Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

  

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Mancinismo.

Giacomo Maggi. Facebook il 7 ottobre 2021. La mano di Dio è qualificata anche come “mano destra”. La destra indica la potenza e l'abilità di Dio, la dolcezza e l'elezione, la capacità di uccidere e di guarire: «La tua destra, Signore, terribile per la potenza, la tua destra, Signore, annienta il nemico» (Es 15,6. 12); «Il Signore con la mano destra compie prodigi» (Sal 118,15-16 ).

Valeria Arnaldi per "il Messaggero" il 13 agosto 2021. Il 9,3%, se si adotta il criterio rigoroso del mancinismo. Il 18,1% se si considera anche chi è ambidestro. Il 10,6%, guardando a canoni e stime più recenti. Queste le percentuali dei mancini nel mondo, secondo uno studio condotto su più di 2 milioni di individui da un team internazionale di ricercatori, pubblicato nel 2020 su Psychological Bulletin. All'incirca, uno su dieci. E la media non tiene conto dei fattori culturali, quindi anche dell'educazione all'uso della mano destra. Sì perché, a lungo, pure in Italia, e in alcuni Paesi ancora oggi, il mancinismo veniva corretto, imponendo, sin dai primi anni di scuola, di usare la destra per scrivere, suonare e via dicendo. Il dato potrebbe, perciò, essere sottostimato. Quali che siano cifre e percentuali, i mancini si stanno preparando a fare festa.

LA RICORRENZA Il 13 agosto - giorno scelto per contestare l'interpretazione sinistra del numero - infatti, si celebra la giornata internazionale dei mancini. A istituirla, nel 1992 - il prossimo anno, sarà il trentennale - è stato il Lefthanders International Club, ricollegandosi a una data individuata nel 1973. Obiettivo della ricorrenza, fare educazione, contrastare i pregiudizi, correggere il linguaggio. Dal francese al tedesco, in più lingue, il termine per indicare i mancini ha spesso anche la valenza di goffo, infausto. In Italia, sinistro è parola dal significato tutt' altro che positivo. Si pensi pure al tiro mancino. La visione, nel tempo, è cambiata e il mancinismo, di studio in studio, è stato celebrato come indice di maggiore intelligenza o creatività, anche sulla base dei nomi noti che, in ogni ambito, hanno conquistato la scena, usando, appunto, la sinistra, da Leonardo da Vinci, ambidestro, a Michelangelo, da Jimi Hendrix a Paul McCartney, da Diego Armando Maradona a John McEnroe fino a Valentino Rossi. E Charlie Chaplin, Albert Einstein, Barack Obama, Bill Gates, Bob Dylan, Lady Gaga e molti altri. Secondo uno studio della St. Lawrence University di New York, tra le persone con quoziente intellettivo molto alto ci sarebbero più mancini della media.

LA RICERCA E una ricerca pubblicata su Nature Neuroscience ha sostenuto la maggiore capacità oratoria di chi utilizza la sinistra. Il National Bureau of Economic Research ha evidenziato come, negli Usa, i mancini abbiano in media un reddito del 15% più alto dei colleghi che non lo sono. A incidere potrebbero essere pure i piccoli ostacoli da affrontare ogni giorno, solleciti a trovare soluzioni creative. La cerniera dei pantaloni è cucita in modo da rendere agevole il suo utilizzo con la destra, non con la sinistra. Le penne con catenella, in banca o uffici pubblici, sono disposte per destri. Pure il bancomat. Problemi non mancano con matite e stilografiche. I quaderni ad anelli sono scomodi. Figuriamoci le sedie con il piano per scrivere. Le forbici ancora di più. Molti attrezzi da lavoro hanno impugnature per destri, così quelli per la cucina. Lo sa bene Chiara Maci, blogger, cuoca, scrittrice e star del food anche in tv - al via, in autunno, la nuova stagione de L'Italia a morsi su Food Network Italia - rigorosamente mancina. «È una caratteristica cui tengo molto, mia nonna Chiara è mancina, anche mia figlia Bianca - racconta - io non ho mai incontrato difficoltà, ma mia sorella, nata solo cinque anni prima di me, è stata corretta a scuola». E ai fornelli? «Il pelapatate non riesco a usarlo, così come gli strumenti dove le lame sono montate per destri e giro sempre taglieri e verdure al contrario. A quattro mani si cucina bene anche se si è un mancino e un destro, basta non stare troppo vicini».

VENDITA ONLINE DEDICATA Il mercato non sta a guardare e lancia prodotti da usare con la sinistra. Nel 1967 a Londra fu inaugurato Anything Left Handed, piccolo negozio per mancini, poi chiuso: oggi esiste solo online ma fa consegne in tutto il mondo. Qui ogni cosa è pensata per chi adopera la sinistra, dagli attrezzi fino ai videocorsi per imparare a giocare a golf, come recita il titolo, dall'altra parte. E basta cercare in Rete per trovare tutorial per diventare mancini. Cambiare mano, secondo alcuni esperti, allenerebbe il cervello.

I mancini non sono più creativi (ma forse dormono peggio): 5 miti a cui non credere. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 Simona Marchetti su Corriere.it. Sebbene appena il 10% della popolazione mondiale usi la mano sinistra, circolano numerose leggende sulle presunte differenze con i destrimani: per la maggior parte si tratta di pura aneddotica. Simona Marchetti 13 agosto 2019 su Corriere.it.

Mito 1: i mancini sono più creativi. Le persone molto creative hanno tante caratteristiche in comune: l'essere mancini non è una di queste. La convinzione contraria è solo un mito di lunga data, probabilmente avallato da uno studio risalente al 1995, che aveva evidenziato un maggior pensiero creativo nella risoluzione dei problemi da parte degli uomini che usano di preferenza la mano sinistra, sebbene nelle donne mancine tale differenza non fosse risultata altrettanto evidente.

Mito 2: i mancini sono leader nati. Anche se ben 6 degli ultimi 12 presidenti Usa erano o sono mancini, ciò non significa che tale caratteristica sia un requisito per ottenere l'incarico, poiché non esiste alcuna prova scientifica che leghi la capacità manuale con la leadership. «Alla base di queste considerazioni fra leadership e manualità c'è l'analisi di alcune carismatiche figure storiche - spiega Elizabeth Ochoa, capo del dipartimento di Psicologia del Mount Sinai-Beth Israel, al Reader's Digest - e la deduzione a cui si è arrivati è che questi personaggi dovevano avere qualcosa in comune fra loro per essere così autorevoli e di successo, come appunto l'essere mancini».

Mito 3: i mancini sono più intelligenti. Tutti possono essere più o meno intelligenti, indipendentemente dalla mano di riferimento. «Uno studio degli anni Settanta ha esaminato oltre 7mila studenti delle elementari e non ha riscontrato alcuna differenza nelle abilità intellettive dei mancini rispetto ai destrimani», conferma Ochoa. Casomai, i mancini possono pensare in maniera diversa: questo perché la maggior parte degli oggetti di uso quotidiano è ideata e realizzata per persone che usano la mano destra, quindi i mancini hanno dovuto imparare a essere più flessibili nel pensiero, trovando il modo migliore per utilizzare questi attrezzi nella vita di tutti i giorni.

Mito 4: i mancini sono introversi. Un altro luogo comune è che i mancini tendano ad essere più introversi dei destrimani, ma a sfatare questo stereotipo ci ha pensato uno studio neozelandese del 2013, che non ha rilevato alcuna differenza fra i due gruppi con diversa manualità in nessuno dei cinque tratti della personalità analizzati.

Mito 5: i mancini usano l'emisfero destro del cervello. Poiché la maggior parte dei destrimani utilizza l'emisfero sinistro del cervello per elaborare il linguaggio, si potrebbe facilmente pensare che i mancini facciano il contrario. In realtà, non è necessariamente così: infatti, sempre nello studio neozelandese di cui si parlava nella precedente scheda, Gina Grimshaw, direttore del Cognitive and Affective Neuroscience Laboratory dell'Università di Wellington, ha scoperto che il 98% dei destrimani e il 70% dei mancini usa l'emisfero sinistro del cervello, confutando così la teoria che i due gruppi abbiano i cervelli “invertiti”.

Mito 6: I mancini hanno più problemi a dormire (forse). Un piccolo studio pubblicato sulla rivista Chest ha monitorato il movimento periodico degli arti inferiori (un fattore che può disturbare gravemente il sonno) di mancini e destrimani durante il riposo, scoprendo così che ne soffre il 94% dei primi rispetto ad appena il 69% dei secondi.

Mito 7: I mancini hanno più probabilità di soffrire di schizofrenia? Stando a uno studio dell'Università di Yale condotto su un piccolo gruppo di soggetti provenienti da una clinica psichiatrica, coloro che presentano disturbi psicotici come la schizofrenia avrebbero il 40% di probabilità in più di essere mancini rispetto invece a chi soffre di disturbi dell'umore quali depressione o disturbo bipolare. L'obiettivo dei ricercatori era quello di analizzare il legame fra manualità e caratteristiche della psicosi (come allucinazioni o visioni), al fine di identificare biomarcatori che consentano di arrivare a una più rapida individuazione della malattia, così che un giorno si possa trovare un trattamento su misura più efficace per il tipo di disturbo mentale diagnosticato.

Giornata mondiale dei mancini: le 13 situazioni da «incubo» per chi usa la sinistra. Pubblicato martedì, 13 agosto 2019 da Simona Marchetti su Corriere.it. Il mondo ragiona con l’emisfero sinistro e usa preferibilmente il lato destro del corpo. O almeno, la maggior parte del mondo. Perché i mancini esistono e non sono neanche pochi. La destra non viene preferita per niente da almeno un decimo della popolazione e di questa fetta, la maggioranza è al 100% mancina. Non importa: ci sono piccoli oggetti che usiamo nella nostra vita quotidiana che dimostrano quanto i destrimano si siano imposti sulle abitudini di chi preferisce la mano sinistra. Niente di tragico, ma per loro comporta delle difficoltà quotidiane con conseguente nervosismo. Sin dal 1973 si festeggia allora la Giornata mondiale dei mancini per «sensibilizzare» su questa lateralizzazione del mondo. La festa cade il 13 agosto ed è inizialmente nata come una ricorrenza più che altro popolare. Ufficiale lo diventa nel 1992, grazie al Left-Handers Club — istituzione nata due anni prima per essere un punto di riferimento della «categoria» — e oggi viene celebrata in tutto il mondo. Il Club produce e vende oggetti pensati e prodotti proprio per essere usati con la sinistra. E dunque per provare ad ovviare alle loro difficoltà nella vita di tutti i giorni. Le più diffuse? Eccole nelle prossime schede. Giornata mondiale dei mancini: le 13 situazioni da «incubo» per chi usa la sinistra. Il 13 agosto si festeggiano i mancini dal 1973 per «sensibilizzare» sulle abitudini quotidiane (e le piccole difficoltà) di una parte di popolazione che proprio con la mano destra non si trova:

Il banco che non piace ai mancini. Si parte sui banchi di scuola. Nessun problema quando questi sono piccole scrivanie a cui avvicinarsi seduti su una sedia. Ma al liceo — e soprattutto all’università — è comune trovare sedie con tavolette ribaltabili. A cui appoggiarsi per prendere appunto. Ecco, la tavoletta scende sempre a destra. Comodo per molti, molto scomodo per alcuni.

Le forbici ergonomiche (ma non per mancini). Quando le forbici sono state costruite apposta per essere più comode da usare, i mancini sbuffano. Perché saranno anche più comode per chi usa la destra — con quell’impugnatura ergonomica — ma non certo per loro.

Le carte da gioco con i numeri solo su due angoli. Un altro problema è con le carte da gioco. Nessun impedimento se queste hanno i numeri e i segni stampati su tutti e quattro gli angoli. Ma nel caso in cui siano scritti solo su due, per un mancino sarà davvero difficile tenerle in mano. E soprattutto capire al volo cosa sta scartando.

Il metro al contrario. Provate a impugnare un metro con la sinistra, voi che usate la destra. Vedere tutti i numeri al contrario non sarà certo piacevole.

La discriminazione delle parole crociate. Anche le parole crociate discriminano velatamente i mancini. Che se seguono l’ordine dei numeri si ritroveranno ben presto con il dorso della mano sinistra ricoperto d’inchiostro.

La lotta dei gomiti. Il problema nasce anche dalla convivenza con un destrimano. Per esempio a colazione: seduti fianco a fianco, è inevitabile scatenare una lotta all’ultimo gomito e magari finire per versare i cereali sul tavolo.

I quaderni con gli anelli. I quaderni con gli anelli non piacciono neanche a chi usa la destra, ma almeno il problema di scrivere bene nasce solo nell’ultima parte della riga. O quando si gira pagina. Mentre per i mancini, le difficoltà ci sono subito.

Il diabolico apriscatole. Impossibile per un mancino usare un apriscatole. La manovella è a destra. Serve usare la mano destra. Non ci sono scorciatoie.

Il galateo nemico. In una tavolata è comune usanza posizionare il bicchiere leggermente a destra del piatto. Così da afferrarlo, appunto, con la mano destra. A meno che a fianco a te non sia seduto un mancino distratto che istintivamente te lo ruba.

Suonare la chitarra: difficoltà al quadrato. Alcuni strumenti musicali sono decisamente difficili da suonare per un mancino. Per esempio la chitarra: chi preferisce la sinistra dovrebbe ribaltare tutte le corde, nonché le note scritte sulle tablature.

Il Pos della carta di credito. Anche un’innocente operazione come pagare la spesa può rivelarsi discriminatoria. Chi l’ha detto che devo strisciare la carta di credito con la mano destra? Il Pos, qualunque Pos, che ha lo spazio dedicato posizionato proprio a destra.

La zip dei pantaloni. La zip, di per sé, è neutra. Ma nei pantaloni e nei jeans viene «nascosta» da un pezzo di stoffa che rende molto difficile chiuderla con la sinistra.

I numeri sulla tastiera del Pc. La soluzione per un mancino che vuole usare la tastiera dei numeri di un Pc? Raggiungerla con la mano destra, non ci sono alternative.

·        Le Superstizioni.

Perché sperare nelle nuvole. Tonino Ceravolo su Il Quotidiano del Sud il 19 settembre 2021. Maltrattate da una lunga tradizione culturale che risale alla Grecia antica (si pensi alla velenosa polemica anti-socratica di Aristofane), considerate con sospetto a causa della loro permanente mutevolezza che le rende polimorfiche, inafferrabili e sfuggenti, le nuvole rinviano solitamente a un modo di essere distratto, stralunato, avulso dalla realtà quotidiana. “Avere la testa tra le nuvole” o “cadere dalle nuvole” indicano disdicevoli comportamenti di distacco dalla base mondana della vita e “acchiappanuvole” è un epiteto, vicino all’ingiuria, che contrassegna persone dotate di un temperamento sognante, portate a speculazioni idealistiche o prigioniere di tenaci illusioni. Queste sono le caratteristiche, racconta Swift nei Viaggi di Gulliver, degli abitanti di Laputa, l’isola volante tra le nubi, talmente immersi nelle loro astruse speculazioni «da non essere in grado né di parlare, né di seguire le parole altrui» e, per di più, goffi, inetti, impacciati «nelle comuni azioni di tutti i giorni». C’è di peggio. Le nuvole di polvere sono spesso il segno dei disastri naturali o di quelli prodotti dagli uomini e le nuvole di fumo o di gas rimandano anche alle catastrofi tossiche di Chernobyl, Seveso o Bhopal. E tuttavia, accanto a questa scia di discredito che le nuvole si trascinano dietro, esiste anche una diversa tradizione, documentata pure nell’Antico Testamento, che le pone come luogo di presenza e di rivelazione del divino. Nel libro dell’Esodo, per esempio, Dio si annuncia in una “densa nube” e nella conclusione dell’episodio del Decalogo si vede Mosè che avanza «[…] verso la nube oscura, nella quale era Dio». Successivamente, Mosè sale sul monte, la nube copre il monte per sei giorni e al settimo il Signore lo chiama dalla nube. E ancora, quando Mosè entrava nella tenda del convegno di Jahvè con il popolo, «scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda. Allora il Signore parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube, che stava all’ingresso della tenda e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della propria tenda». La “nube oscura” è, peraltro, lo spazio in cui la rivelazione si compie ed è possibile cogliere Dio secondo uno dei classici della mistica medievale, non a caso intitolato La nube della non conoscenza. Insomma, le nuvole aprono anche alla speranza per l’uomo di elevarsi al di sopra dei limiti della condizione terrena, che, comunque, di esse ha sempre bisogno, perché sono foriere e portatrici di pioggia, di fertilità per la terra, in altre parole di vita.

Valeria Arnaldi per "il Messaggero" il 19 settembre 2021. Ci sono le superstizioni tradizionali, come il cornetto rosso, meglio di corallo, che porterebbe bene o lo specchio rotto che, invece, assicurerebbe disgrazie, come il passaggio sotto una scala o il sale caduto a tavola. E, poi, quelle più intime, spesso non confessate, personali: l'abito portafortuna, le scarpe del primo appuntamento, la camicia da mettere ad ogni colloquio o magari, l'incontro in cui sperare purché avvenga entro una certa ora. Gli italiani sono superstiziosi. Anzi, lo sono sempre più. I numeri di quanti, nel nostro Paese, si affidano a piccoli - o grandi - riti, gesti, talismani per affrontare con più sicurezza il domani, sono alti. E, in epoca di pandemia, sono cresciuti sensibilmente.

NUMERI Da un sondaggio Swg è emerso che, quest' anno, a ritenere di essere superstizioso è ben il quaranta per cento degli italiani. Il 5% confessa di esserlo sempre, il 35% solo in alcune situazioni. Di fatto, forse, quando serve. E se la percentuale è già alta, il dato diventa ancora più rilevante, quando si confrontano le cifre di questi mesi con quelle degli anni precedenti. A credere nella sfortuna, nel 2015, era il 36% dei connazionali. Nel 2017, il dato è salito al 37%. Il 40% raggiunto nel 2021 conferma un trend, che la pandemia pare aver accelerato. Insomma, come sottolinea lo studio, guardando alla spiritualità nelle sue varie forme, si conferma «una tensione e una ricerca verso modelli di spiegazione della realtà e di gestione della propria esperienza di vita che superano la dimensione della razionalità scientifica». Laddove la quotidianità non fornisce più risposte, o quantomeno non quelle desiderate, le domande si pongono altrove. Prima della pandemia, stando ai dati Codacons, erano già oltre trentamila gli italiani che, ogni giorno, si rivolgevano, per un consulto, a maghi, astrologi e veggenti. «La superstizione - spiega Anna Maria Giannini, docente di psicologia all'ateneo romano Sapienza e psicologa clinica dell'Ordine Psicologi Lazio - ha a che fare con le condizioni di maggiore incertezza e dubbio. La condotta superstiziosa si mette in campo perché è rassicurante. Tante persone, magari, dicono che non sanno se avere con sé un cornetto serva ad attirare la fortuna, ma nel dubbio lo tengono. È un meccanismo non patologico che, bene o male, riguarda tutti. In situazioni di grande tensione e instabilità, scattano ancora di più le condotte di tale tipo». Così, forse, una sorta di effetto Covid. «Nel caso del Covid, abbiamo sperimentato una delle più grandi incertezze della nostra vita. La gente, colta da grande instabilità su un aspetto chiave della persona, la salute, quindi in condizioni di insicurezza, appunto, più facilmente ha fatto ricorso a meccanismi superstiziosi, in quanto rassicuranti e perché costano poco. Se lo si possiede, non costa nulla portare con sé un talismano, che si crede protettivo».

FRAGILI Il fenomeno è trasversale. Molti sono superstiziosi, tutti possono diventarlo. «Non c'è una correlazione con età o genere - continua - ma con la percezione di fragilità, ossia il fatto di sentirsi insicuri. Accade a tutti, ma, in certe età, si è o ci si sente più fragili. A fare la differenza sono principalmente, però, differenze individuali, storie personali, benessere, retaggio culturale. La superstizione, in sé, in quanto rassicurante, fa stare meglio, non è nociva, a patto che non diventi dipendenza. Se troppo rigida, però, può diventare un ostacolo alla flessibilità di pensiero e un problema». Può pure, per paradosso, tradursi in sfortuna. «La superstizione è patologica quando condiziona la vita delle persone - conclude Giannini - ossia quando, se non ho il mio cornetto o altro, mi sento fortemente insicura e determino quasi inconsciamente che le cose vadano male: mi impegno meno o, sentendomi incerta, ho una performance peggiore, faccio errori. Questo rafforza ancora di più la convinzione che il talismano funzioni».

 Dea Verna e Luca Uccello per "Oggi" l'11 giugno 2021. «Da quando sono diventata presidente del Museo Egizio, Fabio Fazio non mi invita più». E’ stata Evelina Christillin, con questo aneddoto rivelato nel programma Tiki Taka, a svelare al pubblico una caratteristica del conduttore di Che tempo che fa ben nota agli addetti ai lavori: la sua salda, fortissima, incrollabile superstizione. Il presentatore e terrorizzato dal viola e dalla presunta aura malevola degli antichi Egizi. Le storie su di lui si sprecano: i giornali ticinesi raccontano di quando i suoi collaboratori fecero cambiare una incauta signora svizzera, che si era presentata alle registrazioni del programma vestita di viola. Stessa indicazione venne data (informalmente) ai giornalisti in sala stampa durante i Festival di Sanremo da lui presentati: «Per favore, non vestitevi di viola». «Fabio ha tutte le sue fisse: entra in scena sempre dallo stesso posto e per primo», ha raccontato Filippa Lagerback. Ma se Fazio e il più irriducibile dei superstiziosi vip, non è l’unico. Perfino una svedese di ferro come la Lagerback ha confessato qualche debolezza: «Sono già vittima delle scaramanzie di mio marito Daniele Bossari che mi costringe a sostare sul ciglio della strada ogni volta che vede un gatto nero», ha raccontato. «Ma anch’io ho un mio rito personale: terrorizzata dagli aerei, prima di metterci piede busso tre volte sulla carlinga». Noi di Oggi abbiamo fatto una piccola inchiesta e abbiamo scoperto che il mondo dello spettacolo e affollato di curiosi riti, scaramanzie e amuleti. Elisa Isoardi, per esempio, ci ha confidato che lei non prende mai decisioni al martedì. Mentre Lorella Boccia, conduttrice di Venus Club su Italia 1, ci rivela che, prima di entrare in scena ha un rito, oltre alla classica chiamata alla mamma: tocca il fondoschiena a tutto lo staff. Daniela Ferolla, conduttrice di Linea Verde Life su Rai 1, ci dice: «Prima di una partenza o di un progetto di lavoro, faccio il bagno nel sale». Il bagno nel sale, in realtà, e un rito ricorrente. E ci spiega perchè l’ex velina Thais Wiggers. «Da brasiliana, sono molto spirituale», spiega. «Credo che quando sei felice, brilli, e tutto va bene, alcune persone possono provare invidia e mandarti il malocchio. Come rimedio, faccio il bagno con il sale grosso, perchè niente cresce sul sale e in più ha un potere energizzante». Tra i più superstiziosi, Giovanni Ciacci che ci racconta: «Porto sempre con me i corni presi a San Gregorio Armeno a Napoli. Evito di passare sotto le scale e se vedo un gatto nero mi fermo e aspetto. Su di me non uso mai il viola». Pietro Genuardi, tra gli attori più amati del Paradiso delle signore, la serie che fa ogni giorno ascolti boom su Rai 1, ci spiega di odiare il numero 13. «Non ho problemi con il numero 17, ma non sopporto il 13», dice. «Questa sindrome ha un nome e si chiama triscaidecafobia (e un disturbo d’ansia provocato dalla paura esagerata del numero 13, ndr)». Sempre dal set del Paradiso delle signore, Vanessa Gravina ci dice: «Non passo mai il sale di mano in mano e non prendo mai l’aereo il 13 o il 17». Sara Croce, la Bonas di Avanti un altro, invece spiega: «Mangio sempre le stesse cose prima dello show. E mi faccio venire a salutare da Leo, uno dei ragazzi della regia». L’attore Roberto Farnesi non si separa mai da tre oggetti che per lui hanno un valore speciale. «Ho una croce al collo che mi aveva regalato mia madre e un anello che era sempre al dito di mio padre», dice. «E poi una piccola ancora che mi ha regalato la mia compagna (Lucya Belcastro, ndr), simboleggia il porto sicuro che ho finalmente trovato. Questi tre oggetti per me sono uno scudo contro le avversità». Flavio Montrucchio, il conduttore di Primo appuntamento Crociera su Real Time e Discovery +, ha un’abitudine portafortuna curiosa: se beve da una bottiglia poi deve toccarsi la punta del naso con la stessa bottiglia. Valerio Staffelli prende sempre il tapiro per il muso e prima di entrare in scena urla: «Rock’nRoll!». Catena Fiorello tiene in borsa tre sassolini presi dalla spiaggia di Letojanni. «Era la spiaggia dove da bambina andavo con la famiglia», ci spiega. «Immagino che in quei sassolini ci siano tracce di quella infantile felicita. Ogni volta che li stringo sento una bella energia». Andrea Zenga ci racconta: «Scendo sempre dalla stessa parte del letto quando mi alzo se no penso che la giornata parta male. Sono fissato con il sale a tavola: devo sempre poggiarlo a tavola prima di passarlo. E non passo mai sotto le scale». La scala e una bestia nera anche per Ilary Blasi. «Ho paura di passarci sotto», ha detto. «Non so perchè, e una cosa che ho ereditato dai miei genitori». Curiosa anche la fobia della showgirl Elena Morali: «Quando passeggio con qualcuno, non mi faccio mai dividere da un palo», racconta. «Temo il 13, ogni volta che c’è di mezzo questo numero succede qualcosa: una volta mi sono rotta la gamba il 13! Evito di viaggiare e di prendere l’aereo». Infine Donatella Rettore e fedelissima a un oggetto di ferro (ma non rivela cos’e). «Al mio primo concerto, trovai sul palco questo oggetto, e mi sono detta: “Mi accompagnerà sempre, ma nessuno deve capire che è il mio portafortuna”. Da allora la mia carriera non si è fermata mai»

·        Geni e imperfetti.

Federico Taddia per “La Stampa” l'11 aprile 2021. «Dove c'è perfezione, non c'è storia» scriveva nei suoi taccuini Charles Darwin, per esplicitare quanto l'evoluzione si nutrisse delle differenze, delle divergenze, delle sfumature spesso ritenute inutili. E allora perché non andare a cercare storie di imperfezioni, o meglio, di «non perfetti» che hanno fatto la storia? La rivincita dei diversi: ecco la molla che ha fatto scattare l'intuizione al giornalista e scrittore Vladimiro Polchi, autore di Nessuno è imperfetto, una efficace e coinvolgente raccolta di 30 profili di personaggi famosi, da Agatha Christie a Emiliano Zapata, che delle proprie debolezze hanno fatto un punto di forza.

Albert Einstein? E' insofferente alla disciplina, comincia a parlare tardi, inizia a scrivere che ha già 9 anni. Insomma, è lento. E proprio questo, come lui spiega, probabilmente è all'origine della sua capacità di interpretare la fisica dell'universo: «Quando mi domando come mai sia stato proprio io a elaborare la teoria della relatività, la risposta sembra essere legata a questa particolare circostanza: un normale adulto non si preoccupa dei problemi dello spazio-tempo, tutte le considerazioni possibili in merito a questa questione sono già state fatte nella prima infanzia. Io, al contrario, mi sono sviluppato così lentamente che ho cominciato a interrogarmi sullo spazio e sul tempo solo dopo essere cresciuto e di conseguenza ho studiato il problema più a fondo di quanto un normale bambino avrebbe fatto». Semplice, no?

E che dire allora di Antonio Gramsci, affetto da una deformante tubercolosi ossea fin da piccolo, tanto che i compagni di classe lo schernivano con il soprannome di «Gobeddu», il gobbetto? Studio metodico, arguzia e testardaggine diventarono però ben presto le sue difese vitali.

Lo strano catalogo di imperfetti conosciuti continua con Lionel Messi, la pulce: piedi meravigliosi in un corpo che a 11 anni ancora non superava i 130 cm. Gli fu diagnostica una carenza dell'ormone della crescita: una sentenza feroce, ma non abbastanza da impedirgli di diventare uno dei calciatori più famosi del pianeta.

E ancora: gli attacchi di panico di Emma Stone, le sofferenze di Frida Khalo inflitte dalla poliomielite prima e da un grave incidente poi, le lesioni al lato sinistro del volto causate dai medici durante il parto a Sylvester Stallone, oltre al rachitismo e alle balbuzie.

La vera perfezione non esiste, ed è una cosa che andrebbe detta, spiegata, testimoniata: è il cuore del messaggio di Polchi, il punto in cui più insiste nel disegnare questo suo antidoto alla fragilità, alla timidezza, al timore di non essere all’altezza. I personaggi narrati è come se fossero degli Avangers al contrario, supereroi con quotidiane insicurezze al posto dei superpoteri, che con le loro biografie dispensano pillole curative, capaci di immunizzare da prese in giro, offese e senso di inferiorità. «A sette anni ho pensato di essere stupido: ma non ero stupido, ero come un pesce su un albero» - confessa per esempio Mika, popstar internazionale di origine libanese, riferendosi di quella stessa dislessia non riconosciuta o scoperta in tarda età, che aveva fatto sentire inadeguate, poco intelligenti e fuori posto sui banchi di scuola una sgrammaticata Agatha Christie e una impacciata star del cinema come Jennifer Aniston. «Sono tutt'ora dislessico» - continua Mika -. «Non riesco neppure a leggere l'ora sull'orologio e per scrivere uso la tastiera del computer, con la penna per me è impossibile. Quando un compagno di scuola tentò di fare il bullo, gli sventolai sotto il naso il test e gli dissi che ero stupido legalmente, mentre lui non aveva scuse per la sua stupidità. Con la forza della musica, sono riuscito a sviluppare una versione diversa dell'intelligenza: l'idea della normalità è un'illusione totale, la normalità non esiste».

«Essere normali è noioso: preferisco essere speciale», fa da eco la nazionale di pallavolo Paola Egonu nel ricordare, dall'alto del suo metro e 89, come non si sia mai fatta schiacciare dagli insulti ricevuti per il colore della sua pelle.

Così come il registra Steven Spielberg, nel ripensare alla propria carriera, va con la memoria a quando aveva timore di andare a scuola, anche a causa dell'intolleranza e le discriminazioni subite per essere figlio di genitori ebrei. E aver trovato sollievo e protezione nel suo nascondiglio preferito: dietro a una telecamera.

Attivare altre competenze, vedere le cose in maniera inusuale, sviluppare sensibilità laterali, trasformare in risorse le proprie atipicità: con consapevolezza e imparando a farsi rimbalzare i pregiudizi altri. Ecco il riscatto degli imperfetti, in un mondo dove i perfetti - in fondo - piacciono solo a loro stessi.

·        Riso Amaro.

Perché ridere fa bene e come «curarsi» col sorriso. Alessandra Sessa su Vanityfair.it il 2/5/2021. Dagli effetti su cervello, cuore e polmoni alla cura antidepressiva. Il sorriso è protagonista di vere e proprie terapie e pratiche antistress che entrano in reparti ospedalieri e sessioni dedicate. Lo sosteneva già Ippocrate, il padre della medicina antica. E lo trasformò in terapia di fama mondiale Patch Adams, il medico americano portato sullo schermo da Robin Wiliams: ridere aiuta a guarire! Non un semplice momento di evasione, dunque, ma una vera e propria terapia. E a riconoscerne gli effetti, nel 2017 arriva anche in Italia la legge che stabilisce «la possibilità di utilizzare, attraverso l’opera di personale medico, non medico e di volontari appositamente formati, il sorriso e il pensiero positivo a favore di chi soffre un disagio fisico, psichico o sociale». Oggi, nella Giornata mondiale della risata, vogliamo capire perché ridere faccia bene e quali siano i modi per trarne giovamento.

TUTTI I BENEFICI DELLA RISATA. Sono moltissimi e coinvolgono sia corpo che mente. Per quanto riguarda la salute corporea, una risata migliora la circolazione del sangue, contribuisce a rafforzare il sistema immunitario e tiene il cervello in allenamento. In pratica ridere aumenta la pressione sanguigna aiutando a prevenire le malattie cardiovascolari e a restare giovani. Inoltre, diversi studi mostrano come il riso aumenti gli scambi polmonari abbassando il livello dei grassi nel sangue, riducendo il colesterolo. E sulla mente? Ridere rilascia endorfine, gli ormoni della felicità, e questo ha un influsso benefico sulla gestione di ansia, stress, e sul livello di autostima. Lo hanno dimostrato diversi studi, fra cui quello della Mayo Foundation for Medical Education and Research, che ha registrato il drastico calo degli ormoni dello stress nei soggetti monitorati durante le risate. Così come la ricerca del Loma Linda University, pubblicata anche su Nature, che ha mostrato come nei partecipanti allo studio fosse stato rilevato un aumento del 27% di beta-endorfine in seguito alla vista di un video comico. Praticamente una sana risata equivale a un antidepressivo, ma senza controindicazioni. Per non parlare del rapporto interpersonale che, grazie al sorriso, migliora e distende l’ambiente. Soprattutto in ambito lavorativo, dove il buonumore salda il rapporto tra colleghi, favorendo il lavoro di gruppo e la capacità di problem solving. Ma non solo, il buonumore dissipa le ombre in un baleno e aumenta anche la leadership. Ad esempio, i ricercatori della St. Edwards University di Austin, in Texas, hanno scoperto che l’81% dei 2500 impiegati intervistati dichiarava di essere più produttivo in un luogo di lavoro disteso e pervaso dal buonumore. Del resto, come dargli torto?

QUANDO LA RISATA È CURATIVA. «Una risata può avere lo stesso effetto di un antidolorifico: entrambi agiscono sul sistema nervoso anestetizzandolo e convincendo il paziente che il dolore non ci sia» ama ripetere Patch Adams, il padre della clownterapia. Ma quando e come nasce la terapia del sorriso? Fra i primi a occuparsene vi fu il professore della Standford University William Fry, che negli anni Settanta approfondì i processi fisiologici del riso misurando gli effetti sul battito cardiaco e sulla circolazione arteriosa. Lo scienziato arrivò addirittura a quantificare la dose giornaliera per stare meglio. Cento risate al giorno per avere lo stesso effetto tonificante di dieci minuti di vogatore. Mentre i suoi colleghi dell’American College of Cardiology hanno individuato la quota ottimale in dieci, quindici minuti al giorno per la salute psicofisica. In questo contesto s’inserisce la clownterapia di Patch Adams che fonda un metodo terapeutico basato sull’umorismo e il divertimento come supporti alla guarigione fisica e psichica del paziente. Una vera e propria cura collaterale che entra, tra giochi e scherzi da clown, in diversi reparti: da quelli pediatrici a quelli geriatrici. La sua storia, diventata famosissima grazie al film americano, si diffonde in tutto il mondo. Anche in Italia ci sono oggi migliaia di clown-dottori, infermieri e volontari. Gli effetti? Distogliendo l’attenzione dal dolore si generano emozioni positive, si de-medicalizza l’ospedale e si distendono muscoli e sensazioni.

LO YOGA DELLA RISATA. Ma la gelotologia (dal greco gelos=riso e logos=scienza) trova applicazioni anche fuori dalle strutture mediche e assistenziali. Grazie alla pratica dello Yoga della Risata, infatti, la terapia diventa esercizio e tecnica che chiunque può seguire a casa con soddisfazione. Lo si deve al dottore indiano Madan Kataria, che negli anni Novanta sperimenta i benefici della risata su se stesso, dopo esser rimasto bloccato a letto per una malattia. È proprio grazie a lui che si festeggia la Giornata mondiale della risata, ogni prima domenica di maggio. Su cosa si basa questo genere di yoga? La pratica combina esercizi respiratori dello yoga con il riso indotto. Niente barzellette o scherzi da clown! In questa disciplina la risata è volutamente forzata, fragorosa e diaframmatica, ma gli effetti su corpo e cervello sono gli stessi di una spontanea. Diventa dunque un esercizio che aumenta l’ossigeno e l’energia protraendo la risata per diversi minuti, se non ore. E se è vero che la risata è contagiosa, la pratica trae forza proprio dal gruppo. Non a caso sono nati in tutto il mondo, Italia compresa, dei veri e propri club della risata (domenica è prevista una maratona della risata, per info vai qui). Ci si dà appuntamento fisicamente e, soprattutto in questo periodo, anche on line. Quando? Al mattino. Così la giornata inizia dell’umore giusto!

Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” l'1 maggio 2021. «Vietato piangere». Seguiva il feretro impugnando un cartello contenente questo ordine un giovane uomo, che faceva parte di un drappello di altri uomini, i quali tutti camminavano composti come soldatini, con i tratti del viso calcificati in una espressione che non poteva dirsi triste ma neppure felice, ma soltanto concentrata. Mi ha colpito questa immagine. Me l'ha descritta Vittorio Feltri, quando qualche giorno fa parlavamo della maniera che ognuno di noi ha sviluppato, in base alla propria educazione, di manifestare le emozioni, brutte o belle che siano. Egli era un bimbetto quando, nel cuore di Bergamo, vide scorrere questa scia funebre, e gli restò impresso nella memoria quel divieto: sì, qui abbiamo un morto, ma che nessuno si sogni di piagnucolare, sia chiaro. Chi lo sa se si trattava di una precisa indicazione dettata dal defunto quando ancora era in vita? O forse era un desiderio dei suoi congiunti, allergici a quei lamenti insopportabili che, se fatti in solitudine scaricano, alleviano il dolore, ma, se fatti in gruppo, lo accentuano, appesantendolo. Di sicuro è una questione, appunto, di educazione. Un tempo estrinsecare le sensazioni era quasi un atto indecente, un mettersi a nudo, quindi un mostrarsi senza difese, scoperti, fragili. Oggi non lo è più. Chi non nasconde ciò che prova adesso non è più considerato debole e indecoroso, bensì semplicemente umano. E il senso di umanità piace, ne abbiamo bisogno, ci rassicura, ci fa sentire uniti, ci avvicina, ci migliora. Accorgersi della sofferenza altrui, confrontarci con essa, comprenderla sono operazioni che favoriscono l'empatia, ci rendono più sensibili e ci inducono a capire meglio noi stessi. Il confronto con quello che sentono gli altri è talmente giovevole che è stata inventata la cosiddetta "giustizia riparativa", ossia quel meccanismo che porta il reo e la vittima ad incontrarsi, affinché il primo si renda conto del patimento che ha arrecato alla seconda e questa ultima possa superare i sentimenti negativi e pure il trauma che derivano dal danno subito, rimarginando la ferita e spalancando il cuore al perdono. Un progresso per entrambi. Personalmente non mi preoccupano coloro che esprimono le proprie emozioni, piuttosto mi fido poco di coloro che non le esprimono mai, che le soffocano nello stomaco, dove ribollono per poi detonare. Ogni emozione inespressa, quindi soffocata e rigettata, secondo diversi studiosi, può trasformarsi in un acciacco, in un male, in un sintomo fisico, in una patologia. Tanto vale allora tirare fuori tutto. E pure piangere, se è il caso. Non è vietato né alle donne né agli uomini, né ai bambini né agli adulti. Non può essere mica proibito ciò che è assolutamente naturale. Assistiamo negli ultimi mesi, anzi già dallo scorso anno, come hanno confermato i dati Istat, ad un aumento delle violenze in famiglia, omicidi inclusi. Il 2020 è stato l'anno in cui gli omicidi hanno toccato in Italia i numeri minimi storici, eppure sono cresciuti quelli avvenuti all' interno del nucleo familiare, ossia tra consanguinei. In particolare, troppo spesso la cronaca ci sta raccontando di figli che ammazzano i genitori, figli che covavano sentimenti di rabbia e di odio, uniti ad una cieca brama di annientare, ossia cancellare, coloro che li hanno dati alla luce. Questi sentimenti non insorgono all' improvviso nell' animo di un individuo, bensì vengono alimentati e coltivati per lustri. Com' è che nessuno si accorge della loro esistenza? Come si può passare dalla calma piatta, dalla normalità quasi monotona, al fatto di sangue? Se le emozioni fossero state estrinsecate di volta in volta e non fossero state lasciate esplodere in modo tanto devastante, anzi atomico, questi delitti sarebbero avvenuti? Allora che l' educazione alle emozioni faccia ingresso nelle case, pure perché ne abbiamo esigenza più che mai, stressati come siamo da una pandemia che ha sconvolto le nostre esistenze portando a galla le nostre vulnerabilità, che non si dica mai più al pargoletto "non piangere", che non gli si dia mai più uno schiaffo perché lo fa, gesto che ho visto compiere a padri e madri, che non si esiti a dichiarare "ti voglio bene" e che alla stessa maniera non si esiti a rivelare "mi sento arrabbiato", o trascurato, o solo, o disperato, illustrando i motivi. Le emozioni sono nostre amiche, sia quelle positive che quelle non positive, si trasformano in nostre nemiche solamente allorché noi le rinchiudiamo nel ripostiglio. Concediamoci dunque di essere emotivi.

Il saggio di Zipparri. “Il riso e il sacro”, la storia degli italiani tra il comico e il tragico. Filippo La Porta su Il Riformista il 23 Aprile 2021. «Agli italiani piace ridere e fare ridere», scriveva Flaiano, che della materia si intendeva. Il comico è radicato nel nostro modo di essere al mondo. E aggiunge: «Due italiani si incontrano al Polo Nord: già fa ridere». Perciò da noi al posto del tragico si installa la commedia, e il nostro carattere viene più da Boccaccio, da quell’universo carnevalesco dove tutti imbrogliano tutti, anche ridendoci sopra (come nei western di Sergio Leone) che dalla severità morale di Dante. Nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani Leopardi osserva che «gli italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione». Il denso saggio dello psicanalista Salvatore Zipparri Il riso e il sacro (FrancoAngeli, pp. 102, euro 19) affronta dunque una questione centrale per noi italiani, e per come si è formato il nostro carattere nazionale nei secoli. Il libro ripercorre varie teorie sul riso (da Rabelais a Bachtin da Ferenczi a Eco, da Baudelaire a Eagleton, singolarmente trascurando il saggio importante di Pirandello del 1908), alla sua irriducibile ambiguità, ma resta fedelmente ancorato alla teoria freudiana, che insiste sulla natura malevola, aggressiva del riso, ben diversa dall’ilarità di san Francesco (perciò il riso era condannato dai Padri della Chiesa). Si ride per scaricare una tensione e quasi sempre a spese di qualcuno. Il riso come derisione, scherno, dileggio, che dunque ha bisogno di una vittima sacrificale. Qui il riso si ricongiunge al sacro (insieme abietto e sublime) poiché Girard ci ha spiegato come Cristo, Agnello di Dio venuto a togliere il peccato, si offre come vittima palesemente innocente per disinnescare il meccanismo del capro espiatorio. I soldati romani che sbeffeggiano Cristo ne hanno anche paura: sentono di essere entrati a contatto con una dimensione oscura, perturbante, numinosa dell’essere (il sacro). L’immagine più blasfema che abbia mai visto in un film è quando in Nazarin di Bunuel il sacerdote in una allucinazione vede nel quadretto appeso alla parete Gesù che improvvisamente ride a squarciagola: sta ridendo di lui, di tutti noi! Il libro è ricco di spunti critici. Prendiamo la questione del riso e dei freni inibitori. È giusto ridere di una barzelletta sugli ebrei o sui disabili? Ben scelta, in proposito, la barzelletta “nera” del pedofilo assassino che porta la bambina nel bosco tenebroso. Lei “Ho paura”, lui: “Figurati io, che dopo dovrò tornarmene da solo”. Proviamo a commentarla: non direi che si ride (ammesso che si rida) per una complicità con il pedofilo. Piuttosto: si ride del fatto che anche un killer perverso ha paura del buio! Più che mettermi dalla parte del carnefice la barzelletta mi distrae per un momento dalla vittima, e forse un poco disinnesca il meccanismo della ferocia. Diverso il caso della barzelletta (popolare quando andavo a scuola) del bambino con disabilità che dopo aver ottenuto l’agognato gelato, lo contempla per un po’ e poi se lo spiaccica sulla fronte. Qui, obiettivamente, non mi viene da ridere, e la trovo ripugnante. Non per autocensura o per un sussulto moralistico. Ma perché nella scenetta non vi è alcun “conflitto” tra essere e apparire. In questo caso ci soccorre proprio Pirandello con il suo “avvertimento del contrario”: diventa ridicolo uno che vuole apparire diverso, anzi il contrario, di ciò è (la vecchia signora con i capelli ritinti, il ministro che sbaglia i congiuntivi, il parvenu della cultura che si dà arie di raffinatezza…). Inoltre: il riso rovescia l’ordine e dissacra – “una risata vi seppellirà” (slogan del Movimento del 1977) – ma se la risata volesse rovesciare un ordine giusto e dissacrare non il potere ma, poniamo, la carità verso i sofferenti? Il comico non si può regolamentare. Lucifero ride dal basso, Satana dall’alto. Il contatto ravvicinato con il comico produce conoscenza e ci rivela la illusorietà della nostra presunta superiorità. Ma siamo certi che generi anche pietas, come sostiene Zippari? Apprezzo la originalità della tesi, ma ipotizzare che la derisione bullistica nasconda un sentimento di empatia mi pare troppo. Va bene: il bullo si accanisce sulla sua vittima in modo ossessivo perché – forse – percepisce il destino tragico della condizione umana stessa (l’irruzione del sacro), e alla fine potrà riconoscere che siamo tutti egualmente fragili e in balia degli eventi (tutti con la paura del buio!). Ma per arrivare a una conclusione del genere, per nulla scontata, occorre un lungo percorso interiore, fatto di doloroso esame di coscienza e allenamento al senso critico su di sé ( attitudini scarsamente presenti nella nostra “società”, secondo quel saggio di Leopardi). Se agli italiani piace soprattutto ridere ciò potrebbe fare di loro il popolo più saggio del pianeta, e invece si traduce perlopiù in una grottesca coazione ad essere “simpatici” ad oltranza, inesauribili barzellettieri, inclini a nascondere la depressione (dissento radicalmente da Zipparri su un punto solo: quando dedica uno spazio eccessivo al Nome della rosa, romanzo sopravvalutato, esempio di letteratura intesa come videogioco culturale, che appunto nasconde la depressione!). Ma affinché ciò accada si dovrebbe cogliere il nesso arcaico tra comico e tragico (di cui parlò Socrate nel Simposio), e ritrovare attraverso il riso, anche inizialmente maligno, la via maestra al sacro. Perché il sacro? Cognizione della relatività e imperscrutabilità di ogni cosa, stupore di fronte a un mondo insensato, incongruente, però vitale: l’atto meravigliosamente gratuito della Creazione riflesso poi nella gioia dell’esistenza. La “buona novella” non può essere triste. E se non ci fa ridere quantomeno dovrebbe farci sorridere. Filippo La Porta

·        La Rivoluzione Sessuale.

Tomaso Montanari per “il Venerdì di Repubblica” il 10 giugno 2021. Nonostante i moniti dei trattatisti e l'impegno dei censori non è mai stato possibile tracciare un confine netto tra pornografia e arte erotica: se non altro perché il dominio maschile sulla società richiedeva alle immagini prodotte dagli artisti anche le funzioni oggi assolte da ciò che chiamiamo pornografia. La questione è ancora più larga, come ha ricordato lo storico dell'arte David Freedberg in un libro molto influente (Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazioni ed emozioni del pubblico, 1989): «Diciamo pure che nel mondo occidentale l'osservazione ha sempre avuto luogo attraverso gli occhi maschili, perché ha sempre avuto luogo attraverso gli occhi di uomini che desiderano possedere, o possiedono, delle donne». Freedberg cita un ricordo infantile dello scrittore Maksim Gorkij, aspramente rimproverato per aver posato su un'icona della Madonna non un casto bacio di venerazione, ma un appassionato bacio sulle labbra. Le accuse a Caravaggio e a Bernini di aver ritratto prostitute nelle loro Madonne e nelle loro sante vanno calate in questa preoccupazione di lunga durata. E d'altra parte Giorgio Vasari racconta che quando un ingenuo fiorentino chiese al pittore Toto del Nunziata (1468-1525) di dipingergli una Madonna che non «movesse a lascivia», quegli gliene portò una... con la barba. Uno dei maggiori scandali della nostra storia artistica legati ad immagini erotiche travolse Marc'Antonio Raimondi, il grande incisore allievo di Raffaello. Nel 1524 e poi nel 1527, questi aveva stampato i Modi disegnati da Giulio Romano: sedici immagini molto esplicite degli amori tra dei ed eroi. Clemente VII fece gettare in carcere per alcuni mesi Raimondi, e la censura papale fu abilissima nel trovare e distruggere quasi tutti gli esemplari dei Modi. Naturalmente si trattava di opere pensate per una fruizione strettamente privata. La stessa per cui nacque il quadro oggi più celebre in questo eterno filone figurativo, L'origine del mondo di Gustave Courbet, dipinto nel 1866 come un ossessivo, singolarissimo ex voto dell'ex ambasciatore ottomano a San Pietroburgo, l'egiziano Khalil-Bey, appassionato erotomane afflitto dalla sifilide: che lo teneva appeso in bagno, normalmente coperto da una tenda verde, come una reliquia o un feticcio. Dopo essere appartenuto al grande psichiatra e psicoanalista Jacques Lacan, solo nel 1988 si è trovato il coraggio di appenderlo in un museo pubblico. E ancora oggi, ogni volta che viene pubblicato sui social o sui giornali, viene travolto da centinaia di commenti indignati. Il potere delle immagini, evidentemente, non conosce tramonto.

LA RECENSIONE. COSÌ È NATA LA RIVOLUZIONE SESSUALE. Domenico Bonvegna su ilsudonline.it il 27 marzo 2021. «Nessuno finora ha scritto una storia della rivoluzione sessuale». Lo scrive Lucetta Scaraffia nel suo «Storia della liberazione sessuale. Il corpo delle donne tra eros e pudore», Marsilio Editori (2019). «Il motivo si può ben capire: si tratta di scrivere la storia di una forma di pensiero che ha causato una trasformazione radicale nei comportamenti, ma che è stata fatta passare come inevitabile. Quasi fosse un momento obbligato del progresso, dell’affermazione della libertà individuale, un’altra tappa sulla strada che porta alla felicità». In questo studio Scaraffia individua il passaggio epocale tra il declino del pudore e il trionfo del corpo che diventa protagonista nella società. E’ il tema che occupa i primi capitoli (Liberi dal pudore). Si parte dall’immagine dei figli dei fiori di Woodstock, il grande festival del 1969, ormai è diventato il simbolo decisivo del cambiamento sia nel percepire il corpo, che nel comportamento sessuale. Un avvenimento che richiama al mito dell’innocenza ritrovata, del paradiso perduto. «I partecipanti alla manifestazione volevano credere – e soprattutto far credere – di avere ricostituito il mondo puro e libero da violenza e aggressività quale doveva essere stato l’eden, dove la felicità sarebbe stata garantita a tutti grazie alla libertà da ogni proibizione sessuale». La novità di Woodstock non è tanto la nudità, ma il fatto che i rapporti sessuali avvenissero sotto gli occhi di tutti: sostanzialmente assenza di pudore e liberazione di quelle regole che avevano costituito il cuore del pudore dei secoli passati, almeno per quanto riguarda la cultura occidentale di matrice cristiana. Infatti, la rivoluzione sessuale, fin dagli inizi, è una pretesa di affrancamento dal senso del pudore, «ritenuto un condizionamento negativo della cultura borghese che blocca la spontaneità degli istinti, e quindi impedisce la felicità individuale, creando nella psiche degli esseri umani nevrosi e aggressività». Pertanto per i fautori della rivoluzione sessuale, «il tradizionale senso del pudore incentrato sulla sessualità – inculcato nei bambini fin dall’infanzia – viene considerato un mezzo subdolo per garantire la repressione sessuale». La fine del pudore, ha soprattutto interessato lo svelamento progressivo del corpo femminile. Ma il risultato per la Scaraffia è stato contraddittorio: «da un lato, le donne si sono liberate dalle costrizioni e pregiudizi, dall’altro, il corpo femminile svestito è diventato il più frequente oggetto di marketing pubblicitario». Come del resto appare con la rivoluzione sessuale, soprattutto le donne sembrano perdere da una parte quello che conquistano dall’altra. Tutto questo cambiamento, che cosa ha comportato? Ogni ostacolo alle immagini ritenute offensive al senso del pudore è considerato non solo sbagliato, ma inutile. Lo vediamo nel cinema, in televisione, in internet, che ormai trasmette a chiunque, qualsiasi tipo di pornografia. Siamo giunti al punto che «la mancanza di pudore, equiparata a coraggiosa e moderna apertura a una vita libera, fa sì che oggi addirittura ci siano persone che diffondono immagini pornografiche di se stesse, salvo poi pentirsene, soprattutto se giovani donne». A questo proposito la Scaraffia commentando le dichiarazioni di Saviano, favorevole alla normalizzazione di certa trasgressione, può scrivere che oggi ormai il concetto di pudore, il suo significato è stato completamente impoverito. «Secoli di riflessioni teologiche e antropologiche nonché filosofiche sul concetto di pudore sono infatti stati dimenticati a favore di un’interpretazione, che si vorrebbe ‘liberatoria’ da un concetto che ha radici antichissime e così profonde da definire la stessa natura umana». A questo punto la scrittrice torinese si avvia a trattare come è stato considerato il pudore nella storia dell’umanità, a partire dalla nudità di Adamo ed Eva. Passando da come veniva visto il pudore nell’antichità, nell’antica Grecia, fino alla Bibbia ebraica. Per arrivare al Novecento e qui la Scaraffia dedica un capitolo al pudore femminile nella tradizione islamica. La questione del velo, che rappresenta il pudore per eccellenza, «protegge quello delle donne, impedendo al tempo stesso agli uomini di trasgredire il loro, mostrando l’eccitazione sessuale». Scaraffia fa riferimento anche al mondo cattolico come le donne fino a un certo periodo erano velate, coprivano i capelli. Comunque a dare un’espressione negativa del pudore, almeno in Occidente ci ha pensato la psicanalisi, disciplina portante dei profeti della rivoluzione sessuale. Tuttavia come la morale anche il pudore si oppongono alla soddisfazione sessuale, entrambi creano nevrosi e perversioni, secondo i guru della rivoluzione sessuale. «Disgusto, morale, pudore costituiscono una triade che impedisce il piacere: l’energia sessuale, costretta, può quindi dare origine a nevrosi, perversioni[…]». Forse la parte più interessante dello studio, è la seconda (Una guerra alla libertà). Qui si affronta la Rivoluzione Sessuale con tutti i suoi aspetti aggiuntivi, l’eugenetica, la psicanalisi, il “falso antropologico” che promuove il libero amore. Sono gli aspetti pseudoscientifici che l’autrice confuta. La rivoluzione sessuale si incontra presto con quella femminista, entrambi condividono il problema del «controllo delle nascite: solo la possibilità di controllare la fertilità, infatti, può permettere sia la liberazione sessuale che l’emancipazione delle donne». L’alleanza tra i due movimenti risale alla fine del XIX secolo, nell’ambiente scientifico che sostiene l’eugenetica. Infatti la contraccezione viene accettata nella prospettiva di avere un mondo migliore, di persone sane. Ancora non si ha il coraggio di giustificarla come un desiderio individuale, di fatto egoistico. Il controllo delle nascite, nel secondo dopoguerra, prende un nome più scientifico e più positivo: pianificazione familiare. Sostanzialmente, la motivazione più gettonata per convincere le masse ad adottarla è ancora di tipo utopico: «l’idea che i bambini desiderati e voluti diventeranno esseri umani migliori, più sani e più intelligenti, ma anche più equilibrati e più felici di quelli nati per ‘caso’». La svolta per i sostenitori del controllo delle nascite si è avuto con la pillola, scoperta dal dottor Pincus, che apre nuove e inedite prospettive per le teorie della liberazione sessuale. Scaraffia, fa nomi e cognomi di chi ha finanziato le ricerche e poi la diffusione della pillola. E’ tutto un mondo americano impregnato di teorie utopiche intorno al controllo delle nascite. Margaret Sanger, Havelock Ellis, George Drysdale, e poi tante associazioni destinate a diffondere la contraccezione, e poi l’aborto, fino alla Planned Parenthood Federation of America. Le fondazioni Rockefeller e Ford. Tutti questi pseudo scienziati, sono legati alla prospettiva eugenistica. Scaraffia non nasconde che questi signori sono legati all’eugenismo della Germania nazista. Con la pillola, le donne separano la sessualità dall’amore, dalla famiglia. Adesso sono sole a scegliere se concepire un figlio. La rivoluzione sessuale «non solo era destinata a separare definitivamente la sessualità dalla procreazione, ma anche dal matrimonio e dall’amore, per legittimarla come semplice ricerca di piacere individuale». In questo modo la sessualità perde la sua dimensione sociale e pubblica, per divenire un’attività privata e insindacabile, da questo momento ognuno rivendica il diritto di fare le scelte che preferisce. La rivoluzione sessuale e la contraccezione a partire dagli anni sessanta sono le questioni per eccellenza, che si scontrano subito con la Chiesa, che risponde con l’enciclica Humanae vitae, di san Paolo VI. Tuttavia questo mondo della rivoluzione sessuale ha partorito anche la sessualità LGBT, che «a guarda bene sono solo i gay a realizzare, senza supporti biotecnologici, l’obiettivo desiderato». Infatti nel sesso senza riproduzione si colloca la sessualità omosessuale. A fronte di questo paradiso di libertà sessuale, arriva il serpente dell’Aids che rovina tutto. E chi ricorda che per vincere il contagio di questa malattia si può fare soltanto con la fedeltà di coppia o con l’astinenza. Chi lo dice o lo scrive viene tacciato di conservatorismo o di bigottismo. L’essere umano non è fatto per la promiscuità. La Scaraffia affronta anche la squallida questione del sesso con i minori, che fa parte della rivoluzione sessuale, delle “conquiste” del sessantotto. Ricordate lo slogan “vietato vietare”, si pensava che la rivoluzione sessuale dovesse abolire ogni concetto di perversione, fino ad arrivare alla liberazione della pedofilia. Altro tema legato alla rivoluzione sessuale, è quello dell’esplosione della pornografia. Attenzione la Scaraffia ricorda che i guru della rivoluzione sessuale avevano garantito che la liberalizzazione dei comportamenti erotici avrebbe comportato la fine della pornografia, considerata solo un effetto della repressione. Nessuno aveva previsto il suo trionfale aumento. Interessante il capitolo (Alle origini della rivoluzione), forse quello per cui vale la pena leggere il pamphlet della storica, giornalista e professoressa torinese. E’ importante perchè Scaraffia sostiene e documenta come la rivoluzione sessuale è nata negli ambienti dei rigidi scienziati ottocenteschi dell’eugenismo. Questi «pensavano di poter migliorare l’umanità impedendo la nascita degli esseri umani deboli e malati, e favorendo invece quella dei sani, belli e intelligenti». In pratica significava proibire alle persone sospettate di trasmettere malattie o condizioni fisiche considerate inadeguate al miglioramento della razza. In molti paesi si sterilizzarono uomini e soprattutto donne, considerate portatori di malattie. Il primo scienziato ad affrontare la questione fu un medico caro agli eugenisti, lo psichiatra austro-ungherese, Richard von Krafft-Ebing. Le sue teorie hanno avuto successo, si trattava di classificare le deviazioni sessuali, alla quale veniva data una spiegazione medica, totalmente opposta alla morale cattolica. Altro professore citato è Havelock Ellis, questi propone la vita sessuale degli animali come modello. Concludo l’argomento con una tesi significativa di Scaraffia: «E’ interessante scoprire quanto sia stata proprio la scienza eugenetica a diffondere principi che poi saranno fatti propri dalla rivoluzione sessuale, contribuendo a renderli opinione diffusa […] Questa contiguità fra trasformazione del comportamento sessuale e teorie eugenetiche è confermata dall’inquietante simultaneità fra l’introduzione della prassi eugenetica e la legalizzazione dell’aborto e della contraccezione in quasi tutti i paesi in cui l’eugenetica è stata applicata. Quella che oggi appare e viene raccontata come una vittoria della libertà individuale, un allargamento dei diritti e della democrazia, deve una parte importante delle sue origini a una falsa scienza, oggi caduta completamente in discredito perchè apparentata al nazismo». Collegata alla rivoluzione sessuale c’è la psicanalisi di Sigmund Freud, che si sviluppa accanto all’eugenetica con lo schema: perversione-ereditarietà-degenerazione. Freud porta alla nuova utopia, quella della necessità del piacere per tutti. Scaraffia affronta anche il tema della “naturalità” nel comportamento sessuale delle cosiddette società primitive. Si fa l’esempio del paese di Otaiti e poi dei villaggi nella Melanesia nord-occidentale e poi di Samoa. Gli antropologi erano convinti che in queste popolazioni c’era una totale assenza di inibizioni sessuali. Soltanto poi si scoprì che si trattava di favole, non c’era libertà sessuale. Nella migliore delle ipotesi si trattava di malintesi. Innanzitutto la Scaraffia sentenzia che la rivoluzione sessuale è stata soprattutto una rivoluzione di carta: è la nuova utopia, attivata nel secondo dopoguerra da un gruppo di libri, in prevalenza di matrice anglosassone. Gli ideologi, i padri nobili, di questa rivoluzione furono principalmente Wilhelm Reich (1857-1957) e Herbert Marcuse (1898-1979). Sono quelli che hanno fornito la finalità politica e la speranza di miglioramento nella vita individuale. Per Scaraffia, rileggendoli, questi libri, si nota una certa infondatezza, superficialità utopistica, colpevole cecità della natura umana. Tuttavia negli anni sessanta, questi libri sono stati il vangelo della rivolta. La Scaraffia si sofferma su entrambi delineando gli aspetti principali dei due leader della rivoluzione sessuale. Reich creatore del termine rivoluzione sessuale, da cui è nato il testo più conosciuto della sua opera. L’altro testo di notevole successo è stato La psicologia di massa del fascismo. Ha criticato in modo particolare la famiglia che rende l’individuo spaventato e timoroso davanti all’autorità. «Il fascismo sfrutta ed esalta la struttura familiare autoritaria, repressiva e antisessuale, proprio perchè questa offre il terreno ideale per il suo sviluppo». Per uscire dalla deriva fascista per Reich bisogna sostituire la famiglia patriarcale autoritaria con quella sperimentata dalla rivoluzione russa. Ma il pensiero più seguito e più letto dal movimento studentesco del ’68 è quello di Marcuse, attraverso i suoi due libri principali, Eros e civilta e L’uomo a una dimensione. Nel capitolo (Il piacere sotto inchiesta) la Scaraffia affronta le teorie dell’ematologo Alfred Kinsey, un profeta-scienziato che con le sue ricerche ha avuto un grande impatto sociale. Le sue opere furono tradotte in tutto il mondo e divenne la bandiera di coloro che chiedevano una liberalizzazione della morale sessuale. I suoi studi forniscono le basi per una nuova morale sessuale, molto permissiva. Uno dei suoi allievi più fedeli Hugh Hefner ne coglie l’importanza e fonda un periodico di grande successo, “Playboy”. Nel capitolo (Il sesso immaginato) si affronta l’era del sesso, mentre «le scienze umane contribuivano in modo decisivo a cambiare la mentalità nei confronti del comportamento sessuale presso i ceti intellettuali e quindi presso le élite occidentali, la rivoluzione sessuale raggiungeva i ceti popolari attraverso una serie di scandali al cui centro vi erano appunto romanzi, ma anche film e canzoni». Un ruolo fondamentale nella trasformazione della mentalità lo hanno svolto il primo Lp dei Beatles e un libro scritto da H. D: Lawrence, L’amante di Lady Chatterley. Ma non solo la Scaraffia ricorda l’uscita alla fine degli anni ’70 del disco-scandalo per l’epoca di “je t’aime…moi non plus”. Il film di Bernardo Bertolucci,“L’ultimo tango a Parigi”. Un ulteriore altro scandalo è procurato da un libro edito da una piccola casa editrice legata al movimento studentesco, di“Porci con le ali”. Comunque la Scaraffia documenta una serie di opere letterarie che praticamente si sono impadronite dei temi erotici. Il volume si avvia alla conclusione tentando di fare un bilancio con lo sguardo critico di quelle scelte e nelle scelte successive del percorso della rivoluzione sessuale o della liberazione delle donne. E’ una critica serrata da femminista, appartenente al mondo cattolico. Sostanzialmente per la Scaraffia sono state le donne a pagare il prezzo più alto per una liberazione che si è mossa in una direzione opposta a quella dei loro desideri più profondi. Quanto tempo c’è voluto perché le donne capissero. “Si è raggiunta la felicità prospettata per le donne e gli uomini del nostro tempo?” Alla domanda non possiamo dare una risposta totalmente affermativa. «Piuttosto è vivo il sospetto che anche questa promessa utopica abbia fallito […] confermata dalla costante crescita della depressione che, secondo l’Oms, entro il 2030 potrebbe diventare la malattia cronica più diffusa nel mondo». DOMENICO BONVEGNA

·        L'Apocalisse.

Se l'Apocalisse diventa lo specchio (oscuro) dell'inquieto presente. Geminello Alvi, analizzando il testo biblico, svela perché il libro di Giovanni parla a noi. Camillo Langone, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale.  Adesso ci vorrebbe un commento del commento. Il commento all'Apocalisse scritto da Geminello Alvi (Necessità degli apocalittici, Marsilio) nonostante sia molto più lungo è poco meno denso del testo commentato. E non è particolarmente esplicativo, anzi lo è pochissimo, l'autore non fa né finge di fare divulgazione e mette subito in guardia il lettore definendo l'oggetto delle sue ricerche un «labirinto», un «libro senza esito», un testo «scritto per farci perdere nei suoi enigmi snervanti», insomma «di complicatissima lettura». Di complicatissima attribuzione, per giunta. Io pensavo e speravo che l'Apocalisse di Giovanni fosse per l'appunto di Giovanni ossia di San Giovanni Evangelista... Ingenuo che non sono altro, e poco aggiornato: molti studiosi, sulla base delle forti differenze stilistiche, pensano ora che il quarto vangelo e l'Apocalisse siano di due autori diversi, sebbene omonimi. Ma non voglio perdermi nella filologia, convinto che il papiro autografo con tanto di data, località e firma non lo troveranno mai (ammesso esista ancora in qualche grotta, sotto qualche sabbia), e se lo troveranno non sarà leggibile, e se sarà leggibile non offrirà risposta alla domanda: Giovanni chi? Meglio lanciarsi, da bieco giornalista, a caccia di riferimenti all'attualità. In questo «diario enciclopedico di quanto appreso durante tanti anni leggendo e rileggendo il libro dell'Apocalisse» non sono tantissimi ma in compenso, sparsi fra le 460 pagine, sono terribili. C'è il rogo di Notre Dame, «cielo squarciato», «rito scoperchiato», ovviamente «sintomo apocalittico». C'è internet, «bestialità omologante che riplasma in automatismo dispotico ogni umanità». C'è lo statalismo che ha trasformato lo Stato in «recita grottesca per la quale tutti ormai si industriano per vivere alle spese di tutti». Non poteva non esserci Papa Francesco a cui Alvi riserva definizioni talmente dure che, pur sospettando la validità delle medesime, e pur non nutrendo simpatia alcuna per l'uomo Bergoglio, sono tentato di omettere. Ma verrei meno al mio compito di servire il lettore. E allora tenetevi forte: «Papa facente funzione, di umore instabile e volentieri fuori fuso orario: il suo viso somiglia alla statua che Arnolfo di Cambio fece a Bonifacio VIII. Come lui profitta della rinuncia di un altro papa; e ha voluto il suo Giubileo, atona cantata senza solennità e fede». Tenetevi fortissimo: «Devoto a Giuda». E infine, se possibile, inchiodatevi alla sedia: «Il viso del papa arrabbiato, cupo, è lo stesso di Giuda prima di impiccarsi, che guarda per terra e al cielo non crede: barcolla, biascica sociologie, dalle quali non trae sollievo, tantomeno sa darne. Un volto disgustato certifica conclusi duemila anni di papato». Il bello è che simili affermazioni non provengono da un ateo, da un anticristiano, ma da un esegeta che scruta il più visionario dei libri biblici dal punto di vista della fede: «Senza la rivelazione di Cristo io direi sconsigliabile al lettore meditare le profezie apocalittiche». Alvi è un cristiano capace di turbarsi leggendo Teilhard de Chardin (fra gli apocalittici necessari del titolo) che negli anni Trenta si turbò a sua volta ascoltando queste parole di un vecchio missionario: «La storia stabilisce che nessuna religione si è potuta mantenere nel Mondo per più di due millenni. Passato questo tempo muoiono tutte. Ora per il Cristianesimo saranno presto due millenni». E mi turbo anch'io, buon ultimo, a leggere tale citazione che mi ricorda un pensiero di Sossio Giametta, il grande nicciologo: Nietzsche come fondatore-anticipatore di una nuova religione materialista destinata a soppiantare il cristianesimo allo scadere dei duemila anni fatali. Sembra che ci siamo e infatti Alvi, per una volta semplificando la sua prosa ipnotica, scrive: «L'Apocalisse è ora». Poteva mancare il virus famigerato in un libro come questo? Non poteva. L'ultimo capitolo ha il titolo più inquietante, «Provvisorio epilogo durante la prima epidemia», e qui i versetti sembrano intrecciarsi ai dpcm: «I governi sono evoluti a esplicito tramite provvidente della prima bestia dell'Apocalisse, per rinchiudere gli abitanti della terra in esistere di popolazione biologica, disciplinata...». Si sta parlando della Bestia con sette teste che gli esegeti del passato identificavano nell'impero romano mentre nelle pagine di Alvi ha le sembianze dell'attuale potere covidista, dell'arbitrio statale che esaltato dalle nuove tecnologie diviene dispotismo bio-informatico. Chiaramente è un libro per pochi, Necessità degli apocalittici, per noi felici pochi e dico felici, aggettivo all'apparenza del tutto incongruo, non per citare Shakespeare ma proprio per interpretare Alvi che è al contempo, miracolosamente, apocalittico e sereno: «Una calma mite e immensa, imperturbabile, emana fino a invadere ogni veridico lettore di Giovanni». Siccome «la beatitudine è la morte in Cristo e la fine del mondo».

·        Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Maria Giuseppina Muzzarelli per “La Stampa” il 23 agosto 2021. Nel Medioevo le feste ritmavano regolarmente la vita dei singoli e delle collettività. Oltre un quarto dei giorni era festivo: domeniche, Natale, Epifania, Candelora, Annunciazione, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, ricorrenze patronali o predicazioni. Anche quando arrivava un predicatore in città e teneva i suoi sermoni per giorni e giorni (e ogni predica durava parecchie ore) si sospendevano le usuali attività, dunque era vacanza, non si lavorava, si era liberi dalle usuali occupazioni. Noi oggi associamo l'idea di vacanza al piacere, al divertimento, al godimento fisico: ecco, non era propriamente così nel periodo medievale, anzi fino almeno all'XI secolo la festa era sì sospensione del lavoro ma anche dell'attività sessuale. Dai Libri penitenziali, testi a uso dei sacerdoti che suggerivano la penitenza appropriata per ogni peccato, utilizzati fino al pieno Medioevo, si ricava una sorta di ossessione nei riguardi dell'attività sessuale regolarmente vietata nei giorni di festa. Preclusa nelle tre Quaresime (quaranta giorni prima di Pasqua, di Natale e di Pentecoste) ma anche negli anniversari delle nascite dei santi apostoli, nelle feste principali, in quelle pubbliche e in diverse altre occasioni specificate, ne derivava che restavano in media appena una cinquantina di giorni all'anno per la manifestazione lecita dello slancio sessuale. Dunque festa ha significato per un periodo non breve vacanza dal lavoro ma anche privazione del piacere, almeno in teoria. Balli e mascheramenti La festa implicava seguire le funzioni religiose e principalmente andare in chiesa. Si distingueva dal «giorno da lavorare» per l'abbigliamento ma non solo. Si caratterizzava anche per attività ludiche, non di rado trasgressive, che soprattutto a carnevale davano luogo a travestimenti e a eccessi di vario genere. Festa era ballare, cantare e darsi un'identità posticcia e mangiare in abbondanza. Fra i cibi da festa c'era la carne. Per la festa d'Ognissanti in Toscana vigeva una particolare abitudine alimentare: consumare un pranzo a base di oca. Meno terragno e più gentile l'uso per Pentecoste, detta Pasqua Rosada, di adornare le chiese di fiori o di far piovere durante la messa petali di rose. Usi che contraddistinguevano il tempo festivo. Quanto ai mascheramenti, talvolta facilitavano offese e violenze. Che la festa sfociasse in atti aggressivi è abbastanza noto. I feroci putti fiorentini che amavano organizzare sassaiole e altre violenze sono passati alla storia così come il tentativo di Girolamo Savonarola di partire da loro per una profonda riforma dei costumi. Le feste liberavano non solo dal lavoro ma anche dal controllo e davano luogo ad attacchi alla gerarchia e all'onore in particolare delle donne. Sul finire del Medioevo, dopo la cacciata da Firenze di Piero de' Medici la milizia savonaroliana mise mano a una vasta operazione di cristianizzazione della principale festa pagana, il Carnevale. Nel 1497, anno di affermazione di un gonfaloniere savonaroliano e dunque della concreta possibilità di realizzare il programma politico e morale del frate domenicano, Savonarola intese capovolgere il trasgressivo e lascivo carnevale in un grande falò delle vanità convertendo i denari raccolti per vani festeggiamenti in una questua realizzata dai fanciulli, volta a finanziare il Monte di Pietà. A ben vedere e a modo suo anche il falò delle vanità organizzato da Savonarola rappresentava una peculiarissima festa, oltre alla liberazione dal peccato realizzata incenerendo libri giudicati lascivi, abiti, dadi e altri analoghi oggetti in luogo delle anime dei loro possessori. Un grande rito collettivo liberatorio suggestivo e partecipato. Savonarola godeva di vasto seguito, ma togliere al popolo le feste era rischioso e non fu l'unico rischio che corse il frate. Ne uscì perdente. All'indomani del martedì grasso del 1497 si intensificarono le attività antifratesche e ben presto si affermò una nuova signoria contraria a Savonarola con il tumulto dell'Ascensione. Seguì il divieto di predicare per il frate il cui corpo venne bruciato il 23 maggio 1498 sulla stessa piazza dove era divampato l'anno prima il falò delle vanità. Per molti fu una festa: macabra, terribile ma partecipata. Inferno sull'Arno Anche in occasione delle feste del calendimaggio (l'antica festa del primo maggio) si registrava la caduta delle regole e l'abbandono alla vitalità incontrollata. Il giorno di calendimaggio del 1304 un gruppo di fiorentini organizzò una rappresentazione dell'inferno sul fiume Arno. Ne parlano le cronache. Su barche di varia foggia e misura vennero sistemati apparati scenici per riprodurre i luoghi e i supplizi dell'inferno con fantocci, graticole per arrostire i reprobi, caldaie piene di acqua bollente per bollirli, spiedi e altro ancora. L'effetto sul pubblico di questo spettacolo sconvolgente fu enorme, e duraturo il ricordo in considerazione anche del finale tragico con il crollo del ponte alla Carraia. Molti morirono per vedere la festa e così andarono di persona a verificare come erano le pene dell'inferno, commenta sarcastico il cronachista Marchionne di Coppo Stefani. Una nuova razionalità Il tempo libero dal lavoro doveva servire a «prendersi consolazione» il che non per tutti significava mangiare a crepapelle o lanciarsi in attività aggressive bensì, all'opposto, darsi alla preghiera e alla penitenza. Poteva anche essere tempo dedicato allo studio e alla riflessione. Alla fine del Medioevo in taluni ambienti intellettuali si venne affermando un nuovo concetto di svago sulla base di suggestioni del pensiero umanista. Contestualmente si è dilatata una riflessione sul valore economico del tempo fondata su una nuova razionalità applicata agli affari e in particolare ai titoli di restituzione maggiorata del denaro prestato. Nel valutare l'esigibilità di un interesse assunse sempre più rilievo il trascorrere del tempo e la considerazione degli eventi che in quel tempo potevano prospettarsi, positivi o negativi che fossero. È l'epoca degli orologi nelle piazze e dello sviluppo del pensiero del francescano spirituale Pietro di Giovanni Olivi secondo il quale «il tempo è realtà specifica per ogni singolo oggetto e rispetto a ciascuna cosa appartiene per proprietà o per diritto a questo o a quello». Il tempo diventa manifestamente un bene economicamente valutabile, qualcosa da non perdere, da investire per ricavarne il massimo profitto: siamo alle origini di molte forme del nostro attuale pensiero, ivi compreso il tormento del doverci divertire per forza in vacanza perché se no è tempo sprecato, un investimento sbagliato. Ottimo modo per rovinarci le vacanze!

·        Il Carnevale.

DOMANDE E RISPOSTE A GOOGLE. Perché si festeggia il Carnevale? Significato e origini della festa. Celebrata con travestimenti, scherzi e dolci tipici, ha origini antichissime. L’Italia vanta la presenza di alcuni dei Carnevali più belli e famosi del mondo. Una curiosità? I coriandoli vennero inventati nel 1875 dall’ingegnere Enrico Mangili di Crescenzago. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 10/2/2021. Da Venezia a Rio De Janeiro, tra maschere, travestimenti, dolci e scherzi. Il termine Carnevale deriva dalla locuzione latina «carnem levare» — «privarsi della carne» –, con un riferimento al banchetto finale che secondo la tradizione si teneva l’ultimo giorno prima di entrare nel periodo di Quaresima. La data — infatti — è strettamente legata a quella della Pasqua: al termine dei festeggiamenti del Carnevale arriva il Mercoledì delle Ceneri che segna l’inizio della Quaresima, periodo caratterizzato da maggiore sobrietà (anche spirituale, per i credenti). Una piccola differenza è rappresentata dal Carnevale ambrosiano, la cui durata – finisce infatti con il «sabato grasso», quattro giorni dopo rispetto al tradizionale «martedì» («il martedì grasso» è il giorno che precede la Quaresima e la tradizione vuole che nella giornata si consumino i dolci fatti in casa, in vista del periodo di digiuno che seguirà) – sembra risalire a un pellegrinaggio del vescovo Ambrogio che aveva annunciato il suo ritorno «in tempo per celebrare con i milanesi le ceneri». La popolazione decise quindi di posticipare il rito alla domenica successiva per aspettare il suo rientro. Nel 2021 — ad esempio — Pasqua sarà il 4 aprile: il giovedì grasso cade l’11 febbraio, mentre il martedì grasso è il 16 febbraio. Da mercoledì 17 febbraio (mercoledì delle Ceneri) inizierà la Quaresima. Il Carnevale italiano si distingue per le sue maschere regionali e tradizionali, ognuna con le proprie caratteristiche: da Arlecchino a Pulcinella. E ogni regione ha anche i propri dolci tipici e tradizionali, come le chiacchiere, conosciute anche come frappe o bugie. L’Italia vanta la presenza di alcuni dei Carnevali più belli e famosi del mondo: Venezia, Viareggio, Putignano, Ivrea e altri. Una curiosità? Uno dei simboli del Carnevale sono, assieme alle stelle filanti, i coriandoli di carta che nacquero nel 1875 da un’idea dell’ingegnere Enrico Mangili di Crescenzago (Milano). L’ingegnere li realizzò a partire dalle carte traforate usate per l’allevamento dei bachi da seta. Un’invenzione contesa con un altro ingegnere di Trieste, Ettore Fenderlche, che nel 1876 ritagliò dei triangolini di carta. 27 febbraio 2020 (modifica il 10 febbraio 2021 | 10:45)

·        Il Pesce d’Aprile.

Caterina Maniaci per "Libero Quotidiano" l'1 aprile 2021. Primo aprile 1938. La guerra è ancora lontana, ma i tempi sono inquieti. Quella mattina gli americani sintonizzati su radio Cbs, prima distrattamente poi sempre più attoniti, scoprono che un'astronave aliena è sbarcata sulla Terra: il radiocronista segue passo dopo passo l'evento e lo descrive in presa diretta. Si diffonde il panico, i centralini della polizia e dei giornali sono presi d'assalto. Molti si riversano sulle strade, muniti di maschere antigas; molti corrono in chiesa, altri ancora si rintanano nelle cantine e negli scantinati. Se avessero pensato di considerare di più il nome del radiocronista, Orson Welles, e avessero controllato sul calendario la data, forse avrebbero cominciato a nutrire qualche dubbio e si sarebbero risparmiati lo spavento. Uno degli scherzi più riusciti della storia e quindi giustamente diventati storia. Uno dei pesce d'aprile diventati un vero classico. La tradizione è universale e ha una storia antichissima, che si perde nella notte dei tempi e la cui origine non è certa. Tutti uniti, quindi, nel segno della presa in giro, della beffa, della notizia falsa costruita ad arte. Quest' anno la tradizione appare sbiadita, decisamente sotto tono. I tempi scanditi dalla pandemia lo impongono, c'è poca voglia di ridere. In Germania il ministero della Sanità tedesca ha addirittura invitato la cittadinanza a evitare di mandare "pesci d'aprile" sul tema coronavirus per non diffondere fake news pericolose su un tema così delicato per la salute di tutti. «Storie inventate e scherzi d'aprile sul tema coronavirus possono portare insicurezza ed essere usati per diffondere informazioni false», ha scritto il ministero sul suo account Twitter. Dove finisce la notizia falsa e pericolosa, dove comincia lo scherzo e viceversa? Questi giorni così difficili obbligano a diffidare di tutto, anche dello sberleffo, della risata; tendono a confondere le idee. Come sembrano lontani i tempi di Orson Welles e della sua genialità beffarda. Lontani i tempi del 1957 quando la Bbc manda in onda un reportage sulla grandiosa e abbondantissima raccolta degli spaghetti coltivati nella campagna svizzera, spiegando che lì gli spaghetti crescevano direttamente dal terreno. Molti spettatori telefonano per sapere come fare per ordinarli. Nel 1961 il quotidiano La Notte di Milano annuncia un'ordinanza del Comune che impone le luci segnaletiche e di posizione per i cavalli circolanti per le strade della città. Non sono stati pochi i milanesi che hanno portato il loro animale dall'elettrauto per dotarlo di fari. Il gusto di prendere in giro gli ignari cittadini non diminuisce con il tempo, anzi. A Firenze, nel 1967 un volantino dell'URFA (Ufficio recuperi felini abbandonati, ente del tutto inventato) annuncia che i gatti sono banditi dalla città. Una penosa e doppia brutta figura per alcuni fiorentini, fermati dalla polizia perché, credendo allo scherzo, cercano di buttare i loro animali nell'Arno, invece di ribellarsi allo sciagurato provvedimento. Ai media italiani spesso e volentieri è piaciuto fabbricare notizie false da pesce d'aprile "ambientate" nello spazio. Il quotidiano La Stampa del primo aprile 2001 lancia la seguente notizie: secondo il Jet Propellent Laboratory di Pasadena su Marte sarebbero esistite forme complesse di vita biologica, giganteschi vermi che hanno lasciato le loro tracce sul terreno del pianeta. Nel 2004 il Tg2 annuncia la scoperta di petrolio su Marte. Con tanto di immagini e attribuzione della notizia nientemeno che alla Nasa.

L'ORIGINE. L'origine del pesce d'aprile non è storicamente determinata. L'ipotesi più accreditata attribuisce l'inizio di questo "culto" della burla in Francia. L'attuale calendario che noi tutti conosciamo, il calendario Gregoriano, venne adottato per la prima volta nel 1582. Prima di allora i festeggiamenti per il Capodanno duravano una settimana circa. Le celebrazioni iniziavano il 25 marzo (vecchia data dell'equinozio di primavera) per concludersi il primo aprile. E quindi secondo i sostenitori di questa ipotesi la burla del primo di aprile sarebbe stata una reazione contro coloro che non si erano ancora abituati al nuovo calendario, continuando a festeggiare in questa data una festività ormai "spostata". C'è invece chi guarda ancora più indietro, ai tempi dei romani. E così entrano in scena niente di meno che Cleopatra e Marco Antonio. Secondo la leggenda, il condottiero romano mandato in Egitto a domare la sovrana maliarda in realtà che non smette di amoreggiare con lei e in queste schermaglie amorose capita che venga sfidato proprio da lei in una gara di pesca. Per non fare brutta figura, l'aitante Marco chiede ad un suo servo di attaccare al suo amo delle prede. Scoperto il trucco, Cleopatra a sua volta ordina di far mettere all'amo un gigantesco pesce finto rivestito di pelle di coccodrillo. Da qui la conseguente figuraccia del grand'uomo romano e la simbologia del pesce d'aprile.

Da "blitzquotidiano.it" l'1 aprile 2021. Il primo di aprile è la giornata del pesce d’aprile, ovvero la giornata degli scherzi: ma perché il primo aprile si fanno gli scherzi e soprattutto perché proprio l’1 aprile? Il pesce d’aprile indica una tradizione, seguita in diversi paesi del mondo, che consiste nella realizzazione di scherzi da mettere in atto. Gli scherzi possono essere di varia natura, anche molto sofisticati e hanno sostanzialmente lo scopo bonario di burlarsi delle vittime. La tradizione ha caratteristiche simili a quelle di alcune festività quali l’Hilaria dell’antica Roma, celebrata il 25 marzo, e l’Holi induista, entrambe ricorrenze legate all’equinozio di primavera.

Pesce d’aprile, come nasce la giornata degli scherzi. Le origini del pesce d’aprile non sono note, anche se sono state proposte diverse teorie. Una delle più remote riguarderebbe il beato Bertrando di San Genesio, patriarca di Aquileia dal 1334 al 1350. Bertrando di San Genesio avrebbe liberato miracolosamente un papa soffocato in gola da una spina di pesce. Per gratitudine il pontefice avrebbe decretato che ad Aquileia, il primo aprile, non si mangiasse pesce. Un’altra teoria tra le più accreditate colloca la nascita del pesce d’aprile nella tradizione nella Francia del XVI secolo. In origine, prima dell’adozione del Calendario Gregoriano nel 1582, in Europa era usanza celebrare il Capodanno tra il 25 marzo e il primo aprile. Occasione in cui venivano scambiati pacchi dono. La riforma di papa Gregorio XIII spostò la festività indietro al primo gennaio, motivo per cui sembra sia nata la tradizione di consegnare dei pacchi regalo vuoti in corrispondenza del primo di aprile. Questo volendo scherzosamente simboleggiare la festività ormai obsoleta. Il nome che venne dato alla strana usanza fu poisson d’Avril, per l’appunto “pesce d’aprile”.

Il pesce d’aprile e la storia dei pescatori. Un’altra ipotesi sulla nascita del pesce d’aprile vede protagoniste le prime pesche primaverili del passato. Spesso accadeva che i pescatori, non trovando pesci sui fondali nei primi giorni di aprile, tornassero in porto a mani vuote. Per questo motivo erano oggetto di ilarità e scherno da parte dei compaesani. Alcuni studiosi hanno inoltre ipotizzato come origine del pesce d’aprile l’età classica e, in particolare, hanno intravisto alcune possibili comunanze con l’usanza attuale sia nel mito di Proserpina (che dopo essere stata rapita da Plutone viene cercata invano dalla madre, ingannata da una ninfa), sia nella festa pagana dei Veneralia (dedicata a Venere Verticordia e alla Fortuna Virile) che si teneva il primo aprile.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2021. Evviva la Lupa, Romolo, Remo e Roma e pure la «foto di gruppo» del bronzo ai Musei Capitolini: ma c'è qualcuno al mondo che crede davvero che i gemelli abbiano succhiato dalle mammelle d'una femmina di lupo? Sono magnifiche, le leggende: guai a toccarle. Purché non vengano prese troppo sul serio. Com' è successo coi famosi 1600 anni dalla fondazione di Venezia. E così, per dissetare gli assetati di prove certificate, alcuni studiosi si sono inventati dei falsi «autentici». Pesce d'aprile. Sia chiaro: nessuno mette in discussione, proprio come nel caso della nascita di Roma fissata al 21 aprile dell'anno 753 a.C., la scelta di una comunità di festeggiare quello che per tradizione ritiene essere il proprio compleanno. E già vari storici del medioevo, negli ultimi mesi, avevano sorriso della ricorrenza della data del 25 marzo 421 (presa per buona dal famoso cronista veneziano Marin Sanudo a fine '400 con la spiegazione che il 25 marzo era stato scelto anche da Dio per far nascere Adamo) dicendo che per carità, è una bufala «ma male non fa». Tant' è che a nessuno è passato per la testa di far le pulci a Sergio Mattarella per le sue parole di celebrazione della festa. Viva Venezia, viva il compleanno. L'insistenza sulla sacralità della data, il fastidio per la crudezza storica degli accademici e l'invocazione a tirar fuori nuove «prove» che dimostrassero la verità «documentale» della data stabilita otto secoli fa, però, hanno spinto infine alcuni studiosi a immaginare: perché non dargliele, queste prove? Detto fatto, si sono inventati, a fin di bene, la scoperta nei polverosi e oscuri archivi di due documenti inesistenti «costruiti» apposta per accontentare chi proprio non si rassegna alla supremazia della storia sul mito. Certo, si trattava di una beffa. Ma non diceva forse già mezzo millennio fa Baldassarre Castiglione nel Cortegiano che anche la beffa può esser consentita e utile se non è offensiva ma sobria? «E parmi che la burla non sia altro che un inganno amichevole di cose che non offendano, o almeno poco e sì come nelle facezie il dir contra l'aspettazione, così nella burla il far contro l'aspettazione induce il riso. E queste tanto più piacciono e sono laudate quanto più hanno dello ingenioso e modesto». Ed ecco che nell'ultima settimana, un giorno dopo l'altro, vengono via via postati sulle pagine dell'Archivio di Stato di Venezia e della Biblioteca Nazionale Marciana, due delle istituzioni culturali più prestigiose della Serenissima e non solo, brevi video di vari studiosi, dal docente di paleografia Attilio Bartoli Langeli del Pontificio ateneo Antonianum all'ordinario di Filologia romanza all'Università di Losanna Lorenzo Tomasin, dall'archivista Alessandra Schiavon ai direttori dell'Archivio e della Marciana Gianni Penzo Doria e Stefano Campagnolo. Video «serissimi» che annunciano la scoperta «tra decine di chilometri di scaffalature che conservano migliaia di incunaboli, cinquecentine, pergamene, disegni, mappe, registri e filze all'interno dei quali è racchiusa la storia della Città» di due documenti spettacolari e ignoti. Certo, «per scongiurare clamori inopportuni», l'annuncio ribadisce «che non si conservano in città documenti del V secolo, ma che i primi frammenti di storia sono attestati dal IX» tuttavia «la scoperta è affascinante. Si tratta della trascrizione di un accordo pattizio che Milano, già due volte sottomessa e distrutta dalle truppe imperiali, propone a Venezia con l'intento di fermare Federico I d'Hohenstaufen, re di Germania e d'Italia, e imperatore dei Romani, più noto come il Barbarossa: corre l'anno 1176». «Ma c'è di più: la trascrizione fedele degli accordi riporta anche una poesia in lingua provenzale di un autore poco noto, Aloysius o Alovisyus (sono due le ricorrenze grafiche nel patto, in forma diversa) de Bhrukny, probabilmente un uomo d'arme, che fa riferimento espressamente all'anno 421». È in «lingua incerta, con molte influenze limitanee all'Occitania». Dice: «Kel bindù malahuratz / del kaiser barbaros / buschar noirimen ala batalha cogitat / da vu cha g' avei fondà Vineghia / nel quatrozent vinti...». Visto? «Fondà Vineghia / nel quatrozent vinti»! Urrah! Quanto alla seconda scoperta, «un garbuglio magico, che si dipana attraverso i secoli per aprirsi finalmente in tutta la sua maestosa grandezza alla Venezia contemporanea», trattasi di «una cronachetta minore del secolo XIV, opera peraltro di autore ben noto e studiato, il medico clugiense Jacopo Dondi Dall'Orologio». Anche da lì, nuove conferme. Al punto che «l'Archivio di Stato e la Biblioteca Nazionale Marciana sono, quindi, lieti di porre in luce e di rendere disponibili agli studiosi questi due tasselli interrelati: da un lato certamente minori e indiretti, ma dall'altro testimonianza incontrovertibile della fondazione di Venezia al 25 marzo 421, come già nota alle genti dell'allora Lombardia (in pratica, tutta la Pianura Padana) e come inequivocabilmente percepita mille anni fa». Il 1° aprile, ieri, ecco la lieta novella: «Domani, venerdì 2 aprile 2021 alle ore 10.30 sul canale YouTube dell'Archivio e della Marciana ci sarà un'anticipazione della mostra per i 1.600 anni e saranno messe a disposizione queste fonti ora riportate alla luce, ma che assestano un colpo micidiale a chi - ignaro e disattento - non ha finora dato credito alle ipotesi formulate sulle origini così antiche della Città». In un video, una mano leggera e sapiente indica un punto sulla pergamena: «...e questa è la firma del Doge». In saccoccia, però, gli studiosi hanno già pronto il documento firmato da Stefano Campagnolo, Gianni Penzo Doria, Alessandra Schiavon, da diffondere solo stamattina, 2 aprile. Titolo: «Abbiamo scherzato: era un pesce d'aprile. Non per burla, ma per un'etica della ricerca storica». Poche parole, nette: «La fondazione di Venezia datata al 25 marzo 421 è storicamente una bufala, anzi una fake news. Il presente e il futuro di una città si reggono sulla propria capacità di costruire forti risorse identitarie, non certo retrocedendo la nascita a un passato che non c'è. Per chi è chiamato a custodire, tutelare e valorizzare questo passato l'obiettivo più importante, al di là di miti, di leggende e di eroi, è un faro da seguire sempre: si chiama "Etica della ricerca"». Insomma, male non fa far festa per una tradizione. Tanto più in momenti come questi, quando vorremmo davvero trovarci tutti insieme ad abbracciarci allegri intorno al Leone di San Marco. Allo stesso tempo, però, occorre «dare voce e visibilità alle fonti primarie, avere cura degli archivi e delle biblioteche, che non sono polverosi depositi della memoria, ma scrigni di tesori...». Stando alla larga da una storia costruita sui miti.

·        L’Uovo di Pasqua.

Marino Niola per il Venerdì- la Repubblica il 4 aprile 2021. Ricordati di “sanificare” le feste. È il nuovo comandamento della Pasqua al tempo del Covid. Che ci chiude in casa per il secondo anno consecutivo e trasferisce online quell’esplosione gioiosa e giocosa della festa di primavera. Dalle funzioni religiose della Settimana Santa in diretta streaming, alle riunioni familiari in remoto. Fa eccezione l’uovo, che sopravvive anche alla digitalizzazione della ricorrenza. E balza fuori dallo schermo come un pop up dell’immaginario, che ha dalla sua la forza dei millenni. Basta digitare uovo pasquale e si viene sommersi da milioni di offerte. Ce n’è per tutti i gusti, tasche ed esigenze. Industriale, esclusivo, low cost, di latteria. C’è quello halal per gli islamici, quello equo per sostenere le economie emergenti. E il solidale, il cui ricavato va in beneficenza, come quello influencer marcato Chiara Ferragni. Mentre per gli uomini di poca fedez basta che sia artigianale, superfondente e supercostoso. C’è perfino quello dimezzato per i più frugali. E poi un’infinità di GIF che assicurano un po’ di animazione nei messaggi, in un momento davvero smortarello come questo che stiamo vivendo. Insomma, il tempo passa, le situazioni cambiano ma l’uovo, bianco o colorato, di zucchero o di cioccolato, resta il simbolo principe della ricorrenza che celebra la resurrezione del dio e la rinascita della natura. Perché l’ovetto, da che mondo è mondo, significa proprio la vita che rinasce. Non a caso nella pittura medievale spesso Cristo che esce dal sepolcro viene raffigurato come un pulcino che esce dall’uovo. E la Terra Madre, regina di tutte le dee, viene raffigurata con in mano l’uovo cosmico, segno della fecondità e del ritorno annuale alla vita. In realtà tutto questo rutilare di uova non si spiega semplicemente con la nostra voglia di cioccolato, ma con la nostra atavica fame di simboli.

·        Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

Coco Chanel ha davvero inventato l'abbronzatura? Ecco come prendere il sole è diventato "di moda".  Michele Mereu su La Repubblica il 18 agosto 2021. Fu proprio la grande stilista a 'inventare' l'abbronzatura come vuole la leggenda? E la pubblicità di una bimba con cagnolino a rendere popolare la crema solare? Dalla pelle lunare segno del privilegio sociale a quella dorata nuovo simbolo di benessere, ecco come la tintarella è diventata 'di moda' portando alla nascita di un'industria completamente nuova, tra aziende produttrici di costumi da bagno, cosmetici e abbigliamento. Insieme ai completi di tweed e ai vestitini neri in jersey, l’abbronzatura è un’altra delle “invenzioni” attribuite a Coco Chanel. La narrazione dice che Mademoiselle fu fotografata in Costa Azzurra mentre si abbronzava, e così, la pelle abbronzata diventò il look più desiderato da quel momento in poi. Ma può una donna, per quanto influente e iconica, aver influito veramente nella diffusione di questa pratica? Qualsiasi sia la verità, e che piaccia o meno, l'abbronzatura è diventata un canone di bellezza occidentale e anche un'industria estremamente redditizia.

 Alberto Mattioli per “Specchio - la Stampa” il 15 agosto 2021. 'O sole mio? Macché: 'o sole vostro. Sì, perché nel generale tripudio per l'estate italiana smascherata e smutandata, ci siamo anche noi, quelli che erano stufi dell'estate prima ancora che iniziasse. Ma quale bella stagione: se facciamo l'elenco di tutto quello che ci irrita stiamo qui fino all' autunno. E comunque, eccolo: il caldo, l' afa, il sudore, le zanzare, la ressa, la movida, le ordinanze contro la movida, la gente in infradito, la gente in pinocchietto, la gente in canottiera, gli Europei di calcio, i festival dementi degli assessori alla cultura creativi, gli spettacoli insensati dei direttori artistici cretini, l'opera sotto le stelle ("All' aperto si gioca alle bocce, non si fa della musica!", sentenza da sbraitare con il tipico tono arrabbiato e l'accento parmigiano di Toscanini, anche se in realtà pare che sia di Guarnieri). Continuiamo? L'insalatona, la pasta fredda, il gelato che può benissimo sostituire il pasto, la spiaggia, i bambini urlanti in spiaggia, i cani in spiaggia, la sabbia ma anche i sassi e pure gli scogli, anzi il mare in generale epperò anche la montagna, il lago e la campagna, le vacanze intelligenti (un ossimoro), il grande esodo, il controesodo, il libro dell' estate, la canzone dell' estate, il delitto dell'estate, la gente accalcata nella metro senza deodorante e senza aver fatto la doccia, il golfino sulle spalle casomai rinfreschi (no, non rinfresca mai!), le sciure milanesi mascherate da Heidi a Cortina, i ragazzotti della Roma bene in pareo a Pantelleria, le contesse fiorentine sobrissime al Forte, i commendatori napoletani in zoccoli a Capri, i tedeschi sbronzi sul Gardasee, la prova costume, la crema solare che favorisce l' abbronzatura e il bagnoschiuma che non fa andare via l' abbronzatura. E anche l'abbronzatura tout court, così volgare. Il pallore è molto più chic, come poetava il cavalier Marino: "Oh, piaccia a la mia sorte / che dolce teco impallidisca anch' io, / pallidetto amor mio". E poi il Billionaire, il Papeete, la Costa Smeralda, l'Ultima spiaggia di Capalbio e i bagnini felliniani di Rimini, uffa uffa, quando si sa che l'unico mare davvero elegante è il Baltico, magari insieme con qualche Buddenbrook, vestiti da Dirk Bogarde con la tintura che si scioglie sotto il panama (non ci fosse il mare, il Lido sarebbe perfetto). E vogliamo parlare dei fuochi di Ferragosto, della sagra della salsiccia e del festival del peperone, della caccia al tesoro e della processione ancestrale, dei lavori sulla terza corsia e dell'alta velocità che si rompe sempre fra Roma e Napoli? Anche se la goccia che fa traboccare il vaso del nostro whisky sour (al confortevole riparo dell' aria condizionata e con le finestre chiuse, così non si sentono i baccanali per l' ultima vittoria di Mancini) sono i servizi del tiggì sul fatto che fa caldo (ma va!), che bambini e anziani devono fare attenzione (ma dai!), che bisogna bere molta acqua e mangiare leggero (ma no!), perché come ognun sa in ogni stabilimento balneare attrezzato a baretto e/o ristorantino (un' altra calamità) intorno alle 13.30 con il termometro a 34 gradi si servono il brasato con la polenta bevendoci sopra una bella bottiglia di Barolo. Tutta colpa del sole. Si facesse i fatti suoi, non avremmo la stagione del nostro scontento. Vada a incenerire Marte, tanto quelli sono verdi e un po' di colore non guasta. Tutti sanno, anche se non vogliono ammetterlo, che la primavera è tollerabile, l'autunno è meglio e l'inverno è il top. Quando intanto si gira tutti belli vestiti, evitando esibizioni di forme in eccesso che raramente risultano fidiache come nelle intenzioni. Noi antisole e no-estate vorremmo portare il cappotto anche a Ferragosto, come l'indimenticato Mario Monti, non a caso soprannominato Bin Loden. Poi basta con questo caldo insopportabile, temperature malsane che ci sfiancano anche se siamo impegnati a fare quel che ci riesce meglio e cioè niente. Il freddo è molto più salutare, anche perché se hai freddo puoi sempre coprirti di più, se hai caldo non puoi toglierti la pelle. Basta con questo sudore appiccicaticcio, questa luce implacabile, quest' evidenza chiassosa del tutto. Basta con i nostri figli pelosi (quelli umani chissà dove sono) costretti a farsi le loro diciotto ore di sonno quotidiano sotto i bocchettoni dell'aria condizionata. Basta con quest' estate molliccia e sudaticcia, rumorosa e petulante, tatuata e sbracata. Lanciamo un referendum con i radicali e aboliamola. Non ci fosse il Natale, l'inverno sarebbe perfetto. Tutti davanti al caminetto, con gli sci a portata di mano. Viva la nebbia, la pioggia, la neve, il buio alle tre del pomeriggio. Sperando nella prossima glaciazione.

Ti odio e ti amo, Ferragosto raccontato dagli scrittori. Maurizio Di Fazio su La Repubblica il 15 agosto 2021. Un incubo per Manganelli, un obbligo per Moravia, un noir per Camilleri. Ecco come letteratura e narrativa hanno descritto la festa di mezza estate. La festa di mezza estate può essere un concetto stridente, una mania e un’idiosincrasia; ma “quale allegria”, per dirla con Lucio Dalla, specie se recapitata ai piani più alti della nostra recente storia letteraria. Sentite cosa scriveva, per esempio, Giorgio Manganelli, tra i massimi esponenti della neoavanguardia e del Gruppo 63: "Settimane prima di quel giorno inevitabile, io mi faccio prudente; quando si entra nel rettifilo ferragostano, mi faccio via via cauto, diffidente, mi defilo, mi appiattisco, lavoro di freni e zavorra, inghiotto i documenti personali, comincio a parlare con accento irriconoscibile, sottopongo la mia minuscola anima a una rapida plastica estetica, e infine mi precipito nel taciturno e pigro vortice del ferragosto: ma in quel momento io sono irriconoscibile, e ho ogni motivo per dubitare della mia esistenza. La mia sensazione più profonda è che il ferragosto sia la festa del Nulla: e a questa convinzione io mi adeguo…". Per poi aggiungere: "Dove vanno le spensierate folle di gitanti che, tutte nel medesimo istante, vengono colte dal raptus dell'emigrazione verso la Gioia?".

Eppure diversi scrittori italiani l’hanno evocato in un loro libro, magari direttamente nel titolo. Un racconto di Beppe Fenoglio si chiama proprio così, Ferragosto: siamo nelle sue Langhe, due fidanzati viaggiano in corriera, l’epilogo ha ben poco di balneare. Scherzi di Ferragosto è uno dei Racconti Romani (1954) di Alberto Moravia: "Tutto mi andava male quell’estate e, come venne Ferragosto, mi trovai a Roma senza amici, senza donne, senza parenti, solo. Il negozio dove ero commesso era chiuso per le ferie, altrimenti, dalla disperazione, pur di trovare compagnia, mi sarei perfino rassegnato a vendere i saldi estivi, mutande, calze, camicie, tutta roba andante. Così, quella mattina del quindici, quando Torello mi venne a strombettare sotto la finestra e poi mi invitò a andare con lui a Fregene, pensai: 'È antipatico, anzi è odioso… ma meglio lui che nessuno' e accettai di buon grado".

Ferragosto di morte di Carlo Cossola (1980) è il secondo volume della sua trilogia atomico-apocalittica. Le radiazioni stanno per traghettare nell’altro mondo il suo alter ego-protagonista della trama. D’altronde era stato uno dei pochi sopravvissuti a un’apocalisse nucleare. L’essere umano si è autodistrutto. Guarda caso, è pieno agosto. Ferragosto in giallo è un’antologia uscita per Sellerio nel 2013, che raccoglie racconti di sei autori ferrati nel genere come Andrea Camilleri, Gian Mauro Costa, Alicia Giménez-Bartlett, Marco Malvaldi, Antonio Manzini e Francesco Recami. Mentre tutti si rilassano in scampagnate e baccanali fuoriporta, ai loro detective-feticcio (da Montalbano a Petra Delicado) tocca continuare a indagare: il cuore nero della natura umana batte sempre, non rallenta mai, anche nelle 24 ore consacrate a Sangria e timballi.

Pubblicato una prima volta nel 1980, poi ristampato da Mondadori tra i suoi Oscar, Maledetto ferragosto di Renato Olivieri vede il suo commissario Ambrosio alle prese con la misteriosa morte del dottor Andrea Bulgari. Siamo in una Milano vuota e desolata visto il calendario: chi è fuggito al mare, chi al lago, chi in montagna. Ma il cinismo e gli intrighi abietti si tagliano a fette, al posto del rituale cocomero. Il suo commissario fu impersonato al cinema da Ugo Tognazzi. Delitti di ferragosto. Sette delitti per sette città (Newton Compton, 2014) inanella brevi thriller-noir urbani sotto il solleone di Piergiorgio Di Cara, Diana Lama e Massimo Lugli. La calura azzera il respiro, le città si spopolano, e tuttavia c’è sempre qualcuno lì in agguato con la licenza di uccidere.

Poche settimane fa è andato in libreria Ferragosto di Enrico Franceschini, editorialista e storico corrispondente da Londra del nostro giornale. Spiagge sold-out, pedalò e una gran canicola. Riviera romagnola: un fotografo viene rinvenuto cadavere, congelato in una posa oscena. Le indagini avranno la firma di Andrea Muratori detto Mura, giornalista in pensione e detective amatoriale; e porteranno molto lontano, fino a uno degli enigmi-madre del crepuscolo del fascismo. Una commedia intrisa di giallo, contemporaneo e retrospettivo. Chiudiamo però con un po’ di speranza e think positive: è pur sempre una sconfinata festa, pagana, ma attesissima. "Conosco un bambino così povero che non ha mai veduto il mare: a Ferragosto lo vado a prendere, in treno a Ostia lo voglio portare – scrisse Gianni Rodari -. Ecco, guarda, gli dirò, questo è il mare, pigliane un po’. Col suo secchiello, fra tanta gente, potrà rubarne poco o niente: ma con gli occhi che sbarrerà, il mare intero si prenderà".

Ferragosto intorno al mondo in cinque libri avventurosi. Gianluca Barbera il 15 Agosto 2021 su Il Giornale. Consigli di viaggio da Mark Twain a Charles Darwin. Non solo romanzieri ma anche navigatori e naturalisti. «Siamo tornati verso la Valle di Quillota. Il paesaggio era bellissimo, formava proprio quel genere di spettacolo che un poeta definirebbe pastorale: ampi prati verdi separati da piccole valli in cui scorrono ruscelletti e, sperse sui fianchi delle colline, numerose casette, forse dimora dei pastori. Ero partito per un'escursione a cavallo allo scopo di esaminare la geologia delle basse pendici delle Ande, che in questa stagione sono l'unico tratto di queste montagne sgombro dalle nevi invernali, e sono tornato ricco di esperienze». Così annota nel suo diario Charles Darwin il 15 agosto del 1834. Da quella mole di appunti, stesi nell'arco di un viaggio durato cinque anni e culminato con le intuizioni che lo avrebbero condotto all'elaborazione della teoria dell'evoluzione delle specie per selezione naturale dopo il suo incontro folgorante con le Galápagos, il poco più che ventenne naturalista britannico ricaverà il materiale per dare alle stampe, qualche anno dopo il suo ritorno in patria, uno dei suoi libri più belli: Viaggio di un naturalista intorno al mondo, da allora ristampato senza sosta. L'esperienza di un viaggio ci cambia, figuriamoci quella di un viaggio intorno al mondo. Ma di questi tempi, nei quali viaggiare è così difficile, non ci resta che affidarci ai libri e all'immaginazione, pur senza avere la pretesa di sostituire l'esperienza diretta. Ecco dunque cinque libri che raccontano con senso della storia e profonda umanità altrettanti viaggi affascinanti intorno al mondo e che vi consigliamo di includere tra le vostre letture estive. Come tutti sanno, il primo a imbarcarsi in una simile impresa fu nel 1519 il portoghese Ferdinando Magellano, che tuttavia (come raccontato dal vicentino Antonio Pigafetta nella sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo) fu trucidato dagli indigeni nell'oscura isoletta di Mactan (Filippine) prima di aver condotto a termine la sua avventura (fu il basco Juan Sebastian Elcano ad assumere il comando della spedizione, alla morte di Magellano, e a portarla a compimento). Quella del libro di Pigafetta è una lettura obbligata, a nostro giudizio, soprattutto sotto l'aspetto etnografico e documentario. Alcuni secoli dopo, il famoso pirata inglese William Dampier, tra un arrembaggio e l'altro circumnavigò il globo per ben tre volte tra 1679 e il 1711, stando alle sue memorie, che col titolo di Un nuovo viaggio intorno al mondo divennero all'epoca un best seller. E come non ricordare lo scrittore americano Mark Twain, che raccontò del suo giro di conferenze intorno al mondo, affrontato nel 1895 per ripianare un enorme debito accumulato a causa di un investimento sbagliato, nel meraviglioso libro intitolato Seguendo l'equatore? Infine, come non citare quello che a oggi resta il più romantico dei viaggi intorno al mondo: il navigatore americano Joshua Slocum, tra il 1895 e il 1898, realizza sulla sua barca, lo Spray (assemblata da lui stesso), la prima circumnavigazione del globo in solitario, come racconterà due anni dopo nel suo intramontabile libro Solo, intorno al mondo. Ma tra tutti è di quello di Darwin che vogliamo parlarvi, perché il suo viaggio è servito da modello per molti e i risultati scientifici scaturiti sono superiori a qualsiasi altro. Tanti i momenti memorabili. Partito da Devonport il 27 dicembre 1831, dopo aver attraversato l'Atlantico e superato lo Stretto di Magellano, Darwin si avventura a fondo nel continente americano, tra avversità di ogni tipo. Sbarcato nella baia di Valparaiso (Cile), mentre cavalca verso nord per raggiungere l'hacienda di Quintero, allo scopo di esaminare i grandi giacimenti di conchiglie che si trovano da quelle parti, si imbatte in qualcosa di straordinario. In lontananza, scorge un'enorme nube rossastra proveniente da est, che avanza verso di loro a gran velocità. La scambia per il fumo prodotto da un incendio. Quando è più vicino, però, si accorge che si tratta di uno sciame di locuste, diretto verso il mare, il quale avanza sospinto dal forte vento alla velocità di parecchie miglia orarie, occupando una vasta porzione di cielo, fin quasi a oscurarlo. Per non parlare del frastuono generato dal frullare di tutte quelle ali. La guida cerca di tranquillizzarlo. Ma poi consiglia di levarsi di lì in fretta. Per sottrarsi a quell'esercito sterminatore Darwin e compagni piegano verso sud e solo sul far della sera raggiungono incolumi la loro destinazione. Una mattina poi, mentre si trova a bordo del Beagle (il brigantino su cui viaggia), una sorpresa lo attende al risveglio. La nave, che si trova alla fonda a dieci miglia dalla Baia di San Blas, è completamente invasa dalle farfalle. Altre volte gli è capitato di trovarsi attorniato da insetti, perciò sulle prime non si stupisce. Ma quando si rende conto delle dimensioni del fenomeno comincia a preoccuparsi. Facendo correre lo sguardo tutt'attorno, si accorge difatti che tutte quelle farfalle formano una distesa immensa. Anche scrutando con il cannocchiale non se ne vede la fine. Sembra quasi che nevichino farfalle. Da dove vengono? Ben presto in Darwin subentra lo spirito del naturalista e si mette a catalogarle. Tanto più che in mezzo a quel turbinio vi sono pure parecchi imenotteri e coleotteri. Pare la materializzazione di una delle sette piaghe d'Egitto! Va avanti così per tutto il giorno; e durante il pranzo capita di ritrovarsi le farfalle nei piatti. Verso sera, però, si alza una forte brezza da nord che libera la nave della loro presenza, sbatacchiandole qua e là e facendone strage. Qualche tempo dopo, il Beagle viene letteralmente ricoperto di ragnatele, quasi imprigionato in un bozzolo. A bordo sono saliti migliaia di ragnetti rossi: e questo nonostante la nave si trovi a cinquanta miglia dalla costa. «La cosa più sorprendente» ricorda Darwin «era vederli correre sulla superficie del mare senza bagnarsi, fermandosi di tanto in tanto a trangugiare goccioline d'acqua con avidità». Il giorno dopo però il capitano FitzRoy ordina di riprendere il largo e i ragni, così come sono venuti, scompaiono. Tra le tante avventure vissute da Darwin durante quel viaggio, forse però quella più singolare è il suo incontro nella Terra del Fuoco con alcune tribù di cannibali. Va ricordato che a bordo del Beagle c'è pure un nativo della Patagonia di nome Jemmy Button, il quale (a quanto dicono le fonti) è stato acquistato sei anni prima da FitzRoy per un bottone di madreperla. Il capitano lo ha condotto con sé in Inghilterra per educarlo alla religione e alle usanze inglesi. Tra gli scopi del viaggio vi è per l'appunto quello di riportarlo nella sua terra di origine. Jemmy è un tipetto strano, simpatico ma iracondo, che passa tutto il tempo a guardarsi allo specchio. Indossa guanti bianchi e dà in escandescenza se gli capita d'impolverarsi le scarpe. Possiede una vista e un udito prodigiosi. E quando si arrabbia con l'ufficiale di guardia si diverte a provocarlo: «Vedo nave venire verso di noi, ma non dico dove». Una volta giunti nella Terra del Fuoco, Darwin e compagni vengono avvicinati da una delegazione di Tekenika (la tribù di Jemmy). Jemmy li ha sentiti arrivare da una distanza fenomenale. Il suo incontro con la madre che non vede da anni è sconcertante: i due si fissano per qualche istante, poi lei torna a sorvegliare la canoa con cui sono giunti e i due non si parlano più. Per giunta, i fratelli di Jemmy cercano di appropriarsi di tutto ciò su cui posano gli occhi. Tenerli a bada non è facile. Darwin e compagni si trattengono in quella baia per alcuni giorni e lui e il capitano FitzRoy compiono piacevoli escursioni sui monti, durante una delle quali abbattono un condor dall'apertura alare di tre metri. Poi una mattina notano che al villaggio donne e bambini sono spariti. La cosa li allarma. Temono di aver offeso i Tekenika in qualche modo. Nemmeno Jemmy sa spiegare il motivo di quella condotta. Una mattina un vecchio indigeno ha un alterco con un marinaio e gli fa capire a gesti che vorrebbe farlo a pezzi e mangiarlo. Sul volto del capitano FitzRoy cala un'ombra. «Sarà bene fare ritorno alla nave e levare le ancora prima che le cose si mettano male» dice. Ma prima che sia data esecuzione a quell'ordine centinaia di fuegini si ammassano intorno al campo, abbandonandosi al saccheggio e cercando di sfinire Darwin e compagni con un baccano incessante, battendo tra loro bastoni e pietre. Alcuni si avvicinano minacciosamente, mimando il gesto di voler strappare i peli e la pelle dal corpo degli stranieri per mangiarseli. Tra essi vi sono perfino i fratelli di Jemmy. Basta però qualche colpo di moschetto a respingerli. Quello stesso pomeriggio Darwin e compagni smontano il campo e ritornano prudentemente a bordo del Beagle, disponendo doppi turni di guardia; e alle prime luci dell'alba levano gli ormeggi e prendono il largo. L'unico cruccio è aver abbandonato Jemmy tra quella gente, tanto più che egli è stato derubato dai suoi stessi fratelli, e la cosa lo ha turbato. «Voi uomini cattivi» non smetteva di gridare. «Via! Via!». Probabilmente sarebbe stato lieto di fare ritorno sul Beagle, ma per orgoglio ha preferito tacere. Non è dato sapere che cosa gli sia capitato, ma di certo avrà saputo cavarsela. Sia come sia, il 2 ottobre del 1836 Darwin completa il suo giro intorno al mondo, che ha toccato le remote terre oceaniche, con tappe a Capo Reinga, Sydney e Hobart, e sul far della sera è in vista delle coste inglesi, dove, una volta sbarcato a Falmouth, dice addio al Beagle, al capitano FitzRoy e ai compagni coi quali ha condiviso quell'avventura. C'è tempo per un ultimo bilancio: «E ora, se permettete» scrive a conclusione del diario (vado a memoria), «trarrò le fila di quel lungo viaggio. Chi intende seguire le mie orme sappia che i vantaggi saranno di gran lunga superiori agli svantaggi, a patto naturalmente che siate dei naturalisti o che siate comunque guidati da qualche scopo scientifico o di altra natura pratica. Diversamente, la mia modesta opinione è che gli svantaggi superino i vantaggi. Certo, vedere paesi e popoli tanto diversi e così lontani è fonte di grande piacere; ma questo piacere non eguaglia i disagi e le difficoltà cui si va incontro. Chi si accinga a intraprendere un simile viaggio, sappia che dovrà sopportare molte rinunce: quasi tutte quelle a cui la civiltà ci ha abituato. Se poi soffrite il mal di mare è meglio che rinunciate subito. In caso contrario il mio suggerimento è il seguente: partire, partire subito, senza stare a pensarci troppo. Ogni secondo in più sarà un secondo sprecato. Tra le cose più belle che ricordo vi sono senz'altro lo spettacolo della foresta vergine, tanto quella amazzonica, dove predomina la forza dirompente della vita, quanto quella fuegina, dove morte e disfacimento la fanno da padroni. E poi le possenti vette andine. Ma soprattutto l'incontro con popolazioni selvagge. Non vi è nulla di più sconvolgente che incontrare popoli primitivi. Ed ecco infine alcuni ricordi che resteranno indelebili nel mio animo: la Croce del Sud, la Nebulosa di Magellano e le altre costellazioni dell'emisfero australe; i ghiacciai a strapiombo sul mare, gli atolli corallini, i vulcani in eruzione e i terremoti cui ho assistito. Tutto questo porto nel mio cuore. Ma soprattutto la sensazione impareggiabile provata nel vivere all'aria aperta, nel dormire sotto le stelle, nel contatto con la nuda terra. Ora la mia mappa del mondo cessa di essere qualcosa di astratto per divenire tangibile. Una cosa viva, che mi apparterrà per sempre. Auguro qualcosa di simile a ciascuno di voi. Sinceramente vostro, Charles Darwin.

FERRAGOSTO. Raffaele Corso - Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938) su treccani.it.  Col nome di ferragosto, derivato da quello delle antiche feriae augustales, che cadevano nelle Kalendae Augusti, s'indica il primo giorno del mese di agosto, che in qualche luogo continua ad essere festeggiato, come nell'antichità. Fino a non molti anni fa, gli operai lasciavano il lavoro in tale giorno e si recavano in comitiva dal padrone, per fargli gli augurî, ricevendo in ricambio o un desinare o delle mance. Gli operai più attaccati alla tradizione sono i muratori, i quali, in alcuni luoghi, continuano a festeggiare il primo giorno di agosto. La decadenza di tale tradizione è dovuta al fatto che la Chiesa trasportò e assorbì la festa del ferragosto in quella dell'Assunta (15 agosto). Tra le manifestazioni è degna di nota, nella Roma medievale, la processione notturna del ferragosto, a cui prendevano parte le corporazioni, i dignitarî ed i funzionarî, sfilando sotto archi di foglie e fiori, per un lungo percorso, e nella Roma moderna (sec. XVII) l'allagamento di piazza Navona. Passando dal primo al 15 del mese, il ferragosto non perdé l'antico carattere popolare, tanto che anche nella nuova data, conserva l'uso delle mance e dei regali. Prima che il papa Giulio II l'avesse abolita, una speciale lista fissava la misura delle mance che dovevano dispensare i cardinali, gli ambasciatori e gli alti dignitarî.

Ferragosto: perché questo nome (e perché si festeggia)? Il Ferragosto è la festa più attesa dell'estate: ha origini nella storia dell'Antica Roma, poi intrecciate con la tradizione cattolica. Da Focus.it. Il nome della festa di Ferragosto deriva dal latino feriae Augusti (riposo di Augusto), in onore di Ottaviano Augusto, primo imperatore romano, da cui prende il nome il mese di agosto. Era un periodo di riposo e di festeggiamenti, istituito dall'imperatore stesso nel 18 a.C., che aveva origine dalla tradizione dei Consualia, feste che celebravano la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso, che, per i Romani, era il dio della terra e della fertilità. In tutto l'Impero si organizzavano feste e corse di cavalli, e gli animali da tiro, esentati dai lavori nei campi, venivano adornati di fiori. Inoltre era usanza che, in questi giorni, i contadini facessero gli auguri ai proprietari dei terreni ricevendo in cambio una mancia. Anticamente, come festa pagana, era celebrata il 1° agosto. Ma i giorni di riposo (e di festa) erano in effetti molti di più: anche tutto il mese, con il giorno 13, in particolare, dedicato alla dea Diana.

DA FESTA PAGANA A FESTA CATTOLICA. La ricorrenza fu assimilata dalla Chiesa Cattolica attorno al VII secolo, quando si iniziò a celebrare l'Assunzione di Maria, festività che fu poi fissata il 15 agosto. Il dogma dell'Assunzione (riconosciuto come tale solo nel 1950) stabilisce che la Vergine Maria sia stata assunta, cioè accolta, in cielo sia con l'anima sia con il corpo.

Ferragosto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Ferragosto è una festività di origine romana antica, modernamente celebrata il 15 agosto nella regione geografica italiana. Il giorno di Ferragosto è tradizionalmente dedicato alle gite fuori porta con l'auto, pranzi al sacco e data la calura stagionale, a rinfrescanti bagni in acque marine, fluviali o lacustri. Molto diffuso anche l'esodo verso le località montane o collinari, in cerca di refrigerio.

Il Ferragosto dall'Antica Roma al Cristianesimo. Il termine Ferragosto deriva dalla locuzione latina Feriae Augusti (riposo di Augusto) indicante una festività istituita dall'imperatore Augusto nel 18 a.C. che si aggiungeva alle già esistenti festività cadenti nello stesso mese, come i Vinalia rustica, i Nemoralia o i Consualia. Era un periodo di riposo e di festeggiamenti che traeva origine dalla tradizione dei Consualia, feste che celebravano la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso che, nella religione romana, era il dio della terra e della fertilità. L'antico Ferragosto, oltre agli evidenti fini di auto-promozione politica, aveva lo scopo di collegare le principali festività agostane per fornire un adeguato periodo di riposo, anche detto Augustali, necessario dopo le grandi fatiche profuse durante le settimane precedenti. Nel corso dei festeggiamenti, in tutto l'impero si organizzavano corse di cavalli e gli animali da tiro, buoi, asini e muli, venivano dispensati dal lavoro e agghindati con fiori. Tali antiche tradizioni rivivono oggi, pressoché immutate nella forma e nella partecipazione, durante il "Palio dell'Assunta" che si svolge a Siena il 16 agosto. La stessa denominazione "Palio" deriva dal pallium, il drappo di stoffa pregiata che era il consueto premio per i vincitori delle corse di cavalli nell'Antica Roma. In occasione del Ferragosto, i lavoratori porgevano auguri ai padroni, ottenendo in cambio una mancia; l'usanza si radicò fortemente, tanto che in età rinascimentale fu resa obbligatoria nello Stato Pontificio. La festa originariamente cadeva il 1º agosto. Lo spostamento si deve alla Chiesa cattolica, che volle far coincidere la ricorrenza laica con la festa religiosa dell'Assunzione di Maria.

Il Ferragosto durante il Fascismo. La tradizione popolare della gita turistica di Ferragosto nasce durante il ventennio fascista. A partire dalla seconda metà degli anni venti, nel periodo ferragostano il regime organizzava, attraverso le associazioni dopolavoristiche delle varie corporazioni, centinaia di gite popolari, e in particolare dal ferragosto 1931 al settembre 1939 ciò fu favorito dall'istituzione dei Treni popolari speciali, inizialmente solo di 3ª classe, con prezzi fortemente scontati. L'iniziativa offriva la possibilità anche alle classi sociali meno abbienti di visitare le città italiane o di raggiungere le località marine o montane. L'offerta era limitata ai giorni 13, 14 e 15 agosto e comprendeva le due formule della "Gita di un sol giorno", nel raggio fino a circa 100 km, e della "Gita dei tre giorni" con raggio fino a circa 200 km. Essi furono popolarmente ribattezzati "Treni di ferragosto", benché, secondo fonti autorevoli, un regime tariffario popolare fosse applicato per tutta la stagione estiva. Durante queste gite popolari, la maggior parte delle famiglie italiane ebbe per la prima volta la possibilità di vedere il mare, la montagna e le città d'arte; nondimeno, dato che le gite non prevedevano il vitto, nacque anche la collegata tradizione del pranzo al sacco.

Il Ferragosto nella cultura di massa. In Lombardia e in Piemonte, fino ai primi decenni del XX secolo, era usanza dei datori di lavoro "dare il ferragosto" (in lombardo dà el faravóst), che consisteva nel donare emolumenti in denaro o in beni commestibili ai dipendenti in modo che potessero trascorrere lietamente il giorno di Ferragosto con le loro famiglie. Nei cantieri edili, verso la fine di luglio, veniva fissato dai muratori un grande ramo d'albero sulla parte più elevata del fabbricato in costruzione, detta pianta del faravóst, che serviva scherzosamente a rammentare all'impresario l'imminente esborso della tradizionale mancia. A Torino, fino alla metà del XX secolo, molti cittadini si recavano per pranzare, al ristorante o al sacco, nel parco in riva al Po adiacente alla chiesa della Madonna del Pilone. Tale costumanza era denominata in piemontese "Festa dle pignate a la Madòna dël Pilon", ovvero "Festa delle pentole alla Madonna del Pilone".

A Messina il 15 agosto si svolge la processione della Vara di Messina dedicata alla Madonna Assunta.

A Porto Santo Stefano il giorno di Ferragosto, si svolge il Palio Marinaro dell'Argentario, antica gara remiera.

A Montereale, nel prato adiacente all'Abbazia della Madonna in Pantanis, il giorno di Ferragosto si tiene la gara poetica tra cantori a braccio.

La smorfia napoletana assegna al Ferragosto il n. 45

Al Molo Caligoliano di Pozzuoli il 15 agosto si tiene una sfida chiamata "O Pennone" o Palo di Sapone dove i concorrenti devono riuscire ad arrivare in cima e recuperare una bandierina sul palo cosparso di sapone.

A Terracina il 14 agosto migliaia di persone partecipano alle feste organizzate dagli stabilimenti balneari lungo la costa e si svolge il tradizionale "bagno di mezzanotte" nella cornice di spettacoli pirotecnici che illuminano tutta la fascia costiera dal Circeo fino a Sperlonga. I festeggiamenti proseguono poi per tutta la giornata del 15 con feste in spiaggia e balli di gruppo.

A Sarteano il 15 agosto, poco prima del tramonto, si svolge la Giostra del Saracino, gara di abilità tra cavalieri appartenenti alle cinque contrade del comune, risalente al XVI secolo e preceduta da un suggestivo corteo storico in costume.

A Paliano il 15 agosto, si svolge il Palio dell'Assunta, rievocazione storica del corteo in onore della vittoria di Marcantonio Colonna nella Battaglia di Lepanto. Il corteo è seguito dalla Giostra del Turco. A ognuno dei nove rioni del paese viene assegnato un fantino che disputerà la gara sotto i suoi colori. La giostra consiste in una corsa all'anello: ai fantini viene dato un pugnale corto e chi prende il maggior numero di anelli nel minor tempo vince il Palio dell'Assunta.

A Pellezzano (Salerno), dal 10 al 16 Agosto si svolge l'annuale edizione della Sagra do'Sciusciello. Il Sciusciello è antico pane della tradizione pellezzanese, cotto in forno a legna. Questo particolare panetto prende il nome dal soffio (sciuscio) che lo fa rigonfiare nel corso della cottura, per poi essere farcito (farcitura originale con sunia e pepe: altri gusti disponibili Pancetta e Galbanone, Filato, Patate e Salsiccia, Nutella). Durante lo svolgimento della sagra, il 15 Agosto, si svolge la processione in onore di Maria Assunta, la cui venerata icona è custodita in una cappella campestre, edificata dai pellezzanesi al termine della pestilenza del XVII secolo.

A Nizza e nei paesi vicini vengono organizzati i fuochi artificiali sul mare.

Il Ferragosto in cucina. «A ferragosto, piccioni arrosto.» (Detto popolare) Il piatto tradizionale per eccellenza del pranzo di Ferragosto è il piccione arrostito. Tale usanza, un tempo diffusa in buona parte d'Italia e che ancora sopravvive in alcune zone, pare sia nata in Toscana, in epoca carolingia. L'antica tradizione piacentina prevede la preparazione della bomba di riso con piccioni, una sorta di grossa cupola di riso cotto al forno, con pezzi di piccione all'interno. Si racconta che fosse il piatto preferito di Elisabetta Farnese.

In Sicilia si usa preparare per Ferragosto il tipico gelu di muluna, decorato con foglie di limone e fiori di gelsomino.

A Roma il piatto tradizionale del pranzo di Ferragosto è costituito dal pollo in umido con peperoni, spesso preceduto dalle fettuccine ai fegatelli e seguito da cocomero ben freddo.[13]

A Foggia, in Puglia, il piatto tipico di Ferragosto è costituito dal galluccio, un gallo di circa 3 kg ripieno, cotto al forno con patate.

Le Margheritine di Stresa sono i biscotti che venivano tradizionalmente offerti agli ospiti dalla regina Margherita, in occasione dei ricevimenti di Ferragosto della Casa Reale.

Sull'Appennino tosco-emiliano, per Ferragosto è costumanza sfornare e consumare piccole ciambelle dolci all'anice, variamente confezionate, come il Biscotto di mezz'agosto di Pitigliano o lo Zuccherino montanaro bolognese di Grizzana Morandi.

Il Ferragosto nella musica. L'opera lirica Pagliacci del compositore napoletano Ruggero Leoncavallo si svolge proprio nel giorno di Ferragosto ("Oh, che bel sole di mezz'agosto!"; "Per la Vergin pia di mezz'agosto!").

Notte di ferragosto di Gianni Morandi.

Ferragosto di Sergio Cammariere.

Il Ferragosto nel cinema. Ferragosto in bikini, è una commedia italiana girata nel 1961 da Marino Girolami, con la sceneggiatura di Tito Carpi e Marino Girolami, interpretata da Walter Chiari, Mario Carotenuto, Valeria Fabrizi, Raimondo Vianello, Lauretta Masiero, Carlo Delle Piane, Tiberio Murgia, Toni Ucci, Bice Valori e Marisa Merlini; il film rappresenta una serie di personaggi caratteristici che si incontrano sulla spiaggia di Fregene.

Il sorpasso è un film italiano del 1962, diretto da Dino Risi, con Vittorio Gassman, Catherine Spaak e Jean-Louis Trintignant. La narrazione del film inizia "nella Roma deserta di un Ferragosto qualunque".

L'ascensore, terzo episodio di Quelle strane occasioni, film commedia in tre episodi del 1976. L'episodio è diretto da Luigi Comencini, con Alberto Sordi e Stefania Sandrelli, e racconta della giovane Donatella (Stefania Sandrelli) che resta chiusa in compagnia di un maturo monsignore (Alberto Sordi) nell'ascensore di un palazzo deserto per le feste di Ferragosto.

Il giorno dell'Assunta, film italiano del 1977 diretto da Nino Russo con Leopoldo Trieste e Tino Schirinzi, film surreale ambientato interamente in esterni, per le strade deserte di Roma.

Un sacco bello, film italiano del 1980 diretto ed interpretato da Carlo Verdone sullo sfondo di una Roma ferragostana, assolata e deserta.

Ferragosto OK, film di Sergio Martino del 1986, con Mauro Di Francesco, Eva Grimaldi, Sabrina Salerno, Alessandra Mussolini, Vittorio Marsiglia e Maurizio Mattioli.

Quinze août, 15 août, (15 agosto) è un cortometraggio francese (10 minuti) di soggetto drammatico, diretto da Nicole Garcia nel 1986, con Ann-Gisel Glass, Nicole Garcia e Jean-Louis Trintignant nella parte del marito infedele.

15 août (tit. italiano: "15 agosto. Non sarà una vacanza per tutti") è un film francese diretto da Patrick Alessandrin nel 2001, con Richard Berry, Jean-Pierre Darroussin e Charles Berling che vengono abbandonati dalle mogli nel giorno di Ferragosto e così costretti a dover badare ai loro numerosi figli.

Pranzo di ferragosto, film italiano del 2008 diretto da Gianni Di Gregorio. Vincitore del Premio Venezia Opera Prima "Luigi De Laurentiis" alla 65ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.

Il Ferragosto nella letteratura.

Alberto Moravia, Scherzi di Ferragosto e i Racconti romani, 1954;

Carlo Cassola, Ferragosto di morte, Reggio Emilia, Ciminiera, 1980;

Arturo Carlo Jemolo, Scherzo di Ferragosto, Roma, Editori Riuniti, 1983;

Renato Olivieri, Maledetto Ferragosto, prefazione di Raffaele Crovi, Milano, Rizzoli, 1983;

Raffaele Crovi, Ladro di Ferragosto, Milano, Frassinelli, 1984;

Paolo Cevoli, Mare mosso, bandiera rossa: Ferragosto a Roncofritto. Romanzo!, Milano, Kowalski, 2003;

Andrea Camilleri, Notte di ferragosto, Palermo, Sellerio, 2013;

Luca Ricci, Ferragosto addio!, Segrate, Einaudi Quanti, 2013;

Andrea Vitali, Giancarlo Vitali, Enigma di ferragosto, Lucca, Cinquesensi, 2013.

Ludovico Antonio Muratori, Dissertazioni sopra le antichità italiane, Barbiellini, Roma, 1755, tomo II, pag.32

Franco Montini per “il Venerdì di Repubblica” il 15 agosto 2021. Molti identificano Ferie d'agosto, uscito nel 1996, come il primo film sul berlusconismo, capace di cogliere al volo la degenerazione antropologica di un Paese dove destra e sinistra si scontrano senza possibilità di compromesso. Insomma una commedia dagli intenti dichiaratamente politici. Ma Paolo Virzì, 25 anni dopo, contesta questa lettura. «La sceneggiatura scritta con Francesco Bruni», ci dice Virzì, «non aveva alcuna pretesa sociologica, né l'ambizione di raccontare l'Italia di quegli anni. Anzi, giocando d'astuzia, come nella tradizione del cinema, per convincere la major italiana dell'epoca, la Cecchi Gori Group, che produceva soprattutto commedie spensierate e natalizie, a realizzare il nostro progetto lo presentammo come un'innocua commedia balneare».

