difendono la qualità della nostra narrativa, pur sottolineandone le debolezze: tra sfide che gli scrittori si trovano oggi ad affrontare e cambiamenti strutturali della lettura e del libro. Alla vigilia del Salone del libro di Torino, culla di bibliodiversità e occasione per guardare in faccia lo stato della lettura, mentre i dati dell’Associazione italiana editori parlano di una crescita del mercato librario nei primi nove mesi dell’anno, del 29 per cento rispetto al 2020; e mentre le classifiche editoriali fotografano interessi nuovi che mutano persino l’identikit del lettore, una galleria di riflessioni che confermano la vitalità della nostra letteratura.

«No alla pistola puntata alla tempia». Evelina Santangelo su L'Espresso il 12 ottobre 2021. La società letteraria sarà pure una giostra, ma la letteratura non è una competizione né una gara al massacro. Pochi ricorderanno il film di Sydney Pollack “Non si uccidono così anche i cavalli?” (1969) con Jane Fonda (Gloria, che si gioca l’ultima carta della propria esistenza) e Michael Sarrazin (Robert, che vaga senza meta). Film tratto dal romanzo omonimo di Horace McCoy, capostipite dell’hard boiled (poliziesco). Molo di Santa Monica, California. Primi anni ’30. Grande depressione. Una delle tante maratone di ballo in cui coppie di disperati vanno avanti per giorni. Competono fino a massacrarsi. In palio, un premio in denaro che dovrebbe cambiar loro la vita ma che di fatto è una truffa. Nell’immediato, la possibilità di trangugiare cibo tra una gara e l’altra, avere un tetto sotto cui dormire quel poco che è consentito ammassati come bestie, e inseguire un sogno: la speranza di non affogare nell’emarginazione e nella miseria. Grande artefice di questa truffa addobbata con vistose stelle e strisce: l’impresario Rocky. Un ammaliatore che conosce la durezza della vita e i punti deboli della gente, di chi assiste come di chi gareggia. Il finale è tra i più squarcianti: Robert con i suoi occhi azzurri da ragazzino fuori dalla sala con Gloria che ha capito l’imbroglio della competizione e non ci sta più. Scrosciare di onde. Robert guarda l’oceano: «Una volta mi piaceva guardare il mare, camminando o seduto ad ascoltarlo. Adesso non mi importa se non lo vedo più».

Gloria non guarda niente. È dura ma di quella durezza che cerca di non darla vinta alla fragilità: «Il mondo forse è fatto tutto così, come il cinema. Si sono divisi la torta prima del tuo arrivo».

«Lo so e ti capisco. Accidenti se ti capisco. Cosa farai adesso?»

«Davvero?» C’è un soprassalto nella voce di Gloria dinanzi a quell’inaspettata comprensione.

«Cosa farai allora?»

«Me ne vado da questa maledetta giostra. Sono così nauseata di tutta questa storia».

«Quale storia?»

«La vita. E non darmi lezioni di ottimismo».

«Non ne avevo intenzione».

«E allora perché mi guardi in quel modo?»

«Ma... niente. Volevo solo vederti in viso».

«Beh. Guarda pure. Non perderti il finale».

Gloria estrae la pistola dalla borsetta. Se la punta contro, ma è come se fossimo noi a farlo, perché guardiamo la pistola con i suoi occhi. «Aiutami. Ti prego. Ti prego», dice faticando a trattenere le lacrime.

Gli occhi di Robert sgranati e bambini si fanno adulti come chi all’improvviso è chiamato a un compito cui non può sottrarsi nei confronti del dolore, di un’esistenza irrimediabilmente azzoppata, come il bellissimo cavallo della sua infanzia che si spezza una zampa correndo nei campi e scalcia finché il padre non lo finisce con una fucilata.

Robert prende la pistola. Guarda Gloria. «Dimmi quando».

Lei fissa il vuoto. «Sono pronta».

Lui le punta la pistola alla testa. Ma si vede solo la mano che la impugna. Il viso inquadrato è quello di Gloria con la pistola puntata alla tempia. L’esito di un’esistenza puntualmente tradita nelle sue speranze.

In un alternarsi di inquadrature che isolano i personaggi, lui la guarda. «Adesso?»

Lei continua a fissare il vuoto. «Adesso».

Lui chiude gli occhi. Spara. 

Lei cade, e quando cade è in quel campo giallo dove Robert bambino correva col suo cavallo. È dentro il passato spensierato e vitale dell’infanzia che si spalanca alla vita.

Poi si torna su di lei riversa a terra nello squallore del molo. «Perché l’hai fatto, figliolo?» chiede il poliziotto che porta via Robert come un automa.

«Me lo ha chiesto lei».

«E tu non dici mai di no», è il commento sarcastico.

Con i suoi occhi innocenti e sgranati, Robert guarda davanti a sé: «Anche i cavalli li finiscono, no?»

Uno sparo, forse il ricordo del fucile del padre, forse la pistola usata nella gara per dare avvio a una nuova gara. Buio. Si torna alla maratona implacabile. Le coppie stremate si reggono a vicenda. «La danza del destino, ma quanto potranno resistere... Un bell’applauso, forza!» dice la voce squillante e cinica di Rocky. Applauso. Suono di giostra. La società letteraria che guida le danze di quel che è rilevante o meno, tra riti e competizioni spettacolari sarà pure una giostra, ma la letteratura non è né una giostra né una competizione. Non contempla gare, perché ogni libro si misura con un certo immaginario in un preciso contesto storico e culturale. Può essere un buon libro o un libro mediocre, ma comunque incomparabile. Né la letteratura si lascia rinchiudere entro steccati ad uso di chi ha bisogno di sistematizzarla. È semmai, come in questo caso, saper dare carne e sangue alla giostra, alla sconfitta insita in una gara truccata, al cinismo di ogni competizione spettacolare giocata sulla pelle di chi ci crede: pubblico che applaude e gareggianti che ballano sino allo sfinimento per bisogno o per un briciolo di celebrità. La letteratura è saper trovare parole, gesti, circostanze in cui alla fine i “falliti” non possono che essere tutti dentro una Depressione in cui spadroneggiano gli speculatori come Rocky capaci di far splendere monete false, di piegare al proprio interesse chiunque partecipi allo spettacolo grondante retorica. Ma noi che guardiamo o leggiamo quelle scene esatte nella scansione di battute, gesti, psicologie, fragilità, affetti, sogni, nella precisione dei contesti che hanno il potere dell’universalità, siamo Robert e Gloria, il vecchio marinaio Kline che muore d’infarto sulla pista messo via in quattro e quattr’otto. Siamo la ragazza incinta Ruby con il marito James che vivono passando da un treno merci all’altro. Siamo quel pubblico ignaro. E infine stiamo con la pistola puntata alla tempia. Ci salviamo proprio perché muore Gloria al posto nostro mentre sentiamo quanto quelle esistenze ci riguardino. In Italia oggi ci sono scrittori e scrittrici che sanno far risuonare la loro voce come scandagli ben oltre logiche da acquario nazionale. Poco importa se vincano i Premi dei Premi. Anzi possono benissimo esserne esclusi, ma trovare il proprio pubblico altrove, ad esempio in Germania, come accaduto a Francesca Melandri con “Il sangue giusto”, che ha anticipato il dibattito internazionale sul post coloniale, il modo di concepire se stessi e chi è stato considerato per secoli l’effetto collaterale delle sorti magnifiche e progressive dell’Occidente colonizzatore. In un tempo di esistenze sempre più in dialogo o in conflitto tra loro, parlare di letteratura italiana come fosse un vino in purezza è una miopia. La letteratura ha lingue madri o acquisite in cui esprimersi. Ogni autore o autrice ha riferimenti, sensibilità, bagagli culturali e di esperienza insofferenti di confini territoriali, tradizioni letterarie nazionali, generi. Mettersi a gareggiare con il mondo è fallimentare e insensato. Meglio riconoscersi come parte di un’universalità nella lingua che è più propria, da scandagliatori e scandagliatrici dell’esistenza insieme agli altri. Più alleati avrà un’idea di letteratura ariosa più saremo tutti all’altezza di questo tempo. Il resto è una bolla artificiale in cui si muore d’asfissia o con una pistola puntata alla tempia.

«Non è vero che il romanzo è finito, le scritture non omologate resistono». Gilda Policastro su L'Espresso il 12 ottobre 2021. La critica è sempre più desueta. E i critici-scrittori sono spacciati. Ma i libri originali e di qualità esistono. Cotroneo ha scritto su queste pagine che non esistono romanzi (o romanzieri) non convenzionali, non asserviti alle leggi di mercato, Moresco ha corretto: non esisteranno, all’infuori di me. Parente ha infine aggiunto che ci sarebbe pure lui, ma nessuno se ne accorge, perché «è Batman», non va ai premi, eventi mondani, ma soprattutto perché la critica lo ignora. Vorrei ripartire da questo punto. Dall’impossibilità di essere critici, oggi, in Italia. O meglio: dall’impossibilità di essere critici e scrittori insieme. Si è sempre fatto: Montale lo chiamava “il secondo mestiere”, Pasolini scriveva corsivi che citiamo più delle poesie e dei romanzi (con i mantra dell’omologazione, della mutazione antropologica, del genocidio culturale), Edoardo Sanguineti radunò i suoi interventi militanti nei “Giornalini”. Ma erano gli anni Sessanta e Settanta, forse si è potuto ancora fino alla soglia dei Novanta, dopo si è cominciato a parlare di «crisi della critica» (Segre), di “Eutanasia della critica” (Lavagetto), infine la critica non è esistita più nemmeno come disciplina accademica (fagocitata dal settore di “Letterature comparate”). Oggi se sei un critico-scrittore sei spacciato. Sei spacciato già solo se sei un critico, perché a parte i supplementi d’antan, il cui prestigio sopravvive per lo più nella fascia anagrafica degli aventi diritto alle Rsa, la critica come “giudizio di valore” pare desueta come la zappa o il cannocchiale, a petto della freschezza e della immediatezza di BookTube, il luogo in cui si parla non di quel libro che gli happy few hanno letto, ma di tutti i libri da leggere tutti insieme, e lo si fa in termini di Tier list, TBR (=to be read), GRWM (=get ready with me), e giù commenti, like, cuoricini. E poi c’è Bookstagram, sempre più dominante, per facilità di allestimento e garanzia di hype. Fino al 2010 scrivevo prevalentemente poesie (e saggi). Ma la poesia va bene: è marginale, inoffensiva, non competitiva. Non esiste nelle classifiche, nei premi maggiori, non c’è nelle vetrine, i poeti che vendono sono due, di cui una è morta: si chiamava Alda Merini e a chi oggi scrive col googlism o l’uncreative writing non può che provocare orticaria. Ma perché, invece, non si può essere critici e scrivere romanzi? Dicono: perché non saprai più giudicare con la stessa attendibilità. Poi ti fai un giro per social o supplementi e ci trovi praticamente solo scrittori che magnificano altri scrittori: capolavoro, stupendo, ti sei superato/a. Quindi “il critico-scrittore” manca di credibilità se parla di uno scrittore, “lo scrittore-scrittore” è credibile anche se grida al capolavoro a ogni uscita di quello che poi griderà al capolavoro per ogni uscita sua. C’è un’altra ragione, per cui, se hai fatto il critico e un giorno scrivi un romanzo, commetti il più grande errore della tua vita. Se hai fatto il critico e l’hai fatto seriamente, qualche nemico ce l’hai. Diceva Charles Mackay (citato dal personaggio della Thatcher in “The crown”): «Solo chi non ha agito, non ha dei nemici». Se hai agito, cioè se hai preso posizione, se sei andato a fondo, motivando, argomentando, ovvero criticando, hai dei nemici. E come dice un altro poeta, stavolta francese, Espitallier, «gli amici degli amici dei nemici dei miei amici sono miei nemici». Cioè, un bel casino. Quando pubblichi un romanzo hai un ufficio stampa, che si chiama così non perché sia un “ufficio” (specie dopo la pandemia, lavora dalla scrivania di casa sua), ma perché ha rapporti con la stampa. Telefona ai direttori dei giornali o dei supplementi e propone il libro, e lo fa di solito con largo anticipo, affinché i giornali, che sono sommersi dalle nuove uscite, abbiano il tempo di organizzarsi per una eventuale recensione. Quando collaboravo con le pagine culturali (anche adesso collaboro, ma mi occupo di poesia, che, dicevamo, conta meno del due di coppe quando è briscola bastoni), il motivo per cui non recensivo un libro era che non mi pareva meritevole di un discorso critico, e morta lì. I motivi che qualche ufficio stampa, nel tempo, mi ha riferito per mancate recensioni sono: quello ti odia, quello non ti vuole nemmeno sentir nominare, a quello gli hai stroncato l’autrice o l’autore (perché ci sono direttori di giornale che sono anche editor: conflitto di interessi non ti temo). Poi si dà il caso dei supplementi su cui hai scritto degli anni, magari gratis, “che fa curriculum”. Tu eri a disposizione anche di sera tardi, di domenica, al mare (ricordo un ferragosto bucato per recensire la Kristeva). Ma se gli scrivi: «È uscito un mio romanzo», non ricevi risposta. Perché un critico non può fare lo scrittore: li disorienti, non sanno come incasellarti. Qualche tempo fa di fronte al mio scoramento per la critica ridotta a divulgazione e mera promozione all’interno di un circuito chiuso e inaccessibile ad autori, o meglio a scritture irregolari, anticonvenzionali, un collega scrittore (e critico, pour cause) mi faceva riflettere su un dato che somiglia alla lettera di Poe: ce l’hai sotto gli occhi e perciò non lo vedi. Alla fine, mi diceva, a contare sono davvero i lettori, al di là di ogni retorica, perché sono loro che spendono quei diciotto euro per il tuo libro, gli altri lo ricevono gratis. Vero è che i lettori come lo sanno che esiste il tuo libro, se nessuno glielo dice (piove sul bagnato, e in tivù, ai festival maggiori, nei contesti che “muovono copie” a figurare sono pochi, sempre più o meno gli stessi)? Con umiltà e passione, senza ridursi alle vendite porta a porta come per il folletto o Lotta comunista, bisogna però dirglielo personalmente, e ridirglielo, girare, andare ai festival anche piccoli o piccolissimi, approfittare di tutti i mezzi. Per fare cosa? Autopromozione selvaggia? No, esattamente per mostrare e dimostrare che a differenza di quel che pensa Cotroneo, le scritture non omologate esistono e resistono, ma non hanno e non avranno mai la stessa risonanza dei prodotti seriali. Del resto, nel 1830, il Premio maggiore dell’epoca lo vinse il Botta. Chi? Nessuno oggi sa chi sia, ma tutti conosciamo e leggiamo l’illustre trombato dell’epoca: Giacomo Leopardi, con le “Operette morali”.

«Arbitri parziali nel derby tra scrittori». Giuseppe Culicchia su L'Espresso il 12 ottobre 2021. La difficoltà di essere equi nelle recensioni quando si stima un collega oppure si è stati stroncati. Il primo derby d’Italia è storicamente quello tra il mio Torino e l’altra squadra ospitata in città. Ecco. Credo che da queste mie pacate parole potrete intuire quali siano l’imparzialità e la serenità di giudizio con cui mi rapporto a quella società, ai calciatori che stipendia e pure a chi li allena. Del resto sono un tifoso, non uno sportivo, benché sportivamente tifi non solo per il Torino ma per tutte le squadre che di volta in volta, dentro o fuori i confini nazionali, incontrano l’Innominabile: e da tifoso non sono chiamato a tenere l’equidistanza che compete – o dovrebbe competere, trattandosi appunto dell’altra squadra – innanzitutto a un arbitro, ma anche a un cronista sportivo di quelli che danno i voti in pagella ai giocatori. Già, i voti in pagella. Per restare ancora un attimo al calcio, prima di passare alla letteratura: pensate se a dare i voti in pagella ai giocatori fossero i giocatori stessi. Belotti che giudica Chiellini dopo aver fatto a sportellate con lui per vincere il derby, e viceversa…È per questo motivo che quando dopo l’uscita del mio romanzo d’esordio “Tutti giù per terra” ricevetti proposte di collaborazione prima dalla Talpa del manifesto e poi da Tuttolibri della Stampa risposi che avrei scritto solo di autori stranieri. Così, per quanto riguarda la narrativa, in tanti anni ho scritto – non in veste di critico, perché non sono un critico, ma di lettore prima ancora che di autore – soltanto di due italiani: però morti (Tondelli e Bianciardi). La sola eccezione che abbia confermato la regola è stata Arbasino, quand’era ancora tra noi. Da Mostro Sacro qual è, non lo consideravo certo un collega, e tantomeno un diretto concorrente. Perché siamo onesti: con quale imparzialità potrei giudicare l’opera dei miei colleghi e diretti concorrenti? Non credo sarei capace di non essere gramscianamente partigiano nei confronti di coloro che stimo, con cui condivido una certa idea di letteratura e forse ho perfino rapporti d’amicizia; e come farei a essere equo se mi venisse chiesto di recensire il libro di chi magari in precedenza mi aveva stroncato? Quando su queste pagine ho letto la presa di posizione di Roberto Cotroneo (in breve: in Italia non ci sono veri scrittori) e la replica di Antonio Moresco (in breve: in Italia il solo vero scrittore sono io) più l’intervento di Massimiliano Parente (in breve: in Italia chi si dice scrittore è nella maggior parte dei casi un impiegato in lotta per lo Strega, e per questo fa parte di salotti e camarille; a Parente sono grato per avermi annoverato tra i veri scrittori, ma ecco: mi chiedo come farei ora a essere imparziale con chi ha partecipato a questa disputa) mi è venuto per l’appunto da pensare al calcio, che peraltro seppure in crisi ha com’è noto un giro d’affari e premi in palio un po’ più alti rispetto al dorato mondo delle lettere italiane (e dato che la torta è piccola, anche per questo tendenzialmente ci si scanna). L’altra cosa a cui ho pensato è il tempo. «Il faut d’abord durer», sosteneva Hemingway, convinto che solo col metro del tempo fosse lecito giudicate le opere. D’altronde, che cosa fa di un libro un classico? Se ancora oggi leggiamo Conrad o Céline – con buona pace di chi dopo il #metoo e BLM vorrebbe una letteratura politicamente corretta ed educativa, cosa che metterebbe fuori gioco tra gli altri non solo De Sade ma anche Dostoevskij, vista l’empatia che proviamo da lettori nei confronti di Raskol’nikov – che al contrario di molti hanno scritto libri fondamentali ancorché ambigui e disturbanti (due caratteristiche che sarebbe un peccato sottrarre alla letteratura) è perché i loro libri hanno saputo arrivare fino a noi. E dunque: chi di noi rimarrà? Chi di noi avrà scritto opere capaci di durare più di un annetto in cima alle classifiche di vendita? Quanti di coloro che vincono premi anche prestigiosi verranno letti tra uno o più secoli, ammesso che qualcuno leggerà ancora (da parte mia non sono pessimista sul futuro del romanzo o della lettura, ma su quello della nostra Specie sul pianeta che per ora ci ospita)? Ciò detto, va preso atto che neppure il tempo – malgrado abbia reso giustizia a Melville o Fitzgerald, dimenticati in vita e rivalutati post mortem – è un giudice davvero affidabile: sennò Morselli e D’Arrigo, due scrittori veri citati da Parente, avrebbero ancora e per sempre milioni di lettori. Non se ne esce, dunque? A quanto pare no. Ci sono tuttavia un paio di altre cose che varrebbe la pena di menzionare. Innanzitutto, il ruolo della critica letteraria. Per noi nati nel Novecento, era materia di studio all’università: ricordo con affetto il professor Angelo Jacomuzzi, che mi fece scoprire ciò che delle opere di Eugenio Montale aveva scritto Gianfranco Contini, e il carteggio tra i due. Fu grazie a Contini se all’epoca compresi Montale. Che fine ha fatto oggi la critica letteraria? I critici autorevoli non mancano, anche se più d’uno a cominciare da Cotroneo ha comprensibilmente ceduto alla tentazione autoriale del romanzo. Ma quale impatto hanno sui lettori le recensioni che escono sulle pagine culturali o in rete? Fino a che punto è vero il luogo comune secondo cui ormai “ci leggiamo solo tra noi”? E che dire del fatto che oggi valgono di più la foto di un libro postata su Instagram da una cosiddetta influencer o un video su TikTok capace di diventare “virale” rispetto alla copertina dell’Indice dei Libri del Mese? Qui entrano in gioco i meccanismi che oggi regolano l’industria del libro. Perché, sempre in fatto di tempo, ormai nella stragrande maggioranza dei casi i libri durano quando va bene lo spazio di un mese, e a partire da questa consapevolezza vengono “lavorati” (non solo dai vari uffici stampa); e, last but not least, perché chi in questo nostro disgraziato presente arriva a sostenere un colloquio di lavoro in una casa editrice anche prestigiosa si sente chiedere, testuali parole: «Lei chi segue su Instagram? Avrebbe qualche nome da segnalarci?». Già. Sic transit gloria mundi.

«Non è più tempo di muri tra i generi». Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 12 ottobre 2021. Oggi il sapere è in frammenti. I confini sono stati infranti e così, definire cosa sia un romanzo e cosa non lo sia, è difficile e forse non del tutto utile. Decisivo per la letteratura è il tempo e non le classifiche né le classificazioni. Le classifiche di vendita servono a editori e librai per capire come funziona il mercato. Dell’uso delle classificazioni ai fini dell’affermazione dei poteri nell’epoca della modernità (colonialismo, stalinismo e Shoah compresi) hanno parlato in tanti e non è il caso di tornarci. La classificazione dei generi letterari risale ai tempi antichi ma così come la conosciamo oggi è anch’essa un prodotto della modernità. Il caso più estremo e razionale è quello di Melvil Dewey, bibliotecario nello Stato di New York, che nella seconda metà dell’Ottocento brevettò il sistema che ancora oggi viene usato in tutte le biblioteche del mondo (Dewey credeva di poter racchiudere tutto il sapere umano nel suo sistema). La rigida divisione fra romanzi, saggistica, poesia e via elencando, con l’aggiunta di qualche altro elemento, è utile a chi deve vendere o dare in prestito i libri, a sistemare spazi espositivi in modo che gli utenti e gli operatori facilmente trovino il volume che cercano. Poi c’è il tempo e l’io dell’autore o autrice. La domanda sul tempo non riguarda solo la questione se fra venti o cinquant’anni una certa opera sarà letta, ma quanto del tempo della nostra vita occupa la riflessione e la commozione su e per un libro che stiamo leggendo. L’affermazione dell’io dell’autore o autrice invece è il gesto con il quale nasce il romanzo. Vale per Cervantes con “Don Chisciotte”, come per Jane Austen con “Orgoglio e pregiudizio”, o Thomas Mann con “La montagna magica”. E il romanzo è forse la più bella invenzione dell’Europa e della modernità, perché un genere che comprende in sé, sublimato, davvero tutto il sapere umano e perché in grado di porre le domande senza fornire le risposte, di affermare una meravigliosa ambivalenza e il sentimento di empatia perfino nei confronti delle canaglie. L’io del narratore o narratrice costruisce il mondo. Oggi però, il sapere è in frammenti. I confini fra i generi (tutti i generi) sono stati infranti e i muri non servono. E così, definire cosa sia un romanzo e cosa non lo sia è difficile e forse non del tutto utile. A pensarci bene, già Laurence Sterne, con il suo “La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo” introduceva, nel Settecento, elementi spuri nella nascente arte del romanzo (James Joyce ringrazia). Oggi, per fare un solo esempio, abbiamo Bernardine Evaristo con il suo “Ragazza, donna, altro”, un romanzo destrutturato, frammentario e stupendo a farci capire che in fondo la narrativa si divide fra quella che tenta di sovvertire la realtà e quella invece consolatoria. Il resto, lascia appunto il tempo che trova.