Però dentro era nascosto qualcos'altro.

«Il film venne scritto proprio nell'anno della discesa in campo di Berlusconi che spaccò l'Italia in due, suscitando le paure, le apprensioni, il terrore nella fascia di popolazione più colta e l'entusiasmo e la voglia di riscatto da un complesso di inferiorità dei ceti più popolari, commercianti, consumatori, ma anche operai, affascinati da un nuovo modo di fare politica, dove l'estetica contava più dei contenuti. Insomma Ferie d'agosto era un affresco che illustrava da una parte l'Italia che leggeva libri e giornali, dall'altra quella del karaoke e della tv trash. Le ideologie c'entravano poco: si raccontava più che altro uno scontro culturale».

Insomma una sorta di progenitore di tanti altri film successivi, a cominciare, per citare un esempio recente, da Come un gatto in tangenziale. Ma come è nata l'ispirazione per Ferie d'agosto?

«Nell'estate del 1994 ero in vacanza con un gruppo di amici a Ginostra nelle Eolie, allora un luogo scomodo e silenzioso, poco frequentato dai turisti. Un giorno, mentre eravamo in spiaggia, a distruggere un'atmosfera incantevole, arrivò un gommone, che sparava musica a palla, stracolmo di bagnati che mangiavano fette di cocomero. Il film è frutto di quell'immagine».

Venticinque anni dopo l'uscita di Ferie d'agosto il mondo è cambiato. Sono arrivati i cellulari, le piattaforme, la rete, ma i prototipi di quelle due Italie, i Molino da una parte, i Mazzalupi, dall'altra, sembrano immutati...

«È così. E nel frattempo la frattura fra i due gruppi si è ingigantita, complice proprio l'avvento delle nuove tecnologie che, basandosi sulle sensazioni, suscitano e fomentano contrapposizione e odio. Nel film, invece, il confronto era affidato a qualche battuta, come quella rivolta da Molino a Mazzalupi: "Lo sa lei qual è l'ultimo libro che ha letto? No? Glielo dico io: il libretto d'istruzioni del suo cellulare". O quella di Mazzalupi a Molino: "Voi intellettuali non ci state a capì un cazzo ma da mò". Insomma è un film assolutamente privo di invettive, che evita la facile satira su Berlusconi, all'epoca molto di moda, che non trasforma mai l'avversario in un nemico. Ferie d'agosto non voleva essere un pamphlet, ma un film ironico e autoironico, capace di mostrare pregi e difetti di entrambi i gruppi. Non era un film ideologicamente schierato e per questo, all'epoca dell'uscita, non piacque troppo alla sinistra, che mi accusò di eccessiva simpatia nei confronti della controparte. Ricordo che Silvio Orlando, che interpretava Sandro Molino, mi rimproverò dicendomi: è la prima volta che vedo un film di destra fatto da un regista di sinistra».

A infastidire la sinistra era il fatto che, nonostante i Molino fossero moralmente migliori, i Mazzalupi risultavano più simpatici?

«Silvio Orlando e il suo clan erano il ritratto di un'umanità progressista, tollerante, pronta all'accoglienza dello straniero, ma spocchiosa e incapace di provare un minimo di empatia nei confronti del vicino di casa chiassoso, cafone, pronto a esibire il cellulare e incapace di usare i congiuntivi. I Mazzalupi risultavano più simpatici, perché nonostante rozzezza e arroganza, erano contraddistinti da una travolgente vitalità, anche per merito delle interpretazioni di Ennio Fantastichini e Piero Natoli, entrambi scomparsi precocemente».

Un'accoppiata sorprendente.

«Fantastichini, reduce dal ruolo impegnativo in Porte aperte di Gianni Amelio, con cui aveva vinto un importante premio europeo, era considerato un attore esclusivamente drammatico. Piero Natoli era un regista, che si considerava imparentato con il cinema di Moretti, di Piscicelli, di Del Monte. Metterli insieme e proporli come cognati in un doppio ruolo brillante fu un azzardo. Ma bastava vederli apparire con le braghe corte, le camicie sgargianti o le canottiere, il marsupio legato alla vita per suscitare empatia».

Come sono nati i nomi dei due protagonisti principali?

«Per Sandro Molino, giornalista dell'Unità, ho preso spunto dal nome di un mio caro amico, Sandro Veronesi, e un cognome ispirato a un filosofo all'epoca molto citato da Achille Occhetto: John Stuart Mill. Per l'altro protagonista, titolare di un negozio di armi, volevo un cognome aggressivo e me lo ha suggerito un concessionario romano di automobili Rover, Mazzalupi appunto». 

Ferie d'agosto parla anche di temi come l'immigrazione, le coppie gay, le famiglie allargate, destinati successivamente a diventare d'attualità. «Eppure il cuore del film batte anche altrove. Svelerò un segreto rimasto sconosciuto in tutti questi anni, anche se, come tutti i ladri che provano un'irresistibile attrazione nell'essere scoperti, nelle tante interviste sul film, più di una volta, ho offerto ai miei interlocutori una serie di indizi per scoprire il misfatto. Con mia sorpresa nessuno ha mai colto il sottotesto più intimo, sentimentale e romantico del film, ovvero la storia che lega Sandro Molino e Francesca, impersonata da Antonella Ponziani. Quando si incontrano si salutano con una certa emozione e, anche se fingono il contrario, si capisce che già si conoscono. Successivamente, un poco alla volta, si scopre che sono stati coinvolti in un contrastato, tempestoso e irrisolto rapporto d'amore che ha segnato la vita di entrambi. Ebbene, seppure liberamente, il tutto è ispirato a un'opera giovanile di Cechov, che aveva già fornito lo spunto a Nikita Mikhalkov per il film Partitura incompiuta per pianola meccanica».

Ferragosto e non: i film che raccontano la metà dell’estate. Il sorpasso, Caro Diario e Ferie d’Agosto, ecco i film italiani che hanno raccontato la festa di metà estate. Simona Grisolia il 15 Agosto 2021 su taxidrivers.it. Ferragosto: ecco i film italiani che raccontano la giornata e il mese più caldo dell’anno. Ferragosto: i film

Il Sorpasso – Dino Risi. 

Il sorpasso, diretto da Dino Risi e scritto dal regista con Ettore Scola, è ancora oggi considerato uno dei film manifesto della Commedia all’Italiana. Estate 1962. Nel giorno di Ferragosto, Bruno Cortona vaga per una città di Roma deserta a bordo della sua Lancia in cerca di sigarette e un telefono pubblico. Non trovandolo, viene “accolto” da Roberto, uno studente di giurisprudenza rimasto a casa per preparare gli esami della sessione di settembre. Dopo avergli concesso la telefonata, Bruno convince Roberto ad unirsi a lui. Il film è una vera e propria lezione di comicità. Roberto si troverà ad assecondare l’entusiasta Bruno che sembra volersi godere ogni secondo della giornata. I due protagonisti sono esattamente uno l’opposto dell’altro e probabilmente per questo la loro “coppia” funziona. Interpretato egregiamente da due giganti, Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant, Il sorpasso è uno dei film italiani più famosi all’estero.

Caro Diario – Nanni Moretti 

Scritto, diretto e interpretato da Nanni Moretti, Caro Diario è un film composto di tre episodi: In Vespa, Isole, Medici. Il primo episodio vede Moretti salire a bordo della sua vespa per la città di Roma deserta, nel giorno di Ferragosto. La voce fuori campo del regista descrive i quartieri attraversati fino ad arrivare a Ostia, nel luogo in cui venne ucciso Pier Paolo Pasolini. Premiato per la Miglior Regia al Festival di Cannes, Caro Diario, dallo stampo fortemente intimista, è considerato come il film-manifesto del regista.

Pranzo di Ferragosto – Gianni Di Gregorio 

Scritto, diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio. Gianni, un uomo di mezz’età, figlio unico,  vive  con sua madre in una vecchia casa nel centro di Roma. Tiranneggiato da lei, nobildonna decaduta, trascina le sue giornate fra le faccende domestiche e l’osteria. Il giorno prima di Ferragosto l’amministratore del condominio gli propone di tenere in casa la propria madre per i due giorni di vacanza. In cambio gli scalerà  i debiti accumulati in anni  sulle spese condominiali. Gianni è costretto ad accettare.  A tradimento, l’amministratore si presenta con due signore, perché porta anche la zia che non sa  dove collocare. Gianni, travolto e annichilito dallo scontro fra i tre potenti caratteri, si adopera eroicamente per farle contente.  Accusa un malore e chiama un amico medico che lo tranquillizza ma, implacabile, gli lascia la sua vecchia madre perché è di turno in ospedale. Gianni passa ventiquattr’ore d’ inferno. Quando arriva il sospirato momento del congedo però le signore cambiano le carte in tavola… La commedia è l’esordio alla regia di Di Gregorio, anche sceneggiatore e interprete. Prodotto da Matteo Garrone, il film viene presentato al Festival di Venezia dove ottiene un grande successo.

Ferie d’Agosto – Paolo Virzì 

Ferie d’Agosto, diretto da Paolo Virzì e scritto dal regista con Francesco Bruni, è uno specchio sociale dell’Italia in vacanza. Due gruppi, quello dei Mazzalupi e dei Molino, trascorrono le vacanze in due case vicine sull’isola di Ventotene. Stili di vita, pensieri politici e relazioni sentimentale vissute in modo diverso. Il confronto tra i due sfocerà presto in uno scontro. Il secondo film del regista possedeva già le caratteristiche per cui il suo cinema è tanto apprezzato. Attraverso questa vicinanza forzata, Virzì propone allo spettatore un’analisi dei personaggi, degli ambienti e della società che riflette quella dell’Italia contemporanea. Ferie d’Agosto si avvale di dialoghi eccellenti e situazioni in bilico tra l’ironico e il tragico, portate all’apice grazie all’interpretazione di un cast in stato di grazia, trascinato da Silvio Orlando e l’indimenticabile Ennio Fantastichini.

Dillo con parole mie – Daniele Luchetti 

Stefania, libraia romana, si lascia con Andrea poco prima di partire per le vacanze estive. Raggiunta da sua nipote Martina, adolescente entusiasta, le due partono per una vacanza insieme sull’isola di Io. La commedia di Daniele Luchetti, scritta con Ivan Cotroneo e Stefania Montorsi, è un divertente confronto generazionale sulla visione della vita e dell’amore. Mentre Martina cerca di vivere appassionatamente ogni giorno, Stefania passa il tempo a trovare un problema  in ogni cosa  finché nelle loro vite non entra Enea…Interpretato da un buon gruppo di attori, tra cui un giovanissimo Giampaolo Morelli, la commedia si basa sull’equivoco dello scambio tra Enea e Andrea che genera un serie di sequenze divertenti. Indimenticabile la quella finale sulle note di Ta-ra-ta-ta di Mina.

Perché si va in ferie ad agosto?

Ferie ad agosto. Molti credono sia colpa della FIAT, che chiudeva ad agosto costringendo operai e indotto a fare altrettanto. Abbiamo scoperto che non è così. Sonia Milan il  12 Dicembre 2017 su infonotizianews.it. Il grande esodo vacanziero del mese di agosto è una delle realtà che fa parte della vita di ogni italiano da sempre. E quando diciamo “di ogni italiano” e “da sempre” non si tratta di un semplice modo di dire.

L’origine del termine Ferragosto. L’origine del termine Ferragosto e del relativo periodo di ferie risale all’imperatore Ottaviano, che nel 27 avanti Cristo venne proclamato “Augusto” dal Senato, ovvero venerabile e sacro. In epoca romana, il tempo era scandito dal lavoro della terra e dalle sue esigenze. Per i contadini, il mese di agosto rappresentava un momento di pausa durante la coltivazione del grano: l’autunno era il periodo della semina mentre luglio era il mese, faticoso, della mietitura. L’imperatore Ottaviano Augusto stabilì quindi, nel 18 avanti Cristo, che il mese di agosto fosse interamente dedicato al riposo, sia perché arrivava al termine della faticosa mietitura e prima della nuova semina, e sia perché agosto era un mese ricco di festività che celebravano i raccolti (gli Augustali). Ottaviano, inoltre, fissò il 1 agosto come giorno di inizio del mese di riposo e il “riposo indetto da Augusto”, appunto “feriae Augusti” è arrivato a noi come Ferragosto. In seguito, la Chiesa Cattolica spostò la festività al 15 agosto, per far coincidere la festa laica con il giorno dedicato all’Assunzione di Maria.

Gita fuori porta a Ferragosto: l’origine della tradizione. La gita fuori porta tipica del giorno di Ferragosto ha origine nel ventennio fascista, quando nel mese di agosto il regime organizzava gite a prezzi fortemente scontati attraverso le associazioni dopolavoristiche. Grazie a questa iniziativa anche le classi meno abbienti potevano permettersi di fare dei brevi viaggi (di uno o di tre giorni) che hanno consentito a molte persone di vedere per la prima volta il mare, la montagna e le città d’arte.

Perché si va in ferie ad agosto? Le ferie ad agosto dal dopoguerra ad oggi. La tradizione del periodo vacanziero di Ferragosto (e quindi di tutto, o quasi, l’intero mese di agosto) è giunta pressoché immutata ai giorni nostri, nonostante la maggior parte dei lavoratori moderni non svolga più attività legate all’agricoltura. Ricordiamo, inoltre, che fino ai primi anni del 1900 era usanza da parte dei datori di lavoro delle fabbriche e delle imprese in generale, dare ai lavoratori una “mancia” (in denaro o in beni commestibili) in modo che che potessero godere appieno di quelle giornate festive (si diceva “dare il Ferragosto”). Per evitare che i padroni di lavoro dimenticassero di versare quanto promesso, a fine luglio nei cantieri edili i lavoratori issavano un grande ramo d’albero sulla parte più alta del fabbricato in costruzione, con appese delle borse (una sorta di albero della cuccagna), che serviva a rammentare scherzosamente all’impresario che era arrivato il momento di elargire quella che poi è diventata la “quattordicesima”.

Ferie ad agosto: perché non è “colpa” della FIAT. Molte persone, alla domanda “perché andiamo tutti ferie ad agosto?” si sono sempre sentite rispondere più o meno allo stesso modo: perché le scuole sono chiuse, quindi non ci sono alternative (a ben pensarci, sono chiuse anche a luglio e anche nella seconda metà di giugno), ma soprattutto perché, secondo le dicerie, la FIAT aveva deciso di chiudere la catena di montaggio ad agosto, costringendo così non solo gli operai ad andare in ferie, ma anche tutto l’indotto, coinvolgendo in questo piano ferie agostano mezza Italia. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, le cose non stanno così: la tradizione delle ferie ad agosto nasce in epoca romana, viene ampliata e “sovvenzionata” in epoca fascista e a questa tradizione si sono adattate le grandi industrie italiane che sono sono nate a cavallo tra il 1800 e il 1900, e che hanno impiegato migliaia di lavoratori sia direttamente (negli anni ’50 i dipendenti FIAT erano 158.000, arrivati a 221.000 nel 2000) sia tramite l’indotto. E con questa nuova consapevolezza, non mi rimane che augurarti buone vacanze.

Autore: Sonia Milan. Formatrice, consulente di comunicazione digitale, praticante giornalista, copywriter, storyteller.

Ferragosto, le ferie e l'abitudine degli italiani. Pierangelo Giovanetti il 15/8/2021 su L'Adige.

L'abitudine di andare tutti in ferie in agosto, e specialmente attorno a Ferragosto, è una tradizione tipicamente italiana, che sembra inestirpabile. Se non si va in ferie la settimana di Ferragosto, agli italiani pare di non aver fatto le ferie. Ma gli italiani non sanno rinunciarvi. Perciò non resta che augurare: buon Ferragosto a tutti, a dispetto della ressa con cui ci troveremo magari a dover fare i conti oggi.

Caro direttore, siamo a Ferragosto e - come ogni anno - negozi, imprese, pubblici servizi chiudono e tutti vanno in ferie. Ma è mai possibile un Paese che «chiude per ferie»? In questi giorni dovevo fare delle riparazioni in casa. Ho vagato come un matto a cercare negozi aperti e ditte di artigiani che potessero intervenire. Stessa cosa se si ha bisogno di una visita medica urgente, di chi ti ripari il computer, e così via. Ma che Paese è il nostro che si ferma per quindici giorni l'anno? Nel resto del mondo tale usanza di andare tutti in ferie nello stesso periodo non esiste. Forse stanno meglio loro. Arduino Sartori

L' abitudine di andare tutti in ferie in agosto, e specialmente attorno a Ferragosto, è una tradizione tipicamente italiana, che sembra inestirpabile. Se non si va in ferie la settimana di Ferragosto, agli italiani pare di non aver fatto le ferie. E sì che è il periodo dell'anno in cui i prezzi delle vacanze sono più cari, le strade sono ingolfate di traffico, spiagge e montagne affollano di turisti (spesso schiamazzanti, specie se sono italiani). Sono i giorni in cui, andando al ristorante, si è trattati peggio, perché c'è ressa, i tavoli non sono liberi e bisogna aspettare, i camerieri hanno molto da fare e non c'è possibilità di essere seguiti bene. Inoltre non regge nemmeno la scusa del caldo, perché notoriamente (non solo quest'anno che abbiamo avuto una settimana di Ferragosto orrenda, con pioggia e freddo) le temperature sono più basse di luglio dove nelle ultime due settimane si raggiunge il picco dell'afa, e sarebbe meglio godersi il fresco delle montagne o delle rive di un lago, invece che starsene a lavorare, magari senz'aria condizionata. Nonostante l'attitudine italica al «Ferragosto chiuso per ferie» desti la sorpresa meraviglia di tutti gli stranieri, che in molti casi si vedono interrompere anche ogni tipo di rapporto d'affari e di comunicazione con l'Italia, non c'è ragione che tenga: agli italiani piace così. Ed è il retaggio di un'epoca in cui dominante erano la società agricola e il lavoro nei campi, come è stato nel nostro Paese fino ai primi anni Cinquanta. Del resto «le ferie d'agosto» risalgono alla notte dei tempi, addirittura all'Impero romano di Cesare Augusto, prima della nascita di Cristo. Nel 18 a.C. l'imperatore romano Augusto istituì, appunto le «feriae Augusti», cioè il «riposo di Augusto», da cui è nato il Ferragosto. E l'imperatore diede il nome a tutto il mese: ecco perché si chiama agosto. Quella era la ragione, che è durata nei secoli ed è stata mutuata in pieno dall'Italia contadina. La metà di agosto era il tempo in cui i contadini potevano concedersi di tirare il fiato, dopo le fatiche della lavorazione della terra e della mietitura del grano e prima della vendemmia e della semina autunnale. Così la consuetudine è rimasta anche in un'epoca diversa come la nostra, in una civiltà post-industriale e del terziario diffuso. È un'eredità del passato che oggi avrebbe poco senso e anzi presenta un sacco di inconvenienti prima citati. Ma gli italiani non sanno rinunciarvi. Perciò non resta che augurare: buon Ferragosto a tutti, a dispetto della ressa con cui ci troveremo magari a dover fare i conti oggi.  

Estate e vacanze, ecco perché dobbiamo ringraziare i Romani se ad agosto non si lavora (o si lavora meno). Ecco perché agosto è il mese delle ferie e delle vacanze. L’origine di questa consuetudine risale addirittura agli antichi Romani. Mario Esposito l'1 Agosto 2021 su occhionotizie.it. Perché agosto è il mese delle ferie e delle vacanze? L’origine di questa consuetudine è più antica di quanto si potrebbe immaginare e risale addirittura agli antichi Romani. A quei tempi, infatti, la maggior parte dei lavoratori si dedicava all’agricoltura e in particolare alla coltivazione del grano. Dato che la raccolta di questo cereale avveniva a luglio, agosto era un periodo di pausa per tantissime persone. Così, nel lontano 18 a.C. l’imperatore Ottaviano Augusto decise di istituire le feriae Augusti per l’1 agosto, designando ufficialmente questo mese come periodo dedicato al riposo. In seguito la Chiesa cattolica per far coincidere la festività con il giorno dell’Assunzione di Maria spostò il Ferragosto al 15.

Ecco perché agosto è il mese delle ferie e delle vacanze. Questa consuetudine ha resistito fino ai nostri giorni, aiutata anche da altri eventi e fattori, tra cui:

Durante il boom industriale molte fabbriche avevano l’abitudine di chiudere la settimana di Ferragosto, spingendo anche tutto l’indotto a fare altrettanto.

Nel ventennio fascista il regime, attraverso le associazioni dilettantistiche, favoriva con sconti sostanziosi le brevi gite dei lavoratori a cavallo di Ferragosto (13-14-15 agosto).

Fino a qualche anno fa, il clima caldo era un ostacolo per molti lavori.

Le ferie scolastiche, a differenza che in altri paesi europei, in Italia sono quasi tutte concentrate in estate. Per le famiglie con bambini le possibilità di compiere viaggi nel resto dell’anno sono quindi limitate.

Oggi in Italia gli occupati nel settore agricolo sono circa il 3,7% (fonte Istat) del totale. Grazie ai condizionatori, inoltre, il caldo non è più un serio ostacolo per chi lavora.

Chi va in ferie ad agosto. In fondo, concentrare le vacanze in questo mese sembra comportare svantaggi sia per i lavoratori che per i datori di lavoro. Per i lavoratori, infatti, prendere le ferie in agosto vuol dire: Andare in vacanza in un periodo in cui le mete turistiche sono più affollate e costose.

Non scegliere il mese climaticamente migliore, dato che, per esempio, luglio ha generalmente un clima più stabile, mentre giugno e settembre presentano temperature più tollerabili.

Per chi ama andare all’estero e immergersi nella cultura locale, avere la certezza di trovare tantissimi altri italiani ad alterare l’atmosfera.

Per un’azienda, invece:

È più complicato gestire il piano ferie quando tutti i lavoratori vogliono andare in vacanza negli stessi periodi.

Per le aziende che rimangono aperte, in agosto diventa difficile preservare il livello di produttività ed erogare regolarmente i propri servizi.

Per le aziende che chiudono per una o più settimane, arrestare e far ripartire le attività comporta inevitabilmente qualche sforzo extra. Mario Esposito 

Ferragosto, perché si festeggia: nascita, storia e tradizioni. Quest'anno il 15 agosto cade di domenica. Ma cosa sappiamo di questa giornata? Interessanti le origini, ma da non perdere i piatti tipici. Ilgiorno.it il 13 agosto 2021. Il conto alla rovescia è partito: mancano pochi giorni a Ferragosto, la festa per eccellenza dell'estate. Quest'anno il 15 agosto cade di domenica, ma non è sempre così. Ma tra vacanze, grigliate e anguriate, cosa sappiamo di questa giornata? Ecco qualche curiosità dalla nascita fino alle tradizioni odienre.

Le origini romane. L'etimologia del termine Ferragosto deriva dall'antico Feriae Augusti, una festività che si celebrava nell'antica Roma. La festa era in onore di Augusto e il nome, che significa il riposo di Augusto, dà il nome anche al mese. Feriae Augusti non era la festività del 15 agosto, così come la conosciamo, ma era più un modo di chiamare la prima parte del mese di agosto che era dedicata al risposo e ai festeggiamenti, festività istituita nel 18 a.C. Questo periodo di riposo aveva origine nella più antica tradizione dei Consualia, feste che si celebravano alla fine dei raccolti in onore del dio Conso, protettore della fertilità e della terra. Durante i festeggiamenti in tutto l'Impero si organizzavano corse di cavalli e altri animali da tiro. Inoltre era il momento dell'anno in cui i contadini porgevano i loro auguri ai proprietari terrieri in segno di buon auspicio per i raccolti successivi. Il riposo di Augusto cadeva precisamente il 1 di agosto ma i giorni di riposo si estendevano per buona parte del mese.

La festività della Chiesa Cattolica. La festa del 15 agosto è stata istituita più tardi, quando Ferragosto è stato assimilato dalla Chiesa Cattolica che istituì la festa dell'Assunzione di Maria. Il dogma, proclamato da Papa Pio XII il 1° novembre 1950, contempla che la madre di Cristo "completato il corso della sua vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo". Secondo il Vaticano tale ascensione avvenne proprio il 15 agosto ed è questa la ragione dello "spostamento" di quattordici giorni della data ufficiale del Ferragosto, che in origine veniva festeggiato il primo giorno del mese. L'unione dell'elemento sacro a quello secolare ha fatto in modo che Ferragosto venga ancora oggi considerato una vera e propria festa di precetto per la quale i fedeli sono tenuti a partecipare alla Messa e astenersi dalle attività lavorative.

Il regima fascista. La ricorrenza è stata tenuta in gran considerazione anche dal regime fascista che durante gli anni al governo si prodigò nell'organizzare gite popolari tramite le associazioni del dopolavoro. Si ricordano, in particolare, i treni popolari di Ferragosto sui quali si poteva salire a tariffe agevolate per permettere alle classi meno agiate di girare l'Italia e raggiungere località di villeggiatura. Le offerte erano limitate dal 13-15 agosto e variavano dalle formule di sole 24 ore a quelle che comprendevano tutti e tre i giorni, con spostamenti massimi fino a 200 chilometri.

Una festività italiana. Il Ferragosto è una festività esclusivamente italiana, visto che in giro per il mondo il 15 agosto è un giorno come tutti gli altri. Eccezion fatta per la cattolica Irlanda, che però celebra la giornata di oggi solo per la festa dell’Assunzione di Maria.

I piatti tipici. Per una festa così importante potevano mancare dei piatti tipici?  “A Ferragosto si mangiano i piccioni arrosto” recita un vecchio adagio popolare basato, probabilmente, su un'antica tradizione nata in Toscana. Oggi il piccione arrostito si mangia in quasi tutta Italia: a Piacenza è famosa la variante della “bomba arrosto” (bomba di riso servita con carne di piccione, salsiccia e funghi porcini).  A Roma, invece, si serve il pollo in umido con peperoni accompagnato da fettuccine ai fegatelli, mentre nel Foggiano, il galletto o galluccio ripieno. Si tratta di un gallo di circa 3 kg che viene riempito con una farcia a base di pane raffermo ed erbe e poi cotto al forno insieme alle patate. In Campania, in modo particolare in Costiera Amalfitana, immancabili gli zitoni di Ferragosto: lunghissimi cilindri di pasta secca da spezzare, rigorosamente con le mani come da tradizione, prima della cottura conditi con un sugo a base di pomodori freschi, pomodori secchi e capperi. Il piatto si può mangiare così com'è oppure ripassato in forno con mozzarella di bufala e parmigiano. Scelta varia anche per i dolci: spiccano le Margheritine di Stresa, in Piemonte, ovvero i biscotti che venivano tradizionalmente offerti agli ospiti dalla regina Margherita, in occasione dei ricevimenti di Ferragosto della Casa Reale. Tipico di Pitigliano, ma diffuso in tutta l'area di Grosseto, il biscotto di mezz'agosto: un dolce a forma di ciambella e aromatizzato con vino e semi di anice. Poi, ci sono i taralli di Ferragosto, quelli con la copertura glassata a base di acqua e zucchero, lievemente aromatizzata al succo di limone. Mentre, a Palermo, in Sicilia, c'è il gelo di "mellone", ovvero un dessert al cucchiaio che viene fatto con il succo dell'anguria, lo zucchero e un addensante: a volte lo si trova in assoluto, altre volte con uno strato di frolla sotto. Tante le sue varianti, a seconda della zona o delle tradizioni familiari, soprattutto a completamento del dolce: si possono aggiungere infatti vari ingredienti, tra i quali chiodi di garofano, cannella, fiori di gelsomino e la granella di cioccolato amaro.  Immancabile, comunque, su quasi tutte le tavole l'anguria, servito fredda.

·        La Parolaccia.

Da "Specchio - la Stampa" il 21 settembre 2021. Erano molteplici gli insulti e le parolacce nell'antica Grecia. Eccone alcuni: Barùmastos, "dalle tette pesanti"; Boiotòs, "beota" (i greci credevano che gli abitanti della Beozia fossero molto poco intelligenti e quindi stolti): Bolbitòomai, "puzzare di merda bovina"; Graosòbes, "amante di vecchie"; Dulomìktes, "trombaschiavi"; Engortùnoomai, "essere stupido come un cretese di Gortina"; Xulokùmbe, "donna con la grazia di un barcone". Alcune delle parolacce contemporanee arrivano direttamente dal latino, come stercum o meretrix, "sterco" e "meretrice". Il peso di certi insulti pompeiani scandalizzerebbero anche il più scurrile dei contemporanei. Sui muri di Pompei, tra le altre cose, si legge infatti: "Appollinare, medico di Tito, in questo bagno egregiamente cagò"; "Che gioia inculare!"; "Piangete ragazze, il mio cazzo vi ha abbandonato. Ora incula i culi. Fica superba addio!"  Nel Medioevo l'epiteto peggiore era quello di "villano", che con estremo classismo rimandava alla presunta volgarità degli abitanti delle campagne, un termine che ancora oggi conserva una se pur pallida calunnia verso il prossimo. Nella Firenze di Dante, invece, ci si divertiva a dare al prossimo del "mal ghibellino cacato", cui si poteva rispondere con "sozzo guelfo traditore" o, all'occorrenza geografica, con "sozzi marchisani" o "sozza romagnola" La sottile arte del turpiloquio era assai praticata nella civiltà classica Le imprecazioni più in voga tra i Greci erano "per il cane!", "per la capra!", "per l'aglio!" Anche i Romani non erano troppo pudichi L'insulto più comune era "sporco sannita"

Andrea Marcolongo per "Specchio - la Stampa" il 21 settembre 2021. È difficile per noi contemporanei, abituati da oltre due millenni a idealizzarli e a venerarli, immaginare gli Antichi intenti ad insultarsi e a prendersi a male parole in mezzo alle strade di Atene e di Roma. Eppure, tra una discussione filosofica e una tragedia a teatro, i Greci e i Romani non se le mandavano certo a dire: non furono solo epiteti e poesie ciò che la Musa cantò da Omero in poi, ma anche molte, coloritissime parolacce. Sconcerta scoprire che la poco sottile arte del turpiloquio - etimologicamente dal latino, il "parlare impiegando un linguaggio osceno" - sia venuta al mondo con la comparsa stessa dell'uomo, che a quanto pare ha iniziato a mandare a quel paese i suoi simili non appena scoperta la posizione eretta. Se i resti archeologici rinvenuti in Mesopotamia non ci consentono di ricostruire le espressioni più colorite della Preistoria, è però certo che gli antichi Egizi amassero insultarsi senza sosta: l'interpretazione di alcuni geroglifici attesta come, già a partire dal III millennio a.C., il popolo del Nilo avesse sdoganato la bestemmia e l'insulto osceno, mettendo in dubbio la casta condotta delle madri di certe divinità o la loro prestanza sessuale. In greco antico, la parolaccia si diceva aiscrologia, ossia "discorso turpe", "vergognoso", anche se i Greci ebbero ben poca vergogna a coniare termini e espressioni che ancora oggi farebbero arrossire la più avvelenata delle lingue. Nessuna di queste parolacce, ovviamente, si apprende al liceo classico, dove si ha piuttosto la tendenza a immaginare Platone, Sofocle, Aristotele e tutti gli altri intenti a carezzarsi verbalmente con sottilissime metafore e raffinatissimi epiteti. Se al liceo non mi sono mai immaginata Omero intento ad insulare un passante o a litigare con un pescivendolo al mercato, né mai nella storia i versi più sboccati dei poeti greci hanno trovato posto nelle antologie scolastiche, sottoposte a quella che può essere a ragione definita una censura linguistica, tutti noi liceali abbiamo avuto più di un attimo di turbamento scoprendo le parolacce riportate con dovizia di esempi nel dizionario di greco che abbiamo tenuto tra le mani per almeno cinque anni. Ricordo ancora oggi le risatine, i commenti imbarazzati e i giochi di parole oscene dei miei compagni quando, nel bel mezzo di una versione, cercando nel Rocci chissà quale ortodosso sostantivo inciampavamo all'improvviso in una parolaccia greca cosi turpe e scurrile da mettere a disagio l'insegnante, che per eleganza fingeva di non sentire come s' insultavano Platone e gli altri. Le offese più taglienti, e per questo più indimenticabili, sono state persino recentemente raccolte in un libro edito da Melangolo, intitolato Come s' insultavano gli Antichi. Dire le parolacce in greco e in latino, curiosa opera di Neleo di Scelpsi (nom de plume dietro il quale si nasconde Francesco Chiossone, giovane esperto di filosofia antica e curatore appassionato di classici greci e latini). E dunque cosa si urlavano dietro i cittadini più irascibili di Atene e di Roma? Senza scadere nella volgarità, le espressioni più in voga tra i Greci erano "per il cane!", "per la capra!", "per l'aglio!" - e se un "per Zeus!" è imprecazione già omerica, bisogna riconoscere come i Greci, a differenza degli Egizi, non amassero scherzare troppo con gli dei. Alla trivialità urbana bisogna poi aggiungere il tocco di stile di letterati e poeti classici, che lasciarono un segno non solo nella letteratura, ma anche nel turpiloquio. Pitagora ad esempio, nel VI secolo a.C., credendo che la matematica fosse una manifestazione diretta della realtà, imprecava addirittura con i numeri - l'offesa suprema sarebbe stata dare a qualcuno "del numero 4". Maestro indiscusso della parolaccia fu senz' altro il poeta lirico Archiloco che già nel VII secolo a.C., nei suoi giambi, non le mandava certo a dire - alcune sue offese a sfondo sessuale sono irripetibili, perlomeno in questa sede. Sempre ai Greci va riconosciuto il merito della prima barzelletta con parolacce, protagonista un eunuco, riportata nel Philogelos, un'antologia di barzellette in greco del IV secolo d.C. Dall'altro lato del Mediterraneo, i Romani non erano certo più pudichi dei Greci: alcune delle contemporanee parolacce arrivano direttamente dal latino, come stercum o meretrix, che credo non valga la pena di tradurre. I graffiti rinvenuti sui muri di Pompei dimostrano come non tutti i discorsi dei Romani fossero tratti direttamente da Cicerone: il peso di certi insulti pompeiani scandalizzerebbero anche il più scurrile dei contemporanei, meritando un posto più in un bagno dell'Autogrill che in una biblioteca. A livello più poetico, c'è da rallegrarsi che Catullo sia passato alla storia per il suo odi et amo e non per le male parole con cui, una volta rifiutato, prese a schiaffi verbali il destinatario del suo amore, secondo forse solo a Marziale, un altro poeta che, nelle sue satire, si divertiva a ricoprire d'insulti i politici del suo tempo come nel peggiore dei lupanari. Un vizio, quello della parolaccia, che ha poi attraversato i secoli e le epoche storiche. Se a Roma l'insulto più comune era dare dello "sporco sannita" a qualcuno, in riferimento al popolo dei Sanniti che strenuamente si era opposto al potere della SPQR, nel Medioevo l'epiteto peggiore era quello del "villano", che con estremo classismo rimandava alla presunta volgarità degli abitanti delle campagne, un termine che ancora oggi conserva una se pur pallida calunnia verso il prossimo. Nella Firenze di Dante, infine, ci si divertiva a dare al prossimo del "mal ghibellino cacato", cui si poteva rispondere con "sozzo guelfo traditore" o, all'occorrenza geografica, con "sozzi marchisani" o "sozza romagnola". E se oggi l'uso della parolaccia è stato sdoganato in contesti più che insospettabili, concludo con un paradosso: la nostalgia dell'italico insulto. Sono poche le lingue straniere che possiedono più male parole del nostro italiano: per accorgersene, basta trasferirsi all'estero e parlare un altro idioma che, per comparazione al nostro, non potrà che risultare, in certi contesti, un poco pedante, ingessato, scolorito. Vivendo a Parigi e parlando tutto il giorno francese, dell'italiano mi manca tutto, compreso il suo turpiloquio - e così, se proprio devo, non rinuncio qualche volta a infarcire i miei discorsi con i colori, anche verbali, del nostro Tricolore.

Filippo Di Giacomo per “il Venerdì di Repubblica” l'8 aprile 2021. Nelle lettere alla mamma, don Lorenzo Milano racconta un episodio avvenuto nella parrocchia di San Lorenzo di Calenzano mentre celebrava i funerali di una giovane donna, moglie di un dirigente comunista della locale casa del popolo. Al momento dell'Elevazione, il marito in lutto alzando il pugno verso l'ostia, gridò: «questa non me la dovevi fare» e giù un bestemmione. Commentava don Lorenzo: «e poi dicono che la gente non crede più in Dio». Se questo è vero, il fiume di bestemmie che circola in ogni ambiente dovrebbe avvertirci che nella società secolarizzata il sacro ci si trova bene. Padre Antonio MariaTava ritiene invece le bestemmie vere nefandezze e ha scritto un apposito manuale pratico-teorico intitolato Come smettere di bestemmiare. È un libro da leggere. Se non altro serve, come annota Giorgia Sallusti in una recensione online, a comprendere che ascoltare Radio Maria (e i laudatores compulsivi, aggiungiamo) senza bestemmiare richiede una preparazione di livello più avanzato di quello proposto da Tava. Il quale, dopo una disamina sulle situazioni in cui le bestemmie sembrano galleggiare a proprio agio (tradizione, sessismo, potere, denaro e altre) si concentra su quella che più coinvolge i giovani (e le giovani): la bestemmia divertente, quella che dà perniciosa e radicata dipendenza. Perché, scrive l'autore, loro «credendo che insultare il nome di Dio sia divertente, non ne ravvedono il soffio del maligno». Come evitarlo? Iniziando a utilizzare affermazioni eufemistiche come «dio campanaro, dio pop, massaia la madonna, madama la madonna». Oppure operare variazioni, navigando nell'oceano della fantasia, per produrre locuzioni efficaci ma non blasfeme, come insegnano Elio e Le storie Tese coni loro ortobio, pornodivo, bioparco, diporto. Perché, attesta il metodo Tava, «sperimentato dall'autore prima su se stesso, poi su una cerchia sempre più ampia, oggi più di sei milioni di persone in tutto il mondo hanno definitivamente smesso di bestemmiare anche grazie a questo manuale». Tutto sta a far schioccare la glottide, quella parte della laringe che comprende le pliche vocali. Perché ogni volta che l'aria esce dai polmoni e le pliche sono serrate, si verificano delle piccole, e piacevoli, esplosioni di sonorità. Che queste siano causate da una bestemmia o da qualcosa di immaginifico, la glottide non lo sa e gode allo stesso modo. Vero? Falso? Esiste davvero padre Tava «religioso, filantropo, manicheo, traduttore, esperto di tossicodipendenza e paura di volare»? Meglio non chiederselo, perché in questa seconda edizione, dopo averci avvertito di non commettere «la bestialità di comprare» una copia in versione ebook, ci invita a procurarcene una cartacea che stretta tra le mani ci potrà sottrarre «alla depravata corruzione del Maligno». Quindi leggere e sorridere, please!

Così Dante rese poetica la parolaccia. Il filologo Sanguineti analizza l'uso del turpiloquio nella "Commedia". Alex Pietrogiacomi - Ven, 12/03/2021 - su Il Giornale. Il 2021 segna i 700 anni della morte del sommo poeta italiano, e si aprono le ennesime discettazioni sulla sua valenza, sui suoi studi accademici o semplicemente scolastici, sempre troppo semplificati in vista di una fruizione da quiz a premi televisivo. Se tutto il mondo ci invidia la figura di Dante Alighieri, scoperto a livello internazionale molto prima di quello che potremmo pensare, da Cristina da Pizzano (nata un secolo dopo) e meglio conosciuta come Christine de Pizan, la quale in anticipo su chiunque, e con molti punti biografici in comune con il fiorentino, parlava dell'opera di Dante come di qualcosa «senza paragone», noi abbiamo sempre qualche remora ad accostarci in modi che non siano istituzionali alla sua lingua e opera. Eppure le opere dantesche ci offrono anche spunti di divertimento filologico, fatto di scoperte e studi che ne svelano un lato giocoso della sua conoscenza e in questo Le parolacce di Dante (Tempesta editore, pagg. 98, euro 98) di Federico Sanguineti ha un ruolo essenziale. Un agile libretto che permette di immergersi nella materia viva dantesca, la sua lingua, e di farlo con un lavoro di comparazione letteraria e filologica incredibile per la sua concisa acutezza. Innanzitutto, come dice nell'introduzione Moni Ovadia «è bene non farsi trarre in inganno, perché siamo di fronte a un libro colto ed eccentrico che conviene leggersi per mettersi in relazione singolare e innovativa con il padre della nostra letteratura mondiale di tutti i tempi». Sì, perché Sanguineti ci propone un viaggio nelle strade alternative alla comprensione del Sommo e dei meno noti processi che lo portarono allo sviluppo della sua prodigiosa lingua. Viaggio «affascinante e contropelo» nelle parole e nelle parolacce, quest'ultime però da non intendersi come la svilente attitudine del quotidiano a cui siamo abituati, ma come un continuo alternarsi tra la percezione della parola in ogni sua sfumatura, connotazione stilistica, storica e ogni suo rimaneggiamento/interpretazione da parte di terzi come i copisti, i censori o critici. Sì, è vero che nella Divina Commedia le parolacce ci sono e ce n'è un uso abbondante, soprattutto nell'Inferno, basti pensare a sterco, merda, merdose, puttana, cul, le fiche, vacca, fin ad arrivare al Paradiso, dove compare vagina, rivelandosi come un poema sede non solo del sublime ma anche della sua nemesi, ma è anche vero che non si tratta di parlare solo della loro verve bassa, quanto del loro valore proletario, dell'universalità spesso additata negativamente da altri illustri colleghi di cui godeva la scrittura dantesca. Universalità che si rivolgeva a maniscalchi, contadini, che permetteva, e ha permesso anche negli anni a venire, all'opera di Dante di essere trasmessa, fruita, anche se non la si capiva, poiché si percepiva la sua bellezza. Un plurilinguismo dantesco manifesto soprattutto nella grande ricchezza lessicale, che va da termini alti e aulici, passando per latinismi e francesismi, provenzalismi, neologismi, nonché linguaggi inventati, fino al più basso turpiloquio, alla parolaccia appunto. Accanto alla concezione più comune però, della mala parola, si scoprono in queste pagine anche le connotazioni stilistiche, fatte di misure e scelte: come la Z, un suono ignobile e disadatto alla poesia, «tale da ridurre a parolaccia la parola che lo contiene», che però apre il poema, insieme ad altre parolacce (da intendersi ora come sconvenienti per uso, metrica etc) che derivano da un uso inappropriato dello iotacismo, mitacismo e labdacismo «Nel mezzo del cammin di nostra vita», e che rendono tutto ancora più scandaloso «perché, data la presenza di Z nel primo endecasillabo, l'incipit non può che suonare cacofonico all'autore stesso». E questo è solo uno degli esempi presenti tra le pagine del lavoro di Sanguineti, a cui vanno aggiunte tutte le rivisitazioni di censure religiose o peggio le banalizzazioni attuate da copisti disattenti o troppo zelanti nel voler riportare alla luce i testi originali e il loro spirito più alto.

Valeria Arnaldi per “Il Messaggero” il 17 gennaio 2021. Versatile, come la documenta l'uso quotidiano: la stessa parola può esprimere rabbia, paura, meraviglia. Benedetta - o quasi - dai Santi, dato che figura perfino nei Fioretti di San Francesco, con invito a usarla contro il diavolo. Artistica: la più antica scritta in volgare è nella basilica di San Clemente a Roma. «Fili de le pute traite», si legge in uno degli affreschi, databile intorno a fine del secolo XI. Letteraria, per l'ampio uso fatto da più scrittori, da Dante ad oggi. Scenica, per l'impatto sul palco ma anche per l'effetto teatralizzato che deriva dalla frequente associazione a gesti. La parolaccia, è antica - recente la scoperta di un'iscrizione graffita nell'area archeologica di Pompei - e lo è pressoché quanto l'uomo o quantomeno quanto il suo vivere in comunità. «Colui che per la prima volta ha lanciato all'avversario una parola ingiuriosa invece che una freccia è stato il fondatore della civiltà», diceva John Hughlings Jackson. Ed è sicuramente moderna, a suo modo pop. Netflix, da due giorni, propone la «spassosa e orgogliosamente scurrile» docu-serie Storia delle parolacce con Nicolas Cage, che indaga le origini delle più note parolacce inglesi. Ogni lingua, infatti, ha le sue e le relative storie, che documentano società, costumi, morale. «Le parolacce sono nate insieme alla lingua - spiega il linguista Luca Serianni, Accademico dei Lincei - quella affrescata nella basilica romana di San Clemente è uno dei primissimi documenti del volgare romanesco». Un'eccezione in una chiesa, non nel parlato. «Roma, in un certo senso, è la capitale italiana della parolaccia - sottolinea Pietro Trifone, professore ordinario di Storia della lingua italiana all'ateneo capitolino Tor Vergata e Accademico della Crusca - molte male parole nate nell'Urbe si sono poi diffuse nelle altre regioni, entrando nel vocabolario, da rosicare a cravattaro, fino alle tante legate agli organi sessuali. Il turpiloquio, in generale, sin dalle sue prime manifestazioni, è sollecitato soprattutto da forti istinti misogini e omofobi. La discriminazione di genere si vede pure nello scadimento, di chiaro segno maschilista, dei termini per indicare l'atto sessuale». La parolaccia nasce e si sviluppa con il concetto di tabù. E si fa presto letteratura. «Anche Dante, nella Divina Commedia, usa termini che oggi sarebbero parolacce - dice Serianni - lo fa perché sono parole che appartengono al registro comico, popolare, una componente della Commedia. Parolacce sono anche nelle lettere di Giacomo Leopardi e altri scrittori». E nei versi di Giuseppe Gioachino Belli. Gli organi sessuali, femminili e maschili, diventano fonte di ispirazione per decine e decine di insulti. «Belli nei sonetti La madre de le Sante e Er padre de li Santi - prosegue Trifone - usa circa cento parole diverse per indicarli. Un virtuosismo». E uno spettacolo. Nel 1991, Roberto Benigni sul palco Rai di Fantastico, si esibì in un lungo elenco di termini dialettali per nominare le parti intime. La performance animò dibattito e conversazioni per giorni. E sì che erano passati quindici anni dallo scandalo della prima parolaccia pronunciata in Rai. Era il 25 ottobre 1976, in radio, Cesare Zavattini annunciò che avrebbe detto una parola mai proferita da nessuno in radio: «Caz...!». Il tempo è passato e le parolacce sono state sdoganate, conquistando più ambiti, dal cinema alla televisione, dalla musica, fino alla politica. Nel 1992, fu Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, il primo a usarne una in un discorso ufficiale per sottolineare una arrabbiatura. Il vaffa è diventato poi slogan politico. Forse perfino, filosofia. Ed e è stato pure assolto dalla Corte di Cassazione nel 2007, purché detto tra pari. «La parolaccia - afferma Serianni - suscita curiosità, divertimento, non è usata solo per insultare ma anche per colorire un'espressione. In taluni casi è scelta per la sua efficacia pragmatica. Una volta, per indicare il turpiloquio, si diceva linguaggio da caserma, oggi è utilizzato da ragazzi e ragazze. A voler trovare una lettura positiva potremmo dire che, almeno qui, non ci sono differenze di genere». In calo, l'uso delle bestemmie. «La bestemmia, contrariamente a quanto si pensa, non è simbolo di irreligiosità - dice Trifone - Chi bestemmia crede in Dio. Usarla ha senso in una società religiosa, il suo utilizzo è quasi scomparso nella nostra, laica». Efficaci per comunicare, oggi, le parolacce lo sono ancora come insulti? «Usare e riusare una parolaccia la priva della sua carica offensiva e aggressiva - commenta il linguista Gian Luigi Beccaria, Accademico dei Lincei - ne fa quasi suono, un intercalare neutro. Forse, ormai, la parolaccia è diventata scolorita, grigia. Non è più un insulto. Oggi, per offendere, sarebbe più efficace una frase articolata, anche letteraria: più forte della parolaccia perché inattesa».

·        Il Pianto.

Dagotraduzione da Study Finds il 21 ottobre 2021. Secondo un sondaggio su più di duemila americani, gli uomini piangono in media quattro volte al mese, 48 in un anno. Le donne, invece, tre volte al mese (e 36 in un anno). Anche lo stereotipo secondo cui gli uomini non cercano un aiuto professionale per la loro salute mentale non sembra proprio centrato: due terzi degli intervistati maschi si è rivolto a una specialista quando ne ha avuto bisogno, mentre solo la metà delle donne si è fatto aiutare. Il sondaggio, condotto da OnePoll per conto di Vida Health, ha confermato che quasi il doppio degli uomini (il 63%), rispetto alle donne (il 34%), tende a nascondere il fatto che si sta facendo aiutare. Gli uomini ammettono che proverebbero imbarazzo (50%), vergogna (40%) o paura (39%) se le persone a loro vicine scoprissero che stanno andando in terapia. Al contrario, solo il 23% delle donne intervistate proverebbe imbarazzo, il 17% vergogna e il 16% paura. Questi sentimenti di vergogna potrebbero essere il motivo per cui gli uomini che sono in terapia hanno ammesso di fare abuso di alcol (49%), sostanze (40%) o di praticare autolesionismo (35%). Comportamenti meno comuni tra le donne. Solo il 27% ha riferito di abusare di alcol, il 23% di sostanze e il 20% di fare ricorso all’autolesionismo. Solo il 32% di tutti gli intervistati è d’accordo sul fatto che gli uomini sono più emotivi e hanno quindi più possibilità di soffrire di salute mentale. Il 55% infatti che le donne abbiano sistemi di supporto migliori rispetto agli uomini, e quindi maggiori probabilità di ricevere aiuto per la salute mentale. «Sappiamo che per molti uomini essere additati come vulnerabili e in cerca di aiuto è uno stigma» ha detto Mark Hedstrom, direttore esecutivo statunitense di Movember, in una dichiarazione. «Come società, dobbiamo abbattere queste barriere e aiutare gli uomini a capire l'importanza di aprirsi e ricevere aiuto durante i momenti difficili. Dobbiamo anche prenderci cura l'uno dell'altro. Controllate gli uomini nella vostra vita: potrebbero letteralmente essere una conversazione che salva una vita». Nel complesso, quasi i due terzi degli intervistati concordano sul fatto che c'è ancora uno stigma che circonda le persone che desiderano aiuto per la loro salute mentale: il 61% delle donne e il 69% degli uomini. Indipendentemente dal genere, il 40% del sondaggio ritiene che gli uomini abbiano maggiori probabilità di affrontare questo stigma, rispetto al 34% che pensa che le donne abbiano maggiori probabilità di affrontarlo. È interessante notare che il 43% dei baby boomer (57 anni e oltre) pensa che gli uomini debbano affrontare uno stigma sulla salute mentale, ma solo il 15% di loro pensa che sia probabile che le donne lo facciano. La fonte di quello stigma? Entrambi i sessi dicono che il più delle volte sono i loro amici e la loro famiglia. Gli uomini credono che gli amici abbiano molte più probabilità di stigmatizzarli (19%), mentre solo il 13% delle donne dice lo stesso. «Negli ultimi due anni abbiamo fatto enormi progressi nel destigmatizzare i disturbi della salute mentale, ma c'è ancora tanto lavoro da fare, specialmente per gli uomini», aggiunge Chris Mosunic, PhD, Chief Clinical Officer di Vida Health. «Così tanti uomini sentono il bisogno di tenere i propri sentimenti per sé, nascosti e protetti, altrimenti verranno etichettati come deboli e inferiori. In realtà, comprendere quei sentimenti, abbracciarli e cercare l'assistenza che può aiutarli a sentirsi meglio è solo la cosa più coraggiosa e più forte che una persona possa fare».

·        L’Ipocrisia. 

Il vizio dell'ipocrisia. Augusto Minzolini il 31 Ottobre 2021 su Il Giornale. Uno dei vizi più comuni della politica italiana è l'ipocrisia. Addirittura qualcuno l'annovera tra le qualità, o meglio, come lo strumento più efficace per camuffare la realtà. Uno dei vizi più comuni della politica italiana è l'ipocrisia. Addirittura qualcuno l'annovera tra le qualità, o meglio, come lo strumento più efficace per camuffare la realtà. L'Enrico Letta che se la prende con mezzo mondo per l'affossamento del ddl Zan è un esempio di ipocrisia: lo sapevano tutti, proprio tutti, pure i commessi del Senato, che quel provvedimento senza una mediazione sarebbe andato sotto, per cui le accuse del giorno dopo del segretario del Pd o sono la prova di una goffaggine politica o, appunto, uno sfogo ammantato di ipocrisia. Altra ipocrisia bella e buona è teorizzare che se Mario Draghi andasse al Quirinale si troverebbe sicuramente il giorno dopo il modo di fare un altro governo per concludere a scadenza naturale la legislatura. Non è così. Lo sanno pure i sampietrini della Capitale. Mettere in piedi l'attuale esecutivo, infatti, è già stato un mezzo miracolo, il risultato di una congiunzione astrale difficilmente ripetibile. Immaginare che la stessa maggioranza si possa formare su un governo Cartabia o Franco o è un'illusione, o, appunto, è un esercizio di ipocrisia. Il motivo è semplice: l'autorevolezza del personaggio Draghi, a livello internazionale e ora anche nel Paese, ha creato un aplomb istituzionale sotto il quale partiti diversi, addirittura antagonisti, sono riusciti a collaborare senza troppi danni sul piano del consenso. Immaginare che la stessa copertura possa essere garantita da altri nomi non è un'ipotesi reale. Tanto più ad un anno dalle elezioni. Nel migliore dei casi i partiti che accettassero di farne parte ne subirebbero un danno elettorale non indifferente, tipo quello riportato dal Pd e da Forza Italia quando furono costretti ad appoggiare il governo Monti. Anche perché le riforme spesso costano sul piano dei voti e se Draghi se l'è cavata nella Legge di Bilancio con un insieme di compromessi (pensioni, reddito di cittadinanza, tasse) qualora entrasse in campo un altro esecutivo come conseguenza del suo trasloco al Quirinale, quello avrà l'onere di decidere davvero. Non ammettere questa evidenza è un atteggiamento ipocrita, un modo per tranquillizzare i tacchini, in questo caso i parlamentari che hanno il terrore delle elezioni anticipate, in vista del Natale. Ecco perché se i grandi elettori sceglieranno Draghi debbono essere consapevoli che il passo successivo saranno le elezioni. Un epilogo che, a seconda dei punti di vista, potrebbe essere un bene o un male. Il problema è esserne coscienti al di là di ogni ipocrisia. Augusto Minzolini

Il metodo dell'insulto dal Pci al Pd. Andrea Cangini l'1 Novembre 2021 su Il Giornale. Cambiano i tempi, gli uomini e le sigle dei partiti. Non cambia il metodo. Cambiano i tempi, gli uomini e le sigle dei partiti. Non cambia il metodo: declinare le scelte e i rapporti politici sul piano etico, delegittimare gli avversari ponendoli fuori dal campo democratico, ammantare di questione morale ogni faccenda pubblica, istituzionale o amministrativa. In questo c'è continuità tra Pci e Pd. Il passato è noto. Da Antonio Gramsci che metteva fuori gioco Giacomo Matteotti definendolo «pellegrino del nulla», a Palmiro Togliatti che espelleva per «tradimento» i dirigenti comunisti emiliani «democratici» Valdo Magnani e Aldo Cucchi disumanizzandoli in «pidocchi», al marchio di «socialfascisti» impresso sulla carne viva di Turati, di Rosselli, di Buozzi e poi di Saragat, di Nenni e di Craxi. Per non dire della tenaglia morale e giudiziaria stretta per anni alla gola di Silvio Berlusconi. In tempi recenti è capitato a Carlo Calenda, fino al primo turno delle comunali descritto come il «candidato della destra e della Lega» (Andrea Orlando) che «vuole portare Roma a Salvini» (Valeria Fedeli) pur essendo ormai al suo «ultimo rantolo» (Goffredo Bettini), per poi essere graziosamente rilegittimato dal segretario Letta in vista del secondo turno. Quinta colonna della Destra è anche l'accusa che, dopo il voto sulla legge Zan, ha portato alla sentenza di espulsione dal perimetro democratico di Matteo Renzi. Una sentenza inappellabile perché imbastita, secondo prassi, non sul piano della politica ma su quello della morale (i «diritti» offesi). Il metodo, dunque, non è cambiato. È però cambiato il pulpito. I comunisti sentenziavano le loro scomuniche da solide cattedre politiche ben piazzate nella Storia, i post comunisti sentenziano le loro da tende scout piantate nel vuoto del presente. È cambiato il pulpito, ed è cambiato il sistema politico. Il Pci stava fisiologicamente all'opposizione e perciò non aveva bisogno di alleati, il Pd ambisce a stare strutturalmente al governo e perciò ha bisogno di alleati. E ne ha ancor più bisogno in vista del Gran Ballo del Quirinale. Si consiglia, pertanto, agli amici democratici di dismettere i panni del barone von Masoch, avviando una rigorosa analisi dei costi e dei benefici (per il partito, per il sistema politico e per la società) che questo antico ma violento metodo in effetti comporta. Probabilmente scoprirebbero che deporre le armi dell'etica per impugnare quelle della politica li avvantaggerebbe e, spostando l'attenzione dalle persone alle cose, contribuirebbe a svelenire e rendere più concreto il dibattito pubblico in questa nostra conflittuale e un po' ipocrita Italia. Andrea Cangini

Che te lo Dico a fare? Letta, Zan e l’eterno ritorno della sinistra degli stereotipi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'1 Novembre 2021. Sulla legge contro l’omotransfobia, il Pd è tornato a fare quello che ha fatto per un decennio con Dico, Pacs e Cus senza ottenere nulla. E ora vuole trasformare Renzi nella nuova Binetti per aver proposto di trattare (come lo stesso Letta e ieri sera anche Prodi). Sul ddl Zan e su come siamo arrivati a questo punto, ovviamente, tutte le opinioni sono legittime. Personalmente, disapprovo sia la scelta compiuta da Matteo Renzi di andarsene in Arabia Saudita invece che a votare in Senato, sia la scelta compiuta da Enrico Letta di lanciare una fatwa contro Italia viva invece di una seria analisi della sconfitta. Comunque la pensiate, però, c’è qualcosa che dovrebbe preoccuparvi, specialmente se siete elettori del centrosinistra (parlandone da vivo), nella piega che ha preso tutto il delirante dopopartita. A partire da una certa sensazione di déjà vu. Il Partito democratico sembra infatti fermamente intenzionato a fare con la legge contro l’omotransfobia quello che ha fatto per oltre un decennio con Pacs, Dico e Cus. E cioè assolutamente nulla, dal punto di vista legislativo, ma un nulla gravido di scontri tanto esasperati quanto inconcludenti, su cui gruppuscoli, partitini e leaderini hanno costruito fortune, a spese della coalizione, dei governi di centrosinistra e dello stesso Partito democratico, la cui gestazione fu enormemente complicata proprio da questa dinamica autodistruttiva. A leggere i giornali – per non parlare dei social, che vent’anni fa per fortuna non c’erano – sembra infatti di essere tornati al tempo dei girotondi e alle stucchevoli discussioni sull’identità della sinistra, generalmente riassumibili nel concetto: essere davvero di sinistra significa gridare molto forte quanto ti fa schifo la destra, non scendere a compromessi con la destra, non parlarci nemmeno, con la destra (lasciando inevasa la domanda su cosa la sinistra ci stia a fare, a quel punto, dentro un’istituzione chiamata non per caso «Parlamento»). Sembra di essere tornati ai tempi in cui fior di intellettuali sostenevano che essere di sinistra significava definire il governo di Silvio Berlusconi un “regime”, paragonandolo esplicitamente al fascismo. E senza più neanche un Antonio Pennacchi a replicare, come fece in un’indimenticabile assemblea del 2002, che «quello [Berlusconi, ndr] aveva un’idea del Paese e noi non ce l’abbiamo», perché noi «sappiamo fa’ solo battaglie de stereotipi». Evidentemente è proprio così. Sappiamo combattere – noi di sinistra – solo a colpi di stereotipi. E quando ci viene a mancare il problema su cui allestire la parodia di una guerra civile a colpi di contrapposti luoghi comuni, magari perché a qualcun altro viene in mente di risolverlo, il problema, occorre trovarne un altro. Il giorno dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, chi ha più sentito parlare di Paola Binetti? In un battibaleno erano scomparsi tanto i bersaglieri pronti a una nuova breccia di Porta Pia, quanto le armate clerico-fasciste decise a riportarci nel medioevo. Ed ecco che, dopo essere andati a sbattere in Senato sulla legge Zan, per uscire dall’imbarazzo, i dirigenti del Pd sembrano avere deciso di trasformare Renzi nella nuova Binetti, facendo delle inconfessabili manovre renziane il luogo comune espiatorio su cui scaricare tutte le responsabilità, allo scopo di alimentare una mobilitazione che altrimenti non saprebbero come motivare. Si può non condividere la posizione di Italia viva sulla legge Zan (io l’ho criticata qui già a luglio) e trovare al tempo stesso surreale la campagna scatenata dal Partito democratico contro gli esponenti di Italia viva. Campagna particolarmente surreale, in primo luogo, perché fondata sull’accusa – ovviamente indimostrabile – di avere votato in segreto diversamente da come pubblicamente dichiarato. E in secondo luogo perché l’indizio decisivo sarebbe il fatto di avere invitato a trattare con il centrodestra, che è quanto Letta aveva proposto di fare, con una svolta radicale e inattesa, proprio alla vigilia del voto. Nulla però è stato surreale come sentire Romano Prodi spiegare ieri sera in tv che sarebbe stato semplicissimo fare due o tre piccole modifiche («quelle di cui si discuteva») per approvare la legge Zan, e che dunque se si è andati allo scontro è perché «si è voluto l’incidente». Salvo precisare subito che l’apertura di Letta, alla vigilia del voto, non era stata affatto tardiva, perché se si vuole l’accordo si trova anche all’ultimo minuto. Dunque, di chi è la colpa: di chi voleva trattare o di chi non voleva farlo? Di chi voleva snaturare la legge o di chi l’ha strumentalizzata per andare allo scontro? E chi era che voleva trattare: Letta o Renzi? Non ha nessuna importanza. Nelle «battaglie di stereotipi» contano solo gli stereotipi.

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 7 febbraio 2021. Esiste una dimensione molto più buia, oscura e dannosa della menzogna, oggi talmente diffusa da essere diventata una sorta di maschera sociale per ottenere vantaggi: è l' ipocrisia. Spesso identificata come l' opposto della sincerità e della trasparenza, questo atteggiamento include un insieme di comportamenti legati alla scarsa chiarezza, alla falsità e all' ambiguità, ovvero la tendenza a fingere, a simulare, ad esibire un falso disinteresse e camuffare le proprie intenzioni, mirate alla conquista di un bene, di una posizione, dell' affetto o della stima di una persona. In realtà tutti noi nella vita quotidiana facciamo un uso, seppur modesto, dell' ipocrisia, come quando per esempio fingiamo piacere ad incontrare una persona che avremmo evitato, o quando ci mostriamo gentili e cortesi con chi non vorremmo esserlo, ma in questi casi sarebbe meglio parlare di diplomazia anziché di ipocrisia, poiché la cortesia, l' educazione e la gentilezza sono ingredienti necessari in ogni ambiente sociale, e soprattutto opportuni quando non è il caso di esprimere senza filtri il proprio sentire. L' ipocrisia è peggio della menzogna perché nasconde dietro sembianze amichevoli una volontà di potenza mirata al possesso o all' accaparramento di un bene o della stima, per rendersi graditi ed accettati per poi prevalere ed ottenere vantaggi personali. L' ipocrita è consapevole di indossare una maschera che considera funzionale nei suoi rapporti con il mondo esterno, recitando una commedia che non lo rappresenta per quello che è, evitando di mostrare palesemente l' effettiva intenzione finale, e la persona ipocrita spesso assume le sembianze di un amico di cui fidarsi, con cui parlare e confidarsi, di un partner fedele e disponibile, mentre dietro al proprio agire nasconde un desiderio di conquista, di opportunismo o di frode, riconoscibile dalla falsità del rapporto, identificabile dalla mancanza di reciprocità e coinvolgimento nella relazione. L'origine "Ipocrisis", dal greco "simulazione" era il nome dato agli attori di teatro che recitavano e simulavano un ruolo, ma oggi l' ipocrisia la troviamo ogni giorno sul palcoscenico della vita quotidiana, in tutte quelle persone che si comportano diversamente da quello che pensano, che fanno cose differenti da quelle che dicono, che sono portavoce di principi morali e senso di giustizia senza crederci, e che spesso si contraddicono nei gesti, negli atteggiamenti e nelle discussioni con coloro che la pensano diversamente da loro. L' ipocrita è la persona che nel fare un complimento dice celatamente una cattiveria facendola trapelare in modo sottile, mascherandola da elogio, esaltando alcune caratteristiche, spesso non veritiere, come fossero difetti, ma delle quali è invidiosa o gelosa, rivelando scarso rispetto al reale modo di essere e mentendo sui propri fini ed interessi. In realtà gli ipocriti dimostrano sofferenza nelle proprie relazioni, dovute spesso a delusioni nei confronti di atteggiamenti non sinceri e leali, che hanno minato in passato la loro sicurezza e provocato dolorose disfunzioni, rendendoli conflittuali, litigiosi, sospettosi e con un intimo senso di inadeguatezza. L' ipocrisia infatti si alimenta con la scarsa fiducia in se stessi, con l' incapacità a relazionarsi a viso aperto e ad interloquire lealmente con il mondo esterno, nascondendo le emozioni basilari, inclusa l' ostilità repressa, il cui ferreo controllo psichico impedisce di trapelare.

Le tipologie. Ci sono ipocriti di tutti i tipi: i manipolatori, i falsi buonisti, quelli convinti di essere sempre nel giusto, quelli che si indignano per principi che non rispettano, quelli che giudicano gli stessi difetti che hanno loro stessi, che elogiano chi è debole, povero e possibilmente sofferente, e poi tutti quelli che insinuano, che esigono, che vedono nel successo altrui motivi di sospetto, che poi criticano malignamente fingendo comprensione. Molto spesso però l' ipocrisia è inconsapevole, sinonimo di una stupidità manifesta, che nasconde la propria ottusità e inadeguatezza dietro atteggiamenti vittimistici che manifestano fragilità e insicurezze, le quali divengono improvvisamente violenza e aggressività ignorante nel momento in cui ci si sentono incompresi e non valorizzati secondo la propria visione di sé. Ai bambini si insegna che la verità è giusta, che mentire è un' abitudine da evitare sempre, ma verso i 10-13 anni si sviluppa nei ragazzi un principio di coscienza sul senso di giustizia, che rivela pian piano le contraddizioni degli adulti e ci si comincia a chiedere se è meglio offendere con sincerità oppure mentire per semplice educazione. È questa l' età in cui inizia la convivenza con l' ipocrisia ancora innocente, che oggi appare pienamente istituzionalizzata nella nostra società, addirittura normalizzata, come un male inevitabile radicato in ogni ambito, politico, lavorativo, sentimentale, amicale e familiare.

La finzione. Anche dal linguaggio del corpo, che non mente all' unisono, si riconosce l' ipocrita: per come ti dà la mano, per il suo sorriso mai spontaneo ma di circostanza, che non coinvolge tutti i muscoli facciali ma solo le labbra, mentre i suoi occhi sono mobili e raramente guardano fisso l' interlocutore, e i suoi movimenti sono spesso affrettati e i gesti compulsi per deviare l' attenzione ed evitare a tutti i costi di esporsi esteriormente nel loro intento. L' amicizia di un ipocrita è la finzione di uno scambio reciproco, di un affetto sincero, di una confidenza leale, ed è priva di generosità e autenticità e mai disponibile a ricambiare, al punto che il falso amico ti elogia quando ti ha di fronte, per poi sparlare alle spalle facendo emergere l' ostilità repressa, per cui nel momento per lui opportuno si schiera con l' amico più potente, con la persona che ha più potere e può assicurare un trattamento migliore. Concludo ricordando le parole di Carl Gustav Jung quando affermava: «La maggior parte degli ipocriti giudicano. Perché pensare è molto difficile. La riflessione richiede tempo, impegno e intelligenza, per cui chi riflette già per questo non ha modo di esprimere continuamente giudizi». In realtà in tutti noi esistono molte identità, ma vi è un nucleo originario, come quello del seme della pianta che ci hanno impiantato da bambini, ovvero la sincerità, la grande incompresa del tempo corrente, una virtù oggi solo dei grandi, di coloro che non hanno mai tradito sé stessi o gli altri, che hanno sradicato da dentro l' ipocrisia o che non ne hanno mai fatto uso, non hanno mai indossato maschere bensì mostrato limpidamente il proprio volto, le proprie emozioni e i propri sentimenti con onestà, trasparenza e limpidezza, senza sotterfugi mentali e soprattutto senza la grande fatica di nasconderli mentendo.

·        L’Autocritica.

È stata tua la colpa. Luigi Manconi su La Repubblica il 31 agosto 2021. La rassegna di Florinas, nel Nord della Sardegna, ribalta il concetto di autocritica. Che diventa sempre più atto di accusa verso gli altri. Il Festival della letteratura gialla si svolgerà a Florinas, nel Nord della Sardegna, da oggi al 5 settembre. A promuoverlo è l'amministrazione comunale di quel paese (1506 anime, 12 km in linea d'aria da Sassari), ormai da dodici anni. La direzione artistica è affidata alla libreria Azuni di Sassari (quella dello storico liceo classico in cui hanno studiato Palmiro Togliatti ed Elisabetta Canalis, Enrico Berlinguer ed Enrica Bonaccorti) e a Cyrano di Alghero. E qui si trova già un primo indizio di quella intricata investigazione che costituisce la trama del Festival, perché dietro il richiamo al romanzo di Edmond Rostand si scopre un luogo sorprendente: una delle rare librerie-enoteche presenti in Italia. Attenzione: non una libreria dove si può bere un aperitivo, bensì la sede di una felice convivenza tra lettura e alcol. La libreria-enoteca Cyrano di Maria Luisa, Elia e Gian Mario offre, infatti, una grande scelta in materia di vini e, allo stesso tempo, una affettuosa attenzione per gli interessi culturali di chi ritiene che un libro da leggere non sia solo quello in testa alle classifiche dei più venduti. Un luogo, insomma, che avrebbe fatto la delizia - siamo in una città per molti versi "catalana" di Pepe Carvalho, l'investigatore privato inventato da Manuel Vázquez Montalbán. Carvalho ha reso la cultura del cibo e del vino una importante risorsa analitica per indagare il crimine, i suoi autori e le sue vittime. Montalbán è morto da quasi vent'anni e dunque non potrà essere a Florinas, ma vi saranno importanti autori come Ian Manook, Wulf Dorn, Serge Quadruppani, John Woods e Carlos Zanón. E poi gli italiani: da Bruno Arpaia a Barbara Baraldi (sceneggiatrice di Dylan Dog), da Wu Ming 1 a Federica Graziani, da Enrico Pandiani a Stefania Divertito e a Luca Crovi. A scorrere i nomi, balza immediatamente agli occhi che non si tratta esclusivamente di scrittori di genere. E questo è il secondo indizio. La letteratura gialla, o come la si voglia chiamare (se ne discute da mezzo secolo), mette a disposizione, dentro una struttura narrativa compatta e regolata, una serie di categorie utili a interpretare il male nelle sue manifestazioni individuali e nei suoi effetti sul contesto sociale. Insomma, il meccanismo dell'indagine poliziesca svolge la medesima funzione - oso dire - della psicoanalisi, delle scienze sociali e dell'antropologia. Lo si capisce bene ponendo attenzione al terzo indizio (ricordate? Secondo Agatha Christie "tre indizi fanno una prova"): l'edizione di quest'anno di Florinas in giallo ha per titolo "La colpa". Nella liturgia cattolica, la messa e la celebrazione eucaristica vengono preparate da un atto penitenziale: è il Confiteor, la confessione. Le parole cruciali della versione in latino sono: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa, indirizzate a Dio Onnipotente, ma anche "a voi" (vobis): ovvero coloro che partecipano al rito. L'ammissione della colpa, dunque, viene pronunciata, sì, al cospetto di Dio, ma rivolgendosi ai propri simili. Ci voleva il trauma della Seconda guerra mondiale, dei totalitarismi e del sistema-lager per fare della confessione della colpa un tratto essenziale dello spirito del tempo. Emerge così, nella psiche dell'uomo occidentale novecentesco, il senso di una colpa commessa e non espiata. Intere popolazioni vengono chiamate a rispondere di atroci crimini. E si apre l'epoca del Mea culpa che - come nella liturgia cattolica - si rivolge a vobis: ovvero ai membri tutti del consesso umano. La pratica dell'autocritica, da procedura politica autoritaria, propria di alcuni processi rivoluzionari - quello sovietico e quello cinese - diventa un atteggiamento destinato a invocare perdono e riconciliazione (Commissione per la verità e la riconciliazione è il nome dell'organismo che intendeva sanare le ferite lasciate dall'apartheid in Sudafrica). Si pensi al discorso di Giovanni Paolo II nel 1986 nella sinagoga di Roma. E alla terribile auto-accusa del Presidente serbo Tomislav Nikoli?: "Mi inginocchio, chiedo perdono per la Serbia e per il crimine di Srebrenica". Infine, al senso delle parole del premier rumeno Florin Cîtu, a proposito delle migliaia e migliaia di ebrei perseguitati: "Inimmaginabile sofferenza, crudeltà e ferocia". Dietro queste ammissioni di colpa si intravede la consapevolezza che non può esservi memoria condivisa e storia comune se non si indagano le responsabilità morali e materiali e se non si riconosce una pena da espiare attraverso una sanzione adeguata. Eppure, tutto ciò, oggi, sembra travolto da una tendenza che va in direzione opposta. È come se l'autoriflessione, la conoscenza di sé, l'esame di coscienza comportassero una fatica talmente logorante da rovesciarsi, fatalmente, nel suo contrario. Si può dire: dall'epoca del Mea culpa alla stagione della Tua culpa. Non è il brillante aforisma di un qualche teorico dello Scetticismo Universale: è, piuttosto, lo slogan più appropriato per il tempo presente. E il tracciato di una traiettoria del sentimento collettivo e dell'umore di massa. In altre parole, si è passati dal rito di un autodafé permanente alla pratica di una ininterrotta delazione. Dall'assunzione della propria responsabilità all'atto di accusa contro "gli altri". Dalla confessione collettiva al populismo penale come domanda di giustizia esemplare e vendicativa, fino al giustizialismo dei mozzaorecchi assetati di sangue. La narrativa gialla o noir o poliziesca o thriller o crime che si propone a Florinas allude a tutto questo. Spetta a noi raccogliere gli indizi, tradurli in prove, farne strumenti per investigare e conoscere la realtà.

·        L'Individualismo.

Aldo Rovatti per “La Stampa” il 2 novembre 2021. Un aspetto che caratterizza l'individualismo ormai generalizzato è la mancanza di ascolto. Ciò che ci interessa è prendere la parola in ogni situazione, dare così prova di esistere, «parlo dunque sono» potremmo sintetizzare con un sorriso. Questo vale ovunque, da quello che accade dentro le mura domestiche a quanto verifichiamo fuori, negli spazi pubblici, quasi sempre. Non credo ci sia bisogno di tanti esempi, tutti viviamo all'interno di questo flusso di parole, sollecitati in ogni istante da un'orchestra mediatica via via più incalzante, da quando ci svegliamo la mattina a quando ci addormentiamo la sera con rare interruzioni. Osservo, piuttosto, il fatto che non è solo una questione che riguarda l'abbassamento dei toni, sulla quale si è molto insistito: certo, attenuare i toni spesso gridati è un gesto eticamente auspicabile, il necessario inizio per aprire la strada a un atteggiamento critico, però non è sufficiente. Bisogna fare un passo oltre per arrivare al cuore del problema, cioè che il nostro continuo parlare manifesta l'inceppo in cui stiamo intrappolandoci, e soprattutto rende sempre più inattiva la capacità di ascoltare, al punto che stiamo quasi disimparando a usarla. Se le parole che diciamo, anche quando le pronunciassimo con calma (il che accade raramente, basta accendere il televisore), vengono caricate dal compito di rappresentare l'individualità di ciascuno di noi, altrimenti non contano, e fin qui - credo - possiamo forse intenderci, che ne è dell'ascolto a cui dovrebbero essere indirizzate? L'ascolto è il vero oggetto misterioso della questione. Magari riusciamo perfino a calcolarlo facendolo diventare un dato sensibile. Ci viene infatti comunicata la quantità di «ascolti» che ha avuto un discorso pubblico, come se fosse completamente ovvio che l'ascolto possa essere conteggiato. Dico che si tratta di un oggetto misterioso perché è facile verificare che quasi nessuno riesce (anche se lo volesse) a impersonare davvero il ruolo dell'ascoltatore: non abbiamo quasi mai la pazienza di metterci in ascolto di chi ci sta parlando. Crediamo di avere già capito tutto dalle prime tre parole che pronuncia e già da subito elaboriamo nella nostra testa le parole di risposta che possiamo dargli. Siamo tutti dei parlanti, quasi nessuno di noi è un ascoltante. Pochi, molto pochi ascoltano. L'ascolto è raro perché è un gesto scomodo, faticoso, che richiede un'inabituale attenzione all'altro. Prendersi cura di chi abbiamo vicino e di fronte comporta un distoglimento da sé stessi che non rientra nell'esperienza comune e quotidiana. Per ascoltare (non per finta, ma davvero) occorre riuscire a tacitare il nostro ego e la sua fretta di chiudere, rattrappire al massimo lo spazio di attesa prima di poter prendere la parola. L'ascolto esige che ci sia lì, nella scena reale, un altro soggetto. Non c'è effettivo ascolto senza questa «ospitalità», perciò è rarissimo provare la sensazione che la persona alla quale ci rivolgiamo stia davvero ascoltando. Non è dunque esagerato farsi l'idea che l'attuale società, in cui tutti ricevono ed emettono torrenti di parole, dunque una collettività indubbiamente fondata sulla comunicazione (parlata, scritta, digitata), risulti in definitiva una comunità di sordi, di soggetti che magari credono di ascoltarsi ma che in effetti «non hanno orecchio». Il che introduce un aspetto non irrilevante del problema che sto cercando di contornare: l'ascolto c'è (come dicevo, lo possiamo perfino tradurre in numeri), ma quasi sempre si tratta di un «falso ascolto». Ascoltiamo, anzi passiamo le giornate ad ascoltare. Ma chi ascoltiamo? La risposta è deprimente: ascoltiamo di continuo e quasi esclusivamente noi stessi. Negarlo, come tutti saremmo portati a fare con un moto immediato di difesa, appare un'impresa ardua. Occorrerebbe negare che mentre parliamo, non importa in quale circostanza, siamo tutti presi dall'«ascolto» di noi stessi: dal timore, forse anche, di dire parole che non sono proprio quelle che volevamo pronunciare, ma soprattutto dal piacere, dal compiacimento di quanto stiamo dicendo, arrivando (non raramente) al punto di osservare prima noi stessi che le reazioni e il comportamento di coloro con i quali stiamo parlando. Mi pare che questo sia un «falso ascolto» proprio perché l'altro, in tale esperienza di normale narcisismo, viene completamente tolto di mezzo. Aggiungo soltanto che ascoltare sé stessi sarebbe invece un esercizio molto importante, se volessimo e potessimo ascoltarci prendendo una distanza critica e introducendo un «altro» orecchio, ma questo non capita quasi mai e sempre meno.

·        La chiamavano terza età.

Daniela Mastromattei per "Libero quotidiano" l'8 novembre 2021. «Ognuno ha l'età che si sente di avere», è una delle pillole di saggezza della Regina d'Inghilterra che in questi giorni ha sfoderato il suo spiccato senso dell'umorismo rifiutando il premio "Anziana dell'anno" con un «no, thank you». E spiegando in una lettera indirizzata a Oldie, la rivista inglese che intendeva assegnarle il riconoscimento, che lei sarà anche a un passo dal secolo di vita ma l'età è una questione soggettiva. «Sua Maestà», ha sottolineato il segretario privato Tom Laing-Baker, «non si sente di raggiungere i criteri rilevanti per accettare il premio e spera che troviate un destinatario più meritevole». Un no «educato ma intransigente», stando a Gyles Brandreth, coordinatore del concorso, nonché scrittore e amico del principe Filippo. Una mente raffinata quella di Elisabetta II, che ha sempre ribadito: «Non c'è niente di peggio per il morale come ricordare che gli anni passano sempre più velocemente, e che il vecchio scheletro comincia a perdere pezzi». Sarà questo il segreto della sua forza e del suo essere sempre sorridente e battagliera. In realtà ci sono studi che lo confermano: la potenza della mente può fare miracoli, l'età psicologica può addirittura influenzare quella biologica. E sembra faccia bene anche barare sulla data di nascita, sarebbe più efficace di una crema antiaging o di un ritocchino dal chirurgo estetico, con un risultato molto più naturale. Niente a che vedere con la sindrome di Peter Pan dove si prolunga l'eterna fanciullezza rifiutando le responsabilità dell'età adulta. E siamo lontani pure dall'ossessiva giovinezza alla Dorian Grey, vissuta tra narcisismo e ricerca del piacere. La cultura della giovinezza consapevole include una leggerezza nel modo di vivere, che non ha nulla a che vedere con la superficiale, un volersi bene, un pizzico di egoismo e una manciata di obiettivi e sogni. «Il pensiero può influire positivamente sul benessere fisico. Pensare in maniera attiva, lucida, tenendo sempre la mente allenata e avendo un atteggiamento proattivo verso la vita, aiuta in modo significativo anche l'aspetto esteriore», dice a Libero la psicoterapeuta Miolì Chiung. «La psicosomatica è quel campo di studio che associa la relazione tra mente e corpo. Questo non significa che il corpo non invecchi, ma è il modo in cui lo fa che cambia. Il positive aging è l'atteggiamento che si dovrebbe avere come stile di vita, per prepararsi ai cambiamenti senza perdere la voglia di fare», sostiene. «Si innesca così un circolo virtuoso in cui si hanno benefici concreti sullo stato di salute. Essere positivo e avere più energie produce straordinari effetti sull'umore. Curare il proprio corpo per curare la propria mente e viceversa curare la propria mente per curare il corpo», conclude la dottoressa. La pensa così anche la psicologa Emma Cosma, raggiunta al telefono: «Invecchiare è un processo inevitabile, ma il sentirsi più giovani rispetto all'anagrafe spesso dipende dalla percezione che si ha di sé stessi. Non è per tutti così. Anzi, è una condizione di privilegio, uno stile di vita di chi sa vivere pienamente in modo appagante ogni giorno, di chi vede il bicchiere mezzo pieno. Di chi è sempre sorridente e gioioso, spiritoso, ironico. E sa entusiasmarsi». Come dichiarava già nel V secolo a.C. il filosofo greco Antifonte: «In tutti gli uomini è la mente che dirige il corpo verso la salute o verso la malattia». «La psiche influisce sul corpo in modo assolutamente positivo quando è alimentata dalla curiosità, dalla creatività, da un'apertura verso i sentimenti e gli affetti, le passioni, i progetti. Ma molto dipende anche da un modo di vivere sano, dovuto a una corretta alimentazione e all'attività fisica che non dovrebbe mai mancare, così come il riposo», continua la Cosma. «Questo non significa rincorrere la giovinezza a tutti i costi, talvolta in modo ossessivo, artificioso e narcisistico perché rivelerebbe un'insicurezza e un'incapacità di sapersi accettare. L'autostima è fondamentale, è un percorso intimo, che permette di affrontare il tempo che passa con equilibrio. E non si raggiunge certo rincorrendo la chirurgia estetica. L'accettazione è un passaggio importante e corretto di fronte al proprio fisico che cambia. Ogni età ha un suo significato e una sua bellezza. La sicurezza e consapevolezza che si raggiungono con l'esperienza regalano serenità interiore e centratura». Qualcuno la chiama saggezza, a dispetto delle turbolenze adolescenziali.  Il nostro corpo risponde alle aspettative della nostra mente: lo dimostra anche lo studio, condotto da Antonio Terracciano, ricercatore italiano che lavora presso il National Institutes of Health (NIH) di Baltimora, e pubblicato da Age. Una verità scientifica che Terracciano ha ricavato dopo aver analizzato il comportamento e le cartelle di oltre 8000 anziani arruolati in due grandi studi americani: se il cervello è convinto che siamo più giovani di quanto non risulti all'anagrafe, il corpo reagirà di conseguenza rallentando non solo l'invecchiamento, ma anche il declino delle capacità motorie. Gli anziani più "giovanili" (coloro che si sentivano più giovani della loro età) camminano con passo più spedito e col passare degli anni pur rallentando lo fanno in maniera minore dei coetanei che non si sentono giovani. Ciò dimostra che l'invecchiamento procede per loro in maniera più lenta. Lo sapeva bene il banchiere David Rockefeller che aveva promesso di non lasciare questo mondo prima dei 100 anni. Infatti se ne è andato a 101 anni. L'elisir di longevità risiede nel cervello, come dichiarava il Nobel, Rita Levi Montalcini: «Il corpo faccia quello che vuole io sono la mente». 

I nonni patrimonio dell’umanità. Di Vincenzo Naturale ilsudonline.it il 29 ottobre 2021. I nonni oltre a rappresentare il cuore di ogni famiglia sono un approdo insostituibile. Figura al pari di una luce nell’oscurità devono essere presenti dal primo vagito dei nipoti fino all’accompagnare questi poi verso l’età matura. Genitori due volte con un bagaglio d’esperienza che solo la vita può donare. Il loro approccio nella forma mentis dell’individuo diviene fondamentale per delineare una singolarità diversa, al pari di un cammino spirituale che ogni adulto porterà con se per tutta la vita. In questo momento storico le tecnologie odierne usate spesso nel periodo trascorso per rimanere vicini seppur in modo diverso, stanno portando gli anziani in generale verso una nuova era dove l’incontro con le nuove generazioni sta decisamente migliorando. L’approccio alla multimedialità sta affinando i rapporti interpersonali. Difatti vedo tanti nonni che fanno video chiamate, chat, mettono foto su fb, postano frasi; è letteralmente stupendo, esperienza e maturità con un pizzico d’innovazione. Chi può eguagliarli nel capire i giovani? Oltre tutto sono custodi degli usi e costumi del passato. Mentori della cucina mediterranea, svolgono un ruolo indispensabile nella crescita dei bambini come del resto nella parte affettiva ed emotiva essenziale per uno sviluppo sano. Vogliono solo essere amati è per ciò restituiranno il ricevuto mille volte in più. Il futuro è decisamente in un percorso nonni e nipoti.

Francesca D’Angelo per "Libero Quotidiano" il 19 aprile 2021. La vecchiaia è un concetto decisamente relativo in televisione. Metà dei conduttori sono degli "impostori anagrafici" (quanti di voi darebbero 66 anni a Milly Carlucci o 60 a Carlo Conti? Ecco, ci siamo capiti), ma soprattutto in tv ai giovani  piacciono sempre di più i vecchi. Anzi, le vecchie. I nuovi volti femminili del momento, quelli che trasformano il programma in un cult, sono infatti rigorosamente ultrasettantenni. Ebbene sì, se negli anni 90 si cercava la pin-up prosperosa, oggi le reti si contendono le gentili matrone, che con la loro autoironia mettono d' accordo adulti e ragazzi. Il pubblico generalista, che di base è femminile e anziano, è affascinato dal vedere i propri coetanei scorrazzare liberi e felici fuori dall' ospizio: è pur sempre una prospettiva di speranza, merce rara in questi tempi. Allo stesso tempo i giovani le adorano: ne riprendono le battute, ridono per le loro schiette affermazioni ma soprattutto stimano le dive senior riconoscendone l' intelligenza e la grande professionalità. Praticamente, ai loro occhi, sono una sorta di Chiara Ferragni con le rughe. Persino le femministe plaudono: grazie alle senior star, la simpatia ha battuto la scollatura. Ma vediamo chi sono le over70 più richieste del momento. In prima linea c' è lei: Mara Maionchi. Classe 1941, il 22 aprile compirà la bellezza di 80 anni. A momenti ha fatto più programmi lei che Belen Rodriguez. Citiamo i principali: "n" edizioni di X factor (abbiamo perso il conto), Amici, Celebrity Masterchef, Italia' s got talent fino al fenomeno del momento ossia Lol: chi ride è fuori. Nel celebre comedy show di Amazon Prime Video Maionchi era l' arbitro, insieme a Fedez. In realtà passava metà del tempo a ridere, contagiandoci con il suo buon umore. Sempre più richiesta è anche Iva Zanicchi. La cantante ha sempre alternato musica e tv ma negli ultimi anni la sua schietta sincerità è diventata un marchio di fabbrica: in un mondo regolato dal politicamente corretto, lei dice quello che pensa. Punto. Ecco perché la chiamano, ogni due per tre, come giurata o opinionista. Attualmente è in onda come opinionista a L' isola dei famosi e se non ci fosse quella carta d' identità a ricordarci che ha 81 anni, non la bolleremmo mai come "anziana". Spesso ha più grinta lei di Zorzi ed Elettra, e abbiamo detto tutto... Tra l' altro, stando a un' indiscrezione di TvBlog, sia Maionchi che Zanicchi sarebbero nel cast del programma Venus Club, atteso a maggio su Italia1: un' accoppiata che promette faville.  Dopodichè c' è la Regina della Domenica, ovvero Mara Venier. Età: 70 anni. Li dimostra? No. È amatissima? Sì, tanto che per i giovani lei è ancora la "zia" Mara, mica la nonna. Un altro mostro sacro è Loretta Goggi. La nostra non ha certo bisogno di presentazioni: è stata, ed è, un' ottima attrice, imitatrice e cantante. A 70 anni non pensa minimamente di andare in pensione ed è una dei giurati più amati di Tale e quale show. Dal 23 aprile la ritroveremo anche in Top Dieci, a giocare nel programma di Rai Uno condotto da Carlo Conti. Infine, una menzione speciale va al fenomeno Orietta Berti (77 anni). Sanremo è come se lo avesse vinto lei: è piaciuta a tutti riscuotendo soprattutto le simpatie dei ragazzi. Tv8 ci ha visto giusto nel coinvolgerla nel programma Name that tune: le sue cover/imitazioni (non sappiamo nemmeno noi come definirle) dei Maneskin e di Achille Lauro hanno fatto il giro della rete. Altro che le pin-up mute di una volta...

Giulia Villoresi per “il Venerdì - la Repubblica” il 16 marzo 2021. Parleremo di un tabù contemporaneo: la vecchiaia. E poi, senza alcuna provocazione, diremo che l' adolescenza è la sua vera anticipazione. Che queste due età si somigliano, sono complementari, in quanto stagioni in cui l' individuo affronta la dimensione meno addomesticabile della vita: la sessualità prima, la morte poi, questo tutt' uno col mistero. L'occasione è un saggio di Francesco Stoppa, psicoanalista lacaniano, per quarant' anni al Dipartimento di salute mentale di Pordenone: Le età del desiderio (Feltrinelli, pp. 160, euro 17). Del desiderio Stoppa dà un' interpretazione controintuitiva: non una spinta energetica, sostanzialmente fallica, ma, al contrario, un atto ricettivo, di resa. Ciò che sperimentiamo, desiderando davvero, è un cedimento, il fondersi delle resistenze dell' io al contatto incandescente con la nostra vera natura. È una «chiamata» da parte della vita, e adolescenza e vecchiaia sono il momento in cui rispondere sì. I due gong. Le soglie critiche oltre cui si rende necessaria una rinegoziazione dell' identità. Detestiamo quella sensazione: «sporgere pericolosamente verso il lato meno rischiarato della vita». Eppure, bisogna buttarsi. L' adolescente lo fa accettando di entrare in scena, il vecchio accettando di uscirne.

Stoppa chiama questo atto di coraggio «l' arte di crescere e l' arte del tramontare», e ne ravvisa un drammatico ristagno: la nostra società, nel suo invincibile ribrezzo per la vecchiaia, blocca il passaggio di età, impoverisce i fatti umani, ci condanna a una «felicità senza desideri».

Si può dire che tutto questo sia l' ennesima manifestazione di odio per la morte?

«Direi che la nostra società odia più la vecchiaia della morte. Perché il pensiero della morte è inconcepibile. E si può rimandare. Quello della trasformazione no».

Dunque è odio per la trasformazione.

«Sì. Perché nella trasformazione ci ritroviamo decentrati. Percepiamo l' aprirsi di una falla, una frattura che ci divide dall' immagine che ci siamo fatti di noi stessi, o che altri ci hanno cucito addosso. Il sapere consolidato non serve più: si tratta di produrre un nuovo sapere».

E questa crisi, nell' adolescente, non è compensata dalla sensazione del futuro che gli si schiude davanti?

«È così. Ma non basta. L' adolescente è impregnato, come i Prigioni di Michelangelo, della propria "cattiva forma": porta in sé tutta la tensione dell' incompiuto. Sprigiona un odore acre, pungente, che gli è sconosciuto. Qualcuno fa derivare "adolescenza" da adoleo, emano odore».

Anche questa età ha qualcosa di disturbante, non è vero?

«Certo. Perché è l' età che viene a portare la spada. Prima del sì, prima dell' assunzione del proprio destino, c' è un no da dire. E questo no, innanzitutto rivolto alle aspettative dei genitori, impedisce una trasmissione intergenerazionale per così dire d' ufficio. Indolore».

E l' arte del tramontare, invece?

«È saper concepire e praticare la propria uscita di scena come condizione necessaria per far passare all' esistenza qualcosa di nuovo e di altro».

E in questo, i vecchi non sono più così bravi.

«Non è facile, in una società che non riconosce alla vecchiaia alcun prestigio. Gli anni sono un peso, una vergogna da dissimulare. Così i vecchi non riescono ad abbandonare il campo. Nel lavoro, non mostrano più nessun interesse a tramandare storie e sapere. Anzi, spesso non si pongono neanche il problema».

Mi pare che lei riscontri questa avarizia specialmente nella generazione della contestazione del' 68-'77.

«Quella generazione si è rivelata molto più narcisisticamente orientata di quella dei propri figli e nipoti. È come se avesse detto loro "nessuno sarà mai giovane e rivoluzionario come noi", rivendicando l' esclusiva sul desiderio. Non ha realizzato che il desiderio non è proprietà di nessuno. E, finita la rivoluzione, si è spenta, perché il più delle volte non c' era stata la rivoluzione dentro».

Uomini e donne reagiscono alla vecchiaia nello stesso modo?

«Bella domanda. Mi verrebbe da dire che le donne fanno più fatica ad accettare la trasformazione del corpo, ma di fatto hanno un rapporto con la vita meno difeso, che le rende più aperte all' invecchiare. L' uomo, avendo il fallo, è ossessionato dall' idea di perderlo».

E invece la ferita narcisistica dell' invecchiamento, come lei dice, è compensata proprio da questo: dalla leggerezza che dà il saper «perdere i pezzi».

«Sì, è la pacificazione col destino. Il privilegio, che manca all' adolescente, di non dover più giustificare il proprio esistere. C' è, in realtà, qualcosa di molto piacevole nel tramontare».

Come c' è qualcosa di ardente nella vecchiaia.

«E anche di trasgressivo. Ne parlo a proposito delle Tre età dell' uomo di Giorgione. Nel quadro vediamo tre figure in procinto di intonare un canto, ma mentre il giovane e l' adulto sono concentrati sullo spartito, il vecchio si gira per guardarci. Prende le distanze dalla scena, per dirci qualcosa».

Cosa?

«Basta guardare gli altri due: sembrano rapiti in un incantesimo di cui non hanno coscienza. Prigionieri dell' operosità, non sanno neppure di esserci. Mentre il vecchio lo sa. E con la sua posizione dissidente ci invita a riflettere sulla qualità della nostra presenza».

È questo il segreto, la particella aurea che i vecchi oggi stentano a trovare, e dunque a trasmettere?

«Sì, esserci. E infatti, se il protagonista del quadro è indubbiamente il vecchio, non lo è certo per una sua presunta natura deficitaria, ma per la sua auctoritas. Che non deriva solo dall' esperienza, ma dal fatto di incarnare una dimensione dell' esistenza finalmente libera dalle logiche dell' utile e del profitto. Sta a noi decidere - e si tratta di una questione di civiltà - se "il peso degli anni" sia da considerare una virtù o una vergogna».

Tiziana Lapelosa per “Libero quotidiano” il 5 marzo 2021. Ad Arezzo non si parla che di quel cuor che non si comanda. C' è chi lo fa con un pizzico di invidia per il coraggio che nemmeno un quarantenne... chi con una buona dose di disprezzo, "ma come, alla sua età?", chi con sincera ammirazione. Il cuore è quello di un 93enne che ha mollato la moglie per seguire il suo cuore che una donna non proprio giovanissima è riuscita a far battere di nuovo per amore, risvegliando in lui primitivi istinti. Così ha deciso di "ricominciare", di guardare oltre, di ridisegnare il propio futuro altrimenti fatto di moglie, figli e nipoti. Una routine che, evidentemente, non bastava più a mantenerlo "vivo", attivo, a dare un senso alla sua vita minata dall' insidia della monotonia, come nella canzone dei vecchi amanti. Qualche mese prima del confinamento, Cupido era stato un centro culturale. Un ballo tira l' altro, una partita tira l' altra, e tra i due è scattata una intesa che è andata oltre ogni aspettativa. Lui, immaginiamo, si è sentito rinascere, il corpo "esultante" e la mente pure. Lei vestita di una nuova sensualità e la voglia di sfruttare ogni goccia di vitalità che la vita ci offre. Insomma, tra un ballo e una partita, tra i due anziani è sbocciato l' amore con il sapore del "per sempre". Ora, come dirlo a casa? Alla moglie? Ai figli? Il 93enne ci avrà pensato come un adolescente che non può esimersi dal confessare l' inconfessabile ai genitori. Eppure deve farlo. Oggi, domani, no, forse è meglio riflettere ancora, trovare le parole giuste. Che cambiano sempre al momento della "confessione" nonostante mille prove. Trovato il coraggio, il rospo è stato davvero difficile da digerire per la moglie 86enne che si è vista sbriciolare le certezze di una vita, e per i figli che immaginavano la loro una famiglia ormai collaudata. Cosa vuoi che possa succedere a quell' età? E invece il cuore ci si è messo di mezzo. Colpita, addolorata, ma bertà, voglio rifarmi una vita», ha detto all' avvocato Marco Acquisti che ha preso a cuore, è il caso di dire, la sua causa. La separazione che l' uomo avrebbe voluto "consensuale" e alla quale lei in un primo momento non ha ceduto, pochi giorni fa è avvenuta davanti ad un giudice del tribunale civile di Arezzo. In pochi minuti, con gli avvocati in aula, Acquisti per lui, Michela Pellegrini per lei, in videoconferenza è andato in frantumi un lungo matrimonio del quale a lei resterà la casa in usufrutto e 300 euro al mese di mantenimento, a lui la ritrovata libertà e tutta la vita davanti con la nuova compagna a guardarsi negli occhi, a sfiorarsi, ad arrossire, a riscoprire sopite emozioni. Di certo dalla storia di Arezzo c' è chi ne esce a pezzi, condannato a chiedersi "ma perché?". Ma è una storia che insegna anche che davvero, come dice il detto popolare, "al cuor non si comanda" e che l' amore vince sempre su tutto e tutti.

La chiamavano terza età, oggi è il tempo del desiderio. Siamo abituati a pensare alla vita in modo lineare, con la vecchiaia come ultima tappa. Contrordine. Perché la stagione del rischio e del “tocco umano” rimescola passato e futuro. Pier Aldo Rovatti su L'Espresso l'1 marzo 2021. Dio sa quanto sarebbe opportuno elogiare la vecchiaia (e il papa l’ha appena ricordato), ma non è facile in tempi come quelli che stiamo vivendo, tempi davvero bui per gli anziani. Non sappiamo dove metterli. Le “case di riposo”? Le stiamo tenendo sotto osservazione anche per via dei focolai e di alcuni episodi inquietanti, preferiremmo comunque girare lo sguardo da un’altra parte e non vedere quei vecchi riuniti così in attesa della fine. Meglio, in mancanza di alternative, lasciarli nelle loro abitazioni? Dipende dalle situazioni, perché spesso così li si condanna a un’incresciosa solitudine, anche quando possono permettersi una badante, e anche se intorno a loro restasse sempre qualche cordone affettivo. La vecchiaia, nella società attuale, è diventata un peso da sopportare. Una volta rappresentava una riserva di saggezza, oggi appare un’isola opprimente di inoperosità che cresce giorno dopo giorno. È difficile descrivere con lucidità che cosa passa nelle nostre teste, perfino nelle più sensibili, quando apprendiamo la percentuale di anziani attraverso il bollettino quotidiano dei decessi da pandemia. Un disagio imbarazzato? La constatazione di un processo inevitabile? Un groviglio tra questi due poli emotivi? Forse è meglio non spingere troppo in là una simile indagine, sappiamo già dove si arriva. L’atteggiamento che prevale è di solito difensivo. Difendiamo cautamente la vecchiaia, magari cercando di onorarla almeno un poco, ma soprattutto ci difendiamo dalla prospettiva di doverne far parte, prima o dopo. Guardalo - ci diciamo - ha superato ottant’anni e sembra un ragazzino, al massimo gliene daresti sessanta. Sessanta? Ma non era questa l’età con cui una volta si veniva considerati anziani? Sei rimasto indietro - obiettano - oggi a sessant’anni si è ancora giovani dentro, e magari anche nell’aspetto esteriore. Si può rimanere giovani, se si ha la forza e la decisione di farlo. Riflettiamo un momento su questo diffuso “ritornello”, lasciando da parte le considerazioni sulle opportunità e sulle disuguaglianze sociali. Lo definiamo ritornello non perché sia una futile canzonetta ma per il fatto ampiamente riscontrabile che esso si ripete e ogni volta ritorna. Quanti sono quelli che all’indomani della conclusione della loro carriera lavorativa entrano sorridendo negli anni del pensionamento? Pochi riescono a evitare il contraccolpo depressivo che segue alla presa di coscienza che è avvenuto un cambiamento di casella. Comunque si riesca a cambiare la propria vita quotidiana, magari introducendovi riposo e libertà di organizzare il tempo ora disponibile, l’ombra della vecchiaia entra nelle menti e anche nelle ossa, e ci resta in un modo che sembra incancellabile. La vecchiaia può invece venire apprezzata come una pagina nuova e rilevante della nostra vita, a condizione di sbarazzarci di questo atteggiamento di difesa. Se ci riuscissimo, se solo cominciassimo a provarci, scopriremmo che il cosiddetto “tramonto” è anche la possibilità di un ricominciamento, cioè di iniziare a vedere la vita intera con occhi diversi. Questa potenzialità non corrisponde a quella perduta saggezza che veniva attribuita ai vecchi: essi non insegnano più ai giovani che si può stare fermi sulla sponda del fiume per osservare l’acqua che vi scorre, ma è innanzi tutto la scoperta dell’importanza di un passaggio che ci faccia comprendere come bisognerebbe vivere contrapponendosi al mito dominante della pienezza. Potremmo chiamarla la chance di riuscire ad “abitare la distanza”, un’“arte” - se vogliamo dire così - che ci permettesse di arginare l’ossessione di quella giovinezza eterna che si alimenterebbe solo con un’operosità rivolta al successo individuale. L’aveva già intravista Simone de Beauvoir nel saggio “La terza età”, ora ce la racconta lo psicoanalista Francesco Stoppa in “Le età del desiderio” (Feltrinelli), facendo rimbalzare l’una sull’altra l’adolescenza e la vecchiaia come età della “crisi”, quelle in cui ciascuno di noi si trova di fronte all’opportunità di “rinegoziare” il proprio rapporto con la vita e con l’identità personale. Come aspetti essenziali di un’“arte del tramontare”, rispetto alla quale sembriamo oggi completamente analfabeti, emergono l’esperienza che possiamo fare del “tempo” e l’esperienza connessa di un vissuto del “desiderio” molto lontano dall’idea ovvia di desiderio che tutti abbiamo in testa e che molta cultura contemporanea (dalla filosofia alla psicoanalisi) ha abbondantemente diffuso. Dunque, l’elogio della vecchiaia avrebbe soprattutto a che fare con la scomposizione della sequenza che ci porta progressivamente da un inizio a una fine, dalla nascita alla morte, come se tra passato, presente e futuro si potesse tracciare una linea di continuità senza inciampi e priva di faglie. No, le cose non starebbero così, non solo perché il percorso è caratterizzato da salti e queste rotture modificano continuamente questa presunta linearità. La vecchiaia potrebbe allora farci capire che il passato e il futuro sono sempre connessi tra loro in un intrico che si rivela decisivo per la nostra idea di vita. Il vecchio conosce bene quale sia l’importanza del rischio come elemento essenziale della vita stessa, e allora può insegnarci a spezzare l’incanto di una linea temporale che legittima il nostro andare avanti ottuso e quasi sempre disastroso. Può farlo perché riesce a far rimbalzare la fine sull’inizio e trasmetterci - se lo ascoltassimo - la “formula magica” di questo rimbalzo. Formula magica? Ma non così ovvia come quella che avvolge il nostro cieco procedere in avanti, che abbiamo adottato con evidente inconsapevolezza, per esempio senza accorgerci che è una specie di incantesimo illusorio. Ma non è proprio quella che avvolge il nostro cieco procedere in avanti: una formula che abbiamo adottato con evidente inconsapevolezza, per esempio senza accorgerci che è una specie di incantesimo illusorio? Ancora più sorprendente sarebbe riconoscere che la vecchiaia non solo non è l’estinzione del desiderio, ma, tutto al contrario, ci fa scoprire il suo vero funzionamento. Normalmente ci comportiamo come se il desiderio fosse la mancanza di qualcosa e la relativa pulsione per entrarne in possesso. Ma non è così semplice, come la psicoanalisi più avvertita ci segnala. L’esperienza che proviene dalla vecchiaia può spiegarci che il desiderio non si soddisfa attraverso un oggetto perché si produce grazie a una sorta di continuo smottamento della soggettività. Insomma, il tentativo dell’anziano di rinegoziare il proprio rapporto con la vita metterebbe in luce il tratto lacunoso dell’essere umano, e quindi la necessità di “abitare” quella distanza che lo costituisce. Se volessimo dare un nome a questa caratteristica essenziale, che la vecchiaia - nonostante le sue tribolazioni e in parte grazie a esse - ci aiuta a identificare, potremmo battezzarlo (come propone Stoppa) il “tocco umano”, cioè il gesto che ci appartiene più da vicino grazie alla nostra capacità di affrontare la lontananza, compresa la fine della vita.

·        Gioventù del cazzo.

Ai giovani ci pensiamo domani: sulle nuove generazioni solo chiacchiere e zero fatti. Assunzioni zero. Concorsi fermi. Politiche rinviate, nonostante i soldi dell’Europa. Dovevano essere al centro dell’agenda: ma lo sono solo a parole. Gloria Riva su L'Espresso il 16 novembre 2021. I giovani sono al centro dell’agenda politica. Mario Draghi lo ha ribadito due settimane fa agli studenti di un istituto tecnico di Bari: «Dopo anni in cui l’Italia si è spesso dimenticata delle sue ragazze e dei suoi ragazzi, oggi le vostre aspirazioni, le vostre attese sono al centro dell’azione di Governo». Contemporaneamente a Roma si discuteva l’estensione di quota 100 - ribattezzata quota 102 e 104 per il prossimo anno e quello successivo - tralasciando la bomba sociale che verrà dagli scarsi versamenti contributivi dei giovani, dal momento che metà degli under 40 percepisce redditi inferiori ai mille euro al mese e, per via del sistema contributivo, a partire dal 2035 le loro pensioni saranno altrettanto misere. Qualche giorno più tardi si è dato il via alla riforma della concorrenza, dove è scomparsa la liberalizzazione degli stabilimenti balneari, uno schiaffo per quei giovani che speravano in un governo combattivo nei confronti delle rendite di posizione. A lungo termine il governo promette molto agli under 35enni: l’obiettivo è aumentare l’occupazione giovanile del 3,2 per cento abbattendo la dispersione scolastica, elevando i titoli di studio e le competenze, investendo negli istituti tecnici e professionali, sostenendo il sistema duale, puntando sulle competenze digitali e ambientali, aumentando le borse di studio, riformando il sistema di orientamento e le politiche attive. Ma nel breve periodo la distanza dalle istanze dei giovani è siderale. Partiamo dalla promessa di 300mila posti di lavoro nell’amministrazione pubblica. Secondo le analisi del Forum Pubblica Amministrazione, a stretto giro lo Stato dovrebbe assumere al Mef, alla Ragioneria di Stato, ma anche al ministero della Giustizia e nei comuni, 12.860 persone per l’attuazione del Pnrr, il Piano di Ripresa e Resilienza che prevede di spendere entro il 2026 i 191,5 miliardi messi a disposizione dall’Europa. Ad oggi nessuno è stato ancora assunto, neanche le 821 persone che quest’estate hanno superato il famoso concorso dei 2.800 tecnici per il Sud, celebre perché le prove erano strutturate in modo tale che, nonostante il grande interesse, pochissimi sono riusciti a superare la selezione. Risultato: a distanza di sette mesi dall’apertura del bando nessuno è stato contrattualizzato. Altri 11.126 posti restano appesi a concorsi banditi, ma senza una data di conclusione, mentre sono ancora da pubblicare nove concorsi per 1.362 profili di alto livello. Tre i problemi riscontrati dai giovani, come spiega Flavio Proietti, portavoce di Officine Italia, associazione di under 30enni nata per affrontare le sfide sociali ed economiche del paese: «La prima questione è l’equipollenza della laurea per chi ha studiato all’estero. Accedere ai concorsi pubblici significa intraprendere un percorso tortuoso e contro intuitivo per il riconoscimento dei titoli conseguiti fuori dall’Italia. Un esempio: viene chiesto a chi ha studiato a Londra di sostenere un ulteriore corso di lingua inglese, non essendo presente nel piano di studi straniero». Il secondo nodo è la scarsa stabilità delle posizioni aperte per il Pnrr, per lo più a tempo determinato, mentre la terza criticità è di ordine economico, come spiega Proietti: «Oltre ad essere un lavoro a termine, non è remunerato a sufficienza per spingere professionisti di talento a intraprendere la strada di “civil servant”. Sono gli stessi elementi che, in generale, disincentivano i giovani eccellenti dal partecipare al percorso di ripresa italiana, prediligendo una più agevole carriera all’estero». Anche coloro che hanno provato a partecipare ai concorsi pubblici, pur riconoscendo l’impegno a rendere meno barocche le prove d’esame, lasciano perdere. Mesi fa Officine Italia aveva portato queste e altre istanze all’attenzione del governo: «Proposte mai concretamente accolte», dice Proietti, in cerca di un confronto con la ministra per le Politiche Giovanili, Fabiana Dadone. È l’ultimo Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes a confermare l’aumento degli espatri di giovani tra i 18 e i 34 anni nel 2020. «C’è stato un calo del 16 per cento delle partenze, soprattutto di over 65enni e minorenni, ma continuano ad aumentare i giovani che prendono la via dell’estero, nonostante la pandemia in atto», spiega Delfina Licata di Fondazione Migrantes. A rientrare sono soprattutto 30enni con occupazioni incerte, lavoratori autonomi, ricercatori, inoccupati. «A seguito dell’emergenza sanitaria si è abbassata l’età di chi ha fatto ritorno e il Sud è diventato il protagonista dell’accoglienza sia perché il rientro non è dovuto a opportunità di lavoro trovate in Italia, quanto a questioni emergenziali, sia perché al Meridione è riservata un’agevolazione fiscale maggiorata dal 70 al 90 per cento nel caso in cui la residenza viene spostata dall’estero in un territorio del Sud», recita il rapporto Migrantes, che puntualizza: «A lasciare l’Italia, anche nonostante la pandemia, sono i giovani nel pieno della loro vitalità e creatività professionale, è su questi che si deve concentrare l’attenzione e l’azione della politica». Perché le opportunità non mancherebbero, come fa notare Maria Chiara Prodi, presidente della Commissione Nuove Migrazioni e generazioni nuove: «Complice la pandemia, le condizioni di conciliazione con la vita privata o l’impatto sociale del proprio lavoro sono variabili sempre più prese in considerazione da chi migra, rispetto alle quali l’Italia può fare leva grazie alle proprie qualità paesaggistiche, culturali, climatiche. In questo senso, esperienze come il progetto it-Er International Talents Emilia Romagna, che offrono supporto ai progetti di ingresso o rientro su un territorio, saranno sempre più essenziali in futuro, perché al lavoratore serve un’intermediazione che faciliti la comprensione del contesto in cui un’offerta di lavoro si sviluppa». Tuttavia, i piccoli progetti territoriali si scontrano con un disegno politico lontano dalle istanze di innovazione di una società contemporanea. La rinuncia alla liberalizzazione delle spiagge nel ddl Concorrenza «è un segnale di immobilismo e incapacità di scardinare interessi personali e rendite di posizione», dice Mario Calderini, docente di Economia alla School of Management del Politecnico di Milano, che continua: «Neppure questo governo è in grado di affrontare i nodi che ingessano il paese, e l’impossibilità di sciogliere questi nodi - dalle concessioni balneari, alla mancata riforma del catasto - non da il senso di modernità e sviluppo di cui l’Italia avrebbe bisogno. Siamo in un’epoca in cui c’è grande attenzione al bene comune, al godimento di spazi pubblici, spiagge, beni naturali, di accesso democratico alle risorse del territorio, ma le scelte del governo vanno in un’altra direzione». Calderini, a proposito della questione giovanile, critica l’assenza di una missione specifica nel Pnrr dedicata proprio alle nuove generazioni, come invece hanno fatto i francesi. Lo smarrimento dei giovani italiani è giustificato dall’assenza di una visione industriale a lungo termine: «Il Pnrr prevede investimenti e riforme per accelerare la transizione ecologica e digitale coerentemente le indicazioni europee, tuttavia manca una chiara visione degli obiettivi di politica industriale che il paese intende raggiungere e non c’è un’analisi degli impatti e degli effetti sul tessuto produttivo», commenta Valentina Meliciani, docente di Economia Applicata alla Luiss di Roma, secondo cui «il quaranta per cento delle risorse destinate al sistema produttivo fa capo al progetto Transizione 4.0, simile al modello di Industria 4.0, ovvero offre incentivi alle imprese che investono in beni strumentali, ricerca, sviluppo e tecnologie. Tuttavia questa formula rischia di accrescere la disuguaglianza territoriale, perché a ricevere gli incentivi sono le aree del paese più ricche e dinamiche e le imprese più strutturate, dotate di quel capitale umano capace di sfruttare la tecnologia acquisita». Il resto degli interventi risulta invece più frammentato, fra strumenti di sostengo alle partnership pubblico-private, all’internazionalizzazione delle imprese, alle start-up. «Il Pnrr dovrebbe aiutare le imprese a migliorarsi con l’ausilio del digitale e delle nuove tecnologie, tuttavia in base alle stime del Mef le attività che contribuiranno di più alla crescita del valore aggiunto saranno costruzioni e attività immobiliari», spiega Meliciani, che aggiunge: «Senza un’accelerazione degli investimenti in alcuni settori strategici, c’è il pericolo che il paese possa peggiorare i conti della propria bilancia commerciale perché l’assenza di una produzione interna di beni destinati a favorire la transizione ecologica e il digitale a fronte di una crescente domanda, comporterà l’acquisto dall’estero di questi prodotti». Un cortocircuito, se si pensa che da un lato si punta a incentivare gli istituti tecnici e favorire la formazione di alte professionalità, dall’altro si stima che sarà l’edilizia il settore più favorito. Già oggi la figura professionale più ricercata dalle agenzie interinali è quella del carpentiere per via del grande impulso dato dai superbonus edilizi. Racconta Marco Cerasa, amministratore delegato del Gruppo Randstad, società di ricerca del personale, che una delle sfide maggiori del Recovery Plan sarà «la capacità di importare dall’estero medici, infermieri, informatici, ingegneri, architetti, tecnici e operai per mettere a terra le opere infrastrutturali in programma. Sono professioni che gli italiani non vogliono fare o non se ne formano abbastanza, a causa di percorsi formativi a numero chiuso». Sarà quindi importante svolgere un’azione di orientamento nelle scuole e nelle università: «Il Pnrr creerà 700 posti di lavoro nella sanità, nel digitale, nella cura dell’ambiente, nello sviluppo di tecnologie come l’idrogeno e la gestione dell’acqua. Il compito dei formatori è studiare questi sistemi e aiutare le persone a scegliere gli studi universitari con maggiori sbocchi occupazionali, nonché a sostenere percorsi di ricollocamento adeguato per i disoccupati». Un compito delicatissimo, affidato alla rete dei centri per l’impiego che attualmente è drammaticamente impreparata a svolgerlo.

I quattro motivi per cui l’Italia è sempre più un paese vietato ai giovani. Alessandro Rosina su L'Espresso il 15 novembre 2021. Rischiamo di trovarci senza membri delle nuove generazioni preparati. E per quelli che sono riusciti a entrare nel mercato del lavoro le cose non vanno meglio. Il rischio maggiore che sta correndo l’Italia è trovarsi nei prossimi anni senza la risorsa più preziosa, senza giovani ben preparati, con le competenze necessarie per alimentare i processi di sviluppo competitivo del paese. Eppure, per lungo tempo si è sentito obiettare che in realtà, per quanto pochi, i membri delle nuove generazioni italiane sono in realtà troppi (un’idea sintetizzata dalla frase: «se ce ne fossero ancora di meno, avremmo meno giovani disoccupati»). Ci sono almeno quattro fattori che, in combinazione tra loro, hanno portato i giovani, entrati nel mercato del lavoro in questo secolo, a sentirsi di troppo rispetto alla capacità del sistema produttivo di includerli efficacemente e valorizzarli adeguatamente.

Primo: finora il centro della vita attiva del paese è stato solidamente presidiato dalle consistenti generazioni nate nei primi decenni del secondo dopoguerra, che ora stanno spostando il proprio peso progressivamente in età anziana.

Il secondo fattore è il percorso di basso sviluppo del Paese. La prima decade di questo secolo è stata indicata come “decennio perduto” per il rallentamento della crescita a confronto degli decenni passati e la perdita di competitività rispetto alle altre economie avanzate. Il periodo fra il 2008 e il 2013 è stato poi segnato dalla Grande Recessione che ha colpito in modo particolare l’Italia e ancor più i giovani. 

Nello stesso periodo, e passiamo così al terzo fattore, è andata sensibilmente aumentando l’occupazione nella fascia più anziana della forza lavoro. L’invecchiamento della popolazione porta i Governi a porsi la questione di come affrontare i costi crescenti associati alle pensioni, alla salute e all’assistenza sociale. Una delle risposte principali è favorire virtuosamente le coorti più mature a rimanere più a lungo nel mercato del lavoro. In Italia ciò è stato fatto spostando in avanti l’età di pensionamento. Basso è stato, invece, lo sviluppo degli strumenti di Age management, ovvero di politiche a supporto della lunga vita attiva nelle aziende. La combinazione tra invecchiamento demografico, posticipazione del ritiro dal lavoro, bassa crescita economica e basso sviluppo dei settori più innovativi e competitivi, ha portato a un aumento dell’occupazione degli over 55 senza un’espansione generale delle opportunità di occupazione. Ovvero, la torta non si è allargata e le porzioni sono andate sempre più a favore della fascia più matura della forza lavoro. Detto in altre parole, la politica si è accontenta di ridurre i costi dell’invecchiamento senza favorire un salto di qualità delle condizioni di lunga vita attiva nel mondo del lavoro, da un lato, e senza affrontare le conseguenze del “degiovanimento”, dall’altro.

Il quarto fattore che ha contribuito al surplus di giovani italiani rispetto alla capacità di inclusione attiva di nuove energie e intelligenze nei processi di sviluppo del Paese, sono state tutte le carenze nei servizi che si occupano dell’incontro efficiente tra domanda e offerta. Un persistente basso investimento in politiche attive ha determinato un deficit di strumenti adeguati - all’altezza delle economie più avanzate e alle sfide che pone questo secolo – per orientare e supportare le nuove generazioni nella formazione delle competenze richieste, nella ricerca di lavoro, nella realizzazione armonizzata dei progetti professionali e di vita. Come ho descritto nel libro “Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere” (Vita e Pensiero 2021), ci troviamo oggi con uno dei peggiori intrecci nelle economie mature avanzate tra crisi demografica e questione generazionale. Gli squilibri demografici stanno sempre più riversando i propri effetti all’interno della popolazione attiva. Attualmente in Italia, la fascia dei 30-34enni risulta decurtata di circa un terzo rispetto a quella dei 50-54enni: valori inediti sia rispetto al passato sia nel confronto con il resto d’Europa. Di fronte a tali squilibri e in combinazione con l’elevato debito pubblico, dovremmo essere il Paese più impegnato a favorire la partecipazione ampia e qualificata delle nuove generazioni al mondo del lavoro. E invece i giovani italiani si sono trovati nei primi due decenni di questo secolo con persistenti limiti e ostacoli su tutta la transizione scuola-lavoro. Di conseguenza la forza lavoro italiana sta subendo un processo di degiovanimento ancora più accentuato rispetto alla popolazione generale.

Dal 2005 al 2020 il peso degli under 35 sulla popolazione attiva è diminuito di 5 punti percentuali, ma quello sugli occupati si è ridotto del doppio. L’efficacia di quanto verrà realizzato con i finanziamenti di Next Generation Eu va allora, prima di tutto, misurata sulla capacità di mettere il capitale umano delle nuove generazioni al centro dello sviluppo sostenibile, inclusivo e competitivo del Paese. Se non lo faremo non ci rimarrà che rassegnarci alla crescente lamentazione di imprese che non troveranno le competenze e le professionalità richieste.

Alessandro Rosina è docente di Demografia e Statistica Sociale all’Università Cattolica di Milano«Ogni lotta è la nostra»: il futuro dei diritti è in mano alla generazione Z. Simone Alliva su L'Espresso il 12 novembre 2021. Protestano per il clima, per una legge contro l'omotransfobia, contro il sessismo, per lo ius soli di chi non ha cittadinanza. Ecco cosa pensano. Non choosy, bamboccioni, viziati. La generazione Z è una tempesta di attivisti, divulgatori, politici. Però, per capire realmente chi sono e il futuro che indicano, bisogna essere con loro in piazza. Mettersi in ascolto. Mentre protestano per il clima, per una legge contro l’omotransfobia, contro il sessismo, per i diritti degli italiani senza cittadinanza. Lo fanno rincorrendo lavori precari o cercando di riparare un sistema scolastico novecentesco che non gli parla più: organizzano corsi di formazione, dibattiti e assemblee. Si informano, pianificano proteste sui social e poi si ritrovano nelle strade. Sono soprattutto donne, persone afrodiscendenti o lgbt. Quella “minoranza” lasciata ai margini spesso accusata di “cancel culture” o di eccessiva “suscettibilità” da chi è rimasto cristallizzato nel Novecento. Dimenticati dalla politica che non li vede, non li vuole o dalla società che non li ascolta. Ma a loro poco importa. «Molto più di Zan!», urla al megafono Victoria Oluboyo, spalle alla fontana monumentale di barriera Repubblica a Parma riunitasi per protestare dopo l’affossamento della legge contro l’omotransfobia. Nata e cresciuta qui ma con la Nigeria nel volto: «Ho 27 anni e di diritti ho iniziato a occuparmi quando ne avevo quattordici», dice con un marcato accento parmigiano: «Per uscire da qui non possiamo ragionare a comparti stagni, bisogna capire che ogni lotta è la nostra». Lavora come assistente amministrativa nella prefettura di Parma, si occupa di emersione e richiedenti asilo: «Sono una donna nera, subisco sulla mia pelle razzismo e sessismo. Ma è un fenomeno diverso rispetto alle persone che assisto. Ho un’istruzione, parlo italiano, mi è stato riconosciuto lo stato di cittadina a 18 anni. Ho una posizione privilegiata rispetto alle donne richiedenti asilo che subiscono anche il classismo. Le battaglie da portare avanti sono molte, lo Ius Soli è fondamentale ma è la lotta al riconoscimento delle persone che non va dimenticata». L’assenza di paura è ciò che differenzia questa generazione dalle precedenti: «Le vecchie generazioni hanno paura di un’alterità che pure è presente nel quotidiano. Si pensa che la normalità sia l’uomo bianco, etero, cisgender ma sappiamo che la vita reale è altrove. Loro sono la minoranza ma su di loro è stata costruita la nostra società». La corretta narrazione è la chiave di volta del cambiamento: «I nostri corpi, così come quelli delle persone disabili o Lgbt nei media non compaiono. Sono avvolti nella nebbia». Sagome, forme senza prospettiva. «Il mio racconto è assente. L’unico spazio è per i migranti». È d’accordo con lei Sofia Righetti, filosofa, campionessa paralimpica, attivista: «Per le persone disabili i media continuano a riservare la narrazione dell’eroe tragico che nonostante la disabilità ce la fa oppure quella pietista di una persona sottomessa. Non c’è dignità e non c’è ascolto della persona. È problematico: se vivi in un ambiente salutare questo immaginario ti scivola addosso, altrimenti assorbi tutto e diventi quella persona tragica e sottomessa». Un brillantino nel naso e gli occhi azzurri che luccicano anche di più, Sofia si racconta con una luce che non si sa da dove viene, ma è lì, sempre accesa: i corsi di formazione nelle scuole e nelle università sulla discriminazione abilista, la desessualizzazione e la violenza sulle donne con disabilità: «In questi mesi in cui si parlava di ddl Zan ho sentito forte l’assenza delle persone disabili dal discorso. Dicevano che siamo state strumentalizzate, come se noi persone con disabilità non avessimo un orientamento sessuale o un’identità di genere. La politica ci ha strumentalizzato, infantilizzandoci». Dal Milano Pride alle piazze di protesta per la “tagliola”, Sofia Righetti ha vissuto l’ultimo anno a fianco alla comunità arcobaleno: «Mi sento alleata della comunità lgbt. Sorella. Con le persone lgbt ho trovato un senso di unione incredibile nell’ultimo anno. Se si studiano Disability Studies (la disciplina che analizza la disabilità come un fenomeno sociale, politico, storico e culturale, n.d.r.) si scopre che abbiamo tantissimo in comune: il fatto di essere considerati non conformi rispetto a uno status prestabilito del sistema normativo. Storicamente ci hanno sempre considerato dei freak, per non parlare della medicalizzazione subita. Non mi sono mai vergognata di essere quello che sono, lo mostro con orgoglio. E tutto questo senso di orgoglio e questa sete di giustizia sociale è qualcosa che rivedo nella comunità Lgbt». Francesco Cicconetti, 22 anni, riminese è un uomo trans (ftom, si dice così quando si transita dal genere femminile a quello maschile). Dopo aver iniziato il suo percorso di transizione a marzo del 2017, lo scorso luglio ha lanciato una campagna di crowfunding per permettersi una mastectomia, raccontata sui social, passo dopo passo, per sensibilizzare una società che costringe nel cono d’ombra le persone transgender, soprattutto gli uomini trans: «Le persone trans vengono viste come persone sovrannaturali. Non è il quotidiano che viene raccontato, oppure si vedono con quel velo di pietà sempre molto triste. Quello che faccio è cercare di portare la mia quotidianità e sovvertire una narrazione che non ci rappresenta. Ho difficoltà a definirmi attivista per il pensiero alto che do a questa parola, preferisco divulgatore». Sembra poca cosa e invece, in una società che rifiuta il corpo delle persone trans, lo aggredisce con ogni mezzo, Francesco rompe una narrazione vecchia di 50 anni. 138mila follower, un migliaio di like a post: «Sono un ragazzo trans, ma sono un ragazzo bianco eterosessuale, non mi permetterei mai di parlare di questioni che non mi attraversano. Proprio per questo lascio spazio e offro piattaforme a chi racconta la disabilità, alle persone nere, trans non binarie. L’effetto del ddl Zan ci ha portato a questo: abbiamo creato questa rete che ci fa dire: non siamo sole, non siamo soli. Stiamo creando uno spazio che non ci è mai stato dato, lo facciamo online perché sui media non esistiamo, poi ci ritroviamo fisicamente nei luoghi. Questa è una vera rivoluzione». Una rivoluzione di sistema che dissente, soffia nelle stanze di partito o nei salotti che nominano i diritti solo per agitarli come una bandiera e sferrarla poi verso l’avversario di turno. Marianna Campanardi, 23 anni, studentessa di politiche pubbliche a Milano, milita nel Pd da quando aveva 18 anni. In dissenso. Ha da poco fondato RISE! (Rete intersezionale socialista ecologista), un successo dalla prima assemblea. Settanta giovani dai 14 ai 25 anni, presenti, non tesserati per parlare di loro diritti e futuro: «È uno spazio nazionale, dà voce a temi che dentro il nostro partito non possono essere tirati fuori». Una sfida alla segreteria sorda alle nuove generazioni: «Vogliamo stare dentro la politica, cambiarla da dentro. Quando lo facciamo come singoli nel Pd siamo sminuiti in quanto giovani, donne, persone Lgbt. Ma noi dobbiamo essere ciò di cui parliamo altrimenti nessuno ci crede». Campanardi illumina una questione: «Nel Pd al momento non ci sono persone non bianche, pochissime persone con disabilità o lgbt. È arrivato il momento di passare il microfono». Non risparmia critiche neanche nella gestione del Pd del ddl Zan: «Avremmo dovuto essere più radicali. Si fanno troppe differenze tra diritti civili e sociali. Non ha senso. Tutto si tiene». Le chiameranno anime belle, sono una generazione che chiede spazio in un tempo occupato solo dal risentimento. Il futuro è l’unico posto dove si può andare, non c’è altro. Meglio arrivare preparati. Mettersi in ascolto. 

Da ansa.it il 15 ottobre 2021. In Europa 9 milioni di adolescenti (tra i 10 e i 19 anni) convivono con un disturbo legato alla salute mentale e il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani con 3 ragazzi al giorno che si tolgono la vita. Emerge dal rapporto Unicef che sarà presentato oggi su "La condizione dell'infanzia nel mondo: Nella mia mente". Solo gli incidenti stradali causano più decessi tra i giovani di quell’età. Circa 1.200 bambini e adolescenti fra i 10 e i 19 anni pongono fine alle loro vite ogni anno. In Italia si stima che, nel 2019, il 16,6% dei ragazzi e delle ragazze fra i 10 e i 19 anni soffrissero di problemi legati alla salute mentale, circa 956.000 in totale. Fra le ragazze, la percentuale è maggiore (17,2%, pari a 478.554) rispetto ai ragazzi (16,1%, pari a 477.518). Mentre il Covid-19 continua a causare caos nelle vite, il Brief - un'analisi con focus sull'Europa del rapporto annuale dell'Unicef "La condizione dell'infanzia nel mondo: Nella mia mente" - fornisce anche dati preoccupanti sullo stress cui sono sottoposti. La percentuale di suicidio nel 2019 fra i ragazzi è stimata di gran lunga maggiore rispetto alle ragazze, rispettivamente il 69% e il 31%, e la fascia di età più colpita è fra i 15 e i 19 anni (1.037 contro i 161 fra i 10 e i 14 anni). La percentuale di problemi legati alla salute mentale per i ragazzi e le ragazze in Europa fra i 10 e i 19 anni è del 16,3%, mentre il dato globale nella stessa fascia di età è del 13,2%. Le nazioni con la percentuale maggiore in Europa fra le 33 prese in esame sono: Spagna (20,8%), Portogallo (19,8%) e Irlanda (19,4%), mentre quelle con la percentuale minore si trovano principalmente in Europa orientale: Polonia (10,8%), Repubblica Ceca (11%), Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia (11,2%). "La pandemia da Covid-19 ha evidenziato diversi fattori che hanno messo a rischio la nostra salute mentale: isolamento, tensioni familiari, perdita di reddito", ha dichiarato Sua Altezza Reale la Regina Mathilde del Belgio, che oggi interverrà alla presentazione del Brief all'Unione Europea a Bruxelles. "Troppo spesso i bambini e i giovani portano il peso di tutto questo”. Geert Cappelaere, Rappresentante Unicef per le Istituzioni dell'Unione Europea commenta: "ora sappiamo che non agire ha un costo elevato. La perdita annuale di capitale umano che deriva dalle condizioni generali di salute mentale in Europa tra i bambini e i giovani tra 0 e 19 anni è di 50 miliardi di euro. L'Unicef identifica infine alcuni interventi prioritari per le istituzioni europee e i governi nazionali fra i quali servizi per la salute mentale e migliori infrastrutture regionali".

Gianluca Veneziani per "Libero quotidiano" il 30 settembre 2021. Scordatevi i baci romantici del Tempo delle Mele e scordatevi l'immagine dei giovani come esperti animali sessuali che hanno i primi rapporti nella prima adolescenza e arrivano alla maturità già ben formati dal punto di vista erotico. La verità è che i ragazzi oggi baciano pochissimo e ancora meno fanno sesso, sono una generazione di kissless virgin, vergini che non hanno mai dato un bacio.  È il ritratto impietoso che viene fuori dal libro di Brando Barbieri, Kissless. Generazioni in gabbia (Salani): l'autore, classe 1996, con grande finezza intellettuale e capacità di analisi svolge un'indagine nel cuore di tre generazioni, quella X (i nati trail 1965 e il 1980), quella Y (nati tra 1981 e il il 1995) e la Z (nati tra il 1996 e il 2010), cogliendone le fragilità, le crisi, i tic, la privazione di radici e orizzonti.   E facendone emergere le mancanze erotico-affettive, la cosiddetta «anoressia emotiva». Lo scenario che vien fuori è desolante: nelle faccende di amore affiora uno stuolo di giovani onanisti e impotenti odi individui impauriti che temono perfino di lasciarsi andare al primo bacio per evitare il giudizio del potenziale partner. Eccoli allora riuniti, questi sfigati e frustrati sessualmente, nel girone infernale dei nuovi negazionisti, i No Kiss e i No Sex. Nella fase del primo (mancato) approccio trovi gli orbiter, gli «orbitanti», perlopiù maschi che ruotano attorno a una donna con la quale non hanno alcuna chance. Molti di costoro sono anche incel, involontariamente celibi: essi non hanno rapporti sentimentali con l'altro sesso per la paura di essere rifiutati o per il timore di andare "sotto", e cioè di diventare la parte debole della relazione. Altri finiscono tra gli zerbini, «schiavetti o giullari» che servono la «padrona», senza averne contraccambi erotico-sentimentali, ma vendendo scaricati in area «friendzone», versione postmoderna del «Ti vedo più come un amico». E questo mentre molte ragazze acquistano autorità nel vedersi circondate di «servitori maschi» e godono nel respingerli, credendo che fare sesso con un uomo significhi dargli troppo potere. Queste dinamiche si acuiscono nella fase della mancata intimità fisica. Cresce, nota Barbieri, il fenomeno di giovani che hanno paura di fare sesso per non essere giudicati per la prestazione, per non poter controllare a pieno la situazione o perché si nutrono dubbi sul fatto che il o la partner sia meritevole di entrare a contatto con i propri genitali.  La «paura di scopare» si traduce in un desiderio di scappare. Cinquant' anni dopo, la rivoluzione sessuale si è rovesciata in sessuofobia. Aumenta così in modo impressionante il numero degli «erbivori» che non hanno alcuna attività erotica: in Giappone l'83,5% dei ventenni è vergine e in Occidente il numero di persone tra i 20 e i 24 anni che non hanno mai fatto sesso è raddoppiato rispetto agli anni '60. Crescono anche le coppie bianche, relazioni d'amore trasformate in amicizie nelle quali la sessualità viene meno: oggi in Italia le coppie bianche sono una su tre e molte di queste sono giovani. Anche quando persiste, il desiderio sessuale trova altre forme per esprimersi: c'è chi si accontenta del cybersex via cam o chat, un «sesso a bassa intensità» in cui vengono utilizzati solo due sensi su cinque, vista e udito, «2/5 di un coito».  Chi non ha questa possibilità ricorre al porno, il cui consumo cresce in modo esponenziale: nel 2019 Pornhub ha registrato 8,7 milioni di visite in più rispetto al 2018 e l'Italia ha raggiunto il settimo posto nella classifica dei maggiori fruitori di pornografia online. In questa dinamica a farla da padroni sono i giovani, ridotti a «masturbatori compulsivi». Il dramma però è che molti di costoro non riescono neppure a reggere le performance sessuali fai-da-te: un under 40 su tre soffre di disfunzione erettile e la percentuale di giovanissimi che fa uso di Viagra oggi tocca punte del 35%, laddove era del 2% nel 2002. Tutto questo si somma a vite che oscillano tra la Noia e l'Ansia, caratterizzate dall'aumento del consumo di psicofarmaci e dei casi di depressione e suicidi. E in cui, anche per il venir meno di Dio, patria e ideologie, i giovani si sentono privati di un’origine e un destino. «Il terreno è arido», riflette Barbieri, «perché, dopo aver estirpato piante vecchie e malate, non è stato piantato niente che avesse radici abbastanza forti». Questa ricerca insoddisfatta di senso si risolve spesso in una sterile caccia al consenso (social). Ma è solo un palliativo per lenire le dilaganti solitudini esistenziali. Resta infatti inevasa la domanda di pienezza che può trovare risposta solo in una persona amata, in «quei capelli, quelle forme, quel profumo, quell'ammasso di cellule che il cervello ha identificato indissolubilmente con la parola 'felicità'». E invece oggi il Bacio è diventato un apostrofo grigio tra le parole Ho Paura.