Megalomani abortivi. Alessandro Bertirotti il 12 aprile 2021 su Il Giornale. È tutta questione di… umanità. Abbiamo ampiamente superato i 7,5 miliardi di individui presenti su questo pianeta. È la prima volta che un predatore di vertice come noi, un mammifero dalle dimensioni così evidenti, raggiungesse una popolazione così numerosa. E siamo così tanti perché abbiamo occupato ogni nicchia ecologica; ci siamo organizzati in società e culture altamente complesse e stratificate, per compiti e ruoli. Abbiamo fatto molte cose: inventato l’agricoltura, l’allevamento e l’industria, una tecnologia capace di spedire sonde al di là del nostro sistema solare. Senza contare il numero di lingue articolate con le quali trasmettiamo informazioni e ci tramandiamo culture. Abbiamo costruito metropoli, e infrastrutture che circondano il globo come la trama di un tessuto. Tutto questo porta due nomi: civiltà e culture. Perché solo noi, Homo Sapiens sapiens, abbiamo espresso personalità del calibro di Leonardo da Vinci, Beethoven e Van Gogh? I nostri cugini più prossimi, quelli che ci hanno accompagnato in questo viaggio fino a poche decine di migliaia di anni fa, come i Neanderthal, non hanno nemmeno sfiorato un simile livello di capacità ed abilità cognitive. Allo stesso modo, nemmeno i primati non umani più vicini a noi, come le scimmie antropomorfe. È vero: anche se non è tutto oro quello che luccica, qualcosa di speciale dobbiamo averlo, se Victor Hugo scrive i Miserabili e Lucio Fontana realizza i suoi tagli su tela. Eppure, assieme a questi geni dell’umanità, sono nati anche individui sanguinari che hanno agonizzato milioni di altri esseri umani, come Adolf Hitler e Stalin. Qualcosa di speciale abbiamo certamente, nel bene e nel male. E pensate che da quando avete iniziato a leggere queste righe, la popolazione del mondo è aumentata di 10.000 individui. Abbiamo spesso violentato questo pianeta, nel tentativo di piegarlo alle nostre volontà e necessità, ma la natura riprende i suoi spazi, e certe manifestazioni catastrofiche ci avvertono sul pericolo che corriamo con i nostri tentativi di modificare il pianeta, secondo i nostri desideri. Forse, giunti a questi punti, dovremmo capire quanto tutto questo comporti reali responsabilità. Non solo questo pianeta è l’unico che abbiamo, per ora, a disposizione, ma anche noi stessi, come specie, siamo gli unici che possiamo sviluppare questa consapevolezza, verso di noi e verso gli altri. Una consapevolezza che dovrebbe condurre ad un più diffuso sentimento del limite, mentre sembra invece svilupparsi nella direzione di un abortivo sentimento megalomane, sempre più diffuso.

Giada Tommei per mowmag.com l'11 aprile 2021. Celebrare i bicentenari di nascita, già di per sé non è cosa semplice. Se si parla di una penna come Charles Baudelaire, poi, ricordarlo degnamente diventa ancora più insidioso non volendo inciampare nel solito decalogo della sua bibliografia. Considerato uno dei più celebri poeti e saggisti del XIX secolo, il suo animo “romanticamente sovversivo” portò alla ribalta temi per l’epoca rivoluzionari quali la morte, la crisi, il pensiero o la notte. Dalla sua venuta al mondo, ebbene, son passati 200 anni: eppure, la sua poetica pare ancora estremamente attuale inserendosi a pieno nella rabbia che pervade il nostro decennio tra la disperazione di fine giornata, il folle ritorno alla cocaina e una notte di passione rubata in un parcheggio prima di tornare dal coniuge. È bello paragonare l’arte di ieri con la realtà dell’oggi: avvicinare ciò che per molti sembra lontano con il quotidiano in cui siamo immersi, facendo sì che la letteratura sia un linguaggio masticabile da tutti. Se si tratta di Baudelaire, però, farlo da soli è fin troppo rischioso vista la mole di dettagli che un occhio semplice perderebbe. Ecco perché, chiedere aiuto alla più grande poetessa italiana vivente mi è sembrata la cosa migliore da fare. Patrizia Valduga, con 40 anni di acclamata carriera tra scrittura e traduzione, è stata cortese nel dedicare un poco del suo tempo in questa celebrazione: le sono grata, perché per interpretare un’anima inquieta, fragile e ribelle come Charles Baudelaire non c’è niente di meglio che una personalità altrettanto fuori inquadratura, seppur perfetta nella sinuosa esemplarità del suo sonetto chiuso e della quartina, in opere come Medicamenta, Manfred o Belluno, fino a Lezioni d’amore e raccolte di poesie erotiche. Nel pensare a un modo intelligente per ottenere il benvolere della poetessa veneta, sempre estremamente elegante nelle sue mise attillate condite da grandi cappelli, come spesso accade quando si è emozionati son finita per cadere in una domanda iniziale molto semplice. Forse troppo, lo ammetto: è comunque trapelato, nelle parole che mi ha regalato, quell’insegnamento sincero di chi prima ammette con un certo cinismo di preferire lo psicanalista allo yoga e poi ti confida che è possibile creare quel perfetto equilibrio tra razionalità e mente innamorandosi ogni giorno, che sia di una persona, di un luogo, di un film o di un’opera. Dall’analisi dello scrittore francese, con Patrizia Valduga è nato un intrigante botta e risposta allargato ai temi del nostro oggi: una di quelle conversazioni in suo stile, con risposte un po’ ermetiche che devi magari leggere più volte per capirne i molteplici significati. Per trovare una morale alla nostra storia, sempre che esista, con quel distaccato coinvolgimento tipico di chi ha lasciato scorrere nella poesia tutta la propria fiducia, seppur nascosta dietro una maschera di disillusione la cui reale consistenza, non ci è dato sapere.

Patrizia Valduga, oggi si celebra Baudelaire ed i 200 anni dalla sua nascita: ma a lei, questo artista, piace?

Come potrebbe non piacermi? Sono votata al culto dei grandi. Ma per me, per la mia età e per la mia formazione, sarebbe impossibile immaginare di catapultarlo ai nostri giorni. D’altronde è sempre stato imprevedibile, questo poeta: non ha mai fatto quello che facevano gli altri...

Un po' come lei, d’altronde, che con la sua poetica ha toccato tematiche spesso considerate tabù.

Come Baudelaire, inoltre, lei celebra il concetto di “purezza poetica” inteso come perfezione dello stile: tra sonetti, terzine dantesche, ottave, rima baciata, sestine e distici di endecasillabi, la sua poetica segue l’affascinante filo conduttore della forma chiusa.

Ci sono altri punti in comune tra le sue opere e quelle del poeta francese?

Non oso neppure pensarlo. Cosa potrebbero mai avere in comune un genio dell'Ottocento e un piccolo epigono dei nostri anni, tra l’altro tra i più ignoranti di tutta la storia di questo ignorante paese? Come poetessa, io, nasco dall'Ipersonetto di Zanzotto, e dai barocchi nostrani.

Capisco, ma insisto: se Baudelaire è il padre della poesia moderna, lei ne è senza dubbio un’erede. I temi raccontati dal poeta trasudano di realtà, indecente e oscena nella sua anche dolce essenza così come nell’inevitabile compassione che può suscitare. Nessun sentimento è tenuto nascosto: la passione, il dolore, lo smarrimento, il suicidio, la dedizione al vizio. In tutto questo dolore c’è della verità, proprio come nella sua poetica. Intimità, direi: quanto è importante essere sinceri per far poesia? È più importante esserlo con gli altri o con se stessi?

Penso che, se c'è una verità in poesia, debba essere una verità estetica. Assistiamo ogni giorno a esibizioni di «cuori messi a nudo», con miserabili versi imprecisi e retorici, facili lirismi, parole alte... Uno spettacolo osceno, questo sì. Il 90% dei poeti d'oggi sembra che non abbia mai letto Baudelaire. Ma sono sinceri, oh così sinceri...

A proposito di cuori: chissà se c’è un tipo di amore in cui si riconosce o si è riconosciuta di più.

Non so se c'è un tipo di amore in cui mi riconosco. So che sono stata attratta da uomini che hanno una struttura psichica complementare o almeno compatibile con la mia. La parte del corpo più eccitante per me è il cervello, e anche il cosiddetto «cuore» è dentro il cervello.

Certo è che nei suoi versi, si parla molto di amore come passione carnale: un atto animalesco che cola sentimento, definito da Baudelaire un “lirismo del popolo” e da lei come “equilibrio tra anima e carne”. Tuffandosi in versi (i suoi) come Cuocimi, bollimi, addentami, covami, eternami, mi sembra quasi di assistere a un distruggersi e un ricomporsi tra le braccia dell’altro. Mi viene in mente di Eros e Thanatos: passione e distruzione.

Sono stata definita «poetessa erotica». Bene: essere poeti erotici non è indizio di salute sessuale. La lingua batte dove il dente duole è un bel proverbio, sa? Chi gode non parla di sesso: è chi ha problemi a godere che ne parla in continuazione. Adesso poi sono decrepita, e parlarne mi mette malinconia. O meglio, non mi riguarda più. Per me adesso, più importante del sesso è l’amicizia: una forma di amore più disinteressato e duraturo.

Si definisce con durezza, eppure lei è una delle poche che l’amore, nella vita, lo ha trovato davvero. Parlo di Giovanni Raboni, poeta, critico letterario, giornalista, traduttore e scrittore tra i nomi più conosciuti della letteratura italiana da lei sempre descritto come persona meravigliosa. Mi sveli un segreto, se può: come si amano due scrittori?

Raboni, lui sì che è un grande. Mi ha insegnato tutto, anche a convivere con le mie angosce. Come si amano due scrittori? Non ne ho idea. Posso solo dirle che due poeti forse si amano in modo un po' più complicato dei non-poeti, perché hanno un cervello più complicato dei non-poeti.

È vera quindi questa storia dell’anima gemella? Parrebbe sempre più difficile incontrarla, in realtà: soprattutto ricreare questo incontro sacro tra mente e carne, tendendo spesso ad amare per combattere la solitudine o a fare l’amore per soddisfare un istinto. Manca forse la cura verso l’altrui: quel Ti voglio far provare un bel piacere […] Ed io ti prenderò come un’anguilla. / Dentro da me per vie d’acqua o aeree…

Se è sempre più difficile trovare l'anima gemella, è perché siamo sempre più egoisti ed egocentrici, confondendo l'attrazione con il desiderio. Flaubert, l'altro gigante di cui si festeggiano il 12 dicembre i 200 anni dalla nascita - e ci sarebbe anche Dostoevskij l'11 novembre - Flaubert, dicevo, ci ha insegnato con Madame Bovary che il nostro desiderio è sempre mediato, che l'amore è come lo snobismo: abbiamo un modello, sociale o intellettuale o erotico, e lo imitiamo. Il nostro desiderio è indotto, alienato o mimetico, e destinato a finire. L'attrazione, invece, non ha mediatori: è immediata, istintiva e sempre reciproca, ed è l'inizio di un innamoramento che è l'inizio di un amore che dura. Ma per essere attratti, bisogna prestare ascolto, prestare molta attenzione, non essere troppo egocentrici e avere anche un minimo di consapevolezza di sé e di immaginazione.

È una bella lezione, questa. D’altronde lei, signora Valduga, è una maestra di seduzione a colpi di parole. Leggendo le sue opere, come “Cento quartine e altre storie d’amore”, mi viene in mente il Tantra: quella decantata estasi sessuale che libera la propria energia non tanto intesa come sesso sfrenato ma come un affetto viscerale. Lei ha mai fatto meditazione?

Ognuno legge con quello che sa, con quello che è. Non so cosa sia il Tantra. Da giovane ho provato lo yoga: mi metteva ancora più inquietudine. Meglio lo psicanalista.

“Le emozioni più belle sono quelle che non puoi spiegare”, diceva Baudelaire: forse sarebbe andato anche lui dallo psicanalista, se solo avesse potuto. Comunque lei, i sentimenti, li sa illustrare benissimo. E trasmettere, fino alla pancia, con un uso così sapiente della lingua italiana che c’è del piacere nel vero senso della parola a leggerla. D’altronde, è anche un’affermatissima traduttrice: quanto è ricca e comunicativa la nostra lingua e quali difficoltà ci sono nel rendere concetti da un ceppo linguistico all’altro?

Le rispondo con una dichiarazione di D'Annunzio: «La mia lingua mi appartiene come il più profondo dei miei istinti». Vorrei tanto poterlo dire anch'io. Ma non posso: devo avere sempre un dizionario in mano, come se non possedessi nessuna parola, come se tutte le parole fossero fuori di me. Ma a renderle ricche e comunicative è lo scrittore: senza lo scrittore, resterebbero inerti dentro il dizionario.

Quale tra le sue opere considera la migliore?

Belluno. Risposta scontata: ogni scrittore preferisce sempre l'ultima cosa che ha scritto. E spesso vale molto meno della prima...

Finora, mi pare che di scontato con lei non ci sia niente: forse è per questo che, leggendola, alcune volte ci si sente destabilizzati. Credo sia la sensazione di esser scoperti nei nostri pensieri più profondi. Mettiti a quattro zampe, mi va il sangue alla testa, ho già le vampe: quanta voglia di suscitare una reazione nell’altro c’è in ciò che scrive, o lo fa principalmente per sé stessa?

Si scrive per il piacere che si prova a scrivere. Allora per sé stessi? Non proprio, perché il piacere dovrebbe trasmettersi anche a chi legge...

E a lei, c’è qualcosa nella vita che la scuote, la destruttura, la sorprende?

Sono una vecchia psicotica, piena di paure e di angosce. Farei prima a dire cosa mi calma, oltre agli ansiolitici.

Una volta mi è capitato di sentirmi in piena armonia con la situazione che stavo vivendo: me lo ricordo perché ho fatto caso al mio corpo, non solo come insieme casuale di cellule ma come un’entità che aveva un “peso” sul pezzo di terra che stavo ricoprendo. Mi sono sentita quasi felice, ma non sapevo darle una definizione: almeno fino a che non ho letto del “punto di sella”, quell’equilibrio tra razionalità e sentimento che lei ben spiega in “Per sguardi e per Parole” (Mulino). Lei il “punto di sella” lo ha trovato nella scrittura: si può trovare anche nella vita quotidiana?

Certo, ogni volta che ci si innamora; di una persona, di un film, di uno spettacolo...O di un’opera! Il 21 marzo, tra l’altro, è stata la Giornata Mondiale della Poesia. Per questa occasione sono stati letti molti autori, da Bukowski a Alda Merini fino a…..Fabio Volo.

Cosa ne pensa dell’arte della scrittura lasciata nelle mani di autori come quest’ultimo, così come di Michela Murgia, Selvaggia Lucarelli, Simona Sparaco e non solo?

Non leggo i vivi da tanti anni. Decrepita come sono, sento ancora di dover imparare. Dai vivi non imparo niente: o mi annoiano o mi irritano. Con tutti i grandi che ci sono da Omero fino a - posso dirlo? - fino a Raboni, ho tanto ancora da leggere e da imparare.

Dicono che il lockdown abbia aumentato il numero di persone che leggono. Il fatto è che oggi c’è davvero di tutto e orientarsi non è semplice. Quali sono i generi letterari che esclude categoricamente?

Si può essere grandi in ogni genere, ma non tutti i generi sono grandi. E a me piacciono solo quelli grandi. Il fatto è che oggi non ci sono più critici. Pound suggeriva di buttare via tutti i critici che usano «termini generali imprecisi», che usano «termini vaghi, perché sono troppo ignoranti per aver da dire qualcosa di preciso», e lo diceva cent'anni fa. Oggi dovremmo buttarli via tutti. C'è ancora qualcuno che dice qualcosa di preciso sulle pagine culturali?

Beh, se di esperti critici secondo lei ce ne sono pochi, vero è che a giudicare dai social sembrano tutti esperti letterari in erba. Tutti citano continuamente versi famosi: sicuro anche i suoi, che sono già molto frequenti su Facebook. Lei che rapporto ha con i social media?

Non ho nessun rapporto. Ma penso che sia giusto usarli per delle buone cause, non per le solite ripugnanti esibizioni e autopromozioni.

Ho visto il video Youtube “Nove lustri di Valduga”. Quanti bellissimi vestiti possiede! E quanta eleganza… capisco perché la chiamano la “diva” della poesia italiana. Si riconosce in questa definizione? Oggi molte artiste rifiuterebbero una simile “etichetta”, ma è vero che attualmente si fa guerra a tutti e di rivoluzioni ce ne sono tante. Penso ad esempio al metoo o alla lotta contro il bodyshaming..

Ma che diva e diva! Sono più di 50 anni che mi vesto con vestiti usati e non ho mai pensato di essere una diva per questo. Sono convinta da sempre della superiorità delle donne, per questo non mi sono mai sentita parte di una corporazione. Il metoo è una cosa di cui mi vergogno. Sembra diventato il modo più sbrigativo per far fuori qualcuno di scomodo. Il bodyshaming è un'altra cosa: mi sembra più un fatto di maleducazione. Mi hanno insegnato a non deridere i difetti fisici delle persone, come la statura bassa o le orecchie a sventola: è un'azione ingiusta e volgare.

Oggi c’è molto di ingiusto, a partire dai giudizi appuntiti della gente. Penso a Baudelaire, ad esempio, che è stato molto innamorato di una donna mulatta. Nel suo tempo fu un amore controverso da vivere, ma non lo sarebbe forse anche oggi, dati i molti episodi di razzismo che stanno vertiginosamente aumentando?

Ho visto di recente alla televisione un bel film, Green book; negli anni Sessanta in alcuni stati del Sud degli Stati Uniti, i neri non potevano uscire di notte, e non potevano entrare nei ristoranti e nei negozi per bianchi. Abbiamo fatto dei passi da gigante, mi pare. Ma gli imbecilli ci sono in ogni epoca.

Torno un momento ai suoi componimenti, dove vita e morte si intrecciano continuamente. Se la sua poesia fosse un quadro, quale artista sceglierebbe?

Leonardo, citando Plutarco, diceva che la poesia è per gli orbi e la pittura per i sordi. I miei occhi sono molto ignoranti... Ma mi viene in mente un'opera di Luciano Fabro, Lo spirato.

Cosa consiglierebbe a un giovane poeta o una giovane poetessa, oggi?

Se fossero davvero poeti, non avrebbero bisogno di consigli. Se fossero davvero poeti, saprebbero d'istinto cosa leggere e cosa scrivere.

Meglio il caos o la quiete?

Per me è meglio l'alternanza dell'uno e dell'altra.

Baudelaire, la poesia come il cerino nel buio che insegna. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud l'11 aprile 2021. I Poeti non muoiono mai, come le loro parole incise sulle pietre del tempo e scavate nelle pieghe dell’anima. Di poesia e poeti – con un omaggio dovuto a Charles Baudelaire nato a Parigi il 9 aprile di 200 anni fa – parliamo con John Taylor, scrittore americano, critico letterario, poeta e traduttore che ha scelto ormai da anni di vivere in Francia. Taylor, “[…] Il Poeta è come lui, principe delle nubi/che sta con l’uragano e ride degli arcieri; / esule in terra fra gli scherni, /impediscono/ che cammini le sue ali di gigante.”, sono versi tratti da “L’albatros”, ma se lei dovesse fare un ritratto di Baudelaire uomo e poeta quali parole sceglierebbe ? E quali versi? «Quando ero uno studente di matematica all’università e avevo diciannove anni, l’unica lingua straniera che conoscevo era il tedesco. Ma ero attratto dalla poesia francese a causa delle traduzioni in prosa(!) di poesie in versi che avevo trovato in un’antologia. Ho comprato un dizionario bilingue. È proprio questa poesia, “L’albatros”, che ho cercato di “ritradurre”, verificando ogni parola nel dizionario. Tutto questo mi fa sorridere ora che vivo in Francia dal 1977, ma posso aggiungere che, da quel giorno del 1971, le righe finali – “[…] impediscono / che cammini le sue ali di gigante” – sono rimaste per me una terribile verità che deve essere affrontata da ogni poeta. Baudelaire conosceva intimamente la sfida sollevata dalla sua immagine: qual è il rapporto tra la voglia di scrivere e il problema di “come vivere, come stare, in questo mondo”?».

“I fiori del male”, pietra miliare di Baudelaire è uno dei classici della letteratura francese e mondiale, che lettura ne dà lei?

«L’idea essenziale ruota intorno al concetto che il poeta deve scrutare anche nell’oscurità per vedere quale luce, forse, si nasconde in essa, come suggerisce il titolo stesso».

“Bohémien” e “poeta maledetto”, Baudelaire ha indicato la strada del simbolismo in versi e ha fatto dello “spleen” (la malinconia, l’inquietudine) una delle chiavi di volta della sua cifra stilistica. Che peso hanno l’infelicità, lo struggimento, l’insoddisfazione, la ribellione nell’atto compositivo del poeta francese?

«Da tempo mi ha colpito il fatto che, nonostante la sua malinconia, Baudelaire abbia lavorato sodo, producendo non solo le sue poesie e le sue poesie in prosa, ma anche saggi critici su temi artistici e letterari, con dettagli precisi e analisi estremamente percettive. Questa immagine di Baudelaire come “bohémien e “poeta maledetto” non deve mettere in ombra le altre sue qualità. Forse, la sua inquietudine – ogni volta che cresceva – creava la tensione necessaria alla sua creazione poetica. Ma è impossibile recuperare tutta la complessità dei suoi atti creativi, che richiedevano anche energia, tempo, rigore e concentrazione».

“È ora di ubriacarsi! Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare.” Cos’è il tempo per un poeta come Baudelaire ?

«Il tempo più intenso per un poeta è forse quello della scrittura: la prima bozza in un taccuino, le revisioni, la lotta per arrivare a un testo “giusto”. È possibile che Baudelaire abbia vissuto ancora più intensamente in quei momenti che in qualunque esperienza esaltata o sensuale. Non lo so. Ha lodato spesso l’ebbrezza di un singolo momento del vivere. Tuttavia, quest’ultimo orientamento mi colpisce come un’aspirazione, mentre la scrittura appare come un’esperienza potenzialmente più profonda per afferrare la realtà con alcune parole: i nostri strumenti unici, fragili».

“Siamo sempre, tragicamente soli, come spuma delle onde che si illude di essere sposa del mare e invece non ne è che concubina.” E la solitudine?

«C’è anche la presenza della sua amante, Jeanne Duval, in alcune poesie. La poesia spesso si nutre dell’eterno conflitto tra la solitudine necessaria per creare e l’autentica ricerca dell’altro o di qualcos’altro. Questa ricerca, che si proietta lontano dalla solitudine, dal sé, è probabilmente una delle motivazioni di quasi tutta la creazione poetica, anche se la poesia che ne risulta rimane letteralmente egocentrica».

“Tu, come lama di coltello/ sei entrata nel mio cuore in lacrime!/ Tu, forte come una torma/ di demoni folle e in ghingheri,/[…] ”, da “Il Vampiro”. Che cos’è l’amore per un poeta maledetto?

«Come detto, mi sembra che anche queste immagini dure partecipino alla ricerca autentica dell’altro e della vera natura dell’amore».

Veniamo al presente. Quanto il mondo di oggi ha bisogno di poeti e poesie?

«La poesia cerca di preservare ciò che è rimasto prezioso dentro di noi, e ciò che tanti aspetti della vita contemporanea cercano di far scomparire. Questo è vero anche quando la poesia esplora ciò che è negativo negli esseri umani. In effetti, oggi uno dei compiti cruciali per i poeti è fare i conti con le negatività e vedere cosa si può trarre da esse. Come ho già accennato, gli interrogativi principali sono due: quale luce è nascosta nell’oscurità? Cosa ci può insegnare il buio?».

La poesia al tempo di un cinguettio di Twitter?

«Se si confronta un cinguettio con una brevissima poesia – mi vengono in mente alcuni versi di Sandro Penna, anche di Franca Mancinelli, e le poesie frammentarie che Lorenzo Calogero ha lasciato nei suoi ultimi taccuini –, la differenza è enorme. Un cinguettio è un’affermazione, un’opinione, e in questo senso è “chiuso”. La poesia genuina, invece, cerca spesso di esprimere un’apertura, qualcosa di frammentario o incompleto, una domanda a cui non è possibile rispondere facilmente o affatto, un’ambiguità fondamentale, ciò che non può essere riassunto, ciò che rimane su una soglia oltre la quale qualcosa sembra esistere. La poesia vive nei livelli profondi della nostra esistenza, del mondo e del cosmo. Vive dentro di noi anche rispetto agli altri per i quali proviamo emozioni sottili e intricate. Si tratta di momenti durante i quali abbiamo intuizioni ma non certezze».

Per chiudere, veniamo a lei: qual è la sua ultima sorpresa editoriale?

«La sorpresa è pronta per essere svelata. Si tratta di un libro italiano, “Transizioni” (Lyriks edizioni, diretta da Nino Cannatà, ndr), con le meravigliose illustrazioni di un amico, l’artista greco Alekos Fassianos. Mi commuove il fatto che questo libro venga pubblicato in Calabria, regione a me cara sin dai tempi del mio lavoro sulla poesia di Lorenzo Calogero».

Lei ha tradotto molti poeti francesi e tre italiani: Lorenzo Calogero, Alfredo de Palchi e Franca Mancinelli. Se non fosse stato John Taylor quale poeta sarebbe voluto essere?

«Una risposta la si trova in parte nel mio libro “Oblò” – in cui evoco un viaggio dal Pireo all’isola di Samos, nel 1976, durante il quale ho deciso di dedicarmi alla poesia – e in parte in questo nuovo libro, “Transizioni”. Il problema non è essere questa o quella identità, ma piuttosto stabilire un autentico rapporto esplorativo – attraverso la lingua – con la natura, con l’essere, con le emozioni, con gli altri, con il tempo che ci viene dato da vivere. Un tale rapporto è sempre transitorio, istantaneo e inaspettato, e la responsabilità del poeta è registrare quei momenti intensi e miracolosi. Quando ciò accade, il poeta è un intermediario – non del tutto un soggetto nel senso forte di “autore” – almeno nello stato iniziale di “ascolto” e accoglienza di ciò che viene».

Scrivere? Prima bisogna leggere, leggere, leggere. Soprattutto i morti. Le parole dell’autore russo Vasilij Ròzanov: “Non avete un’anima, signori miei. Perciò non vien fuori nemmeno una goccia di letteratura”. Angelo Gaccione su Il Quotidiano del Sud l'11 aprile 2021. Sappiamo di genetica e di Dna, e tuttavia non conosciamo con certezza la materia (e la sua misura) che combinandosi renda due sorelle una molto bella e l’altra bruttina, e non sappiamo perché una mano è capace in un battibaleno di disegnare con estrema facilità i lineamenti di un volto o di un paesaggio, e un’altra assolutamente no. Potete frequentare tutte le accademie di questo mondo ed avere il più versatile dei maestri, ma non farete un solo progresso sulla via dell’arte. È possibile, se ci si impegna, diventare un ottimo critico, ma mai un pittore. Sappiamo invece con certezza che per fare un vero artista sono necessarie tre cose: il talento, lo stile, l’originalità. Ho usato un sostantivo volutamente incerto e generico perché la triade a cui mi riferisco è costituita da elementi immateriali e dunque visivamente e tattilmente incorporei. Trattandosi di elementi immateriali, è fin troppo ovvio dedurne che essi non siano riproducibili, né è possibile renderli seriali. Possono essere copiate da abili falsari le opere che da quella triade discendono (e difatti in pittura i falsari e i copisti abbondano come i contraffattori delle firme), ma crearle no. E allora è più che legittimo – a mio parere – che Alfio Squillaci non abbia alcuna simpatia per le scuole di scrittura creativa e abbia scritto un saggio per auspicarne la chiusura. Il suo agile pamphlet: Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! (con tanto di punto esclamativo), pubblicato dalle edizioni Gog, tornerà utile a quanti decideranno di intraprendere quello che in diverse occasioni ho definito l’insano mestiere dello scrittore e una vera e propria dannazione. Squillaci si chiede come sia possibile insegnare in una scuola di scrittura: talento, stile e originalità, dal momento che si tratta di qualità (o doni naturali?) strettamente individuali; così personali ed esclusive quasi come le impronte digitali. E ci ricorda che i più talentuosi scrittori che noi ammiriamo non hanno frequentato alcuna scuola di scrittura, a partire dalle più lontane e antiche origini di questa forma di espressività. Assodato che la maggior parte di queste scuole funzionano come vere e proprie batterie per “polli di allevamento” (la creazione di un possibile scrittore di successo) condite con una discreta dose di conformismo – il libro vi mostrerà gli ingredienti -, come si evince dal discorso di Squillaci, sorge spontaneo porsi la domanda: da chi imparare, dunque? Personalmente consiglierei di immergersi a fondo nel pozzo nero della vita; ci si contamina e molte scorie restano attaccate alla pelle e all’anima. Certo bisognerà avere una sensibilità accesa per sentire le ferite sulla pelle e un’anima disposta ad accoglierle: “Nessuna cosa ha un’anima se non ne avete una” recita un mio aforisma giovanile; ma la pensava così, e molto prima di me, lo scrittore russo Vasilij Ròzanov: “Non avete un’anima, signori miei. Perciò non vien fuori nemmeno una goccia di letteratura”. Occhio dunque all’anima, prima di intraprendere l’avventura dello scrivere. Perché ha ragione Squillaci, è un mestiere che non vi potrà insegnare nessuno, perciò meditate queste sagge parole di Ugo Ojetti: “Quello dello scrittore è il mestiere più libero e più duro, in cui nessuno ti aiuta tranne qualche morto”.  Che sia un mestiere duro, anzi durissimo, concordo; che sia il più libero non sono più tanto sicuro. L’industria culturale e la mercificazione, la società dello spettacolo e i suoi riti, lo hanno reso tutt’altro che libero. Ma Ojetti ha ragione: solo qualche trapassato può venirti in soccorso perché ha manipolato la materia prima di te e ha tracciato la via. E allora dovete accogliere i suggerimenti di Squillaci: leggere, leggere, leggere, soprattutto i morti come dice Ojetti, e aggiungerei gli autori veri, ricordandosi sempre che “La cultura ha guadagnato soprattutto da quei libri con cui gli editori hanno perso” come ha scritto Thomas Fuller. Magari vi tremeranno i polsi e desisterete, ma di certo non avrete sprecato il vostro tempo: se non avete imparato a scrivere, avete almeno imparato a leggere e a capire. Parafrasando la battuta finale con cui Squillaci chiude il suo libro, se non avrete imparato a ballare il tango, avrete almeno imparato le mosse. Da parte mia, non posso che ribadire quanto ho più volte detto: dopo una lunga vita di scrittura ho imparato solo come non devo scrivere. È poca cosa? Forse sì, è un misero bottino ma andava messo in conto.

ALLA RICERCA DEL TEMPO TROVATO. Oggi le nostre vite veloci sembrano contagiate dal Covid: hanno perso l’olfatto. Pensieri e riflessioni da  Anassimandro a Sant’Agostino, da Proust a Rovelli. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud l'11 aprile 2021. Se pensiamo al concetto di tempo, difficilmente ci verrebbe in mente di associarlo ad un profumo. Un aroma, addirittura? Ma no, il tempo che scorre, che passa, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, anno dopo anno, sembra non avere nulla a che fare con il senso dell’olfatto. Eppure… eppure qualche volta pare non funzioni così, il tempo potrebbe avere uno scorrere differente, e secondo qualcuno potrebbe anche evocare sentori e fragranze individuabili. E descrivibili, persino. Ma quando, e perché, la percezione del tempo che scorre dovrebbe essere diversa da quella dell’usuale, tranquillo e scontato passaggio di consegne fra ieri, oggi e domani? E di cosa profumerebbe? Che fragranza avrebbe, insomma? Sto ragionando da un po’ sul concetto di tempo, e su come questo nostro mondo stia forse correndo un po’ troppo in fretta; con il rischio di inciampare ad ogni piè sospinto, come accade a qualcuno che corre a perdifiato lungo una strada in discesa. Come, forse, è successo anche con la pandemia. Il tempo, dunque, uno dei concetti più antichi e più discussi di sempre, che ha appassionato uomini e donne del mondo. A proposito di pensiero anticipatorio, non posso non ricordare qui Anassimandro, il filosofo greco allievo (e forse anche parente) di Talete, vissuto a Mileto fra il 600 e il 500 aC. Di suo ci resta un unico, piccolo frammento scritto (e una moltitudine di fatti e pensieri ricostruiti e riportati nei secoli successivi), questo: “Le cose si trasformano l’una nell’altra secondo necessità e si rendono giustizia secondo l’ordine del tempo”. Probabilmente è questa la prima traccia dell’interrogarsi sul valore del tempo nella storia. Un migliaio di anni dopo, nel IV secolo, Sant’Agostino si interroga sulla possibilità di misurare il tempo e ne  Le Confessioni, si chiede:  “Che cos’è, allora, il tempo? […] Passato e futuro: ma codesti due tempi in che senso esistono, dal momento che il passato non esiste più, che il futuro non esiste ancora? E il presente, alla sua volta, se rimanesse sempre presente e non tramontasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità. Se dunque il presente, perché sia tempo, deve tramontare nel passato, in che senso si può dire che esiste?” La misura del tempo, insomma, è strettamente legata a chi “nell’animo vive l’attesa del futuro e nell’animo vive il ricordo del passato”. Ma la misura del tempo ha anche una valenza più “fisica” di quella percepita dall’animo come ricorda Sant’Agostino. Che il tempo avesse andamenti difformi e non univoci era stato chiaro – e qui torniamo a parlare di chi riesce ad anticipare le cose – anche ad Albert Einstein. Il tempo in basso scorre più lentamente che in alto. La differenza è minima, ma comunque registrabile oggi con orologi un po’ sofisticati. Einstein lo aveva capito un secolo prima che fosse possibile misurarla, questa differenza. Una scoperta non osservabile direttamente allora, ma che da allora in poi ha rivoluzionato le leggi della fisica. Il tempo, insomma, non è lo stesso per tutti, da qualsiasi punto di vista lo si voglia considerare. Anche solo strettamente da quello fisico, come ci ricorda sovente Carlo Rovelli nelle sue considerazioni sul tema: “Il tempo non è una linea con due direzioni eguali: è una freccia, con estremità diverse. È questo che ci sta a cuore del tempo, più che la velocità a cui passa. È questo il cuore del tempo. Questo scivolare che sentiamo bruciare sulla pelle, nell’ansia del futuro, nel mistero della memoria”. Quello che forse la maggior parte di noi oggi percepisce, è in ogni caso la sensazione continua di non avere abbastanza tempo a disposizione. Corriamo e ci affanniamo nella rincorsa spasmodica di riuscire ad afferrare la gran parte delle cose, delle occasioni, delle situazioni che il mondo iperproduttivo di oggi ci mette davanti. Non ce la facciamo, pare, a restare indietro. L’accelerazione diventa il paradigma ineliminabile delle nostre quotidianità sferzate dalle occasioni. Eppure… eppure a volte tutto questo correre ci porta ad avere l’affanno, a vivere in maniera frustrante le stesse situazioni che abbiamo rincorso; ci sentiamo come spaesati anche in realtà che dovrebbero essere, invece, familiari. Perché? Una delle ipotesi più convincenti è quella che ci fornisce Byung-Chul Han con la sua visione del mondo stressato da questa sorta di necessità di avere una vita activa, come la definisce, stretti in una morsa infernale che ci rende produttori e consumatori sempre più feroci, con il fine ultimo – apparente – della nostra realizzazione. In realtà, ci ricorda il filosofo coreano/tedesco, tutto questo nostro correre e accelerare ha un effetto devastante proprio sulla concezione stessa del tempo (e sulle nostre vite): il risultato più evidente, infatti, è quello di vivere in un tempo che si è come atomizzato, un tempo che non scorre più fra la memoria del passato e l’attesa del futuro ma è costituito in realtà da una sorta di presente perenne, istante dopo istante, in una successione di “qui e ora” che finiscono con il perdere il senso della storia. Non c’è più, insomma, un continuum che, a partire dall’esperienza del passato, ci porta a riflettere sulle cose del presente immaginando anche un certo futuro (e facendoci comportare di conseguenza, magari). Viviamo invece in un mondo che fa della prestazione il suo mantra principale e della velocità la modalità di esecuzione delle cose, sottraendoci tempo e occasioni di riflettere e “sognare”. Manca, insomma, quella che potrebbe essere definita la narrazione delle nostre vite, una storia che si dipana e ne segna anche, sia pur grossolanamente, la trama. E se manca la narrazione, la storia di trasforma in “informazioni”, in un continuum puntiforme nel quale a farla da padrone sono gli spazi vuoti fra le cose. Manca, appunto, la continuità, il progetto. Siamo quasi obbligati a saltare da una cosa all’altra (e lo chiamano multitasking connotandolo di valenza positiva, quest’obbligo per non restare indietro…). E nelle pause, quando la linea si interrompe all’improvviso? Le pause generano ansia (da prestazione, appunto), e allora via con un’altra informazione (anche a caso), un like, e si va avanti. E passa la paura. Tutto questo correre, fra l’altro, ci fa perdere di vista alcune cose che invece, in quanto animali sociali (e comunitari) ci servirebbero, eccome. Per esempio il riflettere sulle cose (invece che sorvolare sulle stesse senza profondità), che ci porta spesso a vivere qualsiasi episodio senza avere gli strumenti per fronteggiarlo; e il dover sempre vivere di corsa, in accelerazione, fa si anche che molte cose quando accadono ci sembrano inopportune, impreviste ed improvvise. Che capitano sempre al momento sbagliato. Siamo come sorpresi da tutto; dalle cose belle ma anche da quelle meno belle, dalle malattie, dalle catastrofi, persino dalla morte. Tutto accade, sempre, apparentemente all’improvviso. E viviamo, in queste presente perenne e atomizzato che non ci lascia tempo, senza coltivare alcuni riti collettivi, gli stessi che ci fanno fortificare come comunità. Una carenza che poi torna, purtroppo, a farsi sentire nei momenti meno felici delle nostre vite. Quando l’appartenere ad una comunità sarebbe stato un modo migliore di vivere le cose. Queste nostre vite veloci, insomma, pare siano state contagiate dal Covid. Hanno perso l’olfatto. Hanno privato il tempo del suo profumo. Un concetto, quello di profumo del tempo, che parte da lontano, quando in Cina (VI-VII secolo dC) erano in uso “orologi” che utilizzavano incensi profumati in modo diverso per scandire il tempo durante le cerimonie. Un profumo che accomuna due grandi pensatori del mondo moderno: il fisico Rovelli, che ricorda il profumo delle madeleine rievocato da Proust nelle pagine iniziali della Recherche per spiegare il suo punto di vista sul tempo, e il filosofo Han, che riconosce al tempo non accelerato artificialmente, un tempo più “umano”, fatto anche di pause e riflessione, un profumo particolare. Appunto, il profumo del tempo.

·        "Solo i cretini non cambiano idea".

Vita esatta. L’utopia di insegnare alla gente a pensare meglio. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 15 Aprile 2021. Julia Galef è tra le più importanti esponenti del Razionalismo, una corrente di pensiero che insegna a vivere secondo logica che ha attratto gran parte della comunità scientifica e imprenditoriale della Silicon Valley. Il suo pensiero è però l’espressione di un sogno forse irrealizzabile. L’utopia di insegnare alla gente a pensare meglio. Come smettere di sbagliare. O meglio: come evitare di farsi condizionare da pregiudizi ed errori di ragionamento. Ma visto che è quasi impossibile, anche come imparare (parola fondamentale) a rivedere le proprie idee e convinzioni alla luce delle nuove informazioni.

Sono le lezioni che intende dare al lettore l’ultimo libro di Julia Galef, “The Scout Mindset: Why Some People See Things Clearly And Others Don’t”, opera di self-help, certo, ma soprattutto di divulgazione. L’obiettivo è di diffondere il più possibile, come spiega in questa intervista al New York Magazine, le idee del movimento razionalista, considerato da più parti l’ideologia dominante della Silicon Valley. Lei stessa ne è una delle voci più note: conduce un podcast, Rationally Speaking, ha fondato nel 2012 a San Francisco il Center For Applied Rationality, che si propone(va) di applicare alla vita di tutti i giorni i principi di una vita razionale (l’utopia della vita esatta, avrebbe detto Robert Musil) e dopo una lunga serie di workshop, conferenze, test e corsi, ha deciso di uscire dall’organizzazione e dedicarsi alla scrittura del libro. Sono serviti cinque anni, spiega, perché ogni affermazione doveva essere verificata e razionale. Il movimento razionalista, una sorta di comunità nata su internet all’inizio degli anni ’10, si propone di riformare il modo di pensare, e perciò di agire, degli esseri umani, rianalizzando la realtà attraverso i principi ferrei della logica e dei teoremi di Bayes. I blog di riferimento sono almeno due: LessWrong e Slate Star Codex, quest’ultimo chiuso verso la fine del 2020 a causa di una serie di polemiche sulla libertà di espressione e poi riaperto su Substack con il nome di Astral Codex Ten. Fin dalle origini, il pensiero dei razionalisti è segnato dal timore nei confronti dell’Intelligenza Artificiale, che una volta perfezionata si sarebbe rivolta contro l’umanità. Una convinzione condivisa con il ricercatore Eliezer Yudkowsky, che darà grande spinta sia al loro movimento che a progetti per creare – non è ironico – nuovi modelli di Intelligenza Artificiale. Lui, come i razionalisti, era convinto di essere tra i pochi consapevoli dei rischi della nuova tecnologia e, di conseguenza, capaci di limitarne la pericolosità. Attorno al razionalismo confluisce, in buona sostanza, gran parte della comunità scientifica e imprenditoriale della Silicon Valley. Si sviluppano nuovi filoni: alcuni di destra, come i neoreazionari”, altri più libertari, composti da persone che scelgono di vivere in case comuni e praticare il poliamore. Come ha dichiarato al New York Times il professor Scott Aaronson, dell’Università del Texas «sono di fatto degli hippie. Soltanto, rispetto a quelli originali, parlano di più dei teoremi di Bayes». Anche lui ha vissuto in una di queste case, e anche Julia Galef. Lei però si è avvicinata di più a un ramo del razionalismo dedicato «al bene comune», per esempio con studi e ricerche per ridurre il prezzo della sanità e limitare la diffusione delle malattie. È la corrente degli effective altruist, altruisti efficaci. Una filantropia 2.0 che evita il gergo astruso dei razionalisti duri e puri, si sottrae all’inespresso senso di superiorità di chi sente di pensare meglio degli altri e si presenta al mondo in modo più gradevole. Nonostante nel suo libro cerchi di insegnare come si vive (meglio), non ha il tono di chi dà la lezioncina. Del resto, come spiega nella prefazione, lei stessa è soggetta a errori logici. Le capita di incaponirsi sulle sue idee e di rifiutare il punto di vista degli altri. È una persona normale, insomma. Il senso del suo volume, in sostanza, è che tutti sappiano che una vita logica – o almeno che aspiri a essere tale – è possibile. Soprattutto, che questa «non è in contrasto con la felicità». È fallace la convinzione secondo la quale, per essere sereni, occorra una dose di auto-inganno. Così come è sbagliata la mentalità da «soldato», da cui siamo tutti più o meno condizionati, rispetto a quella «dell’esploratore», cioè lo “Scout” del titolo. Il primo cerca di vincere sempre (è la mentalità evoluzionistica) e superare gli ostacoli, anche a costo di distorcere i propri pensieri. Il secondo invece esplora e costruisce man mano una mappa della realtà corrispondente al vero. È la mentalità migliore per risolvere i problemi del nuovo mondo, ma è anche quella che non sappiamo mettere in pratica. Per questo propone spiegazioni ed esercizi, distillati di teorie e piccoli corsi di probabilità e logica. L’utopia è che tutti imparino a pensare in modo chiaro, o più chiaro di prima. Ma per Julia Galef sarebbe già abbastanza soltanto il fatto che, alla fine, l’ipotesi di cambiare idea non suoni più come una sconfitta. Ma sia – come è logico – qualcosa di cui essere orgogliosi.