I soliti ignari. L’eterno presente della generazione che non sa un cazzo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Settembre 2021. Il venti-trentenne di oggi è la me quindicenne. Quella che, se la prof d’italiano declamava «amor, ch’a nullo amato», rispondeva: «Ma è Venditti!». Se il tempo prima di te è vuoto, non saprai mai chi cita chi e chi copia chi, e non sospetterai d’esserti perso qualcosa. Ho finalmente ricevuto, da una trentenne, una risposta sensata all’unica domanda ch’io faccia ai giovani con cui m’accade di parlare: ma com’è che la tua generazione non ha letto niente, non ha visto niente, non sa un cazzo di niente di ciò che è accaduto prima che nascesse? È un dettaglio che mi ossessiona molto oltre la normale convinzione di noi vegliarde che i giovani d’oggi, signora mia, siano proprio un disastro. Il fatto è che, da quando avevo vent’anni – o quindici, o trenta – io, è cambiato tutto. Se volevo vedere un film vecchio, dovevo aspettare pazientemente che la tv lo trasmettesse (e la tv erano sette canali in tutto, se includiamo Telemontecarlo; e già che fossero sette era una botta di progresso: Rete 4 e Rai 3 arrivarono che già sapevo abbondantemente leggere e scrivere). Se volevo vederlo in lingua originale, dovevo andare al cineclub. Sono stata una quindicenne fortunata: a Bologna c’era il Lumière; se fossi cresciuta altrove, avrei trascorso l’adolescenza senza Truffaut e senza Fassbinder, o al massimo in compagnia dei loro doppiatori se la sera tenevo Rai 3 accesa fino a tardi. Questi hanno tutto in tasca. Hanno un telefono nel quale ci sono piattaforme pigiando un dito sulle quali possono guardare l’intera storia del cinema, o quasi (il «quasi» è per i film i cui diritti non si capisce più di chi siano e che quindi non stanno sulle piattaforme: invece della biblioteca dell’inedito, ministro Franceschini, non è che potrebbe occuparsi di farci vedere i film di Germi? Grazie, obbligatissima). Se avessero provato a vederli e avessero sbuffato di noia, capirei di più. Un paio d’anni fa ho rivisto Rocky, che quando uscì (quarantacinque anni fa) era un filmone popolare: adesso, coi ritmi cui siamo abituati negli audiovisivi, sembra Bergman. Non mi aspetto che un ventenne cresciuto con frammenti di audio, frammenti di video, frammenti di scrittura, s’appassioni alle descrizioni della balena scritte da Melville. Tempo fa ho detto alla figlia diciottenne di amici che l’io narrante di Proust si rigira nel letto per decine di pagine. Ha giurato che non avrebbe letto neanche morta Alla ricerca del tempo perduto, ma era al corrente della sua esistenza. Il solo sapere che sia esistito un certo Marcel Proust la rende una diciottenne anomala. (Escono da scuola senza sapere che i mammiferi appartengono a uno dei due generi sessuali, non si può pretendere che sappiano che nella storia della Francia sono esistiti romanzieri). L’altro giorno un utente Twitter ha chiesto chi fosse l’attore o l’attrice d’ogni epoca che univa in sé le più alte dosi di talento recitativo, qualità da star, e bellezza. Tra le migliaia di risposte, centinaia dicono «Paul Newman». E altre centinaia dicono: vedo che in molti rispondono Paul Newman, ma io non l’ho mai sentito. I Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco. Il venti-trentenne di oggi è la me quindicenne. Quella che, non sapendo ancora un cazzo, se la prof d’italiano declamava «amor, ch’a nullo amato», rispondeva: «ma è Venditti!». Se non sai niente, non sai riconoscere una citazione. Le rare volte in cui la riconosci, credi che ti vogliano truffare: oggi, l’internet darebbe del ladro a Venditti (o a Jovanotti, che nel decennio successivo usò lo stesso verso della Divina commedia) per non aver specificato «cit.». Il contagio si estende anche agli adulti, ormai sempre più membri onorari della generazione che non sa un cazzo. Ieri il sito dell’Hollywood Reporter ha pubblicato il trailer dell’imminente programma di Jon Stewart su Apple Tv. La giornalista adulta che ha scritto il pezzettino d’accompagnamento ha ritenuto di dirci che il programma sembra somigliare a Last Week Tonight, il programma con John Oliver (va in onda su Hbo, ha appena vinto l’Emmy) ricalcato sul Daily Show, il programma che Jon Stewart conduceva venti e più anni fa. La settimana scorsa è morto Norm Macdonald, comico sessantunenne che una trentina d’anni fa era nel cast del Saturday Night Live. Raccontando quanto l’aveva influenzato, Seth Meyers – comico quarantasettenne che conduce il programma di terza serata sulla Nbc – ha detto una cosa che chiunque li avesse visti entrambi sapeva già: di avere preso da Macdonald la cadenza nel dire le battute, il ritmo comico. Aggiungendo un dettaglio meraviglioso. Macdonald gli aveva raccontato che il figlio ventenne, guardando Meyers in tv, gli aveva detto: papà, ma tu parli come Seth Meyers. Santo cielo, aveva concluso Macdonald, mio figlio non sa come funziona il tempo. Se il tempo prima di te è vuoto, non saprai mai chi cita chi e chi copia chi. Non sospetterai d’esserti perso qualcosa. Vivrai in un eterno presente nel quale ogni valutazione avviene sottovuoto. (In genere a quel punto diventi fanatico di David Foster Wallace, un tratto che accomuna tutti coloro che conosco e che non hanno letto o visto nient’altro, non lasciandogli probabilmente la lettura della Scopa del sistema tempo per qualsivoglia altro consumo culturale). Insomma ero in uno studio televisivo, e mentre non eravamo in onda tutti erano spariti verso il buffet. La prima a rientrare è stata – mica ve la sarete già dimenticata – la trentenne di cui parlavo qualche decina di righe fa. Ho detto: m’hanno rimasto solo, ’sti quattro cornuti. Mi ha guardato con smarrimento. Ho detto: I soliti ignoti. Ha trent’anni, quindi non mi ha risposto che sono un’ignorante che sbaglia i dettagli, e che la battuta di Gassman sta nell’Audace colpo dei soliti ignoti, e che è quasi più grave che confondere Sapore di mare con Sapore di mare 2.

Ha trent’anni, quindi non sapeva che fosse esistito qualcosa intitolato I soliti ignoti. Non sapeva che fosse un film e non una serie, non sapeva che fosse un pezzo di storia del cinema italiano, non sapeva niente. (Non poteva neanche rivolgersi a san Google, protettore di chi sa cosa cerca: le avrebbe detto che è un quiz televisivo). Le ho chiesto, come faccio sempre con la gente giovane, come sia possibile che la sua generazione ignori tutto ciò che precede la sua nascita, e lei mi ha detto una piccola cosa cui non avevo mai pensato: oggi c’è molta più roba nuova. Se ogni mese hai decine di nuovi teleromanzi nel telefono, non t’avanzano il tempo e la voglia di conoscere il cinema tedesco degli anni Settanta o quello italiano degli anni Cinquanta. (Ministro Franceschini, preserviamo il livello culturale dei nostri ragazzi, vietiamo l’uscita di più di due sceneggiati nuovi ogni anno). Il guaio, come sempre, siamo noi. Mentre la diligente trentenne annotava su apposita app che deve recuperare questo misterioso Soliti ignoti di cui le ha parlato un’anziana signora, pensavo alle mie coetanee che non sanno nulla e neanche hanno la scusa d’esser trentenni. Conosco due signore della mia età che hanno lacune da ventenni, e fanno entrambe lavori intellettuali. Non hanno visto niente, non sanno niente, rispondono senza un briciolo d’imbarazzo di non aver visto Via col vento o Il padrino. Diamo per già svolte le riflessioni sul fatto che in Italia si possa far carriera nei settori dell’editoria e della comunicazione mancando delle basi culturali, e occupiamoci di: com’è possibile? Quando io e loro avevamo dodici anni – o dieci, o otto – ed eravamo troppo piccole per uscire la sera, non c’era altro da fare che guardare la tv. E la tv generalista la sera mandava quasi sempre film. Come diavolo hai fatto a essere piccola negli anni Settanta o Ottanta e a non aver visto Via col vento? Mica basta, come scusa, essere andate a letto presto per molti anni. (Che, a seconda di quanto vivi sottovuoto, può essere una battuta di Proust o di DeNiro).

Irene Famà per "la Stampa" il 23 settembre 2021. Un tema in classe sull'uguaglianza. Un compito assegnato per far riflettere gli alunni, per aiutarli a interrogarsi e a comprendere il mondo che li circonda. E loro, studenti di seconda media di un istituto del torinese, hanno colto quell'occasione per confessare il disagio che vivevano da mesi. E per mettere i docenti di fronte alle loro responsabilità: «Non siamo tutti uguali. C'è chi approfitta degli altri». Chi? I bulli, i prepotenti, quel compagno che per mesi ha preso di mira un ragazzino disabile. Il giorno del tema, il bullo era assente e alcuni degli altri studenti hanno trovato il coraggio di raccontare le umiliazioni e le vessazioni che il loro amico, affetto da encefalomalacia, era costretto a subire. Perché quel quattordicenne se la prendeva un po' con tutti, li derideva, alzava le gonne alle bambine, ma era contro il compagno disabile che si accaniva principalmente. Il più debole, l'unico che non poteva difendersi, urlare, respingerlo. E così ogni giorno lo umiliava, lo insultava, sputava sulle sue cose e nel suo bicchiere, gli prendeva le mani, come fosse una marionetta, per fargli fare ciò che voleva. «Nessuno diceva nulla. Avevo paura a parlare, temevo che gli altri non mi avrebbero seguita», ha spiegato agli inquirenti una ragazzina. Già. Perché ad affrontare il prepotente quella classe è stata lasciata sola. Eppure qualcuno avrebbe dovuto controllare cosa accadeva quando, durante l'intervallo o l'ora di alternativa, il bullo andava nell'auletta del primo piano a cercare la sua vittima. Così l'insegnante di sostegno e l'insegnante di potenziamento sono finiti davanti a un giudice con l'accusa di concorso in atti persecutori per omesso controllo. Il primo ha patteggiato un anno di reclusione, la seconda ha deciso di affrontare il processo. Per il pubblico ministero Mario Bendoni, che ieri ha chiesto una condanna a un anno e 6 mesi, l'insegnante non ha vigilato: «Entrambi i professori erano quasi sempre assenti», hanno testimoniato gli studenti. «E quando c'erano, erano impegnati a guardare il cellulare o il tablet». Poco importava quello che accadeva intorno. Intorno era il «regno» del bullo, che tra i coetanei era riuscito a creare un clima di totale soggezione. Nessuno osava opporsi, nessuno si azzardava a criticarlo. Lui non è finito a processo: ora ha diciotto anni, ma all'epoca dei fatti, nel 2015, non aveva ancora 14 anni e non era imputabile. Chiamato a testimoniare, ha chiesto scusa alla mamma della vittima, parte civile rappresentata dall'avvocato Michela Malerba, e ha scritto una lettera: «Ho fatto cose orrende di cui non vado fiero». Ora tocca agli adulti rispondere del loro operato. O meglio, delle loro omissioni. Spiegare il perché non si sono accorti di nulla, non si sono resi conto che in quella classe c'era un quattordicenne che agiva da padrone e un suo coetaneo che veniva umiliato e deriso. L'avvocato difensore dell'insegnante, Calogero Meli, accusa il «sistema scolastico. La mia assistita - dice - era al primo anno di prova senza formazione sulla gestione dei disabili. Avrebbe dovuto arricchire l'offerta formativa con un progetto sulla legalità, ma stata messa ad affiancare un professore di sostegno. È vittima di una gestione distorta delle risorse umane». In pratica, stare accanto a quel ragazzo, proteggerlo, vigilarlo, non era compito suo. Sulle responsabilità penali si pronuncerà il giudice. Il dato di fatto è che in una scuola media, un adolescente con disabilità motorie e cognitive è stato lasciato solo. In balia di un bullo. Ed è stato salvato dai compagni che hanno avuto il coraggio di scrivere su un foglio protocollo quanto stava accadendo.

I due adolescenti giravano per le strade di Orbetello. Tuta rossa, maschera e mitra in mano seminano il panico in strada: “Giocavamo alla Casa di Carta”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 12 Settembre 2021. Due ragazzini di Orbetello hanno deciso occupare uno degli ultimi pomeriggi prima del rientro a scuola giocando come se fossero i protagonisti della Casa di carta, la famosa serie tv spagnola distribuita da Netflix che racconta lo svolgimento, dalla sua ideazione all’esecuzione, di un incredibile piano criminale ideato per derubare la Zecca di Madrid. I due giovani, racconta Il Tirreno, proprio come i protagonisti dello sceneggiato, hanno indossato le caratteristiche tute rosse col cappuccio, messo sul viso una maschera del celebre pittore Salvador Dalì, e sono andati per le vie della cittadina lagunare imbracciando una mitraglietta, ovviamente giocattolo, spaventando a morte i cittadini che si imbattevano nella "coppia criminale". Il gioco ha preoccupato oltremodo alcuni cittadini che non si sono resi conto del gioco, anzi lo hanno creduto una vera e propria minaccia per la propria incolumità tanto da chiamare le forze dell’ordine. I due finti criminali in erba verso l’una sono arrivati ad affacciarsi su una strada. Qui sono stati visti da alcuni passanti che si sono impressionati e hanno chiamato i carabinieri della stazione locale. Molto probabilmente ai militari devono aver detto che si trattava di due delinquenti armati perché dalla caserma di Orbetello sono partite quattro pattuglie con tanto di giubbotto antiproiettile. Uno vero spiegamento di forze che, quando sono arrivate sul posto della segnalazione, si sono rese conto che si trattava solo del gioco dei due ragazzini appena adolescenti residenti a Orbetello. Visto il numero dei militari e le auto si sono decisamente impressionati tanto che i carabinieri li hanno trovati in lacrime. Nessuno dei due pensava di fare qualcosa di male o di non consentito ma solo di giocare, come spesso avviene, impersonando personaggi della televisione e come accade spesso hanno promesso di non farlo più. Non è la prima volta che in riva alla laguna personaggi del mondo televisivo e cinematografico fanno la loro comparsa spaventando i residenti. Nel 2019 fu la volta di Samara Morgan, la tenebrosa bambina dalla pelle diafana e i lunghi capelli scuri che manifestava insoliti poteri paranormali presente nel film The Ring.  In quell’anno imperversava, anche in riva alla laguna, il Samara challenge. Persone travestite da Samara si aggiravano per i parchi pubblici e le zone buie spaventando chi magari si trovava fuori a quell’ora. Furono giornate miste di curiosità e spavento e di ricerca di coloro che si divertivano a cercare Samara con scarsi risultati. La vicenda poi si esaurì e di Samara non si parlò più. Ora è stata la volta della Casa di carta. Riccardo Annibali

Il metalinguaggio della Gen Z. Niente rappresenta quest’epoca come i meme (santi numi!). Alessandro Cappelli su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. Un nuovo studio pubblicato su Nature ha analizzato in ogni dettaglio e con metodo scientifico l’evoluzione dei disegni ironici che spopolano su internet. Queste immagini sono una forma di comunicazione sempre più riconoscibile, un vero e proprio spartiacque tra nativi digitali e non. I disegnatori della Pixar non potevano immaginare che la scena in cui Buzz Lightyear prova a rassicurare un disperato Woody in “Toy Story 2” sarebbe diventata virale grazie a Facebook, Twitter, Instagram. Nel 1999 questi social nemmeno esistevano. E chissà se Drake sapeva che gli screenshot del video di “Hotline Bling” sarebbero stati riutilizzati milioni di volte per dire «questa cosa qui non mi piace, questa qui invece è perfetta». È possibile immaginare che Michael Jordan sapesse perfettamente di poter diventare virale quando, durante le riprese di “The Last Dance”, ha detto «… e allora la presi sul personale». I social media hanno cambiato radicalmente il modo di usare i contenuti multimediali – video, foto, immagini – per comunicare. I meme in particolare sono la vera cifra stilistica della comunicazione immediata dei social e delle chat istantanee. Il termine meme non è un prodotto degli ultimi anni. La paternità della definizione si deve a Richard Dawkins, che nel 1976 nel libro “Il gene egoista” la usò per indicare un’idea, un gesto, un’azione che si propaga nella cultura di massa diventando rapidamente famosa. Cioè un tassello del processo evolutivo di una cultura di massa. Il meme internettiano è quindi un’immagine, una gif o un video che si diffonde su Internet, che è stata riprodotta più e più volte ed è diventata famoso in brevissimo tempo. Un nuovo studio, pubblicato su Nature, rivela l’evoluzione e l’impatto dei meme nell’epoca dei social media, arrivando a inquadrarli come un metalinguaggio che appartiene a più di una generazione di persone. «Non c’è niente che rappresenti così bene la società contemporanea come i meme», dice a Linkiesta Walter Quattrociocchi, data scientist dell’Università La Sapienza che ha co-firmato lo studio “Entropia e complessità rivelano l’evoluzione dei meme” con altri cinque autori. «Un’evidenza chiarissima fin da subito», prosegue, «è che i meme sono diventati proprio l’elemento base di un certo modo di comunicare su Internet. E non c’è un singolo argomento di interesse pubblico che non venga ripreso, esaltato o esasperato con i meme. Vedi l’esplosione del fenomeno Greta Thunberg qualche anno fa o, più di recente, il fallo di Giorgio Chiellini a Bukayo Saka nella finale degli Europei. Ogni cosa viene strumentalizzata nel linguaggio e nella comunicazione spesso ilare e divertente di internet». Per questo i meme possono essere considerati un metalinguaggio: non hanno sintassi, non hanno grammatica, ma hanno delle forme di rappresentazione simbolica riconoscibili. E queste forme si evolvono secondo un processo di replica. Più una cosa ha successo, più viene usata come template, sopravvive, si riproduce. «Non a caso», spiega Quattrociocchi, «i ragazzi che oggi vanno al liceo o hanno una ventina d’anni sono bravissimi a realizzare i meme, o quanto meno colgono tutti i riferimenti quando ne vedono uno. I loro genitori, nella maggior parte dei casi, non li capiscono proprio, li annoiano. In questo si capisce quanto i meme rappresentino la linea di demarcazione tra i non nativi digitali e i nativi digitali». L’analisi dei ricercatori si basa su un’enorme mole di dati: hanno studiato l’evoluzione di 2 milioni di meme pubblicati su Reddit nell’arco di dieci anni, dal 2011 al 2020, e li hanno messi a sistema secondo termini di complessità statistica ed entropia, che è una una misura del disordine. Per mettere a sistema entropia e complessità, gli autori dello studio hanno dovuto creare una matrice di calcolo che raggruppasse i 2 milioni di meme secondo parametri specifici: il numero di personaggi presenti nel meme, la quantità di immagini usate per realizzarlo, la varietà di colori e di linguaggi, eventuali riferimenti alla cultura pop, ma anche la portata virale (quindi quante volte un meme viene riprodotto e utilizzato come template per altri meme). I primi meme erano semplici foto di un personaggio in primo piano – spesso animali o volti umani – su sfondi semplici, con una scritta dal font banale; le generazioni successive di meme invece hanno spesso più elementi all’interno, contengono scene di film o video musicali, fotomontaggi o altri dettagli che rendono il prodotto finale più specifico e dettagliato. «Lo studio», dice Quattrociocchi, «è basato sulla fisica dei sistemi complessi (gli stessi che hanno portato Giorgio Parisi al Nobel per la Fisica, ndr) e proprio per il metodo di lavoro è uno studio pionieristico: i meme non erano mai stati analizzati con questo tipo di approccio, con metodo scientifico, con dati e informazioni così corpose». L’indagine mostra che l’universo memetico è in rapida espansione, un’espansione esponenziale che lo porta a raddoppiare le proprie dimensioni ogni sei mesi circa. All’aumentare della mole di contenuti aumenta anche la loro complessità, arrivando a rappresentare in maniera sempre più precisa, tempestiva e sfumata tendenze e atteggiamenti sociali del momento. «Osserviamo una crescita esponenziale», si legge nel paper su Nature, «del numero di nuovi template creati. In particolare, la nascita di nuovi meme è accompagnata da una maggiore complessità visiva del contenuto dei meme stessi, che è paragonabile a una tendenza osservata anche nell’arte pittorica». Il riferimento all’arte non è casuale, spiega Quattrociocchi: «Analogamente a quanto avviene nella pittura, anche i meme si fanno sempre meno elementari, sempre più articolati, ma non necessariamente difficili da comprendere».

Roselina Salemi per “La Stampa” il 31 agosto 2021. Bella e Gigi Hadid, Emily Ratajkowski, Alexa Chung, Kendall Jenner. Cara Delevingne. Se chiedessero allo specchio magico della Gen Z (nata tra il 1995 e il 2010) «Chi sono le più belle del reame?» ci resterebbero male. Sono favolose, ma il modo di considerare la bellezza sta per essere rivoluzionato sia nello stile, che nell'ispirazione (o forse è già successo). I nomi sono altri, da Billie Eilish a Rowan Blanchard. L'approccio beauty è self expression, no perfection. Possibilmente genderless (le ricerche per «look trucco maschile» sono aumentate dell'80 per cento). ll trend skinimalism è naturale, funzionale e vegan. Sostenibile, cruelty free e multitasking. Un fard deve essere anche ombretto e rossetto. La make-up artist Amanda Bell spiega così il bello della fluidità: «Prendiamo Rose Randiance Perfector di Pixi, che fa parte di una linea alle rose alla quale ho lavorato: si può usare sotto il fondotinta come base, o miscelarlo al fondotinta, o stenderlo come illuminante liquido sopra il trucco, e l'effetto è supernaturale». Le Z amano i glitter e i colori accesi. Osano il fluo. Sono «infedeli». Premiano il valore creato da un marchio, non il marchio in sé. Vivono sui social, hanno una gran simpatia per Tik Tok. Mintel, società che analizza i mercati, ha creato per definirle l'acronimo AVID, (Approaching adulthood, Video driven, Influencer aware and Digital natives). Inclusività e body positivity fanno parte del pacchetto. La blogger Grace Victory parla liberamente del suo corpo sul canale Youtube The Ugly Face of Beauty rifuggendo dagli standard imposti dalla moda o da chiunque altro. L'acne non si nasconde più (vedi l'hashtag #acnepositivity ). Zandra Azariah Cunningham, diciannovenne di Buffalo, New York, è diventata un caso con Zandra Beauty una linea di prodotti naturali. Nudestix, fondata dalle sorelle adolescenti Ally e Taylor Frankel e Beauteque creata da Elina Hsueh quando aveva sedici anni, con la bellezza coreana come ispirazione, sono già brand consolidati. Hanno inventato qualcosa che non c'era o, se c'era, non aveva tutto. Compresa la bontà. Zandra devolve il 10% dei profitti a un'associazione per l'istruzione delle ragazze, mentre Kylie Jenner (clan Kardashian), founder di Kylie Cosmetics, dona cifre importanti a Teen Cancer America. Le icone Gen Z sono meno top model e più ragazze con una personalità. Ava Max (vero nome Amanda Ava Koci, americana di origini albanesi) anti-Barbie travolta dal successo di Sweet but psycho, disco di platino, va in giro con una bionda chioma asimmetrica (corta da un lato. lunghissima dall'altro) . Billie Eilish, cantante, idolo teen, classe 2001, si è imposta con un hair look eccentrico (ricrescita verde acido e lunghezze nero corvino ) che ha fatto subito tendenza. Originali contrasti di colore fra davanti e dietro, frangia e punte, senza una regola precisa. E vogliamo parlare di Rowan Blanchard? Attrice (Alexandra Cavill nella serie Snowpiercer) e attivista, ha scritto un saggio sul femminismo intersezionale. Si definisce queer, fluida. Il suo beauty look parte da un taglio pixie vagamente vintage, labbra nude ed eye liner bold coloratissimi: uno stile ispirato ai primi anni 2000. Ma ci sono anche fenomeni come Millie Bobby Brown, la straordinaria «Undici» di Stranger Things. Con i suoi 50 milioni di follower è in grado di influenzare un'intera generazione. Adora gli Anni 90: ha postato su Instagram una foto con i mezzi codini che ricordano Emma Bunton delle Spice Girl. Tra cerchietti e scrunchie, i suoi beauty look sembrano usciti dalla mitica serie Beverly Hills 90210. Ovviamente ha creato una sua linea, Florence by Mills, da Douglas. Tutte hanno in comune lo stile giocoso e rilassato. Amandla Stenberg, 23 anni, che pure è serissima e impegnata, si diverte con gli eyeliner colorati e i capelli afro (ha avuto anche le treccine blu). Due volte nella lista dei teenager più influenti d'America non è solo la star di Hunger Games ma un simbolo per la comunità LGBT. Si è definita «non binaria» e fluida anche nelle scelte di make-up. Mixa ombretti con texture diverse (creme e polvere) e li applica con le dita per creare smokey eyes originali rifiniti con un velo di gloss o una cascata di glitter effetto 3D. Le ultime new entry (grazie a Netflix) sono Phoebe Dynevor ( Bridgerton) e Anya Taylor-Joy (La Regina degli scacchi) piuttosto fashioniste, ambasciatrici di un certo bon ton: naturalissime, mai abbronzate, sopracciglia spazzolate verso l'alto, pelle luminosa e curata. Nel beauty case hanno un segreto: le acque idratanti da vaporizzare sul viso per essere sempre fresche. Giulia Sinesi, influencer autrice di Vitamine di beauty (DeAgostini), racconta una generazione meno disposta a seguire mode effimere, più attenta alla cura di sé, «per questo su Instagram, vorrei parlare a anche d'altro, di benessere di alimentazione, medicina estetica ». E, sotto il tema della bellezza c'è anche tanto self empowerment: ragazze che credono in se stesse. Per guardare in casa nostra, Elodie, oltre a cantare, ha firmato con Sephora una capsule collection. Gli ombretti sono dedicati alle donne che l'hanno ispirata: la sorella, Fay, l'amica e collega Myss Keta, la cantautrice Joan Thiele. «Questa palette racconta che anche nella diversità c'è la bellezza. Imparando dagli altri, possiamo vivere vite che non sono la tua, ed è una grande possibilità». Sì, il vento è cambiato. Benedetta Porcaroli e Alice Pagani (Chiara e Ludovica nella serie Baby) promesse mantenute del cinema italiano che piacciono molto alla Gen Z, ammettono difetti e fragilità, anzi, ne fanno un punto di forza. Le loro idee beauty sono imitatissime. Benedetta, volto della fragranza «In Love With You» e «Stronger With You» di Emporio Armani: smokey eyes, sopracciglia naturali, rossetto opaco intonato al vestito. Alice: eyeliner, molto mascara, labbra glossy, niente fondotinta per coprire le lentiggini. In linea con il comandamento Self expression, no perfection.

Massimo Sanvito per "Libero Quotidiano" il 5 agosto 2021. Il ragazzino che esce di casa nel pomeriggio e rientra la sera, nervoso e con gli occhi rossi. Quello che ha iniziato a frequentare nuovi amici e finisce la paghetta prima del solito. Quell’altro che nasconde contanti e nuovi vestiti nell’armadio. I genitori fiutano, capiscono che c’è qualcosa che non va, ma spesso fanno finta di nulla sperando che sia il tempo a ristabilire l’ordine delle cose. E invece no. Fino all’ultima spiaggia, popolata dagli investigatori privati che si mimetizzano tra la folla e si appostano per carpire relazioni, atteggiamenti, espressioni. Il covid ha finito per devastare il tessuto sociale dell’intero paese e i disagi psicologici degli adolescenti, che si traducono in ludopatie, uso e abuso di alcol e droga, sono diretta conseguenza di questo maledetto virus. Il boom di giovanissimi fatti seguire nei loro spostamenti da mamme e papà che hanno più di un sospetto è servito. «Nel post pandemia stiamo assistendo a un’impennata delle richieste di investigazioni private per quanto riguarda le dipendenze dei minorenni. I genitori hanno le armi spuntate e si rivolgono a noi, desolati. Oltre a gioco e droga stanno aumentando anche le richieste sui movimenti di ragazzini che appartengono a baby gang e si macchiano di violenze e vandalismi», spiega Luciano Tommaso Ponzi, nipote del grande Tom, titolare dell’omonima agenzia con sedi a Milano, Brescia e Verona, nonché presidente nazionale della Federpol (Federazione Italiana degli Istituti Privati per le Investigazioni, le Informazioni e la Sicurezza). Un fenomeno che riguarda tutta Italia ma che si concentra prevalentemente al nord, soprattutto a Milano e nel suo vasto hinterland di periferie multietniche. Il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, durante la seduta della commissione Infanzia ha snocciolato una serie di numeri e dati che riproducono una fotografia chiara di ciò che sta succedendo tra i più giovani.

STUPEFACENTI Nel 2020, i minori segnalati all’autorità giudiziaria per reati connessi agli stupefacenti sono stati 915 (il 20% stranieri), di cui 322 sono finiti in manette. Da gennaio a oggi, invece, sono stati denunciati altri 491 ragazzini, tra cui 44 appena quattordicenni. Ma non è tutto, perché l’anno scorso le forze dell’ordine hanno sequestrato oltre 58 tonnellate di stupefacenti, con un incremento del 40% rispetto al 2019. A farla da padrona tra le regioni, secondo le statistiche del Viminale, è la Lombardia con 159 minori coinvolti. Certo, il lavoro degli investigatori italiani – 12.500 addetti per un fatturato di mezzo miliardo di euro all’anno – non si concentra esclusivamente sulla sfera privata delle persone. C’è il settore aziendale, quello commerciale, quello assicurativo, quello che si occupa della difesa nei processi, quello degli steward e dei “buttafuori”. Le tariffe orarie? Attorno ai 40 euro. 

FURBETTI E se la pandemia ha prodotto un aumento significativo delle richieste di investigazione su minorenni con dipendenze, allo stesso tempo ha diminuito i casi legati alla pessima abitudine della malattia del venerdì o del lunedì. Ovvero quella che fino a un anno fa colpiva sistematicamente i dipendenti che volevano allungarsi il fine settimana. I furbetti, che vengono fatti pedinare dai titolari d’azienda, però non mollano. E tocca agli investigatori documentare le loro bugie. In provincia di Brescia, un “lavoratore” è stato beccato mentre si rilassava al mare due giorni con tanto di permesso 104. Mentre un paio di pakistani che si sono visti rifiutare un mese di ferie, hanno avuto la faccia tosta di presentare un congedo parentale di 185 giorni. Gli 007 di Ponzi hanno scoperto che mentre le loro famiglie erano a casa si erano imbarcati per l’oriente pensando di passarla liscia. Tutto ciò si chiama truffa. «L’assenteismo, contrariamente a quanto si possa pensare, è maggiore nel privato. Magli imprenditori, dopo il covid, tollerano sempre meno queste situazioni e si rivolgono a noi. Durante quest’ultimo anno così difficile hanno garantito posti di lavoro e non ci stanno a farsi prendere in giro», spiega Ponzi. Già, le difficoltà del covid. L’osservatorio della Federpol, in collaborazione con le 102 prefetture italiane, ha messo in luce numeri inequivocabili. Una trentina di agenzie di investigazione chiuse a Roma, una ventina a Milano. Zero ristori. Perdite economiche ma anche umane. «In media riceviamo 4/5 richieste al giorno, anche se ci sono settimane in cui i telefoni non squillano e altre in cui sono roventi. A inizio pandemia, il governo Conte ci aveva dimenticato, pur essendo le nostre delle aziende essenziali», chiude Tommaso Ponzi.

Milena Gabanelli e Simona Ravizza per il "Corriere della Sera" il 19 luglio 2021. Giovani maschi che nel rapporto di coppia soffrono di ansia da prestazione e hanno difficoltà a eccitarsi. Giovani ragazze convinte che il sesso sottomesso sia normale. È un fenomeno recente, ma in crescita, e molto osservato dagli specialisti di tutto il mondo, che lo attribuiscono ad una associazione distorta dell'erotismo sviluppata fin dall'adolescenza con il consumo precoce della pornografia. Da sempre il porno accompagna la storia dell'umanità, ed ha una sua funzione. Il problema è che con l'arrivo di internet è diventato un fenomeno di massa, e i contenuti pornografici sono diventati via via più spinti e violenti, proprio perché accessibili a chiunque, in qualunque momento, in ogni luogo. In Italia 9 adolescenti su dieci tra i 10 e i 17 anni usano il cellulare e si collegano quotidianamente a Internet. Mettendo insieme decine di studi scientifici internazionali, si registrano dati preoccupanti. Ci ha aiutato a leggerli la criminologa e ricercatrice presso la Middlesex University di Londra Elena Martellozzo e la Polizia Postale: a livello globale il 30% dei bambini fra gli 11 e i 12 anni vede pornografia online. In Italia il 44% dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni. Poco più della metà dei ragazzini che hanno guardato pornografia online afferma di averla cercata volontariamente (59%). Un po' meno le ragazze (25%). I video sono vietati ai minori di 18 anni, ma nella pratica l'accesso a questo tipo di contenuti non ha «barriere». Talvolta può essere richiesta la registrazione in alcuni siti di streaming. In questo caso la verifica effettuata dal gestore del sito è basata unicamente sulle informazioni fornite dall'utente, e non su riscontri documentali. Spesso la registrazione consiste nel creare semplicemente un account con e-mail e password, mentre i siti a pagamento richiedono l'utilizzo di una carta di credito. I dati ufficiali sui visitatori mensili di siti porno contano soltanto i maggiorenni, e danno comunque cifre impressionanti: in Italia, secondo la piattaforma marketing Semrush, il sito più frequentato è Pornhub, con 20 milioni di visitatori unici al mese, di cui il 16% dichiara un'età tra i 18 e i 24 anni. Il video porno non è sempre cercato volontariamente dagli adolescenti, ma può apparire perché condiviso da altri amici, oppure viene visto accidentalmente (per pop-up, entrando in siti inappropriati per sbaglio, o per curiosità durante ricerche online). I contenuti pornografici sono molto diffusi nei canali di messaggistica istantanea, soprattutto WhatsApp e Telegram, dove gira anche materiale pedopornografico. Parallelamente circolano anche i cosiddetti file gore, ossia immagini e video, perlopiù scaricati dal Dark Web, con scene di omicidi, sgozzamenti, incidenti molto violenti. Secondo gli esperti il mix di queste immagini (porno, pedo e gore), oltre a creare negli adolescenti aumento dell'adrenalina ed eccitazione sessuale, viene anche usato all'interno dei gruppi di minori per ingaggiare una sorta di gara a chi ha lo stomaco più forte assurgersi a leader. Qual è la reazione dei giovanissimi la prima volta che vedono sesso violento, dove le donne sono sottomesse, degradate, e felici di assecondare ogni desiderio maschile? Il 27% rimane scioccato, il 24% confuso, il 17% eccitato. La seconda volta le percentuali scendono rispettivamente all'8% e al 4%, mentre l'eccitazione sale al 49%. Dunque, superato il primo impatto, diminuisce il disgusto e cresce l'eccitamento. Gli adolescenti esposti con regolarità a video e immagini di porno spinto, sono portati ad avere atteggiamenti sessisti e più aggressivi: il 70% dei ragazzi percepisce le donne come oggetti sessuali, contro il 30% di chi non li guarda. Il 34% dei minori ha riconosciuto di aver fatto pressioni sulla partner per potersi toccare le parti intime o avere rapporti sessuali; il 17% ha invece ammesso di costringere la partner a compiere questi atti. Alla domanda «La pornografia online ti ha dato delle idee sui tipi di sesso che vuoi provare?», il 44% degli adolescenti maschi, e il 29% delle femmine hanno risposto positivamente. E se il sesso della pornografia online è percepito come realistico, sale anche la convinzione che il sesso occasionale sia più normale di quello all'interno di una relazione stabile. Questo tipo di giovanissimo consumatore fa più facilmente «sexting», ovvero invia o chiede alla propria partner di inviare immagini di nudi o di parti intime: il 48% contro il 25% di chi non guarda porno. Le conseguenze possono essere devastanti. Se c'è consenso non c'è reato, ma sappiamo che troppo spesso le immagini vengono condivise con gli amici, e il minore che le diffonde per primo incorre nel reato di revenge porn , gli altri nel reato di diffusione di immagini pedopornografiche. Nella pratica vuol dire che se qualcuno segnala o denuncia, si attiva l'iter giudiziario che porta dritti ad un processo. Nel 2020 i minori denunciati per revenge porn sono stati 13, per reati di pedopornografia 118, con un aumento del 490% negli ultimi 5 anni. E chi ha compiuto 18 anni rischia fino a 6 anni di reclusione. I genitori troppo spesso non sanno, o fanno finta di ignorare questo contatto con le immagini del sesso da parte di bambini sempre più piccoli, e in mancanza di una educazione sessuale sana e corretta da parte della famiglia e della scuola, il punto di riferimento per tanti ragazzi è il modello pornografico offerto dalla rete. Anche la dipendenza dal consumo continuo è meno rara di quel che si crede (8%). Gli studi di psicologia concordano: le prime esperienze di autoerotismo danno l'impronta. Allora quale sarà l'effetto sulla futura vita affettiva e sessuale di quei bambini e adolescenti, visto che la vita reale è tutt' altra storia? Gli studi clinici rilevano per i maschi la difficoltà a eccitarsi nell'intimità con un partner, proprio perché gli stimoli non corrispondono alle immagini assimilate nell'utilizzo precoce e protratto della pornografia. Secondo i dati della Fondazione Foresta, nel 2005 solo l'8,8% dei soggetti intervistati dichiarava di registrare dei disturbi della funzione sessuale (mancanza di desiderio, disfunzione erettile), mentre oggi i soggetti con disturbi dichiarati sono addirittura il 26%, con una forte incidenza di problematiche legate alla riduzione del desiderio (10,4%). Sintomo di un condizionamento psicologico che viene messo in relazione allo squilibrio fra messaggio digitale e contatto con la realtà. Per i genitori parlarne a casa con i loro figli può funzionare di più rispetto alle misure di parental control , ossia ai blocchi online che inibiscono l'accesso a determinati siti, o che permettono a un genitore di controllare cosa vedono i loro figli e per quanto tempo. Ogni limitazione informatica però è facilmente raggirabile dai nativi digitali. Raramente però i genitori hanno competenze tecnologiche e strumenti culturali per gestire da soli una sfera così complessa. Di «educazione sessuale» nelle scuole si parla da decenni, ma non si è mai fatta, al contrario di ciò che avviene nella maggior parte dei Paesi europei. Si tratta di introdurre una materia specialistica ampia, che coinvolge i temi della salute, la sfera degli affetti e delle emozioni, per accompagnare ad uno sviluppo sessuale sano, consapevole ed equilibrato. Ci ha provato qualche mese fa il ministro Patrizio Bianchi dichiarando pubblicamente: «Il sesso è una parte fondamentale degli affetti, che sono parte della nostra vita, e la scuola se ne deve occupare perché sta dentro all'idea che a scuola stiamo formando i nostri ragazzi alla vita». Eppure, nonostante le evidenze, ogni tentativo viene smorzato. Secondo Pro Vita & Famiglia onlus sarebbe «un incentivo a praticare la sessualità in età molto precoce» e invita a «rispettate il primato educativo dei genitori». Nella realtà dei fatti al primato educativo e ad avviare verso la precocità ci sta pensando la Rete.

Gustavo Bialetti per "la Verità" il 20 luglio 2021. Allarme porno in Via Solferino. Quasi un adolescente su due ammette di guardare filmati a luci rosse su computer e telefonini e di questi, uno su quattro racconta di avere problemi con l'altro sesso nell'aver relazioni «normali». Insomma, urge una massiccia opera di (ri)educazione sessuale a scuola. La crociata contro il consumo di materiale pornografico online parte dalle pagine del Corriere della Sera, che ieri ha dedicato una pagina ai «danni alla vita reale» che questi video creano nei ragazzi. Nell'inchiesta di Milena Gabanelli e Simona Ravizza abbondavano i dati sul consumo di porno tra i minorenni. Cifre basate su «ammissioni» di adolescenti sono state utilizzate per mettere nello stesso pentolone «normali» immagini hard, filmati violenti, pedofili e revenge porn. Ossia, comportamenti banali e reati gravi. Indicativa anche la generalizzazione, decisamente «sessista», con cui iniziava l'articolo: «Giovani maschi che nel rapporto di coppia soffrono di ansia da prestazione e hanno difficoltà a eccitarsi. Giovani ragazze convinte che il sesso sottomesso sia normale». Come se il porno online non offrisse in abbondanza padrone e sottomissione maschile. Nessuna menzione, poi, per la pornografia a tema omosessuale o per quella realizzata per il consumatore donna, tanto per uscire dallo stereotipo boss con la segretaria. Invece il Corriere fa passare il concetto che il porno non sia mai guardato per curiosità o divertimento e ne approfitta per chiedere più educazione sessuale nelle scuole, visto che le famiglie «non bastano». È lo stesso giornale che due settimane fa inveiva contro l'Ungheria di Orbán per la sua legge a tutela dei bambini, che vieta la messa a disposizione degli under 18 di materiale pornografico.

Silvia Nucini per “Vanity Fair” il 18 luglio 2021.  Più informati dei loro genitori, più aperti alle esperienze, ma anche vittime dell’immaginario del porno, del giudizio dei social e della mascolinità tossica. Dieci adolescenti ci raccontano che cos’è per loro il sesso al di là dei nostri pregiudizi 

Alessandra 17 anni, Lecce

«Per me il sesso è qualcosa da fare con qualcuno a cui vuoi bene. So che non è così per tutti, c’è chi lo fa a caso, ma io invece devo sentire che dell’altro mi posso fidare: di lui e del sentimento che prova per me. Insomma, devo sentirmi amata e rispettata. Non credo che al giorno d’oggi il sesso sia ancora un argomento tabù, ma noto che si parla pochissimo del desiderio e dei desideri. Anche per me è un tema molto intimo che faccio fatica a condividere con le mie amiche e persino con il mio ragazzo. Il sesso è qualcosa che mi ha dato confidenza col mio corpo: c’è stato un periodo difficile nella mia vita e ne porto ancora i segni addosso, ma ora è passata e ci sono riuscita anche grazie ai ragazzi che ho avuto. Ora mi sento una persona davvero forte». 

Tomaso 15 anni, Verona

«So che in questo momento tutti vogliono definirsi in qualche modo, io invece ho scelto di non mettermi addosso nessuna etichetta: sono semplicemente una persona aperta alle esperienze. Penso che tutte le sigle del mondo Lgbt abbiano avuto un senso e un’importanza in un movimento di liberazione e di lotta per i diritti, ma ora siamo arrivati a un eccesso, e le caselle mi sembrano delle costrizioni mentali. Per me l’unica definizione che conta è quella sul genere nel quale ci si identifica, perché chi ti sta di fronte non usi il pronome sbagliato, mentre tutto ciò che è orientamento sessuale non mi interessa. Quelli della mia generazione stanno rompendo tanti tabù, ma non è facile: io sono stato insultato e inseguito solo perché avevo lo smalto nero. Al momento mi piace una ragazza: le ho detto della mia apertura, mi ha risposto che la vede esattamente come me».

Alessia 17 anni, Catania

«Io credo che il sesso e il sentimento siano due cose indipendenti: si può provare attrazione fisica anche senza essere innamorati. Anche perché il sentimento è qualcosa di grande e non è sempre facile provarlo. Io ho la fortuna di avere un ragazzo con cui riesco a tenere insieme le cose. La mia prima volta è stata con lui ed è stato super rispettoso, ha sempre aspettato che prendessi confidenza con le situazioni. Abbiamo imparato insieme: si possono fare mille discorsi con le amiche, però alla fine ti conosci solo sperimentando. Nonostante ci siamo evoluti ci sono ancora tanti giudizi intorno al sesso: se lo fai troppo presto, se lo fai troppo tardi, se lo fai con qualcuno che non è il tuo fidanzato. E ci sono anche tante paure: la gravidanza, le malattie. Sarebbe giusto poter parlare di queste cose in famiglia (nella mia lo facciamo), ma se no ci sono tante pagine utili sui social».

Andrea 17 anni, Torino

«Siamo una generazione cresciuta immersa dentro contenuti sessuali: da bambini in tv vedevamo le veline, le pubblicità sexy e poi è arrivato Instagram dove tutto è allusione. Credo che questo ci abbia dato una visione molto distorta del sesso e ci abbia anche un po’ rovinato la magia. Ho visto i giornaletti porno che andavano ai tempi di mio padre e mi sembrano meno espliciti di molti contenuti che si trovano liberamente sui social, e che anche i bambini possono guardare. Io ho cercato di stare il più lontano possibile da tutto questo condizionamento, di vivere la mia sessualità come una cosa solo mia, di cui non devo rendere conto a nessuno, e ho sempre cercato partner con una visione limpida, ma non è facile. Tante ragazze sono vittime di questa idea di dover essere super sexy: sui social le vedi aggressive, poi le incontri e sono spaventate e non hanno nessuna esperienza».

Alice 17 anni, Milano

«Penso che se la mia generazione ha un rapporto sano con il sesso il merito sia molto dei nostri genitori che ci hanno insegnato il rispetto per le donne e che l’uomo non è quello che comanda. Noi, in cambio, credo stiamo dimostrando loro che l’omosessualità è una cosa assolutamente normale e che l’identità di genere non è un dato scontato, ma su cui si possono fare delle scelte. Ma nella formazione su questi temi ha tanta importanza, oltre alla famiglia, anche la scuola: il corso di educazione sessuale che ho fatto alle elementari mi ha tolto dall’imbarazzo e dalla sensazione che il sesso sia un tema tabù. Per me è una cosa bella, che si fa con qualcuno che è speciale. Ho un’idea un po’ romantica anche della prima volta che secondo me segna l’inizio di una fase nuova e importante del rapporto. Questo almeno in teoria, perché poi in pratica sento i racconti di tante prime volte che non sono per niente così».

Maddalena 15 anni, Frosinone

«Tra i miei compagni di scuola il sesso è un argomento di lotta e di pregiudizi: ci si vanta, si giudica. C’è una pressione sociale sul fare l’amore: devi farlo presto e poi anche raccontarlo. Solo così molti si sentono adulti. Io la vedo in modo completamente diverso: per me è una parte così naturale della vita che non c’è proprio niente da dire. Vivo in una realtà piccola, ma ho la fortuna di avere amici in giro per l’Italia, cosa che mi ha reso un po’ più aperta della media dei miei coetanei. Frequento una scuola di politica dove parliamo di emancipazione femminile anche dal punto di vista sessuale e discutiamo di orgasmo, piacere e richieste, tutti argomenti su cui le mie amiche sono imbarazzatissime. Io cerco di diffondere un po’ di informazione sul tema condividendo dei post sui miei social. Purtroppo per la mia esperienza la scuola si è sempre disinteressata di fare educazione sessuale, e invece sarebbe importantissimo». 

Giovanni 17 anni, Bologna

«Penso che il sesso sia un po’ sopravvalutato, ma forse lo dico perché non mi è mai capitato di farlo con qualcuno che amavo davvero. Erano cose occasionali, a cui non dici no, ma… Sono arrivato alla mia prima volta credendo di sapere tutto perché avevo guardato un sacco di porno. Ma poi ho capito che non sapevo proprio niente e che il porno è tutta una finzione, per fortuna le mie prime ragazze avevano un po’ più esperienza di me. Credo che tra i ragazzi ci sia ancora questa idea che devi essere un maschio alfa, una forma strisciante di mascolinità tossica che ha stancato sia le ragazze che anche noi maschi. Mi sembra che tutta questa ondata dell’Lgbt abbia paradossalmente rafforzato i maschi tossici, che si sentono una minoranza e quindi rivendicano con più forza le loro idee machiste. Secondo me dietro uno che si vanta di essere un maschio alfa c’è solo un ragazzo fragile che si è inventato un personaggio dietro cui nascondersi».

James 17 anni, Trieste

«Ho passato molto tempo a chiedermi se mi piacessero i ragazzi o le ragazze e siccome non riuscivo a darmi una risposta che non cambiasse, ho smesso di farmi la domanda. Sono un ragazzo transgender, ma non è la prima cosa che dico quando mi presento a qualcuno: lo specifico solo se c’è un possibile coinvolgimento sessuale, o romantico. Per tutti sono James, e basta. Essere trans non ha mai influenzato in alcun modo il mio rapporto con il sesso: ho cominciato a farlo con una persona con la quale c’era confidenza e questo mi ha fatto sentire sicuro anche in tutte le storie che sono venute dopo. La maggior parte delle persone che frequento sono del mondo Lgbt ed è una cosa che mi aiuta a non dover dare troppe spiegazioni e a non scontrarmi con i pregiudizi che alcuni della mia età hanno ancora, spesso perché li assorbono in casa. Invece le persone che mi conoscono da prima che iniziassi la transizione hanno vissuto tutto con naturalezza e mi sono state vicine. Anche la mia famiglia è sempre stata aperta su tutto. Fino a 15 anni mio padre voleva, quando invitavo qualcuno a casa, che tenessi la porta di camera mia aperta. Adesso, invece, la posso chiudere». 

Matteo 20 anni, Milano

«Per molti, dopo la quarantena, il sesso è una forma di liberazione. Per me, che ho una storia con Federica da un anno e mezzo, pensare al sesso vuol dire pensare a noi due. Ormai mi fa strano anche dire “fare sesso”, “fare l’amore” mi sembra un modo più giusto per chiamare quello che facciamo, qualcosa che non ha solo a che fare con i corpi, ma anche con la testa. Prima ero uno da storie brevi, mi divertivo, mi eccitavano l’aspetto fisico e il momento. Adesso sono molto diverso. Quando sento i racconti di mia madre e dei suoi amici, penso che per la loro generazione il sesso fosse qualcosa di più libero di quanto lo sia per noi. Non c’erano i social a giudicarti, a espandere: quella foto non è più un’esperienza tra noi due, ma tra noi due e i nostri follower. Lo so, non è obbligatorio postare contenuti intimi e personali, io lo faccio per ricordare momenti importanti, e anche un po’ come gesto di possesso. Come dire: lei è mia. Non perché sia un oggetto, ma perché sono orgoglioso di lei». 

Giacomo 18 anni, Sanremo

«Ho una ragazza e sono principalmente attratto dalle donne, ma non mi definisco etero, piuttosto queer. L’anno scorso mi truccavo, ma la mia era una scelta estetica, non certo un coming out: mi piacerebbe molto che fossimo liberi di fare ciò che vogliamo coi nostri corpi, senza usarli per mandare messaggi. Queer non ce l’ho scritto nemmeno sulla bio di Instagram: mi sembrerebbe un’ostentazione. Molte delle cose che ho imparato sul sesso arrivano dal porno, che in passato ho guardato anche tutti i giorni. Il bello del porno è che moltiplica la fantasia: io arrivo fino a qui, un altro fa un passo più in là. La cosa brutta invece è che, secondo me, rende violente le persone e che restituisce un’idea terribile della donna: anche per questo cerco di guardarlo sempre meno. In futuro spero di soddisfare anche la mia parte queer. Al momento va bene così. La cosa divertente è che io e la mia ragazza ci scambiamo foto di un ragazzo che tutti e due troviamo molto bello». 

Jessica d'Ercole per “La Verità” il 26 giugno 2021. «Per me bambino, tutto quello che mi ingiungevi era senz'altro un comandamento dal cielo, non l'ho mai dimenticato, diveniva il metro determinante per giudicare il mondo. Non era permesso rosicchiare le ossa, ma tu lo facevi. Non era permesso assaggiare l'aceto, ma tu potevi. A tavola si doveva solo mangiare, ma tu ti pulivi e ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite; tu, l'uomo che ai miei occhi rappresentava la massima autorità, non ti attenevi alle ingiunzioni che mi avevi imposto», scriveva Franz Kafka in Lettera al padre, aggiungendo con sarcasmo: «Se al mondo ci fossimo stati solo noi due [], la purezza del mondo sarebbe finita con te, e con me sarebbe cominciata la sporcizia». Onorare il padre e la madre non è facile per tutti. Come scriveva Lev Tolstoj in Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo». Per cui ci sono figli che rinnegano i genitori perché da loro si sono sentiti non amati, traditi o addirittura sfruttati. Jackie Coogan, il monello che accompagnava nell'omonimo film del 1921 Charlie Chaplin, i suoi li portò in tribunale perché sperperarono i 4 milioni che lui guadagnò principalmente grazie a quella pellicola. Dopo una causa infinita Coogan riuscì a ottenere solo 126.000 di quei dollari ma, in California, il suo nome venne dato a una legge, il Coogan act, una norma a tutela dei guadagni degli attori bambini. Peggio andò a Gary Coleman che vide i genitori adottivi, in combutta con il suo manager, dilapidare tutti i suoi compensi. Solo per Il mio amico Arnold prendeva 100.000 dollari a episodio. Adottata fu anche Christina Crawford che aveva un pessimo rapporto con la madre Joan. Nel suo memorabile libro Mammina cara - divenuto poi un film con Farrah Fawcett - la giovane Crawford descrive la famosa attrice come una mamma, violenta e alcolizzata, interessata più alla sua fama che ai propri figli. Sostiene di non essere stata adottata per amore, ma per una trovata pubblicitaria: «Una volta tentò di strangolarmi». Dopo la pubblicazione le due non solo non si parlavano più ma Joan ha escluso lei e suo fratello dal testamento milionario. Odiava suo padre Danny Quinn, settimo figlio di Anthony, secondo della costumista italiana Jolanda Addolori. Nel 1997 dichiarò: «È un mostro. Sì, per anni l'ho odiato, sognavo di ammazzarlo, di spaccargli una grossa pietra in testa, di dargli fuoco». E poi: «Non parlo con mio padre da tre anni esatti. Ho troncato ogni rapporto, siamo due persone completamente diverse, con due strade diverse. Non c'è nessuna speranza di dialogo né di nient' altro tra noi due», ha ripetuto poco prima del 2001, anno della morte di Anthony Quinn. Non onora il padre pure Angelina Jolie, figlia di Jon Voight. I due non si sono parlati per 10 anni dopo la morte della mamma, Marcheline Bertrand, scomparsa nel 2007. Poi dopo una lunga terapia la Jolie decise di perdonarlo per amore dei suoi figli: «Hanno bisogno di conoscere il nonno», salvo poi ricredersi e continuare a litigare con il padre via social. Come lei suo figlio Maddox ha rinnegato il padre Brad Pitt, e, sempre come lei, ora vuole cambiare il cognome in Jolie. Infelice fu l'infanzia anche della prima moglie di Brad Pitt, Jennifer Aniston. Nel 1999 con il libro From Mother and Daughter to Friends la figlia si è scagliata contro i genitori: «Erano crudeli e mi hanno sempre fatta sentire una nullità». L'attrice ha puntato il dito contro Nancy Dow, sua madre, solita descrivere nei dettagli ogni suo difetto: «Per mia madre io ero sbagliata in tutto». Si sentiva invece tradita dai suoi, entrambe drogati e alcolizzati, Demi Moore. Nell'autobiografia Inside out racconta che da ragazza fu violentata, e che il molestatore, dopo aver fatto i suoi comodi, le disse: «Come ci si sente a essere fottute per 500 dollari?». La Moore si dice convinta che non ci fu una transizione economica ma che la madre semplicemente gli accordò il corpo della figlia quindicenne: «Fu un tradimento devastante, impossibile da perdonare». Genitori alcolizzati anche per Drew Barrymore: «I miei non sono mai stati lì per me, erano assenti, non riuscivo a gestire i miei problemi». Il padre era sempre ubriaco e la madre, quando non trascorreva le serate di festa in festa, le passava a vendere gli effetti personali della figlia star su Ebay. Così a 12 anni la piccola Barrymore era dipendente da alcol e droghe, a 13 era in un centro di riabilitazione, a 15 in tribunale per chiedere l'emancipazione. Altra star che ha chiesto l'emancipazione è Macaulay Culkin, l'indimenticabile protagonista di Mamma ho perso l'aereo. Sfruttato dai suoi - lo obbligarono a girare 15 film in sette anni - con il solo scopo di mettere le mani sul suo patrimonio da 17 milioni di euro. Il tribunale lo obbligò a restare con la mamma ma i suoi denari furono custoditi dal contabile di famiglia. Quando se ne appropriò però li dilapidò in alcol e droghe e solo dopo dieci anni e un percorso di analisi è tornato al cinema. Ha portato suo padre in tribunale anche Meghan Markle. Alla duchessa del Sussex non è andato giù che lui pubblicasse una lettera di lei sulla stampa britannica. È da allora che i due non si parlano più, lui non è stato invitato né al matrimonio reale né per la nascita di suo nipote. Ma le cose non stanno andando meglio neanche al marito, Harry d'Inghilterra, che a quanto ha dichiarato nelle sue interviste a Oprah Winfrey dopo aver divorziato dalla casa reale, ha inveito contro l'educazione glaciale di corte che a suo dire gli fu inferta dal padre, il principe Carlo. Crescita anaffettiva anche per lo scrittore Michele Mari, figlio del grande designer Enzo Mari, che per tutta la vita ha avuto un rapporto difficile con un padre «spartano, intransigente, drastico, dogmatico. Un carattere impossibile, incapace di dialogare. Se volevo sopravvivere dovevo nascondermi in me stesso []. Da piccolo sognavo che si aprissero delle botole che lo inghiottivano. Era il sogno di un bambino angosciato», senza però mai rinnegarlo davvero: «Credo però di averlo anche amato molto, con un sentimento per me irrisolto». Freddo e impassibile nei confronti dei figli era Joe Jackson, papà di Michael: «Un padre attento, più di ogni altra cosa, al nostro successo commerciale». Ma da piccolo il re del pop voleva solo un papà che gli dimostrasse amore, «e mio padre non l'ha mai fatto. Non mi ha mai detto ti voglio bene guardandomi negli occhi, non ha mai giocato con me. Non mi ha mai portato a cavalcioni, non mi ha mai buttato un cuscino o un palloncino d'acqua». Per anni il rapporto fra i due fu impossibile ma alla fine Michael lo perdonò: «Col tempo, l'amarezza ha lasciato il posto alla grazia. Più che rabbia, sento assoluzione, più che una rivincita voglio riconciliazione. E la rabbia iniziale ha lasciato il posto al perdono». Ed è proprio questo, secondo papa Francesco, lo spirito del quarto comandamento. Onorare il padre e la madre anche se questi non sono perfetti perché dice il Pontefice: «Può essere facile, spesso, capire se qualcuno è cresciuto in un ambiente sano ed equilibrato. Ma altrettanto percepire se una persona viene da esperienze di abbandono o di violenza. La nostra infanzia è un po' come un inchiostro indelebile, si esprime nei gusti, nei modi di essere, anche se alcuni tentano di nascondere le ferite delle proprie origini. Ma la Quarta Parola dice ancora di più. Non parla della bontà dei genitori, non richiede che i padri e le madri siano perfetti. Parla di un atto dei figli, a prescindere dai meriti dei genitori, e dice una cosa straordinaria e liberante: anche se non tutti i genitori sono buoni e non tutte le infanzie sono serene, tutti i figli possono essere felici, perché il raggiungimento di una vita piena e felice dipende dalla giusta riconoscenza verso chi ci ha messo al mondo».

Chiamano "sfigata" e "fallita" la figlia minorenne: genitori prosciolti a Lecce. "Metodi educativi eccessivi ma legittimi". Francesco Oliva su La Repubblica il 27 maggio 2021. La ragazza aveva denunciato i genitori ai carabinieri, spiegando di essere vittima di insulti, minacce e anche violenze fisiche. Le indagini hanno accertato che gli episodi riferiti erano reali ma sporadici e inseriti in un contesto "di presunti comportamenti scorretti" della ragazza. Dopo la denuncia la famiglia si è riappacificata e anche questo ha pesato sulla decisione di archiviare l'indagine. Dare della "sfigata" o della "fallita" alla figlia minorenne non è necessariamente un maltrattamento. Per il giudice del Tribunale di Lecce, Marcello Rizzo, si tratta di "modi di educare che, per quanto eccessivi, hanno l'intento di correggere comportamenti scorretti". È uno dei passaggi riportati nelle motivazioni di una sentenza con cui una coppia di genitori, residente in un comune del Salento, è stata prosciolta dall'accusa di maltrattamenti in famiglia aggravati. 

Letizia Gabaglio per "repubblica.it" il 30 aprile 2021. Qual è il rapporto dei giovani con la sessualità? Come si proteggono dalle malattie sessualmente trasmesse? In che modo si prendono cura della loro salute riproduttiva? Fondazione PRO ha voluto capirlo intervistando mille ragazzi napoletani tra i 16 e i 19 anni e i risultati, che per gli esperti sono rappresentativi di ciò che succede in tutta Italia, sono allarmanti. Il 65% dei giovani non ha mai parlato di sessualità con il proprio padre, 8 su 10 visitano siti pornografici e uno su quattro ha rapporti sessuali non protetti. Ancora. Una ragazza su tre e un ragazzo su due assumono regolarmente superalcolici nel weekend, la metà degli adolescenti passa su internet più di 5 ore al giorno DAD esclusa, il 25% delle giovani e il 18% dei loro amici fumano abitualmente, il 25% dei maschi e il 10% delle femmine ha fatto uso di droghe leggere, una su due e uno su tre non praticano alcun tipo di sport. Dati paradigmatici che ci raccontano una generazione che è inoltre lontanissima dalla copertura contro l’HPV: a essersi vaccinati sono meno della metà delle adolescenti contro il 12% dei loro coetanei. Solo un ragazzo su cinque si è sottoposto a una visita dall’urologo. “Partiamo dai primi dati epidemiologici raccolti nell'ambito del progetto 'La maleducazione sentimentale dei giovani' per capire come invertire la rotta, parlando con i ragazzi e fornendo loro gli strumenti necessari per vivere una vita sana e piena”, ha affermato Vicenzo Mirone, Ordinario di Urologia dell'Università Federico II di Napoli e Presidente di Fondazione PRO. Il progetto prevede il coinvolgimento degli studenti in incontri formativi e gruppi di lavoro interni alla scuola; la creazione di un Teen Channel, una piattaforma liberamente consultabile sulle tematiche sentimentali e sessuali; la realizzazione di uno spot e la possibilità di fare visite con urologi, nutrizionisti, medici dello sport, psicologi e sessuologi a bordo della Unità Mobile. “Negli ultimi 40 anni il numero di adolescenti obesi è aumentato di 10 volte e in Italia la percentuale si è quasi triplicata rispetto al 1975. Il nostro messaggio deve essere chiaro: volersi bene è facile, vivere meglio è possibile. Dobbiamo alfabetizzare ragazze e ragazzi sui sentimenti e arriveremo poi a parlare di sessualità, rompendo quel muro di silenzio costruito con i mattoni della vergogna e il cemento di Dott. Google. L’ambizione è quella di proporre un format che divenga un modello per l’intero Paese, portando l’educazione affettiva dentro i programmi scolastici, com’è attualmente per quella civica”, spiega ancora Mirone. I dati di Napoli, infatti, si possono considerare rappresentativi di ciò che succede in tutto il Paese e richiamano fortemente l'attenzione di tutti sull'importanza della prevenzione e del rapporto padre-figlio che deve essere improntato non al divieto ma alla discussione e portare quindi all’adozione di stili di vita corretti, passando per una sana alimentazione, una buona attività fisica e una corretta attività sessuale. “L’educazione all’affettività era centrale prima della pandemia, lo è ancor più adesso. Anzi, ora è decisiva”, ha dichiarato Marco Rossi Doria, presidente di “Con i Bambini”. “I ragazzi e le ragazze durante questa emergenza sanitaria sono stati privati della socialità, dei legami e dalle relazioni di affettività. Sono stati molto responsabili, anche se il racconto che passa dai media spesso mette in luce solo i comportamenti devianti, la spavalderia e gli assembramenti. Non è così, non lo è nella maggioranza dei casi. Lo vediamo anche dai tanti racconti che riceviamo dai ragazzi che partecipano ai nostri contest gratuiti, dai quali emergono ansie e paure, ma anche tanti sogni e speranze, rivolti principalmente all’esigenza di ritrovare l’affettività familiare, amicale, sentimentale, un pezzo della loro vita che è rimasta sospesa”. La campagna "La maleducazione sentimentale dei giovani" è stata realizzata grazie al contributo della Fondazione Banco di Napoli. “Abbiamo fortemente sostenuto questo progetto insieme alla Fondazione PRO, convinti della necessità di promuovere tra le giovani generazioni l’educazione ai sentimenti collegata alla sessualità. Come diceva Aldo Masullo, dobbiamo aiutare i ragazzi ad imparare il lessico delle emozioni – ha dichiarato la Presidente, Rossella Paliotto -. Soprattutto tra coloro che subiscono le insidie della strada e sono privi di riferimenti morali”. Non a caso questo progetto parte dal quartiere Forcella e vuole rappresentare un progetto pilota per l’intera città di Napoli, per tutto il Mezzogiorno e per l'Italia. “Questa attività rivolta al benessere dei ragazzi è un investimento per il futuro del nostro Paese”, ha dichiarato la Ministra per il Sud e la coesione territoriale, Mara Carfagna. “E con quest’ottica che stiamo lavorando al Piano nazionale di ripresa e resilienza che rappresenta un tassello del grande piano europeo, non a caso chiamato Next generation Eu. La politica dovrebbe mantenere costantemente lo sguardo rivolto alle prossime generazioni, ma purtroppo spesso si guarda più al presente e al consenso immediato”.

Educazione ai valori. L’idea del progetto è frutto degli insegnamenti del Vicepresidente di Fondazione PRO, Aldo Masullo, filosofo, politico e Professore Emerito di Filosofia Morale alla Federico II di Napoli. “La maleducazione sentimentale dei giovani come tema per un progetto educativo, nasce da una ostinata convinzione di Aldo: conoscere il lessico delle emozioni serve a ri-conoscerle e a poter scegliere in pienezza la vita che si vuol vivere”, ha spiegato il figlio, Paolo Augusto Masullo, Ordinario di Antropologia filosofica e Biodiritto alla Federico II di Napoli, Dipartimento di Scienze Politiche. “Occorre infatti offrire ai giovani una formazione su modelli valoriali che, innanzitutto, assumano come fondamentale il riconoscimento e il rispetto per la persona, uniti questi a una educazione volta al divenire capaci di dar nome e voce a ciò che si sente, pur nell’aporeticità del sentire, il patico. In questo tentativo di intervento sulla radice culturale, sulle idee, sugli stereotipi e sull’ambiente ipertecnologico in cui sono immersi soprattutto i giovani, centrale è recuperare, tra l’altro, la fondamentale relazione dei figli col padre”.

Leonardo Di Paco per "la Stampa" l'1 luglio 2021. Ai giovani chiedete tutto ma non di non mettere su famiglia o fare figli: uno su due vi risponderà «no grazie». Lo rileva un sondaggio commissionato dalla Fondazione Donat-Cattin all' Istituto demoscopico Noto Sondaggi: il 51% dei ragazzi interpellati ammette infatti di non immaginarsi genitore, il 30% stima che a 40 anni avrà un rapporto di coppia ma senza figli, mentre il restante 20% pensa che sarà single. Un allarme che la ministra per la Famiglia Elena Bonetti raccoglie con preoccupazione: «Il tema della denatalità, della scelta della genitorialità sempre più rimandata, è sia sintomo che causa di una situazione di difficoltà del Paese. Un Paese che non è in grado di esprimere una forza giovane, innovatrice, è un Paese che non ha prospettive di un Welfare sostenibile», spiega la ministra durante un convegno organizzato a Torino in occasione del trentennale della morte dell'ex ministro e intitolato, non a caso, "Culle vote". «Dopo l'esperienza drammatica che abbiamo vissuto questa progettazione del futuro passa dalla possibilità delle persone di immaginarsi una famiglia. O si cambia il paradigma delle politiche sociali o non otterremo mai uno sblocco in questo senso», aggiunge la ministra. Nello spiegare le ragioni per cui faticano a immaginarsi genitori i ragazzi intervistati - tutti tra i 18 e i 20 anni - parlano di fattori che riguardano la sfera sociale più che un'avversione netta alla genitorialità in sé. In particolare le preoccupazioni riguardano la carenza di lavoro (87%), seguita dall' assenza di politiche adeguate per la famiglia (69%). Una percentuale analoga di ragazzi, però, parla anche di crisi delle relazioni stabili mentre solo un ulteriore 37% ritiene i figli un ostacolo in quanto condizionano la vita. In relazione alla volontà di non avere figli i giovani possono essere divisi in tre categorie, spiegano i ricercatori: c' è chi ha un atteggiamento definito «narcisista» per cui ritiene che un figlio, e più in generale legami stabili, limitino la propria libertà; chi manifesta la paura di non potersi permettere economicamente questa possibilità e infine chi assicura di non volere figli per mancanza di fiducia nella società e nel futuro. Un concetto ripreso da Bonetti: «Il tema della denatalità viene spesso guardato dal punto di vista degli effetti devastanti che può provocare. Un Paese che non è in grado di garantire una sufficiente presenza di forza giovane, che è quella che interpreta l'innovazione e le scelte del futuro, è un Paese che non solo non ha la prospettiva di un welfare sostenibile, ma che nemmeno può interpretare quel necessario slancio di rinnovamento che di fatto possa garantire lo sviluppo per tutta la collettività». I timori sui rischi di un inverno demografico per il nostro Paese, viene ricordato dalla Fondazione, vennero denunciati proprio da Carlo Donat-Cattin: «Da ministro della Sanità, lo fece nel settembre del 1986 a Saint Vincent, e già allora sollecitava un radicale cambio delle politiche per la famiglia. Vedeva l'Italia come un paese "in scadenza" sulla base di dati che gli aveva fornito il demografo Antonio Golini». Dati confermati anche dalle proiezioni di alcune compagnie di assicurazione, che tuttavia furono contestati da alcuni giornali che accusarono il ministro di nostalgia verso politiche demografiche del ventennio fascista. Le "culle vuote" di questi anni hanno però confermato le sue previsioni».

Ragazzi sempre meno fertili? Parla Gianluca Tornese dopo i risultati dello spermiogramma. Le iene News il 21 marzo 2021. Nel servizio di Aurora Ramazzotti abbiamo chiesto a 11 influencer di sottoporsi allo spermiogramma, il test che misura la fertilità maschile. Uno di loro, Gianluca Tornese, ha ricevuto una brutta notizia e il giorno dopo la messa in onda ne ha parlato in diretta Instagram con la Iena. “È difficile per me parlarne, mi è caduto il mondo addosso”. L’influencer Gianluca Tornese parla in diretta Instagram con la Iena Aurora Ramazzotti dopo il servizio andato in onda venerdì 19 marzo in cui abbiamo chiesto a 11 influencer di sottoporsi allo spermiogramma, il test che misura la fertilità maschile. Qui sopra un estratto dalla diretta Instagram. I giovani del 2021 hanno davvero perso il 50% della fertilità rispetto ai loro coetanei del 1980? La notizia è riportata dal New York Times. Per questo con Aurora Ramazzotti abbiamo chiesto a 11 influencer di sottoporsi al test. “La conta degli spermatozoi è diminuita di più del 40% negli ultimi 40 anni”, dice Stacey Colino, scrittrice specializzata in temi di salute e psicologia. Tutto ci fa pensare che potrebbero diminuire ancora. Le cause? Clima, inquinamento, cibo, stress e tanti altri fattori legati alla modernità. “Non è ciò che mangiamo, ma quello che ciò che mangiamo assorbe dalla plastica in cui è impacchettato”, sostiene. Così abbiamo chiesto ad Angelo Sanzio, Tommy A Canaglia, Denis Dosio, Claudio Sona, Gianluca Tornese, Mariano Catanzaro, Nathan Lelli, Luca Alberici, Giampaolo Calvaresi, Marco Cucolo, Lucas Peracchi di sottoporsi allo spermiogramma e per quasi tutti loro è stata la prima volta. Uno degli influencer, Gianluca Tornese, ha ricevuto una brutta notizia e ha avuto il coraggio di aprirsi con noi in modo che quello che ha scoperto possa essere per altri un monito a farsi controllare. “Su undici influencer sono l’unico che è risultato poco fertile, quasi niente”, spiega Gianluca nella sua diretta Instagram dopo la messa in onda del servizio, nel quale il medico, alla lettura dei risultati, gli ha spiegato che “potrebbe essere una cosa momentanea. Bisogna capire la causa”. “Mettetevi nei miei panni, mi è caduto il mondo addosso”, continua. “Sono fidanzato da due anni, sogno un futuro con la mia ragazza e con dei bambini. Sentirsi dire determinate cose è un po’ dura”. Ma Gianluca ha deciso di parlarne apertamente: “il servizio è utile per tante persone e tanti ragazzi per prevenire e fare il test”. “Ho ricevuto tantissimi messaggi di conforto”, racconta a Aurora Ramazzotti. “E anche messaggi di tantissime coppie che stanno intraprendendo un percorso. Io nel frattempo ho fatto tutto il possibile, mi sono affidato a una squadra che fa tutto. Mi hanno consigliato di fare tutti gli esami e poi di rifarli tra tre mesi per vedere le differenze, nel frattempo mi hanno dato delle cure da fare. Vediamo tra tre mesi come va. Nel caso fosse davvero così ci sono altre tecniche”.  

Un "figlio pelandrone" di 50 anni: la madre ottiene dal giudice l'allontanamento. Sarah Martinenghi su La Repubblica il 16 marzo 2021. Torino, l'appello della donna: aiutatemi a mandarlo via. È un caso da codice rosso davvero insolito e particolare. Un maltrattamento diverso, messo in atto da un figlio nei confronti della madre. Una violenza, in ogni caso, come ha stabilito anche il giudice. La donna è stata costretta dal figlio a subire la sua presenza in casa fino a questi giorni. All'età di quasi 50 anni, di volersene andare per conto suo, lui non ci pensava proprio. E così a lei non è rimasta altra strada che rivolgersi ai carabinieri, prima, e alla procura, poi, per chiedere di esaudire il suo desiderio: far uscire quel ragazzone definito " un pelandrone " dal suo appartamento. "Aiutatemi a mandarlo via, voglio vivere tranquilla " ha chiesto. Il giudice ha dato l'ok e ha disposto per lui la misura dell'allontanamento chiesta dal pm Enzo Bucarelli. La presenza del figlio in casa sua è stata definita "parassitaria". Nessun lavoro, nessun contributo alle faccende domestiche, e nessuna intenzione di cambiare vita. " Gli ho anche offerto dei soldi, 300 o 400 euro al mese per andarsene, ma non ha accettato. Lui dice che sta bene lì, a casa mia", ha spiegato la donna con vera disperazione. Nessuna minaccia vera da parte del figlio, ma un atteggiamento un po' aggressivo, soprattutto di fronte alle richieste della madre di farsi una vita sua e andare a vivere con la fidanzata. Il figlio soffre anche di disturbi mentali, "ha un'insufficienza mentale lieve e un'invalidità di tipo psichico " . E l'ha minacciata: " Mi ha detto che se l'avessi sbattuto fuori di casa mi avrebbe ammazzato " ha riferito. Solo una volta lei era riuscita a convincerlo ad andarsene. " C'era ancora mio marito, ed è stato lui a volere che tornasse. Io mi sono intenerita e gli ho riaperto la porta di casa " , ha spiegato. La madre ha descritto il figlio come una persona burbera: "Non si droga, non beve alcolici, non mi aggredisce ma non vuole proprio ascoltarmi: tiene pulita solo la sua camera, ma poi non mi aiuta nelle faccende domestiche. È un pelandrone, ma ha quasi 50 anni e io non posso mantenerlo per sempre". Una volta, cinque anni fa, l'uomo avrebbe dato uno schiaffo alla madre. "Non mi ha fatto male, ma mi ha ferito. Io voglio solo che se ne vada, e ho paura che mi faccia del male anche perché quando mi ha minacciata aveva lo sguardo cattivo. E quando gli dicevo qualcosa, lui mi faceva dei dispetti, il citofono rotto, danni alla mia auto. Diceva che erano stati i suoi amici ma io lo sapevo che era lui".

 La maggioranza dei giovani immagina il proprio futuro senza figli. Chiara Pizzimenti su Vanityfair.it il 17/3/2021. Un futuro senza figli. È così che se lo aspettano la maggior parte dei giovani italiani tra i 18 e i 20 anni secondo un sondaggio commissionato dalla Fondazione Donat Cattin all’Istituto demoscopico Noto Sondaggi. Il 51% dei ragazzi interpellati non si immagina genitore. Di questi il 31% pensa che a 40 anni avrà un rapporto di coppia ma senza figli e un 20% pensa che sarà single. L’età delle persone intervistate non è quella a cui abitualmente si pensa a una famiglia, ma a farsi notare è l’assenza di prospettiva, per motivi prevalentemente sociali.

Sono soprattutto la scarsità di lavoro (87%) e l’assenza di politiche adeguate per la famiglia (69%)

Secondo i dati raccolti dal sondaggio i giovani possono essere divisi in 3 categorie: c’è chi teme che un figlio limiti la libertà, una posizione legata anche alla giovane età, c’è chi ha la realistica paura di non potersi permettere economicamente un figlio e chi non vuole avere figli per mancanza di fiducia nella società.

L’Italia vive da anni un periodo di scarsa natalità e la situazione è stata acuita dalla pandemia. Nel 2020 si contano circa 300mila italiani in meno a causa dell’aumento delle morti, mai tante dagli anni della Seconda Guerra Mondiale, ma anche dal calo delle nascite. È come se fosse sparita una città grande come Catania.

I 400mila bambini nati nel 2020 sono un record negativo nei 160 anni dell’Unità d’Italia che si inserisce in una statistica già con il segno meno. Nel 2019 erano nati solo 420 mila bambini. Sono 160mila in meno dal 2008. Nei primi anni Sessanta ne nascevano il doppio.

Quello dell’Istat è un resoconto ancora provvisorio riportato da Avvenire, ma mostra un calo stabile nell’anno del 3,25% e un crollo alla fine del 2020: meno 8,2% in novembre e meno 21,63% in dicembre, il nono mese dall’inizio del primo lockdown. Rispetto al 2019 il calo dovrebbe essere di oltre il 5%. La pandemia potrebbe aver dato il colpo decisivo a una natalità già scarsa, non sostenuta da un sistema di welfare adeguato.

 Sanità Carlo Donat-Cattin. Lo fece nel settembre del 1986 dal tradizionale convegno della sua corrente a Saint-Vincent, e seguirono diversi interventi sul tema per sollecitare un radicale cambio delle politiche per la famiglia. Donat-Cattin vedeva l'Italia come un Paese «in scadenza», destinato a contare 30 milioni di abitanti nel 2050. Dati che gli aveva fornito il demografo Antonio Golini, confermati anche dalle proiezioni di alcune compagnie di assicurazione. Ma cifre che - pur nella loro lungimiranza - vennero contestate da alcuni giornali: e il ministro venne addirittura accusato di provare nostalgia verso le politiche demografiche del ventennio fascista. Sette lustri dopo il fenomeno della «culle vuote» ha ormai i contorni di un'emergenza sociale, e conferma la validità la visione politica di Carlo Donat-Cattin di cui proprio domani ricorrono i 30 anni dalla morte. In occasione dell' anniversario la Fondazione che ne porta il nome ha commissionato all'Istituto demoscopico Noto un sondaggio che parte con un dato inquietante: su un campione di 800 giovani di tutta Italia tra i 18 e i 20 anni la maggioranza (51%) immagina il proprio futuro senza figli. E tra questi il 31% stima che a 40 anni avrà un rapporto di coppia ma senza figli e un ulteriore 20% pensa che sarà single. Non si tratta di previsioni dichiarate sull'onda emotiva del momento, un «vedo nero» legato alla pandemia. Nel valutare i motivi per cui i giovani non vogliono avere figli gli intervistati danno risposte razionali. Adducendo ragioni che riguardano la sfera sociale più che una avversione netta a diventare genitori: la carenza di lavoro in primis (87%), cui segue l'assenza di politiche adeguate per la famiglia (69%). Una percentuale analoga parla anche di crisi delle relazioni stabili, mentre solo il 37% ritiene i figli un ostacolo in quanto condizionano la vita. Secondo lo studio i giovani che non vogliono diventare genitori possono essere divisi in tre categorie.

I primi sono quelli che si potrebbero definire «narcisisti» e che considerano il fatto di mettere su famiglia, e più in generale i legami stabili, un ostacolo alla propria libertà.

La seconda categoria aggiunge una motivazione più «realista» che riguarda la paura di non potersi permettere economicamente questa possibilità.

I terzi sono i «nichilisti»: dichiarano di non volere figli per mancanza di fiducia nella società.

Un ulteriore risultato del sondaggio riguarda la percezione di sentirsi inclusi o esclusi dalla società. Il 51% vive una forte insoddisfazione in quanto non si sente «pienamente incluso», ai quali si aggiunge un 4% che invece lamenta una «esclusione totale». È quindi soltanto una minoranza, seppure sostanziosa (44%), ad autodefinirsi «inclusa». E a percepire le maggiori difficoltà di inserimento sociale sono le giovani donne. Nel campione scelto la condizione di studente lavoratore riguarda meno di un giovane su 5 (18%). La maggioranza non ha mai lavorato, mentre il 31% ha avuto qualche esperienza di lavoro ma attualmente ha scelto di dedicarsi unicamente allo studio. Infine, rispetto al proprio futuro personale la maggioranza si sente ottimista, ma se la domanda riguarda il futuro dell'Italia la quota degli ottimisti diventa minoranza (43%). Sul piano personale gli uomini sono un po' più positivi delle donne (68% di ottimisti contro il 60%). Mentre riguardo al futuro dell'Italia sono le donne ad avere un po' più di fiducia.

 (ANSA il 15 marzo 2021) Un'autoambulanza, che aveva appena effettuato un intervento per il Covid, è stata presa di mira da una baby gang la scorsa notte a Napoli. Lo denuncia, sulla sua pagina Fb, "Nessuno tocchi Ippocrate". Secondo quanto ricostruito dall'organizzazione, dopo l'intervento in un'abitazione era sceso in strada ritrovandosi un gruppo di ragazzini senza mascherina, che in barba alle norme anti-covid sostavano poco distanti - si legge sulla pagina Fb - Alla partenza del mezzo di soccorso uno di loro ha sferrato un pugno allo specchietto retrovisore e un altro si è appeso letteralmente al tetto dell'ambulanza.

Federico Fubini e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2021. Un mese fa la dottoressa Roberta Rubbino si è trovata in una situazione per lei nuova: non sapeva dove far ricoverare un paziente. Responsabile per l' area dell' età evolutiva all' Istituto Beck di Roma, un centro affiliato alla Società italiana di psicoterapia, Rubbino le aveva provate tutte. La neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I di Roma non aveva un solo letto libero. Il servizio psichiatrico dell' ospedale Sant' Eugenio neppure. Il paziente, un ragazzo di 16 anni con un disturbo grave della condotta e comportamenti impulsivi, ha finito per aspettare due giorni in un pronto soccorso. Non era sfortuna. È la pandemia, che fa anche questo, dopo anni durante i quali la crisi attorno alla salute mentale di tanti giovanissimi italiani covava sotto la cenere. Covid-19 l' ha aggravata, poi l' ha fatta esplodere. In gran parte al riparo dalle conseguenze fisiche del virus, i bambini e gli adolescenti stanno subendo quelle psicologiche da quando le chiusure scolastiche li hanno lasciati a casa. L'isolamento in una stanza, la didattica magari solo attraverso uno smartphone e un wifi instabile, le liti in famiglia nate dalla convivenza in pochi metri stanno innescando negli adolescenti una seconda epidemia. Non è un virus. È abulia, depressione, crollo della concentrazione e dell' autostima, ansia, autolesionismo. E non è solo in Italia. Uno studio sui pronto soccorso pediatrici di Torino, Cagliari e di altri 21 ospedali in dieci Paesi diversi durante la prima ondata di Covid, pubblicato su «European Child and Adolescent Psychiatry», mostra ciò che è successo in tutto il mondo: gli accessi per atti di autolesionismo in marzo e aprile 2020 aumentano dal 50% al 57%, con un' incidenza in crescita degli «intenti suicidi» e dell' isolamento come fattore scatenante. Benedetto Vitiello dell' Ospedale Regina Margherita di Torino, docente di psichiatria infantile anche alla Johns Hopkins di Baltimora, nota le stesse tendenze nel pronto soccorso del capoluogo piemontese. Ma sono diffuse anche nel resto del Paese. Vitiello il mese scorso ha pubblicato su «Frontiers in Psychiatry» uno studio basato su un sondaggio in Italia fra circa ottocento minorenni - età media, 12 anni - durante la pandemia. Conclusione: «Il 30,9% dei bambini sono ad alto rischio di disordine da stress post-traumatico». Francesca Maisano, psicoterapeuta dell' età evolutiva del Fatebenefratelli di Milano, nota sulla base di un sondaggio fra centinaia di minori che ragazzi e ragazze tendono a reagire al disagio di questi mesi in modi diversi. «I maschi con un aumento di aggressività verso il resto della famiglia - dice -. Le femmine con un attacco al corpo spesso correlato a scarsa autostima». Niente di tutto questo nasce all' improvviso, naturalmente. Che il disagio mentale dei più giovani covasse da prima di Covid lo si nota da vari segnali. In Italia le prescrizioni di metilfenidato, un farmaco contro i disordini di attenzione prescritto solo da specialisti e nel quadro di una terapia, sono esplosi: non solo 8% di dosi in più a dicembre 2020 rispetto a un anno prima, secondo la società di analisi Iqvia; anche nel 2019, prima di Covid, l' aumento annuo dei consumi era stato del 21%. È su questa realtà, osserva la dottoressa Maria Antonella Costantino, che si innesta su la duplice deriva che ha portato l' Italia a trovarsi impreparata nell' ultimo anno: sempre più bisogni e sempre meno risorse. Direttore dell' Unità operativa di Neuropsichiatria dell' infanzia e adolescenza del Policlinico di Milano, presidente della Società italiana di neuropsichiatria infantile, Costantino sapeva da prima di Covid che i pazienti minorenni erano raddoppiati nell' ultimo decennio, mentre la carenza di personale fa sì che in Italia ci siano appena 325 letti di neuropsichiatria infantile funzionanti. «L' epidemia ha fatto scoppiare un bubbone che si trascinava da tempo - denuncia Costantino -. A gennaio gli accessi alle neuropsichiatrie infantili per tentato suicidio in Lombardia sono stati 86, quasi un raddoppio su un anno prima». Tutto questo lascia una domanda: gli adulti hanno i loro ristori, ma come indennizzare bambini e teenager per la scuola e le amicizie perse con Covid? Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, misura il prezzo che i più giovani stanno pagando dall' aumento delle chiamate dei minorenni in cerca di sostegno al 1.96.96 (lo mostra il grafico in pagina). E dice: «Alla luce della pandemia, vanno ripensati i servizi di salute mentale per i minori e le competenze degli operatori». Non prima, magari, di aver reso ai ragazzi almeno parte dell' esperienza di scuola perduta. Sarebbe solo un gesto per loro. Ma è quello che ancora manca.

«Questa non è vita, spaccherei tutto»: le angosce dei ragazzi, le nostre colpe. Le voci dei giovani nei colloqui durante i ricoveri. E la denuncia del neuropsichiatra Renato Borgatti: «La didattica a distanza è stato un modo di noi adulti per pulirci la coscienza. Una scelta classista e antidemocratica» di Elena Testi su L'Espresso il 31 marzo 2021. C’è Marco, arrivato dopo aver devastato casa. C’è Luigi, angosciato dal vivere recluso negli 80 metri quadri di casa sua. Cristian, 10 anni, che ha perso il sonno a causa di quei video che i compagni gli mandano durante la dad. C’è Sonia, che ha iniziato prima a togliersi le pellicine dalle unghie, poi a tagliarsi e c’è Alessandra, che ha smesso di mangiare, ma i suoi genitori se ne sono accorti solo quando la zia l’ha fatto notare. C’è Alessia, che ha smesso di dormire, perché chattava con le amiche fino a notte fonda e poi non trovava più un motivo per alzarsi dal letto. Ci siamo tutti noi in questi brevi colloqui. C’è il futuro di un intero Paese, in questa angoscia. Nei monitor, invece, ci sono le loro camere. Un ragazzo cammina avanti e indietro. Alla fine si siede. Un altro ha accanto la madre. Lui in silenzio sul letto, lei su una poltrona che lo fissa. In altri ci sono letti vuoti con coperte di lana arancione. A osservarle così, da un monitor, non si capisce come siano realmente le stanze del reparto di neuropsichiatria infantile dell’ospedale Fondazione Mondino di Pavia. Si riesce a mettere in fila solo una serie di immagini sconnesse. Il direttore del reparto, il professor Renato Borgatti, guarda anche lui i monitor: «Con il Covid-19 abbiamo dovuto cambiare le regole: nessuno può entrare all’interno del reparto se non tamponato; anche l’accesso ai familiari è stato ridotto; abbiamo dovuto interrompere l’animazione che con grande generosità portavano avanti diversi gruppi di volontari. Per questo lei può stare solo qui, ma penso che possa capire lo stesso la situazione di emergenza che stiamo vivendo. Dal territorio ci arrivano in continuazione richieste per ricoverare ragazzi e ragazze che stanno molto male, ritirati in casa nelle loro camere o che danno sfogo alla rabbia con azioni violente. Sono aumentati i disturbi del pensiero gravi, le crisi di ansia e di agitazione. Dai pronto soccorso di tanti ospedali chiamano per tentati suicidi, comportamenti dirompenti, ma non abbiamo più posti. È troppo facile pensare che la soluzione sia aumentare i reparti, dare più posti letto. In realtà il ricovero di un adolescente è sempre una sconfitta della nostra società, che non ha saputo dare risposte tempestive quando il disagio iniziava a manifestarsi. Mi creda: non servono più posti letto, quello che serve invece sono più risorse nel territorio, più psicologi all’interno delle scuole, centri di aggregazione che consentano ai ragazzi di ritrovarsi, serve che lo sport per i ragazzi riparta. E poi è urgente che gli adolescenti siano un problema che la nostra politica si ponga come priorità». Il ragazzo torna a camminare avanti e indietro: «Voglio che la comunità scientifica», continua Borgatti, «si ponga il problema dell’istruzione e di che futuro stiamo dando ai nostri giovani». Sul muro dell’infermeria ci sono dei disegni, su uno c’è scritto: «Grazie per quello che avete fatto per me». Bambini e adolescenti piegati dalla pandemia. «Mario Draghi», commenta Borgatti, «ha detto che la scuola sarà la prima attività a riaprire quando la situazione dei contagi lo permetterà e che dobbiamo garantire la frequenza scolastica almeno fino alla prima media. Questo vuol dire non aver ancora ben compreso il problema, perché se è giusto che i bambini, anche i più piccoli, tornino a scuola, la frequenza negli istituti degli adolescenti è vitale e non più procrastinabile. Loro, più di ogni altro minorenne, hanno bisogno di uscire dal nucleo familiare, confrontarsi con i coetanei e trovare adulti che siano validi educatori. Lo richiede il loro percorso evolutivo, che viceversa viene tarpato, interrotto». Connessi, di fronte ai pc, persi nei loro incubi: «La didattica a distanza è stato un modo di noi adulti per pulirci la coscienza, una scelta classista e antidemocratica. Si salvano e vanno avanti solo quei ragazzi che hanno una solidità e una maturità spiccata, famiglie solide alle spalle che possono seguirli, sostenerli e riconoscere i segni di disagio che a volte resta mascherato. Tutti gli altri invece soccombono. Questa scelta si sta tramutando in una sorta di selezione. E la cosa più assurda è che siamo in pochi a porre il problema. Sembra che gli altri non lo stiano proprio concependo questo dramma, le cui conseguenze saranno evidenti tra qualche anno». Non basta vedere, raccontare. La Fondazione Mondino ha deciso insieme a L’Espresso di pubblicare alcuni stralci di colloqui, in assoluto anonimato, raccolti da neuropsichiatri e psicoterapeuti nel corso dei ricoveri o nelle visite ambulatoriali.

Luigi, 13 anni. Visitato in ambulatorio per attacchi di panico. Ma lo sai cosa vuol dire rimanere per settimane chiuso in una casa di 80 metri quadri con un padre e una madre che non si sopportano e due sorelline che litigano per ogni stupidata? Prima non li sopportavo, ma alla fine credo di essere arrivato a odiarli... Ma è stato dopo che ho iniziato a stare male: prima chiudermi in un mio mondo con le cuffie alle orecchie, sdraiato sul letto, gli occhi chiusi mi faceva stare bene. Ma poi ho iniziato a provare angoscia. Non so perché, ma mi mancava il respiro, mi sentivo il cuore in gola, sudavo, avevo l’impressione che mi scoppiasse la testa e che potessi impazzire. Una sensazione bruttissima, che non auguro neppure al mio peggior nemico.

Marco, 14 anni. Ricoverato in reparto per comportamenti dirompenti. Se penso che una volta mi inventavo il mal di pancia per non andare a scuola. Avevo paura delle interrogazioni e dei compiti in classe, allora dicevo alla mamma che avevo la nausea e il vomito, il mal di pancia. Lei chiamava la nonna prima di andare a lavorare e io potevo starmene a casa. All’inizio ’sto Covid mi piaceva. Una figata, sempre a casa senza bisogno di inventarsi bugie. Poi però mi mancavano i compagni, le partite nell’intervallo in corridoio con la palla fatta di carta. Gli scherzi in bagno per far incazzare i bidelli. E poi sul pullman tornando a casa era bello, si sparavano un sacco di minchiate e c’era sempre un motivo per ridere e divertirsi. Adesso non vedo l’ora che si torni a scuola. Questa non è vita. Mi è cresciuta una rabbia dentro che spaccherei tutto.

Alessia, 14 anni. Ricoverata in reparto per ritiro sociale e depressione. Alla sera non avevo mai sonno. E nemmeno le mie amiche, visto che si stava sempre fino alle 4-5 a chattare. Non è che avessimo molto da dire, solo che non ci andava di addormentarci. Non sono più capace di addormentarmi. In genere chiudo gli occhi sfinita verso le prime ore del mattino, con ancora il cellulare in mano, e poi dormo fino alle 12/13 quando mia madre viene a chiamarmi per mangiare. Ma cosa mi alzo a fare? Ormai da tempo preferisco rimanere a letto, non faccio nulla. Un po’ dormo e un po’ guardo il soffitto. E cerco di non pensare.

Sonia, 16 anni. Ricoverata in reparto per Self-cutting. All’inizio era noia. Rimani sul letto a guardare il soffitto e non sai cosa fare. Ma quando quel vuoto dentro di te diventa più grande, allora inizi a stare male. Ho scoperto che potevo calmare quel vuoto facendomi del male. Ho cominciato strappandomi le pellicine intorno alle unghie delle mani fino a farle sanguinare. Poi a praticare dei graffi sulle braccia, infine a farmi dei veri tagli con la lametta nell’interno delle cosce. Non se ne è mai accorto nessuno. Sentivo male, vedevo uscire il sangue, ma mi sembrava in quel modo di stare meglio, di dare un senso alla mia vita. Con i tagli riuscivo a riempire quel vuoto che mi stava facendo impazzire.

Alessandra, 14 anni. Ricoverata in reparto per anoressia. Da quando è scoppiato il Covid a casa mia non si parla d’altro. La mamma ascolta tutti i telegiornali e non si perde un dibattito. Il papà è preoccupatissimo di ammalarsi e per i nonni. L’unico giorno che l’ho visto felice è quando gli hanno concesso lo smart working, così non doveva più uscire per lavorare... Per loro io non esisto. Sono invisibile, con tutti i problemi che si sentono addosso. Solo a maggio, dopo il lockdown, quando è arrivata la zia e ha notato che ero dimagrita si sono accorti che non mangiavo più da settimane. Ho perso 13 chilogrammi. Finalmente hanno incominciato a preoccuparsi di me, ma ormai ho scoperto che controllare l’appetito e provare fame mi dà una certa soddisfazione. Anche perché ho perso quei chili sulle gambe e sulle cosce che mi davano un aspetto orribile.

Cristian, 10 anni. Visitato in ambulatorio per disturbi del sonno e angosce notturne. Con la Dad avevo il permesso di starmene in camera per conto mio un sacco di ore. Nessuno veniva a controllare: sapevano che io stavo facendo lezione. Invece mentre ero collegato con il pc, con il cellulare insieme ai miei compagni ci mandavano messaggi, video e altre cose del genere. Era una gara di schifezze, a chi trovava il video o la foto più bestiale. Certi filmati con i corpi deformi o di persone grandissime e schifose con mutilazioni agli arti o nella pancia o nel sedere me li sognavo anche di notte.

Lanci di pietre e bottiglie contro polizia e carabinieri. Neima Ezza e Baby Gang, i due trapper e il video con 300 giovani: “Nessuno scappa se arrivano sbirri”. Giovanni Pisano su Il Riformista l'11 Aprile 2021. “Oh raga se arrivano gli sbirri nessuno scappa“. E’ l’invito rivolto alle decine di giovani in strada a Milano da “Baby Gang”, nome d’arte di Zaccaria Mourad, 20enne trapper nato a Lecco da padre egiziano e madre marocchina. Insieme al collega Amine Ezzaroui,  19enne di origine marocchina ma cresciuto nella periferia milanese, meglio conosciuto come “Neima Ezza“, stavano girando sabato 10 aprile un nuovo video musicale. Erano circa 300 i ragazzi, di età compresa tra i 16 e i 20 anni, presenti in via Micene a Milano quando, intorno alle 17.30, sono arrivati polizia e carabinieri. “Andatevene“, “Fuori dalle nostre zone“, hanno urlato rivolgendosi alle forze dell’ordine che per disperdere il mega assembramento, vietato in tempi di emergenza covid, hanno sparato un lacrimogeno. Alcuni ragazzi sono però saliti sulle auto in sosta cantando e saltando prima di darsi alla fuga in direzione di piazzale Selinunte. Qui si sono compattati e hanno iniziato un fitto lancio di pietre, bastoni e bottiglie verso agenti e militari che sopraggiungevano. La centrale operativa ha seguito l’assembramento tramite la visione delle telecamere in zona e la questura ha organizzato un servizio inviando sul posto 5 aliquote del reparto mobile della polizia di Stato e del Battaglione dell’Arma dei carabinieri al momento impegnate in città in servizi anti-assembramento. Dopo che la situazione è stata ripristinata, è stato mantenuto un presidio di polizia in zona sino al completo ripristino dell’ordine.

Le indagini. Saranno adesso le indagini dovranno a far emergere eventuali responsabilità di chi ha organizzato il raduno per girare il video-clip nonostante le restrizioni anti-covid. Con le telecamere di videosorveglianza e con i video finiti sui social si proveranno a identificare gli autori del lancio di pietre e bottiglie contro le forze dell’ordine.

Chi sono i due trapper da milioni di visualizzazioni.

Neima Ezza, nato in Marocco, e’ cresciuto in quel quartiere. Sin dall’esordio, che risale al 2018, canta il disagio delle periferie milanesi e si è fatto conoscere in particolare con i brani ‘Essere ricco’ e ‘Amico’. “E’ questione di giorni” aveva scritto su Twitter due giorni fa. “State connessi”. Probabile si riferisse proprio alla realizzazione del nuovo video. Video che raccolgono centinaia di milioni di visualizzazioni.

Baby Gang è nato invece a Lecco e lo scorso ottobre è stato deferito insieme a una decina di persone all’autorità giudiziaria dopo la diffusione su internet di un video musicale, registrato nelle zone periferiche di Milano, inneggiante allo spaccio e all’odio nei confronti di “caramba” (carabinieri) e divise varie, con tanto di giubbotti antiproiettile e fucili mitragliatori, tipo AK 47, in bella mostra. Il tutto, come accaduto sabato, con la presenza di decine e decine di giovanissimi chiamati in causa come comparse.

Entrambi cantano disagi e sogni dei ragazzi, soprattutto di origine straniera, che vivono nella periferia di Milano.

L'episodio ricostruito da "Nessuno tocchi Ippocrate". Baby gang vandalizza ambulanza, la denuncia del 118: “Sempre più difficile il nostro lavoro”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 15 Marzo 2021. Un gruppo di ragazzini ha preso di mira un’ambulanza che aveva appena prestato un soccorso covid. È successo a Napoli, in vico Figurelle a Montecalvario, centro di Napoli. La denuncia è arrivata dall’associazione Nessuno tocchi Ippocrate, organizzazione impegnata nella tutela del personale da sanitario. La ricostruzione dei fatti in un post sulla pagina Facebook dell’organizzazione. L’episodio intorno a mezzanotte del 15 marzo. Dopo un intervento in un’abitazione il personale sanitario ha trovato un gruppo di ragazzini che, senza mascherina, hanno colpito l’ambulanza. Uno ha sferrato un pugno allo specchietto retrovisore. Un altro si è appeso al tetto dell’ambulanza. La Campania è Zona Rossa, nel sistema a fasce dell’emergenza covid. La postazione 118 dell’Annunziata intorno a mezzanotte viene allertata nel centro storico di Napoli (Vico figurelle a Montecalvario) per “riferita dispnea in COVID positivo”. Giunti sul posto l’equipaggio si accorge che il paziente, che saturava discretamente, aveva chiamato l’ambulanza solo e soltanto per avere una bombola di ossigeno, e a quanto riferito dai parenti, avrebbero continuato a chiamare il 118 fin quando non gli avrebbero mandato una ambulanza con l’ossigeno. Esterrefatti dalla “NON” richiesta di soccorso l’equipaggio scende dalla abitazione e trova un gruppo di ragazzini senza mascherina che in barba alle norme anti-covid sostavano poco distanti. Alla partenza del mezzo di soccorso uno di loro, senza alcun apparente motivo, sferra un pugno allo specchietto retrovisore e un altro si appende letteralmente al tetto dell’ambulanza! Sempre più difficile il lavoro di chi, sottopagato ed umiliato, cerca solo di portare sollievo a casa di chi non si sente VERAMENTE bene.

Alberto Francavilla per blitzquotidiano.it il 16 marzo 2021. Baby gang assalta ambulanza a Napoli. Un’ambulanza che stava “solo” svolgendo un intervento anti Covid. E invece i baby scugnizzi (senza mascherina, ovviamente) hanno deciso di fare una bravata. Hanno deciso che era arrivato il momento di giocare con un mezzo di soccorso, in piena pandemia, con la regione in zona rossa. A denunciare l’episodio, sulla sua pagina Facebook, Nessuno tocchi Ippocrate. Secondo quanto ricostruito dall’organizzazione, dopo l’intervento in un’abitazione un gruppo di ragazzini era sceso in strada. Ragazzini tutti senza mascherina, che in barba alle norme anti-Covid sostavano poco distanti. Alla partenza del mezzo di soccorso uno di loro ha sferrato un pugno allo specchietto retrovisore e un altro si è appeso letteralmente al tetto dell’ambulanza.

Questo il post integrale su Facebook, accompagnato da una foto: Zona rossa tra baby gang ed ignoranza dell’utenza! “Una città abbandonata a se stessa” Aggressione n.15 del 2021. La postazione 118 dell’Annunziata intorno a mezzanotte viene allertata nel centro storico di Napoli (Vico figurelle a Montecalvario) per “riferita dispnea in COVID positivo”. Giunti sul posto l’equipaggio si accorge che il paziente, che saturava discretamente, aveva chiamato l’ambulanza solo e soltanto per avere una bombola di ossigeno, e a quanto riferito dai parenti, avrebbero continuato a chiamare il 118 fin quando non gli avrebbero mandato una ambulanza con l’ossigeno. Esterrefatti dalla “NON” richiesta di soccorso l’equipaggio scende dalla abitazione e trova un gruppo di ragazzini senza mascherina che in barba alle norme anti-Covid sostavano poco distanti. Alla partenza del mezzo di soccorso uno di loro, senza alcun apparente motivo, sferra un pugno allo specchietto retrovisore e un altro si appende letteralmente al tetto dell’ambulanza! Sempre più difficile il lavoro di chi, sottopagato ed umiliato, cerca solo di portare sollievo a casa di chi non si sente VERAMENTE bene!

Francesco Gentile per “Il Messaggero” il 2 aprile 2021. La chiamano movida violenta, ma l'unica cosa che si muove sono le mani. È il caso del 4 ottobre scorso, giorno di San Francesco, quando poco dopo mezzanotte vicino all'Arco della Pace di Milano si sono sommati una serie di reati: pestaggi, scippi e rapine. Ieri, la Squadra mobile guidata da Marco Calì ha concluso le indagini che hanno portato alla individuazione della baby gang 151. Un 20enne e tre 19enni sono finiti agli arresti domiciliari col divieto di comunicare, mentre altri nove minorenni sono indagati a piede libero. La 151, un po' come ai tempi della serie Beverly Hills 90210, prende il nome dal codice postale 20151 di Bonola, un quartiere a nord di San Siro. La baby gang, una quindicina di ragazzi in tutto, «era arrivata in centro per aggredire fisicamente dei casuali malcapitati - scrive nell'ordinanza il giudice Stefania Donadeo - per provocarne una reazione al sol fine di malmenarli, sempre con la forza intimidatoria del branco». I primi a farne le spese sono stati altri tre minorenni accerchiati, aggrediti e rapinati. Nella ressa la 151 aveva sfilato loro i portafogli prendendo il denaro e buttando il resto. Per pubblicizzare l'impresa poi la baby gang aveva condiviso alcuni video sui social, salvo poi cercare di farne sparire le tracce. Non contenti, i giovani delinquenti se la sono presa col personale di un ristorante. Prima le provocazioni e poi la violenza. Il titolare era finito al pronto soccorso per una testata, suo figlio nel tentativo di difenderlo aveva ricevuto uno schiaffone e un dipendente era stato preso a bastonate. Un'ora dopo la terza violenza aveva riguardato ancora quattro ragazzi incontrati per caso. L'occasione stavolta era il furto di un monopattino e dopo la reazione della vittima il branco gli si era avventato addosso con calci, pugni e bottigliate. Poco dopo uno della 151 si era avvicinato a un gruppetto di coetanei che stava festeggiando un compleanno in piazza: «Mi hai chiamato coglione?». E giù botte, sempre con la tecnica della finta provocazione, quasi che con un pretesto quella follia sembrasse meno esagerata. Anche lì quattro feriti, di cui due finiti al pronto soccorso con prognosi di settimane. La polizia è intervenuta appena possibile identificando due membri della 151 e risalendo poi agli altri tramite le videocamere della zona. Ricostruendo i rapporti tra i ragazzi gli investigatori sono riusciti a dare un nome a ogni volto e a stabilire, come sottolinea il giudice, «l'assenza di motivazione, se non la mera sopraffazione delle vittime. Questi ragazzi non agiscono materialmente sempre tutti, ma coesi partecipano alle aggressioni. La loro forza è nel gruppo». La difficoltà delle indagini è stata di assegnare a ognuno dei giovani, che rispondono delle accuse di rapina, tentata rapina e lesioni, una responsabilità penale personale, anche se il giudice in un passaggio dell'ordinanza ha specificato che pure la partecipazione morale al branco è punibile. Inoltre, «la spiccata capacità a delinquere degli indagati fa ritenere probabile che prima o poi la stessa potrebbe portare alla commissione di qualche episodio criminale ben più grave», da cui la disposizione almeno per i più grandi degli arresti domiciliari e del divieto di comunicazione. La capacità di violenza dei giovani emarginati intanto crea allarme a Milano, tanto che il questore Giuseppe Petronzi assicura «un grande sforzo per evitare che ciò accada ancora». E non addebita allo stress da pandemia e da chiusure eventi simili, «che può al massimo aver impresso un'accelerazione al fenomeno, quasi fosse doping», mentre invece si tratta di «dinamiche non esclusivamente legate a questo periodo, ma preesistenti». 

Grazia Longo per "la Stampa" il 10 marzo 2021. «Neppure il Coronavirus riesce a tenere lontani i ragazzini delle baby gang dalla loro furia distruttiva. Perché troppo grande è la gioia nel distruggere. E più il numero dei componenti della banda è alto, più intensa è la forza distruttiva. Come dimostra l'arresto dei 37 ragazzi che lo scorso ottobre hanno saccheggiato le vetrine dei negozi nel centro di Torino». Lo psichiatra Vittorino Andreoli, già direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona-Soave, attualmente membro della New York Academy of Sciences, analizza il fenomeno dell'adolescenza patologica nel suo nuovo saggio "Baby gang" (Rizzoli, pp. 224, 17). Il libro è stato scritto prima dell'esplosione del Covid, ma l'analisi del fenomeno si adatta anche a questo difficile periodo.

La cronaca è ricca di episodi di bullismo e violenza . Perché nascono le baby gang?

«Gli adolescenti amano condividere tra di loro ansie, insicurezze, paure, esperienze di vita. Quando in un gruppo non esiste il leader fisso, ma un leader circolare che cambia in base alle circostanze e ciascuno può assumere il compito di decidere e guidare, siamo di fronte a gruppi di pari età. Ma quando il leader è fisso, si impone sugli altri che diventano semplici gregari, organizza vendette e spedizioni, ecco che il gruppo diventa una baby gang».

Da dove nasce la violenza?

«Ricordiamoci sempre che se vuoi capire che cos'è la violenza devi prima capire che cos'è la paura. Purtroppo per molti giovanissimi la violenza è un modo per vincere le proprie paure e insicurezze. L'adolescenza è una fase di metamorfosi: c'è il corpo che cambia, c'è la paura di rimanere da soli. La baby gang distrugge, ruba, picchia: ha il gusto della distruzione tanto che piuttosto che violenza bisognerebbe chiamarla distruttività. La baby gang prova soddisfazione nel distruggere perché la distruzione fornisce una percezione psicologica fortissima e domina totalmente la realtà».

Si preferisce la distruzione alla costruzione?

«Certo, perché questi adolescenti patologici sono dei perdenti, dei frustrati che non si piacciono e sono pieni di paure. Mi perdoni il paragone, ma assomigliano a quei politici che non essendo più in grado di costruire provano gioia nel distruggere».

L'isolamento a cui sono stati spesso costretti gli adolescenti nell' ultimo anno, le lezioni a distanza hanno contribuito a renderli più fragili?

«Più fragili e con più voglia di muoversi, di fare, di spaccare. La baby gang gode distruggendo, trae un'enorme gratificazione nel fare del male».

In che modo si può arginare questa tendenza?

«Non credo tanto nelle azioni repressive delle forze dell'ordine. Il ruolo più importante lo svolge l'educazione da parte delle famiglie e della scuola. Occorre che gli adolescenti si sentano gratificati, che si sentano piccoli protagonisti. Per questa ragione è determinante farli sentire utili e importanti in famiglia come nella società. Bisogna dare dei ruoli sociali agli adolescenti, mentre purtroppo la società non li tiene in considerazione, così come fa con i vecchi. E invece, a entrambi questi gruppi, occorre dare qualcosa da fare».

Che cosa per esempio?

«Penso a quello che ha fatto don Mazzi una ventina di anni fa con la cooperativa Exodus per i tossicodipendenti: ha acquistato una ventina di camper con i quali i giovani assuefatti dalle droghe giravano l' Italia per aiutare chi ne aveva bisogno: riparavano case, sistemavano campi di calcio. Avevano, insomma, compiti concreti».

Ma adesso con le restrizioni imposte per la pandemia è più complicato, o no?

«Il Covid è una catastrofe che dobbiamo combattere in ogni modo. È peggio della guerra, ma credo si possano assegnare dei compiti agli adolescenti. Per esempio potrebbero fare compagnia, anche con una telefonata, agli anziani soli. O potrebbero essere coinvolti, a piccoli gruppi, in laboratori artigianali. La via giusta è quella dell'educazione pratica. Gli adolescenti potrebbero anche costruirsi i loro amati computer e telefonini. Non dimentichiamo che Steve Jobs era poco più che un adolescente quando ha intrapreso il suo progetto. Lo stesso vale per Mark Zuckerberg».

I social media hanno acuito i disagi degli adolescenti?

«Purtroppo esistono anche le cyber gang, che feriscono e bullizzano attraverso i social media. E in ogni caso i social media sono una modalità astratta di interagire, dietro alla quale è più facile mentire. È invece necessario stabilire relazioni reali».

Alessia Marani per "Il Messaggero" il 9 marzo 2021. Sfidare la sorte per farsi un selfie sui binari con il treno in corsa o, meglio, per riprendersi con un video su Tik Tok. L'ultima follia di ragazzini annoiati è stata interrotta venerdì pomeriggio nel parco degli Acquedotti dagli agenti della Polfer lungo la tratta della ferrovia che va dalla stazione Casilina a quella di Capannelle. Un luogo non così impervio da raggiungere e, evidentemente, non protetto abbastanza dalle reti metalliche dal momento che già nei giorni precedenti i macchinisti avevano lanciato l'allarme per la presenza di giovani vicino ai binari intenti a farsi dei selfie e, in qualche caso, a scagliare sassi. E l'altro giorno l'incursione si è ripetuta. Intorno alle cinque un macchinista ha di nuovo lanciato l'sos per la presenza di giovanissimi vicini alla massicciata, tutti minorenni, tra i 12 e i 13 anni, non di più. I poliziotti di pattuglia in auto non erano così lontani. Sono arrivati in pochi istanti, con loro un'auto del commissariato Tuscolano e più tardi gli agenti della Digos: i ragazzi, almeno quattro o cinque, erano sui binari, qualcuno stava sistemando degli oggetti, forse delle grosse pietre sulle traversine. Tutti con i telefonini in bella vista in mano. Gli agenti si sono avvicinati e c'è stato il fuggi fuggi. I ragazzi sono stati lasciati andare: troppo pericoloso continuare a inseguire dei ragazzini sui binari, qualcuno spaventato avrebbe potuto perdere la lucidità o il senso dell'equilibrio, cadendo e finendo travolto da un convoglio. Contemporaneamente i poliziotti hanno provveduto a fermare la circolazione degli altri treni che sopraggiungevano. Il sospetto è che si tratti di ragazzini di zona, che hanno pensato bene di comportarsi come fossero in un videogioco per spezzare la monotonia dei pomeriggi senza più doposcuola o attività sportive. «Erano ben vestiti, sneakers all'ultima moda e tute di grido», racconta un testimone che ha osservato da lontano una scena dell'inseguimento. Il parco, del resto, era comunque affollato. Venerdì era una bella giornata e raggiungere quel punto non è difficile per gli habitué. Quella dei selfie sui binari è una moda pericolosa tra gli under 14. Un anno fa quattro ragazzini vennero sorpresi a stendersi sui binari della Bologna-Milano dalla polizia ferroviaria, uno di loro venne fermato e ammonito. Anche a Carpi (Modena) dei ragazzini furono sorpresi a riprendersi mentre erano sui binari per poi scivolare sul terrapieno e a ridere al passaggio dei treni. Ancora più rischiosa della follia del Daredevil selfie come è stato ribattezzato il fenomeno del passatempo mortale, ossia il fotografarsi in situazioni pericolose, è quella del train surfing, la pazzia dei writers che cavalcavano il treno in corsa tra Bolzano e Merano. Un caso scoperto esattamente un anno fa. Altri writes, invece, sono stati stanati, sempre dalla polizia, sabato alle 13 in azione alla stazione del Nuovo Salario. In tre stavano imbrattando un treno quando sono stati ripresi dai poliziotti che, per tutta risposta, sono stati aggrediti con un lancio di bombolette spray. Un agente ha sparato un colpo in aria a scopo intimidatorio - che ha terrorizzato i residenti di via Chiusi - due dei ragazzi sono stati fermati e denunciati.

Giappone, suicidi tra adolescenti aumentano a livelli record. La Repubblica il 16 febbraio 2021. Raggiungono quota 479 nell'anno della pandemia. Raggiungono livelli record i suicidi tra gli adolescenti in Giappone nel 2020, anno segnato dalla pandemia di coronavirus anche se eventuali legami con la pandemia sono da chiarire. In base ai dati del ministero dell'Istruzione e dello Sport, nell'anno appena trascorso si sono verificati 479 suicidi, 140 in più rispetto al 2019, e un numero mai così alto da quando sono iniziate le statistiche, nel 1980. A guidare la triste classifica gli studenti di istruzione superiore con 330 casi, seguiti dalle 136 fatalità segnalate nella scuola media, e 14 tra gli alunni delle scuole elementari. Nel marzo dello scorso anno il governo nipponico ha richiesto la chiusura degli istituti scolastici per contenere l'espansione del Covid, e la successiva introduzione dello stato di emergenza ha protratto l'interruzione delle lezioni in presenza fino al termine di maggio o giugno nel Paese. Gli esperti medici, tuttavia, dicono di non avere elementi per affermare che l'aumento dei suicidi sia correlato alla sospensione dell'attività scolastica. Da parte sua il ministero dell'Istruzione ritiene che le cause siano legate alle tradizionali criticità che riguardano la fascia di età, tra cui scarsi risultati accademici, e l'incertezza sul futuro sulla scelta delle carriere da intraprendere. A questo riguardo le autorità competenti ritengono che la distribuzione dei tablets nell'insieme delle scuole elementari e medie aiuterà a monitorare la salute mentale degli studenti tramite indagini sul loro livello di stress. Il ministero, inoltre, ha reso noto che intende avviare una nuova campagna di informazione sui social media, specifica per i giovani in possesso di uno smartphone, mentre rimarrà in funzione una linea telefonica con accesso gratuito dedicata ai problemi degli adolescenti.

Stiamo perdendo i bambini. Armando Matteo su Il Quotidiano del Sud il 14 febbraio 2021. I bambini scompaiono. Scompaiono, perché evidentemente se ne fanno sempre di meno. Almeno in Occidente. Sicuramente in Italia. Non c’è nessuno che oggi non sia al corrente del fatto che la piramide delle generazioni si è letteralmente capovolta: veniamo, infatti, da un tempo in cui ogni genitore aveva più figli e siamo già entrati in quello in cui ogni figlio ha più genitori; da un tempo, ancora, in cui ogni nonno/nonna aveva più nipoti in un tempo in cui ogni nipote ha più nonni/nonne. Ma sono già anni che gli studiosi ci avvertono che i bambini scompaiono anche per un’altra ragione. Vengono infatti sempre di più considerati e trattati come se fossero degli “adulti di piccola taglia”. Si fa, insomma, sempre più fatica a riconoscere che i nostri bambini sono solo bambini e nient’altro. E che sono dunque bisognosi di un immenso percorso e processo di crescita in grado di renderli capaci di cogliere il senso e le leggi della realtà; insomma, che sono semplicemente bisognosi di vivere la stagione dell’infanzia, stagione per apprendere le parole che servono per darsi ragione del mondo che sta intorno a loro e di quello che sta dentro di loro. Ed ecco che invece, dinanzi ai nostri occhi stupiti, decine e decine di genitori si rapportano ai loro figli come se fossero già cresciuti, quando invece hanno appena pochissimi anni di vita. Li interrogano su tutto (da quel che desiderano mangiare al nome da dare al fratellino o alla sorellina in arrivo, dai vestiti da indossare all’eventuale piacere o meno di andare all’asilo e a scuola), non hanno più segreti per loro (si mostrano nudi in giro per casa e spesso parlano fin troppo apertamente di cose che il buon senso di tutti definirebbe come “cose da grandi”), non sanno esercitare più un minimo di autorevolezza e sciorinano alla malcapitata prole sillogismi degni dei migliori logici medievali, avanzano infine le poche richieste di aiuto casalingo o di impegno extrafamiliare con sdolcinati atteggiamenti da poveri innamorati (“fallo per la mamma”, “fallo per papà tuo”). Il risultato di un tale pasticcio o meglio disastro educativo è che i bambini letteralmente impazziscono: non possono fare i bambini perché sono attesi da loro atteggiamenti da adulti, ma non possono fare gli adulti semplicemente perché sono bambini. Ed ecco così la loro vendetta servita sul piatto freddo di una capricciosità, di una irrequietezza e di una tirannia senza pari. C’è da meravigliarsi poi se qualche giovane coppia decide che, di figli e di figlie, è meglio fare a meno?

Così la pandemia di Covid riammette in società gli hikikomori. Federico Giuliani su Inside Over l'8 febbraio 2021. La pandemia di Covid-19 ha stravolto la vita a miliardi di persone sparse in tutto il mondo. I più sfortunati sono stati contagiati dal virus e sono morti, mentre altri hanno dovuto lottare con sintomi terribili. Accanto ai malati, vittime dirette dell’emergenza sanitaria, troviamo la schiera ben più nutrita di chi, invece, ha subito gli effetti indiretti del Sars-CoV-2. Le misure restrittive, i coprifuochi notturni, la perdita di milioni di posti di lavoro e i lockdown forzati hanno scatenato in diverse persone un mix di ansia, psicosi e terrore. In un simile scenario apocalittico, c’è tuttavia da segnalare un fenomeno a dir poco singolare avvenuto in Giappone: la “riammissione” degli hikikomori all’interno della società. Il termine hikikomori non ha un esatto corrispettivo nella lingua italiana. Può essere tradotto come “stare in disparte”, o anche “isolarsi”. Facile intuire il motivo. Questa “etichetta maledetta” marchia l’esistenza di tutti coloro che decidono (o sono costretti da vari fattori) di ritirarsi dalla vita sociale per periodi più o meno lunghi, da pochi mesi a diversi anni. Gli hikikomori sono soliti rinchiudersi nella propria abitazione o, peggio, nella propria stanza. Nel loro letargo artificiale, tagliano qualsiasi contatto diretto con il mondo esterno e si sentono al sicuro soltanto vivendo nel loro guscio.

L’effetto “benefico” del Covid. Il fenomeno appena descritto (non certo l’unico) è diffuso in tutto il pianeta, anche se è particolarmente sentito in Giappone. Qui troviamo circa 613mila hikikomori di età compresa tra i 40 e i 64 anni, e 540mila tra i 15 e i 39 anni, per un totale di oltre un milione di persone che trascorre la propria esistenza ai margini del Paese. Sembrerà strano ma, almeno a Tokyo e dintorni, la pandemia di Sars-CoV-2 ha attenuato questa piaga sociale. Grazie alle misure restrittive in atto, in giro ci sono meno persone rispetto al periodo pre Covid. Molti hikikomori, spaventati da quell’indefinito marasma di persone che dava un volto alla società, hanno iniziato ad abbandonare le loro stanze. Il quotidiano Avvenire, ad esempio, ha raccontato la storia di Masamichi, rimasto chiuso in casa per quasi 5 anni. “Non vedevo l’ora di tornare a casa, stare fuori mi metteva paura, entravo nel panico. Ora è diverso, in giro c’è meno gente, la città è meno ostile. Mi sento a mio agio”, ha spiegato. La propria casa come tana per difendersi da un mondo ostile, la paura della folla, il panico nel ritrovarsi in una società aliena: sono questi alcuni dei tratti distintivi degli hikikomori. Gli stessi che li spingono ad allontanarsi dalla quotidianità. Ora che il coronavirus ha chiuso tutti in casa, o comunque ha ridotto le uscite non indispensabili, gli hikikomori iniziano a respirare. Ai loro occhi, la società presenta meno ostacoli e il mondo è meno pericoloso.

Tornare in società. In ogni caso, la riammissione degli hikikomori non è né scontata né automatica. È vero che alcuni di loro hanno ripreso, gradualmente, a uscire dalla realtà che si erano creati. Ma è altrettanto vero che la strada per la definitiva riabilitazione è lunga e irta di ostacoli. Il fatto di tornare a vedere la luce del cielo non libera automaticamente queste persone dalle situazioni in cui si trovano; li aiuta, tuttavia, ad imboccare la strada giusta. Come ha spiegato la psicologa Junko Okamoto, in Giappone c’è stato un curioso fenomeno inverso: “Nel momento in cui la gente deve stare a casa, chi lo faceva per libera scelta tende a uscirne, per mantenere il suo ruolo di antagonista, di rifiuto delle regole”. La dottoressa Okamoto ha ribadito una questione fondamentale per capire le dinamiche alla base del fenomeno: un discreto numero di hikikomori è stato allontanato, respinto o espulso dalla società. Ora, a causa del suo congelamento a causa dal Covid, quegli stessi hikikomori stanno trovando il coraggio di riemergere dall’ombra.

Marco Castoro per leggo.it il 27 gennaio 2021. Scuole e palestre chiuse, didattica a distanza, risse tra coetanei, emulazioni da social e tv: che cosa sta accadendo ai nostri ragazzi? «Cominciamo a dire  - spiega Paolo Crepet, psichiatra e sociologo - che la dad è il de profundis, non un’invenzione geniale, ma una risposta emergenziale tirata all’inverosimile con la conseguenza che la pagheranno cara generazioni di ragazzi. Come si fa a pensare che uno possa imparare da uno schermo? Forse solo Zuckerberg ci riesce».

E le risse? Colpa del lockdown?

«La violenza c’è sempre stata. Solo che quella descritta da Pasolini riguardava le borgate, oggi invece si registra in centro. Durante il lockdown nessuno ha obbligato i ragazzi a non uscire di casa, non c’era mica il coprifuoco con i mitragliatori per le strade! Se ti andava di fare una corsetta o uscire in bicicletta nessuno ti ammazzava. La realtà è che stavano molto più comodi seduti davanti ai loro computer. Semmai la responsabilità è dei media e della tv. Guardi il successo che ha avuto Fox Crime alle 5 del pomeriggio. C’era una volta la carta di Treviso dove si coprivano i volti ai minorenni. Oggi invece non frega più niente a nessuno. Fox Crime se la cava con un cartello sulla visione. Ma il programma lo può vedere anche un preadolescente di 10 anni».

Forse le famiglie dovrebbero controllare di più…

«Ma non me la posso prendere con la mamma operaia che va a lavorare in fabbrica. Io me la prendo con Fox Crime che dovrebbe utilizzare fasce orarie diverse».

Dopo il Collegio in tv arriva la disciplina della Caserma…

«Stiamo raschiando il fondo del barile della credibilità. Mi sembra burlesco che serva a insegnare la disciplina. In un momento in cui le famiglie non riescono a dire un mezzo no ai figli arriva il caporale che ti dice quello che devi fare! Mi sembra una presa per i fondelli della famiglia italiana».

Daniele Autieri per “la Repubblica” il 25 gennaio 2021. Il bunker è invisibile. Il bunker è inaccessibile. Il bunker salva le vite dei ragazzi. All' ospedale Bambino Gesù di Roma, una delle eccellenze mondiali nella medicina pediatrica, nessuno lo chiama così, ma tutti sanno che il "reparto di neuropsichiatria infantile e adolescenziale" è un mondo a sé, pensato e costruito per strappare i ragazzi dal rischio di fare del male a se stessi e agli altri. Nei giorni in cui l' Italia piange la bambina morta a Palermo dopo una presunta challenge ingaggiata su TikTok e si interroga sulla minaccia dei social e sugli effetti che il lockdown avrà sui ragazzi, quella del Bambino Gesù è una storia di speranza e di riscatto. Una storia scritta prima di tutto dai numeri che fotografano un' emergenza: da ottobre ad oggi, nel reparto dell' ospedale romano, i ricoveri sono aumentati del 30%, con un' occupazione del 100% dei posti letto, contro la media del 70% registrata nei mesi precedenti. Guardando più indietro nel tempo, i ricoveri di ragazzi che avevano tentato il suicidio sono passati dai 12 del 2011 ai 300 del 2020. Il disagio esiste e cresce, alimentato dall' isolamento obbligato degli ultimi mesi, ma le cure funzionano, anche quando diventano terapie d' urto. All' inizio è inevitabile la somministrazione di farmaci, necessari per casi così gravi, ai quali si accompagnano gli incontri con gli psichiatri, che tengono in cura i ragazzi anche una volta usciti. «Quando è arrivata qui, Ania si era procurata tagli così profondi da morire dissanguata - racconta Maria Pontillo, una delle dottoresse impegnate nel reparto - ma passo dopo passo ne è uscita. La continuo a vedere una volta alla settimana, per i colloqui; ha un ragazzo e si è rifatta una vita ». Il ricovero è solo temporaneo, al massimo nove giorni, al termine del quali inizia un percorso di recupero guidato dagli psichiatri dell' ospedale. Ma il viaggio inizia dal "bunker": porte antifuga, letti, armadi e comodini ancorati a terra, soffioni della doccia incassati nel soffitto, sanitari in acciaio. «I sanitari in acciaio sono stati adottati dopo che un paziente ha rotto un lavandino in ceramica e con una scheggia ha minacciato gli infermieri ». La testimonianza è quella di Stefano Vicari, il medico responsabile del reparto dove si lavora sette giorni su sette, giorno e notte, per evitare che i giovani pazienti si tolgano la vita. «Ieri pomeriggio - racconta - abbiamo ricoverato due ragazzi che avevano tentato il suicidio. Da quando è iniziata la pandemia il numero di ricoveri è aumentato a dismisura. La prima cosa che facciamo quando i ragazzi arrivano da noi è togliere loro i cellulari». Farsi del male è facile, più facile di quello che sembra. Ecco perché nel reparto ci sono telecamere in ogni stanza e i battenti delle porte sono tagliati in modo obliquo, evitando che qualcuno possa pensare di incastrarci dentro un lenzuolo e tentare cosi di impiccarsi. Nessuna fantasia, ma esperienze mutuate su quanto accaduto e sulle indicazioni della Joint Commission International, la commissione internazionale di esperti che riconosce patenti di eccellenza in giro per il mondo. I loro rappresentati hanno visitato anche questo luogo incredibile, dove c' è spazio per 8 posti letto, tutti occupati da minorenni, casi estremi, che arrivano dal pronto soccorso o da una stazione di polizia, ma sempre accompagnati dai genitori. Al piano terra del Padiglione Ford entra il dolore più fragile: una ragazza che ha decapitato un gatto promettendo che avrebbe fatto lo stesso con un essere umano; un bambino di dieci anni con tendenze suicide; una adolescente che si è tagliata il braccio fino allo svenimento. «Il dolore fisico - spiegava ai medici che l' avevano in cura - mi aiuta a non sentire il dolore che ho dentro». Il "bunker" non è vita, è sospensione momentanea, parentesi da chiudere in fretta. I ricoveri sono un tuffo nell' acqua gelata, ma il messaggio che arriva è semplice e diretto: una via di fuga esiste, per tutti, anche per i più piccoli. «Appena una settimana fa - racconta Vicari - sono arrivati i genitori di un bambino di 10 che esplodeva in accessi d' ira ogni volta che tentavano di staccarlo dalla consolle elettronica. Era diventato ingestibile per loro». Per lui, come per gli altri, oltre agli incontri riservati con gli psicologi si tengono gruppi di ascolto, esercizi teatrali e i giochi di ruolo. Un giorno i pazienti si sono travestiti da medici e i medici da pazienti. Uno dei dottori improvvisati allora si è avvicinato a un "paziente", ha indicato un pertugio dietro la cassettiera e gli ha sussurrato all' orecchio: «Se vuoi nascondere bene qualcosa, la devi mettere lì dentro ». E tutti hanno sorriso. In fondo lo insegnava anche Pirandello: non vestiamo tutti i panni di qualcun altro?

Giovani e lockdown, lo studio: sono i più colpiti da ansia e solitudine da pandemia. Le Iene News il 20 gennaio 2021. L’allarme arriva da uno studio su 200mila europei, il primo di questo genere, che chiede interventi pubblici per le nuove generazioni. Rischiano di essere segnate per anni dall’era Covid perché sono le più colpite da alcuni di quei danni psicologici su cui ci stiamo concentrando in questi giorni. Ansia e solitudine sono un danno collaterale sempre più preoccupante della pandemia e stanno diventando un vero allarme sociale. A essere più colpiti sono i giovani, gli under 30, con “dati allarmanti”. A sostenerlo è un grande studio, il primo di questo tipo, su dati e questionari di oltre 200mila europei nel primo lockdown, appena pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Lancet. La ricerca, che ne combina in realtà sette diverse, ha visto in campo l’università di Copenhagen assieme a quella di Groningen, University College di Londra, Istituto nazionale francese per la ricerca sulla salute e la medicina e Sorbona di Parigi. In questi giorni su Iene.it ci stiamo concentrando proprio sugli effetti psicologici dell’era coronavirus, parlando con gli esperti di come sarà affrontare il dopo pandemia e degli allarmi di oggi per l’aumento di consumo di droga e di quello di alcol. Allarmi che toccano in primo luogo i più giovani, che già affrontano il crollo dei nuovi posti di lavoro di cui abbiamo parlato nel viaggio inchiesta sulla Generazione Covid. Anche questo studio europeo dimostra come questa generazione deve essere al centro del dibattito. I livelli più alti di solitudine e ansia, rispetto a tutte le altre categorie della popolazione, sono stati rilevati infatti tra i ragazzi sotto i trent’anni, assieme alle persone con problemi di salute mentale pregressi. Se i due elementi si associano, questi livelli sono ancora più elevati. “Servono interventi pubblici specifici soprattutto per questi due gruppi di persone”, sostiene lo studio. I problemi coinvolgono una sofferenza e uno stress psicologico generali con preoccupazione costante per il futuro e per le misure anti Covid, per sé e per i propri cari. Il disagio è stato acuito nei giovani dalle misure per il distanziamento che hanno ridotto e in alcuni casi azzerato la loro socialità extrafamiliare. Per esempio, nei giovani la solitudine percepita è doppia rispetto agli over 60. In generale, risultano livelli comunque più alti della media anche per le donne e per chi ha malattie pregresse in generale. Tutto questo, si legge nello studio, potrebbe portare a malattie a lungo termine se non croniche, destinate a rimanere anche dopo la pandemia. I picchi più elevati di choc si sono registrati a marzo e aprile scorsi con l’arrivo del coronavirus e le quarantene più rigide. I danni psicologici potrebbero durare per anni e una parte delle nuove generazioni potrebbe restare segnata dolorosamente. Anche per questo serve un forte intervento pubblico europeo.

«In aumento tentati suicidi e autolesionismo tra i giovani: col Covid numeri da brivido». Sara Dellabella su L'Espresso il 18 gennaio 2021. L'allarme lanciato da Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza del Bambino Gesù: «L'isolamento mette a grave rischio la tutela della loro salute mentale. Stiamo negando ai ragazzi una parte affettiva che fa parte del loro diventare adulti». «Si tagliano gli avanbracci, le cosce, l'addome. Altri tentano il suicidio. Mi viene in mente una ragazzina di 12 anni che si è buttata dalla finestra che è il modo più usato tra i ragazzi tra i 12 e i 15 anni. Buttarsi dalla finestra o l'ingerimento di un numero congruo di farmaci, a volte si impiccano, eccezionalmente usano armi da fuoco come invece avviene frequentemente in altri paesi come, ad esempio, gli Stati Uniti. Gli adolescenti tendono a emulare quanto vedono sulla rete ed è per questo, probabilmente, che un metodo molto utilizzato in questo periodo è l’assunzione di grandi dosi di tachipirina oppure rastrellano tutti i farmaci che trovano in casa e ingeriscono un mix». Ecco come rischiano di morire gli adolescenti e la cronaca la fa il Prof. Stefano Vicari, Ordinario di Neuropsichiatria Infantile presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Il suo racconto è accorato e preoccupato perché con il Covid le cose sono peggiorate e di molto: «Sicuramente c'è una coincidenza molto sospetta e siamo certi che la rapida crescita a cui assistiamo in questi ultimi mesi di alcuni disturbi in particolare come l’ansia, l’irritabilità, lo stress, i disturbi del sonno sono legati direttamente all'isolamento». Tra i giovani è vera e propria emergenza. Per esempio a dicembre il Reparto di Neuropsichiatria infantile dell'ospedale Regina Margherita di Torino ha lanciato l'allarme: i ricoveri per Tentativi Suicidio (TS) sono passati da 7 nel 2009 a 35 nel 2020 e nello stesso periodo (2009-2020), nel Day hospital psichiatrico, l’ideazione suicidaria è passata dal 10% all’80% dei pazienti in carico. Numeri che fanno rabbrividire, soprattutto se si pensa che riguardano i giovanissimi.

E al Bambino Gesù di Roma com'è la situazione?

«Vediamo negli anni un incremento notevolissimo delle attività autolesive e dei tentativi di suicidio: nel 2011 i ricoveri sono stati 12, nell’anno appena concluso abbiamo superato quota 300. Sebbene le statistiche ufficiali ci dicano che il numero dei suicidi è in leggero calo tra gli adolescenti, l'attività autolesiva è in rapido aumento. Mai come in questi mesi, da novembre a oggi, abbiamo avuto il reparto occupato al 100 per cento dei posti disponibili, mentre negli altri anni, di media, eravamo al 70 per cento. Le diagnosi che predominano sono quelle del tentativo di suicidio. Ho avuto per settimane tutti i posti letto occupati da tentativi di suicidio e non mi era mai successo».

Ma una volta curati nel fisico, questi ragazzi come motivano questi gesti?

«Le motivazioni non sono così determinanti. È un atteggiamento figlio di uno psicologismo vecchia maniera: se arrivi in pronto soccorso con l'infarto, ti importa poco sapere il perché quello che conta è di essere curato. Le cause sono importanti ma secondarie. Le malattie mentali sono malattie, hanno una base biologica e sono il risultato di processi lunghi. La familiarità è il primo fattore di rischio. La leggenda del trauma di psicanalitica memoria è stata ridimensionata da un pezzo».

E allora?

«Dobbiamo iniziare a pensare ai disturbi mentali come a vere e proprie malattie, come lo sono il diabete e l'ipertensione, con una base biologica e genetica e fattori ambientali che possono favorirne la comparsa. Non si tratta tanto di come uno viene allattato al seno o del rapporto con la madre, ma è legato molto di più all'esposizione durante la gravidanza ad agenti inquinanti, alcol o fumo durante la gravidanza, nascere prematuri, andare male a scuola, farsi le canne in età precocissima. E poi c'è l'incuria. Il vero maltrattamento, il trauma vero che da un impatto sulla salute mentale non è neanche tanto la violenza, ma l'indifferenza e l'abbandono da parte dei genitori. Forme moderne di incuria sono anche la ipostimolazione, come lasciare un bambino di due o tre anni molte ore davanti la tv o con il tablet.»

A cosa lo riconduce questo aumento?

Sappiamo dai dati di letteratura che il lockdown, la chiusura totale e la chiusura delle scuole ha determinato un aumento degli stati d'ansia e depressione nei ragazzi e un disturbo del sonno. I cinesi lo scrivevano già ad aprile – maggio. Talvolta vediamo un disturbo post traumatico da stress perché i ragazzini vivono con forte preoccupazione le preoccupazioni dei genitori. Ci sono adolescenti che sono ancora più estremisti dei genitori, che non toccano niente e non escono più per la paura del contagio.

Lei che consiglierebbe ai genitori?

Di mantenere i ritmi pre Covid: svegliare i figli alle 7:30 – 8:00 del mattino e non lasciarli dormire fino alle 11:00, perché questo vuol dire che la sera non vanno a letto. La deprivazione del sonno è un fattore di rischio a cui fare attenzione: alcuni ragazzi passano l’intera notte a chattare o a giocare online.

Ma quando le famiglie arrivano al pronto soccorso, che atteggiamento hanno?

«In alcuni casi cadono dalle nuvole, sono spaventati perché non si erano mai accorti del malessere dei figli. Ma i genitori non hanno colpe, piuttosto responsabilità. Hanno il dovere di monitorare quello che fanno i ragazzi, chi frequentano. Vuol dire interessarsi alla loro vita, mantenendo un dialogo aperto. Non certo fare i carabinieri. I genitori non sono la causa, ma hanno la grande possibilità di ridurre il rischio, così come la scuola».

Qual è il ruolo della scuola nella prevenzione della malattia mentale?

«La scuola favorisce le relazioni tra coetanei e, in questo senso, è un ammortizzatore dei conflitti adolescenziali. Nella scuola tutti abbiamo sperimentato relazioni positive e con gli amici, solo con essi, parlavamo delle cose che andavamo scoprendo. Chi è che di noi non ha avuto un professore che è stato un elemento di salvezza? Perché gli adolescenti sperimentano e violano i limiti che gli vengono posti dai genitori, e se non c'è qualche altro adulto che ha con il ragazzo un rapporto affettivo valido, rischi che si perda. Oggi questo cuscinetto sociale sta mancando, per questo i ragazzi “sbroccano”, diventano aggressivi e violenti, oppure si chiudono sempre di più nella loro stanza e non vogliono più uscire.

E chi dice che questa è una prova che aiuterà i ragazzi a crescere?

«Dice balle. Perché chi avrà gli strumenti sicuramente ce la farà, ma a me preoccupano tutti gli altri. Penso a chi vive in pochi metri quadrati, senza internet, che si deve svegliare molto presto anche solo per poter fare una doccia. A me è andata bene, faccio il Primario e il Professore Universitario, ma vengo da una famiglia economicamente modesta. Il mio riscatto sociale lo devo alla scuola. Senza il mio destino era segnato. Ma oggi chi nasce povero per l'80 per cento rischia di morire povero.

Cosa pensa di tutto questo dibattito sulle scuole chiuse e la Dad?

«Pensare che la scuola sia solo didattica è un errore drammatico. La didattica è una parte marginale della scuola. Bisogna smettere di pensare che la scuola deve formare i futuri lavoratori, trasferendo competenze, la scuola deve trasmettere conoscenze di vita. È una palestra educativa, non un avviamento al lavoro. Questa è una concezione autoritaria della scuola».

I suoi colleghi virologi però dicono che non è ora di tornare a scuola. Le scuole chiuse la preoccupano?

«Moltissimo. Lei cita i virologi che hanno dato ampio spettacolo di dichiarazioni anche contrastanti tra loro. I dati della letteratura ci dicono che ci si infetta a scuola per il 2 per cento. La scuola quindi è un luogo sicuro, ma è poco sicuro tutto quello che c'è intorno, come i trasporti. Stiamo mettendo a grave rischio la tutela della salute mentale degli adolescenti. Ci vorrà molto tempo, una volta finita l'emergenza, per far uscire di casa questi ragazzi che si sono chiusi e ci vorrà tempo per ricostruire relazioni positive. Stiamo negando ai ragazzi una parte affettiva che fa parte del loro diventare adulti».

Mi dà qualche numero di come viene affrontata la malattia mentale degli adolescenti in Italia?

«Sulla salute mentale nei minori in Italia si investe zero. L'OMS dice che “non c'è salute senza salute mentale”. Se lei pensa che il 20 per cento degli adolescenti ha un disturbo mentale, c'è da chiedersi come mai i posti letto dedicati alla psichiatria dei minori in Italia siano soltanto 92. I ragazzini non hanno dove essere ricoverati. Io gestisco 8 posti di questi 92, quasi il 10 per cento Ma si rende conto?».

Bastano questi posti per curare i minori di 18 anni?

«No, e quello che succede è che spesso i ragazzini che hanno bisogno di assistenza ospedaliera per un disturbo mentale si ritrovano con gli adulti già cronicizzati o nei reparti di pediatria, insieme a chi ha la bronchite. Lo trovo scandaloso. I servizi territoriali non esistono più. Le Asl hanno impoverito fortemente i servizi di neuropsichiatria infantile.

Perché se ne parla così poco?

«Perché la malattia mentale fa paura. Avere un figlio con un disturbo mentale fa sentire i genitori colpevoli. Se cominciassimo a parlarne come parliamo delle altre malattie, saremmo già un passo avanti. Chiedo che venga posta la massima attenzione su un fenomeno ad oggi  completamente ignorato».

Da "ilmattino.it" il 16 febbraio 2021. Un 16enne è rimasto ferito ad una mano con un'arma da taglio in una rissa tra ragazzini avvenuta in via Partenope sul lungomare di Napoli; il minorenne è stato medicato nell'ospedale Pellegrini. I clienti che erano nei locali della zona e in strada sono fuggiti spaventati. La notizia della rissa, diffusa dalla Confesercenti che parla di gravi danni per l'economia e riferisce anche di un'aggressione ad un automezzo del 118, è stata confermata dalla Polizia. «La lite ha svuotato i ristoranti, ho chiesto al prefetto e al questore un incontro urgente sulla sicurezza. I controlli sono assenti» dice Vincenzo Schiavo, presidente dell'organizzazione. La rissa sarebbe avvenuta in due momenti successivi coinvolgendo intorno all'ora di pranzo alcuni minorenni. Confesercenti e Fiepet Napoli condannano l'episodio e lamentano «le gravi ripercussioni sulle attività commerciali della zona». Con due lettere firmate dai presidenti di Confesercenti Napoli, Vincenzo Schiavo, e Fiepet Napoli, Antonio Viola e del vicepresidente Fiepet Roberto Biscardi, è stato chiesto un incontro urgente sia al prefetto, Marco Valentini, che al questore Alessandro Giuliano. «Segnaliamo che una banda di ragazzini ha scatenato una rissa e ha aggredito un automezzo del 118 in via Partenope - si legge nella missiva - e che questi delinquenti erano sprovvisti delle mascherine. Gli esercizi pubblici del lungomare non possono subire ulteriori danni oltre quelli che li hanno già messi in ginocchio, per cui richiediamo ancora maggiore vigilanza e presenza». «Ai nostri occhi - aggiunge Schiavo - lo Stato è assente, la città pare abbandonata al suo destino. Non è possibile che sul posto ci siano appena due volanti della polizia. È l'ultimo giorno di Carnevale, c'è il sole, è festa, era assolutamente scontato un assembramento di persone. I protagonisti di questa rissa sono delinquenti, gentaglia senza rispetto degli altri e della città. A pagare purtroppo sono sempre i ristoratori, già sommersi dai debiti, già vessati da un anno di Covid e dalle mille restrizioni». Prosegue Schiavo: «Gli amici de I Re di Napoli, ad esempio, hanno avuto danni diretti per la rissa tra teppisti. È una vergogna doppia. Perché gli assembramenti sono assolutamente vietati e perché non è possibile che i nostri imprenditori siano vittime oltre che del Covid anche di questi delinquenti. Occorre un incontro urgente con il Prefetto e con il Questore: siamo disponibili, come sempre, a collaborare, ma il tema sicurezza del Lungomare è essenziale».

Le risse? Siamo ancora alla cultura del duello. Serena Coppetti il 6 aprile 2021 su Il Giornale. Si danno appuntamento sui social. E poi giù botte per regolare i conti. Menando le mani, o anche i piedi e talvolta anche altri arnesi… Sono ragazzini del 2021 eppure è come fossero in un duello dell’800. Ora non ci sono spade e pistole e  il guanto della sfida è di gruppo. Ma quello che c’è dietro è sempre la stessa cosa: la cultura del duello per sanare l’offesa. Ed è lì, che secondo gli esperti, bisogna andare a educare i ragazzi, ancorati tutt’oggi a un modello di uomo o di donna – perché le risse sono anche tra ragazze ormai – che arriva persino a non denunciare perché si vergogna di sentirsi vittima. E quindi è vittima due volte. Lo  sostengono  Daniele Novara, pedagogista fondatore del Centro psicopedagogico dell’educazione e Ciro Cascone, procuratore della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni.

In sintesi:

le risse non sono aumentate con la pandemia ma sono solo più visibili. Ci sono sempre state e sempre con le stesse modalità: appuntamento sui social per un conto da regolare, oppure uno spintone e  una parola di troppo  che prendono la deriva;

i  ragazzi del 2021 vivono ancora immersi in un’antica cultura dell’onore da difendere con il duello (la rissa ne è la versione moderna);

i videogiochi sparatutto contribuiscono a far perdere il confine tra realtà e fantasia;

l’educazione civica a scuola va fatta partire dalla gestione dei conflitti;

bisogna educare i ragazzi a prendere le distanze dalla violenza, a non farsi tirare dentro. E parlare. Denunciare. Perché il bullismo esiste nella misura in cui esistono anche gli spettatori.

Per chi vuole capire qualcosa di più (e ha del tempo a disposizione perché la chiacchierata è lunga)  ecco qui l’intera intervista con Daniele Novara e Ciro Cascone: parte dalle rissa, ma tocca molto altro.  E che ci fa sollevare sommessamente una semplice domanda: perché tra i tanti esperti incaricati dal governo, in questo momento di alienazione totale per tanti ragazzi, non c’è neanche un pedagogista, un esperto di crescita, di adolescenti,  che possa suggerire come limitare i danni?

Daniele Novara.

Le risse non sono litigi né conflitti.

«Le risse sono episodi dove si cerca di far male. Non si tratta né di litigio né di conflitto. Il litigio infantile è un elemento positivo, il conflitto fa parte della nostra vita quotidiana. Io al tema dei litigi tra bambini ho dedicato gran parte della mia attività pedagogia, (ha scritto il libro Litigare con metodo).  Sui conflitti tra le persone, anche nei rapporti genitori-figli ho dedicato tantissimi libri il più famoso Urlare non serve a nulla. Mentre la rissa va rubricata come violenza. La rissa in genere avviene tra persone già grandi,  non bambini. E usano tutta la forza a disposizione per cercare di far male. Nella logica del concetto di violenza, quando si  cerca il danno in quanto tale, si parla di violenza. Quindi le risse sono episodi gravi che non vanno confusi con i nostri normali conflitti e i litigi infantili».

Risse e duelli (un po’ di storia)

«Le risse ci sono sempre state, purtroppo, perché noi proveniamo dalla tradizione del duello.  L’idea di regolare i conflitti con la rissa o con il duello è lunga come la storia dell’umanità. In  Italia solo nel 1932 viene abolito il duello come forma legale per sanare gli offese. Per dire, anche il nostro Cavour fece diversi duelli, D’annunzio, e poi Cavallotti… Felice Cavallotti, scrittore, uomo politico di area radicale, era famoso per i duelli. Li vinceva quasi tutti. A un certo punto  aveva già 54 anni, fa l’ultimo duello e muore. La spada gli recide la giugolare. E c’è uno scandalo. In realtà il problema non era tanto lo scandalo del duello, quanto che il duello fosse ancora consentito. Eppure lui era popolarissimo, il duellatore radicale… al suo funerale per dire c’erano migliaia  di persone. Il duello era molto popolare, finchè nel 1932, in epoca fascista peraltro, viene abolito definitivamente. Ma c’è voluto tanto tanto tempo».

I nostri ritardi culturali.

«L’Italia su questo ha dei ritardi culturali molto significativi, al punto che la rissa, ha gravi carenze giuridiche. Se tu non hai lesioni superiori ai 20 giorni, devi denunciare l’aggressore. Deve essere il ragazzo o la ragazza (perché ormai è un problema trasversale) a  sporgere denuncia. Il nostro sistema giuridico giudiziario è ancora fermo al tempo del duello,  che apparentemente è stato eliminato come regolatore di conflitti, ma nel momento in cui la legge non è chiara sul tema della risse che dovrebbero essere perseguite d’ufficio anche se non ci sono danni gravi alle persone, è ovvio che lascia un vulnus enorme, grande come una casa. L’intenzionalità di fare del male infatti c’è.  I ragazzi purtroppo finiscono anche dentro a questi equivoci. Per cui oggi è cento volte più pericoloso farsi una canna che non fare una rissa».

Le risse sono più frequenti in questo periodo?

«Oggi magari le vediamo di più. Ma i ragazzi che si organizzavano per regolare i conti, c’erano anche prima del Covid. Adesso viene enfatizzato perchè qualcuno vorrebbe anche impedire ai ragazzi di uscire al pomeriggio. Io sono contrarissimo a questo.  Così le case diventano delle galere e allora diciamolo che vogliamo mettere agli arresti domiciliari una generazione. Poi discutiamo se questo è legittimo. A me sembra che si stia perdendo anche il lume della ragione».

Eccesso di realtà virtuale.

«È da una decina di anni che vengano organizzate sui social queste risse. Ce n’erano tantissime anche  prima del lockdown… perchè? Non tanto per il lockdown ma per un eccesso di realtà virtuale. I ragazzi  giocano allo sparatutto sui videogiochi  hanno perso letteralmente il confine tra realtà virtuale e realtà effettiva. Ora, avendo un ritiro sociale sempre più accentuato, sostenuto anche  da queste idee crudeli di confinare i ragazzi in casa con la mamma – che è una cosa così contro natura da far paura – diventano incapaci neurocerebralmente di capire la distinzione tra realtà e fantasia, e che una rissa non è un videogioco. Ti puoi far male. Puoi morire in una rissa. Finchè questa dominanza dei  videogiochi va avanti nella vita dei ragazzi senza alcuna regolazione, anzi, consentendo  addirittura a bambini di 7 o 8 anni di passare il tempo davanti a Fortnite o anche altri con la massima naturalezza, la situazione rischia solo di peggiorare».

Genitori che non ci sono più.

«E poi non ci sono regolamentazioni… ad esempio “Call of Duty”, storico  sparatutto,  era vietato sotto i 18 anni, ma lo usavano i bambini di 9 o 10 anni. Quindi con un sistema familiare di una fragilità enorme perché  se si consente a un ragazzino di stare sui videogiochi per 6, 7 anche 8 ore senza mettere una regola, magari anche di notte,  significa che i genitori non ci sono più. Questi ragazzi  sono diventati orfani,  se il genitore non riesce a gestire la propria titolarità educativa  come gli consegna in fondo la legge. Oggi si parla di  parental born out cioè, consunzione, logoramento, usura dei genitori  abbandonati a loro stessi. Ci sono  ristori per tutto meno che per i genitori che vedono i sorci verdi  con i figlioli sempre in casa. Almeno davanti al videogioco è tranquillo e non mi distrugge la casa.

Ma  così  si rovina il cervello e perde perde i contorni della realtà, per cui  finire in una rissa organizzata sui social, sembra essere la forma più banale di passare il tempo e,  paradossalmente, anche la più normale per loro».

La grave carenza dello sport.

«Ad aggravare la situazione c’è anche lo stop agli sport, totalmente proibiti. E penso a sport come  il rugby  o il calcio che è uno scaricatore di aggressività eccezionale. Ragazzi che sarebbero stati dei delinquenti col calcio si sono salvati. Tirare pedate a una palla scarica e oggi non possono farlo. Tutto proibito. Quindi, adesso meravigliarsi che ci siano le risse appare perlomeno  ridicolo, è il meno che possa succedere. Preferiamo che i ragazzi si taglino?  si suicidino? c’è solo da scegliere la disgrazia che decidono di frequentare… Dobbiamo prendere atto che i ragazzi non sono colpiti dalla pandemia nel modo degli adulti e quindi riapriamo le scuole e i centri sportivi, senza continuamente farli diventare i capri espiatori, per cui invece di cercare i focolai in casa, si vanno a cercare all’aria aperta che è la cosa più assurda scientificamente. I focolai sono nelle case, non all’aria aperta, non per le strade. Tutte le ricerche lo dimostrano. Il virus all’aria aperta non ha la stessa forza rispetto all’ambiente chiuso. A Natale il 5 gennaio con le scuole chiuse da 13 giorni c’è stato il picco dei morti: 659. Perchè  i focolai erano nelle case. La gente stando in casa obbligatoriamente 13 giorni si è contagiata. Lo sport organizzato è sotto controllo, l’importante è evitare lo spogliatoio, ma ci sono centomila modi per controllare. Lasciare i giovani senza sport  è una grave aggressione nei loro confronti. Poi non si può prendere che restino normali. Il loro cervello è instabile... non sempre riescono  a controllarle. Quindi stanno facendosi del male. E ringraziamo i nostri governanti».

Il cervello di un adolescente.

«Con la fine dell’adolescenza la corteccia prefrontale incomincia  a formarsi in maniera tale da prendere il controllo delle altre aree cerebrali, specie quelle della zona limbica dove c’è tutta la formazione delle emozioni. Perchè la corteccia prefrontale è l’organo di regia razionale,  è la nostra parte nobile, che ci rende quello che siamo. Però incomincia a formarsi come organo di regia a partire dagli 11, 12 anni. Questo processo ha bisogno di almeno 10 anni per arrivare alla fine. L’adolescenza arriva fino a 22 – 23 anni. Ha bisogno di un tempo molto lungo. In questo tempo il cervello è sotto pressione, continua a sussultare, è  come sulle montagne russe, perchè mentre la corteccia prefrontale cerca di controllare le aree delle emozioni, in quel periodo, in quel tentativo il cervello è ondivago. Le neuroscienze ci riportano che i comportamenti adolescenziali non sono del tutto volontari.  Certo l’adolescente ha più intelligenza del bambino, ma in questa necessità del cervello di stabilizzarsi, è molto sotto stress. Questo ha anche tanti vantaggi, proprio questa  leggerezza cerebrale consente agli adolescenti di avere delle finestre cognitive  che nel resto della vita non ci sono più. Il problema è il controllo delle emozioni. L’adolescente non ha il totale controllo delle emozioni.  Questo è un dato scientifico inequivocabile. Non dipende da lui. Dire a un adolescente di comportarsi bene  è come  friggere l’acqua, non si ferma nulla».

Fuggire dalla mamma.

«I ragazzi hanno bisogno di scaricare una tensione emotiva inequivocabile. Avrebbero bisogno di stare con i loro compagni perché è il momento di uscire dal nido materno. L’adolescente  vuole allontanarsi dalla mamma. È normale. È sempre stato così dalla storia dell’umanità. È totalmente contro natura tenere i ragazzi chiusi in casa con la mamma. Dannosissimo per la lor crescita. Questi ragazzi hanno bisogno di sfogarsi, in genere c’è  l’aggregazione e il movimento. Il famoso muretto e lo sport. Il muretto nel complesso è ancora possibile, ma ora c’è questo attacco legato alle risse che però ci sono sempre state negli ultimi anni. Statisticamente non c’è un aumento. Ho seguito tanti episodi prima del lockdown. Adesso sono solo più visibili, ma adesso i ragazzi sono sotto attacco perché sono  considerati gli untori senza nessuna base scientifica.  Non esiste una-ricerca-una a livello scientifico mondiale che abbia tracciato un contagio tra un nipote e un nonno. Così li si chiude in casa ad infettarsi».

L’educazione civica parte dalla gestione dei conflitti.

«Cosa possiamo fare adesso? Intanto abbiamo perso una grande occasione, il ritorno dell’educazione civica a scuola. È una materia importante che ha a che fare con la nostra Costituzione, e con la necessità di imparare a vivere assieme. Ma non è stata  inserita la gestione dei conflitti, che è la base della democrazia. I ragazzi vanno aiutati a gestire la loro contrarietà, imparando le tecniche  di negoziazione reciproca, di ascolto reciproco. Sapere fare una discussione, ad esempio è importantissimo. Se c’è una persona che non ha le stesse idee o che vuole le tue stesse cose e tu sei contrario, che fai lo picchi o ci discuti? Ma per discuterci devi sapere come fare, e questa è la base dell’educazione civica. Altrimenti attivi il cervello in maniera rettiliana, cerchi di eliminare chi ti disturba. L’educazione civica che non introduca la gestione dei conflitti è inutile. Un’occasione mancata».

L’appello.

«Adesso si è creato un vuoto. Totale. È come se  chiedessimo ai ragazzi per un anno stai fermo, non fare niente. Ma non è possibile. Il ragazzo per antonomasia  si muove. Per antonomasia cresce. Il  crescere è un suo bisogno involontario.  È come se tu piantassi un seme ma se non lo innaffi muore. I nostri ragazzi adesso sono come quel seme: li abbiamo piantati,  sono cresciuti, ma ora non li annaffiamo più. Anzi. A  un certo punto diciamo loro di stare  in un cono d’ombra:  ma qui si muore! Si sta creando una situazione di grande depressione nei nostri ragazzi».

La chiusura delle scuole e la paura di uscire.

«Le ultime mie segnalazioni che ricevo dalle famiglie è che i ragazzi non vorrebbero neanche più tornare a scuola. C’è paura. Stanno interiorizzando una forma di depressione basata sulla paura. Questo è un lascito che dipende non solo dalla pandemia ma anche da decisioni sbagliate, come la chiusura delle scuole senza criterio. Tutte le volte che i genitori hanno fatto ricorso al Tar hanno sempre vinto. La scuola è un diritto inalienabile. La chiusura delle scuole è l’ultima scelta. Ma ci rendiamo conto dei gravi danni verso questa generazione? Non c’è solo il virus che fa male. La depressione fa molto più male  del virus ai ragazzi. I ragazzi del virus non muoiono ma la depressione può uccidere.  I suicidi sono in aumento. Tutto questo è agghiacciante».

Ciro Cascone

La punizione della rissa.

«La rissa avviene quando  ci sono almeno tre persone che fanno a botte. Il codice  punisce anche la semplice partecipazione:  se poi ci sono lesioni personali la pena aumenta, è aggravata. La semplice rissa senza lesioni è punita con una multa di 300 euro. Ma l’aspetto più complicato, è la prova della rissa: quando arrivano le forze dell’ordine tutti si dileguano. Se  c’è il ferito, questa  è la prima prova che c’è stata la rissa, ma altrimenti resta difficile provarlo. Ad esempio, nella famosa rissa di Gallarate dei giorni scorsi, si parlava della partecipazione di centinaia di persone. Ma quando sono intervenute le forze dell’ordine non c’erano più. È stato possibile risalire a quello che era successo  in base alle immagini».

«Io non sono stato».

«La maggior parte delle risse poi, anche se arrivi al processo, hanno lo stesso schema. “Io non sono stato, sono stato aggredito e mi sono difeso. Io sono la vittima. Il paradosso di tante risse è che ci sono sono contemporaneamente autori e vittime. Chi ha avuto lesioni, sappiamo che ha partecipato alla rissa. Ma non c’è vuoto giuridico, la partecipazione alla rissa è punita e si procede d’ufficio. Il bene tutelato nella rissa è il bene pubblico, dove i partecipanti a volte sono ignoti».

Le risse non sono una novità.

«Entro certi limiti è anche il mio pensiero: le risse ci sono sempre state, magari non così eclatanti, da coinvolgere così tante persone. Oggi c’è sicuramente maggiore attenzione mediatica sia per la  diffusione che per l’esplosione mediatica di queste notizie. Tutte queste restrizioni per i ragazzi diventano costrizioni ed è normale che venga stimolata la trasgressione anche noi le notiamo di più. Uscire, stare insieme, assembrarsi, in questo momento c’è un’attenzione maggiore rispetto a prima. Talvolta si rischia di gonfiare episodi che sono per fortuna meno gravi. Noi interveniamo, ma c’è anche un aspetto emulazione quindi dobbiamo cercare di bloccare sul nascere queste cose. Prima, di certo, non ci si faceva tanta attenzione, ma così eclatanti non se ne veda da un sacco di tempo».

Una (distorta) questione di onore.

«La rissa diventa quasi accessoria a quell’assembramento che non parte con intenzioni rissose, poi basta niente qualcuno beve, urla, spinge… e rischia di degenerare.  La cultura del duello esiste ancora. Ti sfido per conquistare il trofeo, la ragazza a volte, che magari è pure contenta di essere il trofeo. Su questo bisogna intervenire, bisogna far capire fin da piccoli il rispetto delle persone».

Cosa possiamo fare?

«Insegnare ai ragazzi a prendere le distanze dalla violenza.  Altrimenti avremmo sempre la rissa e il gruppo degli spettatori, dei  non ho visto niente. Non bisogna reagire cercando la vendetta ma denunciare. Raccontare, parlare,  sputtanare chi fa violenza davanti a tutti. La violenza non va legittimata. Deve cessare questo sentirsi offeso nell’onore. Perché purtroppo  è vero che abbiamo ancora questa cultura dell’onore e della dignità. Distorta perché non si deve vergognare chi subisce, altrimenti sarà vittima due volte.

Si arriva all’assurdo che chi subisce violenza al parco non denuncia perchè si vergogna di apparire come quello sfigato che ha subito l’aggressione. Si sente preso di mira e distrutto nella sua immagine. Ecco perché lo spettatore non deve restare spettatore. Il bullismo esiste perchè esistono gli spettatori. Altrimenti certe forme di violenza non esisterebbero più».

Emilio Orlando per leggo.it il 12 aprile 2021. Tre denunciati tra cui una ragazza. Poi un ferito e dieci ragazzini già identificati. Ma quello che più impressiona è il numero dei presunti coinvolti: almeno cento persone, se non di più.

APPUNTAMENTO FOLLE. Si sono dati appuntamento all’ora del cambio turno delle volanti, quando c’è meno polizia in giro. Uno scontro largamente premeditato, quasi organizzato nei dettagli: la mega rissa tra giovanissimi, scoppiata sabato pomeriggio, era infatti apparsa sui social già da quattro giorni. Soprattutto su Instagram.

RETE E COLTELLI. Secondo la polizia del commissariato Trevi, che sta indagando, la “carica” è partita sul social che piace di più ai giovani, al punto che vi ha aderito un gruppo decisamente folto: più di cento i ragazzi che si sono dati appuntamento a piazzale Flaminio, anche con i coltelli.

50 CONTRO 50. Due gruppi molto numerosi, composti da una cinquantina di adolescenti tra cui moltissime si sono fronteggiati senza un motivo apparente.

TUTTO IN VIDEO. Le drammatiche fasi della rissa (dove sono volati calci, pugni e sono spuntati appunto alcuni coltelli a serramanico) sono state riprese in diretta dalle telecamere a circuito chiuso che vigilano sul quel quadrante cittadino. Proprio i frame dei video hanno permesso alla poliziotti di dare un nome ad alcuni dei partecipanti residenti anche fuori Roma.

CORRETE, CORRETE. A dare l’allarme sul tafferuglio in corso è stata una donna che aveva visto alcuni giovani rincorrersi dopo essere venuti alle mani. All’arrivo delle prime volanti, che stavano uscendo dalla caserma di Via Guido Reni c’è stato un fuggi-fuggi generale da parte dei partecipanti.

I PRECEDENTI. Lo scorso 5 dicembre sulla Terrazza del Pincio si verificò un episodio analogo con quattro denunciati in due risse, dove erano presenti più di 400 giovani che facevano da spettatori anche nei corridoi della stazione Flaminio. Sempre sabato scorso un’altra maxi zuffa tra ragazzi si è verificata a viale Washington, poco distante dal Pincio.

DA DOVE. La polizia insieme ai detective della Digos sta cercando di risalire agli altri partecipanti. Sembra che le comitive coinvolte provengano dal Nomentano, alcune da piazza Bologna. altre dalla zona di Roma Sud ed una (quella a cui appartiene la 19enne denunciata) addirittura da Fiano Romano.

Ristoratori disperati, inapplicata ordinanza De Luca. Botte al 118 e rissa tra giovani, Carnevale folle sul lungomare di Napoli: “Stato assente e clienti in fuga”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Non solo caos, assembramenti e tanti ragazzini senza mascherina in giro sul lungomare di Napoli. Ma anche un rissa tra 15enni con giovane ferito da un’arma da taglio alla mano, l’aggressione al personale del 118 ad opera sempre di balordi e il tentativo di alcuni ragazzini di sfuggire al controllo della polizia. E’ la sintesi della giornata di ordinaria follia andata in scena nel capoluogo partenopeo nonostante l’ordinanza del governatore Vincenzo De Luca che, oltre a vietare le feste in occasione del Carnevale, invitava i sindaci a inibire l’accesso ai luoghi affollati (piazze e strade principali) chiedendo inoltre maggiori controlli da parte delle forze dell’ordine. Dalle immagini girate dai ristoratori e denunciate in una dura nota dalla Confesercenti, si è verificato esattamente l’opposto. Con le scuole chiuse per il martedì grasso, centinaia di giovani si sono riversati sul lungomare tra via Caracciolo e via Partenope e non sono mancati momenti di tensione che hanno solo danneggiato il lavoro dei ristoratori presenti, martoriati da mesi da ordinanze restrittive e danni provocati dal maltempo. L’intervento della polizia, dopo la segnalazione di una rissa tra ragazzini, è avvenuto intorno alle 13.45. Gli agenti hanno fermato tre persone, tutte di età compresa tra i 15 e i 16 anni, con il giovane ferito alla mano da un’arma da taglio (probabilmente un taglierino) portato al pronto soccorso dell’ospedale dei Pellegrini per le cure del caso (guaribili in otto giorni). Poi l’aggressione, al momento immotivata, al personale del 118 intervenuto poco dopo. Episodi che hanno “svuotato i ristoranti, ho chiesto al prefetto Marco Valentini e al questore Alessandro Giuliano un incontro urgente sulla sicurezza. I controlli sono assenti” dice Vincenzo Schiavo, presidente di Confesercenti Napoli, che insieme Fiepet Napoli (rappresentata da Antonio Viola e Roberto Biscardi) condannano l’episodio e lamentano “le gravi ripercussioni sulle attività commerciali della zona”. “Segnaliamo che una banda di ragazzini ha scatenato una rissa e ha aggredito un automezzo del 118 in via Partenope – si legge nella lettera inviata a Prefetto e Questore – e che questi delinquenti erano sprovvisti delle mascherine. Gli esercizi pubblici del lungomare non possono subire ulteriori danni oltre quelli che li hanno già messi in ginocchio, per cui richiediamo ancora maggiore vigilanza e presenza”. “Ai nostri occhi – aggiunge Schiavo – lo Stato è assente, la città pare abbandonata al suo destino. Non è possibile che sul posto ci siano appena due volanti della polizia. E’ l’ultimo giorno di Carnevale, c’è il sole, è festa, era assolutamente scontato un assembramento di persone. I protagonisti di questa rissa sono delinquenti, gentaglia senza rispetto degli altri e della città. A pagare purtroppo sono sempre i ristoratori, già sommersi dai debiti, già vessati da un anno di Covid e dalle mille restrizioni”. Prosegue Schiavo: “Gli amici de “I Re di Napoli”, ad esempio, hanno avuto danni diretti per la rissa tra teppisti. E’ una vergogna doppia. Perché gli assembramenti sono assolutamente vietati e perché non è possibile che i nostri imprenditori siano vittime oltre che del Covid anche di questi delinquenti. Occorre un incontro urgente con il Prefetto e con il Questore: siamo disponibili, come sempre, a collaborare, ma il tema sicurezza del Lungomare è essenziale”. Una giornata segnata da assembramenti in numerose zone della città con i Carabinieri del Comando Provinciale di Napoli che, nel corso dei controlli effettuati, hanno elevato almeno 52 sanzioni Covid ad altrettante persone. Gran parte in centro città e nel quartiere Vomero.

Formia, rissa tra minorenni: morto accoltellato 17enne. Fatale un litigio scoppiato intorno alle 19 fuori dal McDonald's di via Vitruvio, nel cuore di Formia. La colluttazione ha coinvolto anche altri due ragazzi, di 18 e 20 anni. Federico Giuliani, Martedì 16/02/2021 su Il Giornale.  Ha ricevuto tre o quattro coltellate all'addome da un coetaneo ed è morto così, a 17 anni, Romeo Bondanese. Fatale un litigio scoppiato per futili motivi tra le 19.00 e le 19.30 fuori dal McDonald's di via Vitruvio, nel cuore di Formia.

Altri due giovanissimi in ospedale. La colluttazione ha coinvolto anche altri due ragazzi, di 18 e 20 anni. Entrambi sono rimasti feriti e trasportati all'ospedale "Dono Svizzero" di Formia; il primo sarebbe grave e avrebbe ricevuto un intervento chirurgico. Le immagini delle videocamere di sorveglianza della banca situata nei pressi del fast food sono al vaglio della polizia. Secondo quanto appreso, la vittima potrebbe essere stata ferita a morte da un gruppo proveniente da fuori Formia. Come sottolinea l'Adnkronos, uno degli aggressori, ferito a una mano, sarebbe già stato identificato dai poliziotti. Non è escluso che l'omicidio possa essere collegato a fatti di droga. Le indagini del caso sono affidate ai poliziotti della Questura di Latina.

La dinamica della rissa. Romeo è deceduto per un'emorragia poco dopo essere trasportato in ospedale. Le sue condizioni erano apparse gravissime fin da subito. Restano da svelare due misteri. Il primo: cos'è che ha fatto scatenare la rissa (non certo la prima di questo genere); il secondo: la provenienza del secondo gruppo di ragazzi, forse di un paese limitrofo. Come detto, non si conosce il motivo del confronto, diventato sempre più acceso, passato dalle parolacce agli spintoni. A un certo punto, racconta il Corsera, sarebbe apparso un coltello, o forse più di uno. La dinamica, insomma, è ancora da chiarire. Dovrebbero essere almeno dieci i ragazzi coinvolti. Stando a quanto riportato da Il Messaggero, l'episodio sarebbe avvenuto intorno alle 20.00. Due giovani a bordo di un motorino avrebbero affiancato il gruppo in cui si trovava anche Romeo, non distante dal ponte Tallini, nel centro di Formia. Nel giro di qualche istante, la situazione sarebbe degenerata in una rissa mortale, con tanto di coltelli. Uno dei due aggressori sarebbe stato bloccato dagli amici della vittima, e in seguito fermato dalle forze dell'ordine. Il suo complice è fuggito ed è attualmente ricercato. Il 17enne, colpito più volte, è caduto a terra. Dopo il ferimento mortale di Romeo, è scattato il fuggi fuggi generale. La strada, infatti, era piena di gente in concomitanza con lo struscio serale per il martedì grasso. E questo nonostante il coprifuoco fissato alle 22.00 a causa del Covid e i locali quasi chiusi per via delle misure restrittive anti contagio.

Maxi rissa a piazza del Popolo, 150 persone si assembrano, 5 minorenni identificati. Valentina Lupia, Luca Monaco. La Repubblica il 30 gennaio 2021. Come già accaduto lo scorso 5 dicembre una folla di ragazzini si è riunita al Pincio (senza mascherine) e ha seguito la rissa insensata di una decina di giovani. Nessun ferito. L'intervento di carabinieri e polizia. Risse, assembramenti diffusi, e alcuni minorenni identificati dalle forze dell'ordine. È il bilancio di un sabato sera di "fine zona arancione", un giorno in cui, forse per l’ebbrezza del ritorno del Lazio in zona gialla (dal’1 febbraio), migliaia di giovani si sono riversati in Centro. Come già all'inizio di dicembre, a piazza del Popolo è scattata una rissa per futili motivi e due gruppi, scesi dal Pincio, sono venuti alle mani. Dando luogo a scene di violenza insensata. Sul posto sono intervenuti polizia di Stato e carabinieri. Stando a quanto è stato possibile ricostruire, nella risse sono state coinvolte, in totale, una decina di persone: cinque ragazzi minorenni, sui 17 anni, sono stati fermati dalle forze dell’ordine e condotti nel commissariato Trevi - Campo Marzio per l’identificazione. Non si registrano al momento feriti e gli stessi ragazzini non hanno riportato lesioni. La rissa, però, ha richiamato l’attenzione di altri giovanissimi e ad assistere allo scontro ci saranno state, per lo più assembrate, circa 150 persone, come si vede dai video che in serata hanno cominciato a circolare sul web, a partire dalla pagina Instagram Welcome to Favelas. Quello di piazza del Popolo, non è stato l’unico episodio di assembramento: in via San Giovanni in Laterano, accanto al Colosseo, gruppi di ragazzi si sono messi a ballare in mezzo alla strada. Alcuni erano senza mascherina e le norme di distanziamento interpersonale non sono state rispettate. Una giovane, senza cappotto nonostante le temperature rigide, è anche salita su un’automobile argentata, usandola come “palco” per un ballo. E ancora: assembramenti si sono registrati in piazza della Madonna dei Monti e all’Eur. A Villa Borghese i carabinieri, impegnati nelle operazioni anti-assembramento, hanno tentato di dividere diversi gruppi di giovanissimi. Questi episodi — in particolare quanto accaduto a piazza del Popolo — richiamano quel pomeriggio del 5 dicembre del 2020, quando almeno trecento adolescenti si erano riuniti sulla terrazza del Pincio per assistere a una discussione (annunciata sui social) tra due quattordicenni. Una delle due non si era presentata, ma gli adolescenti, incuriositi, si erano comunque riuniti in quel punto di Villa Borghese. Per alcuni l’appuntamento si è quindi trasformato in un pretesto per picchiarsi, per pareggiare altri conti. Alcuni partecipanti della rissa si erano spostati nell’androne della fermata della linea A della metropolitana Flaminio. I video avevano fatto il giro del web e quei giovani (per lo più) delle periferie romane, assembrati, avevano fatto discutere. Sui fatti erano state aperte delle indagini, mentre le forze dell’ordine avevano potenziato i controlli anti-assembramento in più punti “sensibili” della città.

Brunella Bolloli per "Libero quotidiano" il 12 gennaio 2021. Stanchi di stare davanti al pc tutto il giorno, isolati e distanziati, i ragazzini hanno trovato un modo idiota per movimentare le giornate: menarsi di santa ragione. Oddio, non che sia una maniera sana di passare il tempo, ma questa sembra sia la fotografia scattata tra le nuove generazioni in Italia: risse da nord a sud, centinaia di scatenati adolescenti che si danno appuntamento per picchiarsi in un gigantesco fight club all'aria aperta. È capitato a Roma, a Milano, a Parma, a Mestre, a Jesolo e più di recente a Gallarate e chissà dove altro ancora. Chi non c'è, chi non assiste almeno una volta è considerato quasi un disagiato, uno fuori moda perché, a telecamere spente, lo ammettono le stesse fanciulle che, anziché fermare i maschi violenti come dovrebbero fare, sono accorse adoranti a godersi lo spettacolo al Pincio, a Roma, all'inizio di dicembre: «Ho rosicato che non ce stavo a vedere quelli che se menavano l'altro ggiorno. Volevo postà il video». Video, foto, selfie: la zuffa viene organizzata sui social e sui social, ovviamente, seguono immagini e relativi commenti. Per analizzare il fenomeno, infatti, sono stati scomodati gli influencer, nuovi modelli a cui si ispirano i giovani di oggi quasi tutti nativi digitali, quasi tutti smanettatori indefessi cresciuti a pane e playstation e senza guida, senza valori. «S'ammazzano per le visualizzazioni su Instagram, la fama, i followers», ha spiegato il 23enne Maurizio Leoni in una illuminante intervista a Cartabianca. Basta scorrere i tanti profili sull'argomento e si apre un mondo: #rissetrauomini, #rissepericolose, #rissedastrada, #rissespaziali, #rissetratipe, #menamose. L'input spesso parte da Telegram, il servizio di messaggistica che poi cancella le "prove", o dal discusso Tik Tok e per qualcuno il fenomeno non è nuovo, ma è come se ci fosse sempre stato solo che stavolta i social network amplificano tutto e raggiungono in brevissimo tempo un numero impressionante di persone. Il copione più o meno è lo stesso di prima: si comincia con uno sgarro tra due soggetti non proprio mansueti, insulti che volano sulla Rete da Instagram a Facebook a Twitch, poi si formano le fazioni e ci si dà appuntamento. Il tutto con una gran pubblicità anche su canali però spesso vietati ai maggiori, perché l'età dei partecipanti ai raduni è bassa, o con strumenti non accessibili a tutti, come le stories private che scadono in 24 ore che vanno per la maggiore, il tutto corredato, a ulteriore tutela, da un intreccio di hashtag che rimbalzano di smartphone in smartphone. Per le informazioni chiave (cioè ora e modalità della zuffa) si fa riferimento a Tellonym, applicazione di messaggistica istantanea anonima dove gli utenti possono mandare messaggi senza essere sgamati. Morale: complice la pandemia, e il tempo libero che certi ragazzi annoiati hanno in questo periodo, mettersi d'accordo via telefonino per organizzare la rissa è un attimo. Così il mese scorso in una settimana si sono picchiati, oltre nella Capitale, a Venezia, a Gaeta sul lungomare, a San Benedetto del Tronto, a Castellammare di Stabia. E due giorni fa la violenza è scattata a Gallarate con minorenni provenienti da Milano e dalle città limitrofe: tutti contenti di andare a tirare pugni e calci o almeno di stare a guardare per dire un giorno «io c'ero» come una moltitudine pecorona. A Parma l'altro giorno erano almeno cinquanta nella centralissima piazza della Pace. Il combattimento è iniziato tra due contendenti e poi sono arrivati tutti gli altri in branco a guardare e incitare. Nessuno portava la mascherina perché sul "ring di strada" non comanda certamente il Covid per cui i testimoni dicono che le forze dell'ordine se sono intervenute l'hanno fatto più per sanzionare chi non aveva il volto coperto che per la brutalità della situazione. A Gallarate, nel Varesotto, proseguono serrate le indagini da parte della procura dopo la mega rissa di venerdì scorso dove un centinaio di giovanissimi si sono sfidati con coltelli, catene, bastoni e bottiglie di vetro. Finora è stato fermato un 18enne, ma non sarebbe l'unico responsabile della battaglia a cui hanno partecipato perfino 12enni saliti sul treno da Milano per raggiungere il luogo convenuto per l'appuntamento. Il maggiorenne dovrà rispondere del reato di rissa aggravata a seguito del ferimento di un ragazzino di 14 anni, finito in ospedale dopo un colpo alla testa. Alla base della follia di Gallarate potrebbe esserci un regolamento di conti tra gruppi rivali, ma anche un semplice quanto stupido tentativo di emulazione di quanto già accaduto nelle scorse settimane in altre città, Roma in primis. Soltanto ad Ancona, finora, è andata bene. I carabinieri, infatti, sono riusciti a sventare una maxi colluttazione pianificata sui social. Un gruppo di giovani, provenienti da Macerata, voleva aggredire altri coetanei. Un 16enne, che aveva nello zaino un coltello da cucina lungo 31 centimetri, è stato denunciato per possesso ingiustificato di arma. 

Monica Serra per lastampa.it il 10 gennaio 2021. L' appuntamento era fissato per il pomeriggio in piazza della Libertà, nel cuore di Gallarate. La «chiamata alle armi» correva almeno dal mattino sui social e sulle chat di Whatsapp. Con mazze, catene, bottiglie di vetro tanti ragazzi anche minorenni sono arrivati in treno nella cittadina a venti chilometri da Varese. Un centinaio, forse di più, poco dopo le quattro di venerdì pomeriggio, si sono riversati nelle strade del centro storico, spaventando passanti e negozianti. Gli scontri sono iniziati subito, tra largo Camussi e via Mercanti. A mani nude, con le pietre e coi bastoni. Sulla maxi rissa indaga la procura di Busto Arsizio che ha aperto un fascicolo e ha già iniziato a identificare i partecipanti. Gli inquirenti parlano di «una spedizione punitiva che emula i casi recenti». Il più grave a Roma il 5 dicembre: quattrocento adolescenti si sono fronteggiati sulla terrazza del Pincio. Qualche giorno più tardi la scena si è replicata a Venezia e ha coinvolto una quarantina di ragazzi. Dietro sempre motivi banali: un regolamento di conti, magari per il furto di un cellulare o per un apprezzamento di troppo alla fidanzata di qualcuno. Non si conoscono ancora le cause dell' incontro di Gallarate. Tra le ipotesi c' è un precedente pestaggio ma è troppo presto per dirlo. Quando la polizia locale è riuscita ad allontanare e a disperdere gli adolescenti a terra era rimasto un quattordicenne italiano di origine albanese ferito lievemente alla testa. «Un gruppo lo ha inseguito e colpito con le catene, siamo dovuti intervenire per fermarli», racconta una negoziante di via Mercanti. Al termine degli scontri, i vigili hanno sequestrato mazze da baseball, pietre, catene e un coltello con la lama di nove centimetri. Erano nascosti in due borsoni del Varese calcio, «ma il riferimento alla squadra potrebbe c' entrare nulla», sostengono gli investigatori della Questura di Varese, cui sono state affidate le indagini. Una ragazzina presente ha raccontato che sarebbe stato scelto il Comune come «luogo neutro» e che a scontrarsi sarebbe stati soprattutto ragazzi partiti da Malnate, quasi al confine con la Svizzera, e Cassano Magnago. Proprio a Malnate le indagini si concentrano anche su un gruppo di ragazzini che ruotano attorno a una band che fa musica trap, la 167 gang. Tutti giovanissimi, si ritrovano spesso per le strade del quartiere popolare 167. «Non hanno mai dato grandi problemi», dice però la sindaca, Irene Bellifemine. «In paese si è verificato solo qualche atto vandalico, magari qualcuno di loro ha abbattuto dei segnali stradali. O, al massimo, col lockdown, si sono stati registrati assembramenti. Tanto che prima di Natale ho dovuto chiudere il parco Primo Maggio, dove spesso si ritrovano», spiega la sindaca. Per il momento si tratta soltanto di ipotesi. La prima informativa dei poliziotti arriverà domani sulla scrivania del pm Nadia Calcaterra della procura di Busto. E sicuramente nelle indagini sarà affiancata dalla procura presso il tribunale dei minorenni, diretta da Ciro Cascone. Anche il procuratore ipotizza che dietro agli scontri possa esserci l' emulazione. Il 14enne ferito sta già meglio. «Non so perché mi hanno picchiato, ero lì solo di passaggio», ha detto agli investigatori che attraverso le immagini delle telecamere di videosorveglianza hanno identificato già qualche altro ragazzo. A fatica, per via di cappucci e mascherine. Di «emulazione e moda» parla anche il sindaco di Gallarate, Andrea Cassani, che si è subito attivato per capire che cosa è successo. «Qui è già capitato qualche mese fa che un gruppetto di ragazzini scendesse in piazza a urlare contro le forze dell' ordine, poco dopo gli scontri violenti che si sono verificati a Napoli, e in varie città d' Italia in autunno». Cori e insulti su cui indaga la polizia.

Andrea Camurani per Corriere.it il 31 marzo 2021. Sono in tutto 17 le misure cautelari eseguite nelle prime ore di mercoledì dalla polizia ai danni di altrettanti giovanissimi accusati di aver preso parte alla grande rissa di strada avvenuta a Gallarate lo scorso 8 gennaio. In particolare, si legge nell’ordinanza della Procura del tribunale per i minorenni, per sette ragazzi è disposta la permanenza a casa «con divieto di comunicare con qualsiasi mezzo, anche telefonico o telematico». Per altri otto scattano alcune prescrizioni, tra cui «l’obbligo di rientrare a domicilio entro le 19, divieto di frequentazione di pregiudicati» e consumatori di droga. I reati contestati: rissa aggravata, lesioni personali pluriaggravate, porto ingiustificato di strumenti atti ad offendere. Il procuratore dei minori di Milano, Ciro Cascone, in una nota, ha definito l’episodio «una vera e propria rissa che ha rasentato la guerriglia urbana». Quel pomeriggio, un venerdì in pieno centro si fronteggiarono un centinaio di ragazzi con catene e bottiglie dopo essersi dati appuntamento su Instagram e altri social. Alla base dell’appuntamento degli screzi fra bande rivali di paesi non distanti da Gallarate, città scelta come luogo di scontro: un ragazzino di 14 anni rimase ferito in maniera seria per una bottigliata ricevuta alla testa. Le Procura per i minorenni considera i fatti «molto gravi» per una serie di ragioni: la violenza scatenata in pieno giorno, la «disinvoltura» mostrata e la volontà di agire come «branco», servendosi anche di armi improvvisate«, tutti elementi sintomatici di «personalità prive di freni inibitori e facilmente inclini all’uso della violenza». Scrive la Procura: «Colpisce la banalità e futilità dei motivi scatenanti, rinvenibili in un precedente battibecco tra alcuni appartenenti alle due fazioni, ma che è stato evidentemente interpretato come un affronto che esigeva una vendetta corale. Come pure la facilità con cui gli indagati si siano serviti dei social network per organizzare la rissa e reclutare in pochissimo tempo un elevato numero di persone». Le prime indagini hanno portato all’individuazione di una diciottenne subito denunciata, poi la Procura della Repubblica di Busto Arsizio ha proceduto alla denuncia di una trentina di persone. Le intercettazioni telefoniche oltre alle più accurate analisi delle telecamere e altri elementi raccolti dalla squadra mobile di Varese e dagli agenti del commissariato di Gallarate hanno permesso di raccogliere evidenze sufficienti per l’emissione delle misure cautelari, 15 delle quali eseguite nei confronti di minorenni. L’operazione si chiama «Ehi Brò N.p.t.» che sta ad indicare una frase in gergo utilizzata da alcuni indagati, «abbreviazione di “Ehi Brò No Parla Tanto”», spiegano gli inquirenti «gergo utilizzato di frequente dagli indagati nelle chat analizzate, con il quale tutti gli interlocutori venivano invitati ad evitare di parlare dei fatti onde correre il rischio di essere intercettati».

Gallarate, gli agguati dei quattro ragazzini e la resa dei genitori: «I nostri figli? Non li gestiamo più». Andrea Camurani e Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2021. Aggressioni e rapine in centro a Gallarate per rubare orologi, monopattino e auricolari del telefonino. In comunità quattro adolescenti tra i 14 e i 16 anni. Le frasi choc dopo i pestaggi: «Con questi abbiamo finito». Il giudice: condotte violente, attività sistematica. «Con questi abbiamo finito». Nelle carte dell’inchiesta sulla (di nuovo) delinquenza minorile (ancora) a Gallarate, ci sono calci, pugni e rapine che hanno generato prognosi in ospedale, e c’è un’unica frase, udita e riportata dall’amica di una vittima: «Con questi abbiamo finito». Parole che confermano la serialità del gruppo, formato da quattro ragazzini di 14, 15 e 16 anni, i quali agivano quasi per una naturale sequenza violenta, esterna o quantomeno non riconducibile soltanto al valore della merce da conquistare. In ordine sparso: un orologio, un monopattino, gli auricolari del telefonino; insomma, quanto vedevano in possesso della preda (qui il caso Varese, qui l’intervista allo psicologo Matteo Lancini e qui l’analisi della poliziotta Ornella Della Libera).

Le tecniche di assalto

A completamento delle indagini del Comando provinciale dei carabinieri e della Compagnia di Gallarate, il Tribunale dei minori ha disposto un’ordinanza di custodia cautelare di collocamento in comunità. Se la reiterazione della geografia, quella provincia di Varese già raccontata dal Corriere, si conferma non essere casuale e dovrebbe avviare sul posto un dibattito anche e soprattutto di chi governa interagendo con le agenzie e gli operatori sociali, nonché le scuole, rimane, nella sua cruda essenza, il solito modus operandi. I quattro non avevano progettato la creazione di una classica formazione criminale, non avevano pianificato i colpi, non avevano studiato la scena a cominciare dalle vie di fuga. Soprattutto, ci fosse stato per appunto un «progetto», forse avrebbero deciso di aggredire lontano da Gallarate (cittadina di residenza di tre, l’altro abita non lontano, a Cassano Magnago), diminuendo i rischi di venire presto identificati, come invece successo, da persone che li conoscono o li hanno visti circolare. E invece, mentre camminavano, tra un liceo e una gelateria, i ragazzini partivano all’attacco. C’era, sì, una profonda coesione, una coralità, una profonda unità di intenti. Nessuno, quando per esempio negli agguati scaturivano «difficoltà», intese come resistenza delle vittime, si sottraeva all’aiuto dei complici, senza badare alle conseguenze (il fare male a un coetaneo) e alla possibilità che, aumentando il tempo d’esecuzione, potesse crescere il numero dei testimoni e potessero arrivare le forze dell’ordine.

I controlli della polizia

Può contribuire a una piena lettura di quest’inchiesta riportare il comportamento di uno dei papà dei ragazzini, perché risulta troppo facile ricondurre la delinquenza minorile al cliché di famiglie sfasciate, figli ormai perduti, a vicende di immigrazione e di seconda generazione, di incuranza e di strafottenza degli adulti. Ogni storia, al solito, è a sé stante, pur dovendo ripetere, per onore di cronaca, la densità statistica in questo territorio dove comunque anche la Questura di Varese ha, da tempo, dedicato personale e risorse speciali, un continuo monitoraggio e la ricerca della migliore strategia possibile, al netto di un’evidenza: appare esercizio banale demandare ogni volta ogni criticità alle forze dell’ordine. Comunque sia, questo padre aveva saputo, proprio dal suo ragazzo, che lui aveva commesso una rapina; l’aveva allora invitato ad andare dai carabinieri, un invito o forse un ordine disatteso; e agli investigatori quest’uomo aveva riferito delle brutte compagnie, non unicamente con coetanei, scelte dal ragazzino, che il papà, testuale, affermava di non riuscire più a gestire. I ragazzini coinvolti hanno in misura eguale (due e due) un passato di altri guai con la giustizia e la fedina penale limpida, pur al netto di segnalazioni, nell’ambiente scolastico, di problematiche già emerse e che si erano pure ripetute.

La deriva delinquenziale

Se si poteva anticipare questa deriva, che in conseguenza dei provvedimenti giudiziari segnerà per sempre le esistenze dei minorenni, resta una domanda senza al momento una risposta. Il gip, nella stesura del provvedimento, ha sottolineato le condotte violente e «la sistematicità dell’attività» e «le azioni delittuose» di ragazzini «che hanno palesato di aver posto in essere, nella stessa giornata, plurime condotte di rapina ai danni di soggetti diversi». La scelta della comunità anziché del carcere, si ispira però a un ragionevole ottimismo della magistratura affinché, in considerazione della giovane età, qualcosa se non tutto si possa ancora salvare, sempre che vi sia, da parte dei diretti interessati, l’accettazione dell’autorità. In analoghi casi a Milano, nella zona della Darsena, i carabinieri hanno raccontato della frequenza con la quale, quando accorrono per sedare una rissa oppure un lancio indiscriminato di bottiglie di vetro contro obiettivi occasionali (le vetrine di un negozio come un tram, ignari passanti come i rider in attesa fuori dai ristoranti), i violenti non si fermano. Non lo fanno all’udire in lontananza le sirene delle pattuglie; non lo fanno alla discesa dei carabinieri delle macchine.

Teodora Poeta per "il Messaggero" il 5 gennaio 2021. È finito a processo accusato di aver maltrattato il padre. Quel padre che, a sua volta, lo aveva picchiato da bambino. Così il giudice lo ha assolto: cresciuto in un clima di violenza, l' imputato ha creduto di potersi comportare in quel modo. «Adesso bisognerà attendere le motivazioni - spiega l' avvocato difensore, Pierfrancesco Manisco - ma noi siamo già pienamente soddisfatti della sentenza di primo grado». Protagonista della vicenda un 28enne della provincia di Teramo, all' epoca dei fatti convivente con i genitori e due fratelli. A far finire la loro storia in un fascicolo aperto dal pubblico ministero Enrica Medori, la segnalazione dei vicini di casa dopo una delle tante liti familiari terminata con l' arrivo dei Carabinieri davanti alla porta dell' abitazione. Così è scattata la denuncia di entrambi i genitori nei confronti di uno dei figli, il 28enne, accusato di maltrattamenti in famiglia. In particolare, come si legge nel capo d' imputazione, il giovane avrebbe avuto continui comportamenti offensivi in particolare verso la madre, con parolacce ed epiteti, fumato marijuana all' interno della casa familiare tanto «da disperderne le esalazioni per tutta l' abitazione» e costretto i familiari ad inalarne i fumi, avrebbe tenuto il volume della musica particolarmente alto così da disturbare il riposo dei conviventi e rifiutarsi di abbassarlo nonostante le richieste. Infine avrebbe avuto «atteggiamenti violenti nei confronti del padre». Tra i due ci sarebbe stata una lite con un pugno al volto dato proprio dal figlio, talmente forte da provocare la rottura della dentiera. Eppure agli atti non sono risultati certificati. Così come non sono risultati certificati che attestassero neanche presunti litigi finiti alle mani anche con gli altri fratelli. Il principale accusatore del 28enne è stato proprio suo padre, l' uomo che lo ha trascinato a processo. L' imputato non si è mai sottoposto all' esame, ma ha reso spontanee dichiarazioni, durante le quali ha ammesso un solo episodio di violenza contro il genitore, accaduto un paio di anni fa, giustificato dal fatto di aver sempre preso le botte da lui. «Ho visto mio padre che fin da piccolo alzava le mani e ho imparato a farlo. Ho pensato che si potesse fare così», ha detto di fronte al giudice Domenico Canosa. «Una circostanza ha spiegato anche il difensore, l' avvocato Manisco ritenuta credibile dal giudice perché confermata pure da sua madre in dibattimento». La donna, infatti, che è stata sentita come teste, ha dichiarato di non aver mai avuto paura del figlio, ma piuttosto di suo marito. Alla fine delle udienze, la stessa Procura aveva chiesto l' assoluzione. E infatti il 28enne è stato assolto perché il fatto non sussiste con il Tribunale che ha proceduto alla riqualificazione del reato in ingiurie e lesioni con il primo reato depenalizzato e il secondo non procedibile per difetto di querela. Si tratta di fatti contestati che sarebbero avvenuti tra il 2009 e gennaio 2019. Dieci anni durante i quali, comunque siano andate le cose, in famiglia non c' è stato il buon esempio del padre per cui, secondo il giudice, anche uno dei figli ha tenuto comportamenti simili ai suoi. Atteggiamenti sbagliati, ma non per questo è stato condannato.

·        Parliamo del Culo.

Costanza Cavalli per "Libero quotidiano" il 15 aprile 2021. In casa o al lavoro, in auto e al supermercato, abbiamo tutti la bocca sempre piena di culo. Nessuna parte del corpo è più citata, vezzeggiata, infamata, schernita, financo travisata. Essa attraversa le epoche intatta, centrale nei discorsi quanto nella topografia del corpo umano. Tutto ciò che è fisiologico interagisce con il cervello, è questo il motivo per cui - il culo - ce l' abbiamo sempre in mente, e pronunciarne il termine, pensateci, per gioia o per stizza, è scaramantico, quasi religioso: invariabilmente induce nel portatore del culo nominato la percezione di una invisibile liberazione o di una inscalfibile sentenza. Una delle opere di Haris Lithos, artista che dipinge grandi tele con forme astratte monocromatiche e dipinte con il proprio sedere Si può dire infatti che ognuno di noi dipende molto strettamente dal buon funzionamento del suo posteriore, almeno quanto, risalendo lungo una immaginaria linea verticale, dall' efficienza del cuore e del cervello. Il culo è quasi un oroscopo: può fare cominciare bene o male una giornata, e quando va in tempesta la può rendere inutilizzabile; una sua protesta sonora può indurre imbarazzi e un suo comando alla ritirata è senz' appello, può indifferentemente interrompere un incontro amoroso quanto la stipula di un accordo internazionale.

MODI DI DIRE. Non è quindi strano, ma va precisato, che nessun culo, scritto o parlato o pensato, viene dal nulla. La parola in sé viene dal greco "kòilos", che significa vuoto, concavo (cioè l' ano), da cui discende anche "colon". La maggior parte delle sue declinazioni popolari ha origini di facile lettura con qualche sorpresa. Per esempio "Avere culo", e tutte le sue forme contratte o traslate (es. "la fortuna con la C maiuscola"). Secondo l' etologo Desmond Morris (leggete "L' uomo e i suoi gesti") le natiche femminili sono un richiamo sessuale primordiale, e in molti primati le loro dimensioni aumentano durante l' ovulazione: la femmina mostra il posteriore al maschio, e più grosso è meglio è. Il linguista Ottavio Lurati ha poi osservato che le parti del corpo collegate alla riproduzione hanno preso un significato simbolico, sinonimo di vitalità che allontana la morte e le disgrazie, e quindi di buona fortuna. La variante "botta di culo", invece, pare si riferisca a una fortunosa spinta da dietro che lancia in avanti, o permette di balzare in groppa a un destriero, da cui "essere a cavallo", quindi in vantaggio. Pare che la fonte indiretta dell' espressione sia Virgilio, che ha legato la figura del cavallo alle fortune di Cartagine e della sua regina Didone, la quale costruì la città nel luogo in cui rinvenne una testa equina. La magica relazione fra il posteriore e i favori del caso è entrato anche nella mitologia contemporanea, grazie alla particolare religiosità di Vittorio Feltri, che a coronamento della sua (e di molti altri) certezza che senza fortuna non si va da nessuna parte ha istituito, extra-calendario, un santo apposito da invocare a piacimento, SanCulo. Il culo nella modernità ha preso molte strade. "Avere il fuoco al culo" per dire agitazione o fretta, "le pezze al culo" per dire povertà, "la bocca a culo di gallina" per l' espressione indignata (o perplessa) con le lebbra strette e piene di pieghine. E poi "faccia da culo" (cioè senza vergogna), leccaculo (disposto a tutto in cambio di un vantaggio), "farsi un culo così", che è il rovescio di "fatto con il culo"; "fare il culo" a qualcuno, essere "culo e camicia". Ma la parte del leone è appalto dell' onnipresente "dar via il culo", dai molteplici indirizzi, il cui più frequente è la contrazione "vaffaculo": umiliazione doppia, perché il sedere usato come arma verbale è anche il bersaglio e proprietà della vittima: nessuno ha mai minacciato un altro dicendo "ti colpirò con il mio culo".

IN LETTERATURA. Nel passato il culo è stato non di meno presentissimo: sarebbe ingiusto e anzi marcatore d' ignoranza idealizzare i tempi andati come elegantemente carenti di quotidiane epistrofi armate sui fondoschiena altrui. Al contrario, le grandi menti di ogni epoca non hanno avuto timidezze nell' infarcire le loro opere di fondoschiena e di parti ad esso accolite. E i compilatori dei manuali del liceo hanno sudato molte camicie a costruire tratturi linguistici per non citare quelle parole: così hanno distrutto gente come Catullo, Marziale e Giovenale, solo con Dante hanno fallito, dato che era impossibile schivare il diavolo che «avea del cul fatto trombetta» nel XXI Canto dell' Inferno. A proposito di Dante, il cui vocabolario volgare camuffa spesso le invettive più truci, se il tema vi interessa potete leggere "Le parolacce di Dante Alighieri" del filologo Federico Saguineti. Per quanto riguarda il ripristino della verità sugli antichi, oggi che il culo è stato sdoganato anche nelle traduzioni, dovrete sfogliare una seconda volta molti classici, ma vi divertirete leggendo Persio, poeta vissuto sotto Nerone, che scriveva versi difficili nella convinzione che la satira fosse la verità che si rivela senza bisogno di qualcuno che ascolti, come un barbiere che dice sottovoce in un buco per terra «Midas ha le orecchie da culo!». Molto più sfrontato era Catullo («Io ve lo ficcherò su per il culo e poi in bocca / Aurelio succhiacazzi e Furio frocia sfondata»). L' espressione "Restare con il culo per terra" pare abbia un'origine medievale: i longobardi usavano esporre chi veniva punito per debiti facendogli togliere i pantaloni e appoggiare le natiche sull' erba. Rimanendo all' economia, il nostro amico culo è stato anche variamente chiamato in causa per inoculare nel popolo pillole di saggezza. Su uno degli scranni del coro quattrocentesco in legno decorato a bassorilievo nella Oude Kerk, la chiesa più antica di Amsterdam, è raffigurato un uomo in posizione evacuatoria sotto il quale è scritta la massima "i soldi non escono dal retro". Lo scrittore spagnolo seicentesco Francisco De Quevedo si interessò molto al culo, ne constatò la tensione verso la perfezione sferica e il suo imperio sul resto del corpo: «Ha un solo occhio, ma è più necessario quello che i due occhi del viso». Per non dire, facendo un passo indietro al Cinquecento, dello scrittore francese Francois Rebelais, il cui Gargantua è uno scoppiettìo continuo: «Affermo e sostengo, che non v' è miglior nettaculo d' un papero ben piumato () sia per la soavità di quel suo piumetto, che per il temperato calor naturale del papero, il quale facilmente si comunica al budello culare (), concludendo che anche la beatitudine di eroi e semidei stia nel fatto che si nettano sempre il culo con un papero, e tale è altresì l' opinione del nostro maestro Duns Scoto». Ah: Duns Scoto è stato un importante filosofo scozzese del Duecento. Inoltre, fu chiamato "Dottor Sottile" ottocento anni prima di Giuliano Amato, il presidente del Consiglio che, come ricorderete, alle 4 del mattino del 10 luglio 1992 inflisse un prelievo forzoso del 6 per mille dai nostri conti correnti, mettendocelo indovinate dove.

·        L’altezza: mezza bellezza.

Jessica D'Ercole per “La Verità” l'11 dicembre 2021. Gli olandesi, il popolo più alto del mondo, si sono abbassati. Rispetto a 30 anni fa, le donne si sono rimpicciolite di 1,4 centimetri e gli uomini ne hanno perso uno. Lo studio della Cbs non esclude che l'abbassamento sia dovuto all'immigrazione, anche se fa notare che «gli uomini senza antenati migranti non sono cresciuti di statura». A metà Ottocento l'olandese medio era alto circa 1,63 metri, 150 anni dopo - anche grazie a una dieta a base di formaggi, latte e yogurt, secondo alcuni studi - è cresciuto fino a 1,83 metri. Tuttavia hanno poco da lamentarsi: anche se hanno perso un centimetro, il 21% degli uomini è più alto di un metro e 90 attestandosi così, per la cinquantesima volta in 50 anni, il primato in altezza dell'intero globo. A fare da contraltare ai giganti dei Paesi Bassi sono gli abitanti di Timor Est che, nonostante la salutare aria di mare, non superano il metro e 60, una bassezza da far invidia a Danny DeVito che, dall'alto dei suoi 147 centimetri, si è sempre autoproclamato «il nano più alto del mondo!». L'attore, della sua statura, ci ha sempre riso su tanto che in questi mesi sta girando il sequel de I gemelli affianco ad Arnold Schwarzenegger (188 cm). Non aveva lo stesso coraggio Raffaella Carrà (168 cm) che, nonostante non fosse la più bassa, soffriva molto quei dieci centimetri che la separavano da Mina (178 cm). Ricordava Gigi Vesigna, storico direttore di Tv Sorrisi e Canzoni: «Quando fecero insieme Milleluci, io feci una copertina di Tv Sorrisi e Canzoni con loro due, e metterle d'accordo fu una via crucis. Raffaella per avvicinarsi a Mina mise degli zatteroni con una zeppa pazzesca. Mina, che non voleva dargliela vinta, si infilò delle scarpe altissime, e si innescò una corsa al rialzo; in più il fotografo usò degli obiettivi che allungavano. Alla fine le foto erano assolutamente sproporzionate». Usa tacchi altissimi anche la scrittrice argentina Isabelle Allende (150 centimetri scarsi). Se potesse ne farebbe a meno ma «sono così bassa che per me è impossibile guardare le persone in faccia: le guardo all'altezza dell'ombelico, e poi vedo le loro narici e i peli dentro. È orribile». Paradossale, invece, la cantante australiana Natalie Imbruglia (160 cm) che fino alla tarda adolescenza era convinta d'essere troppo alta: «Tutti i miei familiari erano più bassi di me». Non ebbe da mettersi tacchi Gabriele D'Annunzio (158 cm) che, per arruolarsi, si aggiunse semplicemente 5 centimetri e, per sua fortuna, nessuno stette lì a misurarlo. Fosse nato una manciata d'anni più tardi non avrebbe neanche dovuto mentire. Vittorio Emanuele III (152 cm), il più piccolo dei Savoia e per questo soprannominato «Sciaboletta», costrinse il regio esercito italiano ad abbassare la statura minima per il reclutamento. Di politici bassi il mondo ne è pieno, da Amintore Fanfani (163 cm) che chiedeva senza problemi pacchi di giornali per meglio arrivare al microfono nei comizi, all'attuale ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta (154 cm) che, stufo di essere preso di mira solo per la sua statura, nel 2013 si lamentò sulle colonne del Corriere: «Massimo D'Alema mi ha chiamato energumeno tascabile, Furio Colombo mini-ministro. La damnatio di Gino Strada, la «seggiola» di Dario Fo, gli psicologismi d'accatto di Francesco Merlo, per cui la mia politica sarebbe frutto del mio complesso... Bastaaa!!! Una battuta la accetterei. Ma in queste parole infami c'è lo sguardo che mi è dedicato, ed è profondamente razzista. Io sono piccolo. Perché tanta ferocia nei miei confronti?». Sotto al metro e 60 ci sono stati anche Ben Gurion (152 cm) e Deng Xiaoping (152 cm), Yasser Arafat (157 cm) e Mahmoud Ahmadinejad (158 cm). Il record di capo di Stato più basso di sempre spetta però al presidente messicano Benito Juárez (137 cm) ma la sua altezza non gli ha di certo impedito di passare alla storia come uno dei più importanti personaggi politici del Paese. Più alto ma non abbastanza per non soffrire «della sindrome dell'uomo piccolo» l'ex presidente francese Nicolas Sarkozy (164 cm) che nel 2009, durante la commemorazione dell'anniversario dello sbarco in Normandia, per non sfigurare a fianco del collega statunitense Barack Obama (187 centimetri), fu immortalato mentre teneva il suo discorso su uno sgabellino. Poi, dato che non bastava costringere la moglie Carla Bruni (175 cm) a rinunciare ai tacchi, quando posava affianco a lei, non esitava per la gioia dei fotografi a mettersi in punta di piedi. Più di recente anche il suo successore Emmanuel Macron (173 cm) che, pur non essendo propriamente basso, quando ha stretto la mano del primo inglese Boris Johnson (175 cm) ha recuperato quel paio di centimetri che li separavano facendo leva sui piedi. Per anni abbiamo sentito dire che nelle scarpe di Silvio Berlusconi (tra i 165 e 171 cm) ci fossero magici tacchi occulti ma, per sfatare il mito una volta per tutte, l'ex presidente del Consiglio s' è tolto le scarpe in pubblico mostrando suole più che ordinarie. Al contrario del leader coreano Kim Jong-Un (tra 162,5 e 170 cm) che, stando al giornale Choson Ilbo, nasconderebbe nelle scarpe un rialzo di ben 7 centimetri e mezzo. Nessuno però osa confermare. L'importanza della statura per i dittatori coreani non è un mistero dato che suo padre Kim Jong Il, che di centimetri ne misurava due in meno del figlio, le scarpe se le faceva montare direttamente su degli zatteroni. I rialzi interni piacciono molto anche ai divi di Hollywood, da Richard Gere (tra 168 e 170 cm) a Zac Efron (dai 168 ai 172 cm), passando per Tom Cruise (tra 168 ai 170 cm) e Antonio Banderas (dai 170 ai 174 cm). La vita però non è facile neanche per chi guarda il mondo dall'alto in basso. Usain Bolt (195 cm) ha sempre avuto difficoltà a correre i primi 30 metri: «Sono troppo alto, questione di baricentro, fatico a uscire dai blocchi, i primi tre appoggi mi danno problemi». Clint Eastwood (193 cm) non riusciva ha trovare lavoro: «Era sempre la stessa storia: avevo la voce troppo bassa, strizzavo troppo gli occhi, ero troppo alto... E so che se in questo istante entrassi in un ufficio casting dove nessuno sa che sono Clint Eastwood, mi ripeterebbero le stesse cose. La mia voce è ancora troppo bassa, continuo a strizzare gli occhi e di recente mi hanno paragonato a una piccola sequoia. Ma dopo i western che ho fatto in Spagna, all'improvviso sono diventato Clint Eastwood e adesso sono gli altri uomini troppo alti e che strizzano troppo gli occhi a maledirmi!». La ballerina Luciana Savignano, prima di diventare una stella, fu scartata dalla Danza dei Moretti all'Arena di Verona perché troppo alta: «Così nel corpo di ballo della Scala mi affidarono il ruolo del cavaliere in un'opera con la regia di Margherita Wallmann». Peter O' Toole (188 cm) avrebbe fare voluto più commedie romantiche, ma gli diceva che era troppo alto per il ruolo di un innamorato: «Avrei messo a disagio le partner». E infine lo scrittore James Ellroy (190 cm) dovette rinunciare alla sua passione, le Porsche: «Ne ho comprate ma le ho vendute perché sono troppo alto». Sembra chiaro che i centimetri in più o in meno non hanno però impedito a nessuna di queste persone di raggiungere i propri successi. A confondere le idee però ci si mettono gli studi, che in materia di alti e bassi, sono per lo più contradditori. Eccone alcuni: «Le donne basse di statura vivono più a lungo» (Albert Einstein College di New York); «le donne alte più di 175 centimetri hanno il 31% in più di probabilità di raggiungere i 90 anni rispetto alle donne alte meno di 160 centimetri» (Scuola per l'oncologia e la biologia dello sviluppo di Maastricht); «l'80 per cento dell'altezza di un individuo è determinata geneticamente» (Gwas per Nature Genetics); «nei Paesi in cui la qualità dell'alimentazione è migliorata negli ultimi decenni, le ragazze e i ragazzi sono in media sensibilmente più alti dei loro genitori (The Lancet); «l'altezza, per gli uomini, si traduce in uno stipendio più alto. Ogni sette centimetri in altezza corrispondono a quasi due mila euro in più l'anno» (Exeter Medical School); «i maschi di bassa statura sarebbero molto più affidabili dal punto di vista economico poiché tenderebbero a guadagnare più soldi» (Università del Michigan); «gli uomini bassi sono meno maturi, meno positivi, meno sicuri, meno virili, meno capaci, meno estroversi, più inibiti, più timidi e più passivi» (Stature and Stigma di Martel e Biller); «gli uomini alti meno di 173 cm un tasso di divorzi inferiore del 32% rispetto agli altri» (Università del Michigan). Cosa sia vero e cosa no, poco importa. Come amava dire il grande pittore Henri de Toulouse-Lautrec (152 cm): «Ho la statura del mio nome».

·        Il Linguaggio.

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 13 dicembre 2021. Claudio Marazzini dal 2014 è il presidente dell'Accademia della Crusca, punto di riferimento nel mondo per le ricerche sulla lingua italiana. Nata sul finire del Cinquecento con un programma culturale e di codificazione, l'accademia prende il suo nome dalla metafora di ripulitura del linguaggio, separazione tra crusca e farina. Qualche giorno fa questa istituzione ha «bocciato» schwa e asterischi, bandiere di un linguaggio inclusivo. Lo ha fatto con una risposta ufficiale ai numerosi quesiti giunti negli ultimi mesi, pubblicata online: Marazzini racconta che ha incontrato il consenso dei più illustri linguisti italiani, come Luca Serianni, oggi docente alla Sapienza.

Professore, il dibattito sul tema è acceso, vi siete esposti a polemiche, immagino.

«Ce ne sono state, sì, d'altra parte molti intellettuali si sono già espressi sull'introduzione di asterisco e schwa, alcuni a favore, altri contro. Ma il verdetto ufficiale dell'Accademia, in sintesi, è questo: l'asterisco e lo schwa rompono indebitamente un sistema generale caratterizzato dalla corrispondenza tra suono e grafia ». 

Impronunciabili, quindi inaccettabili?

«Lo schwa addirittura introduce un suono che non esiste, cioè pretende di cambiare artificialmente la pronuncia di una lingua reale. Inoltre questi espedienti non risolvono tutti i problemi. "Car* amic*" dovrebbe stare per "cara amica / caro amico", ma per distinguere "professore / professoressa" come dovrei scrivere? Professor*? E quante lettere sarebbero racchiuse dentro quell'asterico? Una? Quattro? Quante voglio, insomma. Come dire: mettici quello che vuoi tu. O dovrei utilizzare un'indistinta finale?».

Eppure al liceo Cavour di Torino hanno iniziato a introdurre l'asterisco anche nelle comunicazioni ufficiali.

«Sono torinese e ho studiato proprio in quel liceo, come anche mia figlia, ma devo condannare l'innovazione. Come ha scritto Paolo D'Achille nella sua risposta a nome dell'Accademia, la lingua formale non può accettare l'asterisco. Provi a immaginare una legge dello Stato piena di asterischi. Sarebbe un bel problema: sono testi già difficili da interpretare con l'italiano naturale». 

Resta inteso che ciascuno può scrivere in fondo come vuole?

«Credo sia ovvio che nessuna accademia linguistica del mondo ha il potere di imporre d'autorità le soluzioni che ritiene migliori. La Crusca si limita a fornire suggerimenti ben ponderati. Il fatto è che la lingua funziona secondo meccanismi collettivi autonomi, che si fondano sul consenso maggioritario degli utenti, sulla tradizione, sulle regole trasmesse dalla scuola. Gli insegnanti gettano le basi della riflessione grammaticale. Poi ogni utente si comporta secondo le proprie convinzioni, giuste o sbagliate che siano: esistono zone grigie in cui talora la norma linguistica oscilla. Ad esempio, il pronome "gli" per il femminile e per il plurale: "gli dico" per "dico loro" e per "le dico". La maggior parte delle regole, però, è stabile e condivisa, e non permette elusioni, pena la censura collettiva». 

Lei si è battuto per non utilizzare nemmeno «green pass», in favore di «certificato o passaporto» vaccinale. Ma è entrato nel linguaggio comune.

«Certo, anche nel mio, perché la lingua è un sistema collettivo e "green pass" è entrato stabilmente nell'uso. Ma mi diverto molto quando, nel treno Freccia Rossa, il controllore chiede il "green pass" in inglese ad anglofoni nativi, e questi cadono dalle nuvole, perché non sanno che cos' è. Il nome vero è semmai "digital Covid certificate" o "certificazione Covid". "Green pass" è inteso solo in pochissimi luoghi del mondo, e non nei Paesi anglofoni. Ma agli italiani piace tanto credersi inglesi più degli inglesi, o illudersi di essere internazionali a buon mercato. Sono stato battuto, se vuole, come pure su Covid al femminile, perché sciogliendo l'acronimo anche l'accademia di lingua francese, l'Académie française di Parigi, sottolineava la presenza della parola "desease", malattia. Però nella lingua vince sempre la maggioranza».

Rischia quindi di finire così anche per asterischi e schwa?

«Onestamente spero di no, ma fare i profeti è difficile. La maggior parte degli storici della lingua è del parere che fallirà, come è accaduto per la maggior parte dei tentativi di riforma della grafia fin dal Cinquecento. Il problema, in questo caso, è la forte spinta internazionale a sostegno di un presunto linguaggio "inclusivo". E la comodità, anche». 

Comodo nel senso di utile?

«No, nel senso che se si abbracciano queste soluzioni si è considerati automaticamente dalla parte dei "buoni". Si tratta di una scelta di conformismo che evita problemi. E in questo momento dà anche visibilità mediatica».

La lingua condiziona percezioni e pensieri? È un filtro attraverso il quale vediamo la realtà?

«Gli specialisti di linguistica, antropologia e scienze cognitive hanno dato risposte differenti. Un tempo si credeva che le popolazioni Inuit "vedessero" la neve in modo diverso, perché si credeva che la loro lingua avesse un'infinità di parole per definire i diversi tipi di neve. Poi si è scoperto che non avevano tutte quelle parole. Per di più, anche chi non ha le parole specifiche può cogliere le differenze tra la neve ghiacciata, quella farinosa, quella molle e fradicia. Insomma, le etichette non condizionano la percezione del reale, che è cosa diversa. Quindi il cosiddetto "filtro" della lingua non va sopravvalutato. Ogni lingua può dire tutto, anche se lo dice in modo diverso».

In questo caso c'è in ballo la questione del genere, o gender.

«Sì, ma come scrissero già nel 1984 Georges Dumézil e Claude Lévi-Strauss, due colossi della cultura del Novecento, il genere grammaticale non è completamente sovrapponibile al genere sessuale, ma segue altri percorsi, cioè rappresenta un sistema di concordanze per far funzionale la lingua come sistema. Posso avere "la zebra" e "la lontra" per indicare animali, siano essi maschi o femmine. In altri casi ho i due generi: leone e leonessa. Ma la tigre è femminile anche se maschio, salvo "il tigre" che si metteva nel motore in un'epoca anteriore al risparmio ecologico di benzina, nella campagna pubblicitaria della Esso degli anni Sessanta». 

L'italiano è tacciato di essere sessista, patriarcale, non inclusivo. Quindi da cambiare.

«Una lingua non è mai tale. Al massimo lo sono i parlanti. Potrei essere patriarcale e antifemminista anche con gli asterischi. La correttezza e l'eleganza nella lingua dipendono, io credo, dal garbo con cui ci si rivolge agli altri, anche senza manomissioni artificiali. Molto spesso, ribadisco, le manomissioni nascono da una sorta di conformismo. Sono un modo per esibire la propria appartenenza ad un gruppo, o un modo per evitare contestazioni, per mettersi in sicurezza, o per cercare consenso». 

Oggi bonificare la lingua, e la storia, è una moda?

«Sì, pare che molti avanzino pretese per cambiare rapidamente la lingua a loro volontà, magari in buona fede, convinti di compiere un atto di civiltà. Le cose non sono però così semplici».

Ha un colore politico questa tendenza?

«Finché si tratta di indicare i corrispondenti femminili di professioni un tempo esclusivamente maschili, le soluzioni si presentano facili. "Ministra", "avvocata" e via dicendo non dovrebbero stupire nessuno, e non creano problemi nel sistema della lingua. Diverso il caso di chi vuole modificare pronomi, grafia o persino pronuncia. Poi c'è chi vuole cancellare le parole "scorrette". Ci sono ragazzi che non osano più dire "vecchio", credendo che sia sempre un insulto». 

O «negro», indicata da Repubblica come «la parola con la N».

«Certo, con grande imbarazzo degli spagnoli, che hanno solo la parola "negro" per dire "nero". Un colore, insomma, come per noi le "negre chiome" in A Silvia di Leopardi. Ma lo scarto "nigger/black" dell'inglese si è imposto draconianamente come una legge anche nelle lingue romanze, persino là dove non aveva senso. In realtà ogni parola, anche la più innocua, può essere offensiva, se pronunciata offensivamente. La pretesa di cambiare le parole per cambiare la società può dar luogo a una pericolosa utopia, quella della lingua purificata e "perfetta" che rende l'uomo migliore».

Abbiamo rischiato di perdere anche il termine Natale.

«Sì, ma poi la Commissione europea ha ritirato quei suggerimenti, contro i quali si è pronunciato ormai persino il Papa. Credo che in futuro si procederà con più cautela». È a favore di esami di maturità solo in forma orale, senza scritti?

Perché?

«Anche in questo caso non posso far altro che riferirmi a una posizione ufficiale presa dalla Crusca: la dimensione scritta della lingua è assolutamente necessaria, e per di più è quella in cui gli studenti mostrano più difficoltà. Per questo l'esame scritto è insostituibile».

Francesca Nunberg per “il Messaggero” l'11 dicembre 2021. Vedi alla voce del verbo ricordare. Ma ricordare bene. Perché se invece del mitico E che, c'ho scritto Jo Condor? col passare degli anni il nome dell'avvoltoio di Carosello è diventato Giocondo, significa che avete bisogno di un dizionario. Parole per ricordare. Dizionario della memoria collettiva di Massimo Castoldi e Ugo Salvi racconta tutta la storia: il villaggio di montagna in pericolo, l'arrivo del Gigante amico e il lieto fine con le barrette di cioccolata. Che si tratti di un dizionario anomalo non c'è dubbio: non inizia con Abaco ma con A babbo morto, (espressione toscana riferita a debiti saldati con un'eredità), per arrivare alla z di Mago Zurlì, passando per la h di Ha da passa' a nuttata di Eduardo, la o di O così o Pomì e la q di qb, acronimo di quanto basta. La verità è che non basterebbe mai. La trama è quella della nostra storia, gli show della tv quando c'era solo quella, il cinema, i modi di dire, i fumetti, ma anche gli eventi tragici, la politica, le tradizioni popolari. Com' eravamo ma senza nostalgia perché il nuovo avanza comunque: troviamo la voce Quattro più quattro di Nora Orlandi (coro nato nel 1964, usato oggi per designare persone che parlano all'unisono) ma anche il Concertone del Primo maggio, il Dadaùmpa delle gemelle Kessler e il Dopofestival di Sanremo. È un dizionario che comprende usi evocativi, allusivi, metonimici e antonomastici della lingua italiana. Ma che ne sarà dell'uomo del monte (quello dei succhi di frutta) o di Tafazzi (il personaggio di Aldo, Giovanni e Giacomo) quando nessuno ricorderà più le loro apparizioni in tv? «Abbiamo esplorato una zona della lingua non rappresentata dai dizionari di uso e dalle enciclopedie - spiega Massimo Castoldi, 61 anni, filologo e docente di Filologia italiana a Pavia, milanese come l'altro autore, Ugo Salvi, 61 anni, fisico in pensione - Normalmente se cerco azzeccagarbugli in un dizionario non lo trovo, e se lo trovo non so cosa rappresenti per la collettività. Quindi siamo partiti dall'antonomasia, nomi propri che diventano nomi comuni e viceversa, come l'Avvocato, il Pirata, Penelope, paparazzo e torquemada (crudele generale dell'Inquisizione), poi siamo passati alla dimensione metonimica e evocativa del linguaggio, come borsalino o chianti. Ma il terreno è fluido, alcune parole diventano antonomasie e altre no: esiste la carrambata, da Carràmba! Che sorpresa, mentre il meteorologo Bernacca che pure inseriamo nel dizionario, non ha dato origine alla bernaccata. Insomma abbiamo messo insieme un dizionario quasi impossibile, a nostra assoluta e totale discrezione». Settemila voci, circa mille in più e pochissime in meno rispetto alla prima edizione di 18 anni fa. Ci sono Caporetto e Vermicino, l'abominevole uomo delle nevi e bimbominkia di renziana memoria, c'è l'eskimo e il caschetto alla Vergottini, la bella mbriana (fata che protegge dal munaciello di Napoli), i cavoli a merenda, i quattro salti in padella e le gambe che fanno giacomo giacomo. Espressione che deriverebbe dalla stanchezza dei pellegrini giunti al santuario di Santiago de Compostela dove erano custodite le spoglia dell'apostolo Giacomo... «Molte parole sono condivise anche se nessuno sa più da dove vengano - spiega Castoldi - non si dice più quell'uomo è un carnera, dal pugile friulano campione dei pesi massimi nel 1933, e forse nemmeno Nuvolari, ma questi termini hanno ancora un forte potere evocativo. Abbiamo inserito uomo di mondo, nelle due accezioni: quella di Manzoni che fa definire così i bravi a Don Abbondio e quella di Totò che dice Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo». Si volteggia tra la storia (Addavenì Baffone per Stalin, il Bagnasciuga, soprannome di Mussolini che usò il termine per errore al posto di battigia) e la cronaca (troviamo il biondino della spider rossa, il killer di Milena Sutter, ma anche Bolzaneto, la caserma dei pestaggi durante il G8 di Genova del 2001). Alla voce Achille Lauro c'è però la storia dell'armatore napoletano, il sequestro nell'85 da parte dell'Olp, i risvolti politici con Craxi e Andreotti, ma manca l'Achille Lauro dei nostri giorni, il rapper che quest' anno tornerà a Sanremo. «Ci dev' essere sfuggito - ammette Castoldi - però lo citiamo nella voce Me ne frego, che è il titolo della sua canzone ma anche il motto dei legionari dannunziani a Fiume». Nessuno ricorda più l'astronomo dilettante Paneroni, ma le sue teorie hanno avuto un revival con il terrapiattismo dei giorni nostri. Ma tra un secolo che senso potrà mai avere lavato con perlana? «Anche le voci destinate a cadere rimangono nella memoria collettiva - risponde Castoldi - E se oggi uno scrittore usa questa espressione in un romanzo, magari tra cent' anni a qualcuno verrà il ghiribizzo di aprire il dizionario per recuperarne il significato». 

Curiosità. Da Ok a Wi-fi: 6 parole che forse non hanno il significato che pensiamo. Fa Focus.it. Ci sono parole, che usiamo tutti i giorni, alle quali abbiamo sempre attribuito un significato o una certa etimologia. Invece in questi casi la realtà è un'altra. 

OK. L'etimologia di una delle parole più usate al mondo è un vero e proprio mistero.

Ok significa "va bene". Così come Wi-Fi sta per wireless fidelity e SOS per Save our souls (salvate le nostre anime). Giusto? E invece no, non è così. O meglio: il significato che abbiamo attribuito nel tempo a queste parole, acronimi e non, non è quello che avevano in origine. Perché se alcuni neologismi hanno un'etimologia precisa e verificabile, alcune delle parole che usiamo correntemente sono solo figlie di un guizzo creativo, e non hanno alcune senso apparente. Ecco 6 esempi illuminanti.

WI-FI. Si pensa che che la parola Wi-Fi sia sinonimo di “wireless fidelity”, proprio come, nel campo dell'audio, Hi-Fi lo è di high fidelity (alta fedeltà). Tuttavia, secondo Alex Hills, tra i creatori delle prime reti Wi-Fi non è così. La parola fu coniata solo per ragioni di marketing. Le specifiche tecniche utilizzate dalle reti wireless appena create (descritte da uno standard che ha un nome, IEEE 802.11, che è tutto un programma!) erano poco orecchiabili. Nel suo libro, Wi-Fi and the bad boys of radio, Hills ricorda che i membri della Wi-Fi alliance hanno scelto la parola principalmente perché suonava bene, e il legame naturale tra Hi-Fi e Wi-Fi probabilmente ne ha aiutato la diffusione. Ma le due parole non hanno nulla a che fare l'una con l'altra e non sono in alcun modo collegate.

SOS. Un po' tutti abbiamo sentito dire che SOS sia l'acronimo di Save Our Souls (Salvate le nostre anime) o, secondo qualcun altro, Save Our Ship (o Salvate la nostra nave in italiano). La verità è che il popolare acronimo della ricerca di aiuto non significa nulla di tutto ciò, ma nasce dal segnale universale nel codice morse di tre punti, tre trattini e altri tre punti. Introdotta ufficialmente nel 1905 dal governo tedesco, questa sequenza è infatti facilmente riconoscibile anche per l'orecchio inesperto. Questo a suo tempo fu ritenuto importante, in quanto avrebbe permesso alle navi in ​​acque straniere di inviare la richiesta di aiuto senza doversi preoccupare di eventuali... barriere linguistiche. Per altro, lo stesso segnale in codice morse può essere espresso in vari modi: le sequenze IJS, SMB e VTB, per esempio, danno vita a una stringa di punti e trattini praticamente uguale a quella prodotta da SOS. Tuttavia quest'ultima, alla fine, l’ha spuntata sulle altre sigle perché era più facile da ricordare e, forse, anche perché può essere letta in qualsiasi verso. Insomma, le interpretazioni di possibili significati che coinvolgessero anime e navi, sono arrivate solo dopo...

KODAK. Anche il marchio Kodak, uno dei più noti tra i fotografi, non ha un significato reale. Qualcuno ipotizzò che la parola Kodak fosse la rappresentazione onomatopeica del suono prodotto da un otturatore quando si scatta una foto.

Ma in realtà pare che il fondatore della compagnia, George Eastman, abbia coniato la parola semplicemente perché gli piaceva la lettera K: "una lettera forte e incisiva”. Eastman ha così optato per il nome Kodak perché ha pensato che fosse anche abbastanza semplice da non essere mai pronunciato male e sufficientemente distintivo da non essere confuso con un'altra parola. E poi di K ne conteneva ben due!

OK. Secondo lo Smithsonian Institute, le origini di OK, la parola più comune della lingua inglese (ma adottata anche da altre lingue, italiano in primis) non sono del tutto chiare. Ma una teoria comune e altamente plausibile è che sia stata coniata come un gioco di parole, senza un significato reale. Un giornalista del Boston Morning Post aprì il caso con un articolo sull'ortografia nel 1879, dove suggeriva che OK fosse un acronimo di "Oll Korrect", un deliberato errore ortografico di All Correct (tutto giusto), e che questo abbia poi contribuito al definitivo sdoganamento nel lessico popolare americano.

Ma le ipotesi non finiscono qui. OK potrebbe derivare dal gergo dei militari (inglesi o americani) inviati in perlustrazione per contare o recuperare i corpi dei soldati rimasti uccisi in battaglia. Di ritorno dalla perlustrazione, per comunicare tempestivamente il numero, scrivevano su una bandiera la cifra, seguita dalla lettera K (da killed che in inglese significa "uccisi”): se nessuno era morto sventolavano la bandiera con scritto "O K", ossia zero soldati uccisi. Una genesi analoga potrebbe avere prodotto il gesto, ormai universale, con cui oggi comunichiamo il nostro OK: in questo caso i soldati, mimando lo zero con il pollice e l'indice, intendevano comunicare

che non si contavano morti. Un'altra possibilità, infine, è che l'espressione abbia avuto origine in Europa o in Medio Oriente, dal momento che anche le tribù beduine del Sahara sembravano averne familiarità.

ZUMBA. Il nome di una delle discipline più popolari nelle palestre ha una storia bizzarra. Prima di essere conosciuto come Zumba, il programma di fitness era conosciuto come Rumbacize, una "parola macedonia" prodotta da Rumba (che in spagnolo significa danza) e da Jazzercise, un programma di esercizi simile popolare negli anni '90. I problemi sorsero, tuttavia, quando il creatore di Zumba, Alberto Perez, provò a registrare il marchio Rumbacize e scoprì che era già stato registrato furtivamente dal proprietario di una palestra in cui insegnava. Così si mise alla ricerca di una parola che colpisse. Zumba gli sembrò la scelta giusta, anche se fino ad allora non esisteva e... non significava nulla.

ALITOSI. Le pubblicità dei collutori oggi citano l’alitosi come il nemico da battere: eppure nonostante il termine evochi un che di scientifico… la parola "alitosi" di scientifico non ha proprio nulla. O meglio: il termine non esisteva finché titolare dell'azienda Listerine, negli anni '20 del secolo scorso, tentò di commercializzare un prodotto in grado di fare tanto da antisettico quanto da sapone per i pavimenti. Fu un fallimento.

Così Jordan Wheat Lambert (così si chiamava) decise di cambiare strategia e di commercializzare il suo prodotto come cura contro l'alito cattivo. E per convincere il pubblico ad acquistare il suo Listerine, Lambert perlustrò il dizionario e si imbatté in una vecchia parola latina che significa respiro, alito, che modificò in alitosi per attribuirle un alone di... malattia. L'azienda pubblicò poi una serie di annunci in cui sostenevano che l'alitosi era un problema cronico che affliggeva l'America, per il quale solo loro avevano la cura.

Perché si dice sei un bischero: dietro c'è la storia di una famiglia fiorentina. Il Tempo il 04 dicembre 2021. Ma chi erano i Bischeri? Erano una famiglia fiorentina ricchissima e avevano la proprio abitazione nei pressi del Duomo. Quando nel 1294 si decise di costruire la nuova cattedrale era necessario anche abbattere le vecchie case che si trovavano nelle vicinanze ovviamente dietro compenso. Ma i Bischeri furono l'unica famiglia che si oppose contro la demolizione dell'abitazione. Proprio dopo il diniego un vasto incendio devastò le proprietà della famiglia che cadde in disgrazia e fu costretta ad abbandonare Firenze. Da allora la parola biscaro significa "sciocco" ma non con un'accezione negativa bensì viene utilizzata in maniera amichevole e bonaria.

Il pronome neutro? Un atto di sottomissione alla dittatura woke. Roberto Vivaldelli il 6 Dicembre 2021 su Il Giornale. La Francia si ribella al cosiddetto "linguaggio inclusivo" e alla cultura "woke" dopo l'introduzione del pronome neutro del più popolare dizionario del Paese. La Francia non si piega alla "woke supremacy" che proviene dagli Stati Uniti e dai liberal identitari d'Oltreoceano. Lo scorso 19 novembre sulle colonne di questa testata vi abbiamo raccontato di come il pronome neutro "iel" - contrazione di "il" ( lui) e "elle" ( lei"), utilizzato dalle persone che si definiscono "non binarie" e che dunque non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile - abbia fatto il suo ingresso nel Petit Robert, equivalente del nostro dizionario Garzanti, tanto per citare forse il manuale più popolare. Il pronome neutro è stato introdotto perché, secondo Le Petit Robert, viene sempre più usato dai francesi e sta diventando una parola comune, scatenando le proteste deputato di En Marche François Jolivet e del ministro dell'Istruzione nazionale, Jean-Michel Blanquer, secondo il quale "la scrittura inclusiva non è il futuro della lingua francese". Un dibattito, nel Paese d'oltralpe, che sta proseguendo con risvolti piuttosto interessanti e un fronte contrario alle istanze woke del politicamente corretto, sempre più agguerito. Un po' come quello maturato in Italia dopo la bocciatura dello "schwa" da parte della nota linguista Cecilia Robustelli, che da anni lavora con l'Accademia della Crusca.

Una forma di sottomissione

A schierarsi contro l'introduzione del pronome neutro nel dizionario francese è, come riporta Il Foglio, lo scrittore e membro dell'académie française Jean- Marie Rouart. "Una lingua come l'appartenenza a un Paese è un bene comune" scrive su Le Figaro. "Per beneficiare della loro protezione e dei vantaggi che ci forniscono, accettiamo di sottometterci alle loro leggi, alle loro regole, ai loro costumi, perché questa è la condizione di un contratto collettivo. Questa sottomissione non avviene senza qualche forma di sacrificio e frustrazione". La lingua francese, sottolinea, poiché è su quella che ci interroghiamo continuamente, "deve sottomettersi in maniera ossequiosa a tutte le aspirazioni individuali o di categoria?". Secondo Jean-Marie Rouart, il "desiderio di introdurre il pronome artificiale 'iel' come fa il dizionario di Robert", è "solo la coda della pressione esercitata dai sostenitori della scrittura inclusiva". Sarebbe sbagliato "prendere alla leggera queste distorsioni popolari fatte alla nostra lingua", poiché "sono i sintomi di una malattia profonda. Abbiamo sempre saputo che le lingue racchiudono valori essenziali: non sono solo un mezzo di comunicazione".

Un atto di autocolonizzazione

I fautori della cosiddetta "lingua inclusiva" dunque, intendono spalancare le porte dell'ideologia woke al linguaggio comune. Ad esempio, facendo il passare il messaggio che il "genere" sia un costrutto sociale indipendente dalla realtà biologica delle persone, come nel caso del pronome neutro, di fatto strizzando l'occhio alle istanze delle associazioni transgender. Come sottolinea Rouart, infatti, Il pronome "iel", così come la scrittura inclusiva, punta, "rispondendo a delle aspirazioni umanitarie certamente comprensibili e a delle sofferenze personali" che possono essere legittime come tutte le sofferenze,"a imporre la legge del movimento di importazione americana woke in tutti i campi: la storia, la società, i costumi. Vuole naturalmente influenzare le politiche". Ancor più duro Le Point, citato sempre dal Foglio, secondo il quale l'approvazione del pronome neutro "non è un'operazione linguistica" ma un "atto militante", che contribuisce "all'autocolonizzazione in corso". Il codice esclusivo ignora la lingua francese: "è brutto, sordo, semplicistico, moralistico, oltre che illeggibile e impronunciabile". Un po' come lo schwa che tanto piace alla sinistra Gauche caviar italica, un'aberrazione - più ideologica che linguistica - fortunatamente bocciata dalla Crusca. Anche se la resistenza contro la "dittatura woke" è solamente agli inizi. In Italia, come in Francia.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 21 dicembre 2021. In quest'era dominata dal politically correct, dove le certezze sono scarsissime e la suscettibilità elevatissima, e nella quale è divenuto impossibile dire o scrivere (e presto probabilmente anche pensare) alcunché senza che qualche categoria di persone non si offenda (forse è offensiva anche la parola "categoria", ma ormai è fatta), ecco che viene criticata anche la scrittrice Michela Murgia, ancorché fautrice, e convinta propalatrice assieme a Chiara Tagliaferri, della vocale inclusiva ?, o scevà (dal tedesco Schwa), una formula neutra che sostituisce le desinenze maschili e femminili, così da non discriminare le persone transessuali o transgender. In una puntata del podcast Morgana, a cura di Murgia e Chiara Tagliaferri, è stata presa in considerazione la storia di Lana e Lilly Wachowski, registe e produttrici di Matrix, nati Larry e Andy prima di cambiare sesso. E Murgia e Tagliaferri, proprio loro, sono state accusate su Instagram di misgendering (ovvero di aver usato sacrilegamente sia le desinenze maschili sia quelle femminili rivolte a Lana e Lilly Wachowski) e ancor peggio di deadnaming, ovvero di aver utilizzato i loro nomi maschili prima del cambio di sesso. Insomma di essere ricorse a "pratiche linguistiche transfobiche". "Ma è possibile dover ricordare ancora una volta che non si parla di persone trans usando il deadname e il genere assegnato alla nascita? Sono distrutto, quando c'era stata la vicenda di Ciro Migliore Murgia si era esposta pubblicamente spiegando a collegh? e pubblico perché bisognasse parlare al maschile ed usare il nome Ciro e adesso 50 minuti di deadnaming e misgendering" leggiamo in un commento. In un altro, invece viene rimproverato alle due autrici: "Ricordiamoci di essere femminist? per tutte le donne, non solo quelle cis". Una critica fra tutte è ancor più furibonda: "Le storie sono assurde. Il deadname non si usa, i pronomi passati neanche, e la ? non c’entra nulla. E tu avresti dovuto insegnarlo ai migliaia di spettatori che hai, invece hai preferito allinearti ai media che commettono un errore che poi si ripercuote su noi persone trans. Ci chiedono il deadname tutti i giorni, usano i pronomi che preferiscono perché “si sbagliano” o “sui giornali dicono così e passano da un pronome all’altro” o “ci confondete perché siete confusi voi”. Questa non è informazione, è stato un massacro per le centinaia di migliaia di persone trans in Italia, ma d’altra parte probabilmente non t’interessa". Murgia, che solitamente è la prima a scatenare polemiche di tal genere puntando il dito a destra e a manca (soprattutto a destra), ecco che stata costretta a cospargersi il capo di cenere e correre ai ripari su Instagram. Fra le tante scuse addotte dalla scrittrice, leggiamo: "Abbiamo discusso molto di come scrivere questa puntata e anche di come pronunciarla, per esempio se con o senza schwa, per evitare la riduzione al binarismo. Sapevamo che qualunque scelta sarebbe stata problematica“. E qui sta la chiave di tutto: complice il politically correct portato all'estremo, ogni scelta linguistica è ormai purtroppo problematica e potenzialmente ingeneratrice di polemiche, e nel momento in cui la schwa in un linguaggio televisivo è inutilizzabile poiché trasforma la pronuncia delle parole in una sorta di parodia della cadenza pugliese, il contrappasso subìto da Murgia forse potrà incrinare il piedistallo costruito da certi moralizzatori che da mattina a sera scagliano i loro strali politicamente corretti contro chicchessia partendo da un'autoproclamata purezza. Ma del resto, come sosteneva l'intramontabile massima di Nenni: "Gareggiando a fare i puri, troverai sempre qualcuno più puro che ti epura.

"Storie assurde...". Harakiri Murgia: stavolta finisce malissimo. Roberto Vivaldelli il 21 Dicembre 2021 su Il Giornale. Michela Murgia e Chiara Tagliaferri accusate di "linguaggio transfobico" dopo aver trattato in un podcast la vicenda dei fratelli Wachowski, registi di "Matrix". Persino la paladina indiscussa della correttezza politica, Michela Murgia, è finita a sua volta vittima del neopuritanesimo politically correct. Perché a forza di lanciare il messaggio che tutti possono sentirsi offesi per qualunque cosa e le minoranze sono le avanguardie della storia, è un attimo incappare nel trappolone del politicamente corretto. In un'era in cui occorre misurare attentamente ogni singola parola, Michela Murgia - sì, colei che ha "sdoganato" lo schwa - è riuscita a far arrabbiare - e non poco - gli attivisti transgender. Come riportato da Vigilinaza Tv, ripreso da Dagospia, le offese all'indirizzo della scrittrice sono piovute a seguito di una puntata del podcast Morgana, a cura di Murgia e Chiara Tagliaferri, dove si era parlato della vicenda di Lana e Lilly Wachowski, registe e produttrici di Matrix, nati Larry e Andy prima di cambiare sesso. Murgia e Tagliaferri sono state accusate sui social prima di "misgendering" - avendo impiegato sia le desinenze maschili sia quelle femminili rivolte a Lana e Lilly Wachowski - nonché di "deadnaming," ovvero di aver utilizzato i loro nomi maschili prima del cambio di sesso. Un linguaggio "transfobico" a tutti gli secondo il nuovo vangelo del politicamente corretto.

Murgia accusata di "transfobia" sui social

Dure le critiche sui social all'inidirizzo della scrittrice: "Durante tutta la puntata il deadnaming si alterna all’uso dei nomi Lilly e Lana, rendendo il tutto molto confusionario per una persona (tipo me) che le ha conosciute già con i nomi femminili che portano oggi. Lana si è espressa in maniera molto coincisa e puntuale riguardo al deadnaming (che definisce come un "awkward bridge between identities") e al misgendering, nel suo discorso per il HRC Visibility Award del 2012" si legge fra i commenti.

E ancora: "Le storie sono assurde. Il deadname non si usa, i pronomi passati neanche, e la ? non c’entra nulla. E tu avresti dovuto insegnarlo ai migliaia di spettatori che hai, invece hai preferito allinearti ai media che commettono un errore che poi si ripercuote su noi persone trans. Ci chiedono il deadname tutti i giorni, usano i pronomi che preferiscono perché "si sbagliano” o "sui giornali dicono così e passano da un pronome all’altro" o “ci confondete perché siete confusi voi". Questa non è informazione, è stato un massacro per le centinaia di migliaia di persone trans in Italia, ma d’altra parte probabilmente non t’interessa". Un deciso passo falso per la scrittrice che tanto piace ai progressisti.

La difesa d'ufficio della paladina dello "schwa"

Dal canto suo, Michela Murgia ha replicato alle critiche sottolineando di "aver discusso molto di come scrivere questa puntata e anche di come pronunciarla, per esempio se con o senza schwa, per evitare la riduzione al binarismo. Sapevamo che qualunque scelta sarebbe stata problematica". Certo, sarebbe stato piuttosto divertente ascolaltare le due autrici alle prese con lo "schwa": probabilmente loro stesse si sono rese conto che ciò avrebbe reso la comprensione del testo praticamente impossibile. Per quanto concerne invece il politicamente corretto, Murgia dovrebbe sapere che è un fenomeno che non si pone limiti. Atomizza la società in minoranze particolari, in continua competizione fra loro, alla ricerca di ogni possibile rivendicazione e di diritto da invocare. In questa prospettiva, non c'è libertà di pensiero ma un linguaggio codificato da rispettare pedissequamente.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

La crociata di genere "roba da ignoranti". Paolo Del Debbio si infuria: oltraggio alla lingua italiana. Arnaldo Magro su Il Tempo il 4 dicembre 2021. «Perché oramai, si è presa questa deriva irrecuperabile. E perché questi, sono semplicemente degli ignoranti. Non sanno di cosa parlano. Punto». Il tutto in perfetta calata della lucchesia. Un idillio per le orecchie. Paolo Del Debbio non usa mezzi termini, in tivù, per commentare la circolare del liceo Cavour di Torino, che inserisce l'asterisco per non urtare la sensibilità di genere. L'effetto è grosso modo il seguente: «Si comunica che vostr* figli* non si è presentat* in classe» oppure «student* promoss*». Da professore universitario prima ancora che giornalista, non ama affatto queste acrobazie grammaticali, proposte dalla sinistra: «È un oltraggio alla lingua italiana, lo ha detto l'Accademia della Crusca, è meglio usare il maschile plurale». È una società nella quale viviamo più interessata a curare l'apparenza e le cose futili ma che tralascia gli aspetti più essenziali per la crescita della nostra collettività. Una corsa questa, al ribasso culturale del Paese. Poi ognuno è legittimato nel perseguire nel modo più opportuno le proprie battaglie, che siano grammaticali, lessicali o di genere. La scrittrice Michela Murgia ad esempio, paladina della lingua inclusiva ed eteronormata, dall'omologazione che annulla l'identità, continuerà a perorare la causa con ogni probabilità della scwha.

Giordano Tedoldi per "Libero quotidiano" il 2 dicembre 2021. «Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente». Se aveva ragione Mao, sotto il cielo della grammatica italiana la situazione è più che eccellente, è sublime. Tutto merito della discussione sullo "schwa", discussione che pare sia approdata al massimo dello sforzo dialettico: un gran casino. Nuovi contributi sulla questione arrivano con regolarità preoccupante, anzi, eccellente: ultimo quello dell'insigne Cecilia Robustelli, ordinaria di linguistica italiana all'università di Modena e Reggio Emilia. La professoressa Robustelli è da anni collaboratrice dell'Accademia della Crusca: la Cassazione, per così dire, della lingua italiana. Ed è anche in disaccordo sull'adozione dello "schwa" (e, lo dichiariamo subito, anche noi). Vediamo l'argomento di Robustelli: «L'italiano si può rendere più inclusivo, ma le proposte per farlo devono rispettare le regole del sistema lingua, altrimenti la comunicazione non si realizza, e la lingua non funziona». E ancora: «La funzione primaria del genere grammaticale in un testo è permettere di riconoscere tutto ciò che riferisce al referente, cioè all'essere cui ci riferiamo, attraverso l'accordo grammaticale. Se si eliminano le desinenze scompaiono tutti i collegamenti morfologici, e il testo diventa un mucchietto di parole delle quali non si capisce più la relazione».

IL GENERE Dunque, lo schwa, nella sua aspirazione di essere inclusivo, è piuttosto, secondo Robustelli, amorfo: invece di arricchire il significato, lo impoverisce. Non sta alla grammatica caricarsi di pesi impropri: «Il genere grammaticale viene assegnato ai termini che si riferiscono agli esseri umani in base al sesso. Il genere "socioculturale", cioè la costruzione, la percezione sociale di ciò che comporta l'appartenenza sessuale, rappresenta un passaggio successivo». Al contrario, rileva la linguista, si ha la sensazione che «il termine "genere" venga spesso usato con il significato di "sesso" e questa confusione complica il ragionamento, già di per sé complesso». Dunque occorre distinguere tra il genere grammaticale e il genere in senso, direbbe Robustelli, "socioculturale". Questo secondo non può essere espresso da una mera desinenza, la quale, peraltro, per necessità morfologica e strutturale (e noi aggiungeremmo anche estetica), non può essere sostituita da un simbolo, come, in passato, si tentò di fare, fallendo, con l'asterisco, né con soluzioni foneticamente confusionarie o innaturali, come quando si provò a introdurre la desinenza in "-u." Ma queste sono nostre opinabili considerazioni, torniamo alla professoressa Robustelli, la quale afferma che con l'introduzione dello schwa «si eliminano gli accordi tra le parole e si mina l'intera coesione testuale: e questo è un fatto grave». Perché, citando Elias Canetti, la lingua è fatta per l'uomo- si intenda: la specie umana -, e non l'uomo per la lingua (altra nostra chiosa), e dunque, e qui è Robustelli a parlare: «quando si cambia qualcosa in una lingua ci si deve innanzitutto chiedere se quel cambiamento funziona per assolvere allo scopo che un sistema linguistico deve compiere, cioè la comunicazione». E ancora: «spesso le proposte ingenue sono animate da buone intenzioni ma irrealizzabili nella realtà della lingua italiana. Piuttosto di affidare alla grammatica il compito irrealizzabile di comunicare nuovi generi o la decisione di non accettarli, perché non intensificare la discussione sul loro significato e approfondire le ragioni che ne motivano la richiesta di riconoscimento sociale? È il discorso il luogo adatto a questo scopo, non la grammatica». Per quanto ci riguarda, qui scattano i fantozziani 92 minuti di applausi. Brava Robustelli! Ma la professoressa ha ancora qualcosa da aggiungere sul fatto che lo schwa in realtà depotenzia l'indicazione del genere, e in particolare quello femminile, mentre è «fondamentale nella lingua italiana nominare donne e uomini con termini maschili e femminili e usare al femminile anche i termini che indicano ruoli istituzionali e professionali di genere femminile se sono riferiti a donne». E questa «non è soltanto una posizione femminista: è una posizione da linguista, perché se non si attribuisce alle donne il titolo femminile, si trasgredisce ai principi di accordo e assegnazione di genere che invece permettono di riconoscere, disambiguare e anche valorizzare le donne, dando inoltre un'immagine della realtà conforme a quella che è ora, non 50 anni fa». Tutto ciò la professoressa Robustelli lo ha dichiarato alla "agenzia DIRE": e non vediamo dove avrebbe potuto dire meglio.

Vittorio Lingiardi per “Specchio - La Stampa” il 16 novembre 2021. Negli ultimi anni abbiamo assistito al moltiplicarsi del vocabolario usato per definire generi, identità e orientamenti sessuali. Il paesaggio è sempre più vasto e articolato, abitato da una pluralità eterogenea di soggettività. Alcune sembrano avere radici profonde nella realtà psichica e in quella storica, altre sembrano più transitorie e volatili. Il linguaggio è in continuo aggiornamento e non mancano gli spunti polemici e le prese di posizione forti sia sul versante della conservazione linguistica, sia su quello dell’innovazione. Per questo motivo proponiamo ai lettori una mappa lessicale per orientarsi in questo panorama.

Identità sessuale: è data dalla complessa interazione tra aspetti biologici, psicologici, sociali e culturali di una persona, è costituita da diverse componenti in relazione tra loro: il sesso anatomico (i più "politically correct" lo definiscono "sesso assegnato alla nascita"), l'identità di genere, l'orientamento sessuale e infine, il ruolo di genere.

Identità di genere: fa riferimento al senso soggettivo di appartenenza al genere maschile, a quello femminile o a un genere alternativo che può corrispondere o meno al sesso "assegnato alla nascita" e alle caratteristiche sessuali primarie o secondarie. Il genere viene oggi concepito nella sua forma poliedrica e dimensionale, come uno spettro. 

Orientamento sessuale e affettivo: è un aspetto multidimensionale dell'esperienza umana e descrive da chi siamo attratti: emotivamente, romanticamente e/o sessualmente. Può includere i nostri comportamenti e le nostre fantasie, ed è strettamente legato ai nostri bisogni di amore, attaccamento e intimità.

L'orientamento sessuale può essere omosessuale, bisessuale, eterosessuale. Oggi si parla anche di un "orientamento asessuale", categoria al momento più "mediatica" che scientifica e che a mio avviso ancora richiede approfondimenti sia psicologici sia culturali. 

L'identità di genere e l'orientamento sessuale sono due aspetti separati e indipendenti, ma spesso in dialogo tra loro.

Ruolo di genere: si riferisce a comportamenti e atteggiamenti che all'interno di una società e di un determinato periodo storico, sono tipicamente attesi, preferiti e attribuiti a un genere. 

In altre parole, riguarda le aspettative (familiari, sociali) sui ruoli e gli stili che "l'Uomo" o "la Donna" dovrebbero ricoprire. Per esempio: l'uomo deve essere forte, un uomo che piange è debole (Boys don't cry). 

Fluidità sessuale: l'identità sessuale non è immutabile ma può evolversi nel corso del ciclo di vita della persona. La fluidità sessuale descrive i possibili mutamenti dipanati nel tempo delle nostre attrazioni e dei nostri comportamenti sessuali. Per esempio: Flaminia ha sempre provato attrazione esclusivamente per donne, fino ai 30 anni quando si è innamorata di un collega.

Fluidità di genere: fa riferimento a un cambiamento multidirezionale nell'espressione, nell'identità e nell'esperienza del genere. Più che una migrazione da un polo a un altro (M F), riguarda l'oscillazione o la negazione dei tradizionali confini tra i generi. Per esempio: Eli esprime il proprio genere lasciandosi chiamare sia al maschile che al femminile. Quando è invitata una festa, si prepara indossando con eleganza bretelle e papillon, truccandosi con del glitter e mettendo lo smalto alle unghie.

Intersex: termine che fa riferimento alle possibili variazioni delle caratteristiche del sesso anatomico, cromosomico e/o gonadico che si discostano dalla visione binaria e dicotomica del sesso e del genere. Descrive persone che hanno caratteri sessuali primari e/o secondari non definibili come esclusivamente maschili o femminili. Nella definizione dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, le persone intersessuali hanno un corpo che «non corrisponde alla definizione tipica dei corpi maschili o femminili».

Queer: termine ombrello che racchiude la pluralità delle soggettività appartenenti alle minoranze sessuali e di genere che decidono di non "incasellarsi" in un'unica definizione identitaria eteronormata. Le persone "queer" hanno un orientamento sessuale e/o un'identità di genere non-normativi. 

Cisgender (o Cisgenere): descrive le persone la cui identità di genere è allineata con il sesso assegnato alla nascita. 

Transgender (o Transgenere): termine ombrello che include le persone la cui identità di genere non corrisponde al sesso assegnato alla nascita, facendo riferimento a un'ampia varietà di identificazioni. Può anche comprendere le persone che si identificano al di fuori del binarismo di genere.

Non binarismo: si intendono "non binarie" le persone la cui identificazione o espressione di genere travalica il tradizionale dualismo uomo-donna, e la cui esperienza può essere percepita ed espressa in una varietà di modi compreso quello di non appartenere ad alcun genere, l'appartenere a entrambi o l'alternarsi tra i generi. 

Agender: termine che indica una persona che non si identifica con alcun genere in particolare.

Schwa: simbolo che permette un'espressione linguistica neutrale e più inclusiva utilizzata al posto delle desinenze tradizionali. Si tratta di un fonema con suono vocalico neutro che viene proposto come alternativa all'uso del maschile sovraesteso, garantendo il riconoscimento paritario delle diverse variazioni della soggettività. Viene anche impiegato per fare riferimento a persone non binarie o agender.

Pronunciare lungo i bordi. La permalosità dei romani e l’incomprensibile strascicato di Zerocalcare. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Novembre 2021. Per dovere sociale ho visto la prima puntata della serie Netflix di cui parlano tutti. E ho trovato la conferma che a Roma pensano davvero che quello scempio della logopedia sia italiano corretto. Mi sono persa tutto il dibattito culturale su Parasite, e quindi non so se all’epoca qualcuno avesse detto che certo, non fosse stato dialogato in una lingua così ostica, avrebbe incassato ancora più soldi; e se a quel qualcuno i coreani offesi avessero risposto ma come ti permetti, il coreano lo capiscono tutti. Confesserei d’averlo all’epoca visto sottotitolato, non temessi che qualche coreano di Roma (ce ne saranno, no?) s’adontasse. La prima volta che ho capito che esistevano le lingue straniere ero alle elementari, seduta sul tappeto del salotto, a guardare con mia madre l’ultimo ritrovato della tecnologia: nastri vhs. Giacché il lettore ce l’avevano ancora in pochissimi, non esistevano aziende italiane che producessero cassette di film. Il negozio di elettrodomestici davanti a casa nostra smerciava nastri artigianali (non ho mai capito come ottenesse i film). La confezione era di cartoncino bianco, il titolo era scritto a penna. I primi a entrare in casa furono E.T., My Fair Lady, Ricomincio da tre, e le commedie di Eduardo (quindi nel Novecento il teatro già veniva filmato: pensa te, che modernità). Non ricordo se mia madre stesse guardando Troisi o De Filippo, quando mio padre passò da quella stanza, diede un’occhiata schifata al televisore, e disse: io non capisco una parola. Sì, lo so: poderosa metafora dell’incomunicabilità matrimoniale tra un brianzolo e una molisana, anticipo di Vita mortale e immortale della bambina di Milano, ma a sessi invertiti. Nel romanzo di Domenico Starnone (lo pubblica Einaudi) è la bambina milanese a esprimersi correttamente, e l’io narrante dell’autore ad avere quei favolosissimi dialoghi con la nonna terrona, «un giorno che mi sentivo triste e le avevo chiesto: commesefàammurí. Lei, che stava spennando la gallina appena uccisa con un gesto brusco e una smorfia disgustata, mi aveva risposto distrattamente: temiéttestisentèrrennúnrispíricchiú. Avevo chiesto: chiú? Aveva detto: chiú». Ma ci stiamo distraendo, non vorrei che perdessimo di vista la piccina – non quella di Starnone, la piccina me. Quella che, sebbene nata e cresciuta in terra di tortellini, era poliglotta senza saperlo. La prima volta che ho capito che esisteva la dizione, avevo appena iniziato il liceo. Un amico mi disse immusonito che mi aveva citofonato (in quegli anni ci si presentava a casa altrui con una disinvoltura che mi vengono i brividi a ripensarci) e gli avevano detto che non c’ero. «Mi ha risposto una napoletana: mi prendi per il culo?». Ero impreparata a questa vibrante accusa, ma abbastanza certa di non convivere con napoletani. Chiesi a papà. «Ma la mamma ha l’accento napoletano?» «Ma no, al massimo un po’ di accento del sud». Mia madre parlava come Biscardi, ma cosa vuoi che ne sapesse mio padre. Lo capii un paio d’anni dopo, frequentando le mie prime lezioni di dizione. La cosa più difficile, spiegò l’insegnante, era sentire l’accento sbagliato. Lei diceva agli allievi che si diceva «perché», non «perchè», raccontò, e quelli rispondevano belli sereni: «E io che ho detto? “Perchè”». Poi mi sono trasferita a Roma, e ho capito che i romani sono davvero convinti che esista l’impero. Se prendi un taxi e dai l’indirizzo in italiano, il tassista non penserà mai tu viva lì ma abbia conservato una dizione civile: penserà tu sia una turista alla quale far fare il giro più largo. Quando sei a Roma, devi fingerti romana. Cioè – nei loro codici – italiana, giacché il romano è inconsapevole di parlare romano. È convinto che quella roba lì che parla lui, quello strascinamento fonetico, quello scempio della logopedia sia italiano corretto. Emanuele Salce, figlio di Luciano Salce la cui madre, Diletta D’Andrea, si mise con Vittorio Gassman quando Emanuele era molto piccolo, racconta un’infanzia stremante in cui lui romanamente ciancicava le parole, e Gassman ripeteva un po’ furente un po’ sfinito: «Le finali!». Capirai, far chiudere l’ultima sillaba a un romano. Poi cosa, levare i portici a una bolognese? Tutto questo per dire che mi sembra molto interessante la campagna promozionale di Strappare lungo i bordi – ultima produzione italiana di Netflix, disegnata da Zerocalcare – ma non avrei mai guardato la serie: se avessi voluto passare i miei cinquant’anni a guardare cartoni animati, avrei fatto dei figli. Ne ho vista una puntata per capire di cosa si sarebbe parlato nei giorni successivi, e ho pensato tutto il tempo a quell’«io non capisco una parola» della mia infanzia. Certo che quel che dicevano i disegnetti sullo schermo lo capivo, ma io mica faccio testo: ho vissuto a Roma diciassette anni, se non avessi capito il romano sarei morta di fame per incapacità di comprendere cosa mi stavano chiedendo alla cassa del supermercato. Naturalmente i romani, che si prendono sul serio in modi che i parigini in confronto praticano il basso profilo, si sono offesissimi per il mio aver notato che, fuori Roma, ci vorranno i sottotitoli. È un’ovvietà: ho molti amici di fuori Roma, dicono di non capire Propaganda – che in confronto al cartone di Netflix sembra una messinscena di Strehler – figuriamoci se capiscono un fumettista che si mangia le parole. Se questa vicenda la sceneggiassi io, a Zerocalcare verrebbe naturale scandire come Carmelo Bene, ma si sforzerebbe di sembrare di borgata: le mancate sillabe finali, come le felpe col cappuccio, servirebbero a dire al suo pubblico «Sono sempre uno di voi». Sarebbe peraltro una sceneggiatura ad alto tasso di verosimiglianza: per uno che ha fatto il liceo allo Chateaubriand, fare quello che è a casa sua solo nelle periferie disagiate è una prova d’attore degna di Marlon Brando. Giovedì, mentre tra gli sfaccendati social vedevo crescere il numero degli indignati in-quanto-romani, in-quanto-fan-di-Zerocalcare, e anche in-quanto-elettori-di-sinistra (giuro: uno mi ha scritto che il mio era un attacco a Zerocalcare, artista di sinistra: ma quelli che hanno deciso di sottotitolare Gomorra altrimenti incomprensibile ai non-napoletani, quelli di che schieramento parlamentare saranno?), ho pensato che per fortuna ce l’aveva già spiegato Starnone. «Madre e figlia si parlavano come nei libri o alla radio, causandomi una specie di languore non per il senso delle parole, che da tempo ho dimenticato, ma per il loro suono incantatore, cosí diverso da quello di casa mia, dove si parlava soltanto dialetto». Non era stizza, non era il solito tamponamento a catena dell’internet, non era eccesso di tempo libero sprecato male: era languore, che li aveva presi per incantamento.

Francesco Musolino per "il Messaggero" il 26 novembre 2021. Improvvisamente il romanesco è sulla bocca di tutti. Dagli stornelli al teatro di strada sino alla commedia all'italiana, sempre sul crinale fra serio e faceto, il dialetto romano è capace di stupire e stordire il pubblico, altissimo o greve, partendo dal popolo ma capace di pungere tutti. Caratteristiche che lo rendono anche inviso, come dimostra la polemica nata sull'onda del grande successo riscosso da Strappare lungo i bordi, la prima serie tv creata dal disegnatore Zerocalcare, in streaming su Netflix. C'è davvero chi avrebbe voluto che Michele Rech - in arte Zerocalcare (Arezzo, 1983) usasse l'italiano corrente per raccontare il mondo attorno a Rebibbia, cogliendo la società dei 30-40 enni e le sue disillusioni. Invece, Strappare lungo i bordi, composta di sei puntate da venti minuti, è un omaggio all'essenza capitolina e mentre la polemica sull'eccessivo uso del dialetto montava sui social, il disegnatore entrava a gamba tesa, twittando, «Madonna regà, ma come ve va de ingarellavve su sta cosa», gettando altra benzina sul fuoco.

IL PLURILINGUISMO «A ben vedere racconta il linguista Luca Serianni la forza di questa parlata è proprio la sua potenza dirompente, il gusto della battuta, la capacità di non prendersi e non prendere mai nulla troppo sul serio, scrollandosi dalle spalle il mondo intero con una smorfia». E mentre il web si schiera ma l'appoggio per Zerocalcare è pressoché univoco in città si terrà Roma, un nome, più lingue, il terzo incontro della rassegna Conversazioni romane (in programma oggi, alle 17 a Palazzo Firenze, in collaborazione con la Società Dante Alighieri e la Fondazione Marco Besso) in cui proprio Serianni, autore del saggio Le mille lingue di Roma(Castelvecchi), ripercorrerà le fasi più salienti del plurilinguismo romano, dall'antichità ai giorni nostri. E così, mentre Netflix incassa un altro grande successo dopo Squid Game (in questo caso nessuno si era lamentato che fosse in coreano, senza doppiaggio), il nuovo albo di Zerocalcare - Niente di nuovo sul fronte di Rebibbia, edito da Bao Publishing - è già in classifica, sempre con largo uso di romanesco, sfoderando un'ironia abrasiva, una certa vena di cattiveria che corre accanto al riso - ora omaggiando ora smontando il sacro - come Sordi ne Il Marchese del Grillo. Un'universalità che ritroviamo solo nel napoletano di Troisi e nel siciliano di Camilleri. «Il romano è mattatore precisa Serianni quella lingua cade sulle sue fattezze, talvolta rozza e volgare ma sempre capace di indurre al gioco, allo scherzo, lasciando affiorare con forza un elemento dissacrante che infine si rivela liberatorio». Piaccia o meno, il romanesco ha una sua carica esplosiva ma proprio la sua forza può risultare un limite? Edoardo Albinati, scrittore romano e vincitore del Premio Strega con La scuola cattolica (trasposto al cinema, diretto da Stefano Mordini e vietato ai minori di 18 anni) non ha dubbi: «Per Zerocalcare era inevitabile l'uso del romanesco. E non mi riferisco al racconto di Rebibbia, piuttosto alla sua capacità di cogliere quella nevrosi umoristica, arrabbiata e urticante».

L'ACCANIMENTO Ma Albinati non si nasconde mai lo dimostra anche nel suo pamphlet, Il velo pietoso (Rizzoli) e prosegue: «Talvolta, il romanesco può anche stufare. Milano s' è presa la pubblicità, tanto che ormai i bambini hanno tutti la stessa cadenza meneghina. Ma il linguaggio della fiction italiana sembra quasi una forma di accanimento fra il romanzo criminale e la gomorreide, smarrendo la genuinità del romanesco, che è ciò che lo rende universale». 

Rassegnatevi, il romano è la neolingua nazionale. Le assurde polemiche su "Strappare lungo i bordi", la serie Netflix del fumettista Zerocalcare. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 22 novembre 2021. Ma davvero c’è qualcuno che non ha capito Strappare i bordi, la serie Netflix del fumettista Zerocalcare perché recitata in “romano”?

E che per questo motivo si è pure incazzato? «È incomprensibile», «Ci vogliono i sottotitoli», «parla strascicato», «va troppo veloce», è la lagna che circola da giorni sui social italiani.

«È uno scempio per la logopedia!», ha poi chiosato una ineffabile contessa “Serbelloni Mazzanti Vien dal mare” che nella vita fa la nota giornalista di costume. Uno-sce-mpio-per-la-logo-pe-dia, da sillabare con lentezza, mi raccomando, soprattutto da Firenze in su.

Polemiche assurde, che mai nessuno si è sognato di agitare per i film del napoletano Massimo Troisi (magari lo volevano doppiato in bresciano), per i vibranti monologhi del veneto Marco Paolini, per le commedie teatrali del genovese Gilberto Govi, per le canzoni del milanese Enzo Jannacci, e l’elenco potrebbe essere molto più lungo di questo articolo.

Quindi, con Zerocalcare ci deve essere un problema diverso. Magari è questione di campanilismi, di rivalità regionali. Il romano di oggi, che i linguisti chiamano “neoromanesco”, non è un dialetto codificato, è una semplice parlata, per alcuni genericamente un idioma.

Privo di una sua specifica grammatica e di un vocabolario (a parte i folkloristici dizionari per turisti con le citazioni di Alberto Sordi), non ha l’orgoglio antico dei vernacoli borbonici, l’aristocratica solitudine del fiorentino, l’eco barbarica dei dialetti nordici.