Giordano Tedoldi per "Libero quotidiano" l'11 aprile 2021. Cambiare idea non è facile. Con buona pace del detto "solo i cretini non cambiano idea", tutti noi siamo testimoni di quanto sia difficile ascoltare con obiettività una persona che, ad esempio, demolisce un'opinione alla quale siamo affezionati da lungo tempo. Sulle prime ci disponiamo di buon grado a ascoltare l'interlocutore, comunque già convinti della bontà della nostra tesi, e che riusciremo a confutarlo. Ma se la discussione procede per un certo tempo in una posizione di equilibrio, alla fine accade qualcosa di singolare eppure molto familiare: semplicemente cessiamo di ascoltare l'altro. Il nostro cervello sembra disconnettersi. Si va avanti a parlare, ma è un dialogo tra sordi, e alla fine ognuno se ne va confermato nella sua opinione e piuttosto seccato con l'altro che si è dimostrato così cocciuto. In realtà, sia noi che il nostro interlocutore ci comportiamo allo stesso modo, come davanti a uno specchio. Entrambi siamo vittime di quello che gli scienziati della mente chiamano «pregiudizio di conferma». Si tratta di un meccanismo attraverso il quale il nostro cervello, senza un atto di volontà cosciente, ricerca, interpreta, seleziona e soprattutto presta attenzione a quelle informazioni che confermano scelte e giudizi passati, e trascura le altre.

CHIAVE DI VOLTA. Il "pregiudizio di conferma" è un meccanismo psicologicamente decisivo per capire comportamenti in ambiti diversi come la politica, la scienza, l'istruzione. Del resto, è necessario che la nostra identità abbia, per così dire, fondamenta solide, e non possiamo permetterci di cambiare opinione alla prima considerazione avversa, o saremmo in balia della tempesta di informazioni molteplici e contraddittorie che, nel nostro mondo della comunicazione onnipervasiva, ci assediano da ogni parte. In altre parole, un certo preconcetto favorevole alle nostre scelte e valutazioni, e alle opinioni che ci accompagnano da lungo tempo, è salutare, e favorisce la formazione di una personalità ben costruita. Ma la cosa interessante è che, mentre finora il "pregiudizio di conferma" rimaneva un fatto osservato dalla psicologia, ma le cui cause scientifiche, al livello di funzionamento cerebrale, non erano chiare, ora una ricerca congiunta della City University e dell'University College di Londra getta uno sguardo dentro la nostra testa, per capire cosa accada ai neuroni quando ci impegniamo in una discussione senza voler minimamente cambiare idea. E la risposta è abbastanza sorprendente anche se, per certi versi, prevedibile: sì, il nostro cervello si spegne, si "disconnette", proprio come ci è sembrato in tante occasioni. Per essere più precisi, nella zona mediale posteriore della corteccia prefrontale, che è implicata nei processi decisionali, si è osservata una "ridotta sensibilità neurale" verso la forza delle opinioni degli altri, quando queste opinioni sono tese a confutare le nostre.

IL FILTRO. Dalla stessa ricerca è emerso che le nostre convinzioni alterano già il modo in cui ci rappresentiamo le informazioni, creando una specie di filtro "neurale" che seleziona tutto quello che favorisce le nostre idee, e sbarra tutto quello che rischia di negarle. Uno sbarramento che vediamo costantemente in atto anche in molti altri comportamenti, ad esempio il fatto che tendiamo a approvvigionarci di informazioni sempre da quelle fonti che la pensano già come noi, o che abbiamo più simpatia per quelle persone che confermano o addirittura sposano le nostre convinzioni più radicate, siano esse di natura politica, ideologica, religiosa o di altro genere. Quindi anche il detto citato ha una sua logica, solo che va invertito: non è che solo i cretini non cambino idea, è che tutti siamo in un certo modo un po' cretini, proprio sul piano del funzionamento del cervello - la famosa "ridotta sensibilità neurale" verso le opinioni dissonanti con la nostra, di cui ci parlano i neuroscienziati inglesi -, e di conseguenza ci risulta difficile farlo.

LA SMENTITA. Alla luce dello studio, dovremmo stupirci che, ogni tanto, sia pure raramente, il nostro cervello accetti di smentirsi! Immaginate che sforzo debba essere per lui abbracciare un'opinione contraria e che, dunque, è costituzionalmente incline a sottovalutare, a mettere in ombra, a screditare. La formazione di una convinzione è un processo estremamente complicato e ancora in gran parte misterioso, ma possiamo dire che una volta formata, la natura umana tende a renderla granitica. Non prendiamocela troppo con i testardi dunque, e salutiamo come eroi quei pochissimi capaci di cambiare opinione.

·        Il collezionismo.

Bolla o futuro? Che cosa sono gli NFT: i Non-Fungible Token. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. È considerata una nuova forma di collezionismo e di mecenatismo, e un mondo di altre cose, il futuro o una bolla del mondo virtuale, e sta tutta in tre lettere: NFT. Ovvero dei certificati di autenticità digitale oltre che di proprietà digitale. Si usano con più frequenza da poco più di tre anni e il mercato è al momento in crescita. NFT sta per Non-Fungible Token. Ovvero Token non fungibili, dotati di “una specifica individualità”, nuovi certificati di proprietà per opere digitali. Una rivoluzione per il collezionismo. Gli NFT vanno all’asta in forma di certificato di proprietà di una singola versione originale e “autenticata” dal creatore del contenuto. Che può essere un meme, un’immagine di quelle ricorrenti in timeline, una fotografia, registrazioni, articoli di giornale. Qualsiasi cosa insomma: informazioni digitali che fanno sì che il file a cui è associata abbia una sua peculiarità e individualità. Quindi i Token si possono comprare come se fossero un’opera d’arte. Si basano sulla blockchain, sistema informatico a nodi decentralizzati che gestisce registri di dati, della piattaforma Ethereum sulla quale si utilizza la criptovaluta Ether. La blockchain di fatto certifica la storia e l’autenticità di un file. Gli NFT possono essere acquistati sulle piattaforme Open Sea, Rarible, Nifty Gateway. Possono essere comunque comprati anche con valuta tradizionale. Stando ai dati il volume degli investimenti è di oltre 400 milioni di dollari nei soli primi tre mesi del 2021. L’anno scorso è stato di 338 milioni di dollari. Una volta acquistata l’opera, a seconda dei contratti, può essere mostrata, riprodotta, usata a fini commerciali o perfino rivenduta come succede con tutte le opere d’arte di tutti i collezionisti. Gli NFT sono infine dei file che diventano dei veri beni, dotati di autenticità e proprietà e unicità, grazie a una firma. Di solito l’acquisto non comprende il copyright e l’acquirente non può reclamarne i diritti d’autore o deciderne gli usi. Il più grande fondo di NFT del mondo è considerato essere Metapurse. Lo stesso che ha comprato l’NFT più famoso a oggi: Everydays – The First 5000 Days, un collage di cinquemila opere digitali realizzate dal designer Beeple, per 69,3 milioni di dollari. Un file JPEG. A far discutere è anche il funzionamento della blockchain che ha un impatto ambientale altissimo richiedendo molta elettricità ricavata spesso e volentieri da fonti di energia non rinnovabili. Spesso si parla di bolla: a proposito della volatilità dimostrata in certi casi dalle criptovalute e dal successo presunto o improbabile che possano avere opere non tangibili. Per altri osservatori gli NFT sono solo all’inizio della loro storia e potrebbero anche essere una via efficace per riconoscere valore a opere e contenuti digitali. Secondo alcuni in futuro potrebbero essere usati per acquisti all’interno del mondo virtuale: dai videogiochi alle sfilate di moda. Qualsiasi cosa insomma.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

C’era una volta il collezionismo filatelico. Addio alla filatelia, fermo immagine del mondo che fu. Fulvio Abbate su Il Riformista il 6 Ottobre 2021. C’era una volta il collezionismo filatelico. C’era. Come il pensionato della canzone di Guccini, l’uomo che vende francobolli a Porta Portese, è seduto in attesa dei clienti, dietro il suo banchetto, nell’eterna domenica commerciale romana. “Da quarant’anni, pensi!”, racconta, “sono proprio quarant’anni che sto qui”, dice, mostrando l’aldilà della sconsolata certezza che, a dispetto della sua presenza immancabile, il collezionismo filatelico è ormai morto. Al cliente, se mai dovesse presentarsi, offrirebbe, imbustate, alcune tra le più straordinarie serie che le Poste italiane abbiano mai offerto al mondo delle lettere, assai prima che giungessero le e-mail e, appunto, i telefonini: “l’Italia al lavoro”, la “Democratica”, la “Siracusana”, la serie per ricordare i vent’anni della Resistenza. Sul trapasso della filatelia, l’uomo non ha dubbi: “Signore mio, è stato proprio con l’arrivo dei cellulari che il collezionismo filatelico è finito”. Aggiunge che “di trenta negozi presenti un tempo a Roma ne rimangono quattro”. Vero, sconsolatamente abbandonate le vetrine di quello che si trovava in via delle Tre Cannelle, proprio di fronte a dove venne girata la scena del sopralluogo alla carbonaia ne “I soliti ignoti”. I francobolli, erano, a loro modo, cinema a un solo fotogramma; ogni collezionista conosceva i nomi degli artisti, degli incisori che li realizzavano, e i colori esatti, metti, della “Michelangiolesca”. 1 lira grigio: figura degli ignudi, 5 lire arancio bruno: figura degli ignudi, 10 lire arancio vermiglio: figura degli ignudi, 15 lire lilla: Profeta Gioele, 20 lire verde mirto: Sibilla Libica, 25 lire bruno: Profeta Isaia, 30 lire grigio violetto: Sibilla Eritrea, 40 lire rosa carminio… Ai miei occhi, esteticamente parlando, il tracollo giunge con il francobollo dedicato al traforo del Monte Bianco, lire 30, nel 1965. Non è però questo il punto, un mercante di queste merci, anni addietro raccontava che al collezionista importa poco il “volto” del francobollo, semmai il suo plusvalore; come i lingotti da tenere in cassaforte. Forse è il caso del primo francobollo della storia, il “Penny Black”, emesso nel Regno Unito il Primo maggio 1840. Restando in Italia, ancora adesso, per chi ne ha memoria, occorre semmai ricordare il “Gronchi rosa”, dichiarato “non emesso”, colpa o merito di un errore sui confini del Perù. Valore attuale “circa mille euro l’esemplare nuovo con la gomma integra, circa 500 euro i pezzi senza gomma provenienti dalle affrancature delle buste intercettate e ricoperte con il grigio. Quanto alle buste, valgono fra intorno agli 800 euro, a seconda di qualità e conservazione,” riporta un articolo apparso per i sessant’anni dell’evento fortunoso. Quel francobollo figura anche nelle trame golpiste del Sifar del generale De Lorenzo, 1964. L’anziano venditore romano scuote ora la testa, sconsolato, spiega che un “foglio”, tra quelli che offre, “una volta sarebbe costato diecimila lire, mentre adesso vale appena un euro”. Aggiunge che ai giovani nulla interessa della filatelia, “e poi ormai i francobolli li fanno adesivi!”. Volteggiano definitivamente nel cielo della memoria le originarie filigrane stella o ruota alata. Peccato che “in Germania, per esempio – garantisce sempre il venditore – la filatelia è ancora viva, i collezionisti ci sono, forse anche tra i giovani”. Infine ribalta i ruoli: “Scusi, quando è nato lei? Pensa davvero che i suoi figli avranno interesse alla collezione che ha in casa? A tutte le emissioni, non bollate, dell’Italia repubblicana, alle ‘quartine’, alle ‘buste primo giorno emissione’ che custodisce?” La sensazione di un mondo già svanito; pure le schede telefoniche, fino a qualche anno fa, insieme alle figurine, oggetto di desiderio, appartengono al medesimo limbo. Cinema a un solo fotogramma, dicevamo. Così viene in mente, chissà perché, il francobollo dedicato nel 1961 a Plinio il giovane e quell’altro, tre anni prima, a Ruggero Leoncavallo, o la serie quasi cubista per il “cinquantenario della vittoria” del 1968: l’aereo di Baracca, il sacrario di Redipuglia, il mosaico dorato del Vittoriano, alle spalle della tomba del Milite Ignoto e dei fanti o Lancieri di Montebello che lì montano di guardia, gli stessi che Benigni immortala in un film; lire 180. “Non ha capito che la memoria non interessa più?”, conclude il suo requiem. La memoria è ritenuta un ingombro, da tardo neorealismo infine tramontato. Difficile immaginare oggi un ragazzino che sul tavolo da pranzo, dopo avere fatto incetta di francobolli, li guarda ritenendo di custodire un tesoro, oppure fa caso, metti, al profilo virato grigio di Francisco Franco su una cartolina spedita dalla Spagna dagli zii in vacanza oltre quarant’anni prima, gli stessi che porteranno un souvenir di nacchere e banderillas. Che stupore però davanti ai pezzi della Repubblica di Weimar, su quei francobolli c’è addirittura modo di leggere un valore di 10 miliardi, causa l’inflazione. Una lettera che nel gennaio 1923 costava 10 marchi, il 10 ottobre avrebbe visto raddoppiare il costo del francobollo a 2 milioni di marchi per giungere infine, sotto Natale, a 50 miliardi di marchi. Tutto vero. In una possibile storia sentimentale della filatelia e dei valori bollati, ricordando anche un saggio di Federico Zeri, su “grafica e ideologia” dei francobolli italiani “dall’origine al 1948”, c’è da fare ritorno all’emozione dell’attesa delle lettere: scorgerle finalmente, al mattino, nella propria buca dava l’idea che dai francobolli pulsasse sentimento, apparivano radiose le buste stesse: in alto a destra la serie delle “Fontane d’Italia”, nel 1973, e siamo già nel precipizio grafico della filatelia nazionale, da far rimpiangere i volti virati della “Michelangiolesca” o “L’Italia al lavoro” del 1950: la “raccoglitrice di arance” per la Sicilia, le “olive” per la Basilicata, il “carro a vino” per il Lazio, il “timone” per il Veneto, a ciascuno il suo attrezzo nel paese ancora rurale e insieme culla di santi. L’Italia che nel Palazzo dei Concorsi di Roma innalza i nomi di Dante, Leonardo, Galilei, e c’è da immaginare l’esaminando sentire la propria piccolezza al cospetto dei geni evocati nel marmo. Altrettanta emozione grafica giunge, perfino a dispetto del fascismo, nella serie per il “Decennale della marcia su Roma”: il 20 centesimi, rosso, filigrana corona, afferma che “I bimbi d’Italia si chiaman Balilla”. Nel Purgatorio dei francobolli, forse, tutti gli esemplari venuti al mondo, idealmente dimorano accanto al triplano del Barone Rosso che, sempre un tempo, gli appassionati di modellismo montavano dopo lo “Spirit of St. Louis” di Lindbergh, così nell’Italia domestica presidiata dai lampadari di alabastro sopravvissuti alla guerra e ai suoi bombardamenti.

Chi ci ridarà più le stesse emozioni della “Siracusana”? Conforta che negli ultimi anni la nostra filatelia, sebbene non esistano più i disegnatori dal pennino acuminato delle origini, ricordi di tanto in tanto i grandi nomi della letteratura: Dino Buzzati, per esempio, è lì con un 0,60 centesimi apparso nel 2006; peccato che l’autore che l’ha disegnato non abbia scelto per onorarlo un suo spettrale disegno; peccato davvero perché sarebbe stato un ex voto a grazia mai ricevuta per la sopravvivenza della filatelia stessa.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

·        I Tatuaggi.

Perché i tatuaggi a colori non scompariranno. Eleonora Mureddu il 19 dicembre 2021 su Today. L'allarme tra gli amanti dei tattoo circola da giorni, alimentato da alcune news imprecise. Ecco perché l'Ue ha imposto una stretta (per la salute), ma non l'obbligo del "bianco e nero". "Dal 2022 i tatuaggi in Europa saranno solo in bianco e nero". È questa, in sintesi, la notizia che sta circolando da giorni su media e social, alimentata da notizie forse un po' imprecise, titoli e post forzati (o scarsamente informati). Il tutto condito dalla classica accusa all'Unione europea e ai suoi vincoli, dato che il presunto addio ai colori sulla pelle è frutto di una normativa varata da Bruxelles nel dicembre del 2020. Ma come stanno realmente le cose?

Stando alle norme che entreranno in vigore a partire dal prossimo gennaio, in tutta l'Ue sarà vietato utilizzare per i tatuaggi 25 pigmenti (legati alla produzione di diverse tonalità di rosso, arancione e giallo) e verranno introdotti limiti massimi di concentrazione nei colori per alcune sostanze come coloranti azoici e ammine aromatiche cancerogene, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), metalli e metanolo. In altre parole, molti inchiostri diventeranno non conformi e quindi legalmente inutilizzabili secondo i regolamenti Ue. Poi, a partire da gennaio 2023, saranno vietati anche altri pigmenti, relativi al blu e al verde. Questo avrà inevitabilmente un impatto su molti altri colori, ottenuti mescolando diverse tonalità. Fino a questo momento non esisteva nessuna normativa che regolamentasse questo settore, ma solo linee guida, stilate in due risoluzioni (una del 2003 e una del 2008) che indicano i criteri di valutazione per la sicurezza negli inchiostri per tatuaggi. Recenti studi scientifici hanno però dimostrato che in tanti inchiostri per tatuaggi in commercio sono presenti sostanze che "oltre ad allergie e problemi della pelle", spiega la Commissione, "possono causare altri effetti negativi sulla salute, come il cancro". Ma questo significa la fine dei tatuaggi colorati? In realtà, hanno spiegato diversi esperti, si tratta di una mezza bufala. Già oggi, esistono degli inchiostri alternativi che possono essere usati nel rispetto delle nuove norme Ue e che non contengono le sostanze messe al bando. I professionisti dovranno adattarsi e trovare nuove tonalità di colore con le sostanze disponibili sul mercato. Secondo quanto riportato alla Rtbf da Davy D'Hollander, amministratore delegato di TekTik, il principale fornitore belga di materiali e inchiostri per tatuaggi, questo divieto non rappresenta un vero problema in quanto esistono "altri pigmenti che daranno gli stessi colori e che non sono sulla lista delle sostanze vietate". Gli unici due colori per cui non esiste una valida alternativa sono il Pigment Blue 15:3 e il Pigment Green 7. Ma per questi colori, l'Ue ha concesso un anno in più per consentire ai produttori e ai tatuatori di trovare delle soluzioni. Il bando di queste sostanze, del resto, non è arrivato dall'oggi al domani. La storia è iniziata nel 2015 quando l'Ue ha chiesto all'Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) di valutare i rischi per la salute delle sostanze contenute negli inchiostri. Dopo cinque anni di lavoro l'ente ha concluso le sue ricerche proponendo che le sostanze che già erano vietate nei cosmetici vengano vietate anche negli inchiostri, che vengano messe al bando tutte le sostanze considerate come tossiche o cancerogene e che per le sostanze irritanti o corrosive venga fissata una soglia dello 0,1 per cento.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 21 novembre 2021. Quante ne ha viste, nella sua carriera, il criminologo Vincenzo Mastronardi, «una volta - racconta - andai persino a fare un corso agli esorcisti». Una vita, la sua, passata a studiare il male, spesso barcamenandosi tra grandi demoni e poveri diavoli. L'ultimo degli oltre trenta libri che ha scritto s'intitola I segreti dei tatuaggi criminali ed è il risultato di una ricerca partita nel 2013 quando era direttore del Master in Scienze Criminologiche all'università La Sapienza. Una ricerca sui tatuaggi di 80 detenuti, uomini e donne, reclusi a Regina Coeli e nella sezione femminile di Rebibbia, compiuta insieme a Giovanni Passaro, un ispettore di polizia penitenziaria con oltre 20 anni di duro servizio nelle carceri.  «Era un mio vecchio pallino - dice Mastronardi - Già nel '74, infatti, da universitario mi avventurai in una ricerca sui tatuaggi dei tossicodipendenti e notai subito la differenza a seconda che si facessero di droghe pesanti o leggere. Chi assumeva eroina o cocaina si tatuava addosso perlopiù coltelli, fucili, pistole. Chi fumava la marijuana, invece, sceglieva simboli eterei: uccellini, madonne».  E oggi? «Oggi assistiamo alla sindrome dell'uomo illustrato - dice Mastronardi - In cella c'era uno tutto tatuato: un serpentello sul pene, una lettera alla madre sulla spalla sinistra, il volto della fidanzata su quella destra. In pratica, una psicobiografia incisa sulla pelle. Perché il tatuaggio è un mezzo di affermazione personologica e nel detenuto avvia un meccanismo di fuga intrapsichica, un'evasione all'interno di sé, per uscire dal rischio dell'autodisistima. È come se grazie al tatuaggio il detenuto dicesse: io non sono il numero della mia cella, io sono la tigre, il serpente che ho su di me. Non sono un corpo ma un uomo con la sua storia». Ma la «sindrome dell'uomo illustrato», chiediamo, si può ravvisare anche in chi non è recluso? «I tatuati alla Fedez, per capirci? - risponde il prof - Non conosco Fedez, di sicuro molti di loro hanno bisogno di fare di più per sentirsi normali». Quelle di 50 anni fa, inoltre, erano scarificazioni piuttosto incerte, ottenute «col vecchio pennino a campanile», ricorda il criminologo. «Oggi invece - interviene Giovanni Passaro - i detenuti smontano il lettore cd mp3 con cui in cella ascoltano le canzoni. Il motorino del lettore, alimentato con le batterie del telecomando tv, lo collegano poi col fil di ferro al tubicino trasparente di una penna Bic, riempito con l'inchiostro liquido dei pennarelli colorati che comprano allo spaccio. Infine, applicano al tubicino un ago preso dalle siringhe dell'infermeria e avviato il motorino comincia il lavoro. Poiché i tatuaggi in carcere sono vietati, di solito c'è un detenuto a fare da "palo" fuori (di giorno le celle restano aperte) e si alza al massimo il volume della tv per coprire il ronzìo». I tatuaggi in carcere sono vietati perché ci si può infettare, contrarre l'HIV o l'epatite. Ma come si vede, chi lo vuole lo ottiene, magari scambiandolo con due pacchetti di sigarette. La ricerca è stata svolta su un campione di 50 uomini e 30 donne, in prevalenza italiani e dell'est Europa. In copertina, campeggia un'enorme farfalla tatuata sul collo taurino di un detenuto: «Un segno di libertà - dice Passaro - Così come il serpente simboleggia l'odio o la vendetta. Le croci, le madonne, i volti di Cristo servono a confortare, ma c'è anche chi si sente Dio! Una lacrima vicino a un occhio vuol dire che si è commesso un omicidio, due lacrime due omicidi». I detenuti di maggior spessore criminale, invece, i tatuaggi li evitano: con le città piene di telecamere, l'icona di un coltello può farti arrestare. «Ma pure le donne - conclude Passaro - portano tatuaggi violenti: una quarantenne italiana, dentro per traffico di droga, sfoggiava all'altezza della coscia il disegno di un reggicalze con la pistola. È tipico poi tra le detenute immortalarsi sui polsi o sulle caviglie i nomi dei genitori, dei figli, del marito. Durante la pandemia, quando i colloqui erano sospesi, i tatuaggi mostrati durante le videochiamate volevano comunicare proprio questo: l'indistruttibilità del loro legame». 