Proprio come i suoi parlanti, la caratteristica principale sembra essere quella di non avere grandi pretese letterarie.

Serve piuttosto ad accompagnare le azioni quotidiane, con quell’enfatico distacco che, dentro il Grande Raccordo, è un eterno spirito dei tempi.

Anche nelle sue versioni più scurrili mantiene il profilo basso, il suo effetto svanisce in fretta, la sua ostentazione è intimamente effimera, come avrebbe detto il grande Renato Nicolini. Per questo è così pervasivo: è una lingua di gomma che si adatta all’evoluzione delle cose, uno slang del disincanto a suo modo subdolo che, senza ambizioni conclamate, ha colonizzato lo spazio pubblico diventando una sorta di neolingua nazionale.

Naturalmente a questa diffusione ha contribuito la logistica e la “divisione dei poteri”; sotto il Duomo pulsava il cuore economico del paese, all’ombra del Colosseo quello culturale e politico. Dal dopoguerra, salvo qualche eccezione, l’inflessione romana è stata quella dei giornali radio, dei programmi televisivi, del cinema, del doppiaggio dei film stranieri. in mano da quando hanno inventato il sonoro a un clan di famiglie romane che farebbe invidia a qualsiasi corporazione medievale.

Negli anni 80 il milanese ha provato per un breve periodo a imporsi sul romano; era l’epoca degli yuppies, della città da bere, dell’edonismo reaganiano e della moda. È stata un’egemonia illusoria, l’indolente parlata della capitale ha ripreso presto il sopravvento. Anche nelle malriuscite imitazioni che regolarmente i comici padani ci propinano a suon di «mei cojoni!» e «sticazzi!» di cui peraltro confondono immancabilmente il significato.

Per questo le polemiche fonetiche su Strappare i bordi sembrano in malafede. Roba da boomer inveterati come dicono oggi i giovani.

Il sospetto è che a disturbare tanto le sussiegose platee che arricciano il naso per il birignao delle periferie capitoline, non sia tanto il romanesco, ma i contenuti della serie, la leggerezza del suo protagonista che racconta lo smarrimento di una generazione senza sogni e senza lavoro, i trenta-quarantenni di oggi, il minimalismo di chi non ha più assalti al cielo da realizzare, palazzi di inverno da prendere, e si sente in pace nell’essere «un filo d’erba».

Mettendo in scena un apparente racconto generazionale in cui la tristezza ride, e ogni risata vive di indolente amarezza, Zerocalcare non ci mostra un destino collettivo, quello è soltanto un espediente letterario per parlare di altro.

Perché il cuore di Strappare i bordi batte altrove e coincide con il punto di vista del suo autore che cresce e deambula nei terrains vagues della suburra romana in un flusso di coscienza continuo.

Non un trattato di sociologia o di antropologia metropolitana, non un’ideologica accusa “der neoliberismo” come vorrebbero alcuni suoi fan, ma un classico romanzo di formazione capace di toccare temi personali e universali, l’amore, la paura, il dovere, la depressione, il senso di vuoto, la capacità di seppellire il dolore con una risata. Insomma il senso della vita, con buona pace di tutte le contesse.

Pietro Piovani per “Il Messaggero” il 22 novembre 2021. I linguisti hanno sempre spiegato che Roma - per ragioni storiche su cui qui non ci soffermeremo - non ha un suo dialetto. A Napoli si parla il dialetto napoletano, a Torino il torinese, mentre il dialetto romano non esiste: esiste il romanesco, che è una versione alterata, plebea dell'italiano. Se un siciliano o un veneto parlano nel loro dialetto vengono capiti solo dai conterranei, se un romano parla nel suo idioma locale è decifrabile in tutta Italia. Così ci spiega la linguistica, eppure in questi giorni sui social imperversa il dibattito sulla serie televisiva d'animazione di Zerocalcare che, parlando con forte accento romano, è per questo rimproverato di essere incomprensibile “fuori dal Raccordo anulare” (vecchia iperbole che forse andrebbe aggiornata, vista la rilevante quota di popolazione romana che ormai vive oltre il GRA). Niente di nuovo, già negli anni Sessanta il centralino della Rai riceveva furiose telefonate di protesta dai telespettatori settentrionali quando andava in onda il teatro di Eduardo: “Non si capisce!”. Curiosa lamentela se si pensa che i De Filippo hanno sempre portato le loro messe in scena davanti alle platee del Nord, e con grande successo. Ma oggi queste rimostranze - come in diversi hanno notato - risultano ancora più strane se si pensa che ormai il pubblico si è abituato a divorare film e serie tv in coreano con i sottotitoli. E invece c'è chi sente il bisogno di farsi tradurre «se beccamo» (“ci incontriamo”), chi sostiene che la caratteristica del romano sia«strascicare le parole» (dimenticando, tanto per fare un esempio, un geniale strascicatore milanese come Enzo Jannacci), e chi ritira fuori il luogo comune della presunta egemonia culturale romana. Alla fine viene il sospetto che dietro alla voglia di polemizzare ci sia quel sentimento che a Roma si chiama “andarci in puzza” (sottotitolo per i milanesi: “aversene a male”), insomma un po' di invidia: un’invenzione stilistica e linguistica del tutto inedita per la tradizione italiana sta avendo successo, e questa invenzione è romana.

BUCCIA DI SPRITZ – Dalla Crusca alla fabbrica della lingua. Maurizio Sessa su L'Arno-Il Giornale l'11 novembre 2021. Gli “amici miei” della lingua italiana. Tutti insieme appassionatamente i sei eruditi fiorentini che diedero vita all’Accademia della Crusca in principio formavano una allegra brigata dedita alle zingarate, o meglio alle “crusconate”. E così, tra il serio e il faceto, leggendo, componendo e facendo spettacoli – come si legge nel primo verbale di una loro seduta – il sodalizio diede vita a un’accademia divenuta nel corso dei secoli lo scrigno della correttezza della lingua italiana. Correva l’anno 1583 quando un gruppo di letterati e giureconsulti diede vita alla Accademia della Crusca. Nell’uso corrente, semplicemente la Crusca. Nei mesi scorsi la villa Medicea di Castello che ospita la Crusca si è trasformata in un set cinematografico per girare “La fabbrica della lingua”, primo docufilm dedicato al più importante centro di ricerca scientifica dedicato allo studio e alla promozione dell’italiano. Un’istituzione che si propone l’obiettivo di fare acquisire e diffondere nella società italiana, specialmente nella scuola, e all’estero, la conoscenza storica della lingua nazionale e la coscienza critica della sua evoluzione attuale nel quadro degli scambi interlinguistici del mondo contemporaneo. Un’avvincente carrellata alla scoperta dell’evoluzione della nostra lingua. Il film di circa un’ora ripercorre la storia della Crusca dalle sue origini nel Cinquecento a oggi, grazie anche a scene di fiction interpretate da attori della Compagnia delle Seggiole di Fabio Baronti, approfondimenti e interviste a personaggi illustri del nostro panorama culturale: lo storico Alessandro Barbero, l’attrice Monica Guerritore, lo storico dell’arte Tomaso Montanari, il presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini, i presidenti onorari Francesco Sabatini e Nicoletta Maraschio, e Marco Biffi dell’Università degli Studi di Firenze. L’anteprima del film, fuori concorso, avrà luogo nell’ambito del 62° Festival dei Popoli in programma a Firenze dal 20 al 28 novembre. La fabbrica della lingua andrà in onda in televisione in una delle maggiori emittenti nazionali. Grazie al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale verrà distribuito a tutti gli Istituti Italiani di Cultura all’estero.

Una ghiotta occasione, dunque, di darsi un’“infarinata” di storia della lingua italiana. Un’opportunità che, visti i tempi di forestierismi imperanti, da salutare come indispensabile. Del resto, Leonardo Salviati, il fondatore della Crusca, si era assegnato lo pseudonimo di Infarinato…

La sostenibile leggerezza dell’esistente tra cronaca, storia e commento – “Buccia di Spritz” di Maurizio Sessa 

Pizza e fichi. Le parole sono importanti, usiamole con cura. Aldo Palaoro su L'Inkiesta il 15 Novembre 2021. Può un’insegna indurci a una riflessione sullo stato della ristorazione, in particolare su come un imprenditore decida di promuovere la propria attività? Se ne stiamo scrivendo è evidente che la risposta per noi sia, amaramente, affermativa. Capita che, nel giro di un paio di giorni, viaggiando per lavoro, due cartelli di ristoranti più o meno nella stessa zona attirino la nostra attenzione. Non entriamo nel merito della bontà dell’offerta, pertanto, non li nomineremo perché del primo non sappiamo nulla, del secondo, invece, ne conosciamo e apprezziamo la cucina e, come noi, tanti clienti che lo ritengono, a ragion veduta, un buon ristorante noto per un’ottima pizza preparata con farine di qualità, ricette gustose e ricercate, ma anche per un menu ricco di piatti semplici e buoni, senza fronzoli. Ciò che ci interessa è l’analisi del messaggio che esprimono le due insegne: la prima con le parole “Food Experience” stampate sotto il nome del locale, la seconda con le frasi “pizza gourmet” e “cucina di pensiero”. Sulla prima vien voglia di evitare ogni commento, perché il fatto che mangiare sia un’esperienza è abbastanza scontato, ma scriverlo in inglese fa più effetto; soprattutto, perché il rischio che sottolinearlo possa apparire offensivo per coloro che non sempre riescono a mangiare tutti i giorni è alto. Sulla seconda, saltando a piè pari la ormai desueta e noiosa definizione di “gourmet” affibbiata alla pizza, aggettivo che nemmeno noti pizzaioli nazionali utilizzano più, visto che prediligono definire se stessi e il proprio prodotto con maggiore semplicità, veniamo a quella frase che ci ha fatto riflettere: “cucina di pensiero”. Certo, l’esegesi della frase è scontata, si vuole trasmettere al lettore che qui c’è un modo di cucinare che, prima di agire meccanicamente nella preparazione di una ricetta, fa un approfondito esercizio di pensiero, di studio. Nulla di male penserete, sì, nulla di male, ma…Come siamo arrivati a far sentire un bravo imprenditore, il cui successo è certificato dal numero di clienti che ogni giorno scelgono il suo locale, clienti contenti e soddisfatti per una cucina riconoscibile, rassicurante, quasi obbligato a individuare una formula concettuale che più che alla cucina attiene alla filosofia? Perché si sente la necessità di aggiungere, a quella che già è riconosciuta come una buona cucina, un commento superfluo che al cliente dirà poco? In particolare un locale che ha clienti abituali e clienti di passaggio, visto che si trova su di una strada frequentata, ai primi non deve dire nulla di più di quanto già sanno, anzi, probabilmente costoro saranno un po’ confusi da questo messaggio e si chiederanno, visto che conoscono bene i piatti che mangiano, cosa possa significare quel “pensiero”. Ai secondi, invece, una siffatta affermazione potrebbe addirittura suggerire di passare oltre, infatti, se uno è un appassionato o un addetto ai lavori, difficilmente si muove a caso quando cerca un locale che possa offrirgli qualcosa di particolare, studia il luogo, sceglie in base a recensioni e suggerimenti di chi si fida, non si ferma a caso in un ristorante che gli comunica che la sua è una cucina di pensiero. La considerazione, che emerge spontanea, nel constatare questa curiosa esigenza di segnalare, con una frase, una tale modalità di offerta, è che, forse, l’esagerazione, vissuta in questi ultimi anni, nel mondo della ristorazione, produce effetti surreali. Proviamo a immaginarci catapultati in un passato nemmeno tanto lontano, stiamo viaggiando, vogliamo mangiare qualcosa, una pizza è sicuramente l’offerta più ambita e più comoda per una sosta seduti al tavolo di un ristorante. Vediamo quelle insegne e ci domandiamo cosa potrebbero significare. Saremmo incuriositi o, più facilmente, passeremmo oltre? Forse la seconda opzione sarebbe stata quella scelta allora e forse lo sarebbe anche oggi. Eventi durante i quali, anziché condividere ricette, si discute di massimi sistemi, programmi televisivi a ogni ora del giorno in cui la cucina diventa (in)sana competizione, hanno fatto il loro tempo, oggi la domanda di consumatori e telespettatori è di tornare alle cose semplici. Forse un modo nuovo (o antico) di raccontare il cibo c’è… senza tanti pensieri. 

«Il Quoziente Intellettivo medio della popolazione mondiale sta diminuendo nell’ultimo ventennio. Una delle cause è l'impoverimento del linguaggio. Nicola Pesce Himself su Facebook. Diversi studi dimostrano infatti la correlazione tra la diminuzione della conoscenza lessicale (e l'impoverimento della lingua) e la capacità di elaborare e formulare un pensiero complesso. La graduale scomparsa dei tempi (congiuntivo, imperfetto, forme composte del futuro, participio passato) dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente, limitato al momento: incapace di proiezioni nel tempo. Un altro esempio: eliminare la parola "signorina" (ormai desueta) non vuol dire solo rinunciare all'estetica di una parola, ma anche promuovere involontariamente l'idea che tra una bambina e una donna non ci siano fasi intermedie. Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere le emozioni e meno possibilità di elaborare un pensiero. Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza nella sfera pubblica e privata derivi direttamente dall'incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole.

Più povero è il linguaggio, più il pensiero scompare. La storia è ricca di esempi e molti libri (1984, di George Orwell; Fahrenheit 451, di Ray Bradbury) hanno raccontato come tutti i regimi totalitari abbiano sempre ostacolato il pensiero attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri, non esistono pensieri critici. E non c'è pensiero senza parole. Facciamo parlare, leggere e scrivere i nostri figli, i nostri studenti. Insegniamo e praticare la lingua nelle sue forme più diverse. Anche se sembra complicata. Soprattutto se è complicata. Perché in questo sforzo c'è la libertà. Coloro che affermano la necessità di semplificare l'ortografia, sfrondare la lingua dei suoi “difetti”, abolire i generi, i tempi, le sfumature, tutto ciò che crea complessità, sono i veri artefici dell’impoverimento della mente umana. Non c'è libertà senza necessità. Non c’è bellezza senza il pensiero della bellezza.» Christophe Clavé

«Il papiro è la rivoluzione tecnologica che ha permesso alle parole di viaggiare nei secoli e nello spazio». Sabina Minardi su L'Espresso il 20 settembre 2021. Cantori, scribi, re, sacerdotesse. Migliaia di persone nel corso del tempo hanno cercato le soluzioni migliori per salvare le storie dell’umanità. Una grande avventura, quella del libro, che la filologa spagnola Irene Vallejo ha ricostruito in un saggio d’azione. Che è già un caso. Uomini a cavallo su vie antichissime. Sovrani assetati di conoscenza. Monaci ricurvi su codici da intarsiare. Ribelli e avventurieri, schiavi e maestri. E ancora: poeti, scribi, traduttori, guardiani di biblioteche e cacciatori di racconti, tutti ossessionati dal sogno di trasmetterli al futuro. È un’epopea corale e senza confini la storia del libro, dalle origini a oggi: che fa tappa tra i canneti di papiro lungo il Nilo e tra campi di battaglia, palazzi sfarzosi e scuole improvvisate. Ma anche tra roghi di libri, biblioteche fantasmagoriche ridotte in fumo: come quella di Sarajevo, avvolta dalle fiamme nell’agosto del 1992. Un’avventura nient’affatto maschile: anzi punteggiata da figure femminili decisive, che febbrilmente tramandano scritture sin dall’alba della civiltà. Ma anche una vertiginosa corsa verso la ricerca del materiale perfetto - pietra, argilla, pelle - perché le parole attraversino, protette, lo spazio e il tempo. A raccontare tutto ciò è una filologa quarantenne nata a Saragozza che ha trascorso gli ultimi otto anni della sua vita a risvegliare voci, a tratteggiare strade, a rubare frammenti di fonti, in cerca di storie alternative. Riversando i risultati in un libro di quasi seicento pagine, il più letto dagli spagnoli durante il lockdown, 40 edizioni e l’apprezzamento di lettori come Mario Vargas Llosa o Fernando Aramburu («una delle cose più belle, divertenti, istruttive da molti anni a questa parte»). Che è arrivato anche in Italia (e in altri 38 Paesi) edito da Bompiani: “Papyrus. L’infinito in un giunco”. Esile, sguardo chiaro, eloquio affascinante («sento che condividiamo l’amore per la parola: è la mia esperienza dell’Italia questa energia senza soggezione verso il bello», dice: «Siamo gli eredi del dialogo socratico mediterraneo, capace di ascoltare profondamente gli altri»), Vallejo parla veloce, si entusiasma, si commuove persino. In una interpretazione autentica di quelle stesse emozioni che il libro trasmette. Non è solo un romanzo né solo un saggio. C’è lei, dentro: con le sue memorie, i viaggi per archivi e biblioteche. La divisione in generi letterari ha consentito, dai tempi della Biblioteca di Alessandria, di ritrovare i libri. Oggi che i generi sono sempre più ibridati e, come molti ritengono, superati, come definirebbe “Papyrus”?

«Un saggio di avventura. Certamente non un testo accademico, anche se dietro ci sono anni di ricerche e di studio. Un saggio letterario. Avevo già scritto dei romanzi e alcuni libri per bambini. Con “Papyrus” volevo inoltrarmi nel territorio dell’oralità, un mondo dove queste distinzioni di generi non hanno senso. In fondo è anche un tornare alla saggistica, come la intendeva Montaigne: che scriveva dialoghi con Seneca, Epicuro, Platone o Cicerone, interagendo col suo tempo e parlando delle sue esperienze. Avevo in mente quel tipo di libertà, quella leggerezza, il senso della digressione: più importante dell’ordine, della cronologia, della distinzione in generi». 

L’accademia la conosce bene, però: ha conseguito un dottorato occupandosi di canone letterario grecolatino...

«Grazie a una borsa di studio ho trascorso a Firenze quasi un anno per le mie ricerche. Senza quel tempo questo libro non ci sarebbe stato. La Biblioteca Riccardiana è stato il luogo in cui ho potuto accarezzare, per la prima volta, un manoscritto di Petrarca. In quel momento ho avvertito quanta dedizione, quanto tempo, quanta pazienza qualcuno avesse messo in quel volume, per farlo arrivare a noi. Ho desiderato scriverne. Attraverso un libro “ospitale”, non per specialisti». 

Di certo il brulichio di gente, e di gesti di persone di cui non sapremo mai il nome, è uno degli aspetti che colpisce di più. Trasferisce l’impressione di una grande avventura dell’umanità.

«La storia dei libri è una epopea, che continua oggi attraverso librai, bibliotecari, insegnanti. Questa catena di salvezza della conoscenza è sopravvissuta a crolli di imperi, guerre, epidemie. Il mio libro è un omaggio a gente che non ha agito per vanità, come tanti mecenati, ma per puro amore. Questo volevo raccontare. Con due fantasmi amichevoli al mio fianco: Italo Calvino e Umberto Eco. Oltre a tante voci sulle quali mi sono formata, da Roberto Calasso a Luciano Canfora». 

Il piacere della lettura: il suo libro lo rivendica attraverso i classici. Lo scrittore Amin Maalouf nel suo ultimo libro esprime la stessa idea con una potente metafora: un popolo di discendenti di Empedocle, che ci vengono in soccorso.

«Tutte le volte in cui accadono catastrofi, o siamo schiacciati dall’angoscia, i classici trasmettono sicurezza e la speranza di un’umanità che è riuscita ad andare avanti anche nelle situazioni peggiori». 

Eppure anche i classici sono investiti dal vento della cancel culture: rilettura che ne contesta ora il maschilismo, ora la violenza, ora i valori discriminatori.

«Io penso che non dobbiamo mettere i classici su un piedistallo. Ma vedo un grosso pericolo nel cercare di cancellare brani e idee contrarie alla sensibilità di oggi: mi sembra che sia la stessa operazione del negazionismo. Dobbiamo conoscere la storia e cercare di capirla. Sapere come certe idee si sono formate e sono state giustificate, così da avere gli strumenti per evitare che si ripropongano. Io non amo tutto ciò che è classico per il solo fatto che viene dal mondo antico: ho una relazione conflittuale con alcuni, ad esempio con Platone. La cosa importante è avere uno sguardo critico. Se lo facciamo verso il passato lo faremo rispetto al futuro». 

Chi le ha trasmesso l’amore per i libri?

«I miei genitori leggevano tantissimo, ho avuto la fortuna di crescere in una casa piena di libri. Ho un ricordo fortissimo dei loro racconti: la sera, creavano un’atmosfera magica, intima, estranea alla vita reale. Anche per questo l’oralità è così centrale in “Papyrus”. 

Svariati saggi stanno raccontando la storia del libro e della lettura: penso a “Carta” di Mark Kurlansky (Bompiani) e a “Leggere” di Mark Seidenberg (Treccani). Il rilievo che lei dà all’oralità in effetti è un suo tratto distintivo.

«Può sembrare un po’ paradossale, ma ho cercato di raccontare la storia del libro come avrebbe fatto un poeta orale, prima dell’esistenza dei libri stessi. Per farlo ho contattato cantastorie, ho cercato di capire le loro tecniche, ho studiato le caratteristiche della comunicazione orale. Poi, come Shahrazad, ho intrecciato le storie, cercando di far sorgere nel lettore il desiderio di andare avanti». 

Di aneddoti e di curiosità è zeppo il libro. Scopriamo che Cleopatra era una formidabile lettrice. E che Antonio le porta in dono duecentomila libri. Che ruolo hanno le donne in questa avventura?

«Fondamentale. Anche se con l’eccezione di Saffo, il paesaggio intellettuale è sempre stato maschile. Mi sono chiesta se fosse la realtà o un cliché. Ho interrogato le fonti per saperlo: e lì le donne non sono certo protagoniste, ma ogni tanto affiora un riferimento, un nome, un frammento: le donne c’erano». 

E cosa ha scoperto da questi accenni?

«Per esempio una donna accadica, Enheduanna, la prima a firmare versi nella storia dell’umanità. Sono rimasta sotto shock, perché nessuno me ne aveva mai parlato prima, non dico al liceo ma neanche nei corsi di specializzazione. Se una donna così importante non viene neppure nominata, quante sono quelle dimenticate? Ho cercato di farne un elenco, perché le ragazze di oggi sappiano chiaramente che la volontà di scrivere, capire il mondo, far progredire il pensiero, ci ha sempre visto protagoniste». 

Corinna, Telesilla, Mirtide, Prassilla, Eumetide, Beo, Erinna... La lista è davvero, sorprendentemente, lunga. E chi era Enheduanna?

«Un personaggio bellissimo, poeta e sacerdotessa. Noi parliamo sempre di Omero, senza sapere granché di lui. Di Enheduanna invece sappiamo tanto, scrisse degli inni che ancora riecheggiano nei Salmi della Bibbia. Lei parlava della creazione come atto erotico, si diceva “incinta” delle parole». 

Una figura indimenticabile, dopo aver letto “Papyrus”, è Aspasia, moglie di Pericle.

«Secondo Platone è lei ad aver scritto i discorsi politici del marito. I discorsi politici di Pericle hanno avuto moltissima influenza: da Kennedy a Obama sono continuamente citati. E non è straordinario il fatto che siano le parole di una donna, che faceva l’insegnante nell’epoca d’oro? Le donne non sono una nota a piè di pagina, in una storia di uomini. Ci sono, invece, e non sono un’eccezione». 

Aspasia era una straniera. La storia che stiamo raccontando è globale, nutrita delle influenze di popoli diversi.

«“Papyrus” è anche un omaggio alla traduzione, che diamo per scontata ma che qualcuno ha immaginato per la prima volta: ad Alessandria, dove Alessandro Magno concepì il sogno di una biblioteca universale. Una rivoluzione: per la prima volta qualcuno sentì che non bastava leggere ciò che era scritto nella propria lingua, ma che era bello conoscere anche ciò che avevano scoperto e pensato gli altri. Almeno in un senso simbolico le frontiere erano abbattute. Il sogno della biblioteca era democratico: consentiva a tutti, non solo alle élite, di accedervi. Quando si pensa all’eredità dell’impero romano di solito non si menzionano le biblioteche, ma sono stati i romani a farle espandere. Marziale, nato in un paesino vicino alla mia città, poteva contare su una biblioteca dove ha imparato il latino che gli ha permesso di andare a Roma e diventare scrittore. Non c’erano tanti elementi comuni tra i popoli dell’Impero romano, ma tutti, nell’odierna Inghilterra, in Spagna o in Germania, avevano la possibilità di andare a teatro, frequentare scuole e biblioteche dove si parlava latino. È l’eredità di noi cittadini europei. La biblioteca di Alessandria è bruciata tante volte, ma una cosa l’ha colpita in modo decisivo: il fatto che il potere, a un certo punto, l’ha trascurata. Vale anche oggi. Tante volte si pensa che la cultura sia solo un ornamento per tempi in cui l’economia va benissimo: non è così. Leggere aiuta a sopravvivere. Persino nei campi di concentramento raccontare storie fu strategia contro la disumanizzazione suprema». 

Le biblioteche sono anche segni nel territorio. Lei parla molto della Bodleian Library di Oxford. È legata ad altri luoghi?

«Certamente alla Biblioteca Riccardiana di Firenze. Ma sono soprattutto legata alle piccole biblioteche comunali, a quelle di quartiere, a quei luoghi che rappresentano avamposti sociali, in tutto il mondo. Mi emoziona lo sforzo che fanno per coinvolgere lettori, per aiutare gli stranieri attraverso i loro corsi, per sopperire alla mancanza di computer della gente: sono focolai di cultura dove spesso mancano altre possibilità». 

Mi sembra di sentire in lei il “Discorso al paese di Fuente Vaqueros” di Federico Garcia Lorca, in occasione dell’inaugurazione della Biblioteca del luogo natale...

«Sì! E sa che ho scritto un manifesto per la lettura basandomi su quel testo? Le grandi biblioteche colpiscono per bellezza e disponibilità. Ma le piccole biblioteche, tenute in vita dalla passione, trasformano il mondo». 

E il papiro, in questa storia, che ruolo ha?

«Il papiro è la rivoluzione tecnologica fondamentale. L’alfabeto, una ventina di segni, permette di scrivere l’infinito. Ma le parole sono fragilissime, un pezzetto di aria che vibra. L’uomo è andato alla ricerca della superficie giusta per conservarle: prima la pietra, durevole ma non trasportabile. Poi le tavolette d’argilla, troppo delicata. Poi il papiro: il midollo di una pianta acquatica, che è vita. Le parole si rifugiarono lì. E questi rotoli si trasformarono in un veicolo capace di farle viaggiare nel tempo e nello spazio. Poi si scoprì la pergamena: anche scrivere sulla pelle è una metafora bellissima. Dopo venne la carta, che è pure una memoria vegetale. E infine la luce, con la quale scriviamo oggi sugli schermi. Terra, piante, pietra, luce: tutta la natura è coinvolta nella ricerca del materiale più adatto. Oggi teniamo i libri in mano, senza pensarci più. Invece c’è un’umanità che ha lottato con sforzi inimmaginabili perché questi oggetti possano continuare a stupirci».

Gianluca Veneziani per "Libero quotidiano" il 13 settembre 2021. Se vi può consolare, anche Dante, Manzoni e la Fallaci usavano espressioni linguistiche che oggi sono considerate errori, e quindi potreste sempre spacciarle come citazioni colte. O almeno come la dimostrazione che la lingua cambia nel tempo e forme corrette possono diventare sbagliate e viceversa, con usi errati delle parole che alla lunga si cronicizzano e diventano norma. Per questo forse neppure il Sommo Poeta avrebbe disprezzato il modo in cui vocaboli, accenti e apostrofi vengono (bis)trattati e traditi dai parlanti e scriventi in italiano, dando vita a mostruosi, e non meno divertenti, strafalcioni. Questo destino del nostro idioma rientra in ciò che la mostra Dante. Gli occhi e la mente. Un'Epopea Pop, aperta al Museo d'arte della Città di Ravenna (Mar) a partire dal 25 settembre, e a cura del linguista Giuseppe Antonelli: un'eredità varia, fatta di parole, suoni e immagini, trasformati e deformati nel tempo, a testimonianza non di un oltraggio al poeta ma della vitalità della sua lingua e del suo personaggio. Con questo approccio possiamo guardare con occhio più benevolo ai tanti errori che connotano il nostro uso di grammatica e sintassi. E sui quali Antonelli si è divertito a giocare in un incontro al Festivaletteratura di Mantova, intitolato Una grammatica mostruosa!, in omaggio al Come farsi una cultura mostruosa di Paolo Villaggio. «Parliamo di problemi», nota Antonelli, «legati perlopiù alla lingua scritta: oggi, grazie agli smartphone, scriviamo molto più che in passato e quindi sbagliamo di più; e poi, grazie ai social, rendiamo pubblico ciò che scriviamo cosicché i nostri errori, prima nascosti, ora sono molto più visibili».

SCIVOLONI ILLUSTRI E allora non è ozioso fare una rassegna degli scivoloni più frequenti e più comici, che a volte hanno una lunga tradizione alle spalle, altre volte sono destinati ad avere un futuro. Galeotta è spesso la "i" prima della vocale finale. Si pensi al plurale di «provincia»: si dovrebbe dire «province», ma tanti scrivono «provincie». A rovescio vale il caso di «ciliegia»: al plurale è «ciliegie», eppure è frequente leggere «ciliege». Ci sono esempi celebri in questo senso: a Roma esiste una piazza chiamata «Piazzale delle Provincie», mentre Oriana Fallaci ha intitolato un suo romanzo, uscito postumo, Un cappello pieno di ciliege. «Chi sbaglia, in un certo modo, può essere assolto», avverte Antonelli. «A lungo le regole dell'italiano, basandosi sul latino, hanno previsto queste forme. È stato un linguista, Bruno Migliorini, alla metà del '900 a innovare le regole e a stabilire la versione oggi corretta: "province" e "ciliegie"». A proposito di plurali, ci sono parole che ne hanno più d'uno. Cosicché in tanti inciampano sul loro uso. Alcuni, forse perché hanno un muro nella testa come cantava Fossati, confondono «muri» con «mura»: i primi sono le opere murarie considerate separatamente (i muri interni di casa), mentre le mura l'opera muraria nel suo complesso (le mura della città). Il discorso non fila neppure in merito a «fila». Si suole sentire «serrare le fila», ma l'espressione è sbagliata perché il plurale di «fila» è «file». Diverso è invece il caso di «tirare le fila» o «riprendere le fila del discorso». Qua l'uso è corretto perché «fila» è un plurale di «filo». Non può certo sbrogliare questa matassa di fili linguistici chi soffre di "congiuntivite" cronica. I sintomi sono almeno tre. «C'è chi ha difficoltà con la consecutio temporum», rileva Antonelli. «E allora adopera frasi come "Vorrei che tu mi dica" oppure "Chi lo sa, alzasse la mano". È sbagliato in entrambi i casi, perché si dovrebbe dire: "Vorrei che tu mi dicessi" e "Chi lo sa, alzi la mano"». Un'altra manifestazione, fortunatamente più rara, della "malattia" è l'uso fantozziano del congiuntivo esortativo: da cui i vari «vadi», «sii», «facci». Possono sembrare boutade da film comico, ma in realtà «hanno dei precedenti illustri», ricorda Antonelli. «Alla seconda persona singolare, erano usati nel '300 da Dante, Boccaccio, Petrarca, nel '500 vennero codificati da Pietro Bembo e nell'800 erano ancora usati da Leopardi». La terza manifestazione della "congiuntivite" è il ricorso a verbi come «dasse» e «stasse», anziché «desse» e «stesse». «Qui la colpa», analizza il linguista, «non è solo dell'ignoranza, ma anche dell'analogia con il verbo all'infinito: dare, stare... "Dasse" e "stasse" sono formule usate da tempo ma non sono state accettate dalla norma. In altri casi, invece, l'analogia ha cambiato la lingua. Una forma analogica è ad esempio l'imperfetto del tipo "facevo", "andavo", la cui "o" finale richiama quella della prima persona del presente: "faccio", "vado". Prima che Manzoni sciacquasse i panni in Arno, essa era considerata un errore, perché si preferiva la forma etimologica "io faceva", "io andava"». Capitolo a parte merita l'uso di congiunzioni astruse e poco astrali. Si veda il ricorso a «piuttosto che» in luogo di «o, oppure». «"Piuttosto che" presuppone la preferenza per qualcosa rispetto a un'altra», sottolinea Antonelli. «"Oppure" indica invece l'alternativa tra due scelte entrambe valide. Sempre più spesso però "piuttosto che" è usato al posto di "o". È un uso improprio ma anche un sintomo della lingua in evoluzione: pure "siccome" alle origini voleva dire "così come", poi ha assunto il significato di "poiché"».

DOPPIE, ACCENTI E ALTRI CASI Frequenti sono gli svarioni sulle doppie: capita di leggere «accellerare» al posto di «accelerare», «sopratutto» in luogo di «soprattutto». Parimenti non è raro vedere due parole diverse ridotte a una: «affianco» rimpiazza il corretto «a fianco» e «apposto» toglie il posto ad «a posto». «Sono errori anche questi», ci dice Antonelli, «ma chissà che un giorno non subiscano la sorte di "nonostante", che nacque separato come "nonostante"». Se fioccano poi accenti tonici ad capocchiam («persuàdere» anziché «persuadère»), è lecito chiedersi il perché della natura ballerina dell'accento grafico di «perché». L'avverbio viene spesso scritto con accento grave (perchè) e non acuto (perché). E questo è un errore, anche se non grave. «La colpa», spiega Antonelli, «è del modo in cui accentiamo quando iniziamo a scrivere a scuola: mettiamo sopra la vocale un vago trattino, che non si capisce se vada verso l'alto o verso il basso». Mentre ci si imbatte quotidianamente nella confusione tra «ne», «né» e «n'è», e assistiamo alla dipartita dell'apostrofo in sgorbi linguistici come «un pò» e l'imperativo «fà», Antonelli si diverte a immaginare, come estrema deriva, uno scenario fantozziano: quello per cui «l'aggettivo "prestante", anziché aitante, passando per il participio presente "colui che presta", potrebbe finire per essere interpretato come "uomo generoso" o addirittura "usuraio"». Orsù, fate presto e siate "prestanti" nel salvare la lingua italiana.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 5 settembre 2021. Il coronavirus si è portato via, oltre tante vite innocenti, anche la stretta di mano. Che rischia di scomparire per diffidenza. Paradosso di un gesto nato proprio per questo. Nell'antica Grecia lo chiamavano dexiosis, ossia darsi la mano destra, poiché proprio lì si impugnavano le armi. Si stringeva la destra, spesso salendo fino all'avambraccio, perché così facendo si controllava che l'altro non avesse un pugnale nascosto sotto la manica. Darsi la mano è un saluto che esiste da migliaia di anni e che porta con sé molti significati, non solo di reciproco rispetto e stima o di affetto, ma è anche un codice universale con cui si indicala conclusione di un contratto.  Ma non disperiamo, nel 1439 pure il re d'Inghilterra Enrico VI per combattere la peste bubbonica vietò il bacio - con cui i cavalieri salutavano il re-, che tornò in auge qualche tempo dopo, per essere bandito di nuovo durante la grande peste di Londra nel 1665, sostituito dalle più sicure e igieniche riverenze. Le stesse che il principe Carlo di Inghilterra ha rispolverato in questo periodo con l'inchino e le mani giunte sul petto (il Namaste) originario dell'India, come lo abbiamo visto salutare i capi di Stato. Un linguaggio del corpo molto elegante e apprezzato dai germofobi di ogni parte del mondo. Potremmo farci un pensierino, anche se, purtroppo, non fa parte della nostra cultura, tanto più che sarebbe solo per un periodo perché «appena possibile torneremo al contatto fisico che è fondamentale nell'interazione umana». Ne è convinto Marcel Danesi, docente italiano di antropologia all'Università di Toronto. Lo sanno bene gli animali, che sul contatto fisico basano tutto. E al momento sono isoli a potersi permettere abbracci e strette di mano. Proprio come accade agli scimpanzè. I cuccioli imparano dalle madri a darsi la mano, crescendo il loro modo di farlo viene influenzato dagli amici: c'è chi unisce i palmi, chi attorciglia i polsi o gli avambracci. Ogni gruppo ha il suo stile. È una questione di legami sociali e una dimostrazione d'affetto quando si incontrano dopo una lunga separazione, spiega il primatologo Frans de Waal. Ma potrebbe servire anche a sondare le intenzioni del compagno, il quale se accetta la stretta di mano significa che vuole rafforzare l'amicizia. E che dire degli elefanti? Anche loro hanno bisogno di contatto fisico: si salutano posando la proboscide sulla testa dell'altro. Questa parte del loro corpo ha una sofisticata sensibilità dovuta a milioni di ricettori e sensori che permettono di avere un naso speciale, più sviluppato di un segugio, in grado di sentire l'odore dell'acqua da diverse miglia di distanza. E utilizzato per socializzare, accarezzarsi, confortarsi e comunicare attraverso una sorta di linguaggio dei segni. Insomma se la proboscide forma una "s" significa: «Voglio fare conoscenza». Se invece la incrociano si stanno salutando, come in una stretta di mano. E se i cani si salutano annusandosi e i gatti si strofinano naso contro naso, proprio come fanno gli esseri umani in Oman e gli innamorati eschimesi, i leoni si scambiano piccoli colpi col muso. I cavalli si dicono «ciao, come va?» soffiando con le narici e se sono particolarmente in confidenza si toccano pure il muso. Le foche si salutano agitando la pinna. I delfini, considerati da sempre tra gli animali più intelligenti, simpatici e socievoli, fischiano e sollevano piccole onde. I ricercatori inglesi Vincent Janik e Quick Nicola raccontano: quando i delfini si incontrano emettono una sorta di "firma vocale" per salutarsi che consente agli animali di riconoscersi tra loro. Quel «ciao come stai, mare mosso oggi?» avviene attraverso un fischio che peraltro non è il loro unico modo di comunicare, altri sistemi consistono infatti nella produzione di piccole onde e nell'emissione di suoni sordi. Le osservazioni in mare aperto presentano peraltro grosse difficoltà: i suoni in realtà vengono deformati col variare di determinati parametri come la salinità, la pressione, la profondità, la distanza tra chi li emette e chi li ascolta, a seconda che ci si allontani o ci si avvicini. Non si esclude pertanto che per i delfini più dei fischi contino maggiormente le "frequenze dominanti", che verrebbero emesse e percepite come una sorta di alfabeto Morse. Gli animali sono sempre un passo avanti.

Mano sudata quando la stringi? Parola all'esperta, attenzione: con che tipo di persona hai a che fare.  Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 04 agosto 2021.Da secoli fa parte del linguaggio del corpo, è una antica forma di saluto che rivela immediatamente umori e aspetti, spontanei, formali o automatici, di chi si ha di fronte, e dice molto, a volte più delle parole, nella connessione con l'interlocutore, ma è stata spazzata via, cancellata, relegata nell'oblio e addirittura proibita dalla pandemia. La stretta di mano, il primo contatto fisico e naturale di un incontro, rischia di sparire tra i modi per salutare un'altra persona, perché il Covid ha ampliato l'accettazione dei saluti a distanza, senza nemmeno sfiorarsi, con la felicità dei germofobi o di coloro che da sempre preferiscono non toccare o essere toccati. Potremmo non tornare più alla stretta di mano, la forma più diffusa e immediata di comunicazione non verbale, che riesce a trasmettere messaggi immediati, segnali di fiducia, lealtà, vicinanza o disprezzo anche ad un primo incontro informale, sia esso per sigillare un accordo, personale odi affari. Ma ancora oggi la stretta di mano è ritenuta molto importante, poiché anche la scienza ha dimostrato l'importante valenza del gesto, associandola alla necessità dell'atto per percepire la personalità dei soggetti e il loro modo di relazionarsi e vivere le diverse circostanze della vita.

LINGUAGGIO DEGLI OCCHI

Lo spettro dei modi accettabili per salutare un'altra persona o interagire con essa, attuato nei mesi di pandemia, dall'orrido gomito a gomito allo sfioro dell'altro con il braccio teso, non regalano la stessa soddisfazione o fastidio della stratta di mano, perché diventa già difficile intuire un sorriso bendato dalle mascherine e non tutti sono in grado di interpretare il linguaggio comunicativo degli occhi. E così come noi tutti, stringendo la mano all'interlocutore, in una sola manciata di secondi ci facciamo un'idea dell'altro, anche quest' altro se la farà di noi, perché quel contatto fisico e confidenziale rivela sempre la persona che si è oltre al momento che si sta vivendo. Non c'è nulla di peggio infatti, di una stretta con la mano fredda e umida, che trasferisce disagio ed è associata a un carattere debole ed insicuro, a differenza della stretta forte e decisa che indica la volontà di assumere il controllo dell'incontro e dominare la situazione nel minor tempo possibile. La stretta di mano moscia è tipica dei soggetti che non adorano particolarmente i contatti fisici e che intendono mantenere le distanze evidenziando la propria diffidenza, ma stringere con scarsa incisività è anche sinonimo di timidezza, malinconia, se non addirittura depressione. Quando viene offerta invece non tutta la mano con il palmo ma soltanto con le dita solitamente si ha di fronte una persona ansiosa, che teme il confronto nel quale non ripone fiducia, come coloro che allungano la mano decisa ma con il braccio teso e distante dal corpo, per tenere appunto l'altro a distanza dalla propria area di comfort. Ci sono inoltre quelli che durante la stretta ti strattonano nella loro direzione, per gestire l'incontro nel proprio spazio personale con le loro regole, o coloro che danno inizio a una sequenza di movimenti verticali, un su e giù tipica delle persone gioviali, pratiche e disponibili, mentre tendere all'altro solo la punta delle dita significa non gradire il contatto richiesto, indice di personalità schiva e altezzosa, della quale è difficile fidarsi. Poi c'è il doppio contatto, quando la mano sinistra si pone a sandwich sulle destre giunte, o sulla spalla della persona che si ha davanti, una stretta che può definirsi amichevole, che vuole rafforzare l'incontro con una cordialità non formale, ma che aspira alla posizione di leader tra i due.

BIOCHIMICA

Stringersi la mano ha anche a che fare con il mondo della biochimica, perché le due persone che si testano si scambiano anche i propri odori, oltre che batteri e virus, e ogni stretta di mano corrisponde a uno scambio di molecole, di segnalazioni cellulari che permettono un dialogo diretto tra due esseri differenti dal punto di vista biologico, cromosomico e sanitario. Nel mondo del galateo stringersi la mano è un esercizio di stile e la persona più importante dal punto di vista gerarchico deve essere la prima a tendere la mano a una di rango inferiore, come abbiamo visto fare centinaia di volte alla Regina Elisabetta. È comunque un mondo difficile da decifrare, dipende dai caratteri, dalle situazioni e dalle occasioni di incontro, ma di fatto rappresenta una sorta di equilibrio psicologico che si stabilisce tra i due che accedono al gesto, per cui privarsi di questa semplice e istintiva modalità di saluto può essere solo un atto temporaneo, perché questo contatto non potrà cambiare o far sparire del tutto nella post pandemia un linguaggio del corpo indispensabile e così importante, che resiste da secoli in tutte le popolazioni del mondo.

Lucia Esposito per “Libero quotidiano” l'1 agosto 2021. Intervistare un esperto di intelligenza linguistica crea subito un grosso problema: trovare le parole giuste per non sembrare un deficiente linguistico. Da che parte cominciare? Privilegiare i convenevoli o andare al sodo? Scegliere parole ricercate o preferire quelle colloquiali? 

«Buongiorno, scusi se la disturbo, la chiamo per l'intervista concordata l'altro giorno. Adesso potrebbe parlare?». I saluti, le scuse, il condizionale... la frase ci sembrava perfetta ma il guru della comunicazione efficace Paolo Borzacchiello, autore de Il Codice segreto del linguaggio (Roiedizioni, 268 pp, euro 23) gentilmente spiega che sarebbe stato meglio dire: «Buongiorno, ci siamo sentiti tempo fa per l'intervista, ha tempo adesso?».

Scopriamo che la formula "mi scusi per il disturbo" - che usiamo mille volte per educazione o solo per rompere il ghiaccio- mette in una condizione di inferiorità psicologica chi la usa e crea tensione nella parte iniziale della conversazione. Borzacchiello ha il raro pregio di dimostrare ai lettori che le parole non sono tutte uguali e che bisogna imparare a selezionarle con cura e maneggiarle con attenzione perché, come recita un detto indiano, «ci sono due cose che non possono mai tornare indietro: una freccia scagliata e una parola pronunciata». Questo libro è una sorta di polizza contro le conseguenze di un uso improprio del linguaggio (quante volte avete dovuto precisare: "non intendevo dire questo", "mi spiace, hai capito male") e vi libererà dall' incombenza di dover fare telefonate riparatorie o incontri chiarificatori.  Il grande Massimo Troisi in un suo film diceva: «Io sono responsabile solo di quello che dico, non di quello che capite», ma pagina dopo pagina Borzacchiello dimostra che siamo sempre responsabili di quello che diciamo e di ciò che scriviamo. Insomma, se chi ascolta capisce male, la colpa è sempre e solo di chi parla. L' autore del libro spiega concretamente come scrivere una mail che tutti leggono, il post che attira l'attenzione sui social, ma anche come evitare spiacevoli malintesi con il proprio partner o con i colleghi.

DA EVITARE

Segnatevi questi termini: mi spiace, difficile, provare, sperare, disturbo, problema, errore e riscontro. Ecco, evitate accuratamente di pronunciarli, trovate frasi alternative o piuttosto zittitevi perché sono tossici: mandano al cervello dei messaggi negativi e distraggono l'attenzione di chi vi ascolta. Leggere una mail che ha come oggetto le parole "errore" o "problema" genera disagio nel destinatario. E quando vi fanno una domanda, non rispondete mai: «Ci provo», o «speriamo», sono termini che lasciano trapelare insicurezza e timore.

Dire: «Ho il morale a terra» demotiva chi vi sta di fronte, non genera sensazioni positive e in qualche modo scoraggia l'interlocutore. Ricordate invece queste parole: occasione, opportunità, facile, magico, incredibile, funzionale, strategico. Imparatele a memoria e usatele più che potete perché attirano l'attenzione di chi vi ascolta. L' uso di termini legati alla metafora della guerra come "armi", "sussulto", "fronteggiare", "sotto attacco" sono vere e proprie iniezioni di adrenalina. Al contrario, metafore come "brancolare nel buio" o "ho il freno a mano tirato" provocano delle scosse nel sistema nervoso parasimpatico che portano all' inazione. Se ai vostri figli ordinate: «Riordinate la camera!» non otterrete alcun risultato: i giocattoli resteranno sparpagliati sul pavimento e i libri ammassati sulla scrivania. Se invece siete più precisi e gli chiedete di mettere i Lego in un determinato cassetto e i quaderni sulla mensola della libreria avrete certamente più possibilità di essere ascoltati», spiega Borzacchiello. Attenzione anche al verbo essere: nasconde molte insidie. Dire: «Sei un ritardatario» è diverso da «sei arrivato in ritardo». Nel primo caso io definisco un'identità in modo assoluto e, pertanto, limitante. Nel secondo, invece, giudico un comportamento e non escludo che in futuro esso possa cambiare. «Quando scriviamo una mail o pubblichiamo un post sui social o semplicemente parliamo con un amico conviene ricordarsi di sfrondare le frasi dal verbo essere che è tanto affascinante quanto pericoloso», consiglia Borzacchiello.

SINTESI E CHIAREZZA

Un' altra regola da ricordare quando si parla o si scrive è che il cervello pensa in fretta e si distrae molto velocemente, quindi cerchiamo di risparmiare tempo e fiato evitando giri di parole, aggettivi e avverbi superflui. «Bisogna stare attenti a quello che diciamo ma anche a come lo diciamo, alla sequenza delle parole», avverte l'autore. Un esempio: un novizio chiese al priore: «"Padre, posso fumare mentre prego?" E fu severamente redarguito. Un altro novizio chiese al priore: "Padre, posso pregare mentre fumo?" e fu lodato per la sua devozione». Ecco, è sufficiente spostare il verbo "fumare" perché lo stesso concetto sia percepito in modo completamente diverso. Non basta contare fino a dieci prima di parlare, ma conoscere il peso di ciascuna parola. E, se proprio non ci riusciamo, meglio praticare la sempre più rara arte del silenzio. 

Piera Anna Franini per "il Giornale" l'11 luglio 2021. Non è vero che esistono lingue più musicali o più inclini al pensiero astratto di altre. Ed è un'assurdità pensare che vi siano, come si dice oggi, lingue geniali, «semmai possiamo parlare di commenti geniali a lingue normali: come i commenti sulla lingua greca antica e sul latino che da duemila anni sono il modello per eccellenza dell'occidente», spiega il neurolinguista e scrittore Andrea Moro, classe 1962, collaboratore stretto del più influente linguista vivente, Noam Chomsky. Per oltre un decennio è stato ordinario all' Università Vita-Salute San Raffaele, ora ha cattedra alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia dove ha fondato il centro di ricerca in Neuroscienze, Epistemologia e Sintassi teorica. Moro - ospite, il 9 luglio, a Pavia, della Milanesiana - è un po' il Galilei della lingua. Ha dimostrato - anzitutto tramite la tecnica delle neuroimmagini - una serie di intuizioni, proprie e altrui. Alla base, l'idea che nasciamo con tutte le lingue in testa, ovvero con le istruzioni per l'uso di tutte le lingue che, a loro volta, non sono infinite, c' è un numero massimo, un limite oltre il quale le lingue sono semplicemente impossibili, la nostra mente non sarebbe in grado di recepirle. Alla nascita abbiamo più informazioni di quelle che utilizzeremo. Per dire che la nostra è tutt' altro che una tabula rasa «Non è né una tabula rasa né totalmente piena, a me piace chiamarla tabula preparata. Nasciamo con un repertorio sovrabbondante e che poi si stabilizza, proprio come accade con le malattie incontrate nei primi anni di vita che selezionano gli anticorpi compatibili con l'ambiente». 

Lei parla anche di «mente staminale».

«Così come una cellula staminale potrebbe diventare una cellula dell'epidermide o di capelli, la mente del bambino potrebbe diventare una mente che parla latino, cinese o russo. Dobbiamo immaginare un fanciullo che apre gli occhi sul mondo, riconosce oggetti e situazioni da esprimere in una lingua. Come fa? Ipotesi numero uno: parte da zero e poi per tentativi, errori e imitazioni costruisce la struttura. Ipotesi numero due: parte da zero quanto a tipologia della lingua, ma la sua mente non è azzerata, è come se avesse un filtro polarizzato che rende visibile al cervello solo alcune cose».

I circuiti del cervello che servono per imparare le lingue a un certo punto, decadono. Vogliamo spiegarlo?

«L'immagine dell'apprendimento non equivale a quella di una piantina che annaffio e che dunque cresce, semmai a quella di un albero con tante fronde che viene potato: dopo la potatura rimane la tua lingua. Studi di neurobiologia hanno verificato che la fase di apprendimento spontaneo del linguaggio consiste in un decadimento di circuiti cerebrali: per passare da zero all' acquisizione della lingua italiana, un bimbo deve potare dei circuiti, rimangono quelli della propria lingua». 

Fino a che età è spontaneo l'apprendimento di una lingua?

«Siamo programmati per apprendere in modo spontaneo un numero elevato di lingue fino ai cinque/sei anni, poi l'apprendimento senza sforzo diminuisce gradualmente fino alla pubertà. Da quel momento l'acquisizione passa solo attraverso la via razionale, lo studio. Una cosa facilita imparare una lingua da adulti: conoscere molto bene la propria, quindi saperla descrivere. E non pensiamo che parlare la propria lingua equivalga a conoscerla». 

Cosa accade per quanto riguarda la scrittura?

«Dal punto di vista neuropsicologico, i circuiti verbali e della scrittura non sono sovrapponibili, anzi sono molto diversi. Lo si vede nella cronologia con cui tale abilità compare sia nell' individuo sia nella specie. I bimbi sono istintivamente portati a parlare ma non a scrivere, devono andare a scuola, fare esercizio per apprendere le competenze della scrittura». 

A proposito di scuola, lei ha avuto un percorso di studi accidentato, con quattro cambi di facoltà. Come mai tanta inquietudine?

«Avevo frequentato il classico, e mi piaceva da matti, andavo benissimo in tutto, cosa che accade a chi non ha ancora compreso la propria passione. In università andai in crisi nera, avevo due interessi, il cervello e la matematica, ma erano incompatibili. Così mi iscrissi a Medicina per poi comprendere che il cervello l'avrei studiato al sesto anno. Allora papà mi iscrisse a Giurisprudenza, ma non c'era niente da fare: andavo benissimo ma non mi piaceva. Perso un anno. Passai a Matematica, innamorato com' ero dell'algebra, scoprendo però che avevano sospeso il corso di Logica. Disperato di nuovo, decisi di studiare Logica dai testi antichi di Aristotele, e mi iscrissi a Lettere antiche. Alla prima lezione di Linguistica Generale il professore esordì dicendo che avrebbe parlato della teoria di un americano, Chomsky, Che tratta le grammatiche come strutture matematiche espressione del cervello. Finalmente avevo trovato la mia strada».

Come arrivò a Chomsky in persona?

«Scrivendogli da studente. E lui mi rispose suggerendomi di raggiungerlo. Avevo vinto una Borsa di Studio Fulbright, così andai al MIT di Boston. Per dire che gli studenti dovrebbero osare e bussare alla porta di chi intendono incontrare...

L' ultima volta che lo ha sentito?

«Ieri sera. Sta benissimo, benché abbia patito molto la reclusione per la pandemia. Stiamo scrivendo un libro che uscirà entro fine anno o agli inizi del 2022 per La Nave di Teseo. Negli Usa uscirà per The MIT Press».

Soggetto e titolo?

«Il titolo è provvisorio, dovrebbe essere qualcosa come Il segreto delle parole. È uno sviluppo della conversazione avuta al Festival della Letteratura su quello che sappiamo oggi del linguaggio e sui misteri che lo circondano». 

Il mistero numero uno?

«Da dove viene il linguaggio? Non è detto che possiamo avere una risposta. Chomsky fa l'esempio di un topo che entra in un labirinto per cercare cibo. Entra, cerca, esce. Fa tutto questo senza una teoria, semplicemente usa il labirinto. Lo stesso potrebbe valere per il linguaggio, che è paragonabile a un labirinto di cui conosciamo qualche pezzo ma non riusciamo ad avere una visione comprensiva, lo usiamo».

Altri temi?

«Si affronta il cosiddetto problema di Orwell: Perché sappiamo così poco pur avendo a disposizione così tante informazioni?. Alla gente vengono vendute trovate in modo pretestuoso. Per esempio si dice che ci sono calcolatori e telefoni che contengono motori neurali. Come facciamo a dirlo se nemmeno sappiamo come funzionano i neuroni? La cosa ha attecchito a tal punto che, a cascata, si parla di nativi digitali». 

Perché è sbagliato parlare di nativi digitali?

«Perchè non è vero che oggi i bambini hanno un cervello modificato rispetto a quello di genitori e nonni. Così come non è vero che le abbreviazioni degli sms, dei messaggi, contribuiranno ad atrofizzare la capacità linguistica. Se fosse vero che le abbreviazioni sono un problema l'impero romano sarebbe durato cinque minuti: basta prendere una qualsiasi epigrafe per notare il grado di riduzione».

Lei conduce una battaglia contro l'idea della gerarchia delle lingue. Le diamo carta bianca.

«Nella seconda metà dell'Ottocento, si sosteneva che vi fosse una popolazione nobile, con regole sociali nobili, con una lingua nobile. E nobile era sinonimo di ariano, sappiamo come è andata a finire. Il linguista che aveva sostenuto questa follia riconobbe di aver detto una stupidaggine e fece marcia indietro, ma la propaganda occidentale l'aveva fatta propria. Il darwinismo e l'eugenetica attecchirono ovunque, tutti pensavano che vi fossero razze migliori e peggiori». 

Oggi guai a usare la parola razza.

«Che viene prontamente sostituita con etnia, lo ha fatto anche la Treccani. E con ciò cosa si risolve? Niente. Non possiamo far torto all' osservazione di chi dice che se due persone di colore hanno un bimbo questo sarà di colore oppure che se due hanno gli occhi a mandorla avranno un bimbo con gli occhi a mandorla: sarebbe innaturale non riservare un nome per questo. Ciò che è fondamentale è capire che non sono differenze di qualità. La differenza più profonda, quella che dà origine al razzismo e che difficile da smantellare, si basa sull' idea che lingue diverse producano letture diverse della realtà e che essendovi lingue migliori queste producono letture migliori. Molti biologi vanno all' attacco del concetto di razza ma si disinteressano di questo aspetto. Un collega linguista mi raccontava che in una università di New York era stata affidata una cattedra di filosofia a una bravissima studiosa africana la cui prima lingua era una lingua bantu. La sua domanda fu: "Come farà a capire concetti così sofisticati?». 

Per quanto ci riguarda siamo cresciuti con il mito dell’italiano, lingua musicale per eccellenza, la più bella. Lei sostiene che non è vero.

«Dante osservava che molta gente, amando la propria città, letteratura, cucina, donne e uomini, arriva alla conclusione che pure la propria lingua sia migliore di altre. È un pregiudizio di tutte le culture. Ne parlo anche nel mio romanzo Il segreto di Pietramala, che ho costruito attingendo proprio a tre esperimenti clamorosi e dimenticati della storia dell'Occidente».

Altro errore, lei dice: credere che latino e greco aprano la testa più di ogni altra lingua. Un mito che va in frantumi.

«Su queste due lingue si sono accumulati 2500 anni di osservazioni e analisi, con la conseguenza che se applichi queste analisi alla tua lingua essa stessa diventa trasparente. Non è vero che greco e latino, in quanto greco e latino, aprano la mente, è vero però che lingue analizzate così tanto offrono l'occasione per capire la propria. Sono così importanti i commenti sul greco e sul latino che le descrizioni delle altre lingue sono fatte su quel modello. E se vai alla fonte hai una visione più nitida della realtà».

La lingua nell' epoca della «cancel culture», la «cultura della cancellazione» «Premessa. Voler cancellare alcune icone del passato è pura follia.

Basterebbe guardare al lessico di una lingua per capire i debiti che abbiamo con altre popolazioni. Partiamo dall' inglese: per un terzo debitore del francese e un terzo del latino. Se gli Inglesi volessero fare piazza pulita, per coerenza dovrebbero rinunciare ai 2/3 del loro vocabolario. Gli americani che intendono procedere con le varie cancellazioni, dovrebbero smettere anche di chiamare la loro terra con il nome con cui i coniugi Vespucci chiamarono il loro figlio: Amerigo. Anzi, dovrebbero ringraziarli perché se si fosse chiamato Giuseppe avremmo gli Stati Uniti della Giuseppia. Se applicassimo questa follia allora cancelleremmo persino l'America. E poi: cancel e culture sono due parole latine. Allora? Risposta: è semplicemente impossibile». 

Un interrogativo che la tormenta e intende sciogliere.

«Se la lingua serve per comunicare, perché non parliamo una sola lingua al mondo? Sarebbe più comodo. Possiamo però rovesciare la prospettiva e chiederci se tutto questo sia non una dannazione ma un dono. Negli animali il distanziamento scaturisce dalle malattie. Prendiamo un gregge: quando diventa troppo grande le malattie si moltiplicano. Perfino nei batteri se la colonia è troppo grossa si accumulano tossine e questa si autolimita. E se negli umani fosse stata proprio la differenza linguistica a mantenere i gruppi piccoli? Nell' evoluzione storica, il distanziamento sociale è stato prodotto anche dall' incomunicabilità, la nostra specie è stata avvantaggiata dall' incomunicabilità. Forse Babele è un dono, forse tutte e tutte le diversità lo sono».

·        Il Silenzio e la Parola.

 Le parole della generazione Z. La Repubblica il 26 ottobre 2021.

DA ATMOSFERA A RESISTENZA, DA BINARIO A SOSTENIBILE: ECCO COME SONO CAMBIATE DAL 1922 AD OGGI.

Le parole cambiano e siamo noi – tutti noi – a cambiare il loro significato, utilizzandole giorno dopo giorno. Zanichelli per festeggiare i 100 anni del suo dizionario ne ha scelte 50 per portale nelle piazze italiane e far toccare con mano queste evoluzioni. L'iniziativa si chiama #Cambialalingua ed è una finestra sul nostro lessico quotidiano, in primo luogo su quello dei ragazzi della "generazione Z", giovani nati tra il '95 e il 2010, per i quali (e grazie ai quali) alcune di queste parole procedono con passo molto spedito. Nasce così questa selezione di 25 vocaboli con le definizioni di Marco Balzano. E su Repubblica@Scuola parte la sfida agli studenti: dovranno spiegare come li usano e li pensano, e, soprattutto, come credono che li useranno in futuro

AMICIZIA

Questo affetto disinteressato, che vive col reciproco scambio, si alimenta di benevolenza, fiducia e simpatia. L’amicizia si stringe e si rompe, si allaccia e si spezza, ma soprattutto, proprio come l’amore (con cui condivide la stessa radice), si fa. Sui social la dobbiamo chiedere o concedere, sperando che questi verbi anomali – prima dell’avvento del web inimmaginabili a fianco della parola – siano solo l’anticamera del fare.

ATMOSFERA

L’atmosfera è l’involucro di differenti gas che circonda la Terra ed è la sede di tutti i fenomeni meteorologici. Questa parola scientifica è diventata presto una metafora di uso quotidiano: se, arrivando in un luogo, troviamo uno spazio ospitale e persone accoglienti diremo che si respira una bella atmosfera; se invece siamo noi ad accogliere qualcuno e ci riveliamo capaci di metterlo a suo agio allora avremo creato la giusta atmosfera. Si sa, le condizioni e le situazioni influenzano il nostro umore, proprio come il bello e il cattivo tempo.

BINARIO

Non solo le rotaie di ferro su cui corre il treno, e non solo un sistema di numerazione che utilizza un paio di segni, ma anche la metafora di una forma mentis essenziale, che si riconosce in uno solo di due elementi, senza contemplarne di ulteriori. Ecco perché chi non accetta un sistema binario – da un punto di vista politico, di genere, di possibilità, ecc. – rivendica la necessità di avere terze scelte, e forse anche quarte e quinte. Il binario, inoltre, seppure non ne possiede la forma, è anche un bivio: bisogna scegliere su quale correre per arrivare in fondo al nostro traguardo.

BOLLA

Il nostro mondo si sta riempiendo di bolle. Se prima era semplicemente un “rigonfiamento” di forma circolare e una metafora per indicare un’intenzione caduta nel vuoto (è finito tutto in una bolla di sapone), ora c’è molto di più. Chi vive isolato per lungo tempo vive in una bolla; chi perde i suoi investimenti in borsa è vittima di una bolla speculativa, espressione calcata sull’inglese South Sea Bubble, il crollo finanziario della Compagnia dei Mari del Sud nel 1720. E si potrebbe continuare con la bolla immobiliare o con quella di filtraggio, che avviene ogni volta che il web seleziona le informazioni al fine di orientare i nostri consumi e le nostre opinioni.

BRANCO

Si muovono in branco gli esemplari della stessa specie che si riuniscono per migrare e per proteggersi dagli attacchi di animali più feroci. Ma si aggregano in branco anche gli uomini quando si accontentano di fare massa e di imitare i comportamenti altrui. La degenerazione di questo atteggiamento passivo ha portato, in tempi recenti, ad aggiungere al branco il significato di gruppo, solitamente di giovani, che si aggrega per compiere crimini e violenze sessuali.

CLASSE

“La classe non è acqua”, dice un proverbio, intendendo che il modo in cui una persona si pone e si comporta non è un bene di facile possesso, come l’acqua. Questo perché la classe è un ordine in cui si distribuiscono persone e cose secondo precisi criteri, che vanno dall’età, al reddito, alla condizione sociale: su un treno, per esempio, esistono i viaggiatori di prima e di seconda classe (un tempo anche di terza). Ma la parola, che raggruppa pure coloro che sono nati, o che venivano reclutati, nello stesso anno, evoca prima di tutto la scuola: un insieme di studenti che ogni giorno si ritrova nella stessa aula per stare insieme e per imparare. La classe scolastica è un luogo fondamentale di crescita e di democrazia proprio perché non ci entrano le distinzioni di classe.

CONFINE

Chiamiamo così quella linea che divide due territori o che separa due proprietà. È naturale quando è segnato, per esempio, da un fiume o da una montagna, mentre è politico quando è l’uomo a tracciarlo. Eppure il confine non è solo un limes, un cippo, o un muro che circoscrive e separa, ma è anche, come vuole l’etimologia della parola, un luogo dove si finisce insieme (cum e finis), dunque una soglia che rappresenta una possibilità di incontro. Starà a noi decidere se oltrepassarla o arrestarci, se erigere un muro o lasciare libero il passaggio. I Greci più di tutti ci hanno insegnato che il confine è anche il limite della nostra natura, del tempo che ci è dato a disposizione: è entro questo limite che va vissuta l’esperienza umana.

COPPIA

Per fare coppia bisogna avere qualcosa in comune. Una coppia di cavalli, per esempio, è tale perché appartengono alla stessa specie; ma un gallo e un cavallo possono formare una coppia in nome del loro genere, quello animale. E un uomo e un cavallo non sono forse una coppia di viventi? E si potrebbe continuare. Il vocabolario di un secolo fa specificava che si tratta di due persone di sesso diverso unite tra loro da un rapporto matrimoniale o amoroso, ma nell’edizione del 1997 cadono la distinzione fra i sessi e il riferimento al matrimonio, si parla, infatti, di due persone unite fra loro da un rapporto amoroso. Il significato che vince e supera il tempo è quello più assoluto di unione. Come a dire che gli elementi in comune sta a noi crearli e sta sempre a noi individuarli negli altri.

CRISI

Etimologicamente questa parola deriva da un verbo greco che significa “scegliere”. La crisi è infatti un cambiamento, una fase della vita di profondo turbamento, in cui emergono dei sintomi che scatenano delle reazioni. Una crisi di coscienza, sentimentale o religiosa hanno in comune la necessità di una trasformazione, non importa se in meglio o in peggio. Quello che conta è che, superata una crisi, non si è più gli stessi. A volte è lenta, scava e lavora silenziosamente dentro di noi, altre è un accesso, come quello che sorprende chi ha una crisi di riso, di pianto o di nervi. La parola è molto usata in ambito medico, ma risulta efficace anche per indicare altri contesti - crisi economica, crisi di governo, crisi energetica – e forse questa espansione serve a ricordarci che la vita conta numerose crisi perché è fatta di cambiamenti.

DESIDERIO

Questa parola ha una delle etimologie più belle della nostra lingua. Il de-siderium, infatti, è “la mancanza della stella”. Immaginiamo i marinai, di notte, in mare aperto, che scrutano il cielo buio per cercare la luce della stella polare che li porti a destinazione. Il desiderio, dunque, è l’aspirazione verso chi o cosa ci procura piacere, bene o appagamento. Se intenso, può anche diventare brama o addirittura avidità; se è rivolto completamente a un uomo, a una donna, a un ideale o a un oggetto, questi possono incarnarlo diventando loro stessi l’orizzonte del desiderio. Ma quello che dobbiamo tenere presente è che il desiderio nasce sempre da un de, una mancanza, proprio come ci insegna l’etimo. Sono i bisogni, i vuoti e i rimpianti a suscitare nell’animo le voglie, le nostalgie e, come direbbe Leopardi, i cari moti del cor.

DOMINIO

È una parola che oscilla tra poli opposti, persino tra bene e male. Avere il dominio di una scienza, per esempio, distingue una persona autorevole e riconosciuta per il suo sapere. Ma avere il dominio di un territorio o di un popolo significa sottometterlo. Se di noi stessi perdiamo il dominio diventiamo incapaci di controllarci, senza più padronanza dei nostri comportamenti, ma se rendiamo di pubblico dominio i risultati della nostra ricerca li mettiamo a servizio del mondo. Internet ha preso questa parola così ancipite per indicare tutte le risorse che si convogliano sotto un'unica categoria. Il dominus, del resto, era il signore, il capo, colui che radunava sotto la sua ala coloro i quali, a vario titolo, gli appartenevano.

EUTANASIA

L’etimologia (dal greco thanatos con il prefisso eu-) si impone in tutta la sua forza cristallina: morte tranquilla, buona morte. Nell’edizione del 1922 la definizione era composta solo dalla traduzione di queste due parole greche. In quelle successive cresce il bisogno di dire di più, come nel tempo è aumentata la nostra necessità di confrontarci con un tema tanto complesso e delicato. Si parla così di anticipazione della morte con mezzi indolori per un malato ormai ritenuto incurabile e afflitto da sofferenze lancinanti. Di seguito, nell’edizione del 1959, si registra la contrarietà della Chiesa e, parallelamente, il sostegno che alla pratica avrebbero dato invece alcuni medici e biologi. Trentacinque anni dopo il vocabolario specifica che esiste l’eutanasia attiva, che prevede la somministrazione di sostanze che portano alla “dolce morte”, e quella passiva, in cui si sospendono le cure mediche. Visto che il dibattito sul tema è vivo come è viva la lingua, c’è da supporre che le edizioni future saranno suscettibili di ulteriori chiarimenti.

FAMIGLIA

Cent’anni fa si chiamava così uno stretto vincolo di sangue che accomunava genitori, figli e nessun altro. Al centro c’era il pater familias, con la sua autorità e il diritto di decidere a nome di tutti. Di recente questa parola si è gradualmente ampliata e aperta, assorbendo le spinte di modernizzazione della nostra civiltà. Per esempio, dal 2013 la legge equipara i figli nati fuori dal matrimonio a quelli nati dentro il matrimonio, dando vita così alle famiglie di fatto. Ma anche prima e dopo questa data ne sono sorti nuovi tipi, dalla famiglia allargata a quella arcobaleno. Senz’altro ancora oggi la famiglia resta il nucleo fondamentale della società umana, ma le sue declinazioni aumentano e si diversificano. Restano saldi, però, alcuni punti fondamentali: un tetto sotto cui vivere, la responsabilità dell’altro e un progetto da costruire assieme.

FELICITÀ

Più di tutte le altre del vocabolario, felicità è una parola di cristallo, che si ha quasi paura a toccare. Montale, in una delle sue poesie più celebri, metteva addirittura in guardia chi la desiderava: e dunque non ti tocchi chi più t’ama. La difficoltà è data dalla soggettività con cui ciascuno sperimenta, sente e, di conseguenza, definisce questa qualità dello spirito. Il vocabolario ne sembra così consapevole che più che ingabbiare la parola in una definizione rigida e univoca, cerca di offrire un ventaglio di stati d’animo che spaziano dalla contentezza alla beatitudine, dalla gioia alla quiete. La civiltà occidentale, dai Greci in avanti, ha reso la felicità uno degli argomenti più indagati dalla filosofia, tanto che il dizionario la definisce anche col termine eudemonia, cioè la felicità come fine ultimo dell'agire umano.

FEMMINISMO

Serve tempo per mettere a fuoco i fenomeni culturali, politici e sociali che segnano la Storia. Nell’edizione del 1922, quando era appena nato il Partito Fascista che condannava l'emancipazione, il femminismo era solamente una tendenza a far riconoscere alle donne i diritti civili e politici posseduti dall’uomo. Occorrerà il Sessantotto perché venga riconosciuto come “movimento” teso alla parità non solo giuridica, ma anche economica e sociale tra i sessi. Infine, nelle edizioni più recenti, si distinguono due diverse fasi del femminismo: quello ottocentesco e quello sessantottino, più combattivo e “antagonista”, che oltre alla parità di genere rivendica la possibilità di contestare i ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne, sia pubblicamente che tra le mura domestiche.

FRATELLO

Fratelli si nasce, ma a volte lo si può anche diventare. Si nasce quando si hanno in comune gli stessi genitori (fratello germano), la stessa madre (fratello uterino), lo stesso padre (fratello consanguineo), la stessa balia (fratello di latte). Si diventa quando ci legano vincoli religiosi, politici, sociali: uno stesso ordine ecclesiastico, un partito politico, un’istituzione. Non serve elencare tutte le condizioni che possono affratellarci, è più utile, invece, sottolineare come la parola indichi sempre somiglianza (sembrare fratelli), amicizia (voler bene a qualcuno come fosse un fratello), castità (amarsi come fratelli). Tutta questa gamma di sentimenti positivi viene meno se il fratello diventa il “Grande fratello”, un potere occulto che spia e registra i movimenti di persone e cose. Un’immagine che arriva dalle pagine di George Orwell e ci ricorda il potere del controllo nella società moderna come anche, per fortuna, il potere immaginifico della letteratura.

GHETTO

Su un’isola veneziana c’era una fonderia, chiamata in dialetto gheto, ossia “getto”, intendendo probabilmente quello del fuoco per fondere i metalli o quello con cui venivano colati. Gli Ebrei, nel 1517, vennero obbligati ad abitare su quell’isola. Il nome è sopravvissuto al loro confinamento e oggi richiama immediatamente alla memoria quelli di Roma o di Varsavia, dove, durante la Seconda guerra mondiale, si consumarono rastrellamenti ed eccidi nazisti. Ma il vocabolo, oltre a indicare l’esclusione sociale, politica o ideologica di una minoranza di persone, identifica case e quartieri angusti e malfamati. Per tutto il secolo scorso ghetto era anche sinonimo di “baccano”, “confusione”, ma questo significato è caduto gradualmente in disuso, mentre si è affermata la funzione aggettivale del nome: scuola ghetto, quartiere ghetto, per esempio, indicano delle situazioni limite in cui non si può imparare o crescere senza patire enormi difficoltà.

GREGGE

Gregge è un nome collettivo, numero singolare e significato plurale. In teoria indica qualsiasi gruppo di animali adunato assieme, ma nel nostro immaginario richiama prima di tutto gli ovini - pecore o capre,sotto la custodia di un pastore attento a non perderne nessuna. Ciò che evoca la parola acquista fin dall’antichità un significato figurato, particolarmente caro alla religione: il gregge è il popolo dei fedeli a Cristo, che ne è il pastore (infatti chiamiamo così anche un sacerdote, il cui compito è farsi pastore di anime e dunque adunare e mantenere unita la sua comunità di fedeli). A fianco di questa metafora ne va aggiunta un’altra, senz'altro dispregiativa, che nel gregge vede la massa che, proprio come un insieme di pecore, segue senza volontà e senza consapevolezza il cammino del pastore. Ecco perché chi si allontana dal gregge o non ne segue la direzione diventa subito una “pecora nera”. Durante la pandemia di COVID-19 abbiamo sentito quotidianamente parlare di immunità di gregge, grazie alla quale chi è esposto al rischio di un contagio ne è protetto attraverso l’immunizzazione di buona parte della comunità in cui vive.

IMMUNITÀ

Chi gode di immunità è non soggetto a obbligo e, per estensione, esente, libero da. Nel Medioevo, l’immunità concessa da un sovrano era un privilegio per il quale nessun giudice poteva esercitare il suo ufficio nei territori di chi ne godeva. L’immunità parlamentare, introdotta dall’articolo 68 della Costituzione, garantisce ai parlamentari in carica di non essere sottoposti a perquisizioni e di non essere arrestati, ma non è – come si potrebbe credere – un trattamento di favore personale, poiché è finalizzata a tutelare l’interesse superiore dello Stato. Infine, e ce lo insegnano questi tempi di pandemia, l’immunità di gregge – se ottenuta – avrà il doppio vantaggio di tutelare in un colpo solo la salute degli individui, specie dei più fragili, e gli interessi economici e sociali dello Stato.

LIBERTÀ

La libertà è la condizione opposta alla schiavitù. Chi è libero non subisce controlli né costrizioni e, individualmente o in società, può sempre esprimere il proprio talento e la propria opinione, può agire in modo autonomo e secondo la propria volontà, a patto che resti nei limiti della legge e che le sue azioni non rechino danno ad altri. La libertà si può perdere per causa propria, commettendo un reato che preveda la detenzione, o per causa altrui, per un’ingiusta imposizione, come accade per esempio nelle dittature. Dopo la Rivoluzione Americana e dopo quella Francese – il cui motto pone al primo posto la libertà – è diventata il fondamento delle moderne democrazie che identificano in questa condizione il diritto per eccellenza di ogni essere umano.

POSITIVO

Il termine significa innanzitutto, come ci ricorda il suo etimo, “certo”, “reale”. In questo senso, positive sono tutte le scienze fondate su elementi concreti e sperimentabili e su azioni storicamente individuabili. Ma positivo è anche l’esito di un’indagine o, in ambito medico, di esami e di analisi che confermino un’ipotesi o una diagnosi. È in quest’ultima accezione che negli anni ‘80 la parola è divenuta tristemente nota col suo composto “sieropositivo”. Anche di recente è risuonata nei media, quando il numero dei positivi al Covid-19 aumentava in modo esponenziale e si prospettavano rigide misure di restrizione per arginare il contagio. In compenso, positivo è anche un atteggiamento edificante, propenso a progettare, costruire e ricostruire. Una persona positiva è aperta alla vita e capace di trovare sempre la forza della speranza.

PROFILO

A cosa ci fa immediatamente pensare la parola “profilo”? Senz’altro alla “linea del volto osservata di fianco”, a una silhouette più o meno gentile o spigolosa, oppure ai contorni delle montagne. Ma se lo chiediamo a uno zoomer della Generazione Z (i nati tra il 1995 e il 2012), il suo primo pensiero andrà ai suoi account social. Negli anni Zero del XXI secolo, infatti, nasce la maggior parte dei social media più noti: Linkedin, Facebook, Twitter, Instagram, TikTok. Così, nel 2017 per la prima volta, il dizionario estende l’accezione di sommaria descrizione delle caratteristiche di qualcuno al mondo virtuale degli utenti che possono generare profili reali o falsi. Opzione, quest’ultima, non concessa, invece, allo studioso che volesse redigere il profilo critico e biografico di un personaggio illustre.

RESISTENZA

Parola statica e inerte, che indica un attrito, un contrasto e un’opposizione. Anche i virus e i batteri, col tempo, possono diventare resistenti, per esempio all’ambiente o a un antibiotico, trovando le risorse per sopravvivergli. È su queste basi – fisiche, meccaniche e mediche – che nasce il termine storico “Resistenza”, che compare dalle edizioni del secondo dopoguerra per indicare un “movimento di lotta politico militare sorto in tutti i Paesi d’Europa contro il nazifascismo”. Gli uomini che hanno fatto la Resistenza, così, hanno trasformato quella parola statica in dinamica, perché chi si opponeva nello stesso tempo progettava un mondo nuovo, opposto a quello razzista e sanguinario della dittatura.

RISCALDAMENTO

Questa parola ci porta a fare i conti con la nostra capacità di cooperare e superare i confini nazionali, come singoli cittadini e come Stati. Se nelle prime edizioni del vocabolario indicava semplicemente l’atto di riscaldare un ambiente, ai nostri giorni torna con forza a indicare una questione globale. La comunità scientifica indica nelle attività umane che producono gas serra la causa predominante del riscaldamento del pianeta, tanto che l'ONU da quasi 30 anni si impegna a sensibilizzare i decisori politici per ridurre queste emissioni dannose. L'ultimo passo è stato stilare l'Agenda 2030, tra i cui obiettivi c'è quello di promuovere azioni a tutti i livelli per combattere il cambiamento climatico.

SOSTENIBILE

Il verbo latino da cui deriva significa “portare su di sé”, proprio come Atlante, che sulle sue spalle sosteneva tutto il peso del mondo. Sostenere qualcuno, infatti, vuol dire “prenderne le parti”, “difenderlo”, “sorreggerlo” come si legge in tutte le edizioni del vocabolario. Nel 1992 si è tenuto il Summit di Rio, il primo vertice nel quale i governi si sono riuniti per fissare a livello planetario le linee guida per la cooperazione ambientale internazionale. La locuzione "sviluppo sostenibile" entra poco dopo, nel 1994, in cui sostenibile assume l'accezione di "compatibile con la salvaguardia dell'ambiente".

Una produzione Gedi Visual di Marco Allocco, Raffaele Aloia, Tecla Biancolatte, Angelo Melone, Federico Pace 

Valeria Arnaldi per leggo.it il 12 ottobre 2021. Le liti in famiglia per motivi banali: chi va a fare la spesa e così via. I problemi sul lavoro, tra compiti che si comprendono male o battute che non si riconoscono come tali. Le incomprensioni - reali - nel mondo virtuale, tra toni che non si sentono, maiuscole dimenticate che diventano strilla e altro. Il fraintendimento è elemento ricorrente nella comunicazione di tutti i giorni, in ogni ambito. E i malintesi sono in crescita. 

LE CAUSE I contenziosi davanti al giudice di pace - che spesso si trova a dirimere questioni nate proprio da malintesi - sono saliti negli ultimi anni. Erano poco meno di 978mila - 977.675 - nel 2016-2017, sono diventati quasi 997mila - 996.725 - tra 2018 e 2019. «Tengo da anni corsi di comunicazione per la Presidenza del Consiglio e il maggior numero di domande riguarda proprio il fraintendimento - spiega Irene Bertucci, socio fondatore e direttrice della scuola di comunicazione di Eidos Communication, nonché autrice del libro Non fraintendermi (HarperCollins) - Siamo tutti concentrati su ciò che diciamo, non su quello che l'altro comprende».

I SOCIAL La tecnologia, con il dialogo a distanza, veloce, senza volto, ha complicato le cose. «Nella comunicazione in presenza, il non verbale aiuta molto. Sui social, se non stiamo attentissimi alle parole o non usiamo emoticon c'è il rischio che l'altro possa fraintendere». 

IL SENSO DI COLPA Il problema affonda le sue radici nell'infanzia. «Ognuno ritiene di poter dire la sua e di avere ragione, quindi se l'altro non capisce è cattivo. Il fatto è che siamo stati abituati, fin da bambini, a un linguaggio basato su premio e punizione, senso di colpa e vergogna. Niente compiti, niente gita e simili. Questo tipo di frase ci ha convinti che il nostro comportamento generasse le emozioni dei nostri genitori e, divenuti adulti, ci fa pensare che le nostre emozioni derivino dagli altri, mentre nascono dai nostri bisogni. Un conto è dire Non mi hai chiamata nel weekend, mi sono dispiaciuta, altro è specificare Mi sono dispiaciuta perché volevo condividere dei pensieri con te. Nel primo caso, chi ascolta si mette sulla difensiva, nel secondo chi parla chiarisce che il dispiacere è legato al suo desiderio». 

LE SOLUZIONI Cosa si può fare, dunque, per capirsi meglio? «Parlare non è comunicare. Dobbiamo partire dal presupposto che ogni persona è un paese nuovo. Si riesce a creare una comunicazione a prova di conflitto se ci si sintonizza sul modo di essere dell'altro. Comunicare senza fraintendimenti significa prendersi la responsabilità di ciò che l'altro capisce, perché se non lo fa la colpa è nostra». 

INCOMUNICABILITA 

Gli interventi

Alessia Lautone, direttrice Lapresse: Mai invitata dai compagni di liceo per un malinteso: Ero al liceo e i miei compagni si vedevano di pomeriggio, o la sera, ma nessuno mi chiedeva di uscire. E io, troppo orgogliosa per fare il primo passo ma, in fondo, anche troppo insicura per avvicinarmi, restavo nel mio. Tanti scherzi a scuola, poi nulla. Nessuna eccezione, neanche dal compagno di banco che mi prestava il quaderno di matematica per non farmi beccare impreparata. Un giorno ci troviamo a studiare insieme e io, all’improvviso, chiedo: «Perché non mi chiamate mai quando uscite?». Lui, arrossisce e risponde: «Abbiamo sempre creduto che non saresti mai venuta con noi… Pensavamo ti vedessi con quelli più grandi». Iniziano qui i fraintendimenti della mia vita e continuano ancora oggi. Nonostante io abbia imparato a essere diretta, troppo diretta. La verità sempre sbattuta in faccia senza filtri e senza mezze misure. Senza possibilità di fraintendimenti, quindi. Penso io. E invece vengo fraintesa ancora, quasi sempre. Allora mi affanno a essere ancora più diretta, in un crescendo di verità malsane che distruggono l’interlocuzione e, mannaggia a me, nella maggior parte dei casi, anche noi interlocutori, che, comunque, continuiamo a non capirci. Cosa non funziona in me? Nel tragitto tra la mia bocca e l’orecchio altrui, il messaggio compie giri inesplorati e inimmaginabili. E io torno a essere quella liceale, incompresa e incomprensibile. 

Pierluigi Diaco, conduttore RaiDue e Rai RadioDue : Il guaio è l’ossessione di voler avere ragione: Comprendersi sarebbe molto più facile se imparassimo ad ascoltare l’altro senza pretendere di capirlo in un attimo, di poterlo giudicare con facilità, di pensare di intenderlo in pochi istanti. Ci si fraintende quando smettiamo di capire le ragioni altrui: si equivocano la cattiva e la buona fede dell’altro se perseveriamo nelle nostre convinzioni, se ci relazioniamo partendo da una tesi precostituita su chi ci sta davanti, se l’ego si sostituisce al nostro già compromesso equilibrio interiore. Le geografie affettive che animano la nostra esistenza sono spesso compromesse dall’ossessione di voler avere ragione, dall’incapacità di ammettere con un sorriso i nostri errori, dalla quella pericolosissima voglia di giudicare che si impossessa di noi a tal punto da perdere la visione, lo sguardo largo, il senso di ciò che ci circonda. Nel mondo del lavoro così come nella vita privata siamo soliti ripetere gli stessi errori: alla sincerità preferiamo la diplomazia o la falsità, alla franchezza la furbizia, al coraggio l’aggressività. Ammettiamo solo a noi stessi le nostre fragilità e, incapaci di condividerle per la paura di apparire deboli o disarmati, millantiamo una sicurezza che più delle volte fa tenerezza. Dovremmo tutti imparare a capire che non c’è risorsa migliore che ascoltare e capire davvero le ragioni degli altri per iniziare, qualora volessimo, a guardare e a guardarci con occhi nuovi. 

Emanuela Falcetti, conduttrice RaiRadioUno: Io la chiamo incomprensione, ambiguità, ipocrisia. Quando si parla non esiste un fraintendimento buono, il lapsus involontario, l’errore innocente. La responsabilità del fraintendimento è spesso condivisa, noi viviamo immersi in questa forma di ambiguità. Il fraintendimento e il suo carico di incomprensioni sono, per esempio, il pane quotidiano della comunicazione mediata dal computer.

INCOMPRENSIONE

La rapidità, la mancanza di tempo, il vocabolario rattrappito dei tweet, la sua grammatica scandalosamente sintetica, ci trascinano nel regno dell’incomunicabilità. Ovviamente, c’è una grande varietà di modi con i quali non ci si comprende, diversi livelli di responsabilità, ma in fondo a tutte le nostre parole, ai nostri fragili ponti fatti di parole, si nasconde uno scandaloso disinteresse per la comprensione reciproca. Uno dei grandi killer di questa nuova forma di solitudine è il “sentito dire”. Quasi più nessuno ha il coraggio di dire, “non ho capito” o “non lo so”. Pochi hanno il privilegio di usare il grande antidoto al caos del fraintendimento: fare domande, chiedere perché.

DAGONEWS il 29 marzo 2021. Il contatto con civiltà aliene potrebbe essere più probabile di quanto pensiamo. Un recente studio della NASA ha stimato che dovrebbero esserci almeno quattro pianeti abitabili (e probabilmente di più) entro 32 anni luce dalla Terra. Quei pianeti potrebbero ricevere (anche se debolmente) le nostre trasmissioni televisive. Ma gli alieni capirebbero quelle trasmissioni? Capiremmo noi gli alieni? Potremmo mai interpretare le loro lingue? In effetti, le domande sulla natura delle lingue aliene non hanno risposta. La lingua rimane l'unica cosa che sembra separare gli umani dagli altri animali sulla Terra. Il confronto del linguaggio umano con la comunicazione animale può essere d'aiuto, qualora avessimo bisogno freneticamente di decodificare un segnale alieno. Dopotutto, gli alieni avranno subìto un'evoluzione della loro lingua su un pianeta che è, come la Terra, anche pieno di specie non linguistiche. Forse la grammatica distingue davvero la lingua dalla non lingua. Molti animali hanno anche una sorta di grammatica. Ad esempio, le scimmie, con un repertorio di suoni piuttosto limitato, combinano quei suoni in modi diversi per creare nuovi significati.  Ma la grammatica potrebbe non essere necessaria nelle lingue animali o aliene. E se gli alieni volessero comunicare con noi attraverso i dipinti? Lo riconosceremmo come linguaggio? Non importa quanto sia avanzata una civiltà aliena, deve essersi evoluta da forme di vita più semplici che comunicavano in modi più semplici. Ci sono tratti universali che, grazie all'evoluzione, emergono in qualsiasi lingua su qualsiasi pianeta. La più importante di queste sembra essere questa: la lingua dovrebbe essere tanto complessa quanto deve essere per trasmettere le informazioni necessarie, ma non di più. Un linguaggio infinitamente complesso significherebbe che gli alieni avrebbero bisogno di cervelli infinitamente grandi per elaborarlo. L'evoluzione dà valore all'efficienza e un linguaggio assurdamente complesso è inefficiente. Questo principio si applica ugualmente bene al canto della megattera e ai dipinti di Michelangelo: possiamo capire il significato nella bellezza di un dipinto perché è equilibrato, non perché è complesso. Tale principio dovrebbe applicarsi anche alla lingua di un alieno, e quindi ai suoi messaggi alle persone della Terra. Anche se una civiltà avanzata decide di ristrutturare la propria lingua per essere più regolare, come hanno fatto gli umani con l'esperanto, è già troppo tardi. Il nostro cervello è stato plasmato dalla nostra lingua tanto quanto il contrario, e l'esperanto porta ancora con sé i tratti distintivi di una lingua tradizionale. Quantificare questo equilibrio evolutivo tra complessità e semplicità risulta relativamente facile, poiché esiste un continuum matematico che corre tra casualità e regolarità. Il linguaggio umano sembra essere appollaiato proprio tra complessità e semplicità, ma la maggior parte degli animali è lontana da entrambi gli aspetti. Il linguaggio alieno deve obbedire allo stesso equilibrio? Non possiamo esserne sicuri. Ma se sappiamo qualcosa sugli alieni, è che si saranno evoluti sul loro pianeta attraverso una selezione naturale, proprio come abbiamo fatto noi umani. I lontani antenati degli alieni sicuramente ululavano e fischiavano, sbuffavano quasi senza senso, proprio come i nostri antenati. Quindi le loro lingue potrebbero aver ereditato quell'impronta fondamentale, proprio come la nostra. Questo ci offre un ottimo punto di partenza per iniziare la frenetica corsa per decodificare i messaggi alieni, se mai dovessimo riceverne.

Cinque idee essenziali per esprimersi con sicurezza. Stefania Medetti su L'Espresso il 15 Marzo 2021. Prendere la parola con i colleghi o i superiori può essere causa di stress, ma comunicare in modo efficace è un’abilità che va allenata, non un talento. Allison Shapira, una fra le più note esperte di public speaking del mondo, suggerisce come farlo in poche, semplici mosse. In molte aziende, la capacità di leadership è misurata dalla volontà di far sentire la propria voce. “Ma questa è solo una parte della storia”, racconta Allison Shapira, ex cantante lirica, docente dell’arte di comunicare alla Harvard Kennedy School, fondatrice e amministratore delegato della società di consulenza Global Public Speaking. “Nel conto entra anche quello che diciamo, come lo diciamo e quando lo diciamo”. Un’alchimia complessa che Shapira distilla nel suo libro Speak With Impact: How to Command the Room and Influence Others arrivato in Italia con il titolo Presentazioni di impatto - Parlare in pubblico in modo autorevole e persuasivo (Polo Didattico, 19,80 euro). “La paura di parlare in pubblico, in un meeting o anche davanti a un gruppo di colleghi è perfettamente normale. Esprimersi con sicurezza non è una qualità innata, ma un talento che si può acquisire”, spiega la coach. Per inquadrare la natura del nostro timore a esprimerci, Shapira cita il lavoro del biologo americano Glenn Croston, autore di The Real Story of Risk: Adventures in a Hazardous World (La vera storia del rischio: avventure in un mondo pericoloso, ndr), un libro che illustra le ragioni per cui certe volte siamo audaci e altre no. “Quando ci troviamo a prendere la parola non temiamo semplicemente il giudizio delle altre persone o il fatto di sentirci in imbarazzo. Alla radice, c’è la paura di essere rifiutati. Nella notte dei tempi, infatti, l’ostracismo sociale equivaleva alla necessità di difendersi da soli e dunque alla morte”. Considerare questa paura atavica è importante, perché ci aiuta ad affrontarla con maggiore consapevolezza e perché ci dà la possibilità di inquadrare la questione da una nuova prospettiva: “Con le vostre parole avete la possibilità di influenzare le persone, i comportamenti e le idee, e di apportare cambiamenti positivi”. Ecco, dunque, i cinque consigli di Allison Shapira per imparare a esprimersi in modo efficace con i colleghi.

1. Preparatevi all’incontro. Con l’eccezione di incontri non programmati, i meeting entrano per tempo nell’agenda dei partecipanti. “Per potervi esprimere con autorevolezza, arrivate preparati all’appuntamento. Stilate una lista per punti degli argomenti che volete toccare. L’elenco vi solleva dalla necessità di pensare nel mezzo dell’incontro a qualcosa di brillante da dire”. Shapira invita inoltre a non memorizzare semplicemente queste osservazioni. “Recitatele ad alta voce in privato così da prendere confidenza con le parole che userete affinché riflettano sia il vostro punto di vista sia l’autenticità della vostra voce”.

2. Partite dal perché. “Questa è una fra le domande più importanti e raccomando sempre di non by-passarla”. Prima di un meeting, di un incontro con i colleghi o di una presentazione bisogna prendersi del tempo per riflettere sul proprio contributo partendo dal perché. “Soffermatevi a riflettere sul perché avete a cuore l’argomento di cui parlate e sul contributo che potete apportare. Queste considerazioni, infatti, non vi mettono semplicemente in contatto con il vostro scopo, ma impattano positivamente sulla vostra voce e sul linguaggio corporeo. Una volta messe a fuoco le ragioni del vostro contributo, dunque, vi renderete conto che la paura che vi tratteneva ha meno presa su di voi e, contemporaneamente, riconoscerete più fortemente il diritto di far sentire la vostra voce”.

3. Proteggete il potere della voce. “Ci sono molte cose che facciamo involontariamente che riducono il potere della nostra voce. Classico esempio l’intercalare. Frasi come "voglio dire" o interiezioni come "cioé", o il sempre più frequente "mmh" impattano sulla nostra modalità espressiva”, fa notare Shapira. Ma ci sono anche le fluttuazioni della voce che per esempio tende a salire alla fine di una frase. “Queste modalità espressive sono usate in ugual misura da uomini e donne. Quando le usano le donne, però, l’effetto negativo è proporzionalmente più grande. La soluzione è fare attenzione al proprio respiro, in modo tale da parlare con maggiore confidenza, evitando di cadere nelle trappole stilistiche”. Per quanto la convinzione nella voce abbia un grande potere, è spesso sottovalutato. “Esercitatevi nell’espirare mentre parlate, 'spingendo' la voce in avanti. Se così facendo vi accorgete di rimanere senza fiato, imparate a costruire frasi più brevi”.

4. Liberatevi della tensione. Se avete in programma un meeting importante, fermatevi qualche minuto in un luogo tranquillo prima dell’incontro. “Trovate un posto dove potete stare da sole senza dover parlare con altre persone. Liberatevi dell’energia nervosa, muovendo le braccia e le gambe e roteando le spalle”. Dopodiché, assumete una posizione eretta, come se prendeste possesso della vostra figura. “Con le gambe leggermente divaricate, inspirate profondamente alzando le braccia ed espirate lentamente abbassando le braccia”. Ripetete l’esercizio, concentrandovi su una respirazione profonda. Analogamente, prima di prendete la parola, fate una piccola pausa. “Prendete fiato e ricordare il vostro perché. Questo semplice gesto vi aiuta a 'centrarvi' e dà più energia alla voce”.

5. Scegliete il momento giusto. Paradossalmente, a volte è la persona che dice di meno quella che dice le cose più importanti, perché sceglie strategicamente quando parlare. “Se avete la tentazione di dire qualcosa solo per mettervi in mostra, evitate di farlo. Lo stesso vale se il vostro commento arriva ormai fuori tempo, quando nel gruppo si sta già parlando di altro”. Per quanto far sentire la propria voce in un incontro di lavoro ci dia visibilità, certe volte alcuni commenti dovrebbero essere riservati a conversazioni personali. “Questo a maggior ragione vale quando rischiamo di mettere un collega nell’angolo o sulla difensiva. Utilizzare strategicamente questo consiglio ha riverberi positivi di lungo termine sulla carriera”. 

Pensare? Alessandro Bertirotti il 4 marzo 2021 su Il Giornale. È tutta questione di… conoscenza. Tutti gli uomini ritengono che il pensare sia un’attività spontanea, equivalente al camminare o al respirare. In effetti, da quando il cervello si costituisce nel mondo vitale e come unità operativa di alcuni organismi viventi, si può sostenere esista il pensiero. Tuttavia, l’estrema individualità che caratterizza lo stile del pensiero di ognuno, e le differenze esistenti tra i vari individui, suggeriscono l’idea che la capacità di pensare sia suscettibile di modificazioni. Tutti gli uomini (o quasi tutti…) hanno per anni frequentato i banchi di scuola, apprendendo nozioni, memorizzando fatti e date. Poco tempo si è riservato invece all’apprendere un metodo per apprendere. Sembra che nella scuola viga la certezza che il pensare sia come un sottoprodotto che dovrebbe scaturire spontaneamente, dall’attenzione posta a materie specifiche. Le questioni riguardanti l’apprendimento in generale e l’acquisizione di un metodo appaiono affascinanti e, al tempo stesso, assai complesse. Con questo articolo voglio ragionare proprio sulla formazione delle idee (miele del nostro cervello) e perché esse siano tanto importanti per gli esseri umani. Il termine ragione è fondamentale per la filosofia ed assume in essa una molteplicità di significati. Due di essi sono fondamentali, dal nostro punto di vista: a), la ragione intesa in senso metafisico, come principio e fondamento della realtà; b), la ragione, come facoltà del pensiero umano e guida per una condotta etica. Nella filosofia dell’antica Grecia ricorrono entrambi questi significati: il logos designa sia la legge essenziale della realtà sia la capacità dell’uomo di ragionare e di dialogare (da dia-logos, due ragioni oppure due verbi a confronto). In questa seconda accezione la ragione è intesa anche come dianoia, ossia come facoltà discorsiva, contrapponendosi ad intelletto (in greco nous), ossia alla capacità di cogliere intuitivamente le verità prime (da cui muove ogni ragionamento). Il termine logos fa la sua apparizione nella filosofia di Eraclito, sviluppandosi poi nella filosofia degli stoici. Per questi il logos è la legge che governa tutte le cose. Esso è l’ordine razionale della natura e del cosmo, seguendo il quale l’uomo conduce una vita giusta e felice. Questa concezione, la cui evoluzione coincide con le diverse riprese del termine logos nella filosofia greca e nel pensiero cristiano dei padri della Chiesa, ritorna anche nella filosofia moderna, benché in un contesto problematico molto diverso: la filosofia sistematica di G.F. Hegel. Per lui la ragione (denominata anche Idea e Spirito) è la legge immanente della realtà, nel suo sviluppo naturale e storico. Hegel identifica il pensiero (ragione) con l’Essere (realtà). Al tempo stesso, egli situa la ragione (intesa anche come conoscenza dell’Assoluto), al di sopra dell’intelletto, perché questo consiste nella facoltà di astrazione e nella conoscenza del particolare. Dunque, per Hegel la ragione, intesa sia come fondamento della realtà sia come conoscenza della totalità del reale, procede dialetticamente, attraverso antitesi e contraddizioni, e perviene a collegare nella sintesi i diversi momenti della realtà, che l’intelletto invece coglie separatamente. Per il Nostro, mentre l’intelletto considera astrattamente i concetti nelle loro reciproche esclusioni, la ragione è consapevolezza del processo grazie al quale le astratte opposizioni sono poste e superate dalla dialettica dell’Idea. La ragione pertanto non è solo forma che suggelli un contenuto dato, ma è forma che fornisce a se stessa un contenuto, grazie appunto alla dialettica del principio costitutivo del tutto, l’Idea. Bene, penso che dovremmo riflettere, in base a quello che vi ho proposto in questo articolo, sulla nostra contemporaneità, quotidianità e chiederci cosa realmente dicono o scrivono alcune persone presenti nei media.

Il silenzio tra necessità e scelta. Tonino Ceravolo su Il Quotidiano del Sud il 28 febbraio 2021. In nessun testo del ‘900 si avverte meglio la necessità del silenzio quanto nella proposizione di chiusura del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, pubblicato in Germania nel 1921: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”. Si deve tacere, osserva Wittgenstein, ovvero occorre consegnarsi al silenzio e all’afonia per fare spazio al Mistico, che, nell’algido rigore logico delle proposizioni del Tractatus, si mostra e non si dice. Il silenzio è indispensabile e deve essere protetto, come ha osservato Ugo Volli in un bel libro di tre decenni addietro (Apologia del silenzio imperfetto. Cinque riflessioni intorno alla filosofia del linguaggio, Feltrinelli, 1991), quasi fosse una specie rara, perché rischia di essere travolto dall’inflazione semiotica che ci circonda. Rumori e suoni dappertutto, segni che di continuo si impongono e ci sovrastano, tanto da far desiderare la quiete degli antichi esicasti, i quali ben sapevano che per ascoltare la parola di Dio il silenzio è necessario. La Parola (in questo caso con la maiuscola) per i monaci nasce dal silenzio e soltanto nel silenzio si degusta, insostituibile cibo spirituale, dopo aver messo a tacere, insieme con le labbra, anche il cuore. I monaci sono, non a caso, gli “specialisti del silenzio”, come la lunga tradizione eremitica e cenobitica attesta. Sottili distinzioni elaborate dal monachesimo: il piccolo e il grande silenzio. Per i Benedettini il grande silenzio comporta la proibizione assoluta di parlare e suoi luoghi sono la chiesa, il dormitorio, il refettorio e la cucina; il piccolo silenzio prevede, invece, la possibilità di pronunciare delle parole, sebbene dolcemente e, si noti l’ossimoro, “silenziosamente”. Nel monachesimo certosino luogo del grande silenzio è il chiostro, lungo il quale sono disposte le celle dei padri claustrali, isole di silenzio dentro quella grande isola silente che è il monastero. Eppure, il silenzio è anche una materia ambigua, sfuggente, vischiosa, in cui è facile ritrovarsi prigionieri di contraddizioni e aporie. Il silenzio di pace dei monasteri – lo ha osservato David Le Breton – ha convissuto e convive nelle nostre società con un altro silenzio, un silenzio d’angoscia, reso “necessario” perché molte volte imposto, obbligato. E questo è un silenzio di paura, di omertà, di morte, quello degli occhi che non vedono e delle orecchie che non odono. Esistono molteplici luoghi a far da teatro e da scena muta per quest’ultima tipologia del silenzio: spazi pubblici e privati, case, strade e piazze, persino tribunali. Luoghi in cui il silenzio può farsi omissione e complicità (volontaria o involontaria, estorta o convinta, scelta o imposta). Non più predisposizione all’ascolto e apertura (all’altro, a Dio, al proprio io), ma un tacere che è chiusura, un mutismo che spaventa e che si incarna in parole quali acquiescenza, passività, timore, tutte forme di una inaccettabile riduzione e costrizione al silenzio.

Il Mondo? Cambia sulla parola. Non solo con le guerre, le nuove epoche iniziano spesso con una frase o anche con una semplice domanda. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 28 febbraio 2021. Sono le parole che hanno fatto la Storia. Possono essere frasi ma anche semplici punti di domanda. Possono essere certi sì, oppure certi no: quel che li accomuna è il rumore fatto. Simile a un colpo di cannone. Dal momento in cui quelle parole sono state dette inizia qualcosa di altro, di nuovo, di diverso. Allora, vien da pensare che a volte le nuove epoche iniziano non solo con le guerre, ma anche con una frase – magari estrapolata da un discorso più ampio – in grado di cambiare il corso degli eventi, orientandolo verso una direzione piuttosto che un’altra. Diversi gli ambiti, tante le storie, i fatti, i luoghi e le date che raccontano come il mondo sia cambiato (anche) in virtù delle parole finite sui libri di Storia o di quelle chiuse nei cassetti delle cronache pronte a venir fuori quando meno te lo aspetti. Amarcord lessicali. Frasi riconoscibili e riconducibili immediatamente alle persone che le hanno pronunciate, alle circostanze in cui sono state dette e alle conseguenze prodotte nel breve, lungo o medio termine. Sui sentieri tortuosi degli uomini è accaduto ed è stato come voltare pagina. È accaduto, ad esempio, nel tempo presente con l’arrivo del presidente del Consiglio, Mario Draghi. Il suo “Whatever it takes” ovvero “costi quel che costi” o “tutto ciò che è necessario” è rimbalzato dai media alla case degli italiani in questo tempo fragile di giorni sghembi. Eppure, sono trascorsi alcuni anni da quando quelle parole sono state pronunciate. Stesso rombo di tuono, però. Del resto, il Whatever it takes “apre nella politica europea un altro orizzonte che non aveva precedenti – ricostruisce Treccani – È il 26 luglio del 2012. L’Europa dell’euro è in grande difficoltà. […] Draghi, da meno di un anno Presidente della Banca centrale europea, sale sul palco della conferenza di Londra e, senza troppi preamboli, dopo una manciata di minuti di introduzione, pronuncia la frase che cambia la storia della crisi: «Entro il suo mandato la Bce preserverà l’euro, costi quel che costi(whatever it takes, ndr). E, credetemi, sarà abbastanza»”.  Oggi come ieri, la Storia ci offre un alfabeto di storie variegato. Non teme l’usura, ad esempio, il celeberrimo “Il dado è tratto” di Giulio Cesare. Traduzione dal latino “Alea iacta est” – “il dado è tratto” o “il dado è stato gettato” – è l’espressione attribuita a Cesare da Svetonio. L’imperatore romano l’avrebbe detta nella notte del  10 gennaio del 49 a.C. dopo aver varcato il  Rubicone. Ed è forse solo un po’ meno conosciuta l’espressione “In hoc signo vinces” – “in (sotto) questo segno vincerai”. La comparsa in cielo della scritta in greco accanto a una croce sarebbe uno dei segni prodigiosi apparsi in sogno a Costantino prima della battaglia di Ponte Milvio. Un sogno, un presagio e una scritta per entrare nella Storia e anche nella leggenda. Zigzagando nel tempo, ecco Giuseppe Garibaldi e la sua “Qui si fa l’Italia o si muore”. Secondo  Giuseppe Cesare Abba, l’eroe dei due mondi avrebbe pronunciato queste parole il 15 maggio del 1860 durante la battaglia di Calatafimi. Qualche anno prima – il 10 gennaio 1859 – Vittorio Emanuele II, re di Sardegna di fronte al parlamento di Torino, dice: “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!” . È questa, forse, la frase più celebre di quel discorso redatto dal conte Camillo Benso Conte di Cavour. Un discorso considerato (insieme all’arruolamento dei soldati) dall’Austria provocatorio che dette inizio alla  Seconda guerra d’indipendenza italiana. Ancora avanti. Resta negli annali quel “Sangue, sudore e lacrime” con cui sir Winston Churchill  si rivolse alla  Camera dei Comuni  del  Parlamento del Regno Unito il 13 maggio  del 1940. Era il suo  primo discorso come primo ministro nell’ora più buia. Un invito vibrante a difendere l’Inghilterra e a non arrendersi mai. Ancora storia e politica. A Gorbaciov è legata una delle parole russe entrate nel lessico di tutti: “perestrojka” ad indicare un insieme di riforme politiche, sociali ma anche economiche. Tra il 15 e il 17 maggio 1985 Michail Gorbaciov – nella veste di nuovo segretario generale del Partito Comunista – va Leningrado e incontra il comitato cittadino di partito. In quell’occasione afferma: «È evidente, compagni, che tutti noi dobbiamo ricostruirci. Tutti». Sceglie il verbo “perestrajvat’sja” che in russo significa ricostruirsi. Da quel momento il termine “perestrojka” diventa lo slogan riconoscibile di una nuova fase storica dell’Unione Sovietica. Ancora espressioni che fanno rumore come quel “compromesso storico” , entrato di diritto nell’alfabeto della politica italiana che ci riporta immediatamente nell’Italia degli anni Settanta da Enrico Berlinguer. In un articolo su Repubblica – dal titolo “Le paure di Berlinguer e il compromesso storico” – Miriam Maffai ne ricorda la genesi temporale: “Lui sta seduto in pizzo in pizzo alla poltroncina, dinanzi al tavolo tondo del soggiorno, in canottiera, pianelle di cuoio ai piedi, sigaretta accesa tra le labbra, occhio sinistro semichiuso per evitare il fumo, davanti a sé parecchi fogli […] Enrico Berlinguer, in quel caldo pomeriggio di ottobre del 1973, sta scrivendo – è la testimonianza di Antonio Tatò, suo segretario, amico e collaboratore – l’ ultimo dei tre articoli dedicati ad una analisi della situazione italiana dopo i fatti del Cile…”. Ed è proprio nel terzo scritto che Berlinguer pubblica su Rinascita (come i primi due che lo precedettero) che troviamo la chiave di volta. Scrive Berlinguer: “… La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. Era il 12 ottobre 1973. Due parole per sintetizzare una strategia politica. Il resto, è nella cronaca politica del Bel Paese. A volte, però, per fare la Storia basta una domanda fatta al momento giusto, nel posto giusto, all’interlocutore giusto. L’effetto a sorpresa spariglia le carte. È accaduto con colui che viene indicato come l’italiano che fece “cadere” il muro di Berlino. Fatale fu una conferenza stampa datata  9 novembre 1989, a cui Riccardo Ehrman giornalista corrispondente dell’Ansa a Berlino arrivò persino in ritardo. Riportano le cronache che a Ehrman bastò una domanda: “Ab wann?” (“Da quando?”). Per capire come andò, val la pena ricordare come l’ex corrispondente – che a 13 anni fu rinchiuso nel campo di internamento di Ferramonti di Tarsia – ricostruì quei momenti in un servizio fatto dall’Ansa in occasione dei suoi novant’anni. “Era una noiosa conferenza stampa, come tutte quelle del regime comunista della Germania orientale – ricordò , Ehrman – Durò quasi due ore. Il portavoce, Schabowski, aveva parlato di cose fatte e da fare e aveva anche accennato, nello stesso tono monocorde di sempre, al fatto che era possibile che il regime avesse commesso qualche errore”. “Prendendo spunto da quella affermazione – riportò ancora all’Ansa il giornalista – la mia domanda, quando finalmente mi fu concessa la parola, fu: ‘Non crede che avete commesso degli errori nel promulgare una nuova legge sui viaggi che non è tale, ma solo una conferma di tutto quello che succedeva prima?’ Più tardi Schabowski mi disse che quella domanda lo avevo fatto irritare molto. Alla conferenza stampa rispose: ‘Noi non facciamo errori’. E tirò fuori dalla tasca un foglietto, con cui annunciava appunto che tutti i cittadini tedeschi orientali potevano varcare tutte le frontiere, senza passaporto”.  “E fu a questo punto che io aggiunsi altre due domande: Vale anche per Berlino ovest? Sì – fu la risposta – per tutte le frontiere. Quindi l’ultima: E da quando?. Schabowski rimase un momento interdetto: "Su questo foglio non c’è scritto, però sicuramente da questo momento". Commise un errore, perché io ho la copia del foglio, che mi regalò lui stesso nel 2002, e lì c’è scritto "ab sofort", che in italiano significa "da subito" ”. A proposito di annunci a sorpresa, rientra a giusto titolo quello con cui Papa Ratzinger rinunciò al Soglio Pontificio. Era l’11 febbraio 2013 e una giornalista firma il primo scoop in latino del mondo. Si chiama Giovanna Chirri. Quel giorno la vaticanista dell’Ansa, dalla Sala Stampa vaticana ascolta le parole di Josef Ratzinger in occasione del Concistoro dedicato ai martiri di Otranto.  Ma Benedetto XVI spiazza tutti, però. Incomincia a leggere in latino e dice: “Carissimi Fratelli, vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino”. In quell’atto di “rinuncia” di Papa Benedetto anche due parole chiave: “ingravescente aetate” (per l’età avanzata). «La “Ingravescentem aetatem” è il documento con cui Paolo VI tolse ai cardinali ultraottantenni il diritto di eleggere i papi, sono le parole per il pensionamento” spiegherà la Chirri, commentando le emozioni febbrili di quel momento storico per la Chiesa. Il dopo Ratzinger sarà nelle mani di Papa Francesco, l’argentino; il prima in quelle del polacco Giovanni Paolo II. Di lui risuona ancora quel “Non abbiate paura” che Wojtyla pronunciò domenica, 22 ottobre 1978 all’inizio del suo Pontificato. Sul fronte dei diritti civili c’è un “no” a fare più rumore di un intero discorso ed è quello di Rosa Parks il primo dicembre del 1955 quando rifiutò di cedere il posto su un autobus a un bianco. Il no di Rosa come la goccia d’acqua che scava la roccia. E per finire una frase che ancora a distanza di tempo ci parla di futuro, sfide e possibilità. Era il 21 luglio 1969. A dirla fu Neil Armstrong – il comandante della missione spaziale Apollo 11 – e fa così: “Questo è un piccolo passo per (un) uomo, un gigantesco balzo per l’umanità”. Poco importano le dispute che di tanto in tanto spuntano sulla presenza o meno dell’articolo indeterminativo inglese “a” (un). Armstrong e il mondo erano sulla luna!

·        I Segreti.

Dagotraduzione da Study Finds il 14 luglio 2021. Quali sono i segreti che teniamo per noi? Secondo un recente sondaggio su 2000 adulti britannici, la salute mentale, l’igiene e gli affari sono gli argomenti che più nascondiamo agli altri.  Realizzato da OnePoll per conto di Sky HISTORY, il sondaggio ha mostrato che i problemi di salute mentale sono il segreto più comune tra gli adulti. Un terzo degli intervistati tiene per sé un incidente imbarazzante o "degno di nota". Quasi un adulto su cinque (18%) mantiene i propri segreti semplicemente per evitare problemi di relazione, mentre uno su 10 lo fa per tenere lontana la polizia. «La ricerca suggerisce che il pubblico britannico mantiene molti segreti l'uno con l'altro, che si tratti di qualcosa di banale, imbarazzante o anche personale, come la salute mentale», osserva un portavoce di Sky in una dichiarazione. Quindi, chi viene "protetto" da queste sfortunate verità? Uno su cinque ha maggiori probabilità di mantenere un segreto con le proprie madri e il 16% non osa nemmeno dire ai propri migliori amici i propri segreti. Allo stesso modo, un altro 16% non dice sempre ai propri partner tutta la verità. All'interno di quel gruppo, il 14% afferma anche di temere costantemente che il proprio compagno scopra una verità nascosta. Il 13% sostiene che non direbbe nemmeno ai propri cari di aver vinto alla lotteria. È importante ricordare, tuttavia, che molti intervistati confessano che mantenere i segreti infligge un pesante tributo psicologico. Tutto sommato, il sondaggio conclude che oltre un quarto degli adulti vede il proprio processo decisionale quotidiano influenzato dal peso dei segreti che portano con sé.

I 25 SEGRETI CHE LE PERSONE TENGONO DA AMICI E FAMIGLIE: 

1.Problemi di salute mentale

2.Incidenti imbarazzanti

3.Storie su Internet

4.Abitudini alimentari/spuntino

5.Abitudini igieniche

6.Numero di partner sessuali passati

7.Estratti conto banca/carta di credito

8.Fingere una malattia nel passato per evitare un impegno

9.Affari/infedeltà

SEGRETI

10.Una notte sta

11.Malattia

12.Abitudini al fumo

13.Fingere una malattia per evitare il lavoro

14.Soldi spesi per il cibo

15.Paure/fobie

16.Sostenere una squadra di calcio impopolare

17.Tempo trascorso al bar/pub

18.Acquistare articoli costosi online

19.Uso di droga

20.Abuso di alcool

21.Avere una cotta per le celebrità

22.Quanto sei bravo o non sei in qualcosa

23.Essere a dieta

24.opinioni politiche

25.Storia familiare

·        La Punteggiatura.

Notizie tratte da Claire Cock-Starkey, “Hyphens & Hashtags”, Bodelaian Lirary, raccolte da Giorgio Dell’Arti e pubblicate dal “Fatto Quotidiano” l'8 agosto 2021. Hugo. Victor Hugo voleva sapere quanto stessero vendendo I miserabili (1862) e mandò all'editore un telegramma di un solo carattere: "?". Il libro aveva già venduto seimila copie, così l'editore poté rispondere: "!".

? Sull'origine del punto interrogativo, parecchie teorie, nessuna sostenuta da fonti testuali. Prima teoria: viene dall'antico Egitto, la sua forma è quella della coda di gatto. Seconda teoria: è il latino quaestio, abbreviato in qo, con la "q" che, passando il tempo, viene alla fine sovrapposta alla "o".

! I monaci, alla fine di certe frasi, scrivevano "io", cioè "gioia" in latino, con la "I" maiuscola e la "o" minuscola. Anche in questo caso, a un certo punto, la "I" finì sopra la "o". Il punto esclamativo era detto "punto di ammirazione". 

Leonard. Secondo Elmore Leonard, si dovrebbe adoperare il punto esclamativo non più di una volta ogni centomila parole. Esaminati i suoi scritti, risultò però che Leonard, ogni centomila parole, metteva 49 punti interrogativi. 

Latini. I latini scrivevano in maiuscolo e senza interporre spazi tra una parola e l'altra. 

Twain. "Il mio lavoro consiste nell'abbattere la punteggiatura con cui i tipografi correggono la mia punteggiatura, e nel restaurare la mia" (Mark Twain).

Denham. Henry Denham, nel 1580, propose il punto interrogativo capovolto, con cui si sarebbero segnalate le domande retoriche. Non ebbe alcun seguito. 

@ Il primo utilizzo della chiocciola si trova in una lettera del 1536 di Francesco Lapi, mercante fiorentino. La @ era adoperata nel senso di "amphorae", unità di misura relativa alle anfore di terracotta in cui venivano trasportati vino, grano e spezie. In seguito i commercianti la utilizzarono come simbolo di "prezzo": "15 mele @ 15 centesimi". 

# Il cancelletto (o hashtag) origina dall'abbreviazione medievale "lb" per "libra pondo", un'unità di peso. Senonché "lb" si leggeva troppo spesso "16" e di conseguenza, nel XIV secolo, si ricorse a una linea che attraversava le due lettere, e questo segno, nel tempo, si trasformò nel moderno #.

Il simbolo divenne popolare negli Anni 60 quando venne utilizzato dalla Bell Laboratories per agire da tasto di funzione nelle tastiere dei telefoni. A quei tempi il cancelletto non avevaun significato specifico, ma venne selezionato perché era un simbolo familiare e già incorporato nelle tastiere delle macchine da scrivere. 

Per risolvere il problema di capire come separare idee o demarcare la fine di un pensiero, alcuni monaci, per indicare la fine di una frase, iniziarono ad utilizzare tre punti (due sotto e uno sopra). Fu Isidoro di Siviglia (560-636) a popolarizzare il punto unico, anche noto come distinctio finalis. 

, La virgola fu inizialmente utilizzata per aiutare la lettura ad alta voce di testi religiosi. Gli scribi piazzavano un punto sopra la parola per indicare dove il lettore avrebbe dovuto respirare. Nel XII secolo Boncompagno da Signa ricorse, per questo stesso scopo, a una barra obliqua. 

Con la nascita della stampa parecchi simboli concorsero alla gara per rappresentare la virgola. William Caxton, creatore della prima stampa in Inghilterra, inclinò leggermente la barra obliqua di Boncompagno. Ma Aldo Manuzio, il grande veneziano, ebbe l'idea definitiva: una piccola onda verticale. Vittoria completa, la virgola come noi la conosciamo apparve sulle stampe inglesi già nel 1520.

Dagospia il 9 maggio 2021. In una storia apparsa per la prima volta nel “Manuale delle Curiosità Letterarie” di William S. Walsh (1892), si racconta che Victor Hugo avesse partecipato a una delle corrispondenze letterarie più concise della storia: Alla pubblicazione di “Les Misérables” nel 1862, Hugo era alla disperata ricerca di sapere come fosse andato il suo libro, così inviò al suo editore un telegramma con sopra scritto “?” L’editore, soddisfatto che il libro avesse venduto più di 6.000 copie nei primi giorni, rispose con un semplice “!” I simboli permettono di trasmettere concetti in modo succinto, invadono i margini delle nostre tastiere e plasmano la nostra comprensione del mondo esterno. Senza punteggiatura o simboli matematici, ogni testo sarebbe una serie infinita e ininterrotta di lettere e numeri. La storia di questi caratteri è fatta di alti e bassi, da manoscritti religiosi a documenti aziendali, dallo sviluppo della stampa alla nascita dei mass media.

LATINO SENZA SPAZIO O PUNTEGGIATURA. Inizialmente era lo scriba, non l’autore del testo, a scegliere un simbolo. Allo stesso modo, durante lo sviluppo della stampa era il compito del tipografo selezionare quale simbolo utilizzare. Nel mondo letterario erano spesso gli editori e i revisori a formare il modo in cui il testo raggiungesse il pubblico, con il dispiacere di scrittori come Mark Twain, che nel 1897 scrisse: “Mi arrendo. Questi stampatori non prestano attenzione alla mia punteggiatura. Nove decimi del lavoro e la vessazione sottoposti dai signori Spottiswoode & Co. Consistono nell’abbattere la loro punteggiatura ignorante e senza senso e nel restaurare la mia. Non tutti i simboli hanno un percorso lineare dalla loro invenzione all’uso nel linguaggio comune. Alcuni, come il “Punto d’ironia”, un punto interrogativo capovolto utilizzato per identificare domande retoriche, proposto da Henry Denham nel 1580, non è riuscito a prendere piede. Alcuni sono coesistiti per centinaia di anni, altri, come # e @, hanno perso i loro significati originali e sono stati riutilizzati per altri scopi, a dimostrazione del fatto che non si può sopprimere un buon simbolo.

PUNTI DI SEPARAZIONE OTTAVO SECOLO.

Lo spazio. Il latino era originariamente scritto in lettere maiuscole senza spazio tra le parole. Nell’ottavo secolo, gli scribi inglesi e irlandesi iniziarono a copiare dei testi con dei punti per demarcare la fine di una parola e l’inizio di un’altra. I punti vennero poi con uno spazio per rendere il latino più comprensibile ai non nativi.

Il punto. Per risolvere il problema persistente di capire come separare idee o demarcare la fine di un pensiero, alcuni monaci iniziarono ad utilizzare 3 punti (due sotto e uno sopra) per indicare la fine di una frase. Fu Isidoro di Siviglia (560-636) a popolarizzare il punto unico, anche noto come distinctio finalis.

La virgola. La virgola fu inizialmente utilizzata per aiutare la lettura ad alta voce di testi religiosi. Gli scribi utilizzavano un punto sopra la parola per indicare dove il lettore avrebbe dovuto respirare. Più tardi, nel 12esimo secolo, Boncompagno da Signa iniziò ad utilizzare una barra obliqua. Con la nascita della stampa ci furono un numero di simboli differenti a competere per il ruolo di virgola. William Caxton, creatore della prima stampa in Inghilterra, inclinò leggermente la barra obliqua, mentre Aldo Manuzio, lo stampatore più popolare di Venezia, preferì utilizzare un simbolo nuovo: la virgola semicircolare. Il simbolo fu talmente popolare che si espanse velocemente al nord e iniziò ad apparire su stampe inglesi a partire dal 1520.

Il punto interrogativo. Una delle teorie più popolari è che sia originato nell’antico Egitto, dove si utilizzava la forma della coda di un gatto incuriosito. Un’altra teoria è che derivi dal latino, dove gli scribi utilizzavano la versione abbreviata di “quaestio” (domanda) alla fine di una frase per indicare una domanda.  Nel tempo “quaestio” venne abbreviata un “qo”, poi la “q” venne sovrapposta sopra la “o”, fino a diventare il punto interrogativo moderno. Nessuna delle due teorie è sostenuta da fonti testuali.

I due punti. La parola inglese “colon” (utilizzata per indicare i due punti) deriva dal greco “kolon”, che significa arto. Questa origine indica come i due punti fossero utilizzati per separare le sezioni di una frase. George Puttenham fu il primo ad utilizzare la parola “colon” nella lingua inglese nel suo libro “The Arte of English Poesie” del 1589 per indicare la durata della pausa quando si legge in prosa, con la virgola che indicava una pausa breve e i due punti una pausa più lunga.

Il punto esclamativo. Le origini di questo simbolo non sono chiare, ma la teoria più popolare è che sia originata dai monaci e il loro modo di proclamare gioia nei testi sacri. La parola “gioia” in latino si scrive “io”, che era solitamente scritta in stampatello con la “I” sopra la “O”. Si dice che questa abbreviazione di “IO” si trasformò lentamente nel “punto di ammirazione”, utilizzato per indicare stupore. Il “Dizionario dell’uso dell’inglese contemporaneo” scritto da H.W. Fowler nel 1926 avverte che: “fatta eccezione per la prosa, il punto esclamativo dovrebbe essere utilizzato con parsimonia.” Allo stesso modo, Elmore Leonard asserì che gli scrittori dovrebbero usare il punto esclamativo solo due o tre volte per ogni 100.000 parole. Nonostante ciò Leonard stesso era solito utilizzare il punto esclamativo circa 49 volte per ogni 100.000 parole.

Il tratto d’unione. Nel 1962 la NASA stava progettando il lancio di una sonda interplanetaria diretta su Marte, la Mariner 1. Purtroppo, un trattino fu omesso dai codici che determinavano la sua velocità e traiettoria, causandone l’esplosione al lancio. Arthur C. Clarke l’ha chiamato “il trattino più caro della storia”. L’origine del tratto di unione risale a Johannes Gutenberg, padre della stampa moderna. Nello stampare i suoi primi libri, Gutenberg voleva creare pagine che assomigliassero il più possibili ai testi prodotti da uno scriba. Tradizionalmente, i monaci tendevano a variare lo spazio tra le lettere per poter rientrare ordinatamente dentro i margini delle pagine dei manoscritti. Per replicare questo effetto, Gutenberg introdusse il tratto d’unione per legare insieme parole che venivano interrotte e riprese nella linea seguente.

Il cancelletto. Il cancelletto (anche conosciuto come hashtag) origina dall’abbreviazione utilizzata nel medievo per la parola “libra pondo” per indicare un’unità di peso. Inizialmente si utilizzava l’abbreviazione “lb”, ma veniva spesso confusa per il numero 16. Di conseguenza, nel 14esimo secolo si iniziò ad utilizzare una linea attraverso le due lettere per indicare un’abbreviazione, che nel tempo si trasformò nel moderno #. Il simbolo divenne popolare negli anni ’60 quando venne utilizzato dalla Bell Laboratories per agire da tasto di funzione nelle tastiere dei telefoni. A quei tempi il cancelletto non aveva un significato ben specifico, ma venne selezionato perché era un simbolo familiare e già incorporato nelle tastiere delle macchine da scrivere.

La chiocciola. Il primo utilizzo della chiocciola è stato trovato in una lettera scritta nel 1536 da Francesco Lapi, un mercante fiorentino. Lapi utilizzò la @ come abbreviazione di “amphorae”, un’unita di misura usata nel trasporto di vino, grano e spezie che venivano portate dentro anfore di terracotta. È stata successivamente utilizzato dai commercianti per indicare un prezzo, come per esempio “15 mele @ 15 centesimi.”

La e commerciale. I primi esempi dell’utilizzo della e commerciale vennero rinvenuti su dei graffiti trovati sui muri di Pompei. Sebbene fosse molto popolare, il simbolo non aveva nome fino al 19esimo secolo. Il nome inglese “ampersand” deriva dal latino “per sé”, utilizzato per indicare una lettera singola, che nel tempo si trasformò nel termine moderno.

Il simbolo della sterlina. Il museo della Bank of England ha un assegno datato 1661 con il simbolo della sterlina che venne elaborato dalla lettera L attraversata da una riga per indicare che si trattasse di un’abbreviazione della parola “libra”, anch’essa un’abbreviazione del termine “libra pondo” utilizzato nell’antica Roma come unità di peso. Questo sistema è stato utilizzato per creare i simboli di altre valute, come ad esempio lo Yen giapponese (creato da una Y attraversata da due linee orizzontali) o quello dell’Euro. Lo stesso vale per i centesimi americani (una C con due linee verticali) ma non per il simbolo del dollaro, che molti storici pensano sia originato dal simbolo del Peso spagnolo. Nello scrivere le valute, i mercanti utilizzavano una P maiuscola sovrapposta a una s, che venne in seguito semplificata utilizzando il “pilone” della P sopra la S: $.

L'uguale. Tradiziozalmente in Europa la maggior parte dell'aritmetica veniva scritta in latino, con "è uguale a" generalmente scritto come "aequales" o talvolta abbreviato in "aeq". Nel 1557 il matematico gallese Robert Recorde scrisse: "Per evitare la ripetizione fastidiosa delle parole “è uguale a” io utilizzo due linee parallele. Niente può è più uguale di questi due trattini.” Queste linee parallele furono utilizzate nel suo libro di algebra e aritmetica “The Whetstone of Witte.”

La Baviera sul linguaggio gender. "Va salvaguardato il tedesco". Daniel Mosseri il 22 Settembre 2021 su Il Giornale. Il governo contro le università che impongono ai loro studenti una scrittura più neutra e inclusiva. No all'indottrinamento del linguaggio «inclusivo» e no ai poliziotti del linguaggio. Il governo regionale di Monaco di Baviera ha lanciato un avvertimento alle università e alle accademie che operano sul territorio del Libero Stato di Baviera: gli studenti che non adoperano gli asterischi o le schwa, che non declinano i nomi anche al femminile ma che insisteranno con l'uso tradizionale delle desinenze al maschile non dovranno ricevere voti più bassi. Il gendern, così si indica con neologismo tedesco la pratica di trasformare il linguaggio depurandolo dall'uso prevalente del maschile, «non deve essere rilevanti a fini degli esami», ha dichiarato lo stesso Söder a seguito di una riunione dell'esecutivo regionale. Dello stesso avviso il ministro bavarese per la Scienza, Bernd Sibler. Smentendo alcune voci circolate nei giorni scorsi secondo cui ad alcuni studenti allergici al gendern sarebbero stati assegnati dei voti più bassi, il ministro del partito cristiano sociale bavarese (Csu) di Söder ha affermato che nel Land meridionale tedesco non è stata registrata alcuna protesta o denuncia da parte di studenti ma che tuttavia «l'uso del linguaggio di genere non dovrebbe essere un criterio di valutazione». La sollecitazione dell'esecutivo, ha poi aggiunto lo stesso Söder, è di natura provvisoria e il governo di Monaco si riserva di verificare e approfondire la questione in futuro. Abituato a far notizia per i suoi modi assertivi, a meno di una settimana dalle elezioni per il rinnovo del Bundestag, Söder sposta su di se la luce dei riflettori della politica. Ma l'annuncio era nell'aria: la settimana scorsa la Conferenza delle Università bavaresi e il governo di Monaco avevano polemizzato a distanza in materia. Ad agosto una serie di università ha preparato alcune linee guida per consigliare agli studenti di non utilizzare le desinenze maschili e femminili ma al contrario di impiegare un linguaggio più neutro e inclusivo anche grazie all'uso di asterischi. A ruota gli atenei bavaresi hanno ribadito che «gli studenti sono liberi di scegliere la lingua per loro più appropriata. Nessuno può quindi essere valutato in maniera peggiore». Troppo poco per il governo di Söder, il governatore che fino alla scorsa primavera ha cercato di farsi accreditare quale candidato cancelliere di tutti i moderati. Parlando al congresso della Csu e in una serie di interviste, Söder ha etichettato le linee guide degli atenei come «indottrinamento», ricordando che il linguaggio non si impone dall'alto e che tali indicazioni finiscono poi in eccessi secondo cui non si potrà più dire «padre e madre» ma «genitore 1 e genitore 2». «Io non voglio che i miei figli mi chiamino genitore», ha affermato. Il gendern non è esclusiva delle università: molte amministrazioni prediligono l'uso di termini neutri. Così per non dire elettori ed elettrici si dirà «persone votanti» e per non dire lavoratori o lavoratrici si dirà «forza lavoro». La settimana scorsa il 96% dei delegati al congresso della Csu ha respinto «gli eccessi politicamente indottrinati e artificiali delle acrobazie linguistiche gender-moralistiche». Daniel Mosseri

Il caso. L’asterisco toglie voce all’italiano. Maurizio Bettini su La Repubblica il 10 agosto 2021. In controtendenza con la storia dell’alfabeto lo schwa e gli altri segni grafici non hanno un corrispettivo fonetico. I Greci raccontavano che a inventare l’alfabeto fosse stato il dio Hermes, osservando il volo di uno stormo di gru. In effetti quando migrano questi uccelli disegnano in cielo una linea retta, mentre sopra e sotto di essa ali e zampe formano dei segni che, presi insieme, possono suscitare l’immagine di caratteri alfabetici disposti in una riga. L’invenzione dell’alfabeto ha costituito un evento cruciale nella storia della cultura umana, segnando il passaggio dal mondo dell’oralità a quello della scrittura.

Lingua italiana, la Crusca bastona la Murgia: “Meglio il maschile plurale che schwa e asterisco”. Federica Argento sabato 25 Settembre 2021 su Il Secolo d'Italia. “Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale”. Con questa “sentenza” l’Accademia della Crusca mette la parola fine alla questione: asterisco o schwa (“e” capolvolta)? Meglio il maschile plurale. La secolare istituzione fiorentina incaricata di custodire il ‘tesoro’ della lingua italiana  interviene dopo molte sollecitazioni sui temi legati al genere: in particolare sull’uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che ‘opacizzano’ le desinenze maschili e femminili. Un uso promosso e sollecitato dalla scrittrice Michela Murgia e dalla sua “neo lingua”. Spiega il linguista accademico Paolo D’Achille: “È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua  al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire”. L’Accademia della Crusca pertanto precisa:  “L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro. Così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale; presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto: consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale”. Michela Murgia, paladina della lingua inclusiva e non sessista dovrebbe prendere atto della sentenza autorevole. Non bisogna travisare gli ambiti, spiega l’accademico. L’ uso consapevole del maschile plurale non è certo da intendere come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico. Eppure per la scrittrice dire “brava” e “Bella” era già un insulto. E proponeva di abolire l’eroe presente nei classici e nell favole:”Deve vincere il collettivo”, prescive nel suo libro. Boccia, dunque, il ricorso all’asterisco e allo schwa il professore Paolo D’Achille. L’estensore del parere per l’Accademia della Crusca suggerisce pertanto il ricorso al maschile plurale. E spiega. Nell’italiano standard il maschile al plurale è “da considerare come genere grammaticale non marcato”: per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi”; o mamma e papà sono usciti”. Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi. Invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne. Se qualcuno dichiara di avere “tre figli”, sappiamo con certezza solo che tra loro c’è un maschio (diversamente dal caso di “tre figlie”), a meno che non aggiunga “maschi”. Michela Murgia e le pasionarie della neo lingua se ne dovranno fare una ragione. Il libro “Stai zitta“ (Einaudi) nel quale la scrittrice  si prefigge di sfatare i luoghi comuni del maschilismo imperante può andare in soffitta.