Dagotraduzione dalla Cnn il 19 ottobre 2021. Ötzi, l'Uomo venuto dal ghiaccio, è rimasto nascosto al mondo per millenni fino a quando, 30 anni fa, due turisti tedeschi l'hanno scoperto in un ghiacciaio nelle Alpi italiane. Questa mummia che ha 5.300 anni non è solo la mummia più famosa d'Europa, ma anche uno dei reperti più significativi per coloro che studiano la storia globale dei tatuaggi. Ötzi è stato decorato con 61 tatuaggi incredibilmente preservati dal clima glaciale. Il significato di quei tatuaggi è stato dibattuto sin dalla sua scoperta da parte dei due escursionisti. molti dei tatuaggi di Ötzi sono risultati essere linee disegnate lungo aree come la parte bassa della schiena, le ginocchia, i polsi e le caviglie, zone in cui le persone più spesso avvertono dolore continuo mentre invecchiano. Alcuni ricercatori ritengono che questi tatuaggi siano un antico trattamento per il dolore. Varie erbe note per avere proprietà medicinali sono state trovate nelle immediate vicinanze del luogo di riposo di Ötzi, conferendo ulteriore credito a questa teoria. Ma non tutti i tatuaggi di Ötzi sono in luoghi solitamente colpiti dall'usura della vita quotidiana. Ötzi sfoggiava anche dei tatuaggi sul petto. Secondo gli esperti questi tatuaggi, scoperti nel 2015 utilizzando nuove tecniche di imaging, possono essere frutto di agopuntura, di un rituale di guarigione, oppure indicare l’appartenenza a un gruppo religioso. Naturalmente, l'idea che i tatuaggi di Ötzi possano aver avuto un profondo significato culturale o religioso per lui e per il suo popolo non è al di là della ragione. In tutto il mondo antico e fino ai tempi moderni, i tatuaggi sono stati storicamente usati in cerimonie di guarigione, riti religiosi e per mostrare l'appartenenza a gruppi culturali e religiosi. In Egitto, i resti mummificati di alcune donne mostrano tatuaggi risalenti al 2000 a.C. Inoltre, nei rilievi tombali sono state trovate piccole statuine raffiguranti donne con tatuaggi che risalgono al 4.000-3.500 a.C. In entrambi i casi, i tatuaggi erano una serie di punti, spesso applicati come una rete protettiva sull'addome di una donna. Sulla parte superiore della coscia di una donna è stato anche trovato un tatuaggio della dea egizia Bes, la protettrice delle partorienti. Questi antichi tatuaggi erano considerati una sorta di talismano di protezione per le donne che stavano per partorire. Il primo storico greco Erodoto ha discusso di come gli schiavi fuggiaschi a Canopo si fossero tatuati volontariamente per coprire il marchio eseguito su di loro dai loro padroni e per devozione religiosa. Questi uomini e queste donne mostravano così di non essere più a servizio da un padrone terreno, ma di essersi affiliati a un certo dio o una certa dea. Nella Bibbia, Paolo, il primo apostolo cristiano dice: «D'ora in poi nessuno mi disturbi, perché porto nel mio corpo i segni del Signore Gesù». La parola originale usata per "segni" era la parola "stigmate", che è stata spesso vista, riferendosi a Erodoto, come il termine usato per descrivere le pratiche di tatuaggio. Diversi studiosi ritengono che i tatuaggi di Paolo avessero lo scopo di mostrare la sua devozione a Cristo. I tatuaggi avrebbero anche aiutato altri cristiani, che hanno affrontato la persecuzione dell'impero romano, a identificarlo come credente. Il popolo Maori della Nuova Zelanda pratica da secoli l'arte del tatuaggio di Ta Moko. Questi tatuaggi, praticati ancora oggi, hanno un profondo significato culturale e storico. I tatuaggi non solo trasmettono lo stato sociale, l'identificazione familiare e le realizzazioni della vita di una persona, ma hanno anche un significato spirituale con disegni che contengono talismani protettivi e appelli agli spiriti per proteggere chi li indossa. Molte tribù di nativi americani e delle prime nazioni del Nord America hanno una lunga storia di tatuaggi sacri. Nel 1878, il primo antropologo James Swan scrisse numerosi saggi sul popolo Haida che incontrò intorno a Port Townsend, Washington. In un uno di questi saggi ha spiegato che i tatuaggi erano più che ornamentali, e che ogni disegno aveva uno scopo sacro. Ha anche raccontato che coloro che eseguivano i tatuaggi erano visti come leader spirituali o persone sante. L'antico dio azteco del sole, del vento, dell'apprendimento e dell'aria, Quetzalcoatl, è spesso raffigurato negli antichi rilievi con alcuni tatuaggi. Lo stesso popolo azteco praticava il tatuaggio religioso, e i loro sacerdoti erano spesso incaricati di varie forme di body art. Nazioni dell'Africa occidentale come il Togo e il Burkina Faso hanno utilizzato e continuano a utilizzare tatuaggi e modifiche rituali del corpo come sacri riti di passaggio. Nei tempi moderni, si possono ancora vedere persone in tutto il mondo che portano tatuaggi sacri con significato religioso. Cosa significassero per Ötzi i tatuaggi che adornano suo il corpo mummificato rimarrà almeno in parte un mistero. Ma Ötzi è un importante promemoria del fatto che i tatuaggi sono stati, e continuano ad essere, una parte sacra di molte culture in tutto il mondo.

Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 12 aprile 2021. Opere d'arte su pelle, i tatuaggi. Segni che rimandano a culture e devozioni, e risalgono alla notte dei tempi. In Italia il primo tatuato è Ötzi: gli studiosi che l'hanno analizzato gliene hanno trovati non pochi. Simboli esoterici o disegni curativi, si sono chiesti. Forse entrambe le cose. Parte con il cacciatore di Similaun e le analisi delle sue spoglie il libro “Marchiati” di Cecilia De Laurentiis (Momo Edizioni) che, in pagine dense di rimandi bibliografici e riferimenti documentali, percorre per la prima volta la storia del tatuaggio in Italia. Anzi, del «marchio». «Il tatuaggio come lo intendiamo noi oggi, anche come nome, risale all'800, quando fummo colonizzati da questa "cultura" di origine anglosassone e circense», ci spiega lei. «Da noi storicamente era tutt' altro: segno di devozione o appartenenza, piuttosto elementare nella costruzione e - dati i tempi - fatto solo con la tecnica dell'ago o del pennino che graffia, intinto nel nerofumo diluito in qualche tipo di distillato alcolico. I disegni erano semplici, talvolta rudimentali, sempre di colore turchino». Ma non così rari come si potrebbe pensare. Nel Medioevo si «marchiavano» i Crociati e i pellegrini: era il segno della loro fede. Non a caso uno dei centri più importanti sarà sino ad anni recenti Loreto. Lo si chiami marcatura o tatuaggio, comunque, dall'antichità ai giorni nostri la tradizione di disegnarsi la pelle si è sempre mantenuta, seppure segreta e nascosta. Sant'uomini, quindi, ma anche carcerati, marinai, criminali. Amanti, al più. Era legato a luoghi segregati e sottintendeva l'appartenenza a un gruppo ristretto. Superati i millenni, è nel Novecento che arrivano i «tempi bui»: Lombroso elegge il tatuaggio a segno inequivocabile di devianza criminale e atavismo regressivo; pubblica studi oggi considerati ben poco scientifici ma che allora ebbero rilevanza internazionale, diventarono parametro di riferimento in tutto il mondo occidentale (e tali ancora sono) e di fatto condannarono questa pratica (Torino, che ospita il Museo e l'Archivio Lombroso, per i materiali che conserva continua a essere uno dei maggiori centri di studio del tatuaggio a livello mondiale). Il fascismo arriverà a proibirli, pur tatuandosi orgogliosamente le camicie nere coi i truci simboli del movimento e il faccione del Duce. Negato, condannato, proibito, vituperato, solo in tempi molto recenti il tatuaggio ha smesso di essere considerato segno di emarginazione e infamia, ma è ornamento da esibire e vantare. Una moda che ha portato con sé anche esagerazioni. «Fino a ieri "arte degenerata", il tatuaggio fa parte a pieno titolo della cultura contemporanea. È un gesto importante e non scontato. In quelli che ho, c'è la mia vita: non la sua narrazione, ma un preciso clima esistenziale. Sono un memento. Sbagliano quei genitori che lo permettono ai figli adolescenti. Il tatuaggio va pensato. Vivrà con te, sulla e con la tua pelle, invecchierà con te. Farlo su impulso significa banalizzarlo. E invece è magia: il sangue che esce, il dolore, la ritualità del gesto». Nipote di uno scultore, la famiglia attraversata da una non sotterranea vena artistica, malgrado appartenga alla generazione che ha fatto del tattoo una pratica di massa esibita sempre meno ribelle, Cecilia De Laurentiis a tatuarsi è arrivata relativamente tardi: più che ventenne, ormai iscritta alla facoltà di Storia dell'Arte. Un percorso che l'ha portata ad approcciarsi alla sua passione in modo accademico da una parte e con una prospettiva artistica dall'altra: ricercatrice universitaria e studiosa, tatuata e tatuatrice. «Frequentavo la scena underground romana: non potevo ignorare questo fenomeno e i suoi artisti». Ma all'inizio c'era un certo timore. «Il passaggio da punk a tatuato sembrava obbligato. Ma io rifiutavo l'idea di un disegno che avrebbe segnato la mia pelle per sempre. Poi ho compreso che era tutto legato a come vivevo il mio corpo». Superato il blocco, «mi sono fatta io stessa un cuoricino piccolissimo su una gamba. Sono stata la cavia di me stessa». È stato il primo dei tanti disegni che ha su tutto il corpo: sempre più complessi e colorati, ne ha perso il conto. Non li fa più da sola, ora. Le piace, ci confessa, «farli fare a quegli artisti di cui amo il tratto e lo stile». Il corpo trasformato in una personale galleria d'arte, in un piccolo museo a fior di pelle.

·        La Moda.

La scoperta dell’eleganza. L’arte di insegnare a vestire a chi non possiede uno stile. Marco Mottolese su L'Inkiesta il 9 dicembre 2021. Nella sua prefazione al libro di Massimo Piombo (La Nave di Teseo), l’imprenditore Marco Mottolese racconta l’amicizia con lo stilista, fatta di consigli ed esperienze condivise: dalle prime trasformazioni del suo look fino a sviluppare il piacere di sapere sempre cosa indossare. Mia madre si lamentava di come mi vestivo: «Marco, ma perché non prendi esempio da tuo padre, un uomo elegante, che tiene al suo aspetto?» questo mi diceva in continuazione ma io non è che proprio capissi del tutto cosa intendesse, considerando che era l’unica persona che si preoccupava del mio modo di vestire , preoccupazione che io consideravo superflua e dunque mi sembrava strano che qualcuno, foss’anche mia madre, notasse i miei pantaloni, osservasse le scarpe, criticasse lo stato delle mie giacche. Per me, vestirsi, all’epoca, era come mangiare – una pietanza valeva l’altra – il problema di selezionare con attenzione come nutrirsi o vestirsi non mi sfiorava, dovevo solo sfamarmi e coprirmi, io avevo ridotto all’osso le necessità. Insomma, col senno di poi, mi trovavo all’interno di un banale screzio generazionale che credo non facesse particolarmente male né a lei né tantomeno a me, e forse era un modo inconscio per tenerci in contatto. Io e mia madre non vivevamo nella stessa città per cui ci vedevamo di tanto in tanto e, ogni volta che questo accadeva, la tenera lamentela riprendeva il suo spazio per poi sfumare rapidamente, perché i figli maschi sanno come ammansire le proprie madri, come ammorbidire le loro pretese, come spingerle delicatamente a trasformare una critica in pregio perché, al di là del classico proverbio dello “scarrafone”, solo le madri sanno guardare dentro un figlio e intuire che, probabilmente, ciò che a loro appare sbagliato potrebbe trasformarsi, prima o poi, in un valore. 

«Marco ma cosa hai fatto? Oggi ricordi un lord inglese, non ti ho mai visto così elegante ma, soprattutto, così “vestito”, nel senso che stamattina hai davvero pensato a cosa metterti». Era una delle volte che tornavo da lei per salutarla e sembrava folgorata dal mio abbigliamento.

«Mamma, ho conosciuto uno stilista, anzi, direi più uno che inventa abiti, si chiama Piombo. E, insomma, mi ha invitato da lui e mi ha regalato un sacco di cose perché dice “che gli sto simpatico” allora io ho esagerato e me ne sono approfittato… giacche, camicie, pantaloni, mi ha regalato cose che non mi sarei mai comprato, non sai quante incredibili cravatte ecco, che te ne pare?»

«Marco, io non so chi sia questo tuo amico che ha un cognome così strano, però il signor Piombo ha una bacchetta magica secondo me, oggi sei sempre tu ma anche un altro».

Mia madre, era evidente, non credeva ai suoi occhi e, in parte, anch’ io ero abbastanza stranito. Come un bambino ingordo avevo fatto una scorpacciata di “cose” Piombo andando nel suo magazzino in collina, in Liguria, ed effettivamente era la prima volta che mi sentivo “addosso” qualcosa che poteva attirare gli sguardi degli altri e, a ogni specchio che incrociavo, me la gettavo un’occhiata furtiva per vedere se c’era sempre il Marco che conoscevo oppure mi stavo effettivamente trasformando in ciò che mia madre aveva sempre desiderato: un uomo elegante. «Marco mi daresti l’indirizzo di questo Massimo Piombo, vorrei scrivergli due righe per dirglielo che produce degli abiti bellissimi».

Stupito, ma fino a un certo punto (mia madre era una donna originale), le fornii l’indirizzo del mio nuovo amico e non pensai più a quella richiesta anomala.

«Marco ciao», era Piombo dall’altro capo del filo, «mi ha scritto tua madre». L’imbarazzo mi assalì: conoscevo Massimo da pochissimo tempo e il fatto che mia madre si fosse intrufolata tra di noi un po’ mi metteva a disagio, e ancora non sapevo cosa gli avesse scritto. «Ascolta, è troppo simpatica, ti leggo il bigliettino: “Gentile signor Massimo Piombo, io non la conosco se non di nome però la devo ringraziare; in pochissimo tempo lei è riuscito a vincere al mio posto quella che io, ormai, consideravo una battaglia persa. Marco, da quando la conosce, è diventato una persona elegante, ma non di quella eleganza che magari trasfigura una persona, no, ora lui si veste come dovrebbe vestirsi uno che si chiama Marco ed è mio figlio, cioè si veste come avrebbe sempre dovuto fare ma io non riuscivo a farglielo capire; lei è riuscito in questo intento e io gliene solo grata. Per sempre. Miranda”».

Ora, è evidente che all’origine di certi rapporti duraturi ci sono big bang insospettabili, coincidenze incredibili, avvicinamenti già scritti prima di accadere ma che non tutti riescono a leggere prima eppure, nel nostro caso – mi riferisco al rapporto tra Massimo e me – dopo un esordio del genere, in questa triangolazione anomala che mi diede da pensare, sembrò naturale non solo diventare amico di Piombo ma condividere con lui – a volte solo per sederci insieme sulla spiaggia di Varazze e guardare le onde – tutto il tempo che potevamo.

Lui e io siamo molto diversi, ma sentimmo da subito che ci completavamo e in questo riassumerci vicendevolmente intuivamo che c’era qualcosa che ci faceva bene. Lui mi ha trasformato in una persona che, da un certo punto in poi della propria vita, aveva iniziato a raccogliere commenti del tipo «ma dove hai preso questa giacca pazzesca? Chi ti fa le camicie che si notano prima ancora di vedere te? Ma come sei elegante oggi, hai un appuntamento che non vuoi dire?»

Queste alcune delle frasi che mi sentivo ripetere sempre più spesso e io ero orgoglioso e mi chiedevo quale fosse il segreto di Massimo. Lui, invece, si faceva raccontare da me cosa succedeva in libreria, quali fossero i libri del momento e spesso mi chiedeva di leggergli dei versi, miei o di altri, perché, diceva, «mi ispirano».

Così si mise in testa di scrivere, di leggere tutti i libri che gli consigliavo (e spesso – testa dura – anche quelli che, per professione, gli ingiungevo di evitare) e così avvicinarsi al mio mondo come io mi ero avvicinato al suo. Io “leggevo” le sue giacche, lui “indossava” i miei testi e così la nostra amicizia non finiva mai il carburante, perché le idee che maturavano tra noi, come frutti ribelli, dunque fuori stagione, erano addirittura troppe e con gli scarti di esse passavamo le notti a capire come mettere insieme i nostri due mondi, apparentemente distanti, ma grazie alla nostra amicizia vicinissimi.

Massimo ha sempre avuto una capacità straordinaria di decidere, in un attimo, quale sia la cosa giusta da fare. Mi ha sempre attirato questa sua sicurezza, che si trattasse di stoffe, di colori, di vetrine, di immagini per le copertine dei libri che facevamo insieme soprattutto per divertirci e che finivano nelle tasche delle sue giacche come fossero la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno; girando insieme per mercatini individua ben prima di me il capo vintage utile perché, un pezzo bello del passato, mi ha sempre detto, «altro non è che la staffetta che ci porta nel futuro», e così mi ripete come un mantra, da quando ci siamo trovati, che il suo unico sogno è «vestire tutti» e che dunque ha come massima aspirazione l’essere pop, come una rockstar. Come Bob Dylan.

Quando iniziò a scrivere sui giornali vedere la sua firma un po’ mi inorgogliva; io sapevo che quello che scriveva era anche frutto delle nostre interminabili chiacchierate, ma mentre lui riusciva a saltare il fosso della sua specializzazione, scrivendo, io più che indossare i suoi capi non riuscivo a fare, perché non avevo la stoffa per occuparmi di stoffe. Certo, sono sempre stato un apostolo delle sue manifatture, credo di aver avviato a “vestirsi Piombo” decine di miei amici o anche solo conoscenti occasionali sui quali faceva colpo il mio abbigliamento (ma era utile anche per farmi notare, come no), innescando così una viralità che neanche i social. Qualcuno, al corrente della nostra amicizia, avrebbe potuto pensare che tra noi potesse far capolino l’invidia e, invece, questa non è mai entrata nel nostro rapporto; Massimo a suo tempo mi aveva reso elegante, in qualche modo per sempre e, soprattutto, aveva reso felice mia madre.

Dalla prefazione a “VVV Vestire viaggiare vivere”, di Massimo Piombo, La Nave di Teseo, 2021, pagine 144, euro

Tom Ford. Paola Pollo per il “Corriere della Sera” il 13 novembre 2021. «Mister Ford riesce a rispondere solo a domande sul libro. È un momento molto delicato». Lo proteggono le persone che gli stanno accanto: un paio di mesi sono nulla. Ma così saranno anche gli anni che verranno. Il dolore si beffa dei meccanismi di protezione. Il 21 settembre a Los Angeles si è spento Richard Buckley, il marito di Tom Ford: 35 anni di vita insieme.  Succede da subito, dopo i complimenti per il successo della collezione di New York, quel nodo in gola che sale: «Mi mancano l'Italia e l'Europa. Ho così tanti bei ricordi di Milano: vivere lì è stato uno dei periodi più felici della mia vita. Poi ci siamo in trasferiti in America, per la salute di Richard...». 

Che cosa si aspetta da questo libro?

 «È un capitolo della mia vita, gli ultimi 15 anni di lavoro, che non avevo mai raccontato. E poi ne ho appena compiti 60: mi è sembrato il momento giusto per guardarmi indietro. Nella moda non lo facciamo mai, finita una collezione pensiamo subito a quello dopo e non ci rendiamo conto di tutto quello che siamo riusciti a raggiungere. Quando ho messo insieme questo libro, mi sono stupito, io per primo di tutto, quello che ho costruito con il mio brand in 15 anni: un gran bel capitolo. E ora posso andare avanti col prossimo che, lo so già, sarà diverso, visto quello che è successo nella mia vita personale».  

E di nuovo quel nodo che sale e gli lascia un flebile filo di voce. 

«Mettere le cose in capitoli»: la perfezione di Tom. 

«È così sin da quando ero piccolo: una cosa fuori posto sul tavolo mi mandava fuori di testa. Direi che con l'età sono solo migliorato, sono meno ossessionato. Capace anche di pensare "vabbè non sarà mai perfetto ma non importa, e poi se lo fosse durerebbe solo 5 minuti". Mio figlio è però la perfezione assoluta della mia vita. Ed è anche la più importante. Amo il mio lavoro. E amo Richard, ma la cosa che amo di più al mondo è crescere Jack». 