Quesiti linguistici. Asterisco o schwa per il genere neutro? La Crusca dice no. Accademia della Crusca il 2 Ottobre 2021 su L'Inkiesta.it.. Secondo i linguisti, è opportuno usare il maschile plurale, come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico. Inutile forzare la lingua al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire.

Un asterisco sul genere. Mario Lavia su accademiadellacrusca.it. È ormai divenuto molto alto il numero dei quesiti pervenutici su temi legati al genere: uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie; genere grammaticale da utilizzare per transessuale e legittimità stessa di questa parola. Cercheremo in questo intervento di affrontare le diverse questioni.

Risposta

Premessa

Le domande che ci sono state poste sono tante e toccano argomenti abbastanza diversi tra loro. Abbiamo preferito raccoglierle tutte insieme perché c’è un tema di fondo che le accomuna: la questione della distinzione di genere, anche al di là della tradizionale opposizione tra maschile e femminile. Anzitutto, due precisazioni: 1) tratteremo esclusivamente delle questioni poste dalle varie domande che ci sono pervenute, senza tener conto dei numerosissimi interventi sul tema, che ormai da vari mesi alimenta discussioni e polemiche anche molto accese sulla stampa e soprattutto in rete; 2) la nostra risposta investe il piano strettamente linguistico, con riferimento all’italiano (non potrebbe essere che così, del resto, visto che le domande sono rivolte all’Accademia della Crusca, ma ci pare opportuno esplicitarlo). Ci sembra doveroso premettere ancora una cosa: la maggior parte di coloro che ci hanno scritto – anche chi esprime la propria contrarietà all’uso di asterischi o di altri segni estranei alla tradizionale ortografia italiana – si mostra non solo contraria al sessismo linguistico e rispettosa nei confronti delle persone che si definiscono non binarie, ma anche sensibile alle loro esigenze. E questo è senz’altro un dato confortante, che va messo in rilievo.

Genere naturale e genere grammaticale

Per impostare correttamente la questione dobbiamo dire subito che il genere grammaticale è cosa del tutto diversa dal genere naturale. Lo rilevavano nel 1984, a proposito del francese, Georges Dumézil e Claude Lévi-Strauss, incaricati dall’Académie Française di predisporre un testo su “La féminisation des noms de métiers, fonctions, grades ou titres” (‘la femminilizzazione dei nomi di mestieri, funzioni, gradi o titoli’). Non entriamo qui nella tematica della distinzione tra sesso biologico e identità di genere, su cui torneremo, almeno marginalmente, più oltre; ci limitiamo a ricordare che negli studi di psicologia e di sociologia il genere indica l’“appartenenza all’uno o all’altro sesso in quanto si riflette e connette con distinzioni sociali e culturali” (questa la definizione del GRADIT); tale accezione del termine, relativamente recente, è calcata su uno dei significati del corrispondente inglese gender, quello che indica appunto l’appartenenza a uno dei due sessi dal punto di vista culturale e non biologico (gli studi di genere o gender studies sono nati negli Stati Uniti negli anni Settanta, su impulso dei movimenti femministi).

Che il genere come categoria grammaticale non coincida affatto con il genere naturale si può dimostrare facilmente: è presente in molte lingue, ma ancora più numerose sono quelle che non lo hanno; può inoltre prevedere, nei nomi, una differenziazione in classi che in certi casi non sfrutta e in altri va ben oltre la distinzione tra maschile e femminile propria dell’italiano (dove riguarda anche articoli, aggettivi, pronomi e participi passati) perché, oltre al neutro (citato in molte domande pervenuteci, evidentemente sulla base della conoscenza del latino), esistono, in altre lingue, vari altri generi grammaticali, determinati da criteri ora formali ora semantici; infine, come avviene in inglese, può limitarsi ai pronomi, senza comportare quell’alto grado di accordo grammaticale che l’italiano prevede.

Neppure in italiano si ha una sistematica corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. È indubbio che, in particolare quando ci si riferisce a persone, si tenda a far coincidere le due categorie (abbiamo coppie come il padre e la madre, il fratello e la sorella, il compare e la comare, oppure il maestro e la maestra, il principe e la principessa, il cameriere e la cameriera, il lavoratore e la lavoratrice, ecc.), ma questo non vale sempre: guida, sentinella e spia sono nomi femminili, ma indicano spesso (anzi, più spesso) uomini, mentre soprano e contralto sono, tradizionalmente almeno (oggi il femminile la soprano è piuttosto diffuso), nomi maschili che da oltre due secoli si riferiscono a cantanti donne. Arlecchino è una maschera, come Colombina (anche se Carlo Goldoni nelle Donne gelose gli fa usare il maschile màscaro e nei Rusteghi le donne in scena parlano di màscara omo per riferirsi al conte Riccardo e si rivolgono con siora màscara dona a Filippetto, entrato a casa di Lunardo in abiti femminili), mentre Mirandolina è un personaggio, come il Cavaliere di Ripafratta, che di lei si innamora. Vero è che nel parlato spostamenti di genere nell’àmbito dei nomi in rapporto al sesso del referente ci sono stati: da modello si è avuto modella (cfr. Anna M. Thornton, La datazione di modella, in “Lingua nostra”, LXXVI, 2015, pp. 25-27); si parla di un tipo ‘un tale’ ma anche di una tipa (Miriam Voghera, Da nome tassonomico a segnale discorsivo: una mappa delle costruzioni di tipo in italiano contemporaneo, in “Studi di Grammatica Italiana”, XXIII, 2014, pp. 197-221); accanto a membro si sta diffondendo membra (Anna M. Thornton, risposta nr. 7, in “La Crusca per voi”, 49, 2014, pp. 14-15); dall’altra parte, dal femminile figura deriva il maschile figuro (ma con una connotazione negativa). Abbiamo poi i cosiddetti nomi “di genere comune”, che non cambiano forma col cambio di genere, perché la distinzione è affidata agli articoli nei casi di cantante, preside, custode, consorte, coniuge (con cui molti di noi hanno familiarizzato attraverso la denuncia dei redditi, che parla ellitticamente di dichiarante e di coniuge dichiarante senza precisare i rispettivi sessi). Passando al mondo animale, distinguiamo, è vero, il montone o ariete e la pecora (ma il plurale le pecore si riferisce spesso al gregge e comprende quindi anche i montoni), il gatto e la gatta, il gallo e la gallina, il leone e la leonessa, ma nella maggior parte dei casi il nome, maschile o femminile che sia, indica tanto il maschio quanto la femmina (la lince, il leopardo, la iena, la volpe, il pappagallo, la gazza, il gambero, la medusa, ecc., nomi che la tradizione grammaticale indica come “epiceni”; lasciamo da parte l’esistenza di formazioni occasionali come il tartarugo e il ricorso non alla flessione, ma alla tecnica analitica, come in la tartaruga maschio, che è sicuramente possibile, ma marginale all’interno del sistema). Quanto alle cose inanimate, è evidente che il genere femminile di sedia, siepe, crisi e radio e il maschile di armadio, fiore, problema e brindisi non si possano legare in alcun modo al sesso, che le cose naturalmente non hanno.

Il neutro

Chi, tra coloro che ci hanno scritto, propone di far ricorso al neutro per rispettare le esigenze delle persone che si definiscono non binarie, citando il latino, non tiene presente da un lato che l’italiano, diversamente dal latino, non dispone di elementi morfologici che possano contrassegnare un genere diverso dal maschile e dal femminile, dall’altro che in latino (e in greco) il neutro non si riferisce se non eccezionalmente a esseri umani (accade con alcuni diminutivi di nomi propri) e neppure agli dei: venus, -eris ‘bellezza, fascino’ (da cui venustas), che era neutro come genus, -eris, diventò femminile come nome proprio di Venere, la dea della bellezza. D’altra parte, per venire all’attualità, anche in inglese il rifiuto dei pronomi he (maschile) e she (femminile) da parte delle persone non binarie non ha comportato l’adozione del pronome neutro it, presente in quella lingua ma evidentemente inutilizzabile con riferimento a esseri umani, bensì l’uso del “singular they”, cioè del pronome plurale ambigenere they (e delle forme them, their, theirs e themself/themselves), come pronome singolare non marcato. Anche l’introduzione in svedese nel 2012, accanto al pronome maschile han e al femminile hon, del pronome hen, usato per esseri umani in cui il sesso non è definito o non è rilevante, si inserisce senza difficoltà nel sistema di quella lingua, in cui un genere “comune” (o “utro”), che non distingue tra maschile e femminile, si contrappone al genere neutro e l’opposizione tra maschile e femminile si ha solo nei pronomi personali di terza persona singolare.

Il maschile plurale come genere grammaticale non marcato

Un altro dato da ricordare è che nell’italiano standard il maschile al plurale è da considerare come genere grammaticale non marcato, per esempio nel caso di participi o aggettivi in frasi come “Maria e Pietro sono stanchi” o “mamma e papà sono usciti”. Inoltre, se dico “stasera verranno da me alcuni amici” non significa affatto che la compagnia sarà di soli maschi (invece se dicessi “alcune amiche”, si tratterebbe soltanto di donne). Se qualcuno dichiara di avere “tre figli”, sappiamo con certezza solo che tra loro c’è un maschio (diversamente dal caso di “tre figlie”), a meno che non aggiunga “maschi” (cfr. l’intervento di Anna M. Thornton sul Magazine Treccani). Se in passato poteva capitare (oggi mi risulta che avvenga più di rado) che a un alunno indisciplinato si richiedesse di tornare a scuola il giorno dopo “accompagnato da uno dei genitori”, poteva essere sia il papà sia la mamma a farlo (e lo stesso valeva nel caso della dicitura al singolare, “da un genitore”, sebbene questo termine abbia anche il femminile genitrice, di uso peraltro assai più raro rispetto al maschile).

Lingue naturali, processi di standardizzazione e dirigismo linguistico

C’è poi un’altra questione di carattere generale che va tenuta presente: ogni lingua, a meno che non si tratti di un sistema “costruito a tavolino” come sono le lingue artificiali (un esempio ne è l’esperanto), è un organismo naturale, che evolve in base all’uso della comunità dei parlanti: è vero che molte lingue hanno subìto un processo di standardizzazione per cui, tra forme coesistenti in un certo arco temporale, alcune sono state selezionate, considerate corrette e destinate allo scritto e all’uso formale e altre censurate e giudicate erronee, o ammesse solo nel parlato o in registri informali e colloquiali; ma in questo processo la scelta (che può anche cambiare nel corso del tempo) avviene sempre nell’àmbito delle possibilità offerte dal sistema. Soltanto nel caso della scrittura (che infatti non si apprende naturalmente, ma va insegnata) è possibile imporre norme ortografiche che si discostino dalla pronuncia reale: per questo la stampa e la scuola hanno avuto e hanno tuttora un ruolo fondamentale nella costituzione della norma standard scritta. Non c’è dunque da meravigliarsi se alcune proposte di soluzione del problema della distinzione di genere abbiano riguardato, almeno in prima istanza, la grafia, più suscettibile di cambiamenti. Ma ormai da tempo l’ortografia italiana è da considerarsi stabilizzata, il rapporto tra grafia e pronuncia non presenta particolari difficoltà (basta prendere a confronto l’inglese e il francese) e i dubbi si concentrano quasi esclusivamente sull’uso dei segni paragrafematici (accenti, apostrofi, ecc.). Questo non esclude che, almeno in àmbiti molto precisi come la scrittura in rete e quella dei messaggini telefonici, si possano diffondere usi grafici particolari, spesso peraltro transitori; ma il legame sistematico tra grafia e pronuncia, così tipico dell’italiano, non dovrebbe essere spezzato. In ogni caso, la storia ci ha offerto non di rado, anche di recente (in altri Paesi), esempi di riforme ortografiche dovute a interventi dell’autorità pubblica. Ogni tanto, specie nei regimi totalitari, la politica è intervenuta anche ad altri livelli della lingua, ma quasi mai è andata a violare il sistema. E poi il “dirigismo linguistico” (di cui, secondo alcuni, anche il “politicamente corretto” raccomandato alla pubblica amministrazione costituirebbe una manifestazione) assai di rado ha avuto effetti duraturi. Al riguardo possiamo citare un caso che entra, se pure lateralmente, proprio nella questione che stiamo trattando: quello degli allocutivi.

Gli allocutivi (tu, voi, lei) e la tematica del genere

Il latino conosceva un unico pronome per rivolgersi a un singolo destinatario, maschio o femmina che fosse: tu (al nominativo e al vocativo; tui, al genitivo; tibi, al dativo; te, all’accusativo e ablativo) e l’uso si è conservato, praticamente senza soluzione di continuità, a Roma, nel Lazio e lungo la corrispondente dorsale appenninica. In età imperiale cominciò a diffondersi il vos come forma di rispetto, da cui il voi dell’italiano antico, vivo tuttora in area meridionale. In età rinascimentale, sull’onda della diffusione (per influsso dello spagnolo) di titoli come vostra eccellenza, vostra signoria, vostra maestà, ci fu un altro cambiamento e si iniziò a usare, come forma di cortesia, anche il lei (ella, per la verità, almeno all’inizio, come soggetto e nell’uso allocutivo), che prima affiancò (a un livello di maggiore formalità) il voi e poi, in età contemporanea, ha finito col sostituirlo. Il fascismo cercò invano di bandire l’uso del lei (considerato uno “stranierismo” proprio della “borghesia”) e di imporre l’“autoctono” voi. Col crollo del regime, il voi è restato, come si è detto, solo nell’uso meridionale (dove il lei aveva avuto minore diffusione) ed è piuttosto l’espansione del tu generalizzato a contrastare il lei di cortesia, che peraltro resiste benissimo in situazioni anche solo mediamente formali.

Proprio il lei di cortesia ci documenta un’altra mancata corrispondenza tra genere grammaticale e genere naturale. Lei è un pronome femminile, ma lo si dà anche a uomini (lei è un po’ pigro, signore!. come lei è un po’ pigra, signora!); non solo, ma quando si usano le corrispondenti forme atone la e le l’accordo al femminile investe spesso anche il participio o l’aggettivo. Se è normale, rivolgendosi a un docente di sesso maschile, dire professore, oggi vedo che è molto occupato, si dice però comunemente professore, l’ho vista ieri (e non l’ho visto ieri) entrare in biblioteca. Insomma, anche l’allocutivo di cortesia dello standard è un esempio di come il maschile e il femminile grammaticali non corrispondano sempre, neppure in italiano, ai generi naturali.

La lingua tra norma, sistema e scelte individuali

Chi si rivolge all’Accademia della Crusca (la quale peraltro non ha alcun potere di indirizzo politico, diversamente dall’Académie Française e dalla Real Academia Española, che hanno un ruolo ben diverso sul piano istituzionale) pensa alla lingua considerando la “norma” in senso prescrittivo (in molti quesiti ricorrono infatti parole come corretto e correttezza, propri della grammatica normativa e scolastica) oppure facendo riferimento agli usi istituzionali dell’italiano, non all’uso individuale di singoli o di gruppi ristretti. Ma neppure in questo secondo caso le scelte sono completamente libere, perché chi parla o scrive deve comunque far riferimento a un sistema di regole condiviso, in modo da farsi capire e accettare da chi ascolta o legge. Si può segnalare, per dimostrare la libertà che è concessa alle scelte individuali (specie nel caso della lingua letteraria), un passo di Luigi Pirandello che gioca sul genere grammaticale di una coppia di parole come moglie e marito (e non importa ora il suo possibile inserimento in una tradizione letteraria misogina ben nota). Il brano è citato in un importante studio della compianta accademica Maria Luisa Altieri Biagi (La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 173), una dei “maestri” della linguistica italiana (usiamo intenzionalmente il maschile plurale, che in questi casi, a nostro parere, è quasi una scelta obbligata per indicare un’eccellenza femminile in un ambiente a maggioranza maschile):

Il protagonista di Acqua amara ha le sue idee, in fatto di morfologia. Se toccasse a lui modificarla, la adeguerebbe a una sua sofferta esperienza di vita:

Crede lei che ci siano due soli generi, il maschile e il femminile? Nossignore. La moglie è un genere a parte; come il marito, un genere a parte [...] Se mi venisse la malinconia di comporre una grammatica ragionata, come dico io, vorrei mettere per regola che si debba dire: il moglie; e, per conseguenza, la marito. (Nov., I, p. 274).

La mozione

La norma dell’italiano contempla un’ampia gamma di possibilità nel caso della mozione, cioè del cambiamento di genere grammaticale di un nome in rapporto al sesso. È un tema che sulle pagine del sito della nostra Consulenza è stato spesso affrontato perché moltissime sono le domande che sono arrivate e che continuano ad arrivare a proposito dei femminili di professioni e cariche espresse al maschile dato che in passato erano riservate solo a uomini. La scelta per il femminile, che l’Accademia ha più volte caldeggiato, non viene sempre accolta dalle stesse donne, tra cui non mancano quelle che preferiscono definirsi architetto, avvocato, sindaco, ministro, assessore, professore ordinario, il e non la presidente, ecc. D’altra parte, se storicamente è indubitabile che molti nomi femminili di questo tipo siano derivati da preesistenti nomi maschili (ciò vale pure per signora rispetto a signore), abbiamo anche casi di nomi maschili come divo nel mondo dello spettacolo, prostituto, casalingo, che sono documentati dopo i corrispondenti femminili, di cui vanno considerati derivati (per un’esemplare trattazione del fenomeno rinvio ad Anna M. Thornton, Mozione, in Grossmann-Rainer 2004, pp. 218-227).

Transessuale, transgenere e transizionante

L’unico problema relativo alla scelta del genere di un nome che ci è stato sottoposto è quello di transessuale per indicare “chi ha assunto mediante interventi chirurgici i caratteri somatici del sesso opposto” (anche questa definizione è del GRADIT). Qui, in effetti, si assiste tuttora a un’oscillazione tra maschile e femminile (a partire dall’articolo che precede il nome). A nostro parere, sarebbe corretta (e rispettosa) una scelta conforme al genere sessuale “d’arrivo” e dunque una transessuale se si tratta di un maschio diventato femmina, un transessuale, se di una femmina diventata maschio, posto che proprio si debba sottolineare l’avvenuta “trasformazione”. Qualcuno ci ha fatto notare che sarebbe opportuno sostituire transessuale con transgenere, che non è propriamente l’equivalente dell’inglese transgender, perché ha implicazioni diverse sul piano medico e giuridico. È senz’altro così e pensiamo anche noi che questo termine (da usare tanto al maschile quanto al femminile con le avvertenze appena indicate per transessuale) sia più appropriato, ma sta di fatto che al momento risulta meno diffuso: stenta a trovare accoglienza anche nella lessicografia e comunque, nelle poche occasioni in cui è registrato, viene spiegato come un’italianizzazione della voce inglese, che, come capita spesso, viene ad esso preferita ed è infatti presente in molti più dizionari. Alcuni di essi registrano anche cisgender, nel senso di ‘individuo nel quale sesso biologico e identità di genere coincidono’, il cui corrispondente italiano, cisgenere, ha invece, al momento, soltanto attestazioni in rete.

Ci è inoltre pervenuta una richiesta di sostituire gli aggettivi omosessuale, eterosessuale, bisessuale, pansessuale e transessuale con omoaffettivo, eteroaffettivo, biaffettivo, panaffettivo e transizionante e al riguardo, dopo aver fatto rilevare al richiedente che nessuna parola entra nei vocabolari per decisione di una istituzione, seppur prestigiosa come l’Accademia della Crusca, ma deve prima entrare nell’uso della comunità dei parlanti (non di un singolo parlante) e mettervi radici, segnaliamo che omoaffettivo è già presente nella lessicografia italiana (il GRADIT lo registra e lo data al 2004), come pure il verbo transizionare (documentato dal 1999), nel senso di "compiere un percorso di cambiamento del sesso attraverso terapie ormonali, forme di supporto psicologico, interventi di chirurgia estetica e di riassegnazione chirurgica del sesso" (ancora GRADIT).

Quale pronome per chi si considera gender fluid?

Tornando al genere grammaticale, diverso è il caso di chi si considera gender fluid, cioè, per usare la definizione dello Zingarelli 2022 (che include questa locuzione aggettivale s.v. gender, molto ampliata rispetto allo Zingarelli 2021), “di persona che rifiuta di identificarsi stabilmente con il genere maschile e femminile (comp. con fluid ‘mutevole’)”. Il problema che ci è stato sottoposto per queste persone riguarda prevalentemente il genere del pronome da utilizzare per riferirsi ad esse.

Ebbene, di fronte a domande come la seguente: “Come dovrei rivolgermi nella lingua italiana a coloro che si identificano come non binari? Usando la terza persona plurale o rivolgendomi col sesso biologico della persona però non rispettando il modo di essere della persona?”, la nostra risposta è questa: l’italiano – anche se non ha un pronome “neutro” e non consente neppure l’uso di loro in corrispondenza di they/them dell’inglese (lingua in cui l’accordo ha un peso molto meno rilevante rispetto all’italiano e dove comunque l’uso di they al singolare per persone di cui si ignora il sesso costituiva una possibilità già prevista dal sistema, in quanto documentata da secoli) – offre tuttavia il modo di non precisare il genere della persona con cui o di cui si sta parlando. L’unica avvertenza sarebbe quella di evitare articoli, aggettivi della I classe, participi passati, ecc., scelta che peraltro (come ben sanno coloro che hanno affrontato la tematica del sessismo linguistico) è certamente onerosa. In ogni caso, tanto il pronome io quanto l’allocutivo tu (e, come si è visto sopra, anche gli allocutivi di cortesia lei e voi) non specificano nessun genere. Analogamente, i pronomi di terza persona lui e lei in funzione di soggetto possono essere omessi (in italiano non è obbligatoria la loro espressione, a differenza dell’inglese e del francese) oppure sostituiti da nomi e cognomi, tanto più che oggi sono in uso accorciamenti ipocoristici ambigeneri come Fede (Federico o Federica), Vale (Valerio o Valeria), ecc., e che (anche sul modello dell’inglese e proprio in un’ottica non sessista) si tende a non premettere l’articolo femminile a cognomi che indicano donne (Bonino e non la Bonino). Si potrebbe aggiungere che il clitico gli, maschile singolare nello standard, nel parlato non formale si usa anche al posto del femminile le e che l’opposizione è neutralizzata per combinazioni di clitici come glielo, gliela, gliene; anche l’elisione, nel parlato più frequente che non nello scritto, ci consente spesso di eliminare la distinzione tra lo e la. Insomma, il sistema della lingua può sempre offrire alternative perfettamente grammaticali a chi intende evitare l’uso di determinate forme ed è disposto a qualche dispendio lessicale o a usare qualche astratto in più pur di rispettare le aspettative di persone che si considerano non binarie. Certamente l’accordo del participio passato costituisce un problema; ma non c’è, al momento, una soluzione pronta: sarà piuttosto l’uso dei parlanti, nel tempo, a trovarla.

Ancora sul maschile plurale come genere grammaticale non marcato

Diverso è il caso dei plurali: qui, come, si è detto all’inizio, il maschile non marcato, proprio della grammatica italiana, potrebbe risolvere tutti i problemi, comprendendo anche le persone non binarie. A nostro parere, mentre è giusto che, per esempio, nei bandi di concorso, non compaia, al singolare, “il candidato” ma si scriva “il candidato o la candidata”, oppure “la candidata e il candidato” (per abbreviare si ricorre spesso anche alla barra, che tuttavia non raccomanderemmo: “il/la candidato/a”), il plurale “i candidati” è accettabile perché, sul piano della langue, non esclude affatto le donne. Niente tuttavia impedisce di optare anche al plurale per “i candidati e le candidate” o viceversa (oppure, anche in questo caso, “i/le candidati/e”); vero è che da queste formulazioni potrebbero sentirsi escluse le persone non binarie. Aggiungiamo, rispondendo così ad alcuni specifici quesiti, che la scelta del plurale maschile nello standard non dipende dalla numerosità dei maschi rispetto alle femmine all’interno di un gruppo: basta una sola presenza maschile a determinarlo, ma non si tratterebbe di una scelta sessista (come viene invece considerata da molte donne), bensì dell’opzione per una forma “non marcata” sul piano del genere grammaticale. Capita peraltro abbastanza spesso, come ha notato qualcuno, che “nel caso di infermiere e maestre d’asilo” (o di altri gruppi professionali in cui la presenza femminile è preponderante) “si dirà ‘salve a tutte!’ e i pochi maschi se ne fa[ra]nno una ragione”. E questo, a nostro parere, “ci sta”, anche se, di fatto, spesso i maschi presenti protestano. Da richiamare è anche il fatto che, soprattutto nel parlato, l’accordo del participio o dell’aggettivo può riferirsi al genere grammaticale del nome ad essi più vicino: quindi “le mamme e i papà sono pregati di aspettare i figli fuori” (e non “sono pregate”), ma “i papà e le mamme sono pregati”, ma anche “sono pregate”.

La presenza del femminile plurale

Affiancare al maschile il femminile è senz’altro lecito e anzi, in certi contesti, sembra l’opzione preferibile (per esempio quando si indicano categorie professionali in cui la mozione al femminile ha stentato a imporsi). Nelle forme allocutive, in particolare, rappresenta indubbiamente, specie se a parlare o a scrivere è un maschio, un segnale di attenzione per le donne: bene dunque, per formule come care amiche e cari amici, cari colleghi e care colleghe, cari soci e care socie, carissime e carissimi, ecc. Anche nella tradizione dello spettacolo, del resto, chi presenta si rivolge al pubblico con signore e signori e i politici, specie in vista delle elezioni, parlano di elettori ed elettrici, cittadini e cittadine, ecc. Si ha poi il caso di nomi “esclusivamente” maschili come fratelli, a cui – visto che l’italiano non dispone di un termine corrispondente all’inglese sibling – è sempre opportuno affiancare sorelle (lo ha fatto del resto di recente anche la Chiesa, nella liturgia). Lasciamo da parte, per non dilungarci ulteriormente, il caso di uomini, già ampiamente trattato negli studi, a cui, in una prospettiva non sessista, si preferisce persone (altro nome femminile che può indicare anche un maschio pure al singolare).

Dall’asterisco...

L’accostamento del femminile al maschile finisce spesso con l’allungare e appesantire il testo. Forse anche per evitare questo, ormai da vari anni, soprattutto da quando si è diffusa la scrittura al computer, ha gradualmente preso piede, in particolari àmbiti (tra cui la posta elettronica), l’uso dell’asterisco, che è andato progressivamente a sostituire la barra (già citata per candidati/e), il cui uso sembra ormai confinato ai testi burocratici.

L’asterisco (dal gr. asterískos ‘stelletta’, dim. di astḗr ‘stella’) – che nel titolo di questa risposta abbiamo usato invece nel senso di ‘nota’, ‘stelloncino’, significato che è, o era, diffuso nel linguaggio giornalistico – è un "segno tipografico a forma di stelletta a cinque o più punte" (Zingarelli 2022) usato, sempre in esponente (“apice”, nella terminologia della videoscrittura), con varie funzioni. Anzitutto, serve a mettere in evidenza qualcosa, per esempio un nome o un termine in un elenco, contrassegnandolo così rispetto agli altri. L’asterisco può anche segnalare una nota (soprattutto se isolata) o ancora (per lo più ripetuto due o tre volte) indicare un’omissione volontaria da parte dell’autore, specialmente di un nome proprio: si incontra non di rado, per esempio, nei Promessi Sposi perché Alessandro Manzoni usa tre asterischi per non esplicitare il nome del paese dove vivono Renzo e Lucia, il casato dell’Innominato, ecc. Un uso per certi versi analogo si ha nei fumetti e in rete, dove gli asterischi o altri segni (chiocciola, cancelletto, punto) sostituiscono le lettere interne delle parolacce, che vengono così censurate. In linguistica, infine, l’asterisco contrassegna forme non attestate o agrammaticali.

Nell’àmbito di cui ci stiamo occupando l’asterisco, in fine di parola, sostituisce spesso la terminazione di nomi e aggettivi per “neutralizzare” (o meglio “opacizzare”; in questo forse si può intravedere un sia pur tenue legame con la penultima funzione prima indicata) il genere grammaticale: abbiamo così forme come car* collegh* e, particolarmente frequente, car* tutt*, probabile calco su dear all (che invece non ha bisogno di asterischi perché l’inglese non ha genere grammaticale né accordo su articoli e aggettivi). L’asterisco negli ultimi anni ha conquistato anche i sostenitori del cosiddetto linguaggio gender neutral e non c’è dubbio che anche sotto questo aspetto possa avere una sua funzionalità. Tuttavia coloro che ci hanno scritto, pur se disponibili alle innovazioni, si dichiarano per lo più ostili all’asterisco: c’è chi parla di “insulto” alla nostra lingua, chi di "storpiatura", chi lo ritiene “sgradevole”, chi addirittura “un’opzione terribile”.

Di certo l’uso dell’asterisco è legato all’informatica, ma non ne rispetta i principi. È interessante, al riguardo, leggere quanto afferma un nostro lettore, docente appunto di informatica, che tratta della forma asteriscata (di cui, a suo parere si abusa), che è stata «presumibilmente mutuata dalle convenzioni dei linguaggi di comando dei sistemi operativi (Unix, ma anche DOS/Windows) per i quali la notazione * indica una sequenza di zero o più caratteri qualunque [...]. Pertanto, nella sua semantica originaria “car* tutt*” ha la valenza (anche) di “carini tuttologi” o di “carramba tuttora” oltre ai significati ricercati dai “gender-neutral” che, tuttavia, costituiscono una infima parte di quelli possibili».

In effetti è così: in informatica l’asterisco segnala una qualunque sequenza di caratteri, mentre al posto di un solo carattere si usa il punto interrogativo, che (a parte gli altri problemi che comporterebbe) potrebbe andare bene per tutt? ma non per amic?, dove invece funzionerebbe meglio l’asterisco amic* perché nel femminile la -e è graficamente preceduta dall’h. Ma nessuno dei due simboli potrebbe essere usato in casi (che ci sono stati segnalati) come sostenitor* (o sostenitor?), che non include il femminile sostenitrici accanto al maschile sostenitori. E non è necessario né opportuno ricorrere all’asterisco (o al punto interrogativo) neppure per i plurali di nomi e aggettivi in cui la terminazione in -i vale per entrambi i generi (nomi citati sopra come cantanti, aggettivi plurali come forti, grandi, importanti, ecc.).

Comunque sia, pur con tutti questi distinguo, se consideriamo che l’uso grafico dell’asterisco si concentra in comunicazioni scritte o trasmesse che sono destinate unicamente alla lettura silenziosa e che hanno carattere privato, professionale o sindacale all’interno di gruppi omogenei (spesso anche sul piano ideologico), in tali àmbiti (in cui sono presenti abbreviazioni convenzionali come sg., pagg., f.to, estranee all’uso comune) può essere considerato una semplice alternativa alla sbarretta sopra ricordata, rispetto alla quale presenterebbe il vantaggio di includere anche le persone non binarie. L’asterisco non è invece utilizzabile, a nostro parere, in testi di legge, avvisi o comunicazioni pubbliche, dove potrebbe causare sconcerto e incomprensione in molte fasce di utenti, né, tanto meno, in testi che prevedono una lettura ad alta voce.

Resta, infatti, il problema dell’impossibilità della resa dell’asterisco sul piano fonetico: possiamo scrivere car* tutt*, ma parlando, se vogliamo salutare un gruppo formato da maschi e femmine senza usare il maschile inclusivo, dobbiamo rassegnarci a dire ciao a tutti e a tutte. Qualcuno ha proposto espressioni come caru tuttu, che a nostro parere costituiscono una delle inopportune (e inutili) forzature al sistema linguistico di cui si diceva all’inizio. Teniamo anche presente che nell’italiano tradizionale non esistono parole terminanti in -u atona (a parte cognomi sardi o friulani, come Lussu e Frau, il nome proprio Turiddu, diminutivo siciliano di Turi, ipocoristico di Salvatore, entrato anche in italiano grazie alla popolarità della Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni e comunque ormai desueto, onomatopee come bau, sigle come ONU e IMU, forestierismi entrati di recente, come tofu o sudoku).

... allo schwa

In alternativa all’asterisco, specie con riferimento alle persone non binarie, è stato recentemente proposto di adottare lo schwa (o scevà), cioè il simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA) che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue e di vari dialetti italiani, in particolare quelli dell’area altomeridionale (il termine, grammaticalmente maschile, è di origine ebraica). Questa proposta, che sarebbe da preferire all’asterisco perché offrirebbe anche una soluzione sul piano della lingua parlata, ha già trovato vari sostenitori (sembra che l’abbiano adottata, almeno in parte, una casa editrice e un comune dell’Emilia-Romagna). A nostro parere, invece, si tratta di una proposta ancora meno praticabile rispetto all’asterisco, anche lasciando da parte le ulteriori difficoltà di lettura che creerebbe nei casi di dislessia.

Intanto, sul piano grafico va detto che mentre l’asterisco ha una pur limitata tradizione all’interno della scrittura, il segno per rappresentare lo schwa (la e rovesciata: ə, in corsivo ə, forse non di facilissima realizzazione nella scrittura corsiva a mano) è proprio, come si è detto, dell’IPA, ma non è usato come grafema in lingue che pure, diversamente dall’italiano, hanno lo schwa all’interno del loro sistema fonologico. Non a caso, a parte linguisti e dialettologi, coloro che scrivono in uno dei dialetti italiani che hanno lo schwa nell’inventario dei loro foni lo rendono spesso con e (talvolta con ë) o, impropriamente, con l’apostrofo. Se guardiamo al napoletano, che nella sua lunga tradizione di scrittura per le vocali atone finali si è allineato all’italiano, vediamo che oggi nelle scritte murali in dialetto della città la vocale atona finale viene sistematicamente omessa.

L’uso dello schwa non risolve neppure certe criticità che abbiamo già segnalato per l’asterisco: per esempio, sarebbero incongrue grafie come sostenitorə e come fortə, di cui pure ci è stato segnalato l’uso anche al singolare. C’è poi il problema, rilevato acutamente da qualche lettore, che del simbolo dello schwa non esiste il corrispondente maiuscolo e invece scrivere intere parole in caratteri maiuscoli può essere a volte necessario nella comunicazione scritta. C’è chi usa lo stesso segno, ingrandito, ma la differenza tra maiuscole e minuscole non è di corpo, ma di carattere e quindi accostare una E maiuscola all’inizio o nel corpo di una parola tutta scritta in maiuscolo a una ə alla fine della stessa non mi pare produca un bell’effetto. In alternativa, si potrebbe procedere per analogia e “rovesciare” la E, ma si tratterebbe di un ulteriore artificio, privo di riscontri – se non nella logica matematica, in cui il segno Ǝ significa ‘esiste’ (cosa che peraltro creerebbe, come nel caso dell’asterisco, un’altra “collisione” sul piano del significato) – e, presumibilmente, tutt’altro che chiaro per i lettori.

Quanto al parlato, non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo o per accordare la preferenza a tuttə rispetto al tuttu che è stato sopra citato. Anche il riferimento ai sistemi dialettali ci sembra fallace perché nei dialetti spesso la presenza dello schwa limita, ma non esclude affatto la distinzione di genere grammaticale, che viene affidata alla vocale tonica, come risulta da coppie come, in napoletano, buόnə (maschile: ‘buono’ ma anche ‘buoni’) e bònə (femminile: ‘buona’ o ‘buone’), russə (‘rosso’ o ‘rossi’) e rόssə (‘rossa’ o ‘rosse’). Lo schwa opacizza invece spesso la differenza di numero, tanto che tra chi ne sostiene l’uso c’è stato chi ha proposto di servirsi di ə per il singolare e di ricorrere a un altro simbolo IPA, 3, come “schwa plurale” (altra scelta a nostro avviso discutibile, anche per la possibile confusione con la cifra 3).

Conclusioni

È giunto il momento di chiudere il discorso. È verissimo, come diceva Nanni Moretti in un suo film, che “le parole sono importanti” (ma lo sono anche la grafia, la fonetica, la morfologia, la sintassi) e denunciano spesso atteggiamenti sessisti o discriminatori, sia sul piano storico (per come le lingue si sono andate costituendo), sia sul piano individuale. Come abbiamo detto all’inizio, la quantità di richieste che abbiamo avuto, che ci hanno espresso dubbi e incertezze a proposito del genere e della distinzione di genere, ci rasserena, perché, soprattutto per come sono stati formulati i quesiti, documenta una larga diffusione di atteggiamenti di civiltà, di comprensione, di disponibilità. È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico. Ma non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti. 

Paolo D'Achille il 24 settembre 2021

La lingua italiana non si cambia con l’asterisco. Simonetta Fiori su la Repubblica il 7 agosto 2021. Lo schwa e gli altri segni grafici inclusivi entreranno nel vocabolario? Secondo Luca Serianni, che studia l’italiano da anni, no. Ecco perché. E se spostassimo la discussione? Non più la diatriba tra bianchi e neri, tra i paladini dell'asterisco transgender e i cultori della grammatica tradizionale, tra chi rivendica il politicamente corretto anche nelle desinenze e chi gli oppone una fiera allergia. Anche perché quello dello schwa, il simbolo inclusivo della "e" rovesciata per rendere neutro il genere, è un partito largamente trasversale, avversato da uno schieramento che da Maurizio...

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2021. Troncature inclusive. «Non è semplicissimo leggere il pezzo di Murgia perché a un certo punto Murgia comincia a fare largo utilizzo della "schwa", quel segno grafico che ci è stato spiegato dovrebbe essere letto come una troncatura della parola, che però dà un'intonazione a metà tra il calabrese e il campano che rende devo dire veramente un po' complicata la lettura». Durante la rassegna stampa di Radio Radicale, Flavia Fratello, giornalista de La7, ha tentato di leggere un pezzo di Michela Murgia, pur non condividendone i contenuti. Ma il vero problema è stato formale, meglio orale. L'idea di ricorrere alla «e» rovesciata, con cui i glottologi simboleggiavano un suono vocalico indistinto («schwa» è un nome che proviene dall'ebraico), è il modo con cui Murgia evita la distinzione tra maschile e femminile e soprattutto il ricorso al maschile unificante della nostra tradizione grammaticale. Fratello calca un po' la mano (la voce) ma l'effetto è esilarante (è su YouTube). La «schwa», infatti, non si trova nella tastiera del computer né rientra nei suoni dell'italiano, è un artificio. E come tale sarà sottoposto alla dura legge dell'uso. Sono tempi in cui anche la scrittura s' affanna per assecondare la nuova sensibilità collettiva dell'inclusività e gli esiti non sempre sono quelli sperati. La lingua batte, dove il Dante duole.

Vittorio Feltri demolisce Michela Murgia: "matria", asterisco e carattere neutro? "Dizionario nel Gulag". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Ultimamente va di gran moda riscrivere le regole della grammatica e la logica ad esse sottese. Una scrittrice, la sarda Michela Murgia, che non ha mai fatto mistero di subordinare la sua attività letteraria alla militanza politica, ha capito che il filone rende in termini di notorietà, motivo per il quale è ormai scatenata. Ogni settimana mette in discussione uno o due pilastri della lingua italiana, in attesa, consapevole o inconsapevole, di veder crollare l'intero edificio. Questo sarebbe il risultato nel caso le proposte della Murgia ottenessero un esito positivo. La Murgia crede che la lingua sia sessista e patriarcale. Vale a dire che il vocabolario rifletta la secolare sottomissione della donna. Bisogna dunque rimediare e risarcire la parte rosa del mondo. Come? All'inizio Murgia pensò di intervenire direttamente sul dizionario. Basta dire "patria", è pura discriminazione. Meglio "matria". E pazienza se sono secoli, anzi millenni, che si dice "la madre patria", la Murgia non ha tempo di curarsi di dettagli minimi come l'uso comune nel corso del tempo. "Matria" comunque non riuscì a sfondare, stranamente. Il vaso di Pandora delle cazzate però era stato scoperchiato una volta per tutte. Arrivarono quelli più intelligenti di tutti e proposero di introdurre l'asterisco per far capire che ci si rivolge alle donne e agli uomini ma senza presupporre umilianti gerarchie. Capito, car* amic*? Mentre Dante Alighieri, Pietro Bembo, Alessandro Manzoni sono stati lì a pensare tutta la vita per darci uno strumento per comunicare, e per creare letteratura comprensibile in tutto lo Stivale, questi sapientoni del politicamente corretto ne sparano a raffica, una al minuto.

L'IDEA GENIALE

Siccome l'asterisco non sembrava bellissimo, hanno avuto l'idea di introdurre un nuovo carattere, chiamato Schwa (dall'antica radice indoeuropea) che si trascrive con una "e" rovesciata, in questo modo: "El ". Capito, car amich181? Comodo no? Bello da vedersi, no? Da pronunciarsi non saprei, del resto nessuno può giurare di conoscere la maniera corretta. Più ci penso, più mi rendo conto che l'Italia è un paese popolato da mostri di intelligenza come la Murgia, che ha trovato subito dei sostenitori. Ora rendetevi conto cosa accadrebbe se lo/la/l* Schwa venisse insegnato nelle scuole, come alcuni già auspicano. Sarebbe il caos più totale, la lingua sarà sessita ma è logica, per questo funziona. Gli studenti poi con capacità di apprendimento ridotta sarebbero abbandonati a se stessi. Questo delirio è figlio di un femminismo più attento alla forma che alla sostanza, ma forse è figlio solo di intellettuali che hanno capito come restare al centro dell'attenzione. Le pari opportunità erano sacrosante: tutti uguali alla partenza. Poi è arrivato il momento delle quote rosa, che già sembravano una forzatura e la negazione del femminismo stesso, visto che si chiedeva un numero di donne quasi a prescindere dal merito. Quindi è arrivato il movimento #metoo con relativa caccia al presunto stupratore/molestatore, il tutto con denunce distanti anni e anni dai fatti incriminati. Infine si è pensato alla brillante riforma grammaticale. Il primo passo è stato il dibattito tragicomico su come andasse chiamata una donna al vertice di istituzioni o aziende: presidente, presidentessa o presidenta? Sindaco o sindaca? Avvocato, avvocatessa o avvocata? Un vero rebus dalla rilevanza pari a zero. Ma come diceva il mio amico Giorgio Gaber, "quando è moda, è moda".

ALL'ESTERO

In altri Paesi che sono più "avanti" del nostro, tipo la Francia, sono stati costretti a promulgare una legge che impedisce di riempire di simboli le pagine dei documenti. Insomma, i parigini hanno già avuto la possibilità di sperimentare queste riforme ortografiche e hanno deciso di tornare indietro il più rapidamente possibile. La lingua serve a capirsi non a riparare storici torti. Si direbbe facile da intendere. Eppure... C'è perfino chi ha chiesto di essere identificato con il pronome della terza persona plurale: Essi o Loro. Queste persone si dichiarano non binarie dal punto di vista sessuale. Sono sia omo sia etero, dipende dalle giornate. Inoltre contengono moltitudini, non solo una semplice personalità. Non sono soltanto fluidi/e/*, ovvero bisessuali. Noi dobbiamo assecondare la loro volontà per non essere sessisti e oppressori. Ma così non si capisce più niente, direte voi, se cambi la funzione logica dei pronomi è finita. In effetti avete ragione ma il politicamente corretto ha fatto un salto di qualità. Un tempo si limitava a coniare eufemismi per cui un nano era diversamente alto o a vietare la parola "negro". Oggi invece si spinge dentro alla testa di chi parla e scrive, come fanno tutte le dittature, per ottenere una resa totale e perfino convinta. E per entrare nella testa delle persone non c'è niente di meglio che impadronirsi della lingua con la quale pensiamo e ci esprimiamo. È un classico dei Paesi totalitari. 

·        Tradizione ed Abitudine.

L’abitudine. Alessandro Bertirotti il 29 marzo 2021 su Il Giornale. È tutta questione di… stile di vita. Le attuali neuroscienze hanno dimostrato come la forza dell’abitudine, sia essa buona oppure cattiva, determini la formazione degli atteggiamenti mentali che andranno poi a configurarsi in atteggiamenti comportamentali. Sono, in effetti, proprio gli atteggiamenti mentali che possono di volta in volta concretizzarsi in quelli contingenti comportamentali, a determinare la formazione delle abitudini, ossia di risposte quasi automatiche di fronte a stimoli che sono stati memorizzati dalla mente. Non a caso il termine abitudine deriva dal latino habitus, con il quale si indica una vera e propria forma di comportamento che si presenta al mondo e che riguarda la propria identità, ossia la propria persona. Sono proprio le abitudini ad essere dunque considerate importanti all’interno di un processo educativo, perché grazie alla loro configurazione in vere e proprie forme di risposte sia individuali che culturali, permettono il progresso generale di una data cultura. La funzione fondamentale del processo educativo all’interno di una società è infatti quella di confermare, attraverso la tradizione, le abitudini che caratterizzano l’identità di quella cultura e favorire il loro superamento con la coltivazione della creatività. In questo modo, tradizione e creatività costituiscono la linfa vitale di qualsiasi cultura. Il durare nel tempo non è però la caratteristica essenziale della tradizione (la stessa cosa vale per il costume), quanto lo sia invece il rito e la ripetizione, grazie ai quali si crea appunto l’abitudine. “Ciò che è distintivo della tradizione è che essa definisce una specie di verità. Per chi segue una pratica tradizionale, le domande non hanno risposte alternative: per quanto possa cambiare, una tradizione fornisce sempre un quadro per l’azione che ben di rado viene messo in discussione. In genere le tradizioni hanno guardiani (saggi, preti, oracoli) che non sono equivalenti agli esperti: essi derivano la loro posizione e il loro potere dal fatto di essere gli unici capaci di interpretare la verità rituale della tradizione” (Giddens A, 1999, Runaway World. How Globalization is Reshaping our Lives, Profile Books, London, trad. It. 2000, Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, Il Mulino Editore, Bologna, pg. 58). Ecco, scritto questo, penso sarebbe interessante leggere cosa pensate voi, cari frequentatori di questo blog, rispetto alle idee espresse.

·        La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

Ecco chi era l'Ulisse che è ritornato a Itaca. Barbara Castiglioni il 27 Novembre 2021 su Il Giornale. Maria Grazia Ciani racconta l'"altro" Odisseo, oltre l'immagine classica dell'eroe viaggiatore. «Io desidero tornare a casa e vedere il giorno del mio ritorno». Le parole, per certi versi inspiegabili, con cui Ulisse, nell'Odissea, «sprezza l'eternità» offertagli da Calipso come canterà l'epilogo del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi sono quanto di più lontano dall'idea dell'eroe-esploratore errante che, da Dante in poi, trionfa nella letteratura e in tutte le arti. Il viaggiatore metafisico che, nella Divina Commedia, mosso «dalla curiosità di conoscere e dal desiderio di cose nuove» sospinge i suoi compagni al «folle volo», o che, secondo Tennyson, non può «fare a meno di viaggiare» perché deve bere «ogni goccia della vita», l'asceta visionario votato alla ricerca utopica della conoscenza di Kazantzakis, l'Ulisse superuomo di D'Annunzio, quello fin troppo umano di Joyce o il meraviglioso viandante à rebours dell'Ultimo viaggio di Pascoli, che ha per meta il passato e non il futuro, non sono, però, l'Ulisse dell'Odissea. Ispirati tanto dalla nota astuzia dell'eroe della menzogna quanto dalla celebre profezia di Tiresia, che nell'undicesimo canto, ha l'obiettivo di scongiurare ad Ulisse la morte più temuta quella «nel mare impenetrabile, mai amico dell'uomo» (Conrad) ma lascia intravedere, ambiguamente, un ennesimo viaggio dopo il sospirato ritorno ad Itaca («prendi allora il remo e rimettiti in viaggio fino a che non giungerai presso genti che non conoscono il mare»), i vari Ulisse successivi sono, però, per certi versi, l'opposto di quello di Omero. Nel suo piccolo, prezioso libro edito da Carocci Tornare a Itaca (pagg. 104, euro 12), Maria Grazia Ciani, già magnifica traduttrice del poema, racconta ora il suo Ulisse, l'altro Ulisse, con ogni probabilità il vero Ulisse dell'Odissea: l'eroe-uomo, o l'uomo-eroe, o forse l'eroe che vuole diventare uomo (non a caso, la prima parola del primo verso dell'Odissea è proprio anér, «uomo»); l'Ulisse che consuma la sua vita, ad Ogigia, sospirando il ritorno, che resta da Circe solo perché appagato «da cibo, vino e sesso», e che, legato all'albero della sua nave, non si lascia sedurre dal canto irresistibile delle Sirene. Racconta il sogno di Ulisse, Nausicaa: la giovane figlia del re dei Feaci «che danzano sulla terra e danzano sul mare» è bella, è giovane, è unica («non ne vidi mai una simile»), ma neppure nella magica Scheria, dove tutto ha il sapore dell'irrealtà, Ulisse riesce a non pensare al suo ritorno. Non a caso, è il protagonista del poema che è già l'archetipo del romanzo d'avventura e, in cui, nell'Ade, sarà il divino Achille a demolire l'ideale eroico della morte gloriosa al prezzo della vita («della morte non parlarmi: vorrei essere il servo di un padrone povero piuttosto che regnare sulle ombre dei morti») su cui si fondava, al contrario, l'epica dell'Iliade. L'Odissea, del resto, è, più di ogni cosa, il poema della nostalgia: di Itaca, di Ulisse, di Telemaco, di Penelope, di Laerte, di Anticlea, ma anche del glorioso passato e del tempo degli eroi, come dimostra la terribile vendetta sui Proci, nell'ultimo canto, in cui le armi di bronzo di Ulisse «scintillano al sole» nel loro minaccioso fulgore, e lo fanno tornare, per un istante, davvero il «distruttore di città» che era stato nell'Iliade. Il vero Ulisse, però, come sottolinea la Ciani con la sua prosa limpida e magnetica, non è un guerriero straordinario, non è un viaggiatore se non suo malgrado e non aspira per nulla al sublime: il cuore dell'Odissea è, piuttosto, il ritorno al «piccolo mondo antico» di Itaca, simboleggiato dal porcaro Eumeo e dal fedele servo Filezio, dal cane Argo, che riconosce il suo padrone nel momento in cui lo vede, dopo vent'anni, e muore non appena lo ha riconosciuto, o dal talamo nuziale ancorato alla terra mediante cui si riconosceranno Ulisse e Penelope. È il ricordo del bambino che, seguendo il padre tra gli alberi del loro frutteto, gli chiedeva il nome di ogni pianta («in mezzo ad essi andavamo e tu mi dicevi i nomi di tutti»): forse, ancor più degli inganni, del mare e anche del talamo, è in questa immagine degli alberi «ben coltivati», mentre il padre e il figlio si perdono tra i filari, che trova espressione «l'essenza vera e profonda dell'uomo di Itaca, del figlio di Laerte: Ulisse». Barbara Castiglioni

·        L’Invidia.

Roberto D'agostino per "Vanity Fair" il 22 novembre 2021. Tanta. Tantissima. Forse più di sempre. Di sicuro, più contagiosa del Covid. E' una stagione trionfale per i “rosiconi”. Dalla politica all'economia, dallo spettacolo al costume, un unico codice segreto sembra governare gli avvenimenti: la legge dell'invidia, la regola del livore, la normativa della rabbia. ‘’Ogni qual volta che un amico ha successo una piccola parte di me muore”, confessava sconsolato lo scrittore Gore Vidal. È un vizio capitale, ma è anche l’unico vizio che non dà alcun piacere a chi lo prova. Nondimeno la proviamo quasi tutti. Già Seneca ai tempi dei fasti imperiali romani filosofeggiava: “Il vero amico non è colui che è solidale nella disgrazia, ma quello che sopporta il tuo successo’’. Senza “rosicare” la nostra vita sarebbe eccitante come un caffè senza caffeina, sexy come un vibratore senza pile, depressa come la recitazione di Margherita Buy, moscia come Lilli Gruber senza silicone. Invidia deriva dal latino in-videre (“guardare di sbieco”, “guardare storto”) ed è uno dei sentimenti che non conosce confini di razza, religione, censo. Infatti la proviamo tutti. E se qualcuno dichiara di non conoscere l’invidia, affrettarsi a dargli dell'ipocrita. Tutti conosciamo – e bene - quello spasmo doloroso che devasta la bocca dello nostro stomaco alla vista di qualcuno che possiede quello che non possediamo e che desideriamo. E parte la solita solfa. Che cosa gli fa meritare tutto quel successo? Che cosa ha quel Giuseppe Conte, quel Fedez, quei Maneskin in più di me? Non c’è una ragione perché Gigi Marzullo sia ancora davanti a una telecamera! Allora vuol dire che il mondo non premia in base ai meriti, alle capacità. Perché? Perché? Perché? Dio esiste o esistono solo i raccomandati? Un sentimento di impotenza e di ingiustizia, di livore e di risentimento che deflagra nell’istante in cui si ha la bruciante consapevolezza di essere dei falliti. Allora ci tormentiamo, cercando di trattenere l’esplosione della bile, cercando di dire al nostro fegato che gli altri sbagliano. Ma quanti imbecilli però continuano ad applaudirlo, a cliccarlo, a postare like. Allora si prova di convincerli del contrario, cercando di screditarlo. Essì, se l’invidia fosse un lavoro, in Italia non ci sarebbero disoccupati. Prendete, con le dovute cautele, Giuseppe Conte: il cosiddetto ‘’Avvocato del popolo’’ non riesce, dopo un anno, a metabolizzare la sua cacciata da Palazzo Chigi. Quando Lucia Annunziata a ‘’Mezz’ora in più’’ gli chiede se sia giusto esaltare la leadership di Mario Draghi, il presidente del M5s riserva al presidente del Consiglio l’ennesima frecciata di una lunga serie: “Draghi erede della Merkel? Io aspetterei…”. Ma cosa sarebbe il mondo della politica senza invidia? E' come vedere Berlusconi senza cerone, D’Alema senza baffi, la Boschi senza i paparazzi. Salvini rosica per ogni riga che i quotidiani dedicano alle parole di Giorgia Meloni, Enrico Letta posta immagini di gioia ogni volta che Matteo Renzi finisce sotto schiaffo (cioè tutti i giorni), Franceschini non riesce a trattenersi per essere stato scavalcato nel governo da Andrea Orlando, e via rosicando. Anche nel campo della cultura, congratularsi vuol dire esprimere con garbo la propria invidia, vedi le lodi a mezza bocca degli scrittori italiani verso il successo globale di Elena Ferrante. C’è poi il risentimento retroattivo, come espresso dall’ottima  Natalia Aspesi nei confronti della mitica Fallaci: “Oriana, Oriana. Non si fa che parlare di Oriana. Lei era la protagonista. Quando incontrava Kissinger o Khomeini, sembrava che fossero loro a intervistarla e non viceversa. Se tu oggi rileggi i suoi pezzi ti accorgi che non c’era una notizia“. Cosa resta dopo la fine della lotta di classe? Da una parte, gli invidiosi; dall'altra, gli invidiatissimi. Prendete in mano (con le dovute cautele) il cannoneggiamento da parte di  della matura Paola Ferrari verso il silicone espanso di Diletta Leotta: “Di lei non condivido l'esprimere in modo troppo vigoroso la sua sensualità. Certo io alla sua età ero meno brava. Ma quest'anno avrà filo da torcere: da Mediaset arriva Giorgia Rossi, una molto simile a Ilaria D'Amico”. Secondo round. Recentemente la popputa signorina di Dazn si è lasciata col suo fidanzato, Can Yaman. Il commento di Paoletta è tagliente: “Ma col turco non c'è mai stata la Leotta, lei ha altri amori che magari non dice…”. La tensione fra le opinioniste del GF VIP, Sonia Bruganelli, gamba corta, e Adriana Volpe, coscia lunga, ha preso un sapore acido. Galeotta fu una foto di Bruganelli con Giancarlo Magalli, che Volpe ha denunciato per diffamazione. Il conduttore ha ammesso: “L’intento era chiaro: che lei la vedesse e se la prendesse del fatto che Sonia si facesse una foto con uno che lei ha fatto diventare il suo peggior nemico“. Al tempo del coronavirus e dei virologi in tv, gli stessi virologi, diventati personaggi pubblici, finiscono inevitabilmente nel mirino dell’invidia. Così il giovane e aitante Matteo Bassetti è stato infilzato dal “Tiè!” del rigorosissimo Massimo Galli, professore in pensione: “Sentire quel che dice Bassetti? Anche no. Sono un anziano professore, ho già fatto la mia carriera. Io non ho bisogno di inchinarmi a nessuno. e non sono il nano e ballerina di nessuno”. A proposito di nani e ballerine, sentite lo sfogo del 70enne Christian De Sica: ‘’Ti basta accendere la tv per vedere tanti, troppi attori non professionisti, scritturati solo in base al numero dei follower che hanno sui social. E grazie che sono dei cani”. Aveva proprio ragione Moravia: l'invidia, secondo dei sette peccati capitali (dopo la superbia), "è come una palla di gomma che più la spingi sotto e più ti torna a galla".

Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2021. Ci sono fratelli (o sorelle) che hanno molte affinità, oppure diversissimi fra loro. Spesso i primi ad accorgersene e a risaltare disparità o somiglianze sono proprio i genitori e tutto questo definisce l' identità dei loro figli. Ne parliamo con la dottoressa Gaia Vicenzi, psicologa e psicoterapeuta: «I fratelli, l'uno per l' altro, possono rappresentare modelli positivi da imitare, mentre difficilmente ne imiteranno gli aspetti negativi. Nel primo caso "mi piaccio perché sono come mio fratello", nel secondo "mi piaccio perché sono diverso da lui". All' interno di queste dinamiche, mamme e papà cercheranno inevitabilmente di incoraggiare o di scoraggiare questi comportamenti. Poi ovviamente ci sono differenze dettate dal genere (tra un fratello e una sorella) e differenze di gap generazionale (se ci sono molti anni di differenza fra i due fratelli). La famiglia dovrebbe fare in modo che l' individuo si definisca indipendentemente dall' altro, bypassando la logica del confronto e della competizione, della definizione dell' uno in relazione all' altro». Capita spesso che fratelli e sorelle che da piccoli si ignoravano, da grandi si ritrovino e si avvicinino molto l' uno all' altro. Come mai succede questo? «Una possibile spiegazione è che è vero che fino a un certo momento della loro vita erano due mondi diversi che non si sono incontrati, ma all' interno comunque della stessa famiglia», risponde la dottoressa Vicenzi. «Poi, magari terminato il percorso di studi e cominciata la carriera, diventa piacevole condividere i traguardi, gli stessi ricordi e le stesse esperienze magari da due punti di vista. È un arricchimento perché ognuno ritrova nell' altro una sorta del proprio bagaglio di vita, che nessun altro può avere così in comune come un fratello. È un modo per sentirsi ancora più integri nel momento in cui si entra nel mondo del lavoro o di una nuova famiglia, perché si riconosce nell' altro lo stesso patrimonio fatto di vissuti, di valori e di esperienze. Questo succede in maniera esplosiva quando, nel corso degli anni, i due fratelli si ritrovano a gestire i genitori anziani. L' aspetto di supporto reciproco diventa importante sia dal punto di vista materiale, sia emotivo. Di nuovo, ci si ritrova a condividere emozioni, pensieri, progetti, e avere una spalla su cui appoggiarsi rende sicuramente più forti. Diventa non solo un' esigenza, ma anche un riconoscimento di risorsa da non trascurare». Due altri temi ricorrenti tra fratelli e sorelle, a prescindere dall' età, sono invidie e gelosie «La gelosia c' è nella misura in cui bisogna spartirsi la stessa fetta di torta e magari ho l' impressione che mio fratello abbia avuto più di me», sottolinea la psicologa. «L' invidia è un passaggio successivo dove, a seguito del continuo confronto, io ritengo che l' altro sia migliore di me. Se questo produce una voglia di miglioramento, può essere un modo per evolvere che fa parte di un buon processo di crescita (maturazione), viceversa se è un sentimento nocivo mi deprimo, senza possibilità di crescita e di miglioramento. È il caso, per esempio, di coloro che hanno un fratello bravissimo in tutto e che invidiano a tal punto da non fare più niente: non studiano, non lavorano, si definiscono loro stessi "la pecora nera della famiglia", entrando in questa identità perché pensano sia impossibile cambiare le cose. In realtà non c' è mai una pecora nera, così come non c' è mai una pecora bianca: ci dovrebbe essere un' apparente invidia che mi sprona a migliorare, a riconoscermi diverso in certi aspetti da mio fratello e migliore in altri».

·        Il Gossip.

Curiosità. Perché si dice "pietra dello scandalo"? Da Focus. Perché, nell’antica Roma, i debitori e i commercianti falliti venivano esposti a una pubblica umiliazione, la bonorum cessio culo nudo super lapidem (cessione dei beni, a natiche denudate, sopra una pietra): in quelle condizioni, il malcapitato doveva gridare “cedo bona”, ossia “cedo i miei averi”. Da qui l’espressione “essere la pietra dello scandalo”, che significa essere oggetto di clamore per azioni riprovevoli. 

IN OGNI CITTÀ. A Roma, la “pietra dello scandalo” era un macigno vicino al Campidoglio. Ma ve ne sono in tutta Italia, anche di periodi posteriori. A Firenze ce n’è una nella loggia del Mercato Nuovo: è un tondo che rappresenta la ruota del Carroccio, simbolo della Repubblica Fiorentina. Vi si compiva l’“acculata”: il fondoschiena di debitori e disonesti vi veniva sbattuto violentemente, a braghe calate, fra gli sberleffi dei presenti. A Modena, la pietra “ringadora” (“dell’arringa”, perché anche usata come palco dagli oratori) in Piazza Grande, veniva anche unta di trementina.

Estratto dell'articolo di James Hansen per "Italia Oggi" pubblicato da "la Verità" il 10 luglio 2021. Uno studio dell'università di Pavia dimostra che lo spettegolare fa bene alla salute: aumenta la produzione dell'ormone dell'ossitocina nel corpo diminuendo invece la presenza di cortisolo, ovvero gli ormoni rispettivamente «della felicità» e «dello stress». Sparlare degli altri avrebbe un effetto sul cervello simile a quello procurato dal consumo di un alimento gradito. Già l'antropologo inglese Robin Dunbar, alla fine degli anni Novanta, aveva riconosciuto al pettegolezzo la capacità positiva di procurare a chi sparla un'identità condivisa e di appartenenza.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk l'1 maggio 2021. Secondo un nuovo studio, spettegolare di altre persone può farti sentire più connesso a chi ti circonda e persino aiutarti a formare relazioni migliori. I neuroscienziati del Dartmouth College hanno monitorato il ruolo dei pettegolezzi tra un gruppo di persone e hanno scoperto che la semplice diffusione di voci su qualcuno non aiuta a migliorare le relazioni, ma "solo il giusto tipo di pettegolezzo funziona". I risultati, pubblicati sulla rivista Current Biology, si basano su ricerche precedenti che hanno rivelato che i pettegolezzi costituiscono circa il 14% di tutte le conversazioni quotidiane. Uno degli autori ha descritto il gossip come una "forma complessa di comunicazione che viene spesso fraintesa", aggiungendo che può essere un mezzo di "connessione sostanziale". Gli autori dello studio affermano che i loro risultati mostrano che il gossip è una "comunicazione ricca e sfaccettata" con diverse funzioni sociali. Sempre secondo gli scienziati, i pettegolezzi non dovrebbero essere relegati a semplici "discorsi senza fondamento" ma come un modo per creare relazioni, poiché "implica fiducia e facilita un legame sociale che si rafforza con l'ulteriore comunicazione". Secondo il documento, il gossip aiuta la creazione di una "realtà condivisa": uno scenario in cui amici e colleghi spesso trovano legami comuni, stabiliscono alleanze, scambiano informazioni personali e discutono il comportamento degli altri per stabilire un consenso su un comportamento socialmente accettabile.

Daniela Mastromattei per "Libero Quotidiano" il 22 novembre 2021. Oltre al chiacchiericcio sul prossimo inquilino del Quirinale, in Transatlantico vola veloce di bocca in bocca, come cantava De André, un pettegolezzo assai più intrigante. Si riferisce a una love story raccontata in Nonostante Nemesis, romanzo appena uscito nelle librerie digitali. Politici (e non) tra commenti maliziosi, esternazioni graffianti e borbottii non richiesti cercano di scoprire i protagonisti della piccante storia d'amore, descritta nel volume, tra un potente deputato brizzolato di 50 anni e una giornalista di 10 anni meno, che è solita raggiungere Montecitorio con una bicicletta di colore giallo. La crescente curiosità è alimentata anche dal fatto che l'autore si firmi come Federigo Alberighi del Decameron di Boccaccio e ha tutta l'aria di essere un nom de plume. C'è chi sussurra che lo scrittore sia un esponente di primo piano legato a Renzi. Tra le pagine ci sono chiari riferimenti a una cordata fiorentina smantellata da una successiva alleanza romana, che fa subito pensare alle primarie vinte da Zingaretti. E l'ambientazione in un luogo chiamato Palazzo delle Relazioni è un altro elemento che conduce al Parlamento. «Io ho il sospetto che lo scrittore sia un mio collega lombardo, che, per l'appunto durante la pandemia, se la faceva con una bella giornalista romana», rivela sotto voce un sornione deputato nel cortile dei fumatori. Spifferate confidenziali con nonchalance e il passaparola è assicurato anche (o soprattutto, dipende dai punti di vista) nei palazzi della politica. Già nell'antichità a pensar male e a parlar male non si faceva peccato. Le voci sui costumi sessuali di Giulio Cesare si rincorrevano. Nonostante le quattro mogli e le tante amanti, non mancavano i bisbiglii sulla sua bisessualità. Veniva apostrofato come «il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti». Per chiacchiericci apparentemente innocui sono caduti governi e sono saltate corone dalle teste reali. E a dimostrazione che una notizia un po' originale non ha bisogno di alcun giornale (da Bocca di Rosa), ci sono indiscrezioni che hanno fatto il giro del mondo. Una fra tutte, su Giacomo Casanova, diplomatico, agente segreto e scrittore, ma soprattutto avventuriero e tombeur de femmes, per anni sono circolate voci di essere figlio illegittimo. Non sarebbe stato l'erede di Gaetano Casanova ma dell'altolocato Michele Grimini, nobile rampollo di una delle più potenti e rinomate famiglie veneziane dell'epoca. A confermare le voci che circolavano fu lo stesso Giacomo in uno scritto. Nel gossip c'è sempre un fondo di verità, non è mai fantasia allo stato puro. L'antropologo e psicologo Robin Dunbar dell'Università di Liverpool è stato tra i primi negli anni Novanta a elevare ad arte nobile il pettegolezzo, «cuore delle relazioni umane», ciò che ci differenzia dalle cugine scimmie. Fa parte della nostra natura, non solo di quella femminile come gli uomini spesso vogliono farci credere, mentre sotto sotto sono delle gran comari. Coinvolge tutti, giovani e meno giovani, secondo uno studio dell'Università della California, in media si sparla degli altri 52 minuti al giorno regalando una sottile soddisfazione sia a chi lo fa, sia a chi viene messo a conoscenza. Quel «sai che...», accende nello sguardo di chi ascolta un lampo di piacere che ritrovi negli occhi di un bambino davanti al cono di un gelato. Chi detiene un segreto è come il custode di un tesoro e si gode quell'attimo di onnipotenza nel vedere l'interlocutore pendere dalle sue labbra. Persino gli psicologi con la puzza sotto il naso si sono arresi e l'hanno finalmente ammesso: spettegolare fa bene all'umore e alla sinapsi del cervello. I ricercatori dell'Università del Texas e dell'Oklahoma prima, gli studiosi olandesi dell'ateneo di Groningen, poi, sono arrivati alla medesima conclusione: chi è solito ascoltare con bramosia e riferire con altrettanta passione e malignità sul conto degli altri ne guadagna in pacatezza, riflessività e autostima. Il benessere che dà il gossip è difficile ritrovarlo in altre attività: innanzitutto soddisfa il bisogno innato che abbiamo di narrazione, aiuta ad acquisire competenze, a far nascere dei legami; favorisce la coesione di cerchie ristrette, di amicizie intime con cui ci si possa lasciare andare spifferando una notizia di prima mano. E c'è un altro motivo per cui spettegolare ha un ruolo chiave: permette di plasmare gerarchie. Parlar male di qualcuno significa togliergli valore, screditarlo con l'illusione di guadagnare in stima e potere agli occhi degli altri. Non sempre si tratta di illusione. Screditare gli assenti crea legami sociali e rafforza il concetto di reputazione tra i presenti, fondamento di qualsiasi comunità. Insomma smettiamola di fare i moralisti bacchettoni, sapere che la single dell'ultimo piano ha finalmente trovato un fidanzato; o più esattamente, l'ha trovato ma è durato quanto un gatto in tangenziale, ha «un effetto consolatorio e chimicamente rilascia ossitocina, una sostanza che provoca un piacere fisico, lo stesso che provano gli innamorati subito dopo il colpo di fulmine», afferma la psichiatra Natascia Brondino dell'Università di Pavia. Ma udite udite, fare le comari è pure antidepressivo, consigliato come terapia di gruppo. Ma noi l'avevamo capito prima degli accademici, che ritrovarsi con un'amica davanti a una tazza di thè a ricamare su pseudo amici, cognate altezzose o colleghi incapaci vale più di una doppia porzione di pasticcini. E ancor prima, le donne di Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, che da 80 anni hanno istituito i "giovedì delle comari" dove tagliano, cuciono e tessono trame fitte sulle vite degli altri, si consegnano segreti e suggestioni che da lì a qualche ora rimbalzeranno sulle bocche di tutto il circondario. Intanto a parlar male degli altri si comincia da bambini e non si smette più, ne è convinto lo psicologo Nicholas Emler. Quel cicaleccio, forza della natura, direbbe Primo Levi, ha un potere inarrestabile per i sociologi che hanno dimostrato come le leggende metropolitane (parenti stretti del pettegolezzo) si propaghino seguendo schemi simili a quelli di un virus. L'istinto della chiacchiera sembra scritta nei nostri geni, ed è particolarmente forte nelle persone più abbienti e istruite, rispetto a quelle più umili ed economicamente svantaggiate (lo dice la scienza). Non dimentichiamo che prima che nascessero i salotti parigini, Giovanna Dandolo, moglie del doge veneziano Pasquale Malipiero, era già nota per le sue riunioni di artisti e letterati. Ma come tutti gli istinti, pur avendo una sua dignità, va tenuto sotto controllo, come il latte sul fornello.

·        La Reputazione.

Il costo della reputazione. Kevin Spacey, Guaia Sorcioni e la sopravvalutata importanza di essere buoni. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 novembre 2021. L’attore americano è costretto a risarcire 31 milioni di dollari alla società di produzione di House of Cards, nonostante le accuse di molestie siano state ritirate. Ma se tutto è sempre gravissimo, non è anche tutto irrilevante? La grande scusa – a noialtri che non siamo mai degli incapaci: se non facciamo carriera è perché siamo scomodi – la fornì Rhett Butler, quando la guerra civile non era ancora finita, ad Atlanta si raccoglievano fondi per l’esercito, le mogli donavano le fedi nuziali, e Rossella era in nero perché fresca vedova d’un marito del quale neanche per un minuto le era fregato qualcosa – e Rhett lo sapeva. La invitava a ballare, qualche beghina diceva la signora non può, è in lutto, ma a Rossella non pareva vero di gettarsi sulla pista da ballo, sfinita da quella simulazione di malinconia (Rossella O’Hara poteva essere disperata, ma mai malinconica, una sfumatura che richiedeva quella riflessività di cui le mancava proprio l’enzima). Dopo un po’ di volteggi, diceva civettuola qualcosa tipo: un altro ballo, e la mia reputazione sarà rovinata per sempre. Rhett – che sapeva tutto, sempre – rispondeva con una frase che immagino tatuata sui bicipiti delle peggiori palestre di Caracas: chi ha coraggio fa anche a meno della reputazione.

Ci penso spesso, in questi giorni impazziti di molta polvere e pochissima gloria: che te ne fai della reputazione? Perché ci teniamo tanto, in questi giorni impazziti che qui non si fa la storia ma tanta di quella beneficenza che in confronto Bob Geldof era un egoista? Perché è così importante essere i buoni? Perché tutto resta, e una volta se eri un po’ stronzo lo sapeva solo il paesello e adesso è tutto in mondovisione? Ma, se tutto è in mondovisione tutto il tempo, quale monade ha spazio per ricordarsi dei misfatti delle altre? Se tutto è gravissimo non è anche tutto irrilevante? Se tutti sono altruisti ci accorgeremo ancora dell’altruismo? Se tutto è devoluto alle buone cause, la Lamborghini come la compri?

Un tribunale ha stabilito che Kevin Spacey debba pagare 31 milioni di dollari. Ma le accuse di essere saltato addosso a un tizio non erano state ritirate causa messaggi che provavano che il tizio ne era stato ben lieto? Questa causa è un’altra. È per House of Cards.

Invece di fare noi spettatori causa alla produzione per averci privato di Spacey, unica ragione per guardare quell’acquario di squali che saltavano altri squali, si sono fatti causa tra loro. Spacey perché (sintesi mia) «cazzi vostri se m’avete voluto togliere dal cast, il mio onorario lo pagate lo stesso»; la produzione perché (sempre sintesi mia) «sì ma tu anni fa hai palpeggiato un assistente e non abbiamo detto niente perché i reati sessuali non andavano di moda ma adesso possiamo dire che siccome sei stato poco professionale cinque anni prima non ti vogliamo nel cast cinque anni dopo».

È finita con un arbitrato, che ha dato torto a Spacey. Quei 31 milioni sono il costo della reputazione. Ormai, se anche uscissero dei filmati in cui sono i presunti violentati a saltargli addosso, la reputazione di Spacey non sarebbe ripristinabile. Se Charlie viene accusato d’aver stuprato una capra, dicevano qualche stagione fa in Billions, anche se la capra nega, quando Charlie muore ci sarà scritto sulla sua tomba «stupratore di capre».

Ieri, subito dopo aver letto la notizia di Spacey, ho aperto Facebook. C’era un post non recentissimo: un amico aveva linkato il mio articolo sull’infermiere di TikTok, quel disgraziato che aveva postato un video cafone e, non essendo garantito dai sindacati in quanto precario, era stato licenziato. Era un articolo che sembrava aver causato il massimo delle polemiche possibili (poi sono arrivati i romani che parlano romano, giacché ogni record è fatto per essere battuto, ogni scemenza fatta per superarsi, ogni pomeriggio va riempito in qualsivoglia modo che non sia lavorare, se hai un pacchetto dati e un cassetta della frutta a forma di social su cui salire per dire la tua).

L’amico lo linka, e sotto ci sono gli abituali commenti sintetizzabili in ma-guarda-questa-stronza. Uno attira la mia attenzione. Lo scrive un tizio mai visto, e fa così: «Certo, proprio lei che a chi gli dava addosso in rete, chiamava i datori di lavoro per denunciare che stavano sui social invece di lavorare. Ipocrisia zero, proprio». Il fatto che l’autore del commento abbia evidentemente falsificato la licenza elementare non è la prima cosa che mi colpisce. Supero le correnti gravitazionali, la punteggiatura a caso, i «gli» per «le», e arrivo abbastanza rapidamente a: ma di chi sta parlando? Per chi mi ha scambiata?

Non può che essere uno scambio di persona, no? C’è qualcuna (sarà quella solita Guaia Sorcioni) che chiama datori di lavoro (io credo di non averne mai chiamato neanche uno mio) e dice loro: guardate che il vostro dipendente, invece di produrre, scrive su Facebook che non mi si scoperebbe neanche in punto di morte (interrompendo il datore di lavoro che sarà intento a scrivere a Gisele Bündchen che il suo pene può sognarselo, essendo presumibilmente anch’egli italiano e quindi combinazione perfettissima di mitomane e sfaccendato). È una bella scena, per carità, se mi scritturano la interpreto volentieri.

Nel ruolo in questione – quello della telefonatrice ai datori di stipendio, non di Gisele – sarei, immagino, anche una che, in occasione del licenziamento dell’infermiere, scrive per la prima volta della maggior piaga contemporanea: la richiesta della testa di colui che ci turba a mezzo pensieri, parole, opere e cuoricini. Considerata l’indignazione del tizio per questa «ipocrisia» (mi viene in mente Tina Cipollari che a Uomini e donne urla «sei falsa», ma cerco di restare seria), non può stare rivolgendosi a una che su questa dinamica ha scritto qualche centinaio di volte lo stesso articolo nonché ampie parti d’un libro, no?

E poi mi rendo conto che invece potrebbe benissimo crederci. L’umanità è piena di gente affetta da pseudologia fantastica: immaginano mondi e poi li credono reali. Questo tizio, al quale è inutile chiedere 31 milioni di dollari un po’ perché non ce li avrà e un po’ perché i tribunali italiani cara grazia se ti danno 31 euro di risarcimento, crede davvero alla versione bislacca di me che s’è immaginato e con la quale si balocca (un po’ amica immaginaria, un po’ bambola gonfiabile). Ed è allora che capisco la differenza tra Rhett Butler e noi, ma soprattutto tra Kevin Spacey e me: io appartengo a una scuola di pensiero lievemente diversa; quella secondo la quale, a fare a meno della reputazione, è chi è troppo pigro per difenderla.

·        Il Saluto.

Curiosità. Quando nacque l'usanza di stringersi la mano? Da Focus.it. La tradizione è molto antica, ma in Occidente si diffuse solo dopo la caduta dell'Impero romano. Grazie alle popolazioni germaniche che abitavano il nord dell'Europa. La pratica di salutarsi stringendosi la mano oggi è molto diffusa, un'abitudine che soltanto le misure di contenimento della pandemia hanno "sospeso". Ma le testimonianze antiche di questa usanza sono rare. Come si legge in un articolo di Focus Storia, una delle attestazioni più famose in Occidente è una stele del V secolo a. C. dove a salutarsi così erano le dee Atena ed Era.

Immagini di strette di mano compaiono anche in stele funerarie dello stesso periodo, ma per gli storici si tratta di eccezioni: nella Roma antica ad esempio ci si salutava più frequentemente dandosi un bacio. La stretta di mano era limitata a situazioni particolari ed era riservata a pochi intimi: familiari e amici molto cari.

STRETTA BABILONESE. Le cose andavano diversamente in Oriente. Lì questa pratica era diffusa già 4.000 anni fa, almeno nelle cerimonie religiose. Una delle testimonianze storiche più importanti proviene infatti da Babilonia (1800 a. C.) dove durante le solennità del nuovo anno il monarca stringeva simbolicamente la mano della statua di Marduk, il maggior dio babilonese, protettore dell'antica città.

MI FIDO DI TE. La stretta di mano come la conosciamo noi oggi - diffusa a 360 gradi in tutta la popolazione - è divenuta pratica diffusa in Europa solo dopo la caduta dell'impero romano, durante l'Alto Medioevo (V-X secolo d.C.). A praticarla erano soprattutto le tribù germaniche: serviva a esprimere la piena fiducia nei confronti di chi si incontrava. E il perché è facile da capire: impegnando la mano destra era infatti impossibile sfoderare la spada per difendersi. 

PAESE CHE VAI... Da allora la stretta di mano si è diffusa a macchia d'olio e oggi è comune in numerose culture, con alcune varianti. Nei paesi anglofoni è praticata ad esempio soprattutto nei contesti lavorativi ed aziendali, mentre nei paesi arabi il saluto (nella versione completa) prevede che la mano tocchi in successione il torace, le labbra e la parte centrale della fronte, poi il gesto si prolunga in avanti, mentre si fa un inchino. O secondo altre usanze che si appoggi sul petto, mentre l'altra mano stringe quella dell'interlocutore. Tra i Masai, infine, gli uomini più che stringersi la mano se la sfiorano: il loro saluto infatti consiste in un leggero tocco di palmo delle mani che dura un brevissimo istante.

·        La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Da anni Tlon ci parla dell’ossessione per la performance. Ora tocca a noi liberarcene. Francesco Colonnese, Comunicatore & anti-avvocato, su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Un giorno qualsiasi, un amico Deputato mi dice: “Devi leggere La società della performance”. Non sapevo di cosa stesse parlando ma compro il libro. Ci entro dentro e mi sento un po’ spiato perché, nel leggerlo, trovo cose che già conosco ma a cui non ho mai pensato organicamente. Poi mi accorgo di aver ricominciato, fin da subito, a parlare con Sofia dopo anni di silenzi. Difficile spiegare lo stupore provato nel notare che Sofia, dichiarata morta per decenni dai non addetti ai lavori, in realtà è molto più viva di me e di tanti di noi. Penso tra me e me, con leggero ma chiaro brivido di rivalsa, che c’è ancora qualcuno in Italia che parla di filosofia senza partire già sconfitto, senza la paura di venire etichettato come ammuffito o peggio ancora boomer. Leggere Gancitano e Colamedici è un modo contemporaneo come altri, per affacciarsi fuori dalla caverna. Ancora nel 2021, la verità all’inizio acceca ma piano piano rende più consapevoli e un po’ meno deboli. Uscire dalla caverna comporta anche oggi il dover prendere atto di alcune brutte notizie (che ormai notizie non sono). Costatare, ad esempio, che la nostra patologica dipendenza nei confronti dell’ostentazione mediatica fine a sé stessa è peggiorata. Con buona pace della Silicon Valley e dei suoi allegri e multimilionari performer (vade retro, dialettica del complotto), i social media che hanno apportato enormi progressi al genere umano in termini di condivisione di culture, di input per nuove passioni, di relazioni sempre più tecnologiche (quindi a portata di mano), hanno anche dato vita ad effetti collaterali mostruosi. Mostri che, col tempo, si ingigantiscono. Da qualche anno, le nostre identità assomigliano più ad ologrammi in 3D e sempre meno a diffusori di oli essenziali; dedichiamo grandi energie al make-up dei nostri talenti e ci dimentichiamo di annaffiare la “vocazione”, l’unica cosa di cui in fondo dovremmo interessarci in questo rapido passaggio terrestre. Le disfunzioni individuali, peraltro, non restano isolate perché coincidono con le disfunzioni della società e si alimentano a vicenda. Ne cito alcune per intenderle tutte. Non è così complicato accorgersi che stiamo assistendo attoniti ad un sistema scolastico che costringe i docenti a somministrare agli studenti dei “tranquillanti” invece che degli “eccitanti”. Non sembriamo affatto capaci di spingere i ragazzi a conquistare il senso di meraviglia per la conoscenza. Non li capiamo, non parliamo lo stesso linguaggio, maestri che non aiutano i propri allievi a superarli, il che equivale ad essere dei cattivi maestri. Non è neanche così complicato accorgersi che, scrollando le home dei social, è possibile notare una furia sempre più crescente, da parte dei nostri simili, nel commentare qualunque tipo di materiale diffuso online. Eppure, non riusciamo a prenderci qualche minuto in più per dare un volto a quella frustrazione, per comprenderla una volta per tutte. Tlon affronta queste ed altre inquietudini e, nell’offrirci delle vie di fuga dai nostri “falsi io”, tira in ballo l’importanza del sacro (soprattutto per delle società aspiranti laiche) e, con garbo, richiama le radici culturali orientali per aiutarci a ritrovare la bussola, o quantomeno ci ricorda che una bussola c’è. Sfuggire dalla mercificazione delle esperienze e dalla commercializzazione delle emozioni è possibile. Anche se oggi siamo persi nel delirio dell’overdose estetica e nella profonda incapacità di riscoprire il valore del tempo, la filosofia continua ad essere al nostro fianco ed a indicarci la strada. Superato lo shock iniziale della luce fuori dalla caverna, prese le misure con quel mondo che conoscevamo solo attraverso le ombre dei fantocci proiettate sul muro, ora dobbiamo trovare una strategia per rientrare nell’antro e salvare gli altri. Prendere per mano chi ha paura dell’ignoto, superando le derisioni e gli scetticismi e, possibilmente, a differenza del mito platonico, uscirne vivi. Maura Gancitano e Andrea Colamedici, in questi giorni in libreria con “L’alba dei nuovi Dèi“, sono due dei tanti volontari di quell’esercito di pensatori di cui credevamo di poter fare a meno, due sentinelle che continuano ad interrogarsi in questo grande club virtuale di dormienti. Degli anti-performer di cui c’era gran bisogno. Perché qui non si sta mettendo in dubbio l’importanza del comunicare o della tecnologia ma il “cosa” stiamo comunicando e “chi” lo sta facendo: noi o il nostro ologramma? I buoni filosofi non sono solo abituati ad osservarci dalla torre ma sanno anche quando scendere tra la gente per suggerire alla società quello che hanno visto prima di essa. I buoni filosofi conoscono il valore della vista dall’alto ma anche il valore dell’ascensore.

·        Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 9 marzo 2021. «Sarò molto cattivo», il mantra è sempre lo stesso da San Siro a Sanremo per Zlatan Ibrahimovic. Anche al Festival si presenta come uno che si sente Dio, con posa statuaria dall' alto dei suoi 195 centimetri. «È un onore essere qua - le sue prime parole -, ma anche per te è un onore avermi qui. Su questo palco mi sento piccolo, ma comunque più grande e più potente di te». Anche con Amadeus gioca a fare l' arrogante padrone di casa: «È il mio Festival e le regole le detto io». Si piazza davanti a tutti, riluce e oscura («sono iocentrico»). Spara per primo con ironia e restituisce colpo su colpo. Attacca l' avversario. C' è chi lo definisce un serpente a sonagli. Ma lui se ne infischia ostentando un sorriso beffardo. «Se non ti piace come gioco, non mi guardare», zlatanata d' autore, indimenticabile, rivolta ad Arrigo Sacchi, un pezzo di storia del calcio. Lo svedese prova la stessa suprema indifferenza per tutto il genere umano. Ibra non vuole essere amato. E ci riesce benissimo. Tranne gli amici stretti come Mihajlovic, tutti gli altri lo seguono sì, ma per interesse. Perché a 39 anni suonati sul campo riesce ancora a fare miracoli (un gol di media a partita non è proprio da tutti). Il Milan lo sa e se lo tiene stretto. Come dire, i bravi ragazzi vanno in Paradiso i cattivi dappertutto. Sembra saperlo bene anche l' ambiziosa e spregiudicata Meghan Markle dai giornali dipinta in questi giorni come la strega della favola di Biancaneve che tratta male i suoi assistenti e collaboratori al punto da farli scoppiare in lacrime. Tutto riportato dal quotidiano londinese The Times. Dopo uno scontro con la duchessa, c' è chi ha confidato: «Non riesco a smettere di tremare». Altri di essere stati spesso «umiliati». Lavorando con lei si vive una condizione «di crudeltà emotiva e manipolazione che immagino possa essere definita bullismo», rivelano. Si spiega così quella liturgia di dimissioni, che fin dai primi mesi dell' arrivo di Meghan a corte aveva visto le sue assistenti scappare una dopo l' altra. Prevaricazione (mista a spavalderia e sfrontatezza) che non sembra aver risparmiato nessuno: ne avrebbe fatto le spese anche Samantha Cohen, una delle assistenti della regina che era stata distaccata come segretaria privata dei duchi di Sussex e che pure ha gettato presto la spugna.

L' ASTUTA MEGHAN. Certo, se l' attrice americana è riuscita a farsi sposare dal secondogenito di Lady Diana e Carlo, principe del Galles, erede al trono del Regno Unito, non è solo per il suo bel faccino. Chissà prima di lei quante donne deve aver incontrato Harry (ambitissimo scapolo d' oro) più attraenti, affascinanti, eleganti (e di sangue blu). Nessuna però armata di artigli e furbizia come l' insolente Meghan. In effetti non ci ha messo molto a fidanzarsi con il ragazzo, classe 1984, già maggiore nel reggimento dell' Household Cavalry dell' esercito britannico. E a farsi portare all' altare. Poi, non contenta, è riuscita pure a separarlo dalla Royal Family costringendolo a vivere negli Stati Uniti, dopo l' acquisto di una villa super lussuosa a Montecito, Santa Barbara, dove risiede solo gente ricchissima. E da lì la scaltra Meghan ha rilasciato una sferzante intervista alla regina dei talk show Usa Oprah Winfrey, andata in onda la scorsa notte (merita una puntata a parte). E che dire di Antonella Elia: l' avevamo capito da tempo che il suo carattere fumantino non prometteva nulla di buono, ma nessuno si era ancora misurato con la sua malvagità. Purtroppo è toccato a Samantha de Grenet, mentre era nella casa del GF Vip, subire un' aggressione inenarrabile che ancora infiamma il Web. Come spiega a Libero la psicologa Emma Cosma tra donne può scattare una competizione cattiva dovuta alla loro incapacità di sviluppare solidarietà femminile. E l' invidia qui gioca un ruolo importante, perché porta chi ne soffre a screditare gli altri. A differenza del gentil sesso, gli uomini sono tendenzialmente più determinati nella gara del più forte». Ma chi sono i cattivi? «Persone sadiche, che non provano rimorsi, egoiste concentrate molto su se stesse che godono dei dispiaceri altrui. In ambito lavorativo manipolatrici e incapaci di sana competizione, agiscono in modo disonesto approfittando delle situazioni per primeggiare», dichiara la psicoterapeuta. E ancora: «La cattiveria nasce quasi sempre da sentimenti negativi come frustrazione, rabbia, tristezza, e, come già detto, invidia. C' è chi cede alla malvagità solo per difendersi, chi per abitudine, altri per proprio tornaconto».

I NARCISISTI. Ovviamente «il cattivo non eccelle in empatia, è un narcisista e neanche tanto preoccupato a non darlo a vedere». La crudeltà un tempo tenuta nascosta per paura di apparire dei mostri, sembra quasi voler uscire allo scoperto come arma indiscreta degli arrampicatori sociali o di chi vuol salire in fretta i gradini del potere. E fare le scarpe a tutti. Altro che intelligenza e capacità professionali, la determinazione priva di scrupoli non guarda in faccia a nessuno. Anzi, per qualcuno si chiama coraggio. Mantiene a galla e cavalca ogni evento. Essere buoni significa invece essere colpevoli, molli, disinteressati, apatici, non all' altezza. Sempre più spesso si assiste a scontri dove il miscuglio velenoso di cinismo, caratteraccio, aggressività e difesa dei propri spazi, ha la meglio sui buoni sentimenti. Certo, ci sono pure i lupi travestiti da pecore che raggiungono il potere sventolando bandiere simil croce rossa per ripulirci le tasche con imposte e tasse benefiche. Chi non ricorda quel governo fatto di lacrime e sangue. Eppure alla maggioranza delle persone va bene così. Perché se anche i massimi esponenti della società, dalla cultura alla politica, sono cattivi si sentono tutti, nel loro piccolo, in diritto di esserlo. E la coscienza è a posto. Quel che è peggio è che chi sguazza in questa brodaglia melmosa non ha nessun interesse a cambiare le cose. Anzi. Se magicamente il mondo tornasse nelle mani dei buoni e degli onesti, il gioco finirebbe. I pochi "rabbiosi" non sarebbero più giustificati dal sistema basato sulla strategia del male. Che blocca ogni forma di crescita personale, culturale ed economica. Tuttavia, i buoni e sensibili esistono ancora, per fortuna, e poveretti ci cascano sempre nelle trappole dei più perfidi.

Come possono difendersi?

«Prediligendo il dialogo, continuando a scegliere positività, franchezza e trasparenza emotiva. Proteggendosi con la riservatezza riguardo a se stessi e alla propria vita, in modo da non offrire terreno su cui essere colpiti. E mai rispondere al fuoco con il fuoco, né con le vendette. Si alimenterebbero solo rabbia e negatività. Scegliere piuttosto la gentilezza, che spiazza anche i più cattivi». Parola di psicologa.

Albert Einstein direbbe, «il mondo è un posto pericoloso, non (solo) a causa di quelli che compiono azioni malvagie ma per quelli che osservano senza fare nulla».

·        I Vigliacchi.

Camillo Langone per “il Giornale” l'1 marzo 2021. Premetto di fare parte anch' io della «società palliativa» criticata da Byung-Chul Han in La società senza dolore (Einaudi). Sì, sono uno dei tanti con «un atteggiamento di rifiuto nei confronti del dolore», e gradirei un po' di morfina anche per sopportare l' ago della vaccinazione, quando e se lo Stato sanitario sarà in grado di praticarmela... Tuttavia so bene che dal dolore, prima o poi inevitabile, sarebbe meglio saper trarre un senso: ex malo bonum, dicevano i latini. E che l' anestesia ha un prezzo, non solo dal punto di vista Asl: «Le crescenti aspettative nei confronti della medicina, associate all' insensatezza del dolore, fanno sembrare insopportabili i dolori più insignificanti». In tal modo l' individuo infiacchisce, e insieme all' individuo la collettività. Attualissimo questo piccolo libro del filosofo germano-coreano (ma forse bisognerebbe chiamarlo semplicemente filosofo tedesco visto che vive in Germania da decenni e che scrive nella lingua dei peraltro molto citati Hegel, Nietzsche, Heidegger, Jünger...). La parola «pandemia» non si trova nel titolo e nemmeno nel sottotitolo e però aleggia dalla prima all' ultima pagina. Dove Han scrive «dolore» spesso si può leggere «virus». Ad esempio: «Una caratteristica cruciale dell' odierna esperienza del dolore consiste nel fatto che esso venga percepito come privo di senso. L' intera narrazione cristiana l' ha abbandonato per sempre». Ovviamente ho pensato subito alla reazione della Chiesa alla presente calamità, di un'insignificanza spettacolare e temo epocale: non vorrei che gli storici del futuro datassero 2020 la fine della presenza pubblica cristiana in Occidente. La scorsa Pasqua come il definitivo Due Novembre della Santa Sede. La Chiesa, e quando dico Chiesa dico la gerarchia ecclesiastica, Papa, cardinali, vescovi ed eventuali Santi, in altri secoli avrebbe parlato di punizione divina, di vita eterna, di morte-giudizio-inferno-paradiso, insomma di categorie proprie della bimillenaria tradizione cristiana. Qualche decennio e qualche Pontefice fa avrebbe quantomeno riaperto il catechismo, ancor oggi leggibile sul sito del Vaticano ma come invisibile e muto: «Molto spesso la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a lui». Invece è da un anno che il cattolicesimo ufficiale si mostra succube di una religione concorrente, l'ambientalismo, allineandosi a una lettura che addebita la pandemia a peccati commessi dall'uomo nei confronti della Madre Terra. Nessun ritorno a Dio, casomai ritorno a Pachanama: è la direzione indicata dalla linea Bergoglio-Draghi che è gesuitismo, non cristianesimo. La società senza dolore oltre ai succitati filosofi tedeschi sfrutta molto l'ultimo o penultimo Agamben: non parlo di saccheggio perché Han non è Galimberti e quando si avvale di pensieri altrui lo dice, mette la nota, il riferimento puntuale. Non mancano Illich e Foucault, abbastanza inevitabili quando ci si muove tra pandemia e filosofia. Tutte cose che mi sembra di avere già letto ma repetita iuvant in questo momento di stanchezza se non di rassegnazione. Perché di dittatura sanitaria bisogna continuare a parlare prima che il modello cinese si imponga stabilmente anche in Europa. Perché, penso sia evidente a chiunque non abbia gli occhi foderati di prosciutto statalista, «alla luce della pandemia, ci dirigiamo verso un regime di sorveglianza biopolitica». Byung-Chul Han liberista, liberale, libertario? Meglio tardi che mai. Nell' ultimo libro il filosofo che in passato ce l' aveva col neoliberismo - «ismo» di cui non sono mai riuscito a capire i precisi contorni - scrive che «il liberismo occidentale fallisce dinanzi al virus. A causa del dispositivo d'igiene, la società della sopravvivenza si vedrà obbligata a rinunciare ai principi liberali». È un passaggio che profuma di nostalgia: non era poi così male il liberismo occidentale che, se non altro, quand' era in auge garantiva la libertà di movimento. Do you remember Schengen? A proposito di nostalgia. Han scrive che «nella società palliativa disimpariamo totalmente come si fa a rendere il dolore raccontabile, anzi cantabile, a renderlo linguaggio, a traghettarlo in una narrazione...». E allora ricordo il culto cristiano dei morti che ho conosciuto non al tempo del suo massimo fulgore ma nemmeno nello stato comatoso odierno, e mi vado a leggere un altro libro Einaudi appena uscito, anzi rieditato, Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino. L' illustre antropologo vi descrisse il lamento funebre lucano, ancora vivo negli anni Cinquanta presso donne analfabete che sapevano trasformare lo strazio in canto. In una società che col dolore sapeva farci i conti.

Vigliacchi d’Italia. Alessandro Butticé, Giornalista, su Il Riformista l'1 Marzo 2021. Da tempo adotto la composizione degli italiani secondo un mio compagno di liceo, oggi valente chirurgo vascolare. Grazie alla quale trovo la spiegazione a buona parte della storia italiana. Almeno quella contemporanea. Il mio compagno di bisbocce liceali, Dottore Giulio Andolfato, divide gli italiani in: un terzo di delinquenti, un terzo di ignavi e un terzo di eroi. Non penso che la maggior parte degli altri paesi del mondo abbiano un numero così elevato di eroi. Ma probabilmente neppure due terzi di delinquenti e ignavi. Tra gli ignavi vi sono i vigliacchi. Che, assieme ai traditori, sono sempre state per me le peggiori categorie umane. Peggiori dei peggiori delinquenti. Che per ragioni professionali ho avuto modo di frequentare e conoscere. E che spesso sono dotati di coraggio e persino capaci di non tradire. Ho quindi molto apprezzato il bell’articolo di Marcello Veneziani, pubblicato ieri sul suo blog, sotto il titolo di “La prevalenza del vigliacco”. Invito a leggerlo perché ce n’è per tutti. Anche se comincia dai magistrati. Chiedendosi: “Come definire quei magistrati che erano al corrente del “sistema” denunciato Luca Palamara nel suo libro intervista con Alessandro Sallusti, conoscevano quei metodi, quei veti, quelle omissioni, quei killeraggi e quelle disparità di trattamento tra compagni da salvare e nemici da sfasciare, avevano la possibilità di fermarli, di denunciarli o almeno dissociarsi ma non lo hanno fatto?” Per darsi subito la risposta: “le definizioni possono essere tante, ma si riassumono in una che non si presta a equivoci: vigliacchi. Sono vigliacchi”. Consiglio di leggerlo. Liberandosi però prima di qualunque connotazione o pregiudizio ideologico, religioso, filosofico, o di casta. Perché ce n’è davvero per tutti. Non solo per i magistrati. Ma anche per storici, accademici, intellettuali, giornalisti e direttori di giornali. Ma anche vescovi, teologi e sacerdoti. Per finire a tutti i luoghi del potere: “da quello più vistoso, il potere politico ai poteri economici, imprenditoriali e finanziari, ai poteri più oscuri, fino al potere scientifico e sanitario”. Visto che vigliacchi e traditori non hanno fede, partito, razza, sesso, grado e professione. O meglio, possono appartenere – e appartengono – a tutti.

La prevalenza del vigliacco. Marcello Veneziani, Panorama n.8 (2021). Come definire quei magistrati che erano al corrente del “sistema” denunciato Luca Palamara nel suo libro intervista con Alessandro Sallusti, conoscevano quei metodi, quei veti, quelle omissioni, quei killeraggi e quelle disparità di trattamento tra compagni da salvare e nemici da sfasciare, avevano la possibilità di fermarli, di denunciarli o almeno dissociarsi ma non lo hanno fatto? Le definizioni possono essere tante, ma si riassumono in una che non si presta a equivoci: vigliacchi. Sono vigliacchi. Come definire quegli storici e accademici che assistono allo scempio continuo della ricerca e della verità, in virtù di leggi liberticide, cancel culture e politically correct, sanno benissimo che la storia andò diversamente rispetto alle verità ufficiali imposte dalla dominazione ideologica; ma pur avendo la possibilità e l’autorevolezza per confutare e denunciare quei misfatti, o perlomeno per dissociarsi, non lo fanno e preferiscono tacere? Anche qui si possono trovare tante definizioni, magari eufemistiche, ma la più adatta resta quella: vigliacchi. Sono vigliacchi. Come definire quegli intellettuali, quei giornalisti, quei direttori di giornali che lasciano alterare la realtà delle cose e la verità di uomini e fatti e vi si conformano, sanno che molti venerati potenti sono palloni gonfiati e tanti battitori liberi sono esclusi e ignorati con le loro tesi e le loro opere solo perché non sono conformi al potere; potrebbero dissociarsi dal sistema ideologico-mafioso, denunciare le storture e dire quel che onestamente pensano e vedono, ma non lo fanno? La risposta non muta, variano le sfumature ma la definizione migliore è ancora quella: vigliacchi. Sono vigliacchi. Come definire quei sacerdoti, quei teologi, quei vescovi che notano la disfatta della loro fede, la ritirata della loro religione dal mondo, il cedimento ad altre religioni e la subordinazione all’ateismo dominante, il disagio dei credenti rispetto a certe posizioni in rottura con la tradizione cattolica e con l’esempio di santi, papi, teologi, ma tacciono, non testimoniano la verità, non hanno il coraggio di dire le cose come stanno e cosa realmente pensano della riduzione socio-umanitaria, mediatica, etico-ecologica, della loro fede? Per dirla col linguaggio aspro della verità come scandalo, la definizione più giusta è ancora la stessa: vigliacchi. Sono vigliacchi. E potrei continuare attraversando tutti i luoghi del potere: da quello più vistoso, il potere politico ai poteri economici, imprenditoriali e finanziari, ai poteri più oscuri, fino al potere scientifico e sanitario. E naturalmente la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Quante omissioni, quante reticenze, quante teste che si girano dall’altra parte, quante viltà. Non stiamo parlando dei disonesti, dei delinquenti, che abusano, falsificano, rubano, violentano la realtà, la verità, il prossimo, commettono crimini, reati e ingiustizie. No, parliamo di coloro che potrebbero fermarli, denunciarli, dissociarsi quantomeno, difendere le loro vittime e i malcapitati; ne hanno i mezzi e ne sono a conoscenza, ma non lo fanno. Arrivo a dire che il male principale della nostra società non sia la pur vasta fauna di malfattori, malviventi o prepotenti che calpestano la vita altrui, i diritti altrui, il bene comune. Ma quanti potrebbero fermarli, denunciarli o quantomeno schierarsi dall’altra parte, e non lo fanno. Per quieto vivere, per non avere fastidi, per salvarsi individualmente, per proseguire indisturbati nella loro carriera, per non mettersi contro e non perdere i vantaggi e i privilegi della situazione, ricavati dalla loro omertà, omissione di soccorso, distrazione…Il rovescio infame della storia italiana, le servitù e le tirannidi subite nei secoli, i cambi di padrone e i tradimenti, le rese disonorevoli, il trasformismo e l’opportunismo cinico che hanno contraddistinto larga parte del nostro popolo e delle nostre classi dominanti (non chiamiamole dirigenti), recano tutte quel marchio d’infamia: il vizio antropologico degli italiani si può riassumere in quell’espressione: sono vigliacchi, senza carattere. Il nostro male storico è la viltà. C’è una storia della vigliaccheria che accompagna come la sua ombra indegna la storia d’Italia. Per ogni disonesto che usa e abusa del suo ruolo, per ogni incapace che assume un ruolo di comando o di prestigio, per ogni mafioso che compie crimini, c’è un vigliacco che non sente o acconsente, non vede, non dice e diventa il suo miglior alleato. Così l’altro prospera indisturbato. Alberto Sordi è stato la maschera più famosa dell’italiano vile.

Perché in questo paese a ogni appuntamento cruciale, a ogni svolta, a ogni cambio di potere, a ogni passaggio storico, c’è sempre qualcosa di indegno, d’indecoroso, di avvilente, di cui proviamo vergogna? Perché non c’è mai dignità nella sconfitta e nelle grandi svolte? Tutti fanno errori, sbagliare è umano, lo dice pure il proverbio; i crimini e misfatti si possono punire ma non si possono estirpare. Ma la malafede dei conniventi, il clima di complicità e di finzione, la capacità di ingoiare e digerire tutto rendono impossibile modificare il loro corso. Una civiltà decade per viltà. È il sistema Italia fondato sulla “prevalenza del vigliacco”, parafrasando un famoso libro di Fruttero e Lucentini dedicato al cretino; è il ruolo decisivo, determinante ed esemplare del vigliacco. Da noi la vigliaccheria oltre che un’indole e una condotta privata, è diventata un sistema a cui conformarsi. Quando i messi di una città insorta andarono da Carlo d’Angiò dicendo che la rivolta fosse “opera di pazzi”, il re rispose: “ma i savi che facevano?” I vigliacchi sono quei “savi”. MV, Panorama n.8 (2021)

·        I “Coglioni”.

ASSIOMA CON INTERCALARE

Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, educato ed istruito, giudicato e curato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. E, comunque, vale il detto: chi comanda detta legge. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuol sentir dire.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Le Mafie ti rovinano la vita. Lo Stato ti distrugge le speranze.

Antonio Giangrande 

Da liberoquotidiano.it l'11 giugno 2021. Un militare 29enne di Klagenfurt è stato condannato a 19 mesi di carcere in Austria. Il motivo? Abbastanza assurdo: si era fatto tatuare una svastica sul testicolo. Ma non è finita qui, perché poi lo ha mostrato ai commilitoni e soprattutto in rete: il tribunale lo ha condannato per aver violato più volte le leggi austriache contro l’apologia del nazismo. Tra l’altro era stato trovato anche in possesso di un’arma detenuta in maniera illegale: il suo avvocato ha annunciato ricorso, non si conosce il nome del militare per le leggi austriache sulla privacy. Pare che il 29enne fosse ubriaco (aveva scolato due bottiglie di whiskey) quando il fratello gli ha tatuato la svastica sullo scroto: poi ha postato la foto online e ha mostrato “l’opera d’arte” ai commilitoni. Pare che anche in quell’occasione fosse ubriaco, dato che lo spiacevole episodio (per gli altri militari) è avvenuto al termine di un’esercitazione. Tra l’altro già in passato il 29enne era stato accusato di aver pubblicato una foto che inneggiava al nazismo mentre si trovava al Cold War bunker museum, dove stava bevendo un vino con la marca di Adolf Hitler. “L’ho solo fatto a causa di una cattiva compagnia - ha provato a giustificarsi il militare davanti al giudice - noi gravitiamo attorno a tutto ciò che non è consentito, ma abbiamo sottostimato enormemente l’errore che abbiamo fatto. Non posso fornire una spiegazione ragionevole per il tatuaggio”.

(ANSA il 9 giugno 2021) C'è un nesso che negli esseri umani lega cervello e testicoli: hanno in comune il maggior numero di proteine rispetto a ogni altro organo. Lo spiegano i ricercatori dell'Università di Aveiro e Porto sulla rivista Royal Society Open Biology, dove descrivono la somiglianza delle proteine nei tessuti. Analizzando le proteine prodotte dalle diverse parti del corpo, hanno visto che è proprio tra quelle di cervello e testicoli che si ha il maggior tasso di somiglianza, ben 13.442. Il che suggerisce che questi due organi condividano il più alto numero di geni rispetto agli altri organi. La maggior parte delle proteine in comune sono coinvolte nello sviluppo del tessuto e nelle comunicazioni. Un risultato che non sorprende, secondo gli studiosi, se si considera che le proteine di cervello e testicoli consumano grandi quantità di "carburante" - uno per elaborare i pensieri, l'altro per produrre milioni di spermatozoi ogni giorno. Le cellule dei testicoli e dei nervi sono inoltre coinvolte nel muovere il materiale creato al loro interno verso l'esterno. Secondo i ricercatori potrebbe esserci una ragione per questa somiglianza nelle loro proteine: precedenti studi hanno infatti mostrato come vi sia un collegamento tra i disturbi cerebrali e le disfunzioni sessuali. Ma per capire meglio le connessioni tra questi due organi, se ve ne sono, serviranno altri studi più approfonditi.

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport l'11 febbraio 2021. Da labiale è diventato virale. Le telecamere lo inchiodano. Andrea Agnelli ha dato del “coglione” a qualcuno e questo “coglione” sarebbe a tutti gli effetti Antonio Conte, un suo ex dipendente. L’aver pronunciato l’insulto con sincera passione non assolve più di tanto il nipote dell’Avvocato. Anzi, secondo alcuni aggrava la sua posizione perché il fuoriuscire di senno non giustifica mai e poi mai il fuoriuscire di stile. “Coglione”, accompagnato da due, meglio se tre, esclamativi, è l’insulto più diffuso nelle zuffe da strada e da stadio. Il più gettonato nelle risse televisive. Alla fine di un Napoli-Inter di qualche anno fa, sempre di coppa Italia, fu Mancini a dare del “vecchio coglione” a Sarri (in questo caso non si sa se più insultante il “vecchio” o il “coglione”), che a sua volta gli aveva dato del “finocchio”. Perché riscuote tanto successo l’insulto “coglione”? Sale facile alla bocca, ha un suono rotondo, un bell’impasto di vocali e consonanti, e arriva come una fucilata. Una sintesi sprezzante e definitiva. Dà piacere a chi lo pronuncia e deprime chi lo subisce. Dipende anche dal tono. “Sei un coglione”, se te lo dice un amico o tua madre fa male ma non troppo, ti fa sentire un coglione amabile e forse anche amato. Se te lo dice un nemico è una sentenza. Diverso è se il “coglione” te lo dici da solo. “Sono un vero coglione”. In questo caso prevale il piacere sottile dell’autofustigazione. Oltre che l’astuto accorgimento di prevenire il nemico. Stiamo parlando del “coglione” singolare perché, se i coglioni sono due, e quasi sempre lo sono, “avere i coglioni” è un fior di complimento. Indica un’attitudine guerriera. E qui la faccenda si complica. Uno che “ha i coglioni” potrebbe a sua volta essere un “coglione”? Direi di sì. I casi si sprecano. Molti uomini cazzuti (per restare all’apparato genitale maschile) risultano tali per via di una modesta percezione della realtà, sono cioè, obiettivamente, dei coglioni. I coglioni, chi li ha, designano il duro, chi non li ha, il vigliacco. Ma non è così semplice. I coglioni possono essere molto ferrigni, ma anche molto fragili. Si rompono facilmente. Chiedere in giro, anche alle signore che non esitano spesso a farli propri nell’uso gergale, quando ci vuole. “Mi stai sui coglioni” è, invece, una rude sintesi che utilizza i genitali maschili per spiegare al prossimo che non sei nelle sue grazie. C’è poi il “coglioncello”. Il diminutivo in questo caso, a mio avviso, aggrava l’offesa. Nel senso che non ce la fai nemmeno ad essere un coglione. “Coglionazzo” è forse il peggiore di tutti, aggiungendo uno spregiativo che confessa la volontà d’infierire. Ma, dove l’insulto si fa davvero sanguinoso è quando lo accompagni con un aggettivo. “Sei un autentico coglione” o “un perfetto coglione”. O, peggio ancora, “sei un patetico coglione”.  Una combinazione che può risultare micidiale. Molto più di “sei un emerito coglione”, che sa quasi di ammirazione. C’è poi un’accezione più malinconica, quella del “ti sei rincoglionito”, a indicare il  decadimento palese delle tue facoltà cerebrali. Per cui, si dà il caso che un rincoglionito possa essere un coglione che in gioventù ha avuto i coglioni e, ora che la vita non è più sopportabile, non vede l’ora di togliersi dai coglioni. C’è chi dice che il coglione è come il diamante, è per sempre. Una cosa è certa. Chiunque di noi è stato un coglione almeno una volta, agli occhi di qualcuno che, ai nostri occhi, è un vero coglione. Se non lo pensano, ipotesi remotissima, prima o poi lo penseranno. Per capirci, se Antonio Conte è un coglione per Andrea Agnelli, è probabile che sia vero anche il contrario. Non se ne esce. Siamo tutti dei coglioni per qualcun altro che, a sua volta, è un coglione per noi. La conclusione è una sola: è un mondo di coglioni. Il che non è, necessariamente, un male. Da coglione, non sarai mai solo.

·        Il perdono.

Cosa accade quando perdoniamo qualcuno? Imparare a perdonare significa liberarsi di emozioni negative quali ansia, rabbia, tristezza e odio. Ecco come imparare a liberarsi dalle emozioni negative attraverso l'accettazione di sé e degli altri. Maria Girardi, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. Con il termine "perdono" si indica un cambiamento prosociale verso un altro soggetto colpevole di aver arrecato un danno fisico oppure morale. Questa modifica di atteggiamento implica non solo una riduzione dei sentimenti negativi provati verso l'autore del torto, ma anche in un incremento di emozioni positive che potrebbero tradursi nell'adozione di nuovi comportamenti nei suoi confronti. "Tutti affermano che il perdono è un'idea stupenda fino a che non hanno loro stessi qualcosa da perdonare", diceva C.S. Lewis. Secondo lo psicologo e psicoterapeuta Giuseppe Iannone, quando non perdoniamo, le emozioni negative relazionate a tale circostanza si installano dentro di noi fino ad incrinare diversi ambiti della quotidianità. Imparare l'arte del perdono, tuttavia, è possibile. Solo in questo modo, infatti, si potrà allentare la tensione e allontanare tutte le spiacevoli conseguenze che essa inevitabilmente porta con sé.

Perdono, perché è così difficile concederlo. Ciascuno di noi, dopo aver subito un torto, si ritrova a scegliere tra vendetta, indifferenza o perdono. «Nell'immaginario collettivo - spiega Iannone -perdonare significa riappacificarsi con l'aggressore, dimenticare il danno subito e addirittura provare nuovamente affetto e comprensione nei confronti di chi ci ha feriti». Ma perché è così difficile compiere questo passo? A ostacolare il perdono concorrono diversi fattori. Tale atto è più difficile per le persone che lo equiparano alla riconciliazione. La rabbia poi, incentivando il desiderio di vendetta, lo rende pressoché impossibile. Da non dimenticare, poi, il rimuginio conseguente all'offesa, ovvero il tentativo intrapreso dalla vittima di comprendere l'accaduto e di individuare le intenzioni dell'aggressore. Con il passare del tempo, però, il continuo rimescolio dei pensieri perpetua nella vittima le emozioni negative, riattiva la sofferenza e rafforza i giudizi di avversione. Anche la gravità del torto modula la capacità di perdonare. Più esso è pesante, più difficile sarà concedere il perdono. Quest'ultimo, infine, è strettamente connesso con le caratteristiche individuali della vittima. L'amicalità, ad esempio, predispone alla riconciliazione con l'altro. Evento questo molto più raro in caso di manifestazioni di nevroticismo e di depressione.

Imparare il perdono. Varie ricerche hanno dimostrato come, attraverso percorsi di formazione specifici, sia possibile sviluppare una maggiore inclinazione al perdono, ma non si sa ancora se la stessa sia persistente nel tempo. Sicuramente una certa tendenza a perdonare è plasmata dall'ambiente familiare dove i figli, al pari di spugne, tendono ad assorbire e a far propri gli atteggiamenti dei genitori. Altri studi, invece, ritengono che tale predisposizione sia innata e che si sia evoluta come mezzo utile per riparare e salvaguardare i rapporti più stretti e importanti. È opportuno tenere a mente che perdonare non significa giustificare l'offesa ricevuta o riconciliarsi con il colpevole. In questa accezione, dunque, il perdono consiste nella rinuncia alla vendetta e al risentimento. Ma come si può imparare a lasciar andare? Innanzitutto è fondamentale separare il danno dall'offesa e controllare le proprie reazioni di paura e di ostilità. Per far ciò risulta indispensabile abbracciare una buona dose di umiltà, qualità questa che consente di prendere atto dell'insondabilità dei moventi umani. Non è un caso, infatti, che i narcisisti risultino incapaci di perdonare, in quanto assai vulnerabili alle offese altrui. Il torto va, dunque, reinterpretato alla luce di una migliore comprensione delle motivazioni dell'aggressore, della sua storia personale e dei condizionamenti esterni del suo comportamento. Ciò significa, in poche parole, dar voce alla compassione.

Quali sono gli effetti del perdono? Nel momento in cui non si concede il perdono, si resta intrappolati in uno stato di vittimismo che rende la vittima dipendente dall'autore del torto. L'atto del perdonare si traduce nel raggiungimento di un maggiore benessere sia fisico che psichico. In chi lo compie si assiste ad una riduzione della depressione, dello stress, della stanchezza e della solitudine. Inoltre la pressione arteriosa si abbassa e il sistema immunitario e quello endocrino diventano più forti. Sul piano mentale il perdono consente di liberarsi da emozioni negative come la rabbia, l'ostilità, l'odio, la tristezza, l'ansia che tendono a monopolizzare la psiche di chi ha subito un'offesa. «Siamo umani - conclude Iannone - e in quanto tali sbagliamo ogni giorno. L'errore è un evento insito nella natura delle nostre azioni. Il perdono è allora necessario per consentire alla vita di proseguire. Anche perché spesso siamo noi i primi ad averne bisogno».

Melania Rizzoli per "Libero Quotidiano" il 4 luglio 2020. Definire il perdono non è semplice, perché si tratta di un complesso fenomeno affettivo, cognitivo e comportamentale nel quale le emozioni negative e il giudizio verso il colpevole vengono volutamente ridotti, ed è un processo nel quale la vittima sceglie volontariamente di ampliare il senso di comprensione e di porsi in una posizione diversa od opposta rispetto a quella istintiva vendicativa. Molto spesso alcuni atteggiamenti vengono percepiti come affronti od atti di disprezzo quando in realtà si tratta di un semplice disaccordo o malinteso, ma non tutte le persone sono disposte a perdonare, ritenendo ciò un atto di debolezza anziché di forza e di coraggio, per cui restano avviluppate in uno stato emotivo tossico e intrappolate in un concentrato di infelicità e stress cronico. Il perdono può essere definito "emotivo" quando si attiva una trasformazione delle emozioni negative, quali ostilità e rabbia, in positive quali compassione o empatia, con un calo della motivazione di rivalsa, ma assume anche un aspetto "decisionale" che coinvolge quello cognitivo, quando il soggetto violato decide di controllare i propri comportamenti impulsivi e deviarli rispetto a quelli motivazionali interpersonali che in un primo momento vorrebbe mettere in atto per vendicarsi. La capacità di perdonare però non è un sentimento comune, e soprattutto non si mantiene stabile negli anni, perché in ognuno di noi cambia nel corso della vita e si diversifica a seconda del momento vissuto. Per alcuni, per esempio, è possibile perdonare solo dopo aver ottenuto vendetta, ovvero dopo una restituzione del torto subìto, per altri invece esso avviene quando insistono regole morali, religiose o sociali che creano pressione psicologica e condizionano il soggetto nel modo di reagire ad un'ingiustizia, senza dimenticare coloro che perdonano a prescindere, per esprimere o sottolineare il proprio amore incondizionato. La capacità di perdonare non significa dimenticare il torto o minimizzare l'esperienza, e non si riferisce solo a quel comportamento di compassione o benevolenza riservato al trasgressore, ma riguarda anche l'atteggiamento che una persona può avere verso se stessa, qualora sia la responsabile di un'azione dannosa verso altri e necessiti di liberarsi di un peso morale.

FONTE DI TRASGRESSIONE. Bisogna infatti distinguere il perdono in relazione alla fonte di trasgressione, perché se è vero che si può essere vittima di un torto, è anche vero che si può essere responsabili di aver contribuito a provocarlo più o meno intenzionalmente, e quando ci si sente colpevoli del proprio vissuto il perdono deve essere rivolto soprattutto verso se stessi. Succede spesso di arrecare dolore ad altri in modo non intenzionale ed avvertire poi sensi di colpa, vergogna, rammarico od imbarazzo per l'ostilità provocata, e secondo alcuni studi queste due forme di perdono sarebbero strettamente connesse in quanto l'incapacità di perdonare gli altri sarebbe legata ad una effettiva incapacità di perdonare se stessi. A prescindere dalla fonte del perdono comunque, diversi studi scientifici hanno messo in evidenza i suoi effetti sulla salute sia fisica che mentale, e l'interesse della psicologia per il perdono é aumentata negli anni, parallelamente all'evidenza di una stretta relazione tra perdono e benessere psicologico. Saper perdonare infatti, riducendo la spirale di emozioni negative che intervengono quando si subisce un torto, significa ridurre la ruminazione, il rancore, la rabbia e tutte quelle emozioni deleterie che non aiutano a superare l'evento negativo, ma al contrario contribuiscono a peggiorare la propria salute psico-fisica. Ovviamene non tutti sono disposti a perdonare, perché la clemenza può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia e il desiderio di punizione della persona che ha perpetrato l'offesa. Chi é capace di perdonare, chi elabora in modo non negativo un torto subìto, per la psichiatria è associato a minori livelli di depressione e di ansia, di ideazione paranoidi, di psicoticismo o di senso di inferiorità ed inadeguatezza. Chi non riesce a perdonare ed a superare il dolore connesso infatti, in realtà non vuole evitare la ruminazione ossessiva dell'evento accaduto, una strategia questa di fronteggiamento dello stress maladattivo con cui convive, che si associa sempre alla incapacità di perdonare se stessi, si accompagna ad una tendenza depressiva, ad una alienazione sociale o peggio ad una costruzione fittizia di un super-io sproporzionato alle effettive capacità psicologiche, sociali e culturali, con una ipervalutazione di se stessi ed un perfezionismo che in realtà celano gravi carenze dell'accettazione di sè e l'incapacità ad autoperdonarsi o considerarsi imperfetti.

LO DICE LA SCIENZA. Inoltre l'incapacità di clemenza oltre a mostrare danni sul benessere psicologico ha effetti negativi anche su quello fisico, poiché é dimostrato scientificamente che le emozioni negative quale rabbia, ostilità e risentimento influiscono gravemente sulla salute, aumentando la pressione sanguigna e di conseguenza l'incidenza di disturbi cardio-vascolari, quali ipertensione e malattie coronariche, patologie riscontrate con evidenza nelle persone accumunate da un aspetto caratteriale caratterizzato da ostilità liberamente fluttuante e duratura. L'incapacità di perdonare comporta anche un cambiamento nella qualità del sonno, poiché la ruminazione ossessiva, manifesta o repressa, compromette lo stato di salute generale, diurno e soprattutto notturno, il quale può favorire uno stato depressivo profondo, in conseguenza dei sentimenti di perdita e di tristezza provati e non superati. E se da un lato cercare di empatizzare ed essere benevoli non è sempre facile in determinate situazioni per superare l'ingiustizia e interrompere il circolo vizioso del rancore, dall'altro non è altrettanto facile cambiare prospettiva, guardare la situazione con distacco, accettare di essere imperfetti, e riconoscere che nella vita si possono commettere errori. Nessuno può provocare in noi sofferenza senza il nostro consenso, e visto che non si può tornare indietro quando un fatto è già accaduto, é sempre meglio accettare la propria vulnerabilità, togliere spazio al risentimento ed usare clemenza, per acquisire la capacità di perdonare anche se stessi. Ps: Clementia, nella mitologia romana, era la dea del perdono e della misericordia.

·        I Social.

Dagotraduzione da The Telegraph il 21 ottobre 2021. Gli utenti cinesi di Internet hanno perso una delle ultime vie di accesso alle notizie: l'app Yahoo Finance è scomparsa dall’Apple Store proprio mentre il Partito Comunista sta intensificando la censura sulle informazioni dall'estero. L'app Yahoo ripubblica notizie da media stranieri, tra cui anche testate bloccate in Cina come Bloomberg o Reuters, e i dati del mercato azionario. In questo modo gli utenti sono riusciti ad aggirare i divieti di censura ufficiali, il che deve aver attirato l’ira delle autorità cinesi. La repressione di Pechino sui contenuti stranieri e l'influenza in Cina ha colpito tutto, dai programmi delle scuole private alle canzoni dei bar karaoke. I censori del governo cinese hanno sempre controllato strettamente le notizie e le informazioni, bloccando l'accesso a siti Web di media stranieri e reti di social media, come BBC, New York Times, Facebook, Google e Twitter. «Di recente Apple ha rimosso molte app su richiesta delle autorità cinesi», ha detto Benjamin Ismail, direttore del progetto presso Apple Censorship, un'organizzazione che tiene traccia di quali app sono disponibili e dove. «Ma rispettare gli ordini dei governi è diverso dal rispettare la legge, specialmente in Cina, dove le autorità ricorrono spesso a mezzi extralegali per imbavagliare la stampa, i blogger, gli attivisti o qualsiasi voce di dissenso». Non è chiaro chi abbia rimosso l’appp, se Yahoo o Apple. Yahoo non ha risposto a una richiesta di commento, mentre Apple non ha commentato. Prima che l’app Yahoo scomparisse, Bloomberg aveva pubblicato un articolo sulla repressione della Cina nei confronti dell’industria tecnologica. Il pezzo spiegava in dettaglio come Apple fosse riuscita finora a rimanere in amicizia con Pechino, anche rimuovendo le app mobili su richiesta delle autorità. Nelle ultime settimane, almeno altre nove app che offrono agli utenti materiale religioso – testi, preghiere, interpretazioni e podcast – sono state rimosse dall'app store di Apple nella Cina continentale. Tra le app interessate ci sono Quran Majeed, Olive Tree Bible, Holy Bible King James e il Regno dei Testimoni di Geova. Il Quran Majeed è popolare tra milioni di musulmani in tutto il mondo e, secondo quanto riferito, è stato vietato a causa di "contenuti illegali". Il suo sviluppatore, Pakistan Data Management Services, non ha risposto a una richiesta di commento. Olive Tree Bible ha spiegato che durante una revisione era stato chiesto di «fornire un permesso» che dimostrasse che era autorizzato a distribuire l’app nella Cina continentale.  La società ha scelto di rimuovere l'app, e sta lavorando per ottenere le approvazioni necessarie. Impossibile raggiungere gli sviluppatori elencati per le altre app religiose. «Questa casualità è in realtà una strategia... della censura delle autorità cinesi», ha affermato Ismail. «Questa linea rossa è in costante movimento e ogni giorno puoi scoprire di aver attraversato la linea senza rendertene conto». Anche una manciata di giochi per cellulari a tema natalizio sono stati rimossi dall'app store cinese di Apple. Il Partito Comunista, ufficialmente ateo, ha condotto una campagna contro la religione, abbattendo croci, chiudendo moschee e imponendo che le immagini del leader Xi Jinping vengano esposte nei templi buddisti e nelle chiese cristiane. Il Telegraph ha verificato in modo indipendente che queste app non sono più disponibili per gli utenti Apple nella Cina continentale. La scorsa settimana, il servizio di networking professionale LinkedIn ha dichiarato che avrebbe chiuso la versione del suo sito disponibile in Cina poiché «stava affrontando un ambiente operativo significativamente più impegnativo e maggiori requisiti di conformità in Cina». LinkedIn, di proprietà di Microsoft, è stato uno degli ultimi social network stranieri ad aver operato apertamente in Cina. Recentemente è stata criticata per aver censurato alcuni profili, tra cui quelli di giornalisti del Telegraph, per contenuti considerati proibiti dalle autorità cinesi.

(ANSA il 21 ottobre 2021) - Donald Trump ha annunciato il lancio di una nuova piattaforma social. Si chiamerà 'Truth', verità. In un comunicato si legge come il nuovo social, la cui proprietà sarà chiamata Trump Media and Tecnolgy Group (Tmtg), dovrebbe vedere la luce il prossimo mese. "Ho creato Truth Social per combattere la tirannia di Big Tech", afferma l'ex presidente Usa in un comunicato. "Viviamo in un mondo dove i talebani hanno una enorme presenza su Twitter, mentre ancora il vostro presidente preferito viene silenziato. Questo è inaccettabile!", aggiunge Trump che per le affermazioni fatte prima e dopo il 6 gennaio, il giorno dell'assalto al Congresso americano, è stato temporaneamente bandito sia da Twitter che da Facebook. L'annuncio secondo alcuni osservatori rafforza l'ipotesi di una candidatura di Trump alle presidenziali Usa del 2024.

Valeria Robecco per "il Giornale" il 22 ottobre 2021. Donald Trump scalda i motori verso il 2024 e lancia il suo nuovo social. Si chiamerà Truth, «Verità», la verità per combattere la tirannia dei Big Tech. Già nei mesi scorsi, dopo essere stato sospeso in maniera permanente da Twitter, e per due anni da Facebook (in seguito alle sue affermazioni riguardo l'assalto al Congresso del 6 gennaio), aveva promesso che avrebbe aperto una nuova piattaforma. Ora il momento è arrivato, e diversi osservatori interpretano la mossa come un ulteriore segnale che il tycoon è pronto a tornare nell'arena politica per tentare di riprendersi la Casa Bianca. «Ho creato Truth Social per combattere la tirannia di Big Tech - fa sapere The Donald - Viviamo in un mondo dove i talebani hanno una enorme presenza su Twitter, mentre ancora il vostro presidente preferito viene silenziato. Questo è inaccettabile». Il nuovo social, la cui proprietà sarà chiamata Trump Media and Tecnology Group (Tmtg), dovrebbe vedere la luce il prossimo mese con un avvio pilota solo «ad inviti», secondo un comunicato del gruppo, e il lancio vero e proprio per il pubblico sarebbe nel primo trimestre del prossimo anno. Intanto, Truth è già disponibile per il pre-ordine nell'App Store di Apple. «Sono emozionato all'idea di lanciare la mia prima verità su Truth social molto presto», aggiunge l'ex Comandante in Capo, spiegando che il Trump Media & Technology Group è stato «fondato con la missione di dare una voce a tutti»: «Tutti mi chiedono, perché qualcuno non si erge contro i Big Tech? Noi lo faremo presto». Tmtg - si legge nella nota - intende poi lanciare un servizio di video-on-demand su abbonamento. Un'operazione valutata 875 milioni di dollari.

Articolo di "El Pais" - dalla rassegna stampa estera di "Epr comunicazione" il 21 ottobre 2021. L'ex presidente degli Stati Uniti, escluso dalle principali piattaforme, valuta la possibilità di candidarsi nel 2024. Donald Trump – leggiamo su El Pais - sta cercando un modo per tornare in prima linea nel fuoco dei media dopo l'espulsione dalle grandi piattaforme. L'ex presidente repubblicano ha annunciato mercoledì sera il lancio di una nuova media company quotata in borsa, così come un nuovo social network chiamato Truth Social, con la missione, secondo la dichiarazione, "di creare un rivale al consorzio dei media progressisti e combattere contro i giganti tecnologici della Silicon Valley, che hanno usato il loro potere unilaterale per opporsi alle voci negli Stati Uniti". Nel frattempo, il repubblicano sta ancora riflettendo sulla possibilità di candidarsi alla presidenza nel 2024. La nuova società, chiamata Trump Media & Technology, andrebbe avanti attraverso una fusione con Digital World Acquisition Corp, una società veicolo di acquisizione a scopo speciale che vende azioni al pubblico ed è già scambiata sul Nasdaq, l'indice azionario statunitense per le grandi tecnologie. L'accordo è ancora in attesa di approvazione normativa. L'imprenditore immobiliare stava esplorando le possibilità di creare una propria piattaforma da quando ha lasciato la Casa Bianca. Google, Facebook e Twitter hanno deciso di chiudere i suoi account dopo l'assalto al Campidoglio da parte di un gruppo di suoi sostenitori a gennaio, così come le bufale che stava diffondendo su presunti brogli elettorali nelle elezioni presidenziali del 2020, e la presenza pubblica dell'ex presidente è crollata. Le sue dichiarazioni, anche se altrettanto vulcaniche come i suoi messaggi su Twitter, non hanno più grande impatto. Su Facebook, Twitter, Reddit e Pinterest, le menzioni dell'ex presidente sono crollate di ben il 95 per cento tra gennaio e l'inizio di giugno, secondo il monitoraggio condotto dal Washington Post. All'inizio di maggio ha lanciato un blog personale, ma ha avuto poco successo personale e ha chiuso un mese dopo. Ora torna ai suoi affari con gli occhi puntati sull'arena politica, ancora convinto del suo potere sul Partito Repubblicano e sulla base. Non ha ancora confermato se correrà o meno nel 2024 per cercare di tornare alla Casa Bianca, ma lo ha accennato in diverse occasioni, e ha pianificato di lanciare il proprio apparato mediatico fin dall'inizio. Secondo il New York Times, è entrato in funzione a Miami un mese dopo la sconfitta elettorale di Trump, che sta per compiere un anno, ed è entrato in borsa in primavera, raccogliendo 283 milioni di dollari.

Facebook, un decennio tra scandali e scuse ipocrite. Atlas, Cambridge Analytica, i Facebook Papers. Di fronte alle accuse il social network ha adottato due strategie: promesse (non sempre mantenute) o appello alla libertà di parola. Eugenio Occorsio su L'Espresso il 3 novembre 2021. «Scusi, signor Zuckerberg, lei in quale albergo ha dormito stanotte?», chiede l’anziano senatore democratico Richard Durbin. Il fondatore di Facebook, che ha 40 anni meno di lui, sgrana gli occhi, non capisce che sta per cadere nella trappola e afferma stupito: «Ma perché volete saperlo?». Ecco la chiave, risponde il navigato politico dell’Illinois, «vede perché la privacy è importante?». Aula della commissione commercio del Senato Usa, 10 aprile 2018. È la prima avvisaglia dei Facebook Papers portati alla luce in questi giorni. In discussione è lo scandalo Cambridge Analytica, con i dati personali di 87 milioni di cittadini americani e britannici (nelle varie fasi dell’inchiesta poi il numero scese a 50 milioni) sono stati ceduti illegalmente da Facebook (evidentemente a pagamento) a questa società dal nome roboante, in realtà una startup californiana creata da un miliardario conservatore, Robert Mercer, e da Steve Bannon, allora braccio destro di Donald Trump e poi coinvolto in avventure rocambolesche come la scuola di sovranismo nell’abbazia di Trisulti, progetto poi rigettato perfino da Matteo Salvini che ne doveva essere il portabandiera. Ma in quel momento la macchina da guerra Zuckerberg-Mercer-Bannon viaggiava a mille. I dati erano estrapolati dai like, dai ristoranti, dalle confidenze, dalle faccine “emoji”, dalle fidanzate, dai viaggi, dai libri, insomma da tutto quello che incoscientemente postano su Facebook centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Sulla base di essi, con l’aiuto dello psicologo russo Aleksandr Kogan, veterano del Kgb e intimo di Putin, veniva predisposto un messaggio elettorale personalizzato, infarcito di fake news e veicolato ovviamente via Facebook. Gli analisti politici sono sicuri che questo giochetto abbia avuto un ruolo importante sia nell’elezione di Trump nel novembre 2016 che nel referendum sulla Brexit pochi mesi prima. Zuckerberg, con la formula delle “scuse solenni” al Congresso, evitò il processo ma non la multa da 5 miliardi per violazione della privacy alla Federal Trade Commission, cui si aggiunsero 500mila sterline appioppate dall’Information Commissioner di Londra. Gli bastò la lezione? Macché: solo un mese dopo il New York Times rivelò che Facebook aveva ceduto senza consenso ai produttori di smartphone i dati personali degli utenti, perché Apple, Samsung e gli altri potessero predisporre con efficacia l’accesso alla app. Ennesime scuse, accompagnate da una motivazione pasticciata: «La domanda di accesso a Facebook superava la capacità di sviluppare versioni del prodotto che funzionassero su ogni telefonino. Perciò abbiamo lavorato insieme ai produttori per garantire che tutti avessero accesso al social». Chissà. Sono dieci anni che “Zuck” entra e esce da aule giudiziarie, sedi di authority, parlamenti. La prima volta che ammise di aver mentito promettendo agli utenti il rispetto della privacy, fu il 29 novembre 2011 di fronte alla Federal Trade Commission. Da lì una litania di controversie, alcune tecniche (come l’uso arbitrario di dati tratti dai servizi di messaggistica del gruppo), altre clamorose: nel 2019 vennero scoperti i numeri di telefono di 200 milioni di “amici” su un database aperto a chiunque, l’anno dopo mezzo milione di pacchetti di dati riservati apparve su un cloud Amazon, e così via con security breaches in tutto il mondo. Zuckerberg a volte si è scusato o ha detto di essere inconsapevole, sempre però ha dato prova di spregiudicatezza: nel 2016 lanciò il progetto Atlas promettendo 20 dollari a ogni utente fra i 13 e i 35 anni che avesse ceduto i suoi dati personali, nel 2020 propose l’Off-Facebook Activity che permetteva agli utenti di condividere le iniziative al di là del network: quali altre app usava, quali acquisti faceva e così via. Roba al limite della legge. E così arriviamo ai Facebook Papers, di gran lunga lo scandalo più grave. Li ha rivelati per primo il Wall Street Journal, il cui team investigativo è candidato al Pulitzer 2022 (la scadenza delle proposte era il 15 ottobre come pubblicato… su Facebook). Zuckerberg e i suoi collaboratori discutevano con un mantra: siamo per la «cultura aperta» (il Ceo la chiama così) e anche se ci rendiamo conto della pericolosità o dell’immoralità di certi messaggi, lasciamo correre perché ci fruttano audience, pubblicità, soldi. Così, centinaia di messaggi di odio, razzismo, omofobia, sono riusciti a filtrare nel network, compresi gli incitamenti all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio (con l’aggravante di aver contribuito con la sua pervasività all’aumento del numero e alla violenza dei manifestanti), fino ai “post” che si scambiavano i guerriglieri in Etiopia per coordinare le azioni o i ricchi sauditi alla ricerca di qualche colf filippina (attività per la quale si ipotizza il reato di traffico di esseri umani). Tutte le accuse venivano registrate, discusse e il più delle volte ignorate, anche le più sordide come quelle riguardanti l’effetto tossico sugli adolescenti di certe immagini su Instagram (stesso gruppo) che proponevano modelli inquietanti di bellezza o bullismo (in passato Facebook era stato perfino accusato di ospitare le chat dei terroristi jihadisti ma almeno in questo caso sembra che sia riuscito a fare pulizia). In tutto, oltre 10mila file riservati che la dirigente dimissionaria (per protesta) Frances Haugen ha ora consegnato alla Sec, la Consob americana. Stavolta lo scandalo è così grave che nulla potrà restare come prima: anche se la società cambia nome, e Zuckeberg si dimette, bisogna rivedere il modello di business, improntandolo all’etica, alla misura, soprattutto alla sincerità: il fondatore ha insistito fino all’ultimo che aveva 2,7 miliardi di sottoscrittori quando questo, osservano gli analisti, significherebbe quasi uno ogni due abitanti della Terra compresi i nomadi Kuci dell’Afghanistan, i pigmei del Congo, i samburu del Kenia, gli indios amazzonici e poi neonati e vecchi di ogni latitudine. Basta aprire il network per vedere che ogni pizzeria, centro estetico, parrocchia, gruppo d’opinione, società sportiva, ha il suo bravo account. E quindi le persone fisiche coinvolte sono molte di meno.

Federico Rampini per il “Corriere della Sera” l'8 novembre 2021. Mark Zuckerberg aveva vent' anni quando nel pensionato universitario di Harvard immaginò il social network. Era il 2004, non esistevano ancora gli smartphone. Pochi lo presero sul serio. Tre miliardi di utenti dopo, Zuckerberg ha una nuova visione. Cambia nome a Facebook che diventa Meta (dal greco «oltre»), sdoppia la sua creatura, e punta a dominare il mondo del futuro: la realtà virtuale. «Metaverse» è l'universo-oltre. Ce lo descrive come «un luogo dove giocare, comprare beni virtuali, collezionare arte virtuale, trascorrere il tempo libero con i sosia virtuali (avatar) degli altri, e partecipare a riunioni di lavoro sempre virtuali». L'annuncio coincide con una grave crisi d'immagine di Facebook, bombardata di accuse per non aver vigilato abbastanza contro fake news, ideologie violente, aggressioni e odio che dilagano sul social media. Nelle rivelazioni che intitola Facebook Files, il Wall Street Journal riferisce anche di uno studio interno all'azienda secondo cui «un utente su otto fa un uso compulsivo del social media con effetti sul sonno, il lavoro, i rapporti con i figli o le relazioni sociali». Sui media americani un coro di scettici ha liquidato la metamorfosi come un trucco per distogliere l'attenzione dalle polemiche. Però sulla realtà virtuale il 37enne miliardario più famoso del pianeta aveva già messo al lavoro da tempo diecimila ingegneri. Ora ne assumerà altrettanti (gran parte in Europa), e investirà dieci miliardi di dollari. Facebook stava già conducendo una campagna acquisti in questo settore, assicurandosi il controllo di molte startup innovative. Una occupazione del territorio, in vista della prossima rivoluzione digitale? «Realtà virtuale»: immaginarne l'espansione evoca una distopia post Covid, un mondo asettico che cancella ogni contatto fisico. O magari una utopia ambientalista che elimini ogni mobilità fisica per azzerare le emissioni carboniche. In alcuni scenari estremi affiora la pulsione verso qualche forma di immortalità: trasferendo caratteri e funzioni ai nostri avatar, riusciremo a custodire in queste creature virtuali ciò che il deperimento fisico distrugge? La fantascienza gioca con queste visioni da decenni. Di fatto la tecnologia che crea un ambiente virtuale è già onnipresente. Un avatar (termine preso in prestito dall'incarnazione delle divinità induiste), è la rappresentazione grafica di noi stessi, proiettata nel mondo digitale. Architetti e costruttori fanno ampio ricorso a un mondo virtuale per progettare edifici. I militari combattono guerre simulate, wargame . Le applicazioni della realtà virtuale alla cura dell'Alzheimer sono in corso da anni. Il cinema sostituisce comparse e figuranti con dei sosia grafici (costano meno) e il film ibrido «Avatar» (regia di James Cameron, 2009) appartiene alla preistoria di questo genere. Las Vegas ha inaugurato i concerti «live» di Whitney Houston, in scena si esibisce l'ologramma tridimensionale della cantante morta nove anni fa. Per gli appassionati di videogame incarnarsi nella propria identità digitale è parte del gioco. Il boom delle criptovalute che non hanno incarnazione materiale, asseconda lo sviluppo di un universo parallelo a quello fisico. La banalizzazione della realtà virtuale è a portata di mano nel commercio: per acquistare abbigliamento e calzature online, faremo provare i prodotti al nostro avatar, che ha le nostre misure fisiche. In America i consumatori Millennial hanno imparato a decidere l'acquisto di un mobile, un arredo, una cucina, simulandone il montaggio dentro la copia virtuale della propria abitazione. Una ricerca compiuta in Germania elenca settori pronti ad essere trasformati dalla realtà virtuale: commercio, manifattura (in particolare l'industria dell'auto), servizi informatici, spettacoli, istruzione. A scuola si può immaginare un corso di storia in cui i ragazzi manovrano i loro sosia digitali in una replica dell'antica Roma; imparano la geografia grazie ai loro avatar che viaggiano virtualmente. Per adesso vediamo frammenti sparsi di quello che potrà diventare un meta-universo onnicomprensivo. Zuckerberg vuole comporre il mosaico intero, e padroneggiarne gli accessi. Quando Zuckerberg esalta il Nuovo Mondo dove potremo lavorare, fare acquisti, giocare come in quello reale», sorvola sui rischi. La sua Meta incontrerà gli stessi problemi di Facebook. Come tutelare la privacy e la sicurezza dei dati. Se la realtà virtuale diventa un luogo di fuga, un videogame moltiplicato all'infinito, fino a risucchiare buona parte delle nostre vite, altri pericoli balzeranno in primo piano: come i danni alla salute mentale. Il fondatore di Facebook si concentra sulle opportunità. Nella costruzione di questo nuovo ecosistema, di questo Internet parallelo, può venderci già una parte dell'hardware, strumenti ottici come l'headset Oculus per farci trasportare nella realtà virtuale. Sotto la denominazione Meta potrebbero nascere presto negozi fisici che venderanno apparecchi ottici elaborati dalla divisione Reality Labs, per assuefarci a frequentare l'universo «oltre». Zuckerberg assegna a Meta una missione strategica: fermare l'esodo dei giovani, problema esistenziale che affligge Facebook. Proiettato verso il successo iniziale da adolescenti e ventenni, oggi il social media vive su un pubblico sempre più maturo mentre le nuove generazioni migrano verso TikTok, Snapchat. Un'altra chiave di lettura dietro la nascita di Meta è tecnologica. Oggi il social media dipende da piattaforme digitali concorrenti, cioè Apple per gli iPhone e il software Android per tutto l'ecosistema Google. Si è visto il prezzo di questa dipendenza: quando Apple ha cambiato le regole sulla privacy, ha limitato la capacità di Facebook di raccogliere dati sugli utenti. Invitandoci dentro la realtà virtuale, Zuckerberg ci sposta nell'universo di cui vuole controllare standard tecnici e coordinate. Il suo business principale resta la pubblicità (98% del fatturato) e la realtà virtuale è un nuovo spazio per la vendita. Né si può escludere una mossa difensiva verso l'antitrust. La sinistra democratica è favorevole a uno smembramento dei colossi digitali. Zuckerberg ha già sdoppiato il suo. La critica prevalente liquida Meta come una fuga in avanti dettata dalla strategia di relazioni pubbliche. Frances Haugen, ex manager del social media, è la fonte di una valanga di rivelazioni. Al centro c'è la débâcle di Zuckerberg nella prevenzione di false notizie e aggressioni. I sistemi di intelligenza artificiale usati a questo fine hanno funzionato poco e male. Facebook ha investito col contagocce in questo campo, la manodopera umana che ha adibito a vigilanza e censura sui contenuti è insufficiente. «Ha dato la priorità ai profitti rispetto alla sicurezza delle persone e del Paese», è l'accusa risuonata nelle audizioni al Congresso. Ma uno studioso di social media, Nicholas Carr, prende le distanze dall'ossessione sul loro ruolo nella lacerazione della società: è illusorio attribuirgli il compito di disciplinare il discorso pubblico, quando l'America ha perso il senso del bene comune. Un altro autore che analizza la polarizzazione culturale, David French, ricorda che gli americani non ebbero bisogno dei social per massacrarsi fra loro durante la guerra civile o per spaccarsi nelle contese valoriali degli anni Sessanta. In quanto al sogno di traghettarci dentro un meta-universo virtuale, l'esperta di tecnologie del New York Times , Shira Ovide, invita a non sottovalutarlo: «Nell'indovinare il futuro, Zuckerberg ha già avuto ragione una volta».

Un business che è solo all'inizio. Cosa è il Metaverso di Zuckerberg, superlavoro e controllo dati. Vittorio Ferla su Il Riformista il 16 Novembre 2021. È tutto pronto per l’economia del “Metaverso”? La domanda ha qualcosa di letterario: il termine, infatti, fu coniato per la prima volta dallo scrittore di fantascienza Neal Stephenson nel suo romanzo del 1992 Snow Crash. Oggi il metaverso comincia a diventare qualcosa di molto concreto dopo che Mark Zuckerberg, amministratore delegato di Facebook, ha annunciato il mese scorso il cambio del nome dell’azienda in Meta. E ha assicurato che «il metaverso raggiungerà un miliardo di persone in un decennio, creando milioni di posti di lavoro». In sostanza, il metaverso immaginato da Zuckerberg è un mondo di infinite comunità virtuali interconnesse in cui le persone possono incontrarsi, lavorare e giocare, utilizzando visori per realtà virtuale, occhiali per realtà aumentata, app per smartphone o altri dispositivi. Secondo Victoria Petrock, analista di Insider Intelligence, esperta di tecnologie emergenti, il metaverso incorporerà anche altri aspetti della vita online come lo shopping e i social media. «È la prossima evoluzione della connettività in cui tutte le attività iniziano a riunirsi in un universo senza soluzione di continuità né alter ego – spiega Petrock – nel quale vivi la tua vita virtuale nello stesso modo in cui stai vivendo la tua vita fisica». In pratica sarà possibile seguire un concerto virtuale, fare un viaggio online, visualizzare o creare opere d’arte e provare o acquistare abbigliamento “digitale”. Ma il grande cambiamento – già avviato dalla pandemia – è quello del lavoro da casa: il metaverso potrebbe rendere permanente questa modalità di lavoro creando uffici virtuali nei quali riunire i dipendenti. Proprio Facebook ha lanciato un software per riunioni aziendali, chiamato Horizon Workrooms, da utilizzare con i suoi visori Oculus: le cuffie costano 300 dollari e sembrano una grande occasione di business. Anche Microsoft, subito all’inseguimento del rivale, ha definito piani per introdurre i 250 milioni di utenti del suo software Teams nel metaverso. Entrambe le società promettono di mettere gli utenti nelle condizioni di creare avatar, o cartoni animati di se stessi, capaci di muoversi liberamente tra diversi mondi virtuali. Per i lavoratori, ciò significa partecipare a riunioni, uscire casualmente con i colleghi o visitare i “gemelli digitali” di uffici e fabbriche del mondo reale. Microsoft ha affermato che nella prima metà del prossimo anno, gli utenti di Teams potranno comparire come avatar nelle riunioni online a cui già partecipano. Jared Spataro, capo di Teams, prevede che avere le video chat di gruppo «riempita da personaggi dei cartoni animati che ti parlano non sembrerà fuori luogo». Secondo gli esperti c’è però una differenza tra gli approcci dei due giganti tecnologici. Facebook, con la app Horizon Workrooms, è passato direttamente alla realtà virtuale: gli utenti sono rappresentati da avatar simili a cartoni animati e la tecnologia audio spaziale fa sì che gli utenti ascoltino gli altri nella stanza in base a dove appaiono seduti nello spazio immaginario e condiviso. Microsoft ha scelto un approccio più graduale e può contare sul fatto che 250 milioni di persone usano Teams almeno una volta al mese (Facebook è fermo a 7 milioni di utenti paganti): questi fatti lo rendono per i lavoratori il luogo più probabile in cui sperimentare la nuova tecnologia. Ma quale sarà l’impatto reale di queste trasformazioni? È vero che, specie durante la pandemia, mescolare avatar e volti reali nelle riunioni di gruppo è stato un modo simpatico e intelligente per favorire l’interazione tra i colleghi. Ma, in futuro, le persone accetteranno le nuove forme di lavoro virtuale? E le troveranno appaganti? Come ha detto Peter Barrett, un venture capitalist che ha investito nella realtà aumentata, «accumulare diversi tipi di interazione digitale sui lavoratori dopo le tensioni della pandemia potrebbe non compensare ciò che si è perso nell’interazione umana». Interagire con gli altri su Zoom può essere comodo ma, alla lunga, può portare all’esaurimento. «Vogliamo stare con gli altri esseri umani», avverte Barrett. Inoltre, gli stessi strumenti che, durante la pandemia, hanno favorito la liberazione del tempo e la maggiore autonomia dei lavoratori potrebbero produrre alla lunga l’effetto contrario. Come spiega Sarah Roberts, professore associato presso l’Università della California a Los Angeles, «se la giornata tipo dei lavoratori da remoto trascorresse in versioni virtuali degli uffici che hanno lasciato, ciò annullerebbe il senso di controllo che molti hanno riacquistato sulla loro vita lavorativa». Insomma, la replica virtuale di conferenze e riunioni costanti si trasformerebbe in una forma di nuovo controllo. La reimposizione di questi punti cardine della vita d’ufficio mostra «una richiesta da parte dei dirigenti di mantenere il controllo sulla classe operaia e sulle loro attività», avverte la Roberts. Ma sulla testa degli utenti pende ancora un’altra minaccia. La possibilità di creare gli alter-ego digitali che le persone probabilmente porteranno con sé nelle loro vite lavorative parallele è un enorme business per le aziende. Come avverte Tom Wheeler, ex presidente della Federal Communications Commission degli Stati Uniti e membro del Brookings Institution, «se diventerà il luogo in cui molte persone creano i propri avatar personali, Facebook potrà utilizzare queste nuove identità digitali per tenere traccia dei dati personali mentre gli utenti si spostano attraverso altri metaversi». Un esito che non lascia dormire sonni tranquilli: Facebook potrebbe avere accesso a un numero ancora più ampio di dati personali, proprio nel momento in cui, in patria, deve difendersi dall’accusa di non essere riuscito a fermare – o di aver attivamente stimolato – la pericolosa proliferazione in rete di una serie di derive che vanno dalla semplice disinformazione al complottismo fino addirittura al terrorismo. Inoltre, in futuro, i dispositivi necessari per l’ingresso nel metaverso potrebbero assomigliare sempre più, dal punto di vista commerciale, agli smartphone di nuova generazione. In questo modo anche l’hardware – cioè l’insieme di questi supporti tecnologici – diventerà, da un lato, una occasione di business, e, dall’altro, una opportunità per le aziende di creare – e governare – l’ecosistema digitale. Ma il metaverso non può essere vissuto semplicemente come una minaccia. Come accade in tutti i nuovi mercati, all’istinto monopolistico del primo arrivato si oppone la pressione di tutti gli altri concorrenti. In altre parole, il metaverso non è – e non potrà restare – solo un progetto di Facebook. Qualche esempio? Epic Games, la società che produce il popolare videogioco Fortnite, ha raccolto un miliardo di dollari dagli investitori per la costruzione del suo metaverso. La piattaforma di gioco Roblox, stranota tra i giovanissimi, già dal 2004 ha puntato alla creazione del suo mondo virtuale nel quale “le persone possono incontrarsi all’interno di milioni di esperienze 3D per imparare, lavorare, giocare, creare e socializzare”. Lo sa bene la casa di moda italiana Gucci che, nel giugno scorso, ha collaborato con Roblox per vendere una collezione di accessori esclusivamente digitali a un prezzo maggiorato. Anche Coca-Cola e Clinique hanno venduto token digitali come trampolino di lancio verso il metaverso. «Pensiamo che ci saranno molte aziende che costruiranno mondi e ambienti virtuali nel metaverso, allo stesso modo in cui molte aziende hanno fatto sul World Wide Web», garantisce Richard Kerris, vicepresidente della piattaforma Omniverse di Nvidia. «È importante essere aperti ed estensibili, per consentire all’utente di teletrasportarsi in mondi diversi, indipendentemente dall’azienda che offre il servizio, allo stesso modo in cui si va da una pagina web a un’altra pagina web». Insomma, man mano che aumenterà il traffico nel metaverso sarà sempre più necessario condividere gli spazi dove gli utenti comprano, vendono e scambiano. Ecco perché la settimana scorsa Microsoft e Meta hanno trovato un accordo per far comunicare le piattaforme Workplace e Teams. E siamo solo all’inizio. Vittorio Ferla

Facebook o Meta, l’impero di Mark Zuckerberg si fonda sempre sulla manipolazione. Simone Pieranni su L'Espresso il 3 novembre 2021. Capitalizzazione di dati, interazione forzata. Le denunce dei whistleblower svelano, ancora una volta, le basi su cui si fonda il colosso. Dovreste immaginarvi un impero di nome Facebook, con il suo imperatore di nome Mark Zuckerberg. C’è anche un’ampia popolazione che oggi percorre il suo territorio: circa 2,9 miliardi di persone. Nell’impero i commercianti hanno riversato, solo nella prima metà del 2021, 54 miliardi di dollari. L’imperatore è ancora abbastanza giovane: Zuckerberg ha 37 anni, ha creato questo mondo parecchi anni fa, quando ancora era uno studente con già uno spiccato senso della conquista. Insieme a lui a governare questo vasto territorio c’è Sheryl Sandberg (classe 1969), arrivata direttamente da un’altra galassia di nome Google, con il carico di conoscenze su come estrarre ricchezza dagli utenti, cioè i dati. Nel corso della sua storia, Facebook ha dovuto affrontare parecchi problemi considerando la sua capacità di acquisire altri territori, conquistare colonie, ad esempio con prodotti come FreeBasic, app che collegano a Internet gratuitamente ma solo su contenuti voluti da sua maestà Mark, diventando il principale mezzo di informazione di molti Paesi, immaginare addirittura un metaverso, un nuovo universo composto da realtà aumentata, progetto futuristico responsabile anche del cambio di nome annunciato da Facebook. Per questo è incorso in alcuni momenti drammatici, come nel 2019 quando Amnesty international ha definito il suo modello di business «basato sulla sorveglianza» lesivo della privacy e «una minaccia di carattere sistemico per una serie di altri diritti tra i quali la libertà di opinione ed espressione, la libertà di pensiero e i diritti all’uguaglianza e alla non discriminazione». Secondo Shoshana Zuboff, autrice del bestseller “Capitalismo di sorveglianza” (Luiss university press, 2018) e professoressa emerita alla Harvard business school, «l’economia del capitalismo di sorveglianza ha generato il ciclope estrattivo, trasformando Facebook in un colosso pubblicitario e un campo di sterminio per la verità». Facebook è infatti un regime autoritario, che secondo i suoi detrattori non amerebbe affatto la verità. Per Adrienne LaFrance, giornalista di The Atlantic, addirittura Facebook andrebbe considerata come una «potenza straniera ostile». Qualche settimana fa, il 4 ottobre, l’impero si è spento: come in quelle foto della Corea del Nord dove il Paese appare avvolto dal buio, mentre la Corea del Sud appare come un luna park pieno di luci, Facebook era improvvisamente sparito e di fronte a lui brillavano Twitter e le altre piattaforme rimaste in piedi. Qualche ora di blocco totale che ha consegnato a Zuckerberg un bagno di sangue economico. L’interruzione di Internet, causata, secondo l’azienda, da modifiche ai sistemi interni, è costata al social 6 miliardi di dollari in poche ore. Perché Facebook ha un imperativo prima di tutto: raccogliere dati, più dati possibile, in ogni modo possibile. E per farlo ha bisogno che la sua popolazione sia sempre lì, sul territorio, a discutere, leggere, guardare, spiare e commentare, regalando tutti i particolari più significativi agli astuti inserzionisti che finanziano il sistema autocratico di Zuckerberg. Ma non solo, perché lo spegnimento è avvenuto tra due eventi che hanno aumentato le perdite per l’impero: due ex dipendenti ne hanno infatti denunciato la brama per i dati e i soldi, senza alcun rispetto per la sicurezza degli utenti. Prima è toccato a Frances Haugen, ex product manager. Per mesi ha fornito anonimamente documenti interni al Wall Street Journal, poi ha testimoniato davanti al Congresso degli Stati Uniti, sottolineando che «nessuno comprende veramente le pratiche distruttive fatte da Facebook tranne Facebook»; eppure «le scelte che vengono fatte all’interno di Facebook sono disastrose, per i nostri figli, per la nostra sicurezza pubblica, per la nostra privacy e per la nostra democrazia». In particolare Haugen si è riferita a Instagram, sottolineando l’esistenza di documenti che testimonierebbero la seria dipendenza da social da parte dei giovani. Secondo documenti visionati dal New York Times il 17 ottobre, Instagram sarebbe ossessionata dalla necessità di conquistare un pubblico adolescente. Come ha sottolineato giustamente Axios, sito giornalistico americano fondato da ex reporter di Politico e Washington Post, Haugen non ha solo fornito le prove ma ha anche indicato come andrebbero usate: «Ha chiesto una maggiore trasparenza nelle operazioni di Facebook; la formazione di un’efficace agenzia di vigilanza e interventi per ridurre la diffusione della disinformazione, come richiedere agli utenti di fare clic sui collegamenti prima di condividerli». Qualche giorno dopo è stata un’altra ex dipendente, Sonia Zhang, licenziata da Facebook per scarsa efficienza, a mettersi a disposizione del Congresso dopo aver passato al Guardian, nell’aprile 2021, importanti documenti che testimoniano un’altra tendenza di Facebook: lasciare correre clamorose manipolazioni dell’opinione pubblica in diversi Paesi. Il Guardian ha visionato un’ampia documentazione interna che mostra come Facebook abbia gestito «più di 30 casi in 25 Paesi di comportamenti politicamente manipolativi». I documenti mostrano «come Facebook abbia consentito gravi abusi della sua piattaforma in Paesi poveri, piccoli e non occidentali. La società ha agito rapidamente per affrontare la manipolazione politica che ha colpito paesi come Stati Uniti, Taiwan, Corea del Sud e Polonia, mentre si muoveva lentamente o per niente sui casi in Afghanistan, Iraq, Mongolia, Messico e gran parte dell’America Latina». Infine The Intercept ha reso note le liste di individui e organizzazioni proibite per il social: «Una chiara incarnazione delle ansie, delle preoccupazioni politiche e dei valori della politica estera americani post 11/9. Quasi tutti nella lista sono considerati un nemico o una minaccia dall’America o dai suoi alleati: oltre la metà è costituita da presunti terroristi stranieri, la cui libera discussione è soggetta alla più dura censura di Facebook». Le conseguenze di queste rivelazioni di whistleblower sono state pesanti per Zuckerberg: man mano che le storie di Haugen e Zhang si diffondevano, Facebook ha perso oltre il 12 per cento del suo valore, pari a oltre 100 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. Come è possibile che sia avvenuto tutto questo? Secondo Sheera Frenkel e Cecilia Kang, autrici di uno dei migliori libri scritti sul fenomeno di Menlo Park, “Facebook: l’inchiesta finale” (Einaudi, 2021), non si tratterebbe di un programma sfuggito al controllo di un nerd, ma tutto sarebbe avvenuto all’interno di un piano ben congegnato. Anzi di un’attitudine, quella anarcocapitalista della Silicon Valley, da cui l’imperatore si sarebbe abbeverato per applicare poi una logica cannibale e spietata con i propri competitors. Si tratta delle «filosofie di imprenditori come Peter Thiel, il cofondatore di PayPal, che aveva investito 500.000 dollari in Thefacebook (uno dei primi nomi del social, ndr), nell’agosto 2004, e Marc Andreessen, cofondatore di Netscape. Come due degli uomini più potenti della Silicon Valley, hanno fatto molto di più che creare e investire in nuove start-up: hanno plasmato l’ethos di ciò che significava essere un ingegnere tecnologico. Quell’ideologia era radicata in una versione di libertarismo che abbracciava l’innovazione e il libero mercato e disprezzava l’eccessiva portata del governo e dei regolamenti. Al centro c’era la credenza nell’autonomia individuale, ispirata da filosofi e scrittori come John Stuart Mill e Ayn Rand, e la loro difesa del razionalismo e dello scetticismo verso l’autorità. Gli obiettivi trainanti erano il progresso e i profitti». L’algoritmo di Facebook, registra Adrienne LaFrance, guida inesorabilmente gli utenti «verso materiale meno sfumato e più estremo, perché è ciò che suscita in modo più efficiente una reazione. Gli utenti sono implicitamente addestrati a cercare reazioni a ciò che pubblicano, il che perpetua il ciclo. I dirigenti di Facebook hanno tollerato la promozione sulla loro piattaforma di propaganda, reclutamento terroristico e genocidio. Indicano virtù democratiche come la libertà di parola per difendersi, mentre smantellano la stessa democrazia». Zuboff fa rientrare le attività di Facebook, e non solo, all’interno di un «colpo di stato epistemico» partito con Trump ma che a quanto pare non è ancora concluso. I social interverrebbero nel processo in quanto portatori «dall’amplificazione algoritmica guidata dal profitto, dalla disseminazione e dal microtargeting di informazioni corrotte, in gran parte prodotte da schemi coordinati di disinformazione». Particolarmente rilevante dunque, che al termine della settimana terribile di ottobre Facebook abbia lanciato un nuovo progetto, Ego4D, per la realtà aumentata e il processo meta-imperialista di Facebook: ci ha abituato a percepire la realtà per come più conveniva ai suoi interessi economici e ora pare pronto ad allontanarci da essa. Per planare, ancora una volta, su uno dei suoi progetti autocratici.

Da repubblica.it il 14 novembre 2021. Capelli con frangetta cortissima, pelle chiara, occhi azzurri. E un nome - Zack Mossbergsson - che non lascia dubbi: l'uomo che apre questo spot realizzato dall'ente del turismo islandese si ispira al Fondatore di Facebook. Proprio il metaverso recentemente presentato da Zuckerberg - un mondo virtuale in cui connettere avatar digitali - viene demolito con ironia e con le meraviglie naturali che l'Islanda può offrire: altro che mondi digitali, non c'è niente di più reale dell'"Islandverse".

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 14 novembre 2021. Be’, decidetevi, o il metaverso di Zuckerberg (un mondo virtuale ri-creato su internet dove si sposterà ogni forma di attività sociale, ricreativa, comunicativa, contemplativa, artistica, ludica) è una cosa buona e giusta sulla quale investire per creare un futuro luminoso e splendido e tecnologico e smart e alla moda, e allora dovete smetterla di considerare gli hikikomori (persone che si recludono affidando ogni forma di attività sociale, ricreativa, comunicativa, contemplativa, artistica e ludica al mondo virtuale ri-creato su internet) come malati di mente, oppure siete tutti pazzi e state creando un mondo di pazzi. Delle due l’una e tertium non datur. Perché qui, signori miei, sta venendo a galla una verità: le città sono orribili, vi abitano gli schiavi, e le vecchie “forme” per rendere accettabile una vita in questi campi di concentramento (“arbeit macht frei”), ossia design, musei, architettura, restaurant, sale da the, sale da ballo, bordelli, commercio, neon, piazze, parchi, ottoni, mise, palestre, saune, parquet, cinema, teatri, pasticcerie, non reggono più la botta, e neanche i nuovi passatempo, ossia smartphone, videogiochi, facebook, grindr, tinder, tik-tok, netflix e via discorrendo, a breve, non basteranno più a nascondere la lampante realtà che abitate in box di cemento, ossia garage, e che ogni “lusso” serve solo a dare una patina di ritinteggiata ai vostri box, ai vostri canili diciamo, che chiamate casa.

Lo so: la vita vera è difficile, doversi confrontare ogni giorno con faccende tipo l’alba, il movimento dei pianeti, l’assurda e (quasi) incomprensibile esistenza stessa della materia (“perché c’è la materia e non il nulla?”), la vostra nascita e la vostra morte. Ma chi ve lo fa fare? L’esistenza cosiddetta “cittadina”, una sorta di “metaverso” a bassa tecnologia, non è altro che un eremitaggio senza contemplazione, una non-vita – Lo dico o non lo dico? Lo dico: la via occidentale al Nirvana. Lavoro e distrazione, consumo e metaverso, la superficie che si fa personalità (l’avatar), sono mirati alla cancellazione di ogni pensiero, di ogni domanda. Ma qui sta il trucco: questa forma di suicidio in vita, di sogno (o incubo) che mira a sostituirsi alla insopportabile realtà, non è creata ad arte da un qualche potere forte, ma dall’hikikomori stesso, cioè da voi, che siete già hikikomori senza saperlo. Non dico che non ci sia qualcuno che ne approfitta, ma l’entusiasmante adesione a questo vostro annullamento la date voi stessi, che avete intravisto la vita e ne siete fuggiti urlando. Stranamente, nell’attuale confusione del linguaggio, in un’epoca dove avete perso la capacità di nominare le cose, chiamate “eremiti” coloro che si rintanano in una grotta, in una capanna di legno in riva a un fiume, ma mentre questi hanno gli occhi spalancati su questa natura e su tutto ciò che la precede, la segue e la oltrepassa, voi vi limitate a sognare i sogni sognati da un altro. 

Da “ANSA” il 26 ottobre 2021. Facebook, a partire dal prossimo trimestre, divulgherà separatamente i risultati finanziari dei Facebook Reality Labs, che finora erano integrati con quelli delle altre app del gruppo. I Labs si occupano dei progetti più innovativi di Facebook, come il “metaverso”, Ia nuova piattaforma su cui la società punta per il futuro. "Ciò fornirà agli investitori ulteriore visibilità sugli investimenti che stiamo facendo nella realtà aumentata e virtuale" scrive Mark Zuckerberg in un post. "Nel 2021, prevediamo che questi investimenti ridurranno il nostro utile operativo complessivo di circa 10 miliardi di dollari e mi aspetto che la cifra cresca ulteriormente nei prossimi anni. Si tratta di una delle principali aree di investimento per noi e una parte importante della nostra strategia". Oltre alla creazione del metaverso, la divisione già produce alcuni dispositivi, come il visore Oculus Quest e la linea di speaker Portal. In generale, i ricavi di Facebook si sono attestati a 29,01 miliardi di dollari nell'ultima rilevazione trimestrale, contro i 21,47 miliardi di dollari dello stesso periodo del 2020. Una cifra inferiore ai 29,57 miliardi di dollari attesi dagli analisti. Facebook ha anche comunicato di attendersi un fatturato compreso tra 31,5 e 34 miliardi di dollari nel quarto trimestre, contro i 34,84 miliardi di dollari stimati dal mercato. Nonostante le difficoltà, il gruppo fondato e guidato da Mark Zuckerberg ha visto gli utili salire del 17% a 9,1 miliardi di dollari. Una spinta ai guadagni potrebbe arrivare dai Reels, le clip in stile TikTok che, secondo Zuckerberg, rappresentano il principale motore di crescita per la pubblicità su Instagram.  "I Reels sono incredibilmente divertenti e penso che ci sia un enorme potenziale davanti. Ci aspettiamo che il segmento continui a crescere e sono ottimista sul fatto che diventeranno importanti per i nostri prodotti al pari delle Storie" ha concluso il Ceo. 

Ricorda l'infinito. Perché Facebook diventa Meta, che vuol dire il nuovo nome del social di Mark Zuckerberg. Riccardo Annibali su Il Riformista il 28 Ottobre 2021. Il futuro è oggi. Il Ceo di Facebook Mark Zuckerberg ha ufficializzato il cambio di nome della popolare piattaforma social che da oggi si chiamerà Meta. “Siamo all’inizio del prossimo capitolo di internet e del prossimo capitolo della nostra società”, ha aggiunto spiegando che “Facebook è uno dei prodotti più usati nella storia. È un marchio icona fra i social media ma sempre di più non include tutto quello che facciamo. Voglio ancorare il nostro lavoro e la nostra identità a quello che costruiamo andando avanti”. Il nome oltre a cercare di cancellare i problemi con le varie agenzie regolatrici e far dimenticare le polemiche sulle rivelazioni dei Facebook Papers, mostra la volontà dell’azienda di guardare al metaverso. Con lo stesso Zuckerberg che annuncia solo nel finale la rivoluzione: “C’è un’altra cosa di cui voglio parlare con voi oggi”, ha detto dopo aver parlato per oltre un’ora. E ha presentando Meta, “nome che deriva dal greco e che significa dopo, al di là“. La nuova realtà di Facebook include Instagram, Messenger, Quest VR, la piattaforma Horizon VR e molto altro: “Siamo visti come un social media ma nel nostro dna siamo una società che costruisce tecnologia per connettere le persone. Mi auguro che nel tempo saremo visti come una società di metaverso”, ha messo in evidenza Zuckerberg, prevedendo che proprio il metaverso raggiungerà un miliardo di persone nel prossimo decennio. Sarà un posto dove la gente potrà interagire, lavorare e creare prodotti e contenuti in un nuovo ecosistema che potrebbe creare milioni di posti di lavoro per i creatori. “Siamo all’inizio del prossimo capitolo di internet e del prossimo capitolo della nostra società”, ha aggiunto Zuckerberg, spiegando che “Facebook è uno dei prodotti più usati nella storia. È un marchio icona fra i social media ma sempre di più non include tutto quello che facciamo. Voglio ancorare il nostro lavoro e la nostra identità a quello che costruiamo andando avanti”. La decisione era stata anticipata la settimana scorsa dal sito di tecnologia The Verge, secondo cui il nuovo nome avrebbe riflettuto “l’attenzione della società sulla costruzione del metaverso”: parlando in videoconferenza, Zuckerberg ha detto che il nome attuale “non può più rappresentare tutto quello che stiamo facendo oggi, tantomeno quello che faremo in futuro” e ha aggiunto di voler “ancorare il lavoro e l’identità (dell’azienda ndr.) a quello che sta costruendo”. Quello che cambia è soltanto il nome della società che controlla le piattaforme, mentre il social network continuerà a chiamarsi Facebook. Nella videoconferenza è stato anche presentato il logo di Meta: è azzurro come quello di Facebook e ricorda il simbolo dell’infinito. La decisione di Facebook è arrivata a pochi giorni di distanza dalla diffusione di numerosi documenti interni forniti a vari giornali americani dalla whistleblower ed ex dipendente dell’azienda Frances Haugen. I documenti, chiamati ‘Facebook Papers’, amplificano e raccontano nel dettaglio i fallimenti della dirigenza di Facebook nel contenere la disinformazione e l’incitamento all’odio e alla violenza sulla piattaforma, a volte per carenza di mezzi tecnici, e a volte per non danneggiare i profitti che derivano dall’attività delle persone su Facebook. Riccardo Annibali

Bruno Ruffilli per "la Stampa" il 21 ottobre 2021. Il social network dietro le spalle, il metaverso davanti. E un cambio di nome, a segnare per Facebook un taglio netto col passato: il momento della svolta potrebbe essere Connect, l'appuntamento annuale dove vengono presentate le novità per la realtà virtuale e la realtà aumentata. Ma il recente annuncio di 10 mila assunzioni solo in Europa per lo sviluppo del metaverso è già un segno chiarissimo del nuovo corso, oltre che una mossa strategica per Facebook: «Mark Zuckerberg cerca di mettere da parte i problemi che non ha saputo risolvere con Facebook e spostare l'attenzione del pubblico e dei legislatori su una piattaforma tutta nuova», osserva Carolina Milanesi, analista di Creative Strategies. «Gli serve un marchio che gli dia credito com' era per Facebook all'inizio». Già, perché nei 17 anni di vita del social network, gli ultimi sono stati piuttosto burrascosi: dallo scandalo di Cambridge Analytica nel 2018 all'uso politico della piattaforma, dalle ripetute accuse di violazione della privacy alla diffusione di fake news, dalle indagini dell'Antitrust dai due lati dell'Oceano Atlantico fino alle rivelazioni di Frances Haugen, l'ex dirigente che ha raccontato ai media come negli uffici di Menlo Park l'unica regola sempre rispettata sia quella del profitto. Eppure gli iscritti di Facebook non sono mai diminuiti (oggi sono circa 2,9 miliardi in tutto il mondo), né le azioni hanno fatto segnare cali di rilievo. Anzi, se Zuckerberg ha passato gli ultimi quattro anni a chiedere scusa pubblicamente, da qualche tempo pare più deciso a controbattere ad accuse e critiche. Due anni fa Facebook cambiò logo, distinguendo quello del gruppo che include Instagram, WhatsApp, Oculus, Messenger e altre app (in maiuscolo e nei colori dell'arcobaleno) da quello del social network, che rimase blu come all'inizio. Fra una settimana potrebbe succedere di nuovo, ma stavolta ci sarebbe anche un nome diverso, e in Rete molti pensano che possa essere "Horizon", già comparso in diversi prodotti legati al metaverso, come la piattaforma di collaborazione professionale Horizon Workrooms, dove i vari membri interagiscono tra loro sotto forma di avatar digitali. «Se il metaverso avrà successo non ci ricorderemo più né delle facce né del libro», commenta Milanesi. Per Zuckerberg il metaverso è un insieme di spazi virtuali dove creare ed esplorare con altre persone che si trovano in luoghi fisici diversi. Il termine è stato coniato nel 1992 dallo scrittore cyberpunk Neal Stephenson per descrivere un mondo virtuale dove le persone trovano rifugio da quello reale, pieno di illusioni e violenze. Che però, nel suo "Snow Crash", lo rendono più simile al Facebook di oggi che alla Second Life di 10 anni fa. Ma tutto il mondo dei social network come lo conosciamo sta cambiando. Cresce a dismisura TikTok, e con esso ByteDance, l'azienda cinese che lo controlla. Pinterest da piattaforma per condividere spunti e idee potrebbe diventare una grande vetrina di acquisti controllata da PayPal (che pare pronta a offrire 39 miliardi di dollari). E cambia Instagram, che da oggi permetterà di creare post anche sul web, permettendo di fare a meno dell'app mobile: con la pandemia sempre più utenti hanno messo da parte lo smartphone e sono tornati al computer, così anche il social network delle immagini e dei video si adegua. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 ottobre 2021. Secondo un’indagine della Bbc, le piattaforme dei social media promuovono, nei confronti degli utenti che già mostrano ostilità nei confronti delle donne, contenuti misogini e violenti. La giornalista Marianna Spring, nella sua inchiesta andata in onda sul canale inglese, ha creato su Instagram e Facebook il profilo, falso, di un uomo di nome “Barry”. Con i like, i commenti e i video visualizzati, è riuscita a creare un’impronta digitale per Barry simile a quella dei troll che la prendono di mira frequentemente sui social. «Come i mie troll, Barry è principalmente interessato ai contenuti anti-vax e alle teorie del complotto, e segue una piccola quantità di contenuti anti-donne» ha raccontato. «Barry ha anche pubblicato alcuni post vietati sul suo profilo, in modo che gli algoritmi potessero rilevare fin dall’inizio che l’account utilizzava linguaggio offensivo sulle donne». Passata una settimana, le pagine che venivano proposte a Barry sia su Facebook che su Instagram erano quasi tutte ostili alle donne. Alla fine dell’esperimento, il profilo ha ricevuto sempre più contenuti misogeni da questi siti, un aumento significativo rispetto a quando l’account era stato creato. Alcuni di questi contenuti riguardavano la violenza sessuale, la condivisione di meme inquietanti su atti sessuali e contenuti che giustificavano stupri, molestie e violenza di genere. L’esperta di social media, Chloe Colliver, dell'Institute for Strategic Dialogue, e consulente dell’inchiesta, spiega: «Sono le piattaforme stesse ad aver inviato a Barry la maggior parte di questi contenuti, selezionandoli, curandoli». «Quindi, se questo fosse il profilo di una persona reale, sarebbe stato portato dentro a comunità piene di odio e contenuti misogeni in sole due settimane». Una ricerca del Center for Countering Digital Hare ha mostrato come il 97% degli account che pubblicano contenuti misogini su Twitter e Instagram restino sul sito anche dopo essere stati segnalati. Ricercatori del think tank Demos hanno analizzato più di 90.000 post e commenti negativi diretti ai concorrenti di due reality show di quest'anno - Love Island e Married At First Sight UK - e hanno scoperto che le donne hanno ricevuto molto più odio degli uomini. L'abuso è stato ancora più pronunciato nei confronti delle donne di colore. La star di Love Island Kaz Kamwi, 26 anni, ha detto al programma: «L'abuso più difficile da ricevere è quello che ha motivazioni razziali. Quando mi guardi, sono una donna di colore dalla pelle scura, è la prima cosa che vedi». «Il mio Instagram, quello è il mio posto di lavoro. Nessuno entra in ufficio e trova persone che urlano insulti contro di loro, vero?» Kaz spiega. «Allora perché non dovrebbe essere la stessa cosa sul mio Instagram?». La sorella di Kaz, Banji, ha monitorato gli account sui social media della fashion blogger mentre era nella villa. Sebbene la maggior parte dei commenti fosse positiva, c'erano anche molti abusi. Dice che l'odio era così forte in certi momenti, che ha pubblicato un messaggio chiedendo alla gente di fermarsi: «Era troppo da sopportare». Anche la studentessa di medicina Priya Gopaldas, 23 anni, ha ricevuto insulti di genere e odio razzista: «Ho ricevuto parole lanciate contro di me - merda, w *** e - quel tipo di parole che un uomo sicuramente non avrebbe ricevuto». Ellen Judson, ricercatrice senior di Demos, ha dichiarato: «La gente usa insulti esplicitamente di genere: le donne sono manipolatrici, le donne sono subdole, sessuali, cattive o stupide mentre gli uomini vengono attaccati perché apparentemente non abbastanza mascolini, per essere troppo deboli. Vediamo anche che le concorrenti che sono donne di colore stanno ricevendo attacchi più perniciosi in base alla loro razza». Facebook, che possiede anche Instagram, ha detto alla BBC che cerca di non raccomandare contenuti che infrangono le sue regole e sta migliorando la sua tecnologia «per trovare e rimuovere gli abusi più rapidamente». Ha anche appena annunciato nuove misure per contrastare l'odio sessuale rivolto a giornalisti, politici e celebrità.

Da leggo.it il 24 ottobre 2021. Le autorità statunitensi avrebbero ricevuto nuovi documenti compromettenti su Facebook, i cui vertici sono accusati di aver ignorato diversi allarmi, giunti dai dipendenti, sulla diffusione incontrollata di messaggi d'odio e di 'bufale', specialmente nel periodo di campagna elettorale prima delle presidenziali di novembre 2020. Le nuove accuse mosse contro Facebook sono in linea con quelle rivolte da Frances Haugen, la gola profonda ex dipendente della società che ha testimoniato anche al Congresso americano. Il social - è il j'accuse della seconda talpa - ha più volte rifiutato di applicare a Donald Trump e ai suoi alleati le regole di sicurezza vigenti per tutti gli 'amici' di Facebook temendo di farli infuriare e, di conseguenza, pagarne un prezzo in termini di crescita ridotta. In una dichiarazione giurata, la nuova gola profonda ha raccontato poi come Tucker Bounds, funzionario della comunicazione del colosso di Menlo Park, minimizzò nel 2017 i timori sul ruolo della piattaforma nelle elezioni del 2016 in merito alle interferenze russe. «È un fuoco di paglia. Alcuni legislatori si arrabbieranno ma in poche settimane si concentreranno su altro mentre Facebook macina soldi», disse Bounds, ora vicepresidente della comunicazione del social. L'episodio è solo uno dei molti documentati nelle centinaia di pagine consegnate alle autorità americane. Le nuove carte rivelano come molti all'interno del social avevano lanciato l'allarme sulla crescente disinformazione sulla piattaforma, soprattutto dopo il voto del 2020 con il diffondersi del movimento 'Stop the Steal'. I dati raccolti da un dipendente di Facebook avevano infatti rivelato come nella settimana successiva alle elezioni americane il 10% dei contenuti politici visti negli Stati Uniti altro non erano che post su frodi elettorali. Dati allarmanti in seguito ai quali non c'è stata alcuna azione da parte della società. Non solo. La documentazione mostra come spesso gli algoritmi di Facebook abbiano orientato gli utenti verso gruppi estremisti, spingendo i dipendenti a lanciare l'allarme. I loro avvertimenti sono però stati deliberatamente ignorati dai manager. Il trend era stato documentato da uno studio condotto da una ricercatrice della società che aveva creato un falso profilo 'Carol Smith', una donna conservatrice che fra i suoi interessi aveva inserito Fox News e Trump. Nell'arco di due giorni l'algoritmo di Facebook raccomandò a 'Carol Smith' di entrare in gruppi affiliati alla teoria cospirazionista di QAnon. L'attacco al Congresso del 6 gennaio è stato poi l'episodio che più ha irritato i dipendenti di Facebook, uno dei quali ha parlato espressamente nella chat interna di «abdicazione della responsabilità» da parte del social, colpevole secondo l'accusa di aver smantellato troppo rapidamente le reti di protezione allestite per le elezioni. Per Zuckerberg i nuovi attacchi sembrano indicare come l'annunciata revisione del logo e del nome della sua creatura potrebbe non essere sufficiente per far dimenticare le magagne e aprire un nuovo capitolo.

Zuckerberg difende Facebook: "Sforzo coordinato per dare falsa immagine dell'azienda". Rai News il 26 ottobre 2021. "Le critiche in buona fede ci aiutano a migliorare, ma la opinione è che stiamo assistendo ad uno sforzo coordinato di usare un modo selettivo dei documenti trapelati per dipingere una falsa immagine della nostra azienda": lo ha dichiarato il Ceo di Facebook, Mark Zuckerbeg, commentando l'ultima ondata di "Facebook files". "La verità è che abbiano una cultura aperta che incoraggia la discussione e la ricerca sul nostro lavoro in modo da poter fare progressi su molte complesse questioni che non sono specifiche solo della nostra compagnia", ha concluso Zuckerberg. I documenti testimoniano alcune delle più importanti difficoltà cui deve far fronte Facebook, fra cui la battaglia per regolare le disinformazioni e l'incitamento all'odio o l'utilizzo della piattaforma social da parte dei trafficanti di esseri umani. Malgrado le polemiche i risultati della trimestrale si sono rivelati tutto sommato positivi: ad un lieve calo dei ricavi rispetto alla stima prevista (comunque oltre i 29 miliardi di dollari) ha risposto un aumento degli utenti sia su base giornaliera che settimanale. Segnalazioni inascoltate, allarmi ignorati, appelli all'azione caduti nel vuoto, ma anche interferenze dei manager per spianare la strada a politici e vip. I Facebook papers aprono probabilmente la crisi peggiore di sempre per il social di Zuckerberg che, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, pensava o quantomeno sperava di aver superato il test maggiore. Nonostante il colpo alla reputazione, i conti del colosso tengono: nel terzo trimestre l'utile è salito del 17% a 9,1 miliardi di dollari, su ricavi in aumento del 35% a 29,01 miliardi. Passate al setaccio da 17 media americani, le 10.000 pagine di documenti interni alla società consegnati alla Sec (Securities and Exchange Commission) offrono uno spaccato di una Facebook dove - come denunciato dall'ex dipendente talpa Frances Hughues - i profitti e la crescita sono favoriti rispetto a tutto il resto, anche alla sicurezza degli amici. Proprio per non pesare sui conti Zuckerberg, campione dalla libertà di espressione negli Stati Uniti, si è piegato alla richiesta del partito comunista vietnamita di censurare i post anti-governativi. Non farlo avrebbe esposto Facebook al rischio di finire offline nel paese dove, secondo alcune stime, realizza un miliardo di ricavi l'anno. Sempre su Zuckerberg ricadrebbe la responsabilità di diverse decisioni sui post su politici e celebrità. I documenti rivelano interferenze dei manager per consentire ai vip di postare qualsiasi cosa a prescindere da eventuali violazioni delle regole. "In molti casi la decisione sul mancato rispetto delle norme" da parte di persone di alto profilo "è stata presa da manager e in alcuni casi da Zuckerberg", ha denunciato un dipendente. Accuse pesanti per il 37enne amministratore delegato e fondatore di Facebook, un gigante controllato da Zuckerberg che è anche presidente del consiglio di amministrazione oltre a detenere il 58% delle azioni con diritto di voto, con le quali il suo potere è praticamente senza limiti nella società ma anche di fronte al board. Una posizione quindi di estrema forza che lo espone ora a dure polemiche. "Invece di cambiare nome, Facebook dovrebbe cambiare amministratore delegato", affermano alcuni critici riferendosi all'atteso cambio della denominazione e del logo del social per riflettere meglio il Metaverso. Oltre a gettare un'ombra su Zuckerberg direttamente, i documenti sollevano dubbi sul ruolo di Facebook nella disinformazione sulle elezioni e l'attacco del 6 gennaio, con l'incapacità di agire sul movimento 'Stop the steal' dei fan di Donald Trump. Ricerche interne a Facebook hanno mostrato la consapevolezza dei manager della società sui problemi legati ai discorsi d'odio e alla disinformazione, alla quale - rivelano i file - contribuiscono proprio i prodotti creati da Facebook e le sue politiche. La lotta alla cattiva o falsa informazione - hanno denunciato ancora i dipendenti - è minata dalle considerazioni politiche. il problema dei discorsi di incitamento all'odio non riguarda comunque solo gli Usa ma si spinge ben oltre i suoi confini fino ad arrivare all'India e all'Etiopia. La fotografia scattata dai documenti - che includono anche segnalazioni sul traffico di esseri umani - mostra un Facebook in qualche modo spietata che rischia di attirarsi ancora di più i malumori e le critiche delle autorità di tutto il mondo. A Wall Street comunque Facebook qualche 'amico' ancora lo ha e nonostante ricavi sotto le attese nel terzo trimestre sale dell'1,26%.

I guai della galassia Zuckerberg Fb e WhatsApp bloccati per ore. Raffaella Menichini su La Repubblica il 4 ottobre 2021. Nel giorno in cui l’ex dipendente Frances Haugen accusa il social network di nuocere agli utenti per fare profitto, in rete crollano tutti i servizi. Ore di blackout in tutto il mondo per la galassia Facebook: il social network è risultato irraggiungibile per centinaia di migliaia di utenti intorno alle 17,50 di ieri sera (ora italiana) mentre contemporaneamente si bloccavano gli accessi al servizio di messaggistica WhatsApp, a Instagram, a Messenger e persino alla app di realtà virtuale Oculus, anch’essa di proprietà dell’azienda di Mark Zuckerberg. Anche i siti interni di Facebook, accessibili ai dipendenti, sono stati oscurati. «Siamo consapevoli che alcune persone stanno avendo problemi ad accedere alla app di Facebook. Stiamo lavorando per far tornare le cose alla normalità al più presto e ci scusiamo per qualsiasi inconveniente», ha fatto sapere Facebook su Twitter - il social concorrente che è stato ieri sera il principale canale di comunicazione proprio per capire cosa stesse succedendo nel regno di Zuckerberg. Non è chiaro che tipo di problema tecnico si sia verificato, se si sia trattato o meno di un attacco esterno coordinato: secondo il sito Downdetector. com, che traccia le interruzioni del servizio da parte delle applicazioni e dei siti di telecomunicazione, le segnalazioni erano nell’ordine di oltre duecentomila, concentrate nelle grandi metropoli come Washington e Parigi. Ma il blocco potrebbe essere stato molto più massiccio. E nelle stesse ore, a Wall Street, le azioni di Facebook arrivavano a perdere quasi il 6%. La coincidenza con un blackout di popolarità e di stabilità finanziaria non potrebbe però essere più clamoroso. La piattaforma sta infatti attraversando la sua più profonda crisi reputazionale dai tempi dello scandalo della “fuga di dati” di Cambridge Analytica, all’indomani delle presidenziali americane del 2016. Proprio domenica sera sulla CBS è andata in onda un’intervista esplosiva a Frances Haugen, un’ex dipendente del social di Zuckerberg che prima di dimettersi da Facebook, nell’aprile scorso, ha raccolto migliaia di pagine di documenti riservati, consegnandoli ai membri del Congresso e alla stampa. Trentasette anni, originaria dell’Iowa, con laurea in ingegneria informatica e un master ad Harvard, Haugen è dunque la “whistleblower”, la fonte segreta dell’inchiesta “Facebook Files” con cui il Wall Street Journal ha messo sotto i riflettori le storture del social di Zuckerberg. L’inchiesta ha rivelato come Facebook avvantaggi gli utenti più potenti e i politici nella moderazione dei loro contenuti; come i dirigenti della piattaforma siano stati “scudati” dalle denunce penali; e soprattutto come le ricerche interne di Facebook avessero lanciato forti allarmi sugli effetti che Instagram possa avere sulla psiche dei giovanissimi e in particolare delle ragazzine. Ricerche e allarmi rimasti inascoltati. Davanti alle telecamere del programma 60 Minutes della CBS, la giovane donna ha dimostrato con lucidità e parole semplici i motivi per cui - dati alla mano - Facebook ha messo in moto un meccanismo di disinformazione, polarizzazione dell’opinione pubblica, influenza negativa sui più giovani. E perché è necessario che si attui una forma di regolamentazione nei confronti delle aziende di Mark Zuckerberg. Oggi andrà a testimoniare al Congresso Usa, tra qualche settimana parlerà anche di fronte al Parlamento britannico e dice di essere in contatto con parlamentari francesi e con l’Europarlamento. «Quello che ho visto ripetersi a Facebook è il conflitto di interessi tra quel che è bene per il pubblico e quel che è bene per Facebook. E Facebook, più e più volte, ha fatto scelte basate sui propri interessi». Facebook «ha privilegiato la crescita rispetto alla sicurezza». Haugen non ha agito spinta da odio o da vendetta, ha tenuto a precisare: si era unita a Facebook «dopo aver perso una persona cara a causa del complottismo» e pensava di poter contribuire a combattere la disinformazione. Quel che ha visto dall’interno l’ha convinta a denunciare. Ma sa che dentro Facebook c’è ancora molta gente in buona fede: «Insieme possiamo creare un social media che tiri fuori il meglio di noi».

Le app oscurate dalle 17.30 in tutto il mondo. Perché WhatsApp, Facebook e Instagram non funzionano: ecco cosa sta succedendo.  Elena Del Mastro su Il Riformista il 4 Ottobre 2021. Sono giorni travagliati per la galassia di Mark Zuckerberg e per il mondo intero che ha fatto di Facebook, Whatsapp e Instagram le app più usate al mondo. L’apice il 4 ottobre: dalle 17.30 non funzionano nessuna delle tre in nessun modo, down totale in tutto il mondo. La giornalista del New York Times, Sheera Frenkel ha riferito che i dipendenti di Facebook non sono nemmeno in grado di accedere al proprio edificio a causa della mancanza del badge di ingresso. “Ero al telefono con uno dei dipendenti di Facebook che ha detto che non sono stati in grado di entrare negli edifici questa mattina per iniziare a valutare l’entità dell’interruzione perché i loro badge non funzionavano per accedere alle porte”. Una situazione dunque molto complessa. “Siamo consapevoli che alcune persone stanno avendo problemi ad accedere alla app di Facebook. Stiamo lavorando per far tornare le cose alla normalità al più presto e ci scusiamo per qualsiasi inconveniente”. È quanto scrive Facebook su Twitter, dato che la piattaforma social non funziona in gran parte del mondo. Un tweet simile è stato pubblicato per WhatsApp, bloccato a sua volta, come lo è anche Instagram. Non sono giorni facili per la galassia Zuckerberg. Prima le rivelazioni di una ‘talpa’ che ha accusato il colosso di essere pericoloso e di fare poco per fermare la diffusione di messaggi d’odio e disinformazione sulla sua piattaforma. Poi il tonfo in borsa, con le azioni che hanno ceduto oltre il 4% a Wall Street. Infine, il blocco non solo del social, ma anche di Whatsapp e Instagram, dovuto a un down mondiale. Ma, appunto, l’inizio di questa giornata catastrofica sono state le dichiarazioni della data analyst Frances Haugen, 37 anni, durante l’intervista che ne ha rivelato l’identità ieri, a ’60 minuti’ sulla ‘Cbs’: “Non credo che siano intenzionati a investire davvero su quello che serve per evitare che Facebook sia pericoloso”. Sono parole dure e che spingono la compagnia di Mark Zuckerberg al centro di una nuova bufera. La donna, ex manager, ha presentato almeno otto denunce anonime alle forze dell’ordine federali contro la compagnia e dovrà testimoniare in settimana davanti al Congresso. Il motivo della denuncia, secondo Haugen, è sintetizzabile come: tra il bene pubblico e gli interessi della compagnia, “Facebook ha mostrato, ancora e ancora, di scegliere il proprio profitto”. Haugen, che ha lavorato per Google e Pinterest prima di unirsi al social di Zuckerberg nel 2019, ha affermato di aver chiesto di lavorare in un’area dell’azienda contro la disinformazione, dopo la perdita di un amico a causa di teorie complottiste presenti sul web. Tuttavia, secondo l’ex manager, Facebook avrebbe disattivato prematuramente le misure di sicurezza contro la diffusione delle fake news, dopo la vittoria di Joe Biden alle elezioni, contribuendo all’assalto del Campidoglio Usa il 6 gennaio. Inoltre, la piattaforma avrebbe sciolto l’unità di ‘integrità civica’ dove lavorava Haugen. Sarebbe stato proprio questo il momento in cui la donna avrebbe deciso di presentare una serie di istanze, con l’augurio dell’arrivo di nuove regolazioni governative contro il social network. Secondo Haugen, la piattaforma era anche consapevole del suo contributo nell’alimentare odio e disinformazione, tramite una ricerca fatta dalla stessa compagnia. Per questo è scattata la denuncia: Facebook non avrebbe fornito ulteriori informazioni sui rischi della sua piattaforma, come rivelato nell’intervista a ’60 minuti’. Un approccio similare era già stato considerato nell’inchiesta uscita a settembre sul Wall Street Journal, che aveva sottolineato come gli algoritmi ‘cattura attenzione’ di Facebook avevano contribuito ad alimentare il dissenso politico e problemi emotivi e di salute, soprattutto tra i giovani. Secondo Haugen sarebbe stato il 2018 a segnare uno spartiacque sul piano della "divisività": alimentando le dispute, gli utenti accedevano più spesso, favorendo così il gigante dei social media che riusciva a vendere più pubblicità digitale. Le rendite annuali di Facebook sono così raddoppiate nel 2018, passando da 56 miliardi di dollari (circa 48 miliardi di euro) a una cifra che oggi secondo le previsioni arriva a 119 miliardi di dollari (circa 102 miliardi di euro). “Nessuno di Facebook è cattivo”, ha detto Haugen, “ma gli incentivi sono disallineati, giusto? Facebook guadagna di più quando si consumano più contenuti e alle persone piace essere coinvolte con ciò che suscita una reazione emotiva. A più rabbia vengono esposti, più interagiscono e più consumano”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il cerchio si stringe su Facebook. Piccole Note il 6 ottobre 2021 su Il Giornale. Dopo gli scandali, il blackout, Facebook sta affrontando il momento più critico della sua storia e forse si avvia alla fine. L’amministrazione Biden, che aveva tenuto particolarmente d’occhio da tempo le Big Tech anche con leggi che, in teoria, dovrebbero limitarne lo strapotere, aveva messo da tempo il colosso di Mark Zuckerberg nel mirino. A dargli una mano il Wall Street Journal, che il mese scorso ha pubblicato una serie di documenti interni all’azienda che ponevano interrogativi sul progetto per il nuovo social destinato ai bambini.

Facebook sotto tiro

Nei documenti, i danni che tale social avrebbe provocato ai piccoli e la decisione di andare avanti per non perdere il lucroso business. Uno scoop che ha costretto Zuckerberg a “una pausa di riflessione”, come da comunicato dell’azienda. Un dietrofront che però non ha convinto tanti, come scriveva Chrisitine Emba sul Whashington Post: “I critici di Facebook potrebbero essere tentati di celebrare questa pausa come una vittoria, ma non dovrebbero. Instagram Kids tornerà in una forma o nell’altra. I suoi vertici ne stanno già gettando le basi: ‘La realtà è che i bambini sono già online’, ha scritto Adam Mosseri (capo di Instagram)…’e crediamo che sviluppare esperienze adeguate all’età […] sia molto meglio per i genitori rispetto a quel che gli riserva la realtà in questo momento”. Insomma, FB non ha ceduto affatto, secondo la Emba. Né, si potrebbe aggiungere, ha percepito il segnale di cui era stato fatto segno, dato che l’attacco non proveniva da qualche sito alternativo, ma dal giornale della grande finanza. Così il WSJ ha ripreso a martellare, pubblicando altri documenti interni inviati al giornale da Frances Haugen, ex dirigente dell’azienda, che rivelano come il lucro abbia avuto sempre la meglio sui dubbi riguardanti la sicurezza e l’opportunità di alcune iniziative (la scoperta dell’acqua calda…).

Godzilla e il blackout

A pochi giorni da questo scoop, il blackout che per ore ha lasciato il mondo senza Facebook, Instagram e WhatsApp. Un problema tecnico, come da comunicato aziendale, ma forse anche no, data la coincidenza. Ne è convinto, ad esempio, J. D. Vance, candidato per l’Ohio per i repubblicani, che ha twittato: “Sono certo che dentro Facebook stanno succedendo cose losche”. Non si tratterebbe, dunque, di un errore, ma di un sabotaggio. A riferire tale commento è Kara Swisher che, sul New York Times, spiega come a pagare la campagna elettorale di Vince sia Peter Thiel, “membro del consiglio di amministrazione” di FB…Rilievo simpatico, ma che non fuga i dubbi. Detto questo, e al di là, non stupisce che, in tale clima, la Frances sia stata convocata “con urgenza” al Senato per riferire sulla sua ex azienda. Insomma, come scrive Kevin Roose sul Times, Facebook sta vivendo “un declino lento e costante che può essere registrato da chiunque abbia visto da vicino un’azienda morente. È una nuvola di terrore esistenziale che incombe su un organismo che ha ormai alle spalle i suoi giorni migliori”. “[…] Questo tipo di declino non è necessariamente visibile dall’esterno, ma gli addetti ai lavori ne percepiscono ogni giorno centinaia di piccoli e inquietanti segni”. Considerazioni che conclude con un’immagine stupenda: “Facebook sembra Godzilla: provoca immani danni, ma inevitabilmente morirà. Il problema è che noi, che nel frattempo ne siamo calpestati, non possiamo aspettare troppo a lungo”. Il social che ha rivoluzionato il mondo, e che conta tre miliardi e mezzo di utenti, ha accumulato troppo potere: ciò gli ha fatto nemici anche tra i potenti. Ne uscirà a pezzi o ridimensionato.

I pericoli di internet

Ma tutto questo non risolverà i problemi causati da certe derive della rete: i pericoli di internet per i minori, ad esempio, non possono essere circoscritti solo a Facebook. Sul punto rimandiamo a un studio pubblicato sul Journal of Research Medical Sciences che ha avuto tale esito: “Si registra un’associazione tra sintomi psichiatrici come somatizzazione, sensibilità, depressione, ansia, aggressività, fobie e psicosi […] e diagnosi della dipendenza da Internet”. E, nelle conclusioni si legge: “Una grande percentuale di giovani soffre degli effetti negativi della dipendenza da Internet. È necessario che psichiatri e psicologi siano consapevoli dei problemi mentali causati da tale dipendenza”. E questo vale anche per le famiglie…Non per nulla la Cina ha imposto correttivi, se si vuole forse troppo stringenti, all’uso del web da parte dei bambini, ai quali è consentito giocare solo tre ore alla settimana. Non solo: le piattaforme che offrono giochi dovranno essere “collegate a un sistema anti-dipendenza gestito dallo Stato”, ed è stato notificato “che tutti gli utenti accedano con un’identità reale” (Wired). Una misura, quest’ultima, di grande civiltà: dietro l’anonimato si celano, a volte, personaggi oscuri e troppo spesso gli haters, ormai trattati come fenomeno folkloristico nonostante la loro evidente tossicità.Da ultimo, va registrato che il recente blackout di FB ha innescato anche un contraccolpo geopolitico: dati i danni subiti dall’oscuramento, che potrebbero ripetersi in futuro, la Russia sta prendendo in seria considerazione l’idea di costruire una propria infrastruttura internet, uscendo dall’attuale sistema, il cui controllo è appannaggio esclusivo degli Stati Uniti. Un esempio che dovrebbe seguire anche l’Unione Europea, se davvero vuole avere un qualche ruolo nel mondo.

Da “ANSA-AFP” il 5 ottobre 2021. Il blackout mondiale che ieri da colpito Facebook e le sue app Instagram e WhatsApp è stato provocato da modifiche alla configurazione dei router che coordinano il traffico di rete tra i suoi centri dati. "Questa interruzione del traffico di rete ha avuto un effetto a cascata sul modo in cui comunicano i nostri centri dati, bloccando i nostri servizi", ha dichiarato in un post il vicepresidente delle infrastrutture di Facebook Santosh Janardhan.

Da “ANSA”  il 5 ottobre 2021. "Scusate per l'interruzione, sappiamo quante persone fanno affidamento sui nostri servizi per restare connesse": sono le scuse ufficiali che Mark Zuckerberg posta sul suo profilo Facebook dopo le sei ore di down delle sue app. Scrive su Twitter anche il capo di Whatsapp, Will Cathcart: "Sono grato a tutti coloro che hanno lavorato duramente per riportare il nostro servizio all'affidabilità che ci si aspetta, è stato un promemoria per ricordarci quante persone e organizzazioni si affidano alla nostra app ogni giorno. Impareremo e cresceremo da questo".

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 5 ottobre 2021. Frances Haugen, computer scientist e manager di 37 anni, è la nuova spina nel fianco di Facebook. Prima consegnando documenti segreti alla stampa, poi andando in tv. E oggi verrà ascoltata dal Congresso. Per Facebook piove sul bagnato: ieri, poco dopo la denuncia televisiva, blackout di tutte le reti del gruppo, da Instagram a Whatsapp, in quasi tutto il mondo, per molte ore. Sabotaggio? Probabilmente no. La società si scusa con gli utenti e cerca di ripristinare il servizio. Secondo gli esperti, incidenti di questo tipo, con reazioni a catena, possono capitare quando le società cambiano le configurazioni interne di rete commettendo un errore che magari si ripercuote ovunque. Ma per ora non vengono date spiegazioni e un incidente di queste dimensioni non si era mai verificato. Haugen era la product manager nel Civic Integrity Team, l'organismo creato dall'azienda di Zuckerberg per monitorare possibili interferenze nelle sue piattaforme in tempo di elezioni. Ha visto dall'interno le distorsioni spesso segnalate da entità esterne (sempre negate da Facebook) e ha deciso di denunciarle. A maggio, dopo lo smantellamento del suo team, ha lasciato Facebook ma prima ha copiato migliaia di pagine di documenti interni che ha dato in modo anonimo al Wall Street Journal. È il materiale sul quale nelle settimane scorse il quotidiano finanziario ha costruito i suoi Facebook Files: un'inchiesta in cinque puntate dalla quale emergono fatti gravi come il funzionamento redditizio ma socialmente distorto di un algoritmo che diffonde strutturalmente discordia perché costruito per massimizzare i contatti e il tempo trascorso dagli utenti sulle sue piattaforme. O come il fatto che Instagram aveva studiato il suo effetto sui giovani scoprendo che l'uso intenso di questo social provoca danni psicologici seri alle ragazze più giovani. Una scoperta mai resa pubblica. Poi la «gola profonda» ha deciso di uscire allo scoperto: domenica sera Frances si è fatta intervistare da 60 Minutes, la storica trasmissione giornalistica della Cbs, e oggi sarà protagonista di un'audizione a Washington. Oltre alla sua identità ha rivelato nuovi dettagli. Ad esempio ha accusato Facebook di avere responsabilità per l'assalto al Congresso del 6 gennaio scorso non solo perché i ribelli hanno usato le sue piattaforme, ma anche perché la società ha smantellato prematuramente le strutture di controllo che aveva creato, come l'Integrity Team della Haugen. La compagnia di Zuckerberg ha replicato con un comunicato nel quale respinge i rilievi e afferma di aver fatto del suo meglio per ridurre i danni che, insieme a tante cose positive, vengono provocati da ogni rete sociale. Facebook ha 40 mila dipendenti che lavorano sulla sicurezza con un costo di oltre 5 miliardi di dollari l'anno. Ma tutto va rapportato alle dimensioni della rete del social (2,8 miliardi di utenti) e ai suoi profitti: poco più di un controllore per ogni 100 mila utenti. Per Frances i capi di Facebook non sono malvagi. Semplicemente non vogliono penalizzare fatturato e profitti introducendo limiti permanenti: le cautele usate durante la campagna elettorale sono state eliminate subito dopo il voto. Haugen dice di considerare questo un tradimento della democrazia: ha rivelato quanto sapeva per costringere la compagnia a cambiare, in meglio.

Massimo Gaggi per corriere.it il 5 ottobre 2021. Nell’era digitale e in una stagione in cui tutto il lavoro, almeno nelle società tecnologiche, sembra poter essere fatto in remoto, c’è voluta l’incursione fisica di un plotone di tecnici che hanno resettato manualmente i server del data center di Santa Clara per rimettere in moto la rete di Faceboo k, comprese tutte le sue molteplici piattaforme — Whatsapp, Instagram, Messenger, Oculus, il servizio di email del gruppo e tanti altri servizi digitali — letteralmente scomparse da diverse ore dall’intero pianeta. Il fenomeno, di una gravità e di un’ampiezza senza precedenti, ha avuto ripercussioni sociali, economiche e anche politiche ovunque nel mondo. Imprese abituate, dall’India al Brasile, a ricevere gli ordinativi e a fare le consegne comunicando attraverso Facebook si sono improvvisamente bloccate. L’agenzia Bloomberg stima che la perdita economica a livello mondiale sia stata di 160 milioni di dollari per ogni ora di interruzione della connessione digitale. 

Grave il danno, ma anche il tipo di incidente. Non è andato offline solo un pezzo del gruppo fondato da Mark Zuckerberg: alle 8,40 del mattino in California, le 5,40 del pomeriggio in Italia, l’intero sistema Facebook è letteralmente sparito nel nulla. Svanita anche la connessione alle mail e al sito Facebook.com. Le conseguenze sono state le più diverse e vanno molto oltre quelle di tipo commerciale: molti utenti dotati di apparecchi intelligenti attivati attraverso connessioni Facebook si sono trovati all’improvviso a non poter aprire la porta di casa, accendere la tv, attivare un termostato, entrare in un sito di shopping online. L’aspetto più comico è che per alcune ore nemmeno il personale di Facebook è riuscito a entrare nei suoi uffici perché il «buco nero» che ha colpito il gruppo ha fatto svanire, insieme all’intera architettura di sistema, anche i meccanismi di sicurezza interna, compresi quelli di riconoscimento dei badge dei dipendenti. Sabotaggio? All’inizio sembrava un’ipotesi verosimile per un evento così disastros o deflagrato poche ore dopo la sortita di una ex dipendente, la computer scientist Frances Haugen, che ha denunciato in una seguitissima trasmissione televisiva della CBS una serie di scelte riprovevoli della società. Stamattina l’accusatrice di Facebook verrà ascoltata dal Congresso di Washington che l’ha convocata per un hearing. L’ipotesi di un attacco hacker, però, è stata accantonata quasi subito: i tecnici hanno spiegato che incursioni di questo tipo prendono di mira punti specifici del sistema, non la sua intera architettura mentre, col sito di Facebook paralizzato, due tecnici della sicurezza si sono scambiati messaggi su Reddit (poi prontamente cancellati, cosa che attribuisce loro un valore ancora maggiore) nei quali parlano di un problema di rete causato da un errore nella configurazione di una componente essenziale del sistema, il BGP (Border Gateway Protocol). Pian piano, mentre l’azienda ammetteva di aver un problema che stava cercando di risolvere e si scusava con gli utenti per i disagi, sono cominciati a emergere i contorni di un incidente tanto banale quanto catastrofico, figlio di problemi logistici e organizzativi prima ancora che degli infortuni tecnologici che, pure, devono esserci stati. Problemi aggravati da due fattori: il timore di sabotaggi che ormai spinge tutte le a ziende tecnologiche a darsi procedure di sistema segrete, affidate a pochissime persone molto fidate e preparate. E poi il Covid che ha portato quasi tutti i tecnici a lavorare in remoto da casa. Quando è divenuto evidente che, coi sistemi totalmente paralizzati, bisognava andare a intervenire manualmente sui server, ci si è resi conto che chi era in grado di farlo era fisicamente lontano mentre chi era già in azienda non aveva le competenze necessarie. Anche per questo ci sono volute quasi 7 ore prima di poter ricominciare ad attivare, in modo molto graduale, le piattaforme del gruppo. Già nel 2019 Facebook aveva vissuto una crisi durata quasi 24 ore per un errore di configurazione dei server. Ma allora era stata colpita solo una parte del sistema mentre stavolta Facebook ha dovuto fronteggiare una vera tempesta perfetta. Una crisi che ha provocato una flessione del titolo Facebook in Borsa facendo in poche ore perdere a Zuckerberg 6 miliardi di dollari.

Frances Haugen, la ex manager di Facebook in Senato: «Intervenite, è come per il fumo o gli oppiodi». Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021. L’audizione della manager uscita dalla società: le app di Zuckerberg sono nocive per la salute. Le polemiche sul blackout: ecco com’è successo. «Quando il governo si è reso conto che il fumo è nocivo per la salute è intervenuto. Quando è stato chiaro che le cinture di sicurezza salvano vite umane il governo ha obbligato l’industria dell’auto ad adottarle. Quando si è visto che i farmaci oppioidi creano dipendenza la politica è intervenuta. Vi supplico di farlo anche ora davanti ai danni sociali provocati da Facebook». È il momento più potente della testimonianza resa ieri al Senato di Washington da Frances Haugen, la ex product manager della società di Mark Zuckerberg che, lasciata l’azienda, ha deciso di denunciare i suoi comportamenti nocivi prima consegnando a un quotidiano documenti interni che dimostrano la consapevolezza da parte del gigante dei social media dei danni che provoca ai suoi utenti (soprattutto i più giovani), poi esponendosi in prima persona davanti alle telecamere della Cbs, infine con un’audizione parlamentare. Appello forte quello della Haugen anche perché il senatore Richard Blumenthal, presidente del comitato che l’ha convocata, ha ricordato che qualche decennio fa, da procuratore generale del Connecticut, fu tra i protagonisti della battaglia per la regolamentazione di big tobacco per il fumo e ha promesso di fare ora altrettanto con big tech. Ottenendo su questo l’apparente consenso dei senatori repubblicani, altrettanto indignati nei confronti di un’azienda che coi suoi 3,5 miliardi di utenti di tutte le sue piattaforme (Instagram, WhatsApp, Messenger e Oculus, oltre a Facebook) ha più potere di molti Stati e, oltre a condizionare i giovani, altera toni e natura del dibattito politico, incide sulla struttura del commercio e di altre attività economiche e perfino su problemi di sicurezza nazionale. Quale sia il suo peso planetario si è visto lunedì quando per oltre sei ore tutte le piattaforme di Facebook sono letteralmente sparite dalla rete: imprese che fanno pubblicità e vendono attraverso i siti del gruppo californiano bloccati in tutto il mondo, dall’India al Brasile, mentre i tanti che si sono dotati di apparecchi attivati attraverso l’intelligenza artificiale di Facebook non riuscivano aprire la porta di casa o ad accendere la tv. Sabotaggio? Stavolta è stato subito evidente che gli hacker non c’entrano: il colossale blackout è stato provocato da errori degli stessi ingegneri di Facebook che, nel cambiare alcune configurazioni interne del sistema informatico, hanno inavvertitamente interrotto le comunicazioni tra i router. In pochi minuti si è prodotto un effetto domino che ha colpito l’intera rete, compresi i sistemi di sicurezza interna delle sedi del gruppo che hanno smesso di funzionare lasciando fuori dagli uffici, per la disattivazione dei badge di riconoscimento, i dipendenti che stavano tornando per riattivare manualmente i sistemi. Identificato il problema (la configurazione del Border Gateway Protocol, o BGP) la difficoltà è stata quella — in un’era di lavoro remoto post-Covid e di sistemi sui quali sono abilitati a intervenire solo pochissimi specialisti per evitare il rischio di infiltrazioni dei pirati informatici — di mettere insieme un team di persone competenti e mandarlo a intervenire direttamente sui server del data center di Facebook a Santa Clara.

Riattivato il servizio, sono cominciate le polemiche che si sono sovrapposte alle denunce etiche per i comportamenti della società. C’è chi vede in questo incidente un’ulteriore dimostrazione della necessità di spezzare il semimonopolio del gruppo nelle reti sociali, mentre per il presidente turco Erdogan bisogna sganciarsi da questi giganti e crearsi reti nazionali. E Zuckerberg? Salvo un breve post di scuse agli utenti per l’interruzione del servizio, solo un video nel quale lo si vede sorridente a bordo di una barca a vela con la moglie Priscilla. È la nuova linea di comunicazione: staccare l’immagine del capo dai guai aziendali. Di quelli parlano i portavoce che ieri hanno respinto le accuse della Haugen dicendosi d’accordo su un solo punto: «È ora che la politica decida regole standard per Internet anziché aspettare che siano le imprese a fare scelte che spettano al legislatore».

Chi è Frances Haugen, la gola profonda di Facebook che ha sfidato Zuckerberg. L'informatica dell'Iowa fa scricchiolare il colosso social che intanto ha cambiato nome in Meta. Valeria Chici su Il Quotidiano del Sud l'8 novembre 2021. Quando Frances ha deciso di sfidare l’impero di Zuckerberg non aveva nessuna intenzione di finire sul rogo come Giovanna D’Arco ma anche lei, come la pulzella d’Orleans, è l’eretica che ha colpito al cuore Facebook di cui è stata dipendente, seppellendo in un colpo anni di narrativa buonista sul social network e mostrando, files trafugati dall’azienda alla mano, che il colosso di Zuckerberg di cui fanno parte Facebook, Instagram e WathsApp punta a privilegiare i contenuti divisivi, rabbiosi e polarizzanti perché creano più engagement e fanno fare più soldi. Alla faccia delle conseguenze psicologiche nefaste che questo ha sulla community, in particolare sui giovanissimi.

Degli effetti collaterali di questa politica, Facebook era bene a conoscenza, perché scritta nero su bianco in una serie di studi interni e riservati che circolavano in azienda e che erano stati volutamente ignorati. Frances Haugen, 37 anni, informatica statunitense dello Iowa, impossessatasi di questi documenti, ha deciso di renderli pubblici e conosciuta ormai da tutti come whistleblower, la gola profonda di Facebook, ora continua la sua avanzata dai talk show al Congresso degli Stati Uniti, al parlamento australiano e inglese nella sua crociata per aprire gli occhi al mondo in difesa degli utenti dai social.

Oggi è a Bruxelles, dove si riuniscono le commissioni del Parlamento Europeo per discutere con gli eurodeputati di come l’Unione possa muoversi contro lo spietato modello di business dei poli tecnologici. Chi pensa che Haugen sia l’informatica pentita che vuole distruggere i social, si sbaglia.

La sua fiducia che la piattaforma possa migliorare è ferma: «I believe that we can do better»: «Credo che possiamo fare di meglio”, ha twittato sul suo profilo. «Insieme possiamo creare un social media che tiri fuori il meglio di noi. I problemi si risolvono insieme, non possiamo farlo da soli». E di fronte al congresso degli Stati Uniti, Haugen ha puntato il dito contro il vero problema di Facebook, la segretezza: «Si nasconde dietro mura che impediscono a ricercatori e regulators di comprendere le vere dinamiche del sistema. Dobbiamo semplicemente credere a quanto afferma Facebook e hanno ripetutamente dimostrato che non meritano la nostra cieca fiducia».

E poi: «L’inabilità di poter guardare ai sistemi effettivi di Facebook e di confermare che lavorino come indicato è equivalente ad un Dipartimento dei Trasporti incaricato di regolamentare le auto solo guardandole passare in strada».

Intanto Zuckerberg ha cercato di difendersi dall’ondata denigratoria che si è abbattuta sul suo Impero dopo le dichiarazioni di Frances. In una nota ai dipendenti ha spiegato: «L’argomentazione che deliberatamente spingiamo per il profitto contenuti che rendono le persone arrabbiate è profondamente illogica. Facciamo soldi con le inserzioni e gli inserzionisti continuamente ci dicono che non vogliono che i loro annunci siano vicino a contenuti dannosi o furiosi. Non conosco alcuna azienda tech che vuole realizzare prodotti che rendano le persone arrabbiate o depresse».

E nel frattempo il Ceo più influente del mondo, anche sotto la spinta del caso Haugen, si è affrettato a cambiare pelle alla sua creatura. Dieci giorni fa all’evento Connect 2021, la conferenza annuale del social, Zuckerberg ha annunciato il nuovo nome dell’azienda: Meta, che in greco significa oltre. «La nuova società sarà Metaverse first, non più Facebook fist, ha spiegato. «Per me simboleggia il fatto che c’è sempre qualcosa da costruire, c’è sempre qualcosa oltre». «Siamo all’inizio del prossimo capitolo di Internet e del prossimo capitolo della nostra società». «Siamo visti come un social media, ma nel nostro dna siamo una società che costruisce tecnologia per connettere le persone». «Mi auguro che nel tempo saremo visti come una società di metaverso».

E poi: «Facebook è uno dei prodotti più usati nella storia. È un marchio icona fra i social, ma sempre di più non include tutto quello che facciamo, voglio ancorare il nostro lavoro e la nostra identità a quello che costruiamo andando avanti».

E quindi, riferendosi indirettamente alle accuse di Haugen, Zuckerberg ha spiegato: «Privacy e sicurezza dovranno essere costruiti dal giorno uno. Tutti quelli che costruiranno il metaverso dovranno essere concentrati su questa responsabilità fin dall’inizio. Questa è la lezione che ho imparato negli ultimi 5 anni: bisogna essere responsabili fin dall’inizio».

Oltre al nome, Facebook ha cambiato anche logo: il simbolo blu dell’infinito, che ricorda una ‘M’, accanto al nome ‘Meta’ scritto in nero. La replica dell’accusatrice di Zuckerberg non si è fatta attendere. Durante l’apertura del Web Summit di Lisbona, Haugen ha colpito direttamente il fondatore di Facebook: «Credo sia improbabile che la compagnia possa cambiare se lui resta CEO». «Serve una guida disposta a focalizzarsi sulla sicurezza». «Spero capisca che c’è tanto di buono che può fare nel mondo» e «potrebbe essere l’opportunità per qualcun altro di prendere le redini» della compagnia.

Dunque la pulzella chiede la testa del fondatore di Facebook. Ma chi è questa donna che è riuscita a far scricchiolare l’impero tecnologico più potente del mondo?

Frances, bionda dallo sguardo deciso è un ingegnere informatico con un master ad Harvard. Dallo Iowa è entrata da subito a lavorare nei grandi colossi technologici: Google, Pinterest, Yelp per sbarcare nel 2019 a Facebook, dove ha lavorato per due anni. Durante un’intervista con cui la gola profonda si è rivelata al mondo, Frances ha spiegato di aver perso una persona cara “a causa delle teorie complottiste”, e questo l’aveva spinta tre anni fa a entrare nell’azienda di Zuckerberg a Menlo Park: «Volevo che nessuno provasse il dolore che avevo sofferto io. E capivo quanto fosse importante garantire che su Facebook circolasse informazione di buona qualità».

È così che viene inserita nell’equipe che si doveva occupare dei messaggi pericolosi durante le presidenziali americane, la squadra si chiama “Civic Integrity”. Ma il gruppo viene sciolto appena terminate le elezioni ed è ormai lettera morta quando scoppiano i disordini al Congresso di Washington organizzati via social dai sostenitori di Trump. È in questo momento che Frances entra in crisi e matura l’idea che l’azienda «non intendesse davvero investire per evitare che Facebook diventasse pericolosa».

Durante quei due anni, sotto gli occhi dell’ingegnere informatico sono passate pagine e pagine di documenti interni che lanciavano l’allarme sugli effetti collaterali del modus operandi di Facebook. Frances, in crisi di coscienza, decide che il mondo deve sapere. Si licenzia da Facebook ma, come in una spy story, prima di lasciare il suo ufficio copia i documenti più compromettenti, pagine e pagine che giravano anche nelle chat dei dipendenti, soprattutto di quelli che all’interno dell’azienda non condividevano la politica di Zuckerberg.

Quindi, una volta fuori, passa all’azione. Si rivolge al Whistleblower Aid, un gruppo non profit che tutela legalmente chi rivela informazioni aziendali per motivi di interesse pubblico. Diventata una sorta di “pentita”, deve mantenere la sua identità segreta e riceve anche un nome in codice “Sean”: col quale gira al Wall Street Journal quelli che diventano famosi come i Facebook file, entra in contatto con alcuni membri del Congresso e denuncia Facebook anche alla Security and Exchange Commission, che protegge gli investitori. Ne esce un’inchiesta dall’eco planetario.

Del resto, le accuse lanciate da Frances/Sean sono gravi. Molto di ciò che dice già si sapeva, ma la ex dipendente ha le prove: le proposte per modificare in modo virtuoso la sicurezza di Facebook venivano regolarmente ignorate o bocciate in nome del profitto. Ma quali sono i nodi centrali delle sue accuse?

Nel 2018 Facebook ha modificato un algoritmo che mette in evidenza ciò che genera maggior partecipazione come contenuti violenti, controversi e rabbiosi, in grado di aumentare l’engagement. Una scelta presentata ufficialmente come un intervento per migliorare le interazioni, ma di cui si conoscevano perfettamente le ripercussioni, ignorate per fare ancora più dollari. Haugen fa anche presente che in azienda erano perfettamente consapevoli che Instagram avesse effetti deleteri sulla psiche dei giovani, soprattutto sulle femmine, perché incentrato sul paragone di stili di vita e canoni di bellezza irraggiungibili, molto più di altre app come TikTok.

Gli studi interni all’azienda parlavano infatti di depressione e tendenza al suicidio, in particolare delle ragazzine. Accuse pesanti come macigni. Ora, una delle soluzioni, secondo Haugen, è la modifica della Sezione 230, l’articolo di legge che protegge le piattaforme online dalla responsabilità su ciò che gli utenti pubblicano, per fare in modo che i social network siano responsabili legalmente di quello che i loro algoritmi promuovono. E chissà se Zuckerberg si deciderà per la pensione anticipata.

Abusi e monopolio, la grande crisi di Facebook oltre il blackout. Federico Rampini su La Repubblica il 5 Ottobre 2021. Con l’audizione della “gola profonda” e l’istruttoria per abuso di potere, il social di Zuckerberg è sotto assedio. Erano le 8.40 del mattino di lunedì 4 ottobre, qui in California, quando il messaggio "Error" ha cominciato ad apparire a tratti su WhatsApp, Instagram, Facebook, Messenger. Prima sporadicamente, poi in modo sistematico, dal cuore della Silicon Valley il blackout informatico è dilagato nel mondo intero.

Estratto dell'articolo di Federico Rampini per “la Repubblica” l'8 ottobre 2021. Erano le 8.40 del mattino di lunedì 4 ottobre, qui in California, quando il messaggio "Error" ha cominciato ad apparire a tratti su WhatsApp, Instagram, Facebook, Messenger. Prima sporadicamente, poi in modo sistematico, dal cuore della Silicon Valley il blackout informatico è dilagato nel mondo intero. Il centro del caos, il quartier generale di Facebook a Menlo Park, era in ginocchio. Ingegneri informatici, esperti di tecnologie, tutto l'esercito di talenti che lavora per il più grande social media mondiale, era alle prese con problemi banali e sconfortanti: molti non riuscivano neppure a entrare negli uffici di Menlo Park perché il software della sicurezza interna era coinvolto nel blackout e non riconosceva i loro badge, i tesserini magnetici di riconoscimento. Bloccati i calendari di appuntamenti e le piattaforme per il lavoro condiviso, perfino le email funzionavano a singhiozzo o non arrivavano. "Alto rischio": l'allarme lanciato dal centro di sicurezza globale di Facebook suonava come ovvio, tautologico e tardivo: tutti lo avevano già capito, il guaio era enorme e mondiale. Mark Zuckerberg e il top management nell'emergenza dovevano affidarsi a una task force umana, non all'intelligenza artificiale: un gruppo di tecnici spediti d'urgenza in un centro di computer server a Santa Clara, sempre nella Silicon Valley, per un "reset manuale". Un lavoro da idraulici, insomma: e con tutto il rispetto per le eccellenze nella manualità. Una lotta contro il tempo, per rimediare al disastro globale. Una fatica durata più di 5 ore, prima di riuscire a riattivare le piattaforme digitali. Al termine, la direzione del colosso digitale era costretta a un piccolo gesto di umiltà: usare un social media concorrente, Twitter, per annunciare urbi et orbi: "We are sorry". Ci dispiace e ci scusiamo per gli inconvenienti provocati. Troppo poco, troppo tardi, e soprattutto una evidente avarizia di spiegazioni. Un'arroganza da parte di Mark Zuckerberg, forse collegata alla sindrome da stato d'assedio, per tutte le offensive che convergono su di lui simultaneamente. Intanto in quel lunedì 4 ottobre le azioni di Facebook avevano perso quasi il 5% in Borsa, per quello che la stessa azienda definisce il peggiore blackout da 13 anni. Ma i paragoni con il passato ingannano. Il precedente accadde nel 2008 quando il social di Zuckerberg aveva solo quattro anni di vita e un ruolo minore nella nostra vita. WhatsApp non esisteva neppure. Lunedì 4 ottobre la paralisi di oltre cinque ore ha coinvolto circa tre miliardi di utenti, la maggioranza dei quali ormai si trovano fuori dagli Stati Uniti: dall'Europa all'Australia e ben 400 milioni di utenti solo in India. Spicca l'eccezione solitaria della Cina, che è chiusa all'universo Facebook, usa social media e messaggerie autoctone come Weixin- WeChat. Tutto il resto del mondo ormai dipende dall'ecosistema-Facebook come da una utility che fornisce servizi essenziali: il telegrafo di una volta, il telefono dei monopoli pubblici sulle linee fisse, la luce o l'acqua corrente. Il paragone non è esagerato, solo su WhatsApp transitano ormai 100 miliardi di messaggi al giorno. Un universo di piccole imprese ormai ha impostato i suoi rapporti con dipendenti, fornitori e clienti, sull'uso di queste messaggerie gratuite. Molti Paesi emergenti hanno saltato a piè pari lo stadio delle infrastrutture fisiche pesanti per passare alla tappa successiva affidandosi quasi esclusivamente ai cellulari, come mezzo di comunicazione ubiquo per tutte le loro attività economiche. Il danno del blackout all'economia mondiale è recuperabile velocemente, però è un campanello d'allarme. Come non pensare a uno scenario di guerra in cui quel tipo di paralisi nella comunicazione sia provocato da un attacco straniero? L'avarizia di spiegazioni da parte di Zuckerberg si spiega: il fondatore, chief executive e maggiore azionista del social media nel giorno cruciale del grande blackout aveva l'attenzione rivolta a un altro tipo di minaccia. La politica in America si sta trasformando in un nemico, dopo che per anni era stato ossequiente fino al servilismo. Già nel Day After del blackout, i titoli dei media sono sull'altro fronte aperto contro Facebook. In primo piano c'è l'audizione al Congresso di Frances Haugen, la 37enne whistleblower o "gola profonda" che da giorni sta rivelando verità scomode.

Ilaria Betti per huffingtonpost.it il 4 ottobre 2021. La misteriosa “gola profonda” di Facebook, la “talpa” che sta facendo tremare il gigante dei social network è uscita allo scoperto. Si chiama Frances Haugen, ha lavorato per due anni come ingegnere informatico addetto ai dati all’interno dell’azienda, e non ne poteva più delle ingiustizie che vedeva consumarsi sotto i suoi occhi. Così ha raccolto decine di documenti, li ha passati al Wall Street Journal e infine “ci ha messo la faccia” in un’intervista a “60 Minutes” in onda su CBS News. Lì ha sganciato la bomba: “Facebook ha sempre mostrato di preferire il profitto rispetto alla sicurezza degli utenti”, ha dichiarato. Secondo quanto riportato dall’ex dipendente, il social media aveva adottato sistemi di sicurezza per controllare la disinformazione prima delle elezioni presidenziali del 2020, ma poi li aveva allentati di proposito dando priorità “alla crescita piuttosto che alla sicurezza”. Proprio l’abbandono di tali sistemi di sicurezza sarebbe corresponsabile anche dell’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso. “Avevano pensato che se avessero cambiato gli algoritmi per rendere il sistema più sicuro, la gente avrebbe speso meno tempo sui social, avrebbero cliccato meno le inserzioni pubblicitarie” e Facebook “avrebbe fatto meno soldi”, ha dichiarato la Haugen. Tutto è cominciato quando John Tye, fondatore dell’organizzazione nonprofit “Whistelbower Aid”, è stato contattato da una donna che sosteneva di aver lavorato a Facebook. Che non fosse una cliente qualunque Tye e il suo team lo hanno capito subito: aveva avuto accesso a centinaia di pagine di documenti interni e fino a quel momento “segreti”, custoditi gelosamente dal più influente social network del mondo. Tye ha deciso di rappresentarla e le ha consigliato di utilizzare uno pseudonimo: “Sean”. “Una persona coraggiosa - così la descrive oggi l’avvocato al New York Times -. Si è presa un rischio personale e si è schierata contro un’azienda da trilioni di dollari”. Ma chi è davvero Frances Haugen? Trentasette anni, di professione product manager, ha lavorato per circa due anni nel “civic misinformation team” di Facebook prima di lasciare il suo posto di lavoro a maggio. Prima di rivelare la sua identità al pubblico, il team che l’assiste le ha consigliato di creare un account Twitter e un sito web personale. Sul sito viene descritta come “un avvocato per la sorveglianza pubblica dei social media”. Nativa di Iowa City, ha studiato ingegneria elettronica all’Olin College e ha ottenuto un MBA ad Harvard. Ha poi lavorato con gli algoritmi in aziende come Google, Pinterest e Yelp. A giugno 2019 si è spostata a Facebook. Lì ha iniziato ad avere dei problemi: nell’intervista a “60 Minutes” spiega di aver lavorato in diversi social network nella sua carriera ma di non aver mai trovato una situazione peggiore di quella di Facebook. Era atterrita da quello che vedeva ogni giorno con i suoi occhi: l’azienda metteva ripetutamente i suoi interessi prima di quelli del pubblico. Quindi ha iniziato a copiare pagine e pagine di ricerche interne per avere dei documenti concreti da mostrare eventualmente in un’aula di tribunale. Molti dei documenti segreti sono stati, pian piano, passati al The Wall Street Journal che ha potuto pubblicare inchieste interessanti, come quella del potere di Instagram sulle teenager. Stando alle ricerche interne, il social network era ben consapevole dell’influsso negativo sulla salute mentale dei più giovani. “Noi peggioriamo i problemi di immagine corporea per una ragazza adolescente su tre - si leggeva in una slide del 2019 -. Il 32% delle adolescenti afferma che quando si sente male con il proprio corpo, Instagram le fa sentire peggio”. Un’altra spiegava che “gli adolescenti incolpano Instagram per gli aumenti del tasso di ansia e depressione”. Da un altro studio emerge come per oltre il 40% la percezione di non essere abbastanza attraenti sia nata proprio con l’utilizzo di Instagram. Non ha avuto paura di parlare, Frances. Nell’intervista a “60 Minutes” Haugen racconta di aver presentato diverse denunce alla Sec, la Consob americana, nelle quali accusava il social di aver nascosto le sue ricerche e i suoi studi agli investitori e al pubblico. Ogni lettera indirizza all’organismo faceva un paragone tra le prese di posizione pubbliche di Mark Zuckerberg e i dati interni che l’azienda possedeva. Facebook avrebbe contribuito anche alla diffusione di fake news durante le elezioni e l’assalto a Capitol Hill. “Mentre pubblicizzava il suo impegno contro la disinformazione e gli estremismi nati dalle elezioni del 2020 e la relativa insurrezione, in realtà Facebook sapeva benissimo che i suoi algoritmi e le sue piattaforme promuovevano questo tipo di contenuti”, si legge in una di queste cover letter. “Facebook ha fallito nel prendere contromisure interne”. L’ex dipendente ha poi parlato con diversi senatori, come Marsha Blackburn del Tennessee e Richard Blumenthal, democratico del Connecticut e anche con loro ha condiviso i documenti. Blumenthal dice che fin dall’inizio la Haugen si è mostrata una fonte attendibile e solida. Ma non si è fermata qui. Si è confrontata anche con avvocati in Francia e Gran Bretagna, così come con membri del Parlamento Europeo. Perché fa tutto questo? In un video postato su Whistleblower Aid, Haugen afferma che il suo scopo non è quello di far fallire Facebook o di assestargli un duro colpo, anche perché quest’ultimo comunque non risolverebbe i tanti problemi dell’azienda. Afferma che il suo obiettivo ha a che fare solo con la trasparenza. “Credo che potremmo fare di meglio - si legge nel suo tweet -. Insieme possiamo creare un social media che tiri fuori il meglio di noi. Possiamo risolvere i problemi insieme, non risolviamoli da soli”. La reazione di Facebook non si è fatta attendere. Nick Clegg, vice presidente della sezione “Global affairs”, ha inviato ai dipendenti un memo di 1500 parole in cui si preannunciava quello che la “gola profonda” avrebbe detto alla trasmissione e ha definito queste accuse “fallaci”. Alla CNN ha difeso poi l’azienda, affermando che la piattaforma riflette il “bello, il brutto e il cattivo dell’umanità” e che fa di tutto per “mitigare il brutto, ridurlo e amplificare ciò che c’è di buono”. 

Zuckerberg, “talpa” ha dipinto falsa immagine Facebook. ANSA il 6 ottobre 2021. Marck Zuckerberg ha preso le ferme difese di Facebook in una nota ai dipendenti, dopo le accuse al Senato da parte dell'ex manager (diventata una 'talpa') Frances Haugen, che a suo avviso "non hanno alcun senso". "Noi ci preoccupiamo profondamente - scrive - di questioni come la sicurezza, il benessere e la salute mentale. E' difficile vedere una copertura che rappresenta in modo errato il nostro lavoro e le nostre motivazioni. Al livello più elementare penso che molti di voi non riconoscano la falsa immagine della società che è stata dipinta". Zuckerberg ha inoltre sottolineato: "L'argomentazione che deliberatamente spingiamo per il profitto contenuti che rendono le persone arrabbiate è profondamente illogica". E poi: "Facciamo soldi con le inserzioni e gli inserzionisti continuamente ci dicono che non vogliono che i loro annunci siano vicino a contenuti dannosi o furiosi. Non conosco alcuna azienda tech che vuole realizzare prodotti che rendono le persone arrabbiate o depresse. Morale, business e incentivi sui prodotti puntano tutti nella direzione opposta". (ANSA).

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha replicato alle accuse della 'talpa' Frances Haugen contro i suoi social media, definendole "illogiche". In una lettera aperta ai dipendenti, Zuckerberg ha assicurato che c'è il gruppo si preoccupa "profondamente di questioni come la sicurezza, il benessere e la salute mentale". Riccardo Luna su La Repubblica il 5 Ottobre 2021. "E' difficile per noi assistere a una rappresentazione errata del nostro lavoro e delle nostre motivazioni", ha scritto, "penso che molti di voi non riconoscano la falsa immagine della società che è stata dipinta". "L'argomentazione che deliberatamente spingiamo per il profitto contenuti che fanno arrabbiare le persone è profondamente illogica", ha scritto ancora Zuckerberg, "facciamo soldi con le inserzioni e gli inserzionisti continuamente ci dicono che non vogliono che i loro annunci siano vicino a contenuti dannosi o furiosi. Non conosco alcuna azienda tech che vuole realizzare prodotti che rendono le persone arrabbiate o depresse. Morale, business e incentivi sui prodotti puntano tutti nella direzione opposta".

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 19 settembre 2021. Il nostro odio ci svela, più di ogni altro sentimento. Loretta Goggi ha chiuso per sempre con internet dopo aver ricevuto una bordata di insulti per la sua esibizione in un programma tv: offese, astio, odio. Una professionista dello spettacolo può anche mettere in conto una serata storta, ma non l'odio. Perché odiare Loretta Goggi? Perché non può difendersi? Non scopro nulla di nuovo: l'hate speech sta diventando la cifra che più caratterizza il linguaggio dei social, è la «passion predominante» del web. L'odiatore collettivo si sente protetto dall'anonimato, dall'abuso di profili fake, dalla peculiarità espressiva del mezzo, da una sorta di immunità virtuale. Spesso, però, questo linguaggio o linciaggio tracima in altri media e l'odio attecchisce con sorprendente vitalità, in un gorgo di deriva emulativa. Sembra che la regola non scritta della rete sia questa: non importa chi odiare, l'importante è odiare qualcuno. Ci saranno ragioni psichiche o sociali per spiegare questo sentimento (non c'è odio senza odio verso sé stessi?) e la sua diffusione online. Colpa del web o dell'animo umano? Nel «Viaggio al termine della notte» (Corbaccio, p. 134) Céline scrive: «Quando l'odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, i motivi arrivano da soli». Correva l'anno 1932.

Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 18 settembre 2021. Da qualche tempo, i narratori sono tornati «piromani» e agitatori culturali. Tanto che le querelle che fanno l'agenda del dibattito pubblico, sempre più spesso, hanno alla base uno scrittore che innesca la miccia. Così, ieri, a Pordenonelegge, a dare fuoco alle polveri ci ha pensato lo scrittore spagnolo (ed europeista convinto) Fernando Aramburu, presente al festival per ritirare il Premio Crédit Agricole FriulAdria «La storia in un romanzo» 2021. E in quella cornice ha fatto una serie di considerazioni assai decise sullo spirito dei tempi. Pensiero forte, insomma. Sull'ideologia, di cui lui - basco di origine - ha voluto sottolineare il rischio permanente di derive violente e l'inclinazione genetica verso l'estremismo. Dalle sue parole traspare un presente fosco, sprofondato in uno stato di natura hobbesiano, dalle guerre ai femminicidi in crescita incessante. Ma le affermazioni che hanno fatto più rumore non potevano che essere quelle sui social, sui quali - letteralmente - è andato giù con l'accetta, dichiarando che «le reti sociali hanno avuto un'influenza negativa sulla società». Tesi che ricordano quelle di Umberto Eco, quando - durante la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università di Torino, nel giugno 2015 - disse che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività». Di sicuro, si troverebbero d'accordo le giornaliste del New York Times Sheera Frenkel e Cecilia Kang, fresche autrici di Facebook: l'inchiesta finale (Einaudi, pp. 370, euro 19), un documentatissimo reportage investigativo sulla recente conversione della corporation di Mark Zuckerberg in una megamacchina di sfruttamento intensivo dei dati personali e in un canale h24 di diffusione di propaganda e fake news da parte di vari soggetti nemici della democrazia. Sempre i social network e il web della (apparente) disintermediazione e orizzontalizzazione, anziché rendere più aperte le società, stanno contribuendo a reintrodurre dei «tabù». Quindi, invece di allargarne gli orizzonti, rinchiudono nelle camere dell'eco i loro utenti, consegnati dagli algoritmi, con la loro efficientissima profilazione commerciale e pubblicitaria, a un destino di sempre maggiore tribalizzazione e incomunicabilità tra diversi. E, così, oltre a promuovere una reintermediazione invisibile, i social spingono l'acceleratore a tavoletta verso la polarizzazione delle opinioni, da cui scaturisce il frutto avvelenato dell'hate politics. Esattamente una delle forme della nuova violenza ideologica a cui si riferisce lo scrittore spagnolo, e che da verbale, finché rimane sul web, può farsi fisica quando tracima nella quotidianità (come mostrano vari casi di cronaca, dai neofascisti a certe frange novax). E questo proprio perché, nella nostra età della piattaformizzazione, i media sociali sono divenuti sempre maggiormente dei produttori di realtà sociale. Perciò, la letteratura - sostiene Aramburu - deve assolutamente fare la propria parte, senza avventurarsi nel mestiere di altri («come la sociologia»), e nella piena consapevolezza di quelle che potremmo chiamare le sue «specificità (e limitazioni) comunicative» - dal momento che si rivolge alle coscienze individuali dei lettori, e non a quelle che in un passato non troppo remoto venivano chiamate le «masse». E, più in generale, devono darsi da fare tutti gli intellettuali, offrendo punti di vista plurali e differenti rispetto a quello di volta in volta maggioritario per scongiurare il pericolo del pensiero unico. «Vasto programma», ma da perseguire senza alcun dubbio. E, dunque, queste riflessioni dello scrittore risultano davvero utili e opportune. Perché, per ritornare a Eco, occorre sottrarsi alla logica dicotomica dell'essere apocalittici o integrati. E bisogna impegnarsi affinché tertium datur in questa epoca postmoderna avanzata, che coincide precisamente con il regno delle ambivalenze e delle ambiguità. I social network sono stati indiscutibilmente - come ha scritto il sociologo Giovanni Boccia Artieri - la «palestra sociale» per lo sviluppo di nuovi significati e pratiche collaborative. Ma non è tutto oro quel che luccica, specie sotto il dominio incontrastato del capitalismo digitale e della sorveglianza.

La fabbrica social della paura. Report Rai PUNTATA DEL 28/10/2019 di Giorgio Mottola. collaborazione di Norma Ferrara e Simona Peluso immagini di Alfredo Farina, Giovanni De Faveri, Davide Fonda. Su internet la macchina della paura non dorme mai. Produce notizie false, manipola le informazioni e propaganda dati truccati. Oggi la disinformazione è diventata il principale strumento di lotta politica e il campo di battaglia sono i social network. Facebook e Youtube si sono trasformati nel principale megafono della propaganda neonazista, rilanciata ormai apertamente anche dai leader nazionali dei partiti di destra. I contenuti della macchina della paura diventano virali grazie a inserzioni a pagamento, reti di pagine farlocche e account automatizzati. Si chiamano bot e sui social simulano il comportamento umano per diffondere e amplificare la propaganda di un leader o di un partito. In Italia li usano tutti: politici, giornali e aziende private. Report ha intervistato in esclusiva, a volto scoperto, uno dei più importanti programmatori di bot che su Facebook e Twitter è riuscito a rendere virali i messaggi di uno dei partiti oggi al governo.

LA FABBRICA SOCIAL DELLA PAURA Di Giorgio Mottola Collaborazione Norma Ferrara e Simona Peluso Immagini di Alfredo Farina, Giovanni De Faveri, Davide Fonda

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo vedremo dopo aver, dopo esser tornati sui nostri passi sull’inchiesta “La fabbrica della paura”, quella che ci ha tenuto sotto tiro incrociato per una settimana. Ci torniamo con documenti inediti. Lunedì scorso avevamo parlato della presunta trattativa che si era svolta al Metropol a Mosca il 18 ottobre del 2018 finalizzata, secondo i magistrati che indagano per corruzione internazionale, a portare 65 milioni di dollari nelle casse della Lega per «finanziare la campagna delle europee», soldi che fino a adesso – noi diciamo subito – non sono stati trovati. Report ha anche invece ipotizzato che quello fosse solo un tassello di un mosaico ben più grande, di un progetto politico. Perché? Perché a quella trattativa ha partecipato un giornalista, Gianluca Savoini, che è anche l’ex portavoce di Salvini. Con lui c’erano tre russi: uno era Andrey Kharchenko, che è un esponente del movimento politico fondato dall’ultranazionalista, il filosofo Dugin, vicino a Putin. Ecco, abbiamo anche sentito le parole di Savoini registrate sul nastro, che dice: “noi vogliamo cambiare l’Europa, renderla più vicina alla Russia e Salvini è il primo che vuole cambiarla”. Cosa voleva dire? Avevamo anche parlato di chi aveva infiltrato la Lega, Maurizio Murelli, neo-fascista, aveva fondato il centro Orion, il centro culturale a cui Savoini aveva aderito, dove si mescolano idee nazifasciste e si auspica ad un continente euroasiatico sotto l’egemonia della Russia. Era stato Murelli a mettere in contatto Savoini con Dugin e anche con l’oligarca di Dio Maloffiev, l’uomo che ha finanziato i movimenti di destra europei, ha finanziato la guerra in Crimea. Ma Report ha anche scoperto una serie di viaggi che Maloffiev ha fatto in America per incontrare la destra repubblicana, gli esponenti di quelle fondazioni ultra-cristiane e ha messo in piedi una sorta di Santa Alleanza che avrebbe finanziato movimenti europei per circa un miliardo di dollari – questi li ha trovati Giorgio – e finalizzati ad alimentare le casse di quei movimenti ultra-religiosi che hanno fatto campagne contro l’aborto, contro i diritti delle coppie gay, contro l’immigrazione, col tentativo di farla implodere, l’Europa, e mettere in crisi il papato di Bergoglio. Ecco, una fabbrica della paura che è stata alimentata con quello che noi potremmo definire l’effetto farfalla. In fisica che cosa significa? Che un semplice battito di ali muove delle molecole che a loro volta ne muovono altre fino a provocare a migliaia di chilometri di distanza un uragano. Il nostro infaticabile Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella moschea di Christ Church, in Nuova Zelanda, un gruppo di musulmani sta per finire la preghiera del venerdì. Con il sottofondo di musica nazionalista serba e l’auto piena di fucili automatici, Branton Tarrant fa partire la sua diretta Facebook e si dirige verso la moschea. Tarrant uccide 51 persone e ne ferisce 49. Per rivendicare la strage pubblica un testo di 87 pagine, si intitola The Great Replacement: La Grande Sostituzione, in cui racconta come gli immigrati neri, arabi e musulmani stanno progressivamente sostituendo a livello etnico e razziale i popoli europei. È la teoria della “sostituzione etnica”: non se l’è inventata Tarrant. Sui social da anni compaiono migliaia di post ogni giorno sull’argomento. E anche i politici italiani da qualche tempo, hanno iniziato a parlarne e a lanciare l’allarme.

MATTEO SALVINI 3 maggio 2017 È in corso un tentativo di sostituzione etnica, di pulizia etnica ai danni degli italiani.

GIORGIA MELONI 20 giugno 2017 Sì, penso che ci sia un disegno di sostituzione etnica

 MATTEO SALVINI 7 marzo 2017 Questo è l’ennesimo caso di tentativo di sostituzione etnica in corso.

GIORGIA MELONI 28 gennaio 2017 Quella che abbiamo visto in Italia, 500mila immigrati in tre anni, è un’invasione pianificata e voluta. Si chiama sostituzione etnica! E noi non la consentiremo!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nei video online la teoria della “sostituzione etnica” viene anche chiamata “Piano Kalergi”, il presunto complotto ordito dal conte Kalergi dopo la seconda guerra mondiale e che avrebbe puntato a sostituire gli europei con altri popoli più obbedienti. A diffondere la storia del piano Kalergi è stato negli anni 90 l’austriaco Gerd Honsik.

BRIGITTE BAILER – GALANDA – PROFESSORESSA STORIA CONTEMPORANEA UNIVERSITÀ DI VIENNA Era un neonazista più volte condannato perché negava l’Olocausto. Sosteneva che non ci fossero mai state camere a gas ad Aushwitz.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Honsik è stato il teorico della “sostituzione etnica”?

BRIGITTE BAILER – GALANDA – PROFESSORESSA STORIA CONTEMPORANEA UNIVERSITÀ DI VIENNA Chiamarlo teorico mi sembra eccessivo. Il tema della “sostituzione etnica” è stato fin dagli anni ’70 un cavallo di battaglia della propaganda neonazista antiimmigrati. Ora però il tema sembra essere uscito fuori dalla cerchia ristretta dell’estrema destra.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E se la teoria della sostituzione etnica è diventata così popolare, lo si deve anche e soprattutto all’uomo che vive in questa villa lussuosa poco distante da Washington e che sembra seguire la politica italiana con molta attenzione.

JARED TAYLOR – DIRETTORE AMERICAN RENAISSANCE Ho una grande ammirazione per il signor Salvini.

GIORGIO MOTTOLA Ah sì?

JARED TAYLOR – DIRETTORE AMERICAN RENAISSANCE Sì, penso che quello che sta facendo sia proprio quello che vada fatto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per i suoi discorsi considerati di incitamento all’odio razziale, Jared Taylor pochi mesi fa è stato bandito dall’Unione Europea. Come condizione per rispondere alle nostre domande ci chiede di toglierci le scarpe e fare l’intervista scalzi.

JARED TAYLOR - DIRETTORE AMERICAN RENAISSANCE A causa dell’immigrazione di massa nel giro di vent’anni i bianchi saranno la minoranza. Noi bianchi dovremmo dire: ci spiace, questa nazione l’hanno costruita i nostri antenati per noi, non per voi. Quindi per favore restate dove siete o tornatevene a casa vostra. Anche perché noi abbiamo un quoziente intellettivo molto più alto dei neri.

GIORGIO MOTTOLA Davvero sta dicendo che i bianchi sono più intelligenti dei neri?

JARED TAYLOR - DIRETTORE AMERICAN RENAISSANCE Certo. I neri hanno un testosterone più alto dei bianchi. E la combinazione tra testosterone alto e quoziente intellettivo basso rende più inclini a comportamenti criminali.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le sue teorie razziste e antiscientifiche hanno fatto diventare Jared Taylor l’ideologo dei suprematisti bianchi. La frangia dell’estrema destra americana che segue le orme del vecchio Ku Klux Klan. In nome della resistenza alla sostituzione etnica, ogni anno i suprematisti bianchi realizzano attentati sanguinari in tutto l’occidente. Negli Stati Uniti D’America le loro stragi dal 2001 a oggi hanno provocato 111 morti. Tre in più dei cadaveri che si sono lasciati dietro i terroristi di matrice islamica nello stesso periodo.

GIORGIO MOTTOLA Cosa ne pensa di questa connessione tra le sue idee e gli attentati terroristici?

JARED TAYLOR - DIRETTORE AMERICAN RENAISSANCE Il fatto che ci sia gente che in nome di alcune idee compie atti violenti, non rende sbagliate quelle idee.

GIORGIO MOTTOLA Non sente nessun senso di colpa?

JARED TAYLOR - DIRETTORE AMERICAN RENAISSANCE No, assolutamente no. Credo che sia moralmente giusto impegnarmi per la sopravvivenza della mia gente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Finita l’intervista Taylor ci tiene a manifestare il suo entusiasmo per la situazione politica attuale.

GIORGIO MOTTOLA Lei ritiene che le sue idee siano più forti e abbiano più sostenitori che in passato?

JARED TAYLOR - DIRETTORE AMERICAN RENAISSANCE Oh sì, senza dubbio. Rispetto a 10 anni fa sono molto, molto più forti. Credo che dipenda dal fatto che oggi la gente ha Google, Youtube e si lascia attrarre da queste idee.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su Youtube i video sulla sostituzione etnica hanno fatto milioni di visualizzazioni. Questo è il più visto: oltre 4 milioni di volte.

 PRAGERU.COM - TRATTO DA SUICIDE OF EUROPE La civiltà nata dai valori giudaico cristiani, dalla filosofia greca e le scoperte dell’illuminismo è a un passo dal baratro che essa stessa ha creato. In parole povere, l’Europa si sta suicidando.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È stato postato da PragerU, un canale Youtube che si autodefinisce “università”. Il video prova a dimostrare la sostituzione etnica in corso citando dati che vengono presentati come scientifici e inoppugnabili.

PRAGERU.COM -TRATTO DA SUICIDE OF EUROPE È evidente che l’immigrazione sia aumentata. Nel 2015 Germania e Svezia hanno aumentato la loro popolazione del 2% in un singolo anno e nel 2017 in Inghilterra il nome maschile più diffuso è stato Mohammed.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sarebbe davvero tutto molto interessante, se non fosse che la fonte citata per la Germania e la Svezia è un sito di statistiche che non usa sempre fonti istituzionali. Secondo i dati ufficiali infatti, la crescita non è stata del 2%, ma dello 0,4 in Germania e dello 0,7 in Svezia. Stessa storia per il nome Mohammed: una notizia completamente falsa, smentita dall’ente Nazionale Di Statistica inglese. Il nome più diffuso infatti è Oliver, mentre Mohammed è solo in decima posizione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà se la parola “sostituzione etnica” non è altro che un frutto avvelenato spuntato da uno di quei semi che aveva gettato il neo fascista Maurizio Murelli quando ha infiltrato la Lega perché è culturalmente più debole. Così aveva detto. Salvini aveva sempre respinto al mittente le accuse di posizioni vicine al nazifascismo, ma lunedì scorso Report ha mostrato un sondaggio fino ad allora rimasto segreto dove emergeva che il 45%, dal 45% al 71 % del suo elettorato, non riteneva importante reprimere le idee nazifasciste né temeva un ritorno del nazifascismo. Ecco, questo ha consentito a Salvini, non certo per nostalgia ma per opportunismo elettorale, ha consentito di dialogare con l’estrema destra. E poco importa se questo poi ha alimentato il nazifascismo o addirittura l’odio razziale. E poi, per alimentare la fabbrica della paura, una manina misteriosa ha veicolato bufale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se avete un profilo Facebook, è assai probabile che vi siate imbattuti in questo video: un gruppo di africani distrugge una macchina dei carabinieri. È stato condiviso centinaia di migliaia di volte - l’ultima un paio di ore fa – con commenti di questo tipo “e questi sono i profughi ammalati che bisogna salvare dal mare?”, “sparagli alle gambe”, “vorrei partecipare a bastonare loro”, “bastardi”, “aprite i porti, poi ci peneranno loro a rinchiudervi”.

GIORGIO MOTTOLA Dove insomma la gente pensa insomma che sia vero.

LUCA NICOTRA – AVAAZ – ORGANIZZAZIONE NO PROFIT Assolutamente. Ma si può vedere in realtà che qui sulla sinistra c’è addirittura un microfono, uno specchio. Perché in realtà questa è la scena di un film che è stata pubblicata ormai diversi anni fa come una scena che invece avveniva in una delle nostre periferie e ha totalizzato ormai 10milioni di visualizzazioni.

GIORGIO MOTTOLA 10milioni, quanto il Festival di Sanremo praticamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Utilizzando un semplice strumento di analisi, si può scoprire che il video è stato condiviso per la prima volta nel 2015 e poi ciclicamente ricondiviso negli anni successivi.

LUCA NICOTRA – AVAAZ – ORGANIZZAZIONE NO PROFIT Ad esempio il 19 marzo, una serie di pagine: Matteo Salvini fa un gruppo, gruppo Lega, “Dalla vostra parte”.

GIORGIO MOTTOLA “ “L’Italia con Matteo Salvini”.

LUCA NICOTRA – AVAAZ – ORGANIZZAZIONE NO PROFIT Tutte queste, in modo coordinato, il 19 marzo, hanno deciso di ricondividere questo rifacendo diventare virale questo video per l’ennesima volta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I gruppi che hanno condiviso questo video sono nati come pagine di sport e di agricoltura. E, dopo aver fatto incetta di membri e followers, hanno cambiato la propria denominazione, diventando gruppi a supporto della Lega e dei 5stelle.

LUCA NICOTRA – AVAAZ – ORGANIZZAZIONE NO PROFIT Pubblicavano contenuti in modo coordinato, per “imbrogliare” l’algoritmo di Facebook e quindi far credere a Facebook che si tratta di un contenuto che piace molto agli utenti e quindi Facebook comincia a proporlo molto sulle Home.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo le denunce di Avaaz, Facebook è stato costretto a chiudere 18 pagine, a supporto di Lega e 5stelle, che rendevano virali notizie false soprattutto riguardo al tema dell’immigrazione. Ma non si tratta solo di un fenomeno italiano. Di questa rete della disinformazione, farebbero parte oltre 800 pagine o gruppi Facebook.

LUCA NICOTRA – AVAAZ – ORGANIZZAZIONE NO PROFIT Quello che noi abbiamo trovato è un vero e proprio tsunami di disinformazione. Solo le pagine che sono state chiuse hanno fatto nel periodo dei tre mesi prima delle elezioni circa 760milioni di visualizzazioni. Un telegiornale della sera può fare qualche milione, quindi sono centinaia, migliaia di telegiornali…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nessune delle pagine chiuse presenta un collegamento ufficiale o diretto con la Lega. Per veicolare i propri contenuti e la propaganda, i profili ufficiali dei partiti ricorrono innanzitutto allo strumento delle sponsorizzazioni. Vale a dire pagano Facebook per raggiungere più persone. Lo fanno tutti i politici: Matteo Renzi per esempio nell’ultimo anno ha speso 56.632 euro; sponsorizza ogni giorno quasi tutti i post che pubblica, scegliendo la fascia d’età degli utenti di Facebook a cui vuole arrivare e la loro regione di residenza. E se Di Maio quest’anno ha speso zero euro in inserzioni, il Movimento 5Stelle è a quota 50 mila euro, anche se il grosso delle sponsorizzazioni risale allo scorso maggio, quando la maggioranza era gialloverde e il PD era ancora il grande nemico. Per pubblicizzare questo post hanno speso il massimo del loro budget abituale: 5000 euro. Video

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il più attivo è Matteo Salvini. Dall’inizio dell’anno ha speso 140mila euro in inserzioni. E quando paga, a Facebook fa una richiesta molto particolare: se tutti gli altri politici indirizzano i loro messaggi a utenti dai 18 anni in su, Salvini è l’unico che chiede a Facebook di far arrivare la sua propaganda anche ai minorenni. L’esempio più plateale riguarda questo post del 22 settembre. Il target principale che Salvini indica a Facebook sono i ragazzini tra i 13 e i 17 anni. Video

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Molto spesso Salvini paga Facebook per dare visibilità a fatti di cronaca che riguardano migranti. Come lo scorso 9 ottobre, la pagina di Salvini ha speso circa 1000 euro per far comparire sulle bacheche di 1 milioni di italiani questo post: “Clandestino nigeriano terrorizza i passanti a Fermo”. Video

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per quest’altro post invece è arrivato spendere 50mila euro per raggiungere oltre 1 milione di persone. E anche in questo caso i minorenni tra i 13 e i 17 anni sono uno dei target da colpire. Video

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma per rendere virale la propaganda di partito accanto ai metodi pubblici ce ne sono anche altri non ufficiali, come ha scoperto sulla sua pelle Raffaele Ariano.

RAFFAELE ARIANO - INSEGNANTE Questi sono 500 dei circa 50mila insulti e minacce che ricevetti. Vedete? Qui c’è un post della pagina ufficiale “Lega Salvini Premier” con la mia faccia. Qui avete un fotomontaggio della mia faccia vicino a un treno piombato in stile Auschwitz in cui si dice sostanzialmente che io e i Rom dobbiamo andare nei campi di concentramento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La grave colpa di Raffaele che gli ha scaricato addosso 50.000 minacce è questo post che ha pubblicato dopo un viaggio fatto in treno.

RAFFAELE ARIANO - INSEGNANTE Dagli altoparlanti del treno e quindi sostanzialmente, la capotreno di quel treno Milano – Mantova, in una mattina di estate aveva detto una frase che pressappoco recita le parole “zingari: scendete alla prossima fermata perché avete rotto i coglioni”. Quindi io scrissi una lettera in cui chiedevo che Trenord si dissociasse dall’accaduto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La pagina ufficiale della Lega pubblica questo post e chiede ai suoi iscritti: “stai con la capotreno che rischia il posto o con Raffaele Ariano?” con relativo link diretto alla pagina Facebook dell’insegnante lombardo.

GIORGIO MOTTOLA Così si è ritrovato vittima di 50mila insulti e minacce.

RAFFAELE ARIANO - INSEGNANTE Sì, questi sono i numeri.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’attacco a Raffaele Ariano potrebbe essere infatti molto meno spontaneo di quanto possa sembrare.

GIORGIO MOTTOLA Nel modo in cui si sono propagati gli insulti e le minacce nei confronti di Raffaele Ariano c’è qualche stranezza?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Quello che è strano è che son sempre i soliti noti nomi che troviamo sulla rete quando parte un ashtag. Quindi basta inserire un nome… e i nomi che compaiono alla fine sono sempre i soliti noti.

GIORGIO MOTTOLA Francesca Totolo.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Francesca Totolo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Francesca Totolo è un’attivista di Primato Nazionale, organo di informazione di Casapound. Si è già distinta in passato per aver fatto diventare virali alcune bufale come quella di Josefa, la migrante con lo smalto alle dita. Il numero degli insulti e delle minacce contro Raffaele Ariano schizza dopo il suo tweet. Ma la maggior parte degli account che rendono virale l’attacco di Francesca Totolo contro Ariano presenta anomalie.

GIORGIO MOTTOLA Quindi uno degli indizi è il fatto che più account contemporaneamente ritwittino o ripostino la stessa cosa.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE In un brevissimo lasso di tempo. Questo è il picco della Totolo dove abbiamo 1662 unità praticamente quasi nello stesso momento che sono retweet continuativi delle stesse persone che mettono sempre gli stessi retweet.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Si chiamano “sock puppets”, in italiano “account marionetta”. Sono profili che sembrano reali, ma in realtà vengono gestiti contemporaneamente - a gruppi di 10 o anche di cento - da un’unica persona.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Immagina che tu vai in una piazza con 50 persone e invece queste 50 persone si portano con loro, ognuno, altre 50 sagome di persone; alla fine sembreranno tipo 5mila persone, 25mila persone. In questo caso retwittano in continuazione lo stesso tweet per far sembrare il tema più grande per quello che non sia e far vedere che c’è un appoggio popolare più grande di quello che non sia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nell’attacco a Raffaele Ariano, molti account che rilanciano il tweet della Totolo, facendola diventare una campagna virale, presentano anomalie che farebbero pensare ad account marionetta: sono stati creati tutti nello stesso periodo, hanno meno di 10 follower ciascuno e operano con tempistiche sospette.

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER Io non ho organizzato nessuna campagna, non organizzo campagne. Io non ho dietro nessuno. Io sono Francesca Totolo, punto. Io riferisco e rispondo soltanto di quello che scrivo, dico e faccio io, ok? Quindi non addebitatemi cose, le campagne, l’attacco…

GIORGIO MOTTOLA Ha partecipato a una campagna che ha portato a 50mila insulti che è partita in qualche modo da lei, vedendo le dimensioni, e che sono degli account…

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER E va beh, gli è piaciuto ad Ariano andare in tutte le piazze.

GIORGIO MOTTOLA Ma gli è piaciuto cosa? Su!

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER Per piacere!

GIORGIO MOTTOLA La domanda è su gli account anomali. Lei ha degli account…

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER E che ne so io degli account anomali?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Totolo non ne sa niente, ma lo stesso è accaduto con la campagna “Parlateci di Bibbiano”. Queste sono le condivisioni fatte in media dai politici che parlano di Bibbiano, questo invece accade nel caso dei tweet di Francesca Totolo. Come per Ariano, la campagna “Parlateci di Bibbiano” viene viralizzata con account anomali.

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER Forse, se Bibbiano non verrà messa da parte, magari un pochettino è anche merito mio, non trova?

GIORGIO MOTTOLA E quindi anche se vengono usati degli account anomali va bene comunque.

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER Account anomali in che senso? Non gestisco io account anomali.

GIORGIO MOTTOLA La domanda è: lei ha manipolato la diffusione dei suoi tweet?

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER Vuole che… No.

GIORGIO MOTTOLA Ok. E rispetto a questa questione, che i suoi tweet sono stati ritwittati da account anomali lei che cosa mi risponde? Che non lo sapeva?

FRANCESCA TOTOLO - BLOGGER È mia responsabilità? No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’unico che potrebbe spiegarci come funziona la macchina da guerra dei social è chi l’ha creata per Salvini: Luca Morisi. Siamo andati a cercarlo presso la sua residenza ufficiale che si trova in questo casolare in provincia di Verona, però non c’è né una targa né un campanello e i suoi vicini è da un bel pezzo che non lo vedono.

DAVIDE FONDA Luca Morisi?

VICINO Luca Morisi anche… però non so dove sia. Non so dirti qual è perché non lo vedo mai.

DAVIDE FONDA Non c’è mai?

VICINO No.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Luca Morisi infatti è nato e cresciuto a Mantova e l’appartamento in questo casolare l’ha comprato solo nel 2007. Gliel’ha venduto una società di Andrea Lieto, imprenditore con aziende che hanno sedi in paradisi fiscali e con strette relazioni con uomini di affari russi. E infatti nel 2012 nello stesso casolare, allo stesso numero civico di Luca Morisi ha acquistato un appartamento anche un imprenditore russo, Sergey Martyanov.

VICINO Martyanov Sergey deve abitare qua però non c’è quasi mai.

DAVIDE FONDA Non c’è mai.

VICINO No, viene tre volte all’anno, fa le vacanze e poi…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sergey Martyanov possiede le quote della Namiana srl, un’azienda costituita nel 2014 a distanza mentre Martyanov si trovava ancora in Russia e non spiccicava una parola di italiano.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, è certamente una coincidenza. Morisi ci ha scritto dicendo che lui questo russo non lo conosce. “Non associatemi” – ha detto – “ad affari loschi, perché mi dispiacerebbe”. Ci mancherebbe, questo ci rassicura, ma la domanda dovevamo fargliela visto che il tema è caldo. Anche perché Morisi è dietro il successo di Salvini in questi anni. Ecco, gestisce la cosiddetta «Bestia, la macchina dei social». Il nome l’ha copiato dalla campagna elettorale di Barack Obama. Solo il nome però. Ma come funziona ce l’ha raccontato bene in un dataroom Milena Gabanelli. Ecco, è il meccanismo che ha consentito al leader della Lega di essere il numero uno in tema di campagna social. Morisi gestisce 35, coordina 35 esperti digitali che seguono Salvini 24 ore su 24, vita privata e vita pubblica, da quando si sveglia per fare colazione con la Nutella a quando la sera fa le castagne in padella. Poi però che cosa fanno: si infilano anche nei discorsi altrui, un po’ come fa Prezzemolino. Hanno un software che identifica, individua, il messaggio più discusso della giornata e ci si infila Salvini. Poi, se dovesse cambiare direzione, come nel caso del vincitore di Sanremo Mahmood, prima criticato e poi elogiato, è perché un sondaggio in tempo reale gli dice: “guarda, stai sbagliando”. E poi che cosa fa: accumulati i follower, lui invia, veicola, dei messaggi mirati che creano discussione. “La pacchia è finita” oppure “i porti sono chiusi” oppure “prima gli italiani” contro l’immigrazione. E questi messaggi vengono veicolati e rilanciati da 1000 ripetitori digitali, che sono fedelissimi, ottengono il link sulla loro chat e la rilanciano. Tutto questo ovviamente per fare impazzire l’algoritmo di Facebook e prima delle elezioni è spuntato anche il «Vinci Salvini», un gioco a premi dove se tu metti velocemente il like, che cosa fai? Entri in graduatoria e vinci un caffè con Salvini. Anche i selfie fanno parte di una strategia ben precisa: un rito, il rito dei selfie. Perché tu vai da lui, fai la fotografia e poi che cosa fai: la pubblichi sui tuoi social e con la tua veicoli anche la sua, di immagine. Gratis. E a proposito di costi ci siamo chiesti: ma la Bestia e chi la gestisce come vengono pagati? Nel 2017 ci eravamo occupati di Luca Morisi. Avevamo scoperto che dal 2009 aveva incassato circa un milione di euro frazionati soprattutto dalle Asl in amministrazione leghista e avevamo chiesto: ma questi soldi sono stati dati direttamente o attraverso una regolare gara? Ci avevano risposto le Asl di Mantova e di Cremona, avevano detto “dateci il tempo di cercare le carte. Appena le troviamo ve le mandiamo”. Sono passati due anni, ma le carte non le abbiamo viste. Poi, indagando sul commercialista Di Rubba, direttore finanziario del gruppo della Lega alla Camera e amministratore della Pontida immobiliare, avevamo anche scoperto un finanziamento di 480 mila euro che era partito dal gruppo al Senato della Lega per incrementare la campagna social, ma avevano fatto un giro un po’ strano.

DA I COMMERCIALISTI del 10/6/2019 Di Luca Chianca

FONTE Il 2 maggio 2018, a due mesi dalle elezioni, la cognata di Alberto Di Rubba, Vanessa Servalli, apre una società la Vadolive Srl. Dopo soli 8 giorni il gruppo parlamentare al Senato della Lega di Salvini sottoscrive con lei un contratto da 480mila euro.

LUCA CHIANCA Per fare che cosa?

FONTE Teoricamente per comunicare le attività del gruppo sui canali social…

LUCA CHIANCA Ma scusi: la cognata di Di Rubba che lavoro fa?

FONTE Che io sappia ha un bar a Clusone in provincia di Bergamo.

LUCA CHIANCA Vanessa!

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Sì?

LUCA CHIANCA Ciao Luca, sono un giornalista di Rai3.

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Piacere.

 LUCA CHIANCA Di Report, piacere mio. Lei è la cognata di Di Rubba, no?

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Sì.

LUCA CHIANCA Avete aperto a un certo punto una società la Vadolive, a maggio 2018.

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Non sono tenuta a rispondere.

LUCA CHIANCA Dopo 8 giorni, avevate un contratto da parte del gruppo della Lega al Senato.

VANESSA SERVALLI – COGNATA DI DI RUBBA Io non sono tenuta a rispondere.