Un libro che è una raccolta di foto, nostalgie? 

«No. Ma tanti ricordi che riaffiorano. Come quella cena con Karl Lagerfeld: avrò avuto 38 anni, la mia carriera era al top con Gucci prima e poi Saint Laurent. Ricordo che gli dissi che non provavo nulla, malgrado tutto andasse bene e la gente mi trovasse fantastico. Ma io non sentivo nulla. Lui mi rispose "non sentirai nulla fin quando non ti volterai e realizzerai quello che hai fatto" ed è vero! Riguardare indietro mi ha reso più fiero di quanto sia mai stato negli ultimi 15 anni». 

Nell'intervista introduttiva del libro è molto critico, su come andò in Gucci e poi in Saint Laurent. 

«Una delle cose che ti puoi permettere con l'età è essere molto onesto. Io lo sono stato. La rottura con Gucci è stata molto traumatica e deprimente: pensavo che sarei stato lì per il resto della mia vita. Non c'era nulla prima di me, né sfilate, né collezioni. Ho fatto tutto io: ero molto fiero e sentivo aver dato molto di me. Detto questo, nel libro l'ho scritto: oggi chi mi sveglia tutte le mattine e mi dà pace è Alessandro (Michele ndr ). Adoro quello che fa e mi fa stare bene sapere che ha successo. Lui è adorabile. L'ammirazione per lui mi ha in qualche modo distaccato da Gucci. È stata una sorta di terapia psicologica. Come forse anche un po' questo libro».  

E il «suo» smoking di velluto rosso rieditato da Michele non l'ha indispettita? 

«L'ho trovato il modo più sincero di farmi i complimenti. L'ho amato subito». 

Lo scatto che più ama? 

«Forse Jay-Z in concerto mentre cantava la canzone che mi aveva intitolato. Surreale eh? Ma sentire migliaia di persone che urlavano Tom Ford fu fantastico e potente».  

Dove cerca oggi la sua leggendaria bellezza? 

«Ovunque. É che a volte le persone ci passano sopra. Ma osservare è uno dei grandi piaceri della vita, è il mio stimolo».  

I social però «levigano» tutto. 

«Seguo Instagram solo perché è importante essere contemporanei ma penso che ognuno presenti lì una versione molto artificiale di se stessi. Così come è facile se guardi IG che la tua vita non sia abbastanza interessante, che non sia glam, che tu non sia abbastanza alto o magro o bello. Ti può rendere molto insicuro. Sicuramente nei teenager che crescono ma anche negli adulti. Tuttavia non puoi combatterlo, è il mondo di oggi. Che condiziona non poco: per esempio accattivano di più le collezioni colorate perché su Ig le persone vestite così piacciono di più. Per questo penso che la nostra percezione di bellezza sia diventata quasi un cartone animato. E la causa sono, sì, i social». 

Tom Ford regista?

 «Muoio dalla voglia, sì. Pensavo che durante il Covid ci avrei pensato, che sarei stato creativo e invece mi sentivo triste e depresso: è stato terribile. E non ci sono riuscito, ma vorrei, si».  

Tom Ford papà, nel libro c'è la foto Jack, quando aveva 4 anni, ora ne ha 9. 

«Beh io sto molto tempo con Jack, preferisco cresca con una vita normale, lontano dai riflettori, per questo non erano mai uscite sue foto. Mi sveglio presto la mattina per fargli la colazione, lo porto a scuola, ceniamo insieme tutte le sere e guardiamo la tv o giochiamo. Siamo molto simili. Penso di essere un bravo padre. È la mia priorità e sto facendo del mio meglio. Credo che il nostro rapporto diventerà sempre più forte ora che sono un genitore single». 

Quirino Conti per Dagospia il 23 agosto 2021. Per una giovane anima bella residualmente ancora appassionata di Stile (quale drammatica intempestività!), sarà davvero difficile immaginare le gigantesche moli di documentazione che anno dopo anno, con continuità, sono state collezionate da quanti, per vizio o per mestiere, la Moda l’hanno praticata. Migliaia di faldoni e testi di ogni genere che, per i più prodighi e assatanati – come nel caso dell’intossicato Karl Lagerfeld –, arrivavano a vere cubature di materiale cartaceo in ogni idioma possibile: quando la Moda sembrava essere il nuovo oppio dei popoli e divini parevano coloro che la maneggiavano. Un accumulo, dunque, depositato in decenni di “mascherature” di ogni genere, cristallizzato in stratificazioni per ere e cicli. Poi, il virus. E quel colto arredo da bibliofilo, per pura disperazione (dopo che si era letto di tutto, persino Le Noeud de vipères del mitico Mauriac), finì per attrarre con il fascino di un deposito arcano: sperando in chissà cosa, come fossero tavolette ittite contenenti una criptata Verità. Per le scaffalature “de mulieribus”, niente di nuovo. Tutto come da copione, essendo argomento consolidato e con ritualità immutabili da qualche centinaio di anni. Fino a un certo appuntamento con il destino, corrispondente più o meno alla Milano socialista e gaudente. Lì tutto sembrò impazzire con pagine di un servilismo ignobile, a vantaggio della più cinica volgarità: persino la grafica parve dover mutare, con rozzi citazionismi per quanti non miravano che al più classico business pubblicitario. Tanto che finanche Armani, il Magnifico, in quel cumulo di ignominie sembrò un innocente catechista che ancora si interroghi sul sesso degli angeli. Comunque, con Prada si trovò l’antidoto: tanto severo e amaro, quanto velenosa era stata quell’ubriacatura. Infine l’ultimo Gucci, e le pagine si fecero concettualmente severissime, come composte da un filosofo nichilista. Fu così che, da una stagione all’altra, tanti “nomicchi” sparirono da quei cataloghi patinati dopo aver impiastricciato di sciocchezze il proprio ciclo da epigoni. Spariti, persi nel nulla. Irrintracciabili. Il bello – si fa per dire – arrivò alla scaffalatura con la scritta “de viribus”. Mai recensiti prima in tali dimensioni – e dunque dentro un linguaggio sperimentale quanto mai ambivalente, se si era abituati a schiere di maschi in sobrie parate militari e virilissimi spiegamenti sportivi –, qui la migliore gioventù era catturata dentro schemi formali da cataloghi di sfrontata esibizione sessuale. Con branchi di ragazzotti riconoscibili, sempre loro, stagione dopo stagione, tanto estranei a un ruolo almeno simmetrico a quello femminile, quanto perfettamente a proprio agio solo nella ridanciana, immatura allusione al più torbido lenocinio. Da secoli superata l’idea di modelle come merce facile, e ormai levigate dai Grandi come creature perfette simili a porcellane (anche nei cicli più trash), restava per il maschio all’alba degli anni Novanta la solitudine di una fisionomia sul bordo di un meretricio a qualche centinaio di migliaia di lire; convinti dallo stilista (finalmente padrone di così tanto materiale maschile) a inimmaginabili trasposizioni, sottoposti a ogni angheria estetica, eccole lì, queste giovani prede, ad ammiccare sorrisi e piccoli bronci con barbe mal rasate (se a beneficio di una collezione machista) o penose depilazioni (quando aspiranti al femminino). Passivi, immobili nel cuore, persino nell’assoggettarsi a parti e ruoli imposti dal direttore artistico di turno, parti e ruoli peraltro recitati da cani, come un tormento per quel che restava della loro dignità. Ilari per contratto (una incontenibile stilista era terribilmente severa su queste forzate risate a comando), in una bellissima età devastata brutalmente senza ombra di futuro. Gentili fino all’affettazione pur di poter lavorare, mentre il créateur, nell’uscita finale, con un buffetto troppo promiscuo esprimeva tutto il suo potere su quell’harem di guitti arrivati da ogni parte del mondo. Una stagione dopo l’altra se ne riconoscono ancora nomi e lineamenti: questi, ma anche quelli, sciupati dalla stanchezza e da un uso che non perdona. Ma chi erano davvero? Cosa li portava in quegli anni in certe agenzie per poche lire, cosa ne sarà stato di loro? Per le modelle, la leggenda vuole che ci sia quasi sempre un buon futuro all’orizzonte. Ma per loro? Cosa può essere garantito a questi innocenti portatori di ridicolaggini estetiche dopo quel quarto d’ora di passerelle, sudaticci e con problemi di alloggio? Neppure, salvo gli Armanoidi, tutelati dalla qualità delle immagini, sciatte e volgari per il tocco decisivo dell’immancabile proprietario del marchio, che mai avrebbe rinunciato al massacro di una sua già spietata creazione: specie in zona inguinale o in immancabili mutande (frequentatissima l’ideona di una rosa rossa tra le labbra). Comunque, se mai il tempo conserverà queste costose pagine, quale strazio per i nostri eroi di un momento: che conobbero un’epoca di invidiati stilisti e ora devono ritrovarli come imperdonabili paraninfi. 

La moda anni '50: perché ha fatto la Storia del look. Angela Leucci l'11 Agosto 2021 su Il Giornale. Un excursus sulla moda anni '50: ecco come vestivano le donne negli anni del boom economico, spesso ispirandosi alle attrici del cinema. La moda anni '50 vive di tanto in tanto un revival, in particolare su alcuni dettagli relativi ad abbigliamento e accessori di quegli anni straordinari. Fu infatti un tempo di prosperità per il Nord e l’Occidente del mondo: dall’Italia del boom economico (e del baby boom) agli Stati Uniti del grande cinema con Marilyn Monroe e James Dean, fino al Regno Unito che iniziava a conoscere la sua nuova regina, Elisabetta II. I fatti storici si sono tradotti spesso in tendenze e fenomeni della moda: mentre in Italia l’industria della moda inizia a rifiorire dopo la guerra, diventando leader mondiale del buongusto e dello stile, le donne più in vista a livello internazionale, da Elisabetta a Marylin, passando per Grace Kelly e Brigitte Bardot indossano capi che vengono ammirati e copiati dalle donne di tutto il mondo. Il revival di questi capi è legato all'idea degli anni '50 come mitica età dell'oro, culturalmente ed economicamente parlando, ma anche all'effetto nostalgia che questo abbigliamento ricrea tra le generazioni over 60.

Moda anni '50: la vita stretta e le riprese. Gli anni '50 sono anche gli anni delle maggiorate e non solo al cinema: anche le donne che non appartengono al mondo dello spettacolo mettono in evidenza in questi anni seno e fianchi, sottolineando delle forme “a clessidra”, a volte reali, altre volte solo apparenti. Tutto merito dei vestiti e in particolare della vita stretta e alta sia per gonne che per pantaloni femminili, le camicette che non fuoriescono mai dal capo di sotto, maglie e camicie con doppia ripresa sul décolleté. È in un certo senso il trionfo della femminilità più atavica: la donna clessidra, come nell’arte preistorica, rappresenta l’idea di prosperità, di ricchezza, di benessere. Anche le scollature iniziano a essere molto profonde, con tagli diversi: quadrata, a V, a barca o rotonda per lo più.

Moda anni '50: le gonne a campana. Non sempre però i fianchi ampi, molto presenti nei diversi tagli di pantaloni, vengono sottolineati, perché spesso le donne li occultano sotto grandi gonne a campana (o anche a mezza campana), che possono essere sostenute o meno da rigide sottovesti in tulle o taffettà, che davano quel peculiare aspetto trapezoidale del capo. Si tratta di un capo bon ton, da signore e signorine perbene, anche se qualcuno l’ha utilizzato in modo decisamente sexy: è proprio a campana la gonna che Marilyn lascia svolazzare sopra una fresca grata stradale in “Quando la moglie è in vacanza”.

Moda anni '50: i pantaloni da donna Capri. Tra i modelli di pantaloni, si fa sempre più strada il modello Capri, concepito alla fine degli anni '40, ma portato in auge nei '50 da attrici molto amate come Audrey Hepburn e BB. Si tratta di pantaloni un po’ più corti della caviglia, con il bordo che arriva alla fine del polpaccio: un vedo-non vedo incredibilmente sexy per l’epoca ma al tempo stesso elegante e raffinato. Per quanto riguarda le fantasie utilizzate in gonne e pantaloni, persiste in questi anni una certa tendenza al colore, espresso soprattutto da righe per lo più orizzontali, pois grandi e piccoli e tartan in tutte le salse.

Moda anni '50: i giovani, dal bon ton alle Pink Ladies. Nessuna via di mezzo: le ragazze degli anni '50 sono nell'apparenza (e nel ritratto dei mass media) sante o spregiudicate in base al loro abbigliamento. Le signorine vestono bon ton, con gonne a mezza campana e nessuna sottoveste rigida, i twin set composti da maglioncino e cardigan nello stesso tessuto e nello stesso colore, ma anche le polo e i cardigan chiari gettati sulle spalle. Di contro, le Pink Ladies - dal nome delle cattive ragazze di Grease - indossano tessuti lucidi e imbottiti, vestono in maniera provocante e soprattutto gonne nere a tubino sotto scollature vertiginose. Uno iato così profondo tra due look filosofici tanto differenti non si sarebbe verificato più nella storia della moda.

Moda anni '50: gli accessori, dai collant ai foulard. Se per le calzature iniziano a diffondersi quelle che oggi si potrebbero definire grandi classici, come le sling back e le open toe, soprattutto tra i sandali estivi, diverso è il discorso per le calze, che vedono un tramonto appena prima dell’avvento, alla fine del decennio, dei collant: niente nylon e lycra quindi, ma calze di seta, trasparenti, un po’ rigide e non sempre facili da indossare, da tener su con il reggicalze. Infine gli anni '50 sono stati gli anni dei foulard, da indossare in tutti i modi possibili, come fusciacca su un paio di pantaloni Capri, come decorazione o protezione per i capelli oppure al collo.

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Moda anni '60: dal mitico tubino ai figli dei fiori. Angela Leucci il 17 Agosto 2021 su Il Giornale. Le tendenze polimorfe della moda anni '60 rifletterono i cambiamenti all'interno della società: una carrellata delle novità principali nel costume. La moda anni '60, come è comune per la moda di tutte le epoche, ha riflettuto i grandi cambiamenti storici e sociali che sconvolsero il mondo in quel periodo. Gli Stati Uniti erano nel pieno della guerra in Vietnam e subirono nel 1963 lo choc dell’omicidio di un presidente - John F. Kennedy - mentre invece nel Regno Unito il decennio, salutato dalle nozze della Principessa Margaret, avrebbe vissuto, tra musica e costume, la Swinging London, un movimento culturale a 360 gradi - anche se nel Paese di Sua Maestà Britannica l’unico modo per ascoltare la pop music erano al tempo le radio pirata come Radio Caroline. Una bizzarria, dato che quelli erano gli anni dei Beatles e dei Rolling Stones, solo per citare le due band inglesi più celebri, tra cui una “più famosa di Gesù”. L’Italia continuava intanto a vivere il miracolo economico e quello de “La dolce vita”, il jet set romano che viveva intensamente ogni momento. Al cinema imperavano gli spaghetti western, ma gli italiani si appassionavano anche ai musicarelli e vivevano la favola “di un amore giovane” tra Gianni Morandi e Laura Efrikian in “In ginocchio da te”. Tutto questo è parte del retroterra culturale e filosofico che ha portato alla costruzione delle tendenze di moda anni '60, tendenze che di tanto in tanto vivono dei revival - minigonna a parte perché quella non è mai tramontata. E si tratta di revival molto amati dagli over 60, che in questo modo possono appunto rivivere e reindossare i capi che hanno amato e sfoggiato in un passato decisamente recente o che magari erano troppo piccoli per osare. La scena di Audrey Hepburn che fa “Colazione da Tiffany” con guanti bianchi e tubino nero è assolutamente iconica ed è un segno dei tempi. Truman Capote aveva scritto alla fine degli anni '50 questo romanzo assolutamente rivoluzionario, che poi diede appunto vita al film, sulla storia personale ed emotiva di una donna indipendente, che sarebbe diventata negli anni '60 uno dei modelli dominanti della società. E quel tubino nero era il suo manifesto: elegante, formale, ma solo apparentemente omologato. Il tubino nero di Audrey è un modo per dire: “Sono speciale, sono unica”. E fu paradossalmente replicato in serie, ma ognuna lo indossò a modo suo: tutte le ragazze dell’epoca volevano essere come Audrey ma al tempo stesso volevano essere uniche e quindi calzavano il tubino nella propria specificità, arricchendolo con accessori sempre diversi, sebbene solitamente sobri, eleganti e bon ton. Nonostante gli stravolgimenti sociali e le rivoluzioni del costume, gli anni '60 non dimenticarono il bon ton tanto in voga negli anni '50. La fecero quindi da padrone i twin set, i colletti da educanda, e soprattutto le Mary Jane - scarpe inizialmente unisex e pensate per i bambini negli anni ’20, che negli anni '60 iniziano a farsi strada tra le adolescenti e le giovani donne come simbolo di raffinatezza ma anche di rivoluzione, con un che di sessuale. Non a caso erano le scarpe indossate dalla giovane Sue Lyon nel disturbante “Lolita” di Stanley Kubrick. A guidare le irriducibili del twin set ci fu un’icona di stile mutuata dalla politica: si trattava della first lady Jackie Kennedy, la prima della storia a discostarsi dall’aura potente del marito per assumere una propria identità, al di là di un eventuale ruolo filantropico come fu per Eleanor Roosevelt. Jackie appariva su tutte le copertine, sia sulle riviste di moda sia sugli approfondimenti politici e ammaliava con i suoi abiti che trasudavano raffinatezza e appunto bon ton. Naturalmente la rivoluzione di stile più importante e duratura si giocò su altri campi. Uno dei prodotti più celebri e utilizzati anche oggi della Swinging London e della Rivoluzione Sessuale è infatti la minigonna, la cui testimonial fu Twiggy Lawson, una modella che irruppe sulle copertine delle riviste di moda con un modello estetico diverso e innovativo, quello della donna efebica e minuta, in contrasto con le maggiorate degli anni '50. Le minigonne, come Twiggy insegnava, venivano indossate rigorosamente senza collant, con altri capi che però affondavano le loro radici nel bon ton. E quindi via libera ai cappottini sfiancati, ai dolcevita a coste e perfino ai twin set. Senza scordare le Mary Jane, sebbene proprio negli anni '60 iniziano ad affermarsi gli stivali, anche molto alti, da indossare proprio sotto la minigonna. Sono molte le fantasie di tendenza negli anni '60: resistono i pois, ma si ingrandiscono a diventare evidenti e quasi grotteschi, una sorta di presa in giro infantile. Restano anche il tartan e le righe, ma si fa sempre più strada il bicolore pied-de-poule. Ma la più grande innovazione tra le fantasie di moda anni '60 è rappresentata dai disegni optical bianchi e neri, che tra l’altro resteranno in voga per tutti gli anni '70. Le fantasie optical bicolori, rigorosamente in bianco e nero appunto, presentavano diverse linee, dallo zigzag ai cerchi concentrici, fino a schemi più arditi e liberi. E riflettevano la diffusione delle droghe psichedeliche tanto amate dai cosiddetti “figli dei fiori”. I figli dei fiori, ovvero gli hippie, rappresentarono un movimento globale che unì moltissimi giovani dei Paesi dell’Occidente. Che però trassero i loro spunti di tendenza dall’Oriente, in particolare dal’India, ma anche dalla Cina comunista e dalla Corea, cui guardavano con interesse politico oltre che di costume. Fanno capolino tra loro quindi le camicette con i colli alla coreana, ma anche i camicioni e i pantaloni ampi, spesso di cotone o lino, indossati dai guru in India, che per le donne si tramutavano non raramente in gonne ampie e a fiori. Ma la sensibilità verso il mondo animale è ancora lontana, per cui giacche scamosciate in daino e borse di pelle con le frange sono altrettanto diffuse. E non mancarono capi di abbigliamento militare in segno di protesta contro la guerra in Vietnam. Pace, rivoluzione culturale e sessuale erano il fondamento filosofico dei figli dei fiori, che furono capeggiati da diversi leader, tra cui Abbie Hoffman, autore di “Ruba questo libro”, che nei suoi interventi pubblici indossava una bandiera statunitense come camicia, un modo eccessivo ma efficace per denunciare gli Usa come “industria”, ma al tempo stesso per reclamarne un’identità sebbene non certo in un'ottica di patriottismo. Accanto ad attrici, cantanti e modelle come testimonial delle tendenze, iniziarono a farsi avanti le groupie: portatrici di minigonne e indossatrici di capi hippieschi, diventarono involontariamente anche loro delle icone della gioventù, che copiava il loro abbigliamento o in alcuni casi - quando l’eccesso era troppo - sognava soltanto di farlo. Fu il caso delle ammiratrici di Marianne Faithfull - che tuttavia non era all’epoca una semplice groupie, ma un’attrice e una cantante - fidanzata di Mick Jagger, che sfoggiava nelle sue uscite pubbliche una pelliccia. Tutto regolare in un certo senso, tranne per il fatto che Marianne era nuda sotto la pelliccia. Ma che groupie o gente comune iniziassero a diventare modelli di tendenza fu in un certo senso l’inizio di un’epoca. Tanto che l’artista Andy Warhol utilizzò per una sua mostra nel 1968 una frase, attribuita a lui ma quasi certamente non originale: “Nel futuro, ciascuno sarà famoso nel mondo per 15 minuti”. Ma che la frase non fosse originale non dovrebbe stupire, sebbene lui la utilizzò con lungimiranza: in fondo Warhol era il re (e il precursore) delle campionature. 

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Torna la moda anni '70: il tuo armadio vale una fortuna. Angela Leucci il 28 Agosto 2021 su Il Giornale. Moda anni '70: un excursus tra i capi simbolo del periodo, come certe tendenze stiano tornando in auge e come vedere il proprio usato originale. La moda anni ’70 è di ritorno in questo decennio. Nella moda l’idea di revival è fondamentale: sebbene le tendenze possano avere un inizio e una fine, la moda non ha necessariamente confini temporali. Ed ecco che di tanto in tanto alcuni capi e dettagli tornano a fare capolino negli armadi, esattamente com’era accaduto in passato. E per tutte le over 60 che amano conservare vestiti e accessori originali c’è anche una buona notizia: le appassionate del vintage non vedranno l’ora di acquistare ciò che è appartenuto a un altro negli anni ’70, purché sia in buono stato e, appunto, originale. Una delle ragioni principali per cui la moda degli ultimi decenni, come la moda anni '70, torna spesso in auge è l’effetto nostalgia. Da un lato ricorda alcuni momenti più belli della vita di ognuno, dall’altra contribuisce a dare un’atmosfera diversa alle giornate, come se il tempo si fosse fermato, come se tutto fosse possibile e come se ogni persona avesse un’identità fissa nel tempo, un'identità in cui si riconosce in maniera più autentica. I capi simbolo della moda anni ’70:

I pantaloni a zampa. Sono probabilmente il capo più noto degli anni ’70. Si trattava di pantaloni in cotone, in denim, in velluto a coste o altro materiale che calzavano aderenti nella parte superiore per poi aprirsi nella parte inferiore, emulando la forma delle zampe dell’elefante.

Le giacche sfiancate. Si tratta di soprabiti con riprese laterali per mostrarsi aderenti in vita e quindi valorizzare spalle e fianchi. Iniziano a circolare già negli anni ’60, ma è negli anni ’70 che incontrano la loro parabola principale. Sono fatte per lo più in pelle scamosciata, dal daino alla renna, spesso presentano frange e in qualche caso non disdegnano il denim o la pelle di vitello.

Gli zatteroni (e le espadrillas). Le scarpe alte diventano più comode e quindi via libera a zatteroni con zeppe oppure espadrillas. Però in alcuni casi erano dei veri e propri attentati alle caviglie: cadere rovinosamente da quelle altezze era un vero problema.

Le camicie con fantasie colorate. Anche le camicie erano spesso sfiancate negli anni ’70, ma soprattutto presentavano fantasie coloratissime, dai disegni optical ai fiori, ma non mancavano righe e tartan - e in quest’ultimo caso, come accadde d’altra parte per le zeppe e i pantaloni a zampa, ci fu già un piccolo revival già negli anni ’90. Per quanto riguarda i colli delle camicie, essi diventano maggiormente squadrati. Niente più colletti rotondi bon ton e soprattutto niente più colli alla coreana, al grido di “Inamidato è meglio”.

Le minigonne a pieghe. In queste minigonne anni ’70, le pieghe non partivano immediatamente dalla vita, ma c’era prima una porzione di gonna a tubino, e quindi aderente, per poi dare vita alle pieghe più giù. A volte erano arricchite con bottoni oppure c’era una sola piega centrale.

Borse enormi. Gli anni ’70 sono anche il periodo d’oro delle grandi borse, che richiamano le tendenze delle giacche. Quindi tantissimi modelli, dai sacchetti alle bisacce, presentano frange e sono fatti per lo più in pelli scamosciate, ma anche in questo caso non manca la pelle di vitello e il denim.

I relitti dei figli dei fiori e dei capi orientaleggianti. Soprattutto nei primi anni ’70, molti outfit continuarono a ispirarsi a quelli dei figli dei fiori o agli abiti dei guru orientali: grandi pantaloni o gonne ampie venivano completati da kaftani, bigiotteria in plastica divertente e colorata e scollature con ricami.

La moda unisex. Gran parte dei capi e degli accessori finora illustrati erano in gran parte unisex. Sono stati gli anni ’70 quelli in cui la rivoluzione sessuale è stata una rivoluzione di genere, in gran parte guidata da David Bowie e inserita nel contesto del glam rock. Quindi pantaloni a zampa erano uguali per uomini e donne (con la sola differenza dell’abbottonatura, per le donne da destra a sinistra, per gli uomini da sinistra a destra, come ovviamente per le camicie). Anche i colli squadrati delle camicie rientrano in quest’ottica, ma sebbene anche gli abiti da donna paiono apparire più mascolini, paradossalmente negli anni ’70 le donne non hanno mai perso la loro femminilità, che anzi appare esaltata dagli abiti e dagli accessori di questo periodo.

Lo stile punk. Alla fine degli anni ’70, l’avvento della musica punk portò a modificare anche le tendenze dell’abbigliamento. Inizia a farsi strada sempre più la pelle di vitello per diversi capi (pantaloni, minigonne, gilet, cappelli) e più è rovinata e meglio è. Il punk inizia a rigettare l’intero impianto della società e sembra quasi ricercare il brutto, lo strappo da ricucire rigorosamente con spille da balia, in modo da rendere il tutto provvisorio e trasandato.

Moda anni ’70: cosa e come vale la pena rivendere. Se nel proprio armadio si possiedono abiti e accessori originali degli anni ’70, si può pensare di rivenderli agli appassionati di vintage - sempre che non costituiscano dei ricordi importanti di cui non ci si può e non ci si vuole proprio liberare. Affinché però questi capi siano vendibili, devono trovarsi in ottimo stato e devono essere puliti adeguatamente prima della messa in vendita. Che si trovino in ottimo stato significa anche che non devono essere state apportate delle modifiche anacronistiche nel tempo.

Ma dove vendere i capi scelti e originali della moda anni ’70? Le opzioni principali sono quattro:

negozi vintage dell’usato: in cui però potreste essere deluse dalla valutazione dei pezzi di abbigliamento e accessori proposti, perché è il proprietario del negozio che esegue la valutazione;

eBay: quindi il prezzo è generato dall’antica legge della domanda e dell’offerta attraverso le aste online;

canali social e community di appassionati: dove ci possono essere piccoli spazi dedicati alla compravendita e in cui i compratori possono fare il prezzo ma possono risentire dei feedback della comunità di utenti;

piattaforme dedicate espressamente all’acquisto di capi vintage degli anni ’70 o anche di altri decenni. 

Angela Leucci. Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Giorgio Armani: «Il mio Sud, dove la natura incontra la storia». Il grande stilista si racconta: le suggestioni del Mediterraneo tra moda, arte e migrazioni. La passione per lo sport e l’immagine di Pantelleria. Paola Maddaluno su Il Corriere della Sera il 7 settembre 2021. Da qualche settimana è cominciata la stagione calcistica. Quest’anno l’abbigliamento della Società Sportiva Calcio Napoli è firmato EA7. Ne è autore: Giorgio Armani. Un’occasione di cronaca. Per provare a osservare, da un’angolazione diversa, l’opera di una tra le personalità più straordinarie della moda contemporanea. Visionario e coraggioso. Simbolo dello stile italiano e di un’eleganza androgina fondata su una sensualità neutrale. Tra gli artefici del prêt-à-porter e della democratizzazione della griffe. Armani ha diffuso il valore dell’abito a ogni latitudine geografica e culturale. Ha divulgato la coscienza del bello disegnando i sentieri di un’estetica pura. Inoltre, ha insegnato che il carattere dell’essere umano vive anche nella semplicità di uno sguardo, di un gesto, di una giacca, di un colore. Con lo spirito libero della creatività, ha modellato le nostre vite, iscrivendo la condizione fluida della moda in una dimensione senza tempo. Tra gli aspetti ancora poco indagati nell’opera di questo grande stilista, il rapporto con il Mezzogiorno e con il Mediterraneo. Questo legame inatteso può essere colto nei suoi racconti biografici, nei rimandi iconografici e cromatici al Sud presenti in tante sue collezioni, nella luce che sembra promanare dai suoi abiti. Ma, forse, anche nell’identità riservata, talvolta solitaria, eppure accogliente della sua moda. Senza confini, in segreto dialogo con gli orizzonti aperti del mare.

Il Mediterraneo per dirla con Tahar Ben Jelloun, è “variegato e uguale a se stesso, complesso e irrazionale, seducente e contraddittorio”. Predag Matevejevic ha analizzato le differenze e le analogie che caratterizzano il “mare terreno”: dai colori alle forme, dagli usi alle tradizioni, dai dialetti alle voci, dai sapori agli odori. Il mare Mediterraneo da sempre è crocevia di culture e di popoli, contaminazione tra etnie diverse. Il suo stile sembra porsi in ascolto del Mare Nostrum. Un dialogo immaginario che riscrive nei suoi abiti senza mai ricorrere agli stereotipi e senza indulgere in una facile riconoscibilità. Qual è la sua idea di Mediterraneo?

«È l’altrove perfetto, che non ha confini e che pure avvicina culture e popoli, disegna un percorso tra mondi possibili e traccia orizzonti futuri. È anche una specie di immaginazione sensuale dove sono decisive la corporeità e i segni visibili lasciati dal tempo. È un luogo di incontri e di solitudini, nel quale la natura è diventata storia». 

Tracce mediterranee ritornano nella sua collezione primavera/estate del 2015. Una collezione introdotta da un cortometraggio intitolato “Sabbia” diretto da Paolo Sorrentino. Protagonista: la spiaggia nera vulcanica, il rumore delle onde che si infrangono sulla riva, i riflessi dei primi raggi del sole sulla sabbia, un’architettura abbandonata che si è arresa al potere del vento e del mare, due corpi nudi come dune, la libertà di un cane. Un viaggio verso l’essenza, verso una dimensione pura e primitiva. Si tratta di una rilettura della collezione “Scavo” da lei realizzata negli anni Novanta dedicata alle atmosfere silenti e maestose dei siti archeologici. Implicitamente un omaggio alla classicità e al Sud Italia?

«Niente è più difficile che parlare dell’ispirazione. A volte non riesco a spiegarla nemmeno a me stesso perché nasce da un gesto, un fermo immagine che blocca un momento o un luogo, una sensazione. Ho sempre preso spunto dalla natura, che è una reale fonte di bellezza e ha influenzato varie collezioni, mescolando delicatezza, forza e rigore. Con la convinzione che la moda possa essere anche uno strumento di riflessione, consapevolezza e cultura che non smette di reinventarsi. E rimanda sempre alla grande classicità del Sud e del Mediterraneo quel mare che per il poeta Konstantinos Kavafis “Tutto s’appella nella gran luce diffusa”». 

Ad accomunarla al regista napoletano: la predilezione per l’eleganza delle forme, la ricerca dell’armonia cromatica, il calcolo della composizione. Talvolta però, Sorrentino cede al fascino dell’eccesso e al gusto della provocazione tipica del Mezzogiorno. Nel suo lavoro, fortemente metafisico, sono presenti “distrazioni” di questo tipo?

«Direi proprio di no, anche se ad attrarmi di Paolo Sorrentino sono proprio queste “distrazioni” che rappresentano un’espressione caratteristica del Sud. Io, al contrario, lavoro su una forma di ritrosia, sull’essenza. Non vado in cerca di un folklore che nella moda a volte, l’abbiamo visto, finisce per assomigliare a un luogo comune».

Un’interpretazione del Mediterraneo è offerta anche nella sua collezione primavera/estate del 2004. Una sfilata all’insegna del divertimento e della spensieratezza. Un modo per raccontare la mescolanza delle tradizioni popolari del Sud Italia. Suoni e canti fanno da cornice ad abiti ispirati ai segni e ai simboli del mondo marinaro: colori, nodi, corde, moschettoni, righe bianche e blu, coralli, reti da pesca. In filigrana, momenti collettivi e momenti privati. In tal senso, il suo legame profondo con Pantelleria. Che posto occupa questa collezione nel suo percorso?

«Quella sfilata ha rappresentato un momento sereno, quasi un punto e a capo. Perché vi ho ritrovato quel senso di libertà al quale non ho mai rinunciato e dove posso sentire la gioia della leggerezza. Quando ho visto Pantelleria per la prima volta, ho pensato che fosse soltanto un’isola deserta, poi mi sono accorto che qualcosa mi aveva incantato, forse il fascino selvaggio, forse quella sua scontrosità che può diventare gentilezza. Con quella sfilata ho raccontato d’istinto una relazione felice, una serenità che ha tutta la naturalezza del Sud». 

In questa collezione Lei restituisce le emozioni, l’energia, la vitalità, la bellezza, l’unicum di un territorio come quello del meridione poco valorizzato e poco tutelato. Da dove potrebbe partire il Rinascimento del Sud?

«C’è un futuro da costruire insieme, traendo una lezione da quanto osserviamo senza girare la testa dall’altra parte. Per rendere migliore il presente e preparare il futuro, bisogna cominciare adesso, subito, a sostenere, potenziare, pubblicizzare il piano vaccinale. In Italia, e in particolare nel Mezzogiorno (ad esempio in Sicilia), siamo ancora lontani dal livello di copertura sufficiente per abbassare la guardia, quindi è indispensabile accelerare il più possibile la campagna di profilassi. Questo ci permetterà di sostenere e rilanciare l’industria dell’ospitalità, che è da sempre un settore chiave della nostra economia e che, proprio nel Sud, può dispiegare un’enorme varietà di esperienze: dal patrimonio artistico e culturale all’enogastronomia diffusa, dalle città d’arte alle esperienze dello shopping. Penso però che siamo all’anno zero del turismo: l’anno del cambiamento nel quale dobbiamo ripensare alcuni capitoli fondamentali come l’aumento della qualità di strutture e servizi. Si accresce così la reputazione delle aree interessate e nello stesso tempo si difende lo stile, il saper fare italiano che nel Mezzogiorno ha mille sfumature legate all’immenso patrimonio culturale». 

Napoli è considerata dalla critica contemporanea la capitale del Mediterraneo. Nell’ambito dell’ultima rassegna “Casa Corriere”, lo scrittore Maurizio De Giovanni ha proposto di trasformare Il Real Albergo dei Poveri (palazzo settecentesco simbolo della città partenopea - emblema dell’accoglienza) in una Factory creativa. Un’officina democratica attenta all’ibridazione dei saperi e agli scenari avanzati dei linguaggi della contemporaneità. Il Ministro per il Sud e la Coesione territoriale Carfagna e il Segretario Generale del Ministero della Cultura Nastasi, in una call, hanno accolto idee e suggestioni dalla collettività. L’obiettivo è quello di trasformare questo spazio in un punto di riferimento nazionale e internazionale per la creatività e per l’imprenditoria. Condivide questa idea? Quale potrebbe essere il contributo della moda nell’ambito di un progetto così ambizioso?

«Mi sembra un’idea interessante oggi che gli artisti si interrogano sul loro ruolo sociale, ponendo al centro delle loro ricerche, performance, installazioni, video e fotografie che possono dare origine a progetti d’arte partecipativa. Mi piace l’ambizione visionaria che lo sostiene e che, una volta di più, conferma la natura di capitale riconosciuta a Napoli. Ma come potrebbe contribuire la moda, è difficile dirlo. Con qualche mostra forse, qualche confronto tra autori di origine e formazione diverse, o qualche particolarissima Factory per una ricerca sui materiali. È un contributo che deve nascere da un dibattito costruttivo che coinvolga talenti e specialisti di ambiti diversi». 

La sua passione per lo sport. Tra le sue più recenti collaborazioni, quelle con la Nazionale di Calcio, le Olimpiadi, le Paralimpiadi. E ora con la Società Sportiva Calcio Napoli.

«Lo sport mi ha sempre interessato, fin da ragazzo; c’era un che di eroico negli atleti, e questo mi affascinava. In origine erano l’eccitazione e la spettacolarità ad attrarmi, ma col tempo mi sono reso conto che c’era qualcosa di più profondo in questa fascinazione: la filosofia che c’è dietro, il modo naturale e spontaneo in cui unisce le persone, veicolando valori solo positivi. Oggi posso dire che è una vera soddisfazione e un piacere ricominciare il campionato partecipando direttamente alla vita della squadra del Napoli, per la quale ho studiato la creatività delle maglie tecniche. Un’iniziativa doppiamente importante perché, d’accordo con la Società Sportiva Napoli Calcio, una parte degli utili provenienti dalla commercializzazione dei prodotti creati saranno destinati al territorio e al bene comune. Questa collaborazione mi è sembrata un’ottima opportunità per sostenere ancora una volta con concretezza e coerenza lo sport italiano». 

L’Italia meridionale presenta una ricca varietà di botteghe artigianali dove si coltivano tecniche e mestieri antichi. Purtroppo però, questi atelier sono spesso dimenticati dalle istituzioni. Non pensa che l’artigianato possa contribuire a ridurre la dispersione scolastica e la disoccupazione? Inoltre, non crede che l’artigianato possa essere un elemento trainante per il turismo culturale e per l’economia del Mezzogiorno?

«Certamente in un Paese come il nostro, che ha nel manifatturiero una delle sue principali competenze, l’artigianato è tra gli elementi che lo caratterizzano e al quale bisognerebbe dare la giusta attenzione. Questo significa coinvolgere il sistema scolastico, forse prendendo a esempio la riforma che ha lanciato l’Istituto Tecnico Superiore, che è la prima esperienza italiana di offerta formativa terziaria legata al sistema produttivo e che prepara i quadri intermedi. Diffuso com’è in tutto il Centro-Sud, l’artigianato potrebbe diventare un vero fil rouge fra territori e turismo, ma bisogna potenziare un approccio di sistema che metta in contatto esperti di marketing turistico e operatori pubblici. E qui deve intervenire la politica con scelte precise». 

Ritornando al Mediterraneo. In occasione dell’Angelus di domenica 13 giugno il Papa ha dichiarato: “Il Mediterraneo è il più grande cimitero d’Europa. Basta con l’indifferenza”. In particolare, il Pontefice ha ricordato la tragedia dell’aprile del 2015, quando un peschereccio con oltre mille migranti (o meglio, persone) naufragò nel Canale di Sicilia. In che modo le arti e la moda potrebbero misurarsi con tematiche così attuali e urgenti?

«Da più di vent’anni donne, uomini e bambini muoiono nel tentativo di raggiungere l’Europa. Chi sono? Perché non sappiamo niente di loro? Una ONG, la United for Intercultural Action, compila da molto tempo una lista di queste vittime. Soltanto quelle munite di documenti però, alle quali è difficile aggiungere gli anonimi che contribuiscono a elevarne il numero. Ora, la lista non è un’opera d’arte in sé, ma l’artista di Istanbul Banu Cennetoğlu ha fatto un’arte della sua diffusione, che diventa il resoconto di una tragedia senza mai fine. L’arte ha mille possibilità, ma mi chiedo come la moda potrebbe misurarsi con queste tematiche. Sono sincero: non lo so. Forse sostenendo le ONG, ma anche intervenendo con progetti di lavoro in un momento di riorganizzazione generale come questo. Forse può servirci da bussola quello che ha detto il Presidente Mattarella in occasione della Giornata Internazionale del Rifugiato. “Davanti a un simile dramma si impone una responsabilità dalla quale nessuno può chiamarsi fuori. Sono storie individuali e di popoli anche geograficamente vicini che fanno appello al nostro senso di solidarietà, ancorato ad alti doveri morali e giuridici». 

Se dovesse racchiudere il Mediterraneo in un’immagine?

«Pantelleria, vista dal mare. Selvatica e accogliente, con il suo terreno di roccia vulcanica nera, e il Sentiero Romano, una strada composta da grandi lastre sulle quali, appunto, camminavano i romani. La natura che si è fatta storia».

Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Alessia Ardesi per "Libero quotidiano" il 3 agosto 2021. Insieme hanno creato dal nulla un'azienda con oltre 5 mila dipendenti. Non si sentono imprenditori ma artigiani. Domenico Dolce e Stefano Gabbana da 18 anni non sono più ufficialmente una coppia. Ma si vogliono ancora più bene di quando la loro storia è iniziata: «L'amore si trasforma ed evolve. E saremo sempre una famiglia». Nel loro quartier generale, in Viale Piave a Milano, l'ufficio dove lavorano è pieno di quadri e immagini della Madonna, riferimenti all'Italia, e alla sua identità, a cui sono profondamente legati: un mese fa hanno portato il tricolore in passerella. 

Qual è il vostro primo ricordo?

Dolce: «Di me piccolo, seduto davanti al negozio di abbigliamento di mamma Sara, che sognavo la vita che avrei voluto avere e che poi ho avuto. Non era facile immaginarsela: vengo da Polizzi Generosa, un paese minuscolo sulle Madonie dove nevica quasi sempre d'inverno e non c'era il riscaldamento».

Gabbana: «Di me che vado a mettere le barchette nella fontana di Piazza Giulio Cesare a Milano. Ho avuto un'infanzia serena e tranquilla».

Da che famiglia venite?

Gabbana: «Mia madre Piera era la portinaia di Via Previati 14 a Milano. A sei anni la aiutavo a fare le pulizie nelle case degli altri per arrotondare. Papà da cameriere divenne tipografo, stampava i rotocalchi Rusconi».

Dolce: «Mio papà Saverio era un sarto. Alla fine degli anni '60 decise di trasformare il suo laboratorio in un'azienda di confezioni a Milano: comprava i modelli già sviluppati in modo industriale». 

Quindi lei ha imparato da suo padre?

Dolce: «Sì, anche se volevo fare l'architetto. Ho imparato a cucire da lui in sartoria, rubando il lavoro con gli occhi. Agli inizi degli '80 papà mi mostrò Gap, un giornale di moda. Capii che mi piaceva quello che vedevo. E così andai alla Sip, dove c'erano gli elenchi telefonici, per scegliere una scuola di moda. Dopo la Marangoni a Milano, andai da Correggiari». 

È lì che vi siete conosciuti?

Gabbana: «Sì. Facevo il grafico pubblicitario, mi piacevano i vestiti e la moda - impazzivo per Fiorucci, ma non ne sapevo nulla. Un'amica mi suggerì di chiamare una persona che collaborava con Correggiari. Al telefono rispose Domenico». 

E come andò?

Gabbana: «Feci un colloquio e mi presero nonostante non sapessi disegnare. Ma ero fantasioso e imparai ricalcando all'infinito i disegni di Domenico, che aveva un talento innato».

Avete cominciato a frequentarvi?

Gabbana: «Ero abbastanza ingenuo e capii solo una sera, dopo sei mesi che ci conoscevamo, che lui mi stava corteggiando. Al ritorno da una cena con amici Domenico mi disse: "Mi sono stancato di starti dietro. O ci mettiamo insieme o non ci vediamo più". Così è nato tutto». 

E i vostri inizi lavorativi come sono andati?

Dolce: «Era l'84 e fu tutto molto difficile. Investimmo i due milioni di lire che avevamo, i pagamenti tardavano ad arrivare e restammo senza niente. Non avevamo nemmeno i soldi per fare la spesa. Spaccammo il mio porcellino salvadanaio e con quelle monete andammo avanti per una settimana, comprando focaccia e latte dal droghiere di Piazza Cinque Giornate».

Gabbana: «Se non avessi incontrato Domenico non so cosa avrei fatto. Tutto è stato possibile grazie all'amore che ci univa, ma anche a una serie di eventi fortuiti che ci sono capitati. Il destino ci ha aiutato».

Quando ad esempio?