LUCA CHIANCA Lei non sa nulla o l'hanno messa lì e poi hanno fatto gli altri? Questo volevo capire. Lei lavora nel campo dei social, della comunicazione? Cioè come fa lei a far aprire una società e ad avere un contratto da 480mila euro con il gruppo del Senato…

FONTE Il contratto è stato interrotto dopo qualche mese, ma una parte dei soldi incassati dal gruppo della Lega sono poi stati girati ad alcuni membri dello staff del ministro Salvini che però già all’epoca avrebbero dovuto avere un incarico fiduciario presso il Ministero. Parliamo di 87mila euro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, un contratto di 480 mila euro viene stipulato dal gruppo parlamentare al Senato della “Lega Salvini premier”: lo scopo è divulgare le attività istituzionali sui social del gruppo, solo che poi questo contratto viene stipulato con una società che fa riferimento a una barista, che è la cognata del commercialista della Lega, che dietro il bancone non è che dà poi proprio l’idea di occuparsene, di saperne molto di social. Tuttavia è tutto legale, perché la legge consente ai gruppi parlamentari di finanziare e decidere a chi dare direttamente loro i soldi, anche milioni di euro di contributi pubblici, purché però vengono spesi per le attività istituzionali del gruppo, e come tali vengono, devono essere rendicontati. In questo caso come sono stati spesi? Perché poi noi di Report abbiamo scoperto che c’è stato un giro e più di 87 mila euro sono tornati nella disponibilità dello staff, di alcuni membri dello staff della comunicazione di Salvini, tra cui appunto Luca Morisi e Andrea Paganella, che è il suo socio. Ma siccome la Bestia ha bisogno continuamente di alimentarsi, Report ha scoperto delle email inedite nel database del consorzio giornalistico OCCRP: sono delle mail, all’indomani della vittoria delle elezioni nel 2017 dove Morisi scrive a Centemero, il tesoriere, a Giorgetti e a Siri e manifesta la necessità di avere uno strumento, di creare uno strumento per incassare dei fondi. Risponde Siri, che ne propone uno che non funziona come un soggetto giuridico vero e proprio, una sorta di associazione non riconosciuta. In questo modo può non presentare i bilanci e l'elenco dei componenti in prefettura. Morisi dice "facciamo presto, perché Matteo ha fretta. D’altra parte uno strumento giuridico di questo tipo serve anche a me per incrementare l’attività social”. Ecco, ma perché non scelgono una volta tanto uno strumento trasparente? Perché non si finanziano dal partito direttamente? E poi la Bestia però ha anche un costo nascosto che merita un ragionamento. Questa settimana siamo stati sotto tiro incrociato con l’accusa di aver violato la par condicio, fatto che non è vero. Ecco, da una parte la politica cerca di regolamentare e porre limiti all’informazione durante le campagne elettorali quando invece ci sarebbe più bisogno di informazione. Dall’altra lascia una prateria ai politici che possono pascolare liberamente sui social. Un politico può investire dei fondi – non sappiamo se privati o pubblici – per veicolare il proprio messaggio a dei minorenni dai 13 ai 17 anni per alimentare la sua fabbrica della paura. Ecco, questa volta la paura è che possa esser soffiata, rubata la merendina inculcando l’idea, a chi non ha il giusto filtro per decriptare il messaggio e chi è più fragile culturalmente, che contribuire al welfare di uno Stato, cioè alle cure, all’insegnamento, al sostegno dei più deboli, dei disabili, possa essere un furto. Tutto in nome del consenso, tutto in nome del consenso. E poi, se questi domani diventeranno maggiorenni e decideranno che forse è meglio non pagare le tasse perché potrebbe essere inteso come un furto, anche questo è un costo che dobbiamo all’alimentazione della Bestia. Ora vediamo la testimonianza inedita di un attivista che per la prima volta ci racconta la sua testimonianza, vive tra la Russia e Lettonia. Ci racconta come ha imbrogliato l’algoritmo di Facebook.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gli account e i profili in grado di rendere virali le campagne social, possono essere anche interamente automatizzati. Si chiamano Bot, perché proprio come dei Robot vengono programmati per scrivere in modo automatico post e condividere e diffondere contenuti. Report ha incontrato uno dei più importanti programmatori italiani di Bot. Si chiama Andrea Bruno e vive tra la Russia e la Lettonia.

ANDREA BRUNO – PROGRAMMATORE INFORMATICO I Bot sono programmati esclusivamente per fregare gli algoritmi dei social. Io c’ho cento sim di telefoni perché ho creato cento account, li faccio lavorare tutti assieme…

GIORGIO MOTTOLA Queste cento sim a che cosa le servono?

ANDREA BRUNO – PROGRAMMATORE INFORMATICO Servono per avere tanti account per poter massimizzare questa presenza sui social.

GIORGIO MOTTOLA Con una sim quanti account si riescono ad aprire?

ANDREA BRUNO – PROGRAMMATORE INFORMATICO Con una sim puoi fare quattro robot. Se tu ne hai 100 riesci a fare questo lavoro che tu vorresti fare in maniera massiccia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il lavoro che fanno i profili bot è far credere ai social e agli utenti che tante persone stanno scrivendo contemporaneamente su uno stesso argomento. In questo modo il post comparirà su più bacheche e più persone lo condivideranno.

ANDREA BRUNO – PROGRAMMATORE INFORMATICO Volevo cercare nel mio piccolo di orientare le masse e cambiar le cose. Quindi io inizialmente ho fatto un po’ di robot più che altro per divulgare l’operato del Movimento 5Stelle quando non aveva assolutamente visibilità.

 GIORGIO MOTTOLA Quindi attraverso i Bot hai provato a dare più visibilità alle battaglie del movimento 5Stelle?

ANDREA BRUNO – PROGRAMMATORE INFORMATICO Ecco, sì. Quando Beppe Grillo ha deciso di portare il movimento politico alle elezioni, ha invitato gli attivisti che erano più attivi internet.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa è la mail con cui il Movimento 5Stelle nel 2013 invita Andrea Bruno insieme ad altri esperti informatici, alla riunione con Beppe Grillo. Dopo quell’incontro Andrea Bruno ha aperto una serie di pagine su Facebook a favore dei 5stelle, come Movimento 5Stelle News. Una pagina con migliaia di membri più volte accusata di pubblicare e spingere in rete notizie false diventate virali.

GIORGIO MOTTOLA Ci faccia qualche esempio di qualche suo successo.

ANDREA BRUNO – PROGRAMMATORE INFORMATICO Ho messo la foto di uno in autobus vestito con la calza maglia e ho messo che quella foto lì era il direttore di una ONG di Soros. Tutti… bastardo Soros! Figlio di puttana! Tutti incazzatissimi!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed eccolo il post in questione. Si tratta di un photo montaggio di un uomo che somiglia a un ex presidente del consiglio italiano, accompagnato dalla didascalia: questo è il direttore dell’Ong di Soros mentre si reca al lavoro. Una notizia che è stata pubblicata anche sulla pagina Beppe Grillo e Lega dei Popoli. A volte però l’uso degli account automatizzati o semi automatizzati può sfuggire di mano.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE La cosa che salta all’occhio è l’unione, gli stessi follower, uguali e identici tra Giorgia Meloni e Trash Italiano.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa emerge da questa analisi?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Emerge che praticamente tra Giorgia Meloni e Trash Italiano i follower a maggio del 2019 erano gli stessi praticamente. Non c’è quasi differenza. Questo è un caso rarissimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Trash Italiano è una pagina social che si occupa di gossip e di televisione. Dalle analisi di Orlowsky risulta che a maggio l’account twitter di Giorgia Meloni condividesse pressoché gli identici follower con il sito specializzato in meme e gif animate. Una coincidenza più unica che rara. Ma che tipo di account hanno in comune Giorgia Meloni e Trash Italiano?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Qua hanno in comune più di 237 mila account, in questo momento. Se poi io dico, fammi vedere solo gli account, che non hanno più di 10 follower, vedi che il numero non scende quasi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi la maggior parte degli account che seguono sia…

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Sono nati nel lasso di due anni…

GIORGIO MOTTOLA Giorgia Meloni che Trash Italiano hanno meno di 10 follower.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Hanno meno di 10 follower e sono tutti nati nello stesso lasso di tempo.

GIORGIO MOTTOLA Lei per i suoi account social ha mai comprato dei follower?

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA No.

GIORGIO MOTTOLA E come mi spiega questa stranezza? Guardi. Questo è il numero dei suoi follower e questo quello di Trash Italiano. Praticamente coincidono. Sono…

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Mai comprato follower in vita mia. Io non so neanche che cos’è Trash Italiano. Guardi… Glielo posso proprio giurare su quello che vuole. Non mi serve a niente comprare i follower. Che ci faccio…. Se sono finti…

 GIORGIO MOTTOLA Lo sa che la maggior parte di questi follower…

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Se sono finti, vuol dire che non mi seguono. E se non mi seguono che ci faccio?

GIORGIO MOTTOLA Appunto. Lo sa che questi account invece ritwittano i suoi contenuti e sono tutti anomali perché hanno meno di 10 follower e sono stati creati tutti quanti nello stesso periodo.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Non li ho mai comprati in vita mia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dalle ricerche di Orlowsky sui follower della Meloni emerge anche un’altra coincidenza piuttosto singolare. La cantante Francesca Michielin, famosa per la sua voce e non certamente per il suo impegno e le sue posizioni politiche, allo scorso maggio aveva circa il 34 per cento dei follower in comune con la Meloni. E tali profili coincidevano con quelli condivisi dal leader di Fratelli d’Italia con Trash Italiano con il quale Francesca Michelin nega qualsiasi contatto.

GIORGIO MOTTOLA Anche questa è un’altra stranezza.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Quindi pure Francesca Michelin si compra i follower?

GIORGIO MOTTOLA Questo non lo so. Coincidono con i suoi e con quelli di Trash Italiano.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Ripeto. Io soldi per comprare follower finti non ne ho e la considererei anche un’idiozia francamente. Cioè che me ne faccio? No, non è che c’ho il problema fammi seguire da gente finta perché ringraziando Dio, mi segue la gente vera. Quindi non è un problema.

GIORGIO MOTTOLA Lei sa benissimo che… Avere dei Bot vuol dire che questa piazza che sta applaudendo lei è moltiplicata per dieci. È questa la cosa. Grazie ai Bot questa piazza è moltiplicata per dieci.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Cioè lei sta dicendo che sono finti?

GIORGIO MOTTOLA Sto dicendo che sono anomali. Anche Francesca Michelin lei non la conosce.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA È la cantante, certo, la conosco. Ma non la conosco personalmente.

GIORGIO MOTTOLA Il fatto che abbiate account…

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Ma che ne so! Le ho detto che non lo so.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da qualche tempo le strategie comunicative di Meloni e Salvini si assomigliano sempre più. Di punto in bianco hanno iniziato a usare le stesse parole e persino le stesse citazioni.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA VERONA 30 MARZO 2019 WORLD CONGRESS OF FAMILIES Scriveva Chesterton ormai più di un secolo fa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Come al congresso mondiale delle famiglie di Verona lo scorso marzo.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA VERONA 30 MARZO 2019 WORLD CONGRESS OF FAMILIES Fuochi verranno attizzati per dimostrare che due più due fa quattro. Spade verranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate. Quel tempo è arrivato signori, siamo pronti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pochi minuti dopo sullo stesso palco della manifestazione organizzata dalle associazioni pro-vita vicine all’oligarca russo Kostantine Malofeev interviene Matteo Salvini.

MATTEO SALVINI – SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA VERONA 30 MARZO 2019 WORLD CONGRESS OF FAMILIES …da Orwell a Chesterton e sembra scritto ieri, capisco che, “cazzo, un leghista che legge”! Sì! Ci sono anche leghisti che leggono. “Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro”. L’hanno già detto! Chi? Chi? Allora da signore faccio un passo indietro, non rifaccio citazioni e cito la mia mamma e il mio papà.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quella di Chesterton è una citazione poco comune, ma ultimamente va molto di moda negli ambienti ultra cristiani e tra coloro che alimentano campagne contro papa Bergoglio. Lunedì scorso avevamo parlato di una santa alleanza formata dall’oligarca russo, Malofeev e da esponenti delle potenti fondazioni americane ultracristiane che hanno finanziato per un miliardo di dollari movimenti europei contro l’aborto e i diritti delle coppie gay. Alcuni di questi soldi sono arrivati anche all’associazione di Bannon che, negli ultimi tempi, sia Matteo Salvini che Giorgia Meloni hanno incontrato più volte.

STEVE BANNON – EX CAPO STRATEGA DONALD TRUMP Io vi posso aiutare focalizzando le prossime europee per vincere vi possiamo fornire e far realizzare sondaggi, analisi di big data, preparare cabine di regia, tutto quello di cui si ha bisogno per vincere le elezioni. Vi aiutiamo in modo gratuito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Steve Bannon è il fondatore di Cambridge Analytica, la società che ha violato illegalmente 50 milioni di profili su Facebook, ma come dimostra questo fuori onda del documentario “The Brink” il vizio della profilazione a scopo elettorale Bannon non sembra averlo perso.

STEVE BANNON – EX CAPO STRATEGA DONALD TRUMP Questi tizi stanno cercando di profilare il volto cattolico: se il tuo telefono è entrato in una chiesa cattolica è straordinario impossessarsi di quei dati. Possono dirti davvero chi è stato in una chiesa cattolica e quanto spesso. Te li possono profilare. Le compagnie telefoniche, poi i dati te li vende un tizio e così io posso rivolgermi direttamente al tuo telefono. Domani in Iowa ad esempio, faremo mandare un messaggio ai cattolici non daremo indicazioni di voto per una persona specifica, ma diremo che tutti i cattolici devono andare a votare e fare il loro dovere sostenendo il presidente Trump. Tutte le compagnie telefoniche raccolgono i dati, poi c’è qualcuno che decide di guadagnarci sopra e le vende.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma Bannon non è l’unico americano che negli ultimi tempi ha iniziato a proporre il suo aiuto ai politici italiani. Da due anni ha scelto Roma come sede delle sue scuole di formazione una delle più potenti fondazioni della destra americana il Leadership Institute; dagli anni 80 è la scuola di formazione della classe dirigente dell’ala estremista del partito repubblicano. Tra i suoi ex alunni c’è l’attuale vicepresidente degli Stati Uniti, l’ultra cristiano Mike Pense. Il Leadership Institute gestisce un budget annuale di 15 milioni di dollari e negli ultimi anni ha investito in Europa oltre 600 mila dollari. Questa estate per i suoi corsi estivi la fondazione americana ha scelto lo Sheraton di Roma.

RONALD NEHRING – DIRETTORE FORMAZIONE LEADERSHIP INSTITUTE L’Italia ha un clima fantastico e location meravigliose.

GIORGIO MOTTOLA Ci sono anche politici italiani che seguono i vostri corsi?

RONALD NEHRING – DIRETTORE FORMAZIONE LEADERSHIP INSTITUTE Se ce ne sono non sono informato, ma sembra che lei stia insinuando qualcosa.

GIORGIO MOTTOLA No, io le sto facendo una domanda.

RONALD NEHRING – DIRETTORE FORMAZIONE LEADERSHIP INSTITUTE Le iscrizioni ai nostri corsi sono aperte al pubblico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E anche l’anno scorso il Leadership Institute era a Roma e ha tenuto un corso di formazione al gruppo dirigente delle associazioni ultracattoliche italiane. Lo ha fatto durante una scuola estiva che aveva tra i suoi relatori anche il senatore della Lega Simone Pillon e Luca Volontè, ex presidente della fondazione Novae Terrae rinviato a giudizio per i soldi arrivati dall’Azerbaijan e dalla Russia. Volontè e il Leadership Institute hanno una conoscenza in comune: l’oligarca russo Konstantine Malofeev. Il Leadership Institute è infatti una delle associazioni che nel 2013 l’oligarca di Dio ha incontrato durante il suo viaggio riservato negli Stati Uniti.

RONALD NEHRING – DIRETTORE FORMAZIONE LEADERSHIP INSTITUTE Perché associa il nome della mia associazione a questi russi? La trovo un’insinuazione.

GIORGIO MOTTOLA Beh ci sono molti elementi in comune con il congresso mondiale delle famiglie e Malofeev.

RONALD NEHRING – DIRETTORE FORMAZIONE LEADERSHIP INSTITUTE È completamente falso, è una ricostruzione assolutamente tendenziosa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO No, tendenziosi no, la prego, dopo tutto quello che abbiamo visto. Certo, però fa impressione sentire dalla bocca di Bannon che c’è la possibilità di profilare i cristiani, i cattolici che vanno a Messa e a qualcuno potrebbe venire anche la tentazione di inviare dei messaggi personalizzati per carpire il loro consenso. Bannon è uno che la sa lunga, ha contributo alla nascita – l’abbiamo detto più volte – di Cambridge Analitica, la società che ha violato 50 milioni di profili Facebook e avrebbe condizionato le elezioni presidenziali americane e la Brexit. Comunque abbiamo capito che i dati, i profili, sono l’olio per lubrificare la fabbrica della paura. Per questo è importante fare incetta di follower. Poi come, poco importa. Ecco, il nostro Giorgio ha scoperto delle anomalie: ha scoperto che per esempio la politica Giorgia Meloni e la cantante Francesca Michielin condividono 180 mila profili follower e gran parte di questi li condividono anche con Trash Italiano. Secondo il nostro esperto Orlowsky, però, sono anomali perché sono quasi tutti senza la fotografia, ritwittano tutti nello stesso istante e soprattutto hanno ciascuno meno di 20 follower. Ecco, quando abbiamo poi chiesto a Trash Italiano, che produce le gif che vanno tanto di moda ora, “non è che per caso tra i tuoi account c’è qualche profilo marionetta o addirittura qualche robottino che implementa?”, Trash Italiano non ci ha risposto, non ci ha mandato manco una gif di risposta. Però quando Giorgio ha fatto, ha sottoposto alla Meloni le anomalie, la Meloni si è arrabbiata e ha detto “ma io c’ho quelli veri qui in piazza, che ci faccio con quelli finti?”. Non è proprio così, perché servono a ingannare l’algoritmo di Facebook. Se io voglio veicolare il più possibile un messaggio, o pago la promozione o alimento attraverso dei profili. Se non ho quelli veri posso utilizzare quelli finti, i profili, gli account marionetta o i robottini. E Facebook che cosa fa? Dice “cavolo, ma questo è un messaggio importante, lo stanno visualizzando in tanti. Mettiamolo in vetrina”. E così i profili finti servono per attirare quelli veri, vedono il messaggio. Se lo condividono, poi scendono in piazza con te. Magari però il consenso l’hanno formato anche attraverso quelle 760 milioni di visualizzazioni dove sono passate le fake news propalate dai siti vicini a movimenti politici. Ecco, insomma, è un gioco degli specchi, conviene un po’ a tutti. Conviene a Facebook, che può presentarsi sul mercato dicendo che ha due miliardi di profili, poi magari dentro ci sono anche quelli finti. Conviene ai politici. Chi ci rimette è la democrazia e chi è culturalmente fragile.

AGGIORNAMENTO DEL 11/11/2019. Da Report del 11 novembre 2019, di Giorgio Mottola. Due settimane fa abbiamo denunciato la presenza di account anomali tra i followers dell'onorevole Giorgia Meloni. Nei giorni seguenti ci ha accusato di aver detto delle falsità e di aver prodotto un giornalismo spazzatura. Due settimane fa abbiamo denunciato la presenza di account anomali tra i followers dell’onorevole Giorgia Meloni. Nei giorni seguenti ci ha accusato di aver detto delle falsità e di aver prodotto un giornalismo spazzatura.

AGGIORNAMENTO LA FABBRICA SOCIAL DELLA PAURA Di Giorgio Mottola

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE La cosa che salta all’occhio è l’unione, gli stessi follower, uguali e identici tra Giorgia Meloni e Trash Italiano.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa emerge da questa analisi?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Emerge che praticamente tra Giorgia Meloni e Trash Italiano i follower a maggio del 2019 erano gli stessi praticamente. Non c’è quasi differenza. Questo è un caso rarissimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Trash Italiano è una pagina social che si occupa di gossip e di televisione. Dalle analisi di Orlowsky risulta che a maggio l’account twitter di Giorgia Meloni condividesse pressoché gli identici follower con il sito specializzato in meme e gif animate. Una coincidenza più unica che rara. Ma che tipo di account hanno in comune Giorgia Meloni e Trash Italiano?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Qua hanno in comune più di 237 mila account, in questo momento. Se poi io dico, fammi vedere solo gli account, che non hanno più di 10 follower, vedi che il numero non scende quasi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi la maggior parte degli account che seguono sia…

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Sono nati nel lasso di due anni…

GIORGIO MOTTOLA Giorgia Meloni che Trash Italiano hanno meno di 10 follower.

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Hanno meno di 10 follower e sono tutti nati nello stesso lasso di tempo.

GIORGIO MOTTOLA Lei per i suoi account social ha mai comprato dei follower?

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA No.

GIORGIO MOTTOLA E come mi spiega questa stranezza? Guardi. Questo è il numero dei suoi follower e questo quello di Trash Italiano. Praticamente coincidono. Sono…

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Mai comprato follower in vita mia. Io non so neanche che cos’è Trash Italiano.

GIORGIO MOTTOLA Lo sa che questi account invece ritwittano i suoi contenuti e sono tutti anomali perché hanno meno di 10 follower e sono stati creati tutti quanti nello stesso periodo.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Non li ho mai comprati in vita mia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dalle ricerche di Orlowsky sui follower della Meloni emerge anche un’altra coincidenza piuttosto singolare. La cantante Francesca Michelin, famosa per la sua voce e non certamente per il suo impegno e le sue posizioni politiche, allo scorso maggio aveva circa il 34 per cento dei follower in comune con la Meloni. E tali profili coincidevano con quelli condivisi dal leader di Fratelli d’Italia con Trash Italiano con il quale Francesca Michelin nega qualsiasi contatto.

GIORGIO MOTTOLA Anche questa è un’altra stranezza.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Quindi pure Francesca Michelin si compra i follower?

GIORGIO MOTTOLA Questo non lo so. Coincidono con i suoi e con quelli di Trash Italiano.

GIORGIA MELONI – SEGRETARIA FRATELLI D’ITALIA Ripeto. Io soldi per comprare follower finti non ne ho e la considererei anche un’idiozia francamente. Cioè che me ne faccio? No, non è che c’ho il problema fammi seguire da gente finta perché ringraziando Dio, mi segue la gente vera.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In questo servizio abbiamo denunciato la presenza di account anomali tra i followers dell’onorevole Meloni. Ecco, i giorni seguenti ci ha accusato di aver detto delle falsità e di aver prodotto un giornalismo spazzatura. La sua versione è stata presa per buona anche da autorevoli giornali, anche perché quando ha presentato una conferenza stampa l’onorevole Meloni è stata particolarmente convincente, ha detto: “smonteremo il castello di menzogne messo su da Report. Portatevi i popcorn”. Ecco, di fronte all’invito di portarsi i pop corn, vi pare che il nostro Giorgio Mottola poteva mancare?

CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 GIORGIA MELONI –PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Quella è spazzatura giornalistica e io mi vergogno di un servizio pubblico che sostiene tesi di questo tipo. E che per creare il mostro che non è in grado di dimostrare falsifica i dati sui social network. Per costruire una teoria, questo è esattamente quello che è andato in onda su Report.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E per smontare i risultati della nostra inchiesta, durante la conferenza mostra questo video.

VIDEO FRATELLI D’ITALIA – CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 Il giornalista di Report afferma che la pagina di Giorgia Meloni e Trash italiano condividerebbero pressoché gli stessi follower presentando un grafico mistificatorio e falso con sovrapposizione quasi completa. Il dato reale è invece che solo il 29 percento dei follower di Giorgia Meloni segue anche Trash italiano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ciò che non specifica Fratelli d’Italia è che i dati da loro riportati fotografano soltanto la situazione attuale. Gli stessi numeri infatti li avevamo citatati anche noi nel servizio della settimana scorsa parlando di oltre 237mila account condivisi con Trash Italiano al momento delle analisi.

LA FABBRICA SOCIAL DELLA PAURA - 28/10/2019 ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Guarda ti faccio un esempio qua hanno in comune più di 237 mila account, in questo momento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Invece l’anomalia sui profili, come avevamo detto, si riferiva a maggio 2019 ed era certificata anche da questo report di pochi giorni prima, dello scorso 26 aprile rilasciato da Audiense, che tra l’altro è la stessa fonte usata da Fratelli d’Italia. Ma per analizzare i follower della Meloni, noi avevamo adoperato anche un altro software, Metatron Analytics, accreditato a livello internazionale.

GIORGIO MOTTOLA Ma quanto è attendibile il software Metatron?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE È attendibile al 100 percento perché si basa sui dati forniti ufficialmente tramite richiesta dalle porte di accesso che si chiamano Api dei social network. Per questo è utilizzato per la lotta alle fake news e per la reputation on line da varie entità governative e non in tutta d’Europa.

GIORGIO MOTTOLA Che cosa si può fare con Metatron?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Con Metatron si possono fare tantissime cose; passo subito a farti vedere una schermata ad esempio. Questi sono tutti gli account che stanno ritwittando e commentando l’onorevole Giorgia Meloni. Qui abbiamo già fatto una piccola selezione delle applicazioni che stanno utilizzando. Ad esempio Twitter per Android, Twitter per web e poi cominciamo a vedere anche delle cose anche un po’ strane, tipo un software chiamato TM SCBL 56 D.

GIORGIO MOTTOLA Quello che cos’è? Un bot?

ALEX ORLOWSKY – ESPERTO PROPAGANDA ONLINE Questo è un bot, ma un bot chiarissimo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E cioè un account automatizzato che pubblica post a raffica.Dopo l’intervista che ci ha rilasciato la scorsa settimana, Orlowsky è stato sommerso da insulti e minacce, lasciati sulle pagine social ufficiali di Giorgia Meloni. C’è chi ha scritto che riaprirebbe i forni crematori per quelli come lui. Chi lo gonfierebbe di botte e chi suggerisce di mettere nome, cognome e indirizzo dello stronzo… poi magari ci pensa qualcuno.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Ribadisco che voglio che gli italiani conoscano, sappiano, che purtroppo Report non è più affidabile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che per Giorgia Meloni Report non è più affidabile siamo andati da uno dei cacciatori di bufale on line più autorevoli d’Italia: David Puente, il quale ha analizzato le accuse mosse da Giorgia Meloni contro la nostra trasmissione.

DAVID PUENTE – FACT-CHECKER OPEN.ONLINE Il video che è stato pubblicato on line per rispondere alla vostra trasmissione è molto semplicistico. È più che altro una risposta che dà ai suoi fan: come Trump, c’è una notizia che riguarda lui dice “fake news” e gli utenti rispondono “fake news”.

GIORGIO MOTTOLA Sono fondate quelle accuse?

DAVID PUENTE – FACTCHECKER OPEN.ONLINE Voi parlate delle analisi fatte nel mese di maggio. Mentre quello che è stato usato per raccontare nel video di risposta sono proprio dati odierni. Sono passati parecchi mesi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma c’è un’altra accusa che Giorgia Meloni in conferenza stampa ha mosso nei nostri confronti.

GIORGIA MELONI – PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Secondo Report abbiamo detto che gli account sospetti sono quelli che non avrebbero foto e hanno meno di venti follower. Secondo questi criteri Report avrebbe il 32 per cento di profili che corrispondono a questo identikit e un politico come Nicola Zingaretti il 40 per cento. Però Nicola Zingarelli non gliel’hanno fatta una puntata di Report.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per coincidenza, quelle della Meloni sono le stesse contestazioni che la settimana scorsa hanno mosso contro di noi i neofascisti di Primato Nazionale, l’organo di stampa di Casapound. A loro avviso, buona parte dei nostri follower sarebbero falsi in base all’analisi di Twitter Audit, un software che però analizza solo 5000 account.

DAVID PUENTE – FACT-CHECKER OPEN.ONLINE Non è uno strumento adatto per fare analisi serie. Se voi avete un milione di fan questo tool fa solamente un’analisi degli ultimi cinquemila che hanno fatto following al vostro account. Io ho fatto un account falso, in cui ho invitato gli utenti a seguirlo, in più ho comprato dei follower in maniera tale da vedere se questo tool li individuava come falsi. Non li ha individuati.

GIORGIO MOTTOLA Non si è accorto che erano falsi.

DAVID PUENTE – FACTCHECKER OPEN.ONLINE No, non si è accorto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma al di dà di quanti siano gli account reali e quanti i fasulli, che cosa fanno sui social network i follower di leader sovranisti come Meloni e Salvini? Matteo Flora, professore a contratto dell’Università di Pavia, ha analizzato i loro comportamenti on line.

MATTEO FLORA – PROFESSORE CORPORATE REPUTATION UNIVERSITÀ PAVIA Analizzando cosa hanno condiviso più di mezzo milione di persone, ci siamo trovati che, tra i siti più condivisi, sia per l’uno sia per l’altra, ci sono siti notori di disinformazione.

GIORGIO MOTTOLA Quindi i follower di Matteo Salvini e Giorgia Meloni spammano sul web notizie false.

MATTEO FLORA – PROFESSORE CORPORATE REPUTATION UNIVERSITÀ PAVIA Sì. Ne spammano una buona quantità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel corso dell’ultimo mese i fan di Giorgia Meloni hanno condiviso per 12mila volte contenuti del sito Imola Oggi e oltre 10mila volte materiali di Vox News. Si tratta di siti famosi per aver pubblicato notizie false o manipolate, soprattutto sul tema dell’immigrazione.

MATTEO FLORA – PROFESSORE CORPORATE REPUTATION UNIVERSITÀ PAVIA Il problema è proprio quello: trasformare qualcosa che magari è irreale in qualcosa che la gente percepisce come reale. Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich, diceva che una menzogna, condivisa un numero sufficientemente ampio di volte, diventa una verità.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In soli trenta giorni i follower di Salvini e Meloni hanno condiviso insieme quasi mezzo milione di contenuti provenienti dal mondo della disinformazione.

CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 GIORGIA MELONI- PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA La tesi che Report cerca di dimostrare è che ci sarebbe una specie di regia sovranista occulta, internazionale, tendenzialmente filorussa, ma anche con l’aiuto di Bannon, quindi degli Stati Uniti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Questa è l’altra notizia falsa che secondo Giorgia Meloni avremmo mandato in onda la scorsa settimana. Negli ultimi tempi sia Matteo Salvini che Giorgia Meloni hanno più volte incontrato Steve Bannon, l’ex capo stratega di Donald Trump, che lo scorso anno, a un’iniziativa pubblica di Fratelli d’Italia, ha offerto il suo aiuto.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Io vi posso aiutare focalizzandoci sulle prossime europee per vincerle. Vi possiamo fornire e far realizzare sondaggi, analisi di big data, preparare cabine di regia, tutto quello di cui si ha bisogno per vincere le elezioni. Vi aiutiamo in modo gratuito.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per questa ragione, abbiamo approfittato della conferenza stampa per chiarire il ruolo di Steve Bannon in Italia.

CONFERENZA STAMPA 4 NOVEMBRE 2019 GIORGIO MOTTOLA Può chiarire una volta per tutte qual è il rapporto tra lei e Steve Bannon, tra Fratelli d’Italia e Steve Bannon?

GIORGIA MELONI- PRESIDENTE FRATELLI D’ITALIA Guardi, veramente tanto rispetto. Perché ci vuole veramente un gran coraggio. Steve Bannon è stato ospite ad Atreju, io ho incontrato Steve Bannon nella mia vita tre volte, non ho alcun rapporto con Steve Bannon che non sia, appunto, quello che lei ha visto pubblicamente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la parte meno nota è proprio quella privata: qualche mese fa ha partecipato infatti a incontri privati con Bannon e rappresentanti di The Movement, il suo movimento politico europeo. Lo testimoniano queste immagini girate a Venezia da una troupe del quotidiano inglese The Guardian.

GIORNALISTA THE GUARDIAN Fratelli d'Italia è un partito che ha un'eredità vicina al fascismo o post-fascista, giusto?

GIORGIA MELONI Heritage è “eredità”? Siamo il partito della destra in Italia, ma sa cosa? Io sono nata nel 1977, il fascismo è finito 30 anni prima, non ci sono connessioni. Noi non siamo fascisti.

GIORNALISTA THE GUARDIAN Steve, quando mi hai detto che avremmo incontrato Giorgia, mi hai descritto Fratelli d'Italia come un partito neofascista.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Quando l’avrei detto?

GIORNALISTA THE GUARDIAN Due volte.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Non penso di averlo mai detto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma questo audio che mandiamo per la prima volta in onda in Italia, mostra come Steve Bannon aveva davvero presentato Giorgia Meloni al collega inglese.

AUDIO STEVE BANNON GIORNALISTA THE GUARDIAN Come si chiama?

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Giorgia Meloni. La donna.

GIORNALISTA THE GUARDIAN Fratelli d’Italia è uno dei vecchi partiti fascisti uno dei vecchi partiti di destra.

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Era fascista. Ma neo.

GIORNALISTA THE GUARDIAN Neo…

STEVE BANNON – EX STRATEGA DONALD TRUMP Ricorda il teorema Bannon: dai un volto presentabile al populismo di destra e verrai eletto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’onorevole Meloni non poteva certo immaginare che Bannon l’avesse presentata al collega inglese come una neo fascista. Ecco, bisognerebbe bacchettarlo, se lo vede, Bannon, ricordargli che la Costituzione italiana vieta in qualsiasi forma la ricostituzione di un partito fascista. Ricapitolando, che cosa è accaduto? Che i tecnici informatici dell’onorevole Meloni hanno analizzato i profili dei follower, gli account, ma nel momento attuale. Hanno fatto una fotografia dell’attualità. Noi invece avevamo denunciato le anomalie degli account nel periodo di maggio, anomalie che confermiamo ancora oggi, che vengono confermate anche da un report del 26 aprile, che è stato elaborato con un software, lo stesso che è stato utilizzato dai tecnici di Fratelli d’Italia nel tentativo vano di smentirci. Poi noi avevamo anche utilizzato un altro software, il Metatron, che è un software specializzato per identificare fake news e account anomali, che si è fregiato anche di un riconoscimento prestigioso internazionale, quello dello Iaf Challenge. E poi il destino ha voluto che il nostro Giorgio, mentre stava facendo le verifiche sugli account anomali, che cosa ha fatto? Dopo le accuse di falso ha beccato un follower che aveva un account automatizzato e sparava a raffica post dal contenuto sovranista. Ecco, siamo andati per capirne di più dal docente universitario a Pavia Matteo Flora, che è esperto in corporate reputation. Lui ci ha messo a disposizione le sue analisi, dalle quali emerge che nell’ultimo mese, mentre ci accusavano proprio di aver detto delle falsità, i follower di Matteo Salvini e Giorgia Meloni avrebbero ritwittato oltre mezzo milione di contenuti presi da siti che producono notoriamente fake news, siti di disinformazione. Ecco, tutto questo per dire cosa? Per rassicurare l’onorevole Meloni. Report è stata, è e sarà ancora, almeno finché ci siamo noi, un presidio di indipendenza, pluralismo, di verità. Non lo diciamo noi, ma è stato sancito in venticinque anni di storia, quasi, in un secolo un quarto di secolo, dai tribunali. Una verità al servizio del pubblico che paga il canone, a differenza delle fake news che vengono propalate attraverso il web. E qui l’onorevole Meloni avrà sempre la porta aperta. Se continua invece a pensare che abbiamo detto il falso ci denunci in un tribunale, perché un’inchiesta giornalistica deve essere valutata per la verità, non se è ruvida al potere politico.

Scarta la carta. Report Rai PUNTATA DEL 07/12/2020 di Giuliano Marrucci, collaborazione di Eleonora Zocca. Youtube è invaso da video dove i protagonisti si limitano ad aprire qualche pacco e a mostrarne il contenuto. Si chiama “Unboxing”, e si stima che i video siano circa 70 milioni. Al centro dei video ci sono quasi sempre bambini, che spesso raggiungono numeri di visualizzazioni da capogiro. Ecco perché dei tre youtuber più ricchi del 2019, due sono bambini. È la versione digitale delle baby star. E come spesso accade con le baby star, non mancano i retroscena inquietanti. 

SCARTA LA CARTA di Giuliano Marrucci Collaborazione Eleonora Zocca Immagini Paolo Palermo Montaggio e grafica Gabriele Di Giulio

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora YouTube. Il canale web. Ci sono delle bambine, delle baby star, dei baby star anzi, che sono disposti a mettersi in gioco e pubblicando un video, piano piano, sono riusciti ad accumulare una fortuna, fino a 18 milioni di dollari. Ecco, chi ha una bambina che è disposta a mettersi in gioco, a pubblicare dei video e ambisce anche a like, qualche famiglia ha messo su in piedi una vera casa di produzione, delle famiglie youtuber. Il fenomeno del momento da qualche tempo è quello di scartare un pacco, anche se poi nel pacco c’è la fregatura. Il nostro Giuliano Marrucci.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Lei è Ameli, ed è una delle baby influencer più famose d’Italia. A soli 8 anni può contare su un account TikTok con quasi 80 mila follower e quasi 1 milione di like, un canale Spotify con 7 singoli usciti soltanto nel 2020, un libro pubblicato con Rizzoli, ma soprattutto uno dei principali canali YouTube italiani con addirittura 3,6 milioni di iscritti, a cui vanno aggiunti tutti i profili social dei genitori. Mamma Malvina ha 150 mila iscritti sul canale YouTube, 20 mila follower su Instagram e addirittura 90 mila su TikTok. Papà Paolo invece si è limitato a YouTube, dove ha 250 mila iscritti e diversi video con milioni di visualizzazioni. La loro carriera da influencer inizia per gioco 4 anni fa con questo video.

GIULIANO MARRUCCI Come avete iniziato?

MALVINA - MADRE AMELI Lei era piccolina, aveva 3 anni e mezzo, mentre giocava con le bambole aveva una finta videocamera.

PAOLO – PADRE AMELI Si metteva anche davanti a loro e faceva una specie di spettacolo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO La svolta arriva dopo un paio di anni abbondanti, quando papà Paolo ha un’idea all’apparenza banalissima: un semplice video di due minuti dove Ameli non fa altro che spaccare delle uova di pasqua e mostrare la sorpresa. Il risultato è da far drizzare i capelli: 128 milioni di visualizzazioni. GIULIANO MARRUCCI 120 milioni di visualizzazioni.

MALVINA- MADRE AMELI Ripetuti. Perché il video è stato cancellato, poi lo abbiamo ricaricato, è arrivato di nuovo a quella cifra. Abbiamo tolto di nuovo da YouTube, ricaricato e di nuovo questa cifra.

GIULIANO MARRUCCI Quindi non sono i 120 milioni che ho visto, ma per tre volte, sono 400 milioni.

MALVINA- MADRE AMELI Sì.

PAOLO – PADRE AMELI Io sinceramente fino adesso non riesco a capire perché.

GIULIANO MARRUCCI È un mistero.

PAOLO – PADRE AMELI A me è capitato che ho fatto scenario ho girato bene i video ho passato tantissimo tempo a montarlo, poi alla fine 50mila visualizzazioni e si inchioda li.

GIULIANO MARRUCCI Poi spacchi un uovo 400 milioni.

PAOLO– PADRE AMELI Sì.

GIULIANO MARRUCCI E quindi quello ha fruttato un sacco di soldi.

PAOLO – PADRE AMELI In totale ci ha fatto guadagnare un 20mila euro.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO L’anno dopo ci riprovano con risultati ancora più straordinari. 193 milioni di visualizzazioni. E non è un fenomeno isolato. Questo tipo di narrazione si chiama unboxing. Consiste nell’ aprire un pacco o qualcosa di simile e mostrare la sorpresa. E su YouTube ha un successo incredibile.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE È l'esperienza di vedere aprire qualcosa di nuovo. A fine dicembre c'erano circa 70 milioni di video di unboxing su YouTube.

GIULIANO MARRUCCI E i ragazzini, invece di guardare un cartone o un film si guardano uno che scarta.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Non uno. Se ne guardano a decine se non centinaia uno dietro l'altro, perché alla fine di questo video probabilmente mi proporrà il sistema un altro video estremamente simile.

GIULIANO MARRUCCI Quindi questo tipo di contenuto, diciamo in qualche modo è spinto da YouTube.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE È un contenuto semplice, che dà abbastanza dipendenza quindi per la piattaforma è il contenuto ideale.

GIULIANO MARRUCCI Questi spaccano delle uova di Pasqua con una telecamera fissa e prendono 190 milioni di visualizzazioni. ANDREA SALES - PSICOTERAPEUTA Non te ne capaciti.

GIULIANO MARRUCCI Sono tanti.

ANDREA SALES - PSICOTERAPEUTA È una formula magica. Quando io bimbo di 5 anni, di 7 anni, di 8 anni comincio a vedere questi video, il cervello attiva una serie di meccanismi, no, di rilascio di alcune sostanze neurotrasmettitori che fanno sì che questa cosa sia piacevole e questo aspetto richiede la ripetizione.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Oltre a chi se li guarda i video di unboxing, c’è anche il problema di chi li fa.

GIULIANO MARRUCCI Il tuo obiettivo quando fai i video è divertirti mentre fai il video o speri di fare tanti numeri di visualizzazioni.

AMELI – BABY YOUTUBER Divertirmi!

GIULIANO MARRUCCI Ok quindi quell’altra cosa li poi chi se ne frega giusto?

AMELI – BABY YOUTUBER Beh non tanto, è importante pure quello.

GIULIANO MARRUCCI Te ti ricordi qual è stato il primo video che hai fatto?

AMELI – BABY YOUTUBER Era stato che ho aperto tutti i giocattoli.

GIULIANO MARRUCCI E quanti anni avevi?

AMELI – BABY YOUTUBER 3.

GIULIANO MARRUCCI E te lo ricordi? Io non mi ricordo niente di quando avevo 3 anni.

AMELI – BABY YOUTUBER Io mi ricordo.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE I protagonisti sono bambini, però ricordiamoci sempre che sono i genitori che decidono quale investitore pubblicitario e quali no.

GIULIANO MARRUCCI E siccome ci cominciano ad essere in ballo soldoni veri.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Sono baby star come tutte le baby star hanno tutti i problemi delle baby star che hanno sempre avuto dalle bambine bellissime dei concorsi di bellezza fino alla Shirley Temple di turno.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Secondo Forbes, tra i tre youtuber al mondo che nel 2019 hanno guadagnato di più, due sono bambini. Al terzo posto c’è Anastasia Radzinskaya, una bambina russa di 6 anni che in un anno ha fatturato 18 milioni di dollari. In cima al podio invece c’è Ryan Kaji, che viene dal Texas, di anni ormai ne ha 10 ed ha un canale con oltre 26 milioni di iscritti e oltre 40 miliardi di visualizzazioni, che l’anno scorso gli hanno fruttato la bellezza di 26 milioni di dollari. Ma a parte le superstar, di baby youtuber più o meno professionisti ce ne sono a migliaia in ogni angolo del pianeta. E tutti hanno iniziato con l’unboxing.

GIULIANO MARRUCCI E come per tutte le baby star qualche volta sarà degenerata.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Ci sono dei casi molto brutti su YouTube. Uno famoso è daddy of Five, papà di 5 bambini. L'account poi è stato chiuso sulla base di tutta una serie di investigazioni su violenze su percosse su anche discriminazione di uno dei bambini che veniva sempre tartassato. GIULIANO MARRUCCI Quindi per fare views, lo bullizzavano in famiglia in pubblico.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Con conseguenze non particolarmente belle per la salute del bambino

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il figlio bullizzato si chiama Cody. Questi spezzoni di video si trovano ancora in rete. In questo il fratello maggiore spacca tablet del piccolo Cody, gettandolo contro il muro. E Cody si dispera. Non sa che è un simpatico scherzo e che gliene avevano comprato un altro nuovo. Qua invece la mamma butta dell’inchiostro invisibile sulla moquette della cameretta e poi si mette a urlare contro Cody facendo finta di essere infuriata. E Cody reagisce così. E i video sono tutti così. A centinaia e con decine di milioni di persone che si divertano a veder bullizzare il piccolo Cody dalla sua famiglia.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Una di queste storie parla addirittura di bambini a cui non veniva dato la cena. Venivano schiavizzati per fare in modo che si comportassero esattamente come il copione diceva che si sarebbero dovuti comportare.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Paolo, per far fruttare il più possibile i video della figlia Ameli, ha messo in piedi una piccola casa di produzione, investendo migliaia di euro su attrezzatura e corsi per imparare a fare riprese e montare. Ma a settembre del 2019 una mail inviata da Youtube lo gela.

GIULIANO MARRUCCI Che dice che?

PAOLO – PADRE AMELI Che i video con i bambini non si possono monetizzare come prima, cioè si toglie la pubblicità personalizzata.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO YouTube di fatto limita la pubblicità nei video destinati a bambini o che sono destinati a bambini. Sia per i temi che per linguaggio adottato. Sé è così, chi lo carica deve indicarlo.

PAOLO – PADRE AMELI Entro qua. Preferenze. Qua: non è destinato ai bambini, si, è destinato ai bambini, io scelgo primo.

GIULIANO MARRUCCI E cosa cambia dal momento che tu hai detto che tutto il tuo canale è per bambini?

PAOLO – PADRE AMELI Non hai pubblicità personalizzata. Se uno adesso può guadagnare un euro, 1 euro e 20.

GIULIANO MARRUCCI 1 euro e 20 ogni mille visualizzazioni?

PAOLO – PADRE AMELI Sì. Quello per bambini guadagna tipo 10 centesimi, 15 massimo.

GIULIANO MARRUCCI Quindi ad esempio confrontando quanto hai guadagnato da YouTube i primi 6 mesi del 2019 con i primi 6 mesi del 2020?

PAOLO – PADRE AMELI Aaaaah è cambiato molto. Se facevi tipo 5 mila euro al mese.

GIULIANO MARRUCCI Nel 2020 invece.

PAOLO – PADRE AMELI 2000 euro al mese.

GIULIANO MARRUCCI Meno della metà.

PAOLO – PADRE AMELI Sì. GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma ci sono i furbetti di YouTube. Non tutti i canali segnalano che ci sono contenuti palesemente rivolti ai bambini. Per esempio: questo è Silvia & kids. Ha 1 milione di iscritti, video con svariati milioni di visualizzazioni, e la piccola Alyssa sempre in bella mostra. Ma se vediamo gli ultimi video caricati…

PAOLO – PADRE AMELI Fanno per guadagnare un po’ perché con questi numeri si guadagna la giornata: 167mila visualizzazioni guadagni la giornata. Io per guadagnare qualcosa devo avere un milione.

GIULIANO MARRUCCI Ma perché i vostri che sono video per bambini non sono segnalati come tali?

SILVIA LONARDO - YOUTUBER Perché il genitore sapendo che YouTube vigila, si sente anche tranquillo a lasciarlo guardare i video. Non è che c’è qualcuno che supervisiona e poi si ritrova che i bambini guardano contenuti non adatti. In pratica questa legge non serve a tutelare i bambini, serve soltanto a tutelare YouTube dal punto di vista legale.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Chi sui contenuti su YouTube per bambini ha costruito un vero e proprio impero sono i Me contro Te, che tra i più piccoli sono una vera mania. Dei Me Contro Te puoi comprare l’album in edicola, il diario in cartoleria e ogni tipo di merchandising su Amazon. E quando è uscito il loro film nelle sale lo scorso gennaio, in una settimana ha incassato oltre 5 milioni. Il loro canale YouTube ha 5 milioni e mezzo di iscritti, ma i loro video…

GIULIANO MARRUCCI E anche questo si può salvare.

PAOLO – PADRE AMELI Sì lo puoi salvare.

GIULIANO MARRUCCI Quindi per loro questo non è un video per bambini.

PAOLO – PADRE AMELI No. SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Da “Me contro Te” che ci fanno sapere che non sono interessati all’intervista. Anche YouTube non lo è, ci scrive tuttavia che qualsiasi tipo di esperienza “personalizzata” viene rimossa dai contenuti destinati ai bambini. Ecco perché questo gli è convenuto anche perché hanno preso una batosta, una multa da 170 milioni di dollari per aver violato la legge che tutela la privacy dei bambini. Insomma: bisogna segnalare quei video che hanno contenuti per bambini. Però abbiamo visto che poi ci sono i furbetti del web che in qualche modo YouTube questo regolamento. Però è un po’ il gioco delle parti, perché da una parte Youtube pensa che siano i genitori a segnalare, dall’altra i genitori scaricano le loro responsabilità e pensano che sia Youtube a controllare, alla fine le vere vittime sono i bambini. I bambini che pur quando diventano delle baby star e incassano milioni di euro dai loro video che hanno un prezzo, perdono un valore inestimabile: il diritto di vivere con tranquillità la loro infanzia.

Il discusso libro sulle “brutte verità” di Facebook. Il Post DOMENICA 25 LUGLIO 2021. Due giornaliste del New York Times hanno ricostruito le vulnerabilità, gli interessi e i dissidi interni al social network. Un libro scritto da due apprezzate giornaliste del New York Times, Sheera Frenkel e Cecilia Kang, uscito negli Stati Uniti il 13 luglio, è da alcuni giorni oggetto di estese attenzioni tra analisti e commentatori interessati all’ampio dibattito sui sociali network. Intitolato An Ugly Truth: Inside Facebook’s Battle For Domination, tratta delle responsabilità di Facebook nella diffusione di comportamenti legati alla disinformazione, all’incitamento all’odio, alle teorie del complotto e alla violenza. Le responsabilità sono principalmente definite in termini di interessi economici nella monetizzazione di contenuti divisivi e infondati, e in termini di mancata attivazione di tempestivi e appropriati protocolli di protezione, nonostante la consapevolezza delle infiltrazioni russe e di altri fenomeni relativi alla sicurezza nazionale all’interno dell’azienda. Il libro di Frenkel e Kang si sofferma inoltre sui dissidi interni tra reparti e figure centrali all’interno di Facebook, incluso il rapporto problematico tra il CEO e cofondatore Mark Zuckerberg e l’influente direttrice operativa Sheryl Sandberg. Per scriverlo, Frenkel e Kang – che al New York Times si occupano regolarmente di sicurezza informatica e aspetti normativi di Internet – hanno raccolto più di 1.000 ore di interviste a oltre 400 dipendenti ed ex dipendenti di Facebook di ogni livello, consulenti esterni, avvocati e altri professionisti vicini all’azienda. Molte tra le persone intervistate hanno inoltre fornito promemoria interni, email e altri documenti consultati dalle autrici del libro. In precedenza, Frenkel aveva lavorato per dieci anni come corrispondente dal Medio Oriente. Kang, passata al New York Times nel 2015 dopo dieci anni al Washington Post, aveva peraltro collaborato in passato a un articolo sui rapporti tra la NSA e le grandi aziende di Internet, premiato con il Pulitzer nel 2014.

La disinformazione su Facebook. An Ugly Truth si concentra su quanto accaduto all’interno di Facebook tra la campagna presidenziale del 2016 e l’assalto al Congresso del 6 gennaio scorso, un periodo di tempo in cui l’ex presidente Donald Trump ha di molto incrementato la sua popolarità e influenza sulla piattaforma, contribuendo anche alla diffusione di informazioni false o fuorvianti. Il titolo del libro è tratto da un promemoria interno intitolato The Ugly (“il brutto”) e inviato nel giugno 2016 da Andrew Bosworth, un dirigente di Facebook descritto come uno tra i più stretti collaboratori e confidenti di Zuckerberg. All’epoca, una squadra di tecnici e sviluppatori di Facebook era impegnata nella raccolta dei dati provenienti dall’analisi dei news feed, lo strumento che aveva permesso a Facebook di incrementare notevolmente i guadagni dando priorità al coinvolgimento degli utenti (engagement) e al raggruppamento di persone con idee simili. «Giovani intraprendenti si resero conto di poter fare soldi dando agli americani il tipo di contenuti che desideravano», scrivono Frenkel e Kang. «Improvvisamente, storie che davano Hillary Clinton segretamente in coma, o che asserivano l’esistenza di un figlio di Bill Clinton nato da una relazione extraconiugale, si diffusero su Facebook. Le persone che ci stavano dietro erano in gran parte apolitiche, ma sapevano che più stravagante era la storia, più era probabile che un utente facesse clic sul collegamento». I tecnici segnalarono il problema ai superiori, raccontano Frenkel e Kang, ma fu detto loro che le notizie false non violavano le regole di Facebook. «Vedevamo tutti questi siti spazzatura occupare un posto di rilievo nel feed delle persone, sapevamo che le persone aprivano Facebook e vedevano notizie totalmente false nella parte superiore della loro homepage, ma [i superiori] continuavano a ripeterci che non c’era nulla che potessimo fare: le persone potevano condividere tutto ciò che volevano condividere», scrivono Frenkel e Kang citando un ex dipendente. Un aggiornamento dell’algoritmo di Facebook, pensato per cercare di risolvere il problema, ebbe altre conseguenze indesiderate. La modifica diede priorità ai contenuti di familiari e amici, a scapito dei siti inaffidabili, ma analisi condotte da ricercatori esterni portarono alla conclusione che anche siti accreditati come quelli di CNN e Washington Post erano stati penalizzati. Gli utenti smisero di vedere quelle news e continuarono a vedere contenuti falsi e ultradivisivi condivisi da familiari e amici. A fronte delle crescenti preoccupazioni dei dipendenti, Bosworth, il dirigente in confidenza con Zuckerberg, diffuse la nota interna da cui è tratto il titolo del libro di Frenkel e Kang. Noi mettiamo in connessione le persone. Punto. È la ragione per cui tutto il lavoro che facciamo per la crescita è giustificato. Tutte le discutibili pratiche di importazione dei contatti. Tutto il linguaggio subdolo che aiuta le persone a essere rintracciate dagli amici. Tutto il lavoro che facciamo per portare più comunicazione. […] Così colleghiamo le persone. Questo può essere negativo se lo rendono negativo. Forse l’esposizione ai bulli può costare la vita a qualcuno. E forse qualcuno muore per attacchi terroristici coordinati tramite i nostri strumenti. E ancora continuiamo a connettere le persone. La spiacevole verità è che crediamo così profondamente nel valore della connessione tra le persone che tutto ciò che ci consente di connetterne di più e più spesso è una cosa buona de facto. «In un certo senso, questo sintetizza tutto ciò che occorre sapere su Facebook», ha scritto John Naughton sul Guardian commentando questo passaggio del libro. «L’unica cosa che Bosworth omise di menzionare è che più persone Facebook connette, più soldi Facebook guadagna». Uno dei personaggi ritenuti fondamentali per lo sviluppo di strategie aziendali redditizie in Facebook fu Sheryl Sandberg, direttrice operativa e da molti considerata la persona più influente all’interno dell’azienda dopo Zuckerberg, che la assunse nel 2008 quando lui aveva 23 anni. Lei ne aveva 39 ed era da molti già considerata e descritta come un esempio di straordinario successo femminile in contesti strutturalmente maschili. Proveniva da una ammirata carriera da dirigente in Google, dopo una laurea in economia all’Università di Harvard e un’esperienza politica tra i Democratici come capo dello staff dell’ex segretario del Tesoro Larry Summers, durante la presidenza Clinton. Il nome di Sandberg era peraltro circolato tra quelli possibili per il ruolo di segretario del Tesoro in un’eventuale amministrazione di Hillary Clinton. Per raggiungere gli obiettivi di crescita di anno in anno, spiegano Frenkel e Kang, Facebook ha continuato a sviluppare per lungo tempo la sua tecnologia di base prendendo decisioni aziendali basate su quante ore della giornata le persone trascorrono su Facebook e quante volte al giorno ci ritornano. Da questo punto di vista, la ragione degli accessi non era tenuta in considerazione, e per gli algoritmi era indifferente se le persone tornavano per augurare buon compleanno agli amici o se tornavano perché «attratti in qualche spirale di disinformazione e cospirazione». «I problemi di Facebook erano caratteristiche della piattaforma, non bug [cioè errori], ed erano la naturale conseguenza di una collaborazione tra Zuckerberg, CEO e co-fondatore di Facebook, e la sua colta socia d’affari, Sandberg, direttrice operativa dell’azienda. Lui era il visionario della tecnologia e lei aveva capito come generare rendita dall’attenzione degli attuali 2,8 miliardi di utenti di Facebook. Insieme avevano lavorato per creare la più vasta rete di scambio di idee e comunicazioni al mondo», hanno scritto Frenkel e Kang.

I rapporti tra Sandberg e Zuckerberg. Una parte del libro si concentra sull’evoluzione del rapporto tra Sandberg e Zuckerberg durante la presidenza di Trump. «Il suo ruolo come vice-Zuckerberg diventò meno saldo, con la promozione di molti altri dirigenti in azienda e con la sua influenza in diminuzione a Washington», scrivono Frenkel e Kang. Lei era entrata in Facebook per le sue riconosciute e apprezzate competenze professionali, e per la sua lunga esperienza nelle relazioni con funzionari governativi e rappresentanti delle istituzioni. Era un’area in cui Zuckerberg aveva intravisto una particolare debolezza dell’azienda, proprio in un momento in cui quei funzionari cominciavano a chiedersi se la raccolta di dati da parte delle piattaforme gratuite come Facebook potesse danneggiare in qualche modo gli utenti. Nei primi tempi, oltre che suggerire scelte straordinariamente redditizie, Sandberg contribuì in modo significativo alla credibilità pubblica dell’azienda. Rappresentò Facebook al President’s Council on Jobs and Competitiveness, un comitato formato da vari dirigenti di imprese e università istituito dal presidente Obama nel 2009. Una volta accompagnò lo stesso Obama a bordo dell’Air Force One per un discorso del presidente sull’economia nella sede principale di Facebook a Menlo Park, in California. Già a partire dal 2010 cominciarono tuttavia a emergere alcune incomprensioni tra Sandberg e i funzionari del governo nel corso delle prime indagini sul trattamento dei dati, tra cui quella della Federal Trade Commission (FTC), l’agenzia governativa che si occupa di tutela dei consumatori e di privacy. A ottobre del 2010, durante un incontro con il presidente della FTC Jon Leibowitz, Sandberg sostenne che le possibilità di controllo dei dati personali per gli utenti di Facebook fossero maggiori rispetto a quelle offerte da qualsiasi altra società di Internet. Leibowitz contestò in parte quell’osservazione segnalando che aveva visto sua figlia adolescente modificare con difficoltà impostazioni sulla privacy che avevano fino a quel momento reso molto semplice per soggetti sconosciuti trovare su Facebook lei e altri utenti come lei. Sandberg replicò cambiando argomento, atteggiamento che Leibowitz sembrò non gradire, stando a quanto riportato da persone presenti alla riunione e sentite da Frenkel e Kang: «sembrava ascoltare soltanto quello che voleva sentire».

A causare il progressivo isolamento in azienda di Sandberg e della sua squadra di lavoro, sempre meno numerosa, secondo le fonti consultate da Frenkel e Kang, contribuì in modo significativo il contesto politico e mediatico prodotto dal caso Cambridge Analytica e dalle generali e crescenti critiche, indagini e richieste di chiarimenti rivolte a Facebook in materia di trattamento dei dati personali, violazioni della privacy e reticenze in merito alle interferenze russe nelle elezioni presidenziali. Frenkel e Kang scrivono che Zuckerberg cercò di instaurare una relazione amichevole con Trump, e nel frattempo cominciò ad assumere in prima persona cariche aziendali in precedenza delegate a Sandberg, la cui antipatia verso Trump era nota. Dall’altra parte, Sandberg si circondò sempre più di consulenti politici esterni e di funzionari delle pubbliche relazioni spesso in disaccordo con gli altri membri dell’azienda. Fece inizialmente affidamento sul collega Joel Kaplan, vicepresidente responsabile delle politiche globali, ex funzionario dell’amministrazione di George W. Bush nonché collega di Sandberg a Harvard. Fu Kaplan a spiegare a Sandberg e Zuckerberg che occorreva ricostruire i rapporti con i Repubblicani, risentiti per il precedente sostegno ai Democratici. E dopo un imbarazzato incontro del presidente con i più importanti dirigenti delle società tecnologiche americane, avvenuto a dicembre 2016, fu direttamente Zuckerberg a diventare l’emissario di Facebook a Washington, sostengono Frenkel e Kang. «Le crepe descritte dalle autrici tra Mark e Sheryl e le persone che lavorano con loro non esistono», ha risposto la portavoce di Facebook Dani Lever, commentando le prime anticipazioni del libro di Frenkel e Kang, e facendo notare che il ruolo di Sandberg nell’azienda non è cambiato. Lever ha anche affermato che le ipotesi di un isolamento di Sandberg in Facebook sostenute nel libro sembrano replicare gli schemi tipici degli «attacchi alle donne leader, basati sulla negazione del loro potere e delle loro competenze, e sulla loro emarginazione». Né Zuckerberg né Sandberg hanno accettato di essere intervistati durante la stesura del libro. Frenkel e Kang sostengono che una delle ragioni della presunta insoddisfazione di Zuckerberg rispetto al lavoro di Sandberg riguardasse la gestione delle relazioni pubbliche in occasione delle interferenze elettorali russe e del caso Cambridge Analytica, l’azienda di consulenza e marketing – in contatto con alcuni stretti collaboratori di Donald Trump – responsabile dell’uso scorretto di enormi quantità di dati personali prelevati da Facebook. Sebbene le violazioni non riguardassero tecnicamente disguidi o inefficienze afferenti al lavoro di Sandberg e della sua squadra, Frenkel e Kang affermano che tra i dirigenti cominciarono a circolare perplessità riguardo ai tentativi di Sandberg di salvare l’immagine della società. In un incontro dell’8 maggio 2019 con la speaker della Camera Nancy Pelosi, raccontano Frenkel e Kang, Sandberg ammise i problemi di Facebook e spiegò le azioni intraprese dall’azienda per tentare di risolverli. Facebook aveva eliminato falsi account esteri e assunto migliaia di moderatori di contenuti, e aveva iniziato a utilizzare l’intelligenza artificiale e altre tecnologie per cercare di rintracciare e rimuovere rapidamente e più efficacemente la disinformazione. Sandberg spiegò inoltre a Pelosi che Facebook non avrebbe ostacolato e anzi avrebbe facilitato i tentativi del governo di regolare Internet, come peraltro indicato da Zuckerberg il mese prima in un articolo pubblicato dal Washington Post. Appena due settimane più tardi, circolò molto su Facebook – condiviso dalla pagina Politics Watchdog – e ottenne oltre due milioni di visualizzazioni un video in cui Nancy Pelosi parlava in modo incerto e balbettante durante una conferenza stampa. Il video era stato manipolato ma veniva presentato come autentico su numerose pagine Facebook e in molti gruppi privati, e cominciò a circolare anche su altri social network. «Cos’ha che non va Nancy Pelosi?», scrisse Rudy Giuliani, ex sindaco di New York e avvocato personale di Trump, condividendo il video. YouTube rimosse rapidamente il video, mentre Facebook temporeggiò in attesa di prendere una decisione e formulare una risposta convincente per lo staff di Pelosi, che – riferiscono Frenkel e Kang – cominciò a chiamare insistentemente per chiedere spiegazioni in merito all’inarrestabile diffusione del video. Quel video aveva facilmente aggirato i controlli dei fact checkers e degli strumenti di intelligenza artificiale, che non lo avevano classificato come contenuto falso. Fu però un esempio molto chiaro, scrivono Frenkel e Kang, delle divisioni interne in Facebook e del disaccordo vigente su importanti questioni di principio. Sandberg disse che riteneva più che sufficienti gli argomenti a sostegno della necessità di eliminare il video in base alle regole contro la disinformazione. Kaplan e i membri del team responsabile delle politiche aziendali sostennero l’importanza di apparire neutrali riguardo ai contenuti politici e mostrare coerenza rispetto alle precedenti difese della libertà di parola. Zuckerberg chiese se il video potesse essere definito una parodia, nel qual caso avrebbe potuto rappresentare un contributo importante per il dibattito politico. Due giorni dopo la pubblicazione del video, Zuckerberg prese la decisione: mantenere online il video. La distanza tra Sandberg e i dirigenti di Facebook, proseguono Frenkel e Kang, aumentò ulteriormente in tempi più recenti, all’inizio del 2021, dopo l’attacco al Congresso degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021. In un’intervista con Reuters, Sandberg suggerì che le responsabilità dell’organizzazione dell’assalto dovessero essere rintracciate in piattaforme che «non hanno la nostra capacità di arrestare l’odio, non hanno i nostri standard e non hanno la nostra trasparenza». Quella dichiarazione – un riferimento a piattaforme come Parler e Gab, utilizzate dall’estrema destra – fu ripresa da siti e giornali, e in molti la intesero come un modo di non ammettere responsabilità da parte di Facebook. Anche in questa occasione, scrivono Frenkel e Kang, alcuni dirigenti considerarono inappropriata la strategia difensiva attuata da Sandberg. Dopo pochi giorni, cominciarono a emergere prove evidenti di un coordinamento delle milizie di estrema destra portato avanti su Facebook sia prima che durante l’assalto. Alcuni membri del gruppo “Oath Keepers” avevano apertamente parlato delle prenotazioni delle camere d’albergo, dei biglietti aerei e di altri aspetti logistici del loro viaggio programmato a Washington. «Se non siete disposti a usare la forza per difendere la civiltà, allora preparatevi ad accettare la barbarie», era scritto in un messaggio pubblicato il 5 gennaio su una pagina Facebook chiamata “Red-State Secession” e frequentata da membri dei gruppi “Oath Keepers” e “Proud Boys” che avevano condiviso anche le immagini delle armi che avevano intenzione di portare alla manifestazione del 6 gennaio.

Le interferenze russe. Un’altra questione lungamente trattata in An Ugly Truth riguarda la catena di gestione interna delle informazioni sugli aggiornamenti e sulle problematicità dei sistemi dell’azienda. Nella maggior parte dei casi, le persone all’interno di Facebook erano al corrente di quello che succedeva ai sistemi, o per averlo rilevato direttamente o per essere state informate da altre persone. Ma spesso, al momento di riportare le comunicazioni ai superiori, a quelle comunicazioni non seguivano decisioni né azioni mirate a ridurre i rischi o trovare contromisure in tempi rapidi. L’esempio più significativo è quello delle interferenze russe nei sistemi di Facebook, scoperte tra il 2016 e il 2017 dal team di investigatori interni guidati dal capo della sicurezza aziendale Alex Stamos, assunto in Facebook nel 2015 dopo un’esperienza di alto profilo in Yahoo. Stamos aveva contribuito a scoprire una vulnerabilità nei sistemi di Yahoo, approvata dalla CEO Marissa Mayer e intenzionalmente inserita per assecondare una richiesta di sorveglianza degli utenti da parte del governo. Si era quindi dimesso poche settimane dopo. Le interferenze russe durante le elezioni presidenziali del 2016 furono due, raccontano Frenkel e Kang. La prima proveniva dall’agenzia di intelligence militare russa nota con la sigla GRU, i cui agenti avevano creato account e pagine Facebook per diffondere notizie false. Fu scoperta a marzo 2016, come chiarito in un’analisi circolata poi internamente l’anno successivo. Inizialmente il team di Stamos condivise una serie di rapporti sulla scoperta dell’interferenza con l’FBI, oltre che con i suoi diretti superiori, ma non ricevette alcuna risposta. Quella situazione generò una certa frustrazione, scrivono Frenkel e Kang. Innanzitutto nel gruppo di Stamos nessuno sapeva se le agenzie di intelligence statunitensi stessero conducendo altre indagini e operazioni in autonomia. Inoltre Stamos e i suoi colleghi non avevano tra le mani il tipo di prove che avrebbe permesso loro di attribuire senza alcun dubbio, anche in un tribunale, quelle attività al governo russo. Facebook mostrò intanto una certa lentezza nel rimuovere quei contenuti, spiegano Frenkel e Kang, perché all’epoca non esistevano regole specifiche contro i gruppi stranieri che creavano pagine per manipolare l’opinione pubblica americana. Facebook non intraprese alcuna azione nemmeno dopo aver notato che una pagina gestita da utenti in Russia e chiamata DCLeaks stava distribuendo il contenuto di email rubate alla campagna elettorale di Hillary Clinton. La pagina fu chiusa soltanto dopo che un analista responsabile della sicurezza appurò che i documenti condivisi contenevano informazioni personali, condizione che rappresentava una chiara violazione delle regole di Facebook. La prima interferenza russa scoperta dal gruppo di Stamos fu motivo di divisioni all’interno dell’azienda, scrivono Frenkel e Kang. All’interno del gruppo di raccolta delle informazioni sulle minacce informatiche, si discusse su cosa si dovesse fare. Facebook era un’azienda privata, sostenevano alcuni, non un’agenzia di intelligence; la piattaforma non era tenuta a riferire le sue scoperte. Per quanto ne sapevano dentro Facebook, l’Agenzia per la sicurezza nazionale (NSA) stava monitorando gli stessi account russi e forse stava pianificando arresti. E sarebbe quindi stato irresponsabile per Facebook dire qualsiasi cosa. Altri sostenevano che il silenzio di Facebook stesse facilitando gli sforzi russi per diffondere le informazioni rubate. La società avrebbe quindi dovuto rendere pubblico che account riconducibili alla Russia stavano diffondendo documenti rubati attraverso Facebook. Per queste persone nell’azienda, la situazione appariva come una potenziale emergenza nazionale. «Fu pazzesco. Non avevano un protocollo pronto, e quindi non volevano che prendessimo provvedimenti. Una cosa senza senso», ha riferito un membro del team della sicurezza. Un’altra interferenza russa – in questo caso da parte dall’azienda Internet Research Agency, nota anche come “fabbrica dei troll”, con sede a San Pietroburgo – fu scoperta da Facebook soltanto dopo le elezioni. Un’indagine interna, portata avanti da Stamos e dal suo gruppo di lavoro all’insaputa di Zuckerberg e Sandberg, chiarì che l’azienda russa aveva pubblicato 80 mila post e speso 100 mila dollari in 3.300 annunci pubblicitari, raggiungendo 126 milioni di utenti americani. Fu questo, raccontano Frenkel e Kang, il momento in cui la posizione di Stamos all’interno di Facebook si indebolì. Le tensioni emersero con una certa evidenza nel corso di una riunione avvenuta il 9 dicembre 2016, in cui Stamos presentò i risultati dell’indagine sulle interferenze russe a Zuckerberg, il quale rispose: «Oh cazzo, come ci siamo persi questa cosa?».

L’indagine di Stamos avrebbe potuto esporre la società a responsabilità legali o metterla sotto la vigilanza del Congresso, e Sandberg, in qualità di responsabile dei rapporti tra Facebook e Washington, alla fine sarebbe stata chiamata a Washington per spiegare le scoperte di Facebook al Congresso. «Nessuno pronunciò queste parole, ma c’era questa sensazione che non si potesse rivelare ciò che non si conosce», secondo un dirigente che partecipò alla riunione. La squadra di Stamos aveva scoperto informazioni che nessuno, incluso il governo degli Stati Uniti, aveva appreso in precedenza. Ma in Facebook, prendere l’iniziativa non era una cosa sempre apprezzata. «Indagando su ciò che la Russia stava facendo, Alex ci aveva costretto a prendere decisioni su cosa dire pubblicamente. E la gente non ne era contenta», ha ricordato il dirigente. «Si era preso la responsabilità di scoprire un problema. Non è mai una buona idea», ha osservato un altro partecipante alla riunione. Come nel caso di Sandberg, anche Stamos fu progressivamente isolato all’interno dell’azienda, raccontano Frenkel e Kang. «Quando tornò al lavoro a gennaio, gran parte della sua squadra della sicurezza formata da 120 persone era stata sciolta». Era accaduto in parte per effetto di una scelta suggerita dallo stesso Stamos, ossia quella di distribuire quei dipendenti in vari reparti dell’azienda anziché lasciarli separati dagli altri gruppi. Ma una volta separati da Stamos, rimasto da parte sua con una squadra di appena cinque persone, quei dipendenti spediti in altri reparti «non ebbero alcun ruolo né visibilità nel loro lavoro». Secondo John Naughton, che ha scritto di An Ugly Truth sul Guardian, uno degli effetti sorprendenti del libro è scoprire che all’interno di Facebook ci sono probabilmente più tensioni di quanto si pensi. Molti dipendenti di Facebook hanno provato angoscia, frustrazione o rabbia per ciò che il loro datore di lavoro ha fatto nella sua incessante ricerca della crescita. Alcuni hanno tentato di avvisare i loro superiori riguardo alle loro preoccupazioni. Ma più e più volte le cattive notizie non hanno convinto quei capi perché non erano sincronizzate con l’imperativo prioritario di una crescita aziendale senza fine. E, come osservava notoriamente Henry Louis Mencken [giornalista e saggista statunitense], è difficile spiegare qualcosa a qualcuno il cui stipendio dipende dal non capire quella cosa. Altre analisi del libro di Frenkel e Kang arrivano a conclusioni più generali e relative al funzionamento attuale delle società. Secondo il giornalista esperto di tecnologia Casey Newton, che in passato ha lavorato con Frenkel e Kang, la storia delle elezioni del 2016 va oltre l’influenza russa esercitata su Facebook. È una storia sull’accelerazione della polarizzazione nel nostro paese; sulle preoccupazioni dei bianchi per i cambiamenti demografici; sul declino del giornalismo locale; e sulla frattura del nostro più ampio ecosistema di informazioni. Neppure la storia sull’interferenza russa riguardava semplicemente Facebook: il paese ha aperto la strada alla strategia di “hack and leak” — rubare documenti e condividerli con i principali organi di stampa, nascondendo la loro origine e dando a quei documenti maggiore legittimità una volta pubblicati. Newton osserva che oggi Facebook, anche per effetto di quelle interferenze e delle scoperte di Stamos, è certamente una piattaforma tecnicamente meno vulnerabile, ma che questo non implica di per sé un ambiente informativo sano. «Le notizie di alta qualità sono troppo spesso relegate in una scheda secondaria, mentre a seconda del tuo amico e di cosa segui, il tuo feed potrebbe essere stupido, partigiano e polarizzante come sempre. Quale sarà il risultato delle persone che consumano anni di post attraverso feed che le informano male o le portano all’indignazione?». Secondo Newton, le questioni fondamentali che emergono dalla lettura di An Ugly Truth non riguardano neppure tanto il dibattito sul modello di business “rotto” di Facebook. «Se Facebook avesse disattivato gli annunci nel 2015 e fosse diventato un’organizzazione senza scopo di lucro, la grandissima parte delle operazioni di interferenza russa nel 2016 sarebbe stata ancora possibile. Per me, questa è la storia di un social network enorme, potente, per lo più non regolamentato e – visto che i suoi dati sono di proprietà privata – ancora poco compreso». Stamos lasciò Facebook nell’estate del 2018, e insegna oggi al Centro per la sicurezza e la cooperazione internazionale dell’Università di Stanford, dove è anche direttore dello Stanford Internet Observatory, un gruppo di lavoro da lui fondato che analizza e studia le dinamiche di influenza sviluppate sulle piattaforme social in tutto il mondo.  

Marino Bartoletti, addio alla Rete dopo gli insulti ricevuti: "È diventato un incontrollabile campo di battaglia". Libero Quotidiano il 23 luglio 2021. Dopo cinque anni dalla creazione della sua pagina Facebook, il giornalista Marino Bartoletti dice addio al suo profilo. Ad annuciarlo è lui stesso attraverso un post dettagliato sulla sua pagina personale. "Nell'estate del 2016 aprii - si legge -  questa pagina pubblica con entusiasmo, serietà, passione e voglia di condivisione, pensando di trasferirvi le mie riflessioni, i miei sentimenti, i miei ricordi e quel minimo se non di competenza perlomeno di esperienza maturata in decenni di lavoro", scrive il giornalista. Nel post di qualche giorno fa, Bartoletti sottolinea che nonostante la sua pagina sia stata curata nel corso del tempo, l'impegno è stato vano. "Non volevo certo cambiare il mondo: però speravo che la mia fatica - sincera, disinteressata e ovviamente aperta a tutti - fosse un pochino più contagiosa sul piano della civiltà e della voglia di reciproco arricchimento. In parte credo di esserci riuscito - continua - ma purtroppo solo in parte. E' vero, ho trovato tantissimi compagni di viaggio meravigliosi che mi hanno seguito nello spirito e nel piacere di un fertile scambio. Ma ho anche trovato una massa - a un certo punto per me incontrollabile - di personaggi sostanzialmente votati all'infelicità", precisa ancora. "Per cui, di fronte a commenti volgari nei confronti della mia persona e professionalità, mi sono sentito apostrofare con epiteti spesso ingiusti (se non addirittura pesantemente ingiuriosi) solo perché, al limite della sopportazione, ogni tanto mi sono 'permesso' di replicare a commenti poco simpatici (o fuori tema): come se non ne avessi il diritto. Forse si può cercare di sconfiggere la volgarità (o perlomeno di ignorarla) - si sfoga ancora il giornalista - ma non la tigna di voler apparire a tutti i costi pur di fare i bastian contrari (e spesso i fenomeni), ma soprattutto l'italianissimo 'benaltrismo', vero tumore di ogni forma di confronto costruttivo", conclude.

Candida Morvillo per il "Corriere della Sera" il 14 luglio 2021. La ricerca è vasta e il dettaglio che non è affatto un dettaglio, ma anzi apre un mondo, è che il 69% di preadolescenti e adolescenti ha un profilo falso sui social. Si è molto discusso dei bimbi che si dimenano su Tik Tok fra balletti e sfide pericolose, nonostante il social sia riservato a chi ha più di 13 anni, ma era solo l'aspetto più visibile di un problema più grande. La ricerca è alla base del saggio Figli delle App e i protagonisti, come quelli della canzone di Alan Sorrenti Figli delle stelle, «non si fermano per nulla al mondo». Figuriamoci per un limite d'età, per «le bugie che non si dicono» o per il reato di sostituzione di persona. Uscito per Franco Angeli, il libro è di Francesco Pira, sociologo dei processi culturali e comunicativi all'Università di Messina: «Parla dei figli delle App e dei loro genitori: figli della tv» spiega lui, «adultescenti che se ne stavano imbambolati davanti al televisore, come oggi i loro ragazzi, per il 49,7% incollati allo smartphone anche per più di cinque ore al giorno». Il suo primo libro, 25 anni fa, era Bambini mai soli davanti alla tv: «Citavo Karl Popper quando dice che i bambini sono portati ad adattarsi al loro ambiente e avvisavo che, a guardare troppa tv, ne sarebbero stati condizionati. Mi dissero che avevo le visioni, ma col senno di poi, avevo ragione: abbiamo prodotto generazioni di aspiranti calciatori e veline e ora i giovani sono tutti aspiranti influencer e youtuber». Sono 1.858 i ragazzi di scuole medie e superiori interpellati fra aprile e maggio 2020, in pieno lockdown. Il 99,6% possiede uno smartphone. Il 98,7% ha un profilo social. Il 61,6% invia e riceve su WhatsApp oltre cento messaggi al giorno. Il 45,5% ha lo smartphone acceso giorno e notte. Avvisa Pira: «Se non entriamo nei meccanismi di comunicazione dei figli, non avremo mai una controproposta per arginare fenomeni come Blue Whale o Jonathan Galindo, sfide social estreme che portano al suicidio». I giovani sono sempre più connessi ma sempre più soli: «Il 60,4% degli intervistati ha ammesso di avere avuto paura e scoramento». Quanto ai profili falsi, hanno risposto solo 544 ragazzi, spiega Pira, «ed è facile supporre che gli altri 1.314 si siano sottratti per non ammettere che il profilo falso ce l'hanno. Cosa che alzerebbe la media del 69,9%, di per sé già alta». Cosa ci fanno i giovani con un profilo fake? «Per esempio, eludono i controlli dei genitori. Hanno un profilo "pulito" che mamma e papà possono controllare e ne hanno uno falso che, per i loro amici, è quello "vero"». Oppure, peggio: «Cercano un'identità altra per dire ciò che pensano in anonimato. È come se, nel proliferare della disinformazione, avessero interiorizzato una forma deviata di esercizio della libertà e una visione distorta della privacy: si preoccupano della loro, non di quella altrui. L'inganno è diventato centrale e la distinzione tra vero e falso non è più percepita: gli adolescenti sono un prodotto dell'era della disinformazione, vittime del sistema delle fake news, ritengono normale usare il falso per i propri scopi».

Dagotraduzione dal Sun il 5 agosto 2021. Diventare una star di Tik Tok è l’ultima frontiera della celebrità, eppure un buon numero di giovanissimi talenti emergenti dall’app sono morti in circostanze diverse.

L’ultimo in ordine cronologico a perdere la vita è stato Timbo the Redneck, ucciso da un camion che lo ha centrato mentre preparava delle ciambelle. Prima di lui avevano perso la vita Anthony Barajas, Ethan Peters, Dazharia Shaffer e Caitlyn Loane. Molti dei tanti utenti del social, cresciuto enormemente durante i mesi di pandemia, sono rimasti molto colpiti da queste morti improvvise. «Non può essere morto, aveva appena iniziato», ha detto un fan di Timbo questa settimana. «Ci mancherai e non dimenticherai mai», hanno aggiunto altri. Timbo the Redneck, vero nome Timothy Hall, 18 anni, è morto lo scorso fine settimana mentre eseguiva un’acrobazia con il suo pickup. Il ragazzo stava cercando di eseguire un donut, una manovra in cui il conducente gira intorno a un punto disegnando un cerchio mentre accelera. Ma il veicolo si è ribaltato, lui è «volato fuori dal finestrino e il mezzo è atterrato su di lui» ha raccontato il cognato Tony in un post. Sul camion insieme a Timbo c’era anche la sua ragazza, ma non è chiaro se sia rimasta ferita oppure no. Timbo aveva accumulato su Tik Tok oltre 2 milioni di “Mi piace” ed aveva 200.000 follower.

L’inflluencer Anthony Barajas, 19 anni, è stato ucciso da un criminale mentre era al cinema a vedere il film “Purge” insieme alla diciottenne Rylee Goodrich. A sparargli, a lui un colpo tra gli occhi, a lei alla testa, è stato Joseph Jiminez, arrestato per rapina e omicidio. Barajas è rimasto in rianimazione parecchi giorni, ma nonostante i tentavi di salvarlo è morto il 31 luglio. Secondo le autorità la sparatoria non è stata provocato e Jimenez non conosceva le sue vittime. Barajas aveva accumulato quasi 1 milione di follower su TikTok e aveva oltre 35 milioni di Mi piace sui video che pubblicava sulla piattaforma. Un GoFundme per l'influencer aveva già raccolto oltre 74.000 per coprire le spese mediche, superando il suo obiettivo. L'organizzatrice del fondo, Julia Barajas, ha scritto: «Anthony è stato la luce della vita di così tante persone [sic] e ci aspettano tempi difficili, ma abbiamo una famiglia e degli amici fantastici per superare tutto questo».

Il guru della bellezza Ethan is Supreme, vero nome Ethan Peters, è morto nel settembre 2020 all'età di 17 anni dopo aver presumibilmente perso la sua battaglia con le droghe e la tossicodipendenza. Peters era un famoso influencer di bellezza e make-up noto per il suo stile stravagante e i suoi eccentrici post sui social media. La sua amica Ava Louise ha annunciato la triste notizia su Twitter, dicendo che era «senza parole» per la morte dello YouTuber. Ha affermato che Ethan, che aveva raggiunto mezzo milione di follower su Instagram, stava combattendo contro la tossicodipendenza. Ha pubblicato su Twitter: «Circa un anno fa si è rivolto alla droga per affrontare la pressione di essere famoso in così giovane età. Di recente è diventato problematico a causa della mania indotta dalla droga. Ethan aveva una dipendenza e la dipendenza non dovrebbe essere una vergogna. Sto discutendo apertamente della sua causa di morte per salvare il prossimo ragazzo. «Era così brillante e così intelligente. Aveva bisogno di vivere». Nel suo ultimo messaggio sui social media, pubblicato il 5 settembre 2020, Ethan aveva condiviso questo testo: «Vorrei solo ringraziare tutti coloro che mi hanno maltrattato. Lo faccio una volta all'anno per vedere quanto sono cambiato e l'unica cosa che non è cambiata sono le occhiaie».

Il ballerino di TikTok Swavy è morto per una ferita da arma da fuoco in Delaware all'inizio di luglio. Il 5 luglio 2021, un amico di Swavy, Damaury Mikula, ha confermato per la prima volta la sua morte. In un video di YouTube intitolato "Rest up Bro", l’amico ha rivelato che gli hanno sparato, dicendo: «Gli hanno sparato e voglio solo farvi sapere che sto per prendere il posto per quella ****. Tutto quello che ha fatto è stato fare video, fratello. È vero come l'inferno». I poliziotti hanno detto che la star diciannovenne, il cui vero nome era Matima Miller, è stata portata d'urgenza in ospedale ma è deceduta per le ferite riportate. Il movente della sparatoria rimane sconosciuto e sono in corso le indagini. I fan hanno reso omaggio all'influencer, famoso per la pubblicazione di video comici e che vantava circa 98 milioni di Mi piace sui social media. «A nome della nostra famiglia, vorremmo ringraziarvi per il continuo supporto e amore per Matima Miller, noto anche come Swavy o Babyface», ha scritto la sua famiglia online. «Purtroppo, a causa dell’indagine, non siamo in grado di fornire molte informazioni sugli eventi che circondano la sua scomparsa. Tuttavia, la famiglia sta lavorando diligentemente per ottenere giustizia per Swavy». Swavy aveva più di 2,3 milioni di follower su TikTok e vantava oltre 350.000 fan su Instagram.

Il suo nome utente era @babyface.s. Più comunemente conosciuta con il suo nome utente @bxbygirldee, la diciottenne Dazharia Shaffer sarebbe morta suicida a febbraio. La sua morte è stata confermata il 9 febbraio da suo padre, Joseph Santiago. «Voglio solo ringraziare tutti per l’amore e supporto per mia figlia», ha scritto accanto a un montaggio TikTok di sue foto. «Purtroppo non è più con noi ed è andata in un posto migliore».

L'adolescente, di Baton Rouge, Louisiana, era una star di TikTok con 1,4 milioni di follower. Aveva anche una pagina YouTube in cui avrebbe vlogato la sua vita e tentato sfide virali. La star dei social media aveva anche appena aperto la sua linea di bellezza prima della sua morte. «Potrebbe sembrare molto facile, ma fidati di me non lo è particolarmente visto che sono l'unico lavoratore lol... devo fare così tante cose ma sono grata per questo!» aveva scritto.

La star del Maine TikTok, Rochelle Hager, è morta a marzo dopo che un albero le è caduto addosso durante uno strano incidente d'auto. Secondo le forze dell'ordine locali, la ragazza stava percorrendo una strada a Farmington quando i forti venti hanno fatto cadere un albero sul suo parabrezza mentre procedeva a più di 50 miglia orarie. La 31enne sarebbe stato ucciso sul colpo. Il capo della polizia Charles ha definito l'incidente «tragico e unico». «Non c'era niente che potesse fare per evitarlo», ha detto l'ufficiale a Press Herald in una nota. Nessun'altra persona è rimasta ferita nell'incidente che ha causato la chiusura delle strade per quasi due ore. La compagna di Hager e collega star di TikTok, Brittanie Lynn, ha pubblicato un tributo emotivo dopo che la sua morte è stata confermata. «Non riesco a mangiare o dormire. Tutto quello che posso fare è fare video e desiderare che tu sia qui con me #rip #myangel», ha scritto. Nell'ultimo anno, Hager ha guadagnato un ampio seguito sulla piattaforma di condivisione video. Ha raccolto oltre 1,2 milioni di Mi piace e ha avuto oltre 123.000 follower su TikTok.

L’australiana Caitlyn Loane, 19 anni, è morta suicida l'8 luglio. Era diventato famoso su TikTok per aver documentato la sua vita quotidiana lavorando nel settore agricolo della Tasmania settentrionale. Loane lavorava nella proprietà di 600 ettari della sua famiglia come allevatrice di bestiame ed era nota per la sua passione per il bestiame.Aveva pianificato di rilevare l'azienda di famiglia quando sarebbe diventata più grande. Parlando della loro perdita, il padre di Caitlyn, Phillip Loane, ha dichiarato: «Le parole non possono descrivere la nostra perdita. Era una giovane donna adorabile e pazza, un membro inestimabile della nostra famiglia».La madre di Loane, Richele, ha detto che il «sorriso di sua figlia ha illuminato la stanza» e che «non aveva paura di sporcarsi le mani». Pochi giorni prima, aveva pubblicato una clip finale inquietante per le sue decine di migliaia di follower. Il video mostrava un fotomontaggio della vita del contadino pioniere insieme a una canzone. Chiedeva: «Quanto lontano guideresti per la ragazza dei tuoi sogni?». Nella didascalia, aveva scritto: «Che ne dici della Tasmania?». La sua pagina TikTok aveva un seguito di oltre 50k persone e 700k Mi piace.

Siya Kakkar di Nuova Delhi, in India, è morta tragicamente suicida lo scorso giugno dopo che la sua famiglia aveva affermato di aver «ricevuto minacce». La notizia della sua morte è stata confermata dal suo manager Arjun Sarin, che ha gestito tutto il suo lavoro e le sue sponsorizzazioni. «Questo deve essere dovuto a qualcosa di personale... dal punto di vista lavorativo stava andando bene», ha detto in una dichiarazione all'epoca. «Ho parlato con lei la scorsa notte per un nuovo progetto e sembrava normale. Io e la mia azienda Fame Experts gestiamo molti artisti e Siya era un talento brillante. Sto andando a casa sua a Preet Vihar».  Kakkar era una ballerina appassionato ed è apparsa in vari video di coreografia sul canale YouTube "Fluid Dance Academy". Secondo quanto riportato, la famiglia della star 16enne di TikTok ha chiesto un'indagine dettagliata della polizia sulla sua morte. Kakkar aveva raccolto un grande seguito online prima della sua morte con 1 milione di fan di TikTok. Aveva anche oltre 104k follower su Instagram e aveva accumulato oltre 1,1 milioni di follower su TikTok.

L'influencer cinese Xiaoqiumei è morta dopo essere caduta da 50 metri mentre tentava un video da grandi altezza. Aveva ancora il telefono in mano quando si è schiantata a terra. Xiaoqiumei, che aveva più di 100.000 follower, condivideva regolarmente video della sua vita quotidiana e del suo lavoro alla guida di un’enorme gru. Secondo quanto riportato dai media locali, aveva 23 anni ed era madre di due bambini piccoli. Hanno aggiunto che era una professionista al lavoro e teneva il cellulare nella borsa durante l'orario di lavoro. Nonostante ciò, la sua famiglia ha confermato che è morta mentre rientrava da un turno di lavoro con la gru vicino a casa sua nella città di Quzhou, nella provincia di Zhejiang, nella Cina occidentale. I familiari hanno detto che è inciampata ed è caduta.

La star cinese dei social media Ram è morta nell'ottobre dello scorso anno: il suo ex marito le ha dato fuoco durante una trasmissione in diretta tv. È rimasta in coma un mese prima di morire. Il movente del delitto non è chiaro.

TikTok... avanti. Report Rai PUNTATA DEL 16/11/2020 di Giuliano Marrucci collaborazione di Eleonora Zocca. Con due miliardi di download in poco più di due anni Tiktok si sta affermando come la piattaforma social con la più rapida diffusione di sempre. Per capire come funziona Giuliano Marrucci ha coinvolto la nonna di 93 anni, l’ha vestita da trapper all’ultima moda, ha lanciato un nuovo profilo ad hoc, e in pochi giorni ha raggiunto numeri da capogiro. Fino a quando dagli Usa non è arrivato l’altolà. Ma come ha fatto un social dove i ragazzini condividono video di balletti e di sketch comici a diventare il cuore di uno dei conflitti geopolitici più caldi degli ultimi decenni?

TIKTOK…AVANTI di Giuliano Marrucci collaborazione di Eleonora Zocca immagini di Matteo Delbò – Paolo Palermo montaggio di Gabriele Di Giulio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. La geopolitica non la fai solo con i vaccini, la puoi fare anche con i social. Con due miliardi di download negli ultimi tre anni, numeri da capogiro, sta diffondendosi sempre di più Tik Tok. È una nuova app che, come tutte le piattaforme social, acquisisce dati, li rivende, e offre dei servizi. Solo che preoccupa i sonni dell’Occidente, e degli Stati Uniti in particolare, perché è un app cinese. Preoccupa, soprattutto, perché è la nuova finestra sul mondo dei giovani. Ora… giovani si fa per dire, perché in questo conflitto geopolitico si è infilata nonna Mirana, 93 anni. Nonna Mirana…

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Lui è Michael Le, un giovane aspirante ballerino americano. Il suo account TikTok ha 40 milioni di iscritti. Buona parte del successo lo deve a questo video qua: un accenno di balletto sulle scale mobili di un centro commerciale, che ad oggi si sono visti in 248 milioni di persone. Da allora di balletti sulle scale mobili, ne ha caricati almeno un’altra quindicina, che in tutto hanno raggiunto qualcosa come 2 miliardi di persone. Questo invece è il profilo di Charli D'Amelio, che con oltre 90 milioni di iscritti è in assoluto il più grande di TikTok. Ogni minimo balletto, sono decine e decine di milioni di views e milioni di like; e quando poi coinvolge anche la famiglia si supera abbondantemente quota 100 milioni. Addison Rae, invece, di follower ne ha poco più di 60 milioni e gli basta fare un balletto così per raccogliere oltre 250 milioni di visualizzazioni e 20 milioni di like. Poi è arrivato qualcuno che ha capito che non era necessario muovere tutto il corpo: bastava il viso. Lei si chiama Bellapoarch, è la nuova superstar di TikTok e con questo video ha totalizzato 400 milioni di visualizzazioni e 40 milioni di like. Che è ad oggi il record assoluto. Come decine e decine di milioni di persone sparse per tutto il pianeta, durante i lunghi mesi di lockdown, ci siamo messi anche noi a giocare con questo nuovo social che sta facendo impazzire il mondo. Abbiamo fatto un po’ di shopping, abbiamo messo insieme tutta la famiglia - topi compresi - e poi abbiamo lanciato la nostra gang di tiktoker: imarruccis. Ma a nostra insaputa ci siamo infilati in uno dei più caldi conflitti di geopolitica degli ultimi anni.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Povera nonna Mirana, trasformata in una star di TikTok, lei, i nipoti e anche il criceto, infilati in un conflitto geopolitico. Dietro tutto quello che sembra un gioco, invece gioco non è. Perché è un meccanismo creato apposta per fare, per creare dipendenza. Un po’ come quello delle slot machines: a volte vinci, a volte perdi. Attraverso i like, attraverso il perseguire i like, il rincorrere il consenso della gente. Poi è un meccanismo che è fatto apposta per farti passare più tempo possibile sulla piattaforma, e funzionano molto i filmati brevi, quelli che ti incuriosiscono. Perché ne vedi di più e li vedi in maniera deconcentrata, quasi passiva. Perché sia più facile hackerarti il cervello. Ora è forse giunto il momento di porre una riflessione sulle regole etiche sulle quali girano queste piattaforme. Per evitare che sfruttino, in nome del profitto, le debolezze umane. Il nostro Giuliano Marrucci.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Su TikTok c'è di tutto: sketch, trucchi e poi ancora vecchietti, cani, dj e cani che fanno i dj. Tutti che si scervellano su quale sia la formula magica che ti fa salire nell'Olimpo. La prima regola è seguire quello che ti dice la piattaforma. Lo fa qua, attraverso un elenco delle tendenze più in voga al momento: ti suggerisce il tema da trattare, la musica da usare, le coreografie da provare. Noi abbiamo deciso di iniziare con un trend che all'epoca andava fortissimo. Si chiama Modarandom; consiste nel far scegliere degli abiti a una persona bendata. E a noi è andata così. In poche ore abbiamo racimolato quasi 3000 visualizzazioni e 260 like, che come inizio non c'è male. Basta fare il confronto con Instagram. Profilo aperto nello stesso momento, video identico, ma un decimo delle visualizzazioni: 300. Allora abbiamo rifatto lo stesso giochino anche con i figli. Ma le visualizzazioni si sono bloccate a poche centinaia. E da lì in poi anche gli altri video sono rimasti fermi al palo. Come ad esempio questo. Allora abbiamo deciso di andare da un consulente. Si chiama Alessio D'Atria e da circa un anno ha abbandonato il mestiere di pizzaiolo per provare la carriera di social media manager su TikTok.

ALESSIO ATRIA – SOCIAL MEDIA MANAGER Se quando crei l'account inizi, gli spari cinque video con minori, già ti sei bruciato perché su TikTok se tu ti comporti bene magari ti premio, se invece fai il cattivo, in maniera invisibile, senza dirti nulla, lui ti limita. Ti tolgono dei punti, tipo i punti della patente, e poi per riprenderteli devi fare il bravo per... più o meno la stessa cosa.

GIULIANO MARRUCCI Questa cosa qua TikTok la dichiara pubblicamente?

ALESSIO ATRIA – SOCIAL MEDIA MANAGER No.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Prima di rassegnarci ad abbandonare il progetto dei marruccis allora le abbiamo provate tutte. In siti come questi puoi comprare follower e like. Con app come queste invece i like e i follower li baratti, basta mettere like ad altri video. Un lavoro a tempo pieno. Noi ci abbiamo passato un paio di giorni, ma i risultati sono stati scarsi e i nostri video continuavano a rimanere al palo. Allora abbiamo deciso di ripartire da capo. Abbiamo fatto un nuovo account solo della nonna e abbiamo ricaricato i vecchi video dove i bambini non c'erano. E i numeri sono cominciati a salire. Il vecchio video della dentiera da 400 visualizzazioni e 20 like a questo giro in poche ore è arrivato a oltre 3000 visualizzazioni e oltre 300 like. E poi tra i suoni di tendenza è spuntato fuori questo. È la versione acustica dell'ultimo singolo di un giovane cantante e influencer che si chiama semplicemente Il Tre. Non ha ancora inciso nemmeno un album, ma i suoi singoli su spotify collezionano milioni di stream. In questo brano parla di quanto sia importante credere nei propri sogni e non lasciarsi scoraggiare dalle avversità. Su TikTok è stato utilizzato per quasi 80 mila video strappalacrime, dove ognuno racconta la sua storia di riscatto. E noi lo abbiamo reinterpretato così. In poche ore abbiamo raggiunto quasi 80 mila visualizzazioni e addirittura 14 mila like.

GIULIANO MARRUCCI Come è possibile che improvvisamente un video pubblicato sul mio profilo dalle poche migliaia di visualizzazioni, abbia tutto d’un tratto raggiunto quasi centomila views, nonostante avessi ancora pochissimi follower.

THEO BERTRAM – DIRETTORE RELAZIONI ISTITUZIONALI TIKTOK EUROPA La differenza tra TikTok e le altre piattaforme consiste nel fatto che TikTok nel suggerirti un video si basa esclusivamente sul tipo di interazioni che hai avuto fino ad allora. Pensa ai colori. Magari noi sappiamo che ti piace il blu, ma invece di consigliarti sempre cose blu, pensiamo che il verde si abbini bene e ti consigliamo anche cose verdi. E così qualsiasi contenuto può diventare virale.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO È quello che a noi è successo con questo video: è la parodia di un format che va forte tra i giovanissimi, soprattutto su Youtube: Quanto costa Il Tuo Outfit.

GIULIANO MARRUCCI Ciabatta in pelle di gnu?

NONNA MIRANA Ventimila euro.

GIULIANO MARRUCCI Triplo anello tempestato di diamanti raccolti a mano dai bimbetti del Ghana?

NONNA MIRANA Quattro milioni di euro.

GIULIANO MARRUCCI Totale quindi?

NONNA MIRANA Più di 5 milioni. Oh, c‘ho finito la pensione.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Questa volta le visualizzazioni sono state oltre 240 mila. Ed è stata la mia rovina. Dal giorno dopo, ogni volta che caricavo qualcosa, passavo la giornata a controllare il telefono ogni due minuti per vedere come andava. Appena andava un po' più piano del previsto, provavo qualche stratagemma: andavo a mettere like agli altri profili sperando mi restituissero il favore, commentavo i video degli influencer più in voga per cercare di farmi notare in qualche modo e passavo il resto del tempo a spulciare i video degli altri in cerca di una nuova idea vincente. E meno i video funzionavano, più tempo ci passavo.

ANDREA SALES - PSICOTERAPEUTA Pensare come pianificare l'architettura di un social - quindi vuol dire il funzionamento, gli algoritmi la fidelizzazione e tutto - per permettere a quel social di monetizzare.

GIULIANO MARRUCCI Con l'obiettivo di farci stare il più possibile su quella piattaforma.

ANDREA SALES – PSICOTERAPEUTA Bravissimo. Esatto. Per fare questo oggi gli sviluppatori studiano il funzionamento del cervello.

GIULIANO MARRUCCI E in che modo hackera il funzionamento del nostro cervello?

ANDREA SALES - PSICOTERAPEUTA TikTok ha una caratteristica interessante: ti dà degli spazi, ti dà delle cose da fare che sono quelle, il ritorno che hai è immediato e quindi tu dici “Wow, funziona!” e qui TikTok diventa veramente una sorta di droga, no?

GIULIANO MARRUCCI Il ritorno che hai è immediato, nel senso che i like, le visualizzazioni crescono in maniera esponenziale in maniera esponenziale molto più che sugli altri social.

ANDREA SALES – PSICOTERAPEUTA Assolutamente e con tempi molto più rapidi.

GIULIANO MARRUCCI È aumentata diciamo di ordine di grandezza: facebook era 100, Instagram era 1000, TikTok è 10000.

ALESSIO ATRIA – SOCIAL MEDIA MANAGER Sì, è una guerra ai numeri sempre più alti. Tempo anche di reazione e concentrazione sempre più basso. Intrattenere su TikTok un utente per 15 secondi già è buono.

GIULIANO MARRUCCI TikTok è il modo più geniale inventato dall’uomo per far lavorare gratis la gente per la piattaforma.

ALESSIO ATRIA – SOCIAL MEDIA MANAGER Sì, sì, concordo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Visto che gli affari andavano a gonfie vele, dal primo settembre anche TikTok ha introdotto una forma di remunerazione per chi crea contenuti.

THEO BERTRAM – DIRETTORE RELAZIONI ISTITUZIONALI TIKTOK EUROPA Abbiamo inaugurato un fondo per i creator con 60 milioni di euro, a cui a breve ne aggiungeremo altri 50.

GIULIANO MARRUCCI Ma come faccio a capire quanto pagate per ogni singola visualizzazione?

THEO BERTRAM – DIRETTORE RELAZIONI ISTITUZIONALI TIKTOK EUROPA In realtà non funziona così, è decisamente più complicato e comunque non sono cifre che dichiariamo pubblicamente.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Alcuni utenti hanno provato a fare delle stime e si parla di qualcosa attorno ai 3 centesimi ogni 1000 visualizzazioni. Tradotto, con il nostro account per un mese di lavoro dovremmo incassare qualcosa come 30 euro scarsi. E per fare qualcosa che assomigli lontanamente a uno stipendio, servono almeno una cinquantina di milioni di visualizzazioni al mese, che significa 3-4 video al giorno come questo, che tra i nostri è quello che ne ha ottenute di più. Tutti i giorni, festivi compresi, senza sosta e senza mai sbagliare un colpo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo ai lavori forzati. Ma con il sorriso sulle labbra, anche un po’ inebetito. Secondo i dati, il 40% degli utenti ha tra i 16 e i 24 anni, ma una buona parte è anche molto più giovane. Perché i giovani sono attratti dai loro coetanei che magari riescono ad accumulare un bel po’ di pubblico e anche a strappare contratti sponsorizzati per qualche milione di dollari. E poi, intorno a TikTok stanno nascendo anche nuove professioni e sempre, però, c’è la strategia dietro di casa madre. Questo perché? Qual è la vera strategia che nasconde tutto questo? Io incamero, a colpi di like, i vostri dati, mi gonfio la pancia, poi divulgo oltre a TikTok suo cugino, il cugino di TikTok, Douyin, Douyin che serve anche per tessere una nuova via della seta virtuale. Parlando ai giovani, conquisto il futuro, faccio viaggiare i miei prodotti e riesco anche a vendere, pensate un po’, un razzo per andare su Marte. L’hanno venduto, eh…

 FABIO BETTI – AMMINISTRATORE DELEGATO 2MUCHTV Pensi di poter fare l'influencer? Fallo! E vedrai quali sono le difficoltà. Prova a farlo per due anni di fila, tutti i giorni, tutto il giorno, con i fan che ti scrivono migliaia di messaggi al giorno, non sai quale leggere, hai paura di perdere la sensibilità di cosa va, cosa non va. E onestamente ho visto parecchi talent andare in burnout da ansia da prestazioni.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Fabio Betti è il giovane amministratore delegato di 2muchtv, che tra le tante agenzie che curano la carriera degli influencer spuntate come funghi negli ultimi anni in particolare a Milano e dintorni, è quella che per prima e più di tutti, ha creduto in TikTok, che in cambio gli ha garantito contratti pubblicitari milionari.

FABIO BETTI – AMMINISTRATORE DELEGATO 2MUCHTV Se gli vai dietro alla direzione che hanno tracciato loro, la piattaforma premia moltissimo. Non è come Instagram. Se vuoi avere più possibilità di emergere rapidamente, seguire diciamo quello che è la linea della piattaforma premia moltissimo.

GIULIANO MARRUCCI Quindi il successo di un video non è poi così casuale, c’è una specie di vera e propria linea editoriale…

THEO BERTRAM – DIRETTORE RELAZIONI ISTITUZIONALI TIKTOK EUROPA Quello che facciamo è collaborare gomito a gomito con i creator più famosi. Quando vogliamo lanciare una campagna li coinvolgiamo e loro hanno più chance di successo perché hanno sempre contenuti originali e di tendenza prima degli altri.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma TikTok ha già pianificato la sua evoluzione. Per capire come, bisogna guardare in Cina dove ha anche un altro nome: Douyin.

GIULIANO MARRUCCI Questo quindi praticamente sta facendo?

ANNA YE – VALUECHINA Sta facendo un balletto tradizionale, etnico, nel giardino di un hotel, nello Yunnan. Vedi che qua c'è scritto: è prenotabile? Puoi andare direttamente dentro alla scheda dell'hotel e prenotare direttamente. Selezioni la camera sempre dentro Douyin.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Oltre a fare pubblicità a terzi, su Douyin gli influencer più quotati vendono anche direttamente.

ANNA YE– VALUECHINA Questo è un ragazzo che si traveste da donna e fa le storie su quali sono i comportamenti sociali, diciamolo così.

GIULIANO MARRUCCI Ok. Ammazza, 33 milioni di follower! E cosa pubblicizza?

ANNA YE – VALUECHINA Lui ha il suo negozio. Ti crei il tuo negozio all'interno di Douyin. Se vediamo, ha venduto più di 100mila item.

GIULIANO MARRUCCI Centomila prodotti direttamente dal suo negozio?

ANNA YE – VALUECHINA Esatto.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma il vero cavallo di battaglia sono le vendite in diretta, come questa.

ANNA YE – VALUECHINA Stanno vendendo delle maschere, dei prodotti per la bellezza in questo momento. Vedi che salta fuori il pop up dell'articolo che stanno presentando? Entriamo e posso andare a comprare direttamente.

GIULIANO MARRUCCI E tipo qua quanta gente c'è ora in diretta?

ANNA YE – VALUECHINA Sono anche milioni di utenti sulle live, dipende dallo streamer, di quanta popolarità ha.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E se la popolarità è tanta, puoi riuscire a vendere qualsiasi cosa.

ANNA YE – VALUECHINA Lei è quella che è riuscita a vendere il razzo.

GIULIANO MARRUCCI Cioè, come un razzo, per farci cosa?

ANNA YE – VALUECHINA Per andare nello spazio. Però l'ha venduto.

GIULIANO MARRUCCI Cioè lei s'è messa lì, ha detto faccio una televendita per vendere un razzo? E c’è anche riuscita in cinque minuti?

ANNA YE – VALUECHINA Esatto.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il cugino evoluto di TikTok, Douyin, rappresenta la fusione tra intrattenimento e marketing. Un modello in grado di rivoluzionare l'intera industria pubblicitaria globale. E per impedirne l'affermazione è scesa in campo l'artiglieria pesante. TG1 del 18/09/20 Trump vieta di scaricare le app cinesi Wechat e TikTok. TG1 del 07/07/20 È come dare i tuoi dati al partito comunista cinese ha detto il segretario di stato Pompeo a Fox News.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO La guerra contro il primo social di massa di provenienza cinese da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati ha già attraversato diversi step. I primi a lanciare l'attacco sono stati gli indiani, che nell'aprile del 2019 chiudono per la prima volta la piattaforma. A quel giro sotto accusa c'era il fatto che TikTok è frequentato prevalentemente da giovanissimi, che con le loro mosse ammiccanti, lo rendono una specie di paradiso per pedofili e malintenzionati. Dopo sei giorni, i giudici indiani hanno annullato il provvedimento del governo, ma TikTok ha deciso comunque di correre ai ripari: ha cominciato a disincentivare la presenza di minori di 13 anni e poi è andata oltre. L'abbiamo scoperto a nostre spese, quando abbiamo caricato questo video. In poche ore abbiamo raggiunto 60 mila visualizzazioni e 6 mila like. Fino a che l'algoritmo non lo ha bloccato. E poi ancora questo. E pure questo.

GIULIANO MARRUCCI No, non ci posso credere! Guarda qua che casino. Oh, nonna, ma un’altra volta? Ma quante volte te lo devo dire? È farina questa qui. C’hai il diabete, ti fa male!

NONNA MIRANA Ma faresci!

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Tutti video che invece sono ancora pacificamente in bella mostra sia su Facebook che su Instagram.

FABIO BETTI – AMMINISTRATORE DELEGATO 2MUCHTV Tu devi pensare al tuo contenuto, se va bene a Disney. Cioè, se tu pensi che Disney vorrebbe, no, collaborare con te una volta visto quel contenuto, allora il tuo contenuto è a prova di bomba. Se invece no, dovresti rifletterci.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Dopo le accuse su fantomatici contenuti pedopornografici, è arrivato il turno degli allarmi per la privacy. Come quando è scoppiato lo scandalo dei dati copiati dalle clipboard dei nostri smartphone.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Ogni volta che io copio dei dati su un qualunque dispositivo anche sul cellulare viene messo in una cosa che si chiama la Clipboard, una sorta di cassetto dove io copio quella parte la metto lì ed è disponibile teoricamente quando io incollo da un'altra parte. TikTok è stata trovata a copiare periodicamente tutto quello che io avevo salvato; fossero link, contenuti di testi, potenzialmente anche password.

GIULIANO MARRUCCI E questa cosa palesemente serve per fregarmi i dati.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Non è detto palesemente per fregare, ci sono dei motivi per cui io lo faccio. Ad esempio, è uno dei modi classici con cui io vedo che non ci siano utenti finti nella piattaforma perché se io creo finti utenti a centinaia, io metto delle cose nella Clipboard e le incollo, copioincollo, copioincollo per fare spam. Per evitare…

GIULIANO MARRUCCI Quindi, serve per bloccare reti di bot?

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Per individuarle. La cosa buffa è che tutti si sono stracciati le vesti per TikTok, grandi titoli internazionali, ci siamo persi un paio di dettagli. Ad esempio che LinkedIn faceva la stessa cosa. Non solo anche altri social network: Reddit - altro social network famosissimo principalmente negli Stati Uniti, che addirittura a ogni lettera che vado a scrivere, controlla che cosa c'è e se lo copia. Nella pratica la differenza sostanziale tra quelli che fanno applicazioni statunitense e quelli che fanno applicazioni cinesi non c'è.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ma poi è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. 21 giugno. Tulsa, Oklahoma. Da questo palazzetto doveva partire la marcia trionfale di Donald Trump verso la rielezione. In barba alle misure di distanziamento sociale anti-covid, l'ufficio stampa del presidente aveva annunciato un'adunata oceanica. I posti dentro al palazzetto erano esauriti già da giorni e per le folle che si sarebbero accalcate fuori erano già stati predisposti maxi schermi in ogni dove. Ma alla fine il palazzetto si è presentato così. E fuori, così. Un flop epocale. Ed è tutta colpa di TikTok.

MATTEO FLORA – ESPERTO SICUREZZA ED ECONOMIA DIGITALE Perché i teenager si sono organizzati su Tik Tok, hanno iniziato a prenotare biglietti gratuiti per l'evento, facendo vedere che ci sarebbero state folle oceaniche, in realtà buona parte di questi biglietti non sono mai stati usati perché erano stati comprati solo per occupare i posti.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Nello specifico, l'attacco è partito dalla gigantesca comunità dei fan del K-pop, il melenso pop coreano che da anni sbaraglia le classifiche americane e che da sempre è visto come l'esempio plateale del disimpegno più totale delle giovani generazioni. Da allora la guerra a TikTok è diventata uno dei temi principali della campagna elettorale americana. E Trump ha tirato in ballo addirittura la sicurezza nazionale.

THEO BERTRAM – DIRETTORE RELAZIONI ISTITUZIONALI TIKTOK EUROPA Ad oggi i dati degli utenti di TikTok sono conservati negli Stati Uniti o a Singapore e il governo cinese non ha nessun accesso. E anche se lo chiedesse, noi non lo concederemmo.

SIMONE PIERANNI – SCRITTORE E GIORNALISTA IL MANIFESTO Trump non è che ha chiesto a TikTok: potete stare nel nostro mercato a queste condizioni. Ha imposto la vendita, di fatto. Quindi è un atteggiamento ancora più duro. La mia tesi è che alla base dell’attuale scontro ci sia proprio la questione tecnologica. Cioè, in occidente noi siamo abituati a percepire le novità in campo tecnologico come sempre arrivare dagli Stati Uniti. Oggi come oggi la Cina si pone, invece, come paese alternativo e questo per gli Stati Uniti è inaccettabile, da lì inizia lo scontro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una guerra tra tecnologie. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, le superpotenze che volevano colonizzare gli altri paesi avevano come prima voce d’esportazione le armi. Negli anni Ottanta, invece, come prima voce, l’industria dell’audiovisivo. Ora, da dieci anni a questa parte, invece, la prima voce è quella che riguarda le compagnie telefoniche e i giganti del web. Viene il sospetto che la nuova guerra per la colonizzazione avvenga con queste armi. Forse è il caso di attrezzarci per una difesa, visto che le loro armi sono, le loro munizioni sono i nostri dati, la nostra intimità, i nostri sentimenti, la nostra identità. Che conservano nei paradisi fiscali. Comprese le nostre fragilità.

A lezione di Tik Tok. Dai Måneskin a Khaby Lame, i nuovi idoli dei giovani sembrano nati per non farsi capire dagli adulti. E invece c’è spazio per il dialogo. Ma solo se genitori e docenti sono disposti ad imparare. Lara Cardella su L'Espresso il 5 luglio 2021. Maneskin, Awed, Zorzi, Khaby Lame; e poi i vostri figli chiusi per ore in camera con un cellulare a non fare apparentemente alcunché: avvertite il disagio, ma vi dite che è il solito scontro generazionale, da sempre il mondo è diviso in figli che non ubbidiscono e genitori che non capiscono, e sicuramente è banalmente vero, ma ora vi sentite tagliati fuori da quella parte del mondo che conosce siti, personaggi, linguaggi, professioni e divertimenti che voi non avete mai sentito nominare. Il punto principale è costituito dal discrimine tra le parti in competizione: non è più una questione di età, si può essere bollati come vecchi a trent’anni e non rendersi nemmeno conto di far parte degli esclusi, perché i cosiddetti vecchi (si dice "boomer", ma non userò altri termini gergali se non necessari) si contraddistinguono per la passività, non stanno imbracciando alcuna arma. Partiamo dal festival di Sanremo: sul palco irrompe un gruppo che, appena un paio di anni fa, sarebbe stato relegato agli ultimi posti in classifica: ragazzi sconosciuti al grande pubblico, sonorità rock, testo che abbonda di parole volgari, abiti e acconciature che confondono maschile e femminile con disinvoltura e orgoglio; i Maneskin invece trionfano. Si scopre che provengono da un talent e tutto sembra diventare più comprensibile: "Amici", "X-Factor" ci hanno abituati a questi nomi ignoti ai più che conquistano il diritto a partecipare (e ottenere buoni piazzamenti più di una volta) a Sanremo. Non con questo modo di presentarsi, non con questa canzone, però, ma soprattutto non con questa voglia di rivincita. È necessario precisare talune differenze: il gruppo sconosciuto può piacere o no, ma i componenti sanno tenere la scena, hanno un cantante con una voce potente che non si risparmia, sono giovani, ma professionisti; la loro riconferma sulla scena internazionale ci dà la dimensione di un evento che esula dalle logiche italiane che promuovono gli "amici" di De Filippi. Il cantante esprime alcuni dei motivi di quel senso di rivalsa, e sulla sbarra degli imputati, subito condannata dal popolo, è posta la scuola: come può essere tanto miope il docente di Lettere da assegnargli voti insufficienti, ci si chiede sbertucciandolo, non volendo capire che non basta saper scrivere un buon testo per conoscere la materia, si deve studiare la grammatica prima, il contesto letterario dopo, e saperlo padroneggiare. Ma non c’è tempo per analisi: la scuola uccide i talenti, non li comprende. E andiamo all’”Isola dei famosi”, con concorrenti per lo più ignoti, un carrozzone che quando non è volgare è noioso o entrambi. Gli ascolti puniscono la formula stantia: qualche nome di piccola-media notorietà ormai perduta, qualche parente di, qualche sportivo di anni fa, la maggior parte sconosciuta. Vince tale Simone Paciello, Awed il suo pseudonimo, un ragazzo che ha trascorso almeno dieci anni a destreggiarsi sul web, arrivando a raccogliere più di un milione di seguaci: non può definirsi sconosciuto con questi numeri e chiunque abbia un minimo di cervello capisce che a vincere sarà proprio lui, mentre gli spettatori continueranno a giudicarlo un inetto sdraiato come fosse in vacanza, un doppiogiochista spregiudicato e falso, uno scugnizzo nullafacente che si arrangia per sopravvivere. Ma Awed non è questo e non racconta questo, è la chiave per comprendere la generazione presente, e lo si scopre quando afferma che la sua vittoria è in realtà la vittoria del web, personifica il ragazzino che trascorre le sue giornate chiuso in camera con il cellulare eternamente acceso e che finalmente può vedere i suoi genitori dichiarare che ha sempre avuto ragione lui, il suo tempo non è stato sprecato, la società è cambiata e lui l’ha capito prima di tutti. La famiglia fa mea culpa pubblico e gli riconosce il ruolo di maestro di vita. Chi si stupisce della sua vittoria non sa che la fruizione dei programmi televisivi ormai avviene attraverso brevi riassunti (‘reaction’) di una decina di minuti che raccontano, principalmente per immagini, i momenti più importanti senza alcuna obiettività, quindi non si alza l’ascolto ma vince il proprio beniamino qualsiasi cosa faccia. Awed esorta a credere nei propri sogni, non racconta delle difficoltà a trovare ogni giorno contenuti interessanti, né del lavoro che c’è dietro quei quindici minuti editi, anche fino a dieci ore, e chi non si è cimentato può credere che basti filmare qualcosa per diventare delle celebrità. Chi prova a emularlo lo sa, abbassa la soglia delle proprie aspettative e spera, con minor fatica, di diventare un Awed ridotto. Come lui, ragazzini in tutta Italia girano video e si ritraggono in azioni che hanno il solo fine di piacere e far guadagnare seguaci (tagliarsi i capelli a zero, filmare amici, fidanzati, compagni sono alcuni piccoli esempi); ma non è più la popolarità lo scopo finale: le aziende investono sui piccoli imprenditori di sé stessi, li pagano con prodotti ma anche, ed è questo il passaggio fondamentale, con denaro vero. Come può un genitore cercare di imporre lo studio se suo figlio può guadagnare in un giorno l‘equivalente del proprio stipendio mensile? Poco importa se non sa formulare una frase di senso compiuto in italiano, ripete “adoro”, “amo” (vezzeggiativo di ‘amore’), non sa chi sia Garibaldi; poco importa giacché sono gli stessi genitori che ormai scrivono non molto diversamente dai figli e riescono a parlare anche peggio. Sono proprio le famiglie a supportare le attività dei figli, asserviti al sogno della popolarità e del soldo facili, pur non riuscendo a penetrare nel mondo dei navigatori del web professionisti, essendo privi delle necessarie competenze e persino della curiosità. Intanto, s’impongono nuovi modi e mode: il trucco e la gonna (ancora poco usata nella realtà quotidiana, ma ormai entrata negli armadi) per maschi, l’uso del femminile per personaggi omosessuali, la fluidità di genere (e di orientamento sessuale), la scomparsa di destra e sinistra con preferenze politiche fluttuanti e senza il minimo riferimento storico. Questo è probabilmente il panorama che più preoccupa i vecchi, che vorrebbero essere rassicurati dalla distanza tra mondo reale e quello dello spettacolo. La rassicurazione, però, è di lieve entità e talvolta ingigantisce gli incubi: Malgioglio può permettersi lo smalto e i vestiti eccentrici, il ragazzino che frequenta una reale scuola in una città realissima sarà sbeffeggiato, bullizzato, vittima di aggressioni. Tommaso Zorzi, vincitore del ‘Grande Fratello Vip’, fa breccia negli animi di chi lo segue per i torti subiti a causa della sua omosessualità e la forza con cui si batte perché tali violenze cessino. Non nasconde le sue fragilità, ne fa anzi un’arma in più per vincere sui pregiudizi, e viene premiato. Dalla tv. Il passo seguente è partecipare da opinionista a “L’Isola dei famosi” e condurre un suo programma, pochissimo seguito e moltissimo criticato; si è presentato adesso come il personaggio televisivo che probabilmente avrebbe voluto essere, ma risulta arrogante, impreparato, inutilmente aggressivo, cinico e insensibile. Avrebbe dovuto prendersi tempo, ma è proprio questo il problema: se non si esiste sui social ogni giorno, si viene dimenticati. Sembra che i personaggi presi dal web debbano tutti pagare questo pedaggio: è la tv che può consacrarli, quella che li sceglie, il loro compito è asservirsi alle sue leggi, convinti di poter usare il mezzo, ma dal mezzo usati e presto sostituiti. Ma i ragazzi, quelli della realtà quotidiana, quelli che frequentano le aule reali, che litigano con i genitori perché è stata loro promessa la stessa sorte di Awed, loro che faranno? E i vecchi? E la scuola? Premettendo che questa apertura, questo cambiamento in programmi che neanche i vecchi si fanno più bastare sono, almeno da me, considerati salutari e benvenuti, sarebbe auspicabile che i genitori non cadessero nella trappola, tesa anche alla scuola, di permettere che i propri figli crescano senza una seria preparazione culturale e umana, uscendo dall’abbaglio che fa della scuola la preparazione per il mondo del lavoro e che si deve studiare soltanto ciò che è utile: l’educazione investe tutto l’individuo, lo rende capace di ragionare, confrontarsi, sapersi esprimere, non essere una macchina per pollici su o un mero accumulatore di denaro.

L’autorevolezza persa può ancora essere riconquistata, lasciando spazio al confronto e non ponendo una lezione sullo stesso livello di un video su youtube, ché sono linguaggi diversi con finalità diverse. D’altra parte, i giovani dovrebbero sforzarsi di concepire l’altra parte del mondo che sentono antagonista meno stupido di quanto credano, perché qualsiasi vecchio, se solo vuole, può facilmente penetrare nelle profondità inesplorate di influencer, canali, reaction, "raghi", "amo" e "adoro". Naturalmente la forbice continuerà ad allargarsi, invece, giovani e vecchi si arroccheranno nei loro fortini, convinti di detenere verità assolute, la strada del giusto mezzo non verrà percorsa e ci dorremo del presente iniquo. Facile profezia giacché non leggo che lamenti e accuse laddove ci vorrebbero analisi, assenti forse perché l’argomento è serio e profondo, almeno quanto l’ignoranza che appartiene ai genitori che la lasciano in eredità ai figli, mai il contrario. O, forse, c’è di nuovo che questo cambiamento interessa principalmente i maschi e la nostra società ha dato fondo a tutte le sue energie scandagliando ogni piega del mondo femminile, con il maschio che esita a parlare delle sue debolezze. E ci sarebbe il mondo della sessualità filtrata dalla pornografia almeno da affrontare con serietà se teniamo a un equilibrio mentale dei ragazzi. Ma finché la vita della donna rimarrà sottomessa a una visione paternalista, tra violenze e sopraffazioni, non si potrà distogliere l’attenzione dal problema più drammatico e urgente. Intanto, sarebbe già importante se qualcuno si interessasse dello scontro in atto e che sta già mostrando la distanza tra i due mondi che non vuole essere colmata: la notizia che Khaby Lame ha spodestato Chiara Ferragni dall’empireo degli influencer su Tik Tok prima, su Instagram poi, ha fatto indirizzare insulti di una violenza spropositata all’indirizzo del giovane e i suoi seguaci. I suoi video non vengono capiti, forse anche perché muti, il miglior modo per essere esportati ovunque, in realtà. All’origine c’è un canale seguitissimo su Youtube, “5 minutes crafts”, con versioni tradotte nei principali Paesi del mondo, dove vengono mostrate soluzioni, a loro dire, creative per qualsiasi occasione e oggetto, immaginabile e no. Sono, però, espedienti macchinosi o inutili o ingannevoli nelle dimostrazioni o controproducenti, così molti ragazzi hanno iniziato a dimostrare la loro fallacia; Khaby supera tale fase con una satira pungente: ogni oggetto, ogni situazione hanno un preciso scopo e la semplicità di questo assunto è alla portata di tutti, senza bisogno di commentare, perché l’originalità a ogni costo finisce per causare più problemi che soluzioni. Per chi si pone dinanzi a un video del ragazzo senza conoscere l’antefatto risulta incomprensibile il suo successo ma è ciò che avviene da sempre con la satira. Eppure, molti ex boomer hanno aperto la loro mente e perfino il proprio canale, trovando il modo per parlare con i ragazzi e avere un’altra fonte di guadagno: è una così cattiva idea?

Gianvito Rutigliano per repubblica.it il 2 luglio 2021. "Dalle 8 di stamattina non faccio che rispondere a interviste. E stamattina, allo stesso bar dove prendo da anni il caffè, hanno voluto decine di selfie". Nicola Frangione è un docente di inglese in pensione. Ed è diventato inconsapevolmente virale, protagonista dello scatto amatoriale più diffuso del G20 di Matera che lo ritraeva a torso nudo sul balcone di casa mentre nei Sassi passavano le delegazioni straniere. "Stavo leggendo e prendevo un po' di sole - racconta - e mi sono affacciato incuriosito dalla musica. Prima il sindaco e il ministro Luigi Di Maio mi hanno salutato cordialmente. Quando ho visto che mi stavano scattando delle foto ho pensato che forse non era stata una buona idea presentarmi così". Quell'immagine in poche ore è stata rilanciata migliaia di volte sui social, tra meme, vignette e persino ipotesi su una sorta di protesta contro i potenti della Terra. Il professore esclude ogni provocazione in quel gesto. Ma riflette su quanto accaduto: "Continuo a non capire il perché di tanta straordinarietà, basta davvero poco per diventare famosi. Ho letto tanti commenti, pur divertendomi, ma ho notato che le parole usate erano spesso le stesse e le frasi sempre molto brevi: ci sarebbe da fare un'analisi quasi sociologica. I social vanno bene ed è giusto che ognuno scriva quello che vuole e come vuole. Ma mi piacerebbe ci fosse maggiore profondità di pensiero".

Da ilfattoquotidiano.it il 29 giugno 2021. Facebook ha vinto la battaglia legale contro le accuse di monopolio negli Stati Uniti. Un giudice federale ha infatti respinto le accuse contro la piattaforma social, formulate dalla Federal Trade Commission e di procuratori generali dello Stato di Washington per cercare di frenare i poteri di uno dei giganti del web. Il giudice distrettuale James Boasberg ha stabilito che le cause contro il social fossero “legalmente insufficienti” e non fornissero prove sufficienti per dimostrare che Facebook costituisse un monopolio del mondo social. Con questa sentenza, Facebook scongiura la divisione di Instagram e Whatsapp, ma può al contrario restare compatto. Va sottolineato, però, che la sentenza respinge il reclamo in sé ma non il caso. Questo vuol dire che la commissione federale per il commercio potrebbe presentare un altro reclamo contro la piattaforma, dopo quello del dicembre 2020, quando il governo degli Stati Uniti e altri 48 tra stati e distretti accusarono Facebook di abusare del suo potere e schiacciare la concorrenza, soprattutto quella più piccola. Il giudice, ha infatti dato la possibilità alla commissione di depositare una nuova azione legale entro 30 giorni. Il primo effetto della sentenza è stato un rialzo del titolo della creatura di Zuckerberg, entrato nel “club” delle società da un trilione di dollari di valutazione di mercato. Grazie al balzo di oltre il 4% di ieri Facebook si è portato per la prima volta il muro di mille miliardi di dollari di capitalizzazione. Facebook si aggiunge così alla ristretta élite delle società da oltre un trilione di market cap.  E’ infatti la quinta società di Wall Street a superare la soglia dopo Apple, Microsoft, Amazon e Alphabet. La settimana scorsa aveva fatto notizia il superamento dei 2.000 miliardi di dollari da parte di Microsoft, seconda a riuscirci dopo Apple. Facebook è divenuta pubblica nel maggio 2012 debuttando a poco più di 100 miliardi di dollari di capitalizzazione e in poco più di 9 anni ha decuplicato il suo valore.

Mario Platero per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 29 giugno 2021. Tutto nasce da un paradosso: "Il paradosso Antitrust di Amazon", breve saggio di Lina Kahn, nuova star per la concorrenza in America e nemesi dei colossi digitali. Lo scrisse quando aveva appena 28 anni e studiava per il dottorato in legge a Yale. La Kahn, emigrata da Londra in America a 11 anni con i suoi genitori pakistani, apriva una strada per accusare di abuso di posizione dominante colossi come Amazon: gli aumenti dei prezzi per i consumatori non erano più la condizione principale per identificare abusi di posizione dominante. Il paradosso è semplice: anche se Amazon tiene i prezzi bassi rinunciando a una quota di profitti, crea comunque una posizione dominante perché mette fuori mercato altre aziende e riesce a diversificare, come ha fatto ora, ormai in tutti i settori, dal credito alla produzione cinematografica ai supermercati. Amazon insomma ha scelto il lungo termine per prevalere e continua in questa sua politica eliminando lungo la strada altri potenziali concorrenti, creando così un monopolio ancora più pericoloso per il sistema competitivo americano. Questa interpretazione allargata riflette il pensiero originario di cento anni fa del grande giurista Brandeis, il padre dell'Antitrust in America, secondo il quale occorreva avere un approccio più ampio del prezzo per il consumatore nel giudicare i pericoli impliciti in una concentrazione monopolistica. La Kahn faceva parte di questa nuova corrente e quando andò a lavorare in una delle sottocommissioni Antitrust alla Camera, lo scorso ottobre, scrisse un rapporto che inchiodava come monopolisti pericolosi i grandi del digitale: «Amazon, Apple, Facebook e Alphabet (holding di Google), hanno un significativo potere di mercato consolidato nel tempo, che si traduce in minore innovazione, minori scelte per i consumatori e in un indebolimento della democrazia». Quando il Presidente Biden ha scelto a sorpresa questa giovane e brillante teorica prima come consigliera e poi addirittura alla guida della Federal Trade Commission (Ftc), lo ha fatto - si è detto - per darle un mandato preciso: i colossi digitali devono avere le ore contate. Sulla sua nomina non ci sono stati dubbi, è passata al Senato con una maggioranza schiacciante di 69 voti a 28. Eppure il quadro è più complesso e non sarei tanto sicuro della tranquillità della Kahn nell'avviare la sua missione in modo così dirompente come credono tutti. Intanto le azioni della Kahn, se e quando partiranno, non sarebbero una novità. Ci sono almeno tre seri tentativi già in corso per contenere e possibilmente smantellare almeno tre dei cinque Big Tech su presupposti che guardano al di là del prezzo. Ma non sembra che le cose vadano bene. Anche perché le tesi del vecchio padre della concorrenza in America cento anni fa, il giudice Brandeis, dovrebbero essere rivalutate oggi nel contesto di una economia digitale globale, non soltanto su dinamiche interne. Al di là dei prezzi per i consumatori, quanto è importante per l'America avere colossi in grado di competere con minacce concorrenziali come Tik Tok ad esempio, in arrivo dalla Cina, e prive di qualunque controllo da parte di Pechino? Ha risposto Mark Zuckerberg: per gli Usa avere aziende di grande dimensione in grado di competere globalmente è essenziale. Infine, se i protagonisti sono quattro o cinque a competere su uno stesso mercato spesso in una lotta senza quartiere, non c'è forse una dinamica che poggia sulla concorrenza e non sul monopolio? Di questo si discute. E la stessa Kahn si rende conto che tradurre dalla teoria alla pratica le sue idee non sarà così facile. Le cause già avviate, sulla base di principi simili a quelli invocati dalla Kahn, non hanno per ora dato risultati e appaiono deboli. Una di queste è proprio della sua Ftc contro Facebook e Zuckerberg: l'accusa è di aver approfittato di una posizione dominante per acquistare Instagram e WhatsApp. Peccato che Facebook avesse chiesto proprio alla Ftc il permesso per procedere e l'avesse allora ottenuto. Difficile per un giudice fare una marcia indietro retroattiva di questo genere. Tanto più che sia Instagram che WhatsApp sono poi cresciute enormemente nel nuovo contesto Facebook. Un'altra causa risale al 20 ottobre scorso, partita dal dipartimento per la Giustizia, ancora sotto Trump. Google, che controlla fra gli altri YouTube, avrebbe sottoscritto accordi illegali con Apple per proteggere il suo monopolio di fatto sui motori di ricerca. Uno dei passaggi chiave di quel documento, 64 pagine con dettagli di ogni genere, recita: «Per troppi anni Google ha utilizzato tattiche anti competitive per mantenere e allargare il suo monopolio nei mercati per i servizi di ricerca generale, ricerca pubblicitaria, ricerca di testi pubblicitari». Come? Facendo sì che sui telefonini e su altri mezzi di comunicazione venduti da Apple, il motore di ricerca che appare sullo schermo in modo automatico sia Google. Questo si traduce in un dato incontrovertibile e preoccupante secondo il Dipartimento per la Giustizia: Google con il suo motore di ricerca - e con le sue tattiche - mantiene una posizione dominante con un controllo di circa l'80% del mercato. Basta? Non necessariamente, perché il consumatore è libero di cambiare e scegliere in automatico un altro motore di ricerca. Un altro aspetto non secondario è che gli altri motori di ricerca trovano a loro volta il modo per sostituirsi a Google nella "home page" e che spesso il consumatore torna su Google per scelta, per il semplice fatto che per ricerche generaliste il suo motore resta il più accurato e più rapido nella risposta. Alla procedura aperta dal Dipartimento per la Giustizia si sono uniti 11 Stati attraverso procuratori generali di nomina repubblicana. Tutti condividono la sensazione di pericolo per l'eccesso di potere da parte di Google: «Due decenni fa Google è diventata la beniamina di Silicon Valley come una start up in possesso di una tecnologia di ricerca innovativa su Internet. Quell'azienda è sparita ed è oggi il passaggio obbligato monopolistico per le ricerche su Internet». Possibile che questo rappresenti una minaccia reale per Google? Che gli avvertimenti ripresi da tutti i giornali del mondo sull'arrivo della Kahn abbiano intimorito il mercato? Quando partì la causa del Dipartimento per la Giustizia, Google capitalizzava 1.040 miliardi di dollari, oggi circa 1.600 miliardi. Non proprio un segnale di timore per un capolinea vicino.

La fabbrica globale dell’insulto. Dai duelli d'onore al linguaggio d'odio che domina il web: perché la pubblica ingiuria è il grado zero dell'intelligenza. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 3 maggio 2021. L’Insulto è il cortocircuito del giudizio, la sentenza che si sporge dalla norma, l’esibizione muscolare