Gabbana: «La prima sfilata in fiera, che riscosse un successo stampa pazzesco. C'erano Krizia, Ferré, Versace e Armani. Eravamo decisi a preparare anche la collezione successiva, e così a settembre ordinammo tutti i tessuti. Per realizzare i vestiti chiamammo un'azienda che già produceva peraltri stilisti; dopo pochi mesi ci diede il benservito. Cominciammo a chiedere alle altre società che facevano prêt à porter, ma nessuna voleva lavorare con noi. Con la morte nel cuore fummo costretti a disdire la prenotazione di tutti i tessuti». 

E quindi niente sfilata?

Gabbana: «Aspetti. Andammo a passare il Natale a casa di Domenico in Sicilia. E raccontammo tutto quello che era successo alla sua famiglia. Dorotea, la sorella, ci propose di realizzarli insieme». 

Ma come avete fatto senza le stoffe?

Gabbana: «Era l'inverno dell'84, quello della storica nevicata che bloccò tutto il Nord Italia. Le poste non riuscirono a consegnare la nostra lettera con la cancellazione dell'ordine. A Milano arrivarono tutti i tessuti e riuscimmo a realizzare la collezione». 

La prima sfilata dove fu?

D&G: «In Fiera a Milano. Fu uno show art: camicie e giacche enormi e decostruite, scarpe bassissime, in controtendenza rispetto ai tempi. Dopo due o tre stagioni abbiamo capito che dovevamo trovare un nostro filone, e così pensammo la donna sensuale e neoromantica».

E nacque il marchio Dolce&Gabbana.

D&G: «Agli inizi avevamo un ufficio, all'interno di un palazzo di avvocati a Porta Vittoria, dove facevamo consulenza per altri marchi, da Lebole a Max Mara. Fuori dalla porta c'erano scritti i nostri cognomi. Avevamo partite iva separate, conti separati. Ma era scomodo, così decidemmo di fare una società: Dolce&Gabbana divenne il nome». 

Siete credenti?

Dolce: «Moltissimo. Sono mariano, devoto alla Madonna. La fede è disciplina, è volontà senza condizioni: prego, vado a messa e partecipo ai pellegrinaggi. La distinguo dall'istituzione, la Chiesa, che è composta da uomini, che possono sbagliare». 

Dove va in pellegrinaggio?

Dolce: «Lourdes e Medjugorje. A Lourdes anni fa mi si avvicinò uno dei volontari dicendomi che mi aveva riconosciuto e come mai stessi in fila. Gli risposi che davanti alla Madonna non esistono posizioni prioritarie. Cominciò a gridare: cosa ci facevo lì, visto che ero ricco e avevo tutto?».

Lei come reagì?

Dolce: «Dicendogli che si può andare a Lourdes anche per ringraziare. Tutti pretendiamo tanto, ma la vita è un dono di Dio, e la fede non è un juke-box; non si domanda e si ottiene secondo necessità, la fede va coltivata». 

E lei Stefano, ha fede?

Gabbana: «Abbastanza. Ho ricevuto un'educazione cattolica e sono cresciuto all'oratorio Mater Amabilis. In chiesa cantavo e avevo una voce bianca così bella che mi facevano fare il solista. A don Antonio, prete giovane e bravissimo, parlai per la prima volta a 14 anni della mia omosessualità». 

E cosa le disse?

Gabbana: «Niente, ma mi fece sentire accolto. A differenza di alcuni ragazzi che mi prendevano in giro per atteggiamenti che ritenevano diversi dai loro». 

Ci sarà l'Aldilà?

Gabbana: «Sono un credente atipico: non penso vivremo un'altra vita così come siamo, ma forse ci reincarneremo».

Dolce: «Sì, c'è, con l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. E spero di andare in Paradiso - sorride - per diventare lo stilista degli angeli e dei santi». 

Come se lo immagina?

Dolce: «Pieno di fiori, frutta, abiti di chiffon e seta per gli angeli. Mentre l'Inferno sarà pieno di fiamme, di tessuti sintetici, di lycra e nylon, di scarpe che fanno male ai piedi». 

E il Purgatorio?

Dolce: «Con i disperati, quelli che non hanno mai amato, che girano il mondo ma non sono mai soddisfatti di quello che vedono o che possiedono». 

Temete la morte?

Dolce: «Non ci penso, vivo il presente, che va conquistato ogni giorno, domani si vedrà». Gabbana: «Ho un rapporto riservato con la morte. Quando mio padre se ne andò, dopo una lunga malattia, non ebbi una reazione violenta, soffrii in silenzio». 

In che modo è nata l'amicizia e la collaborazione con Madonna?

D&G: «È sempre stata il nostro mito, non perdevamo un suo concerto e speravamo che indossasse prima o poi una nostra creazione. Un giorno, sfogliando per caso l'Herald Tribune, abbiamo visto una sua foto in cui indossava una gonna lunga di jersey con reggiseno di raso e maglia all'uncinetto nera della nostra collezione. Eravamo euforici». 

L'avete contattata?

Gabbana: «Sì, attraverso un nostro pr americano. La incontrammo in un ristorante italiano di New York sulla 17esima. Entrò con un abito di scena perché stava girando Dick Tracy, prese le mani di Domenico e gli disse: "Tu sei un genio"». 

Che donna è conosciuta da vicino?

D&G: «Una donna carismatica, capace di ascoltare, colta: ama il cinema neorealista e se vuole parla anche italiano. Ma con delle sue particolarità». 

Quali ad esempio?

D&G: «Voleva provare i vestiti al buio, forse per non farsi vedere struccata. Una volta ci chiamò in un hangar degli studios a Los Angeles per il Girlie Show. Erano le sette di sera, faceva un caldo torrido e le abbiamo provato gli abiti in una stanza minuscola con una luce flebile. Ancora non ci spieghiamo come siamo riusciti a non sbagliare le misure».

Il settore moda è in ripresa?

D&G: «Sì. E assisteremo a un'evoluzione: nei mesi difficili della pandemia abbiamo avuto il tempo per apprezzare e riscoprire quello che prima non vedevamo. E quindi siamo riusciti, in parte, a riprendere coscienza di ciò che è bello e fatto bene. Siamo italiani, abbiamo l'orgoglio della bellezza e dobbiamo portarlo nel mondo». 

 Verità e bugie del mondo fashion. Serena Tibaldi su La Repubblica l'8 maggio 2021. Un account di grande successo, Fecondazione Prada, smonta i più diffusi cliché sul settore, dai tentativi di rilanciare i marchi alla mancanza di professionalità degli addetti. Svelando luci e ombre. Il mondo della moda è zeppo di frasi fatte e stereotipi, sia che lo si guardi da fuori che dal suo interno. I cliché sono talmente tanti che di recente un account Instagram, Fecondazione Prada, s’è messo a catalogarli e demistificarli uno per uno: cosa significa essere cool (vestirsi da sciattoni con capi cari come il fuoco), i tentativi di dare nuovo smalto a marchi diversi ingaggiando sempre lo stesso consulente di grido, che trasforma i brand in cloni, fino al boom dei servizi fotografici con la “gente vera”, pagata molto meno dei modelli. Il ritratto che ne viene fuori non è dei migliori, e il polverone sollevato dal profilo dimostra che ci ha preso .

"Quelli della moda non faticano mai". «Parlando di cliché», riflette il creatore dell’account, che vuole rimanere anonimo, «mi colpisce chi pensa che per riuscire in questo mondo sia necessario soffrire, essere trattati male, venire insultati dai propri capi». Il fatto è che la moda di per sé sarebbe un sistema chiuso, per addetti ai lavori, ma con il digitale, si è virtualmente aperto a tutti. «Si è perso il senso di appartenenza che c’era prima, e si sente il bisogno, errato, di dovere superare per forza degli ostacoli per essere ammessi. Uno dei primi miti da sfatare è che la maleducazione sia la norma: la gentilezza dev’essere la regola, non un’eccezione».

"Quelli della moda fanno solo festa". Per la verità di luoghi comuni sulla moda ce ne sono una marea. Dal di fuori, tutti pensano di sapere cosa accade alle sfilate, sui set fotografici, nelle redazioni, ma la verità è che quasi tutto è una bufala, un equivoco. Basta considerare tutte le banalità propinateci negli anni da cinema e televisione, che così facendo le hanno cementate nell’immaginario comune. Si pensi a serie come Sex and the City o Emily in Paris, costruite sul mito dei “professionisti” della moda nullafacenti e con guardaroba milionari, o anche a film come Prêt-à-Porter di Robert Altman, girato nel 1994 a Parigi durante le sfilate. La pellicola, incapace di andare oltre i soliti luoghi comuni, fu un flop nonostante il cast stellare con Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Julia Roberts, Lauren Bacall. E se neanche un narratore come Altman ha colto lo spirito di quest’universo, che speranza c’è che chi non lo conosce ne afferri realtà e sfumature?

"Quelli della moda sono una casta". E infatti. “Una manica di miracolati”, “Nullafacenti senza arte né parte”, “Gente frivola che passa il tempo a fare festa e a dire che è tutto stupendo”: sono queste le opinioni più ricorrenti sui social quando si prova a indagare. Si pensa che nella moda regni l’approssimazione, che “La gavetta non serve”, e che “Per farsi notare è meglio un bell’account Instagram”. Menzione d’onore per chi crede che “Quelli della moda mangiano pochissimo”, alla pari con chi dice che “Sono tutti ricchi”.

"Quelli della moda mangiano pochissimo". In quest’ultimo caso va precisato che ad alimentare l’equivoco sono proprio gli addetti ai lavori, pronti a sbandierare sui social media una vita tanto perfetta quanto finta. La dura realtà l’ha spiegata Giulia Mensitieri nel libro del 2018 The most beautiful job in the world, in cui racconta il paradosso dei free lance della moda, spesso così mal pagati da non riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, pur vivendo circondati da abiti carissimi e viaggiando in business class per eventi e sfilate. «Tutti vogliono essere noi, ma nessuno pensa alle conseguenze», riflette un professionista del settore parafrasando Il diavolo veste Prada, il film più famoso sul tema.

"Quelli della moda sono tutti ricchi". Ma il vero problema è che certi preconcetti sono così diffusi da essere accettati di prammatica. Si pensa che i vestiti siano un bene superfluo, quindi non importante, e così facendo si ignora il valore culturale del settore, nonché la sua portata economica. Il che è grave: solo in Italia il sistema nel 2019 valeva circa 100 miliardi di euro, e ora a causa della crisi per la pandemia vede 75mila posti di lavoro a rischio. Un problema per niente secondario. Ma, a onor del vero, secondo tanti nell’ambiente, oltre alla superficialità e all’ignoranza di chi ci lavora, ci sono altri falsi miti. Proclami come “La moda è un ambiente inclusivo e sostenibile, in cui la diversità conta”, a loro dire di solito sono dettati dal marketing, più che da un pensiero sincero. Per dirla come uno di loro, «Ci sono più reazionari nella moda che nella finanza, e si vede».

Anna Franco per “Il Messaggero” l'8 maggio 2021. Testarda, volitiva, attenta ai dettagli e incapace per natura di venire a patti con le sue convinzioni. Frida Giannini, 49 anni, è così. E, forse, anche per questo è stata il più longevo direttore creativo di Gucci. «Dieci anni è un record che nessuno ha mai raggiunto - sorride - Entrai lì nel 2001 come responsabile degli accessori. Mi volle Tom Ford». Col quale Frida litigò per introdurre il famoso motivo Flora: «Lui non lo voleva, ma fu un successo». «Una scuola pazzesca, prima, è stata Fendi, perché in quegli anni cambiò più volte proprietà. Non c'era ancora il marketing e noi creativi ci occupavamo pure dei prezzi, lavoravo con Maria Grazia Chiuri».

Non le mancano i riflettori?

«Il primo anno dopo l'improvviso addio a Gucci è stato difficile da gestire. Mi ero immedesimata con quell'azienda».

Non l'ha chiamata nessuno?

«Sto facendo collaborazioni che mi hanno ridato l'entusiasmo per questo lavoro dopo il disgusto. Mi hanno contattata in tanti, ma non mi hanno convinta. Anche i marchi silenti, che hanno un nome e che sarebbe bello far rinascere. Sto lavorando a un progetto per uno di questi. Ma un direttore creativo non può risolvere tutti i problemi: un'azienda che vuole rinnovarsi deve avere le idee chiare e la volontà di stare al passo coi tempi. Io adoro tuffarmi negli archivi e riportarli in vita, ma mi sono capitate situazioni in cui gli archivi erano proprietà di altri. O, peggio, c'era così poca organizzazione che tutti si occupavano un po' di tutto e questo, mi passi il termine, genera solo casino. E, poi, ho bisogno di sentire le farfalle nello stomaco».

Per chi potrebbe sentirle?

«Ho standard alti. Lo so e me lo hanno anche detto. Mi annoierei a occuparmi di un solo settore merceologico. Nella mia testa ho già una collezione e mi piacerebbe applicarla a un brand italiano da rilanciare. Abbiamo delle manifatture meravigliose, ma tanti appiccicano la targhetta del Made in Italy e poi producono chissà dove. Questa cosa mi manda in bestia, perché, allora, non sei più lusso, ma sei Zara o H&M».

Chi stima?

«Dolce&Gabbana, che continuano a fare un prodotto di altissimo livello e stanno puntando sempre più sul lusso. E, poi, c'è Maria Grazia da Dior, che ha rinfrescato un marchio storico e che rende le donne belle. Io quando ho un'occasione mi vesto da lei».

Quindi, è contro l'attuale estetica della bruttezza?

«Non è stato inventato nulla. Ne parlava già il filosofo Karl Rosenkranz a metà Ottocento. Mi spaventano questi casting dove sembra che i modelli abbiano una qualche malattia. Ma non se ne può più nemmeno delle collaborazioni, che sono solo fenomeni di marketing. Esattamente come lo è scegliere un direttore creativo solo per i follower. Un tempo fuori delle sfilate i paparazzi erano lì per le celebrity, adesso fotografano gente che si acconcia solo per farsi vedere».

Le piacciono gli influencer?

«Credo siano necessari. Basti vedere come è balzato in borsa Tod's una volta che nel cda è entrata la Ferragni. Arrivano a tante persone e senza la comunicazione digitale non si può stare. Però, se si produce lusso si dovrebbe venderlo su piattaforme ad hoc, come Farftech o Net-a-porter, non su Alibaba, che è cheap. Bisogna scegliere dove dirigersi».

Ha parlato della Chiuri. C'è chi l'accusa di essere molto orientata al marketing.

«Tutti creiamo per vendere. Lei ha reso desiderabile tutto il mondo Dior. E non è facile raggiungere certe posizioni, tanto più per una donna. Nella moda ai vertici ci sono tutti uomini, si tratta di una lobby fortissima».

Dopo Gucci gli amici le hanno voltato le spalle?

«Quelli veri no. Ovviamente c'era chi prima gettava petali al mio passaggio e improvvisamente mi ha cancellato dalla rubrica».

C'è la corsa ad accaparrarsi i millennial. Ha senso?

«Si pensa di fidelizzare un cliente fin da giovane. È una stupidaggine, perché i ragazzi sono volubili. Così le veri clienti fisse, quelle dai trent'anni in su, si ritrovano a non riconoscersi più in un brand e vanno altrove. Anche dei loghi non se ne può più. La gente ha voglia di cose belle. Adesso sembra sempre Carnevale, non so dove sia andato a finire il buongusto».

Altre passioni oltre alla moda?

«La musica. Ho la mia stanza in casa con tanti lp che devo assolutamente catalogare. E, poi, l'attività di beneficenza con Save the Children. Col sociale collaboro fin dal 2005. Non solo raccolgo fondi, ma controllo che tutto vada a buon fine. Quest'anno per i 100 anni della onlus ci occupiamo della dispersione scolastica in Italia, un fenomeno assai frequente nelle nostre periferie più degradate. Ogni bambino ha diritto all'istruzione. Purtroppo gli evasori, ladri che dovrebbero stare in carcere, sottraggono risorse alla scuola e alla sanità. E i meno fortunati ne pagano le conseguenze».

·        Le Scarpe.

Riccardo Staglianò per “il Venerdì di Repubblica” l'1 agosto 2021. La globalizzazione vista dal basso. Terra terra proprio, perché nel grande catalogo delle merci poche come le scarpe si prestano a raccontarne l'ascesa. Ancora tre anni fa, nel mondo, ne sono stati prodotti 24 miliardi di paia scrive Tansy E. Hoskins, giornalista inglese autrice di Lavorare coi piedi (Einaudi, pag. 320, euro 19). A un prezzo sempre più basso per il consumatore e un costo più alto, anche se non sempre percepito, per i cittadini secondo la sempre più centrale schizofrenia dei nostri tempi. Perché se è noto da tempo che la sfavillante industria della moda ha un vasto lato oscuro, quella delle calzature che esce da questo libro è una notte buia senza lampioni. La storia inizia 40 mila anni fa quando, con grande giovamento evolutivo (avvolgersi pezzi di corteccia intorno ai piedi permetteva di acchiappare meglio le prede e sfuggire più velocemente ai predatori) abbiamo smesso di andare in giro scalzi. La dialettica tra produttività e condizioni dei lavoratori è antica, con Tocqueville che, sulla proto-industrializzata Manchester, scrive che «da questa sudicia fogna sgorga oro puro». Ma gli scarpai che Hoskins racconta l'hanno preso sin troppo alla lettera e lei si domanda: «Come possiamo incensare la globalizzazione senza sapere cosa significhi per l'operaia di una fabbrica cinese, il conciatore di pelli del Bangladesh, l'ambientalista brasiliano o gli adolescenti ammaliati dal consumismo e intrappolati in questo sistema?». Ogni aspetto di questa filiera è - caritatevole eufemismo - problematico. E la cronista, in un viaggio ampio e profondo, non si perde alcuna fermata perché ai suoi occhi ogni scarpa è un microcosmo di ciò che c' è di sbagliato nel mondo. Com' è che siamo passati dalle sei paia di scarpe di un giovane donna con lavoro retribuito, secondo la media calcolata nei manuali di manifattura calzaturiera del '53, all'imeldamarcosizzazione (dalla consorte del presidente delle Filippine col suo parco chaussures da 3.000 esemplari) di massa? La risposta sta in un rapporto dell'International Labor Organization che registrava, nell' intervallo 1970-90, aumenti del 597 per cento in Malesia e del 416 per cento in Bangladesh di lavoratori nel settore «tessile, abbigliamento e calzature» (TaC) a fronte di un'emorragia del 58 per cento in Germania e del 55 in Gran Bretagna. Se l'operaio cinese costava un decimo di quello americano, anche il calzolaio messicano prendeva 1,70 dollari all'ora contro i 18,40 del suo omologo tedesco. A quei salari si poteva produrre tanto a poco, inondare il mercato e diventare l'inconsapevole benchmark al ribasso di tante altre retribuzioni.  I cantori della globalizzazione senza se e senza ma, sostenevano però che il lavoratore si avvantaggiava potendo avere sneaker a metà prezzo dimenticando che presto il suo datore di lavoro gli avrebbe rinfacciato che, dall' altra parte dell'oceano, con suo singolo salario avrebbe reclutato l'equivalente di due squadre di calcetto. In tanti, tantissimi ne hanno approfittato. Da ultimo, con ulteriore paradosso essendo la figlia dell'uomo diventato presidente dichiarando guerra alla globalizzazione, Ivanka Trump i cui prodotti di moda venivano realizzati in venticinque fabbriche cinesi (nel 2018, sull' onda dello scandalo, il marchio ha chiuso). Lo sfruttamento manifatturiero è raccontato da tante prospettive. Le 1.300 persone mandate a casa in rappresaglia di uno sciopero nel 2012 dall' indonesiana PT Panarub Dwikarya Benoa. Le sostanze cancerogene tra 6 e 177 volte superiori ai limiti di legge in una fabbrica vietnamita della Nike. L' incidenza della polineuropatia del calzolaio, malattia da prolungata esposizione ai solventi. Nelle sue spedizioni, Hoskins incrocia tanta Italia. Il toscano che a Skopje possiede metà della fabbrica che realizza scarpe i cui operai non possono permettersi neppure con un'intera busta paga. Ma anche Deborah Lucchetti, coordinatrice della Campagna abiti puliti, «una delle principali specialiste di diritti dei lavoratori nel settore calzaturiero». Si spiega l'escamotage del Traffico di perfezionamento passivo (Tpp), falla della legislazione doganale europea fortemente voluta da noi per poter chiamare Made in Italy roba fatta in Albania, Romania, Ucraina. O il fatto di essere il secondo Paese destinatario delle enormi esportazioni di pellami del Brasile (dopo la Cina, prima degli Stati Uniti). Superpotenza pellettiera tra Solofra, Santa Croce sull' Arno (di recente alla ribalta per infiltrazioni 'ndranghetiste) e soprattutto Arzignano, in provincia di Vicenza. Di cui, a distanza di anni, ho ricordi vivissimi di erculei addetti ghanesi che, dopo averle tenute a mollo due giorni nel cromo per staccargli il pelo, afferravano lenzuoloni di pelle bagnati, pesanti e puzzolenti, il cosiddetto wet blue, per infilarli nei rulli che li avrebbero ammorbiditi. Hoskins racconta anche gli sneakerheads, i feticisti che si ritrovano ai raduni internazionali Sneaker Con per comprare e vendere modelli rari di Adidas come fossero Louboutin. A proposito di suole rosse, si apprende che solo le persone che incontravano il favore di Luigi XIV potevano portare tacchi rossi come i suoi. Si apprende anche che Phil Knight, il co-fondatore di Nike, è andato in pensione cinque anni fa con una fortuna di 35 miliardi di dollari. Vale anche per lui il suggerimento buono per Bezos: non sarebbe andato a letto più sereno condividendo una quota maggiore di quella ricchezza con i milioni di addetti che guadagnano tra i 50 e i 100 dollari per cucire le sue tomaie? Ma immagino che l'osservazione "gli rimbalzi" più della suola dell'Air Max. O addirittura di quelle a cuscinetti d' aria delle Dr. Martens. Diventate famose per l'estetica punk ma inventate - è la scoperta più amara - da Klaus Maertens che dottore era, ma militare nella Germania nazista. Per bilanciare ideologicamente ci sono le Brinco (salto, in spagnolo), progettate dall' artista Judi Werthein per facilitare agli immigrati l'attraversamento del Rio Grande. Appese alle stringhe ci sono bussola e torcia elettrica, poi taschini per nascondere denaro, una mappa nella suola e antidolorifici per la traversata. Ogni lunga marcia, si sa, inizia sempre con un piccolo passo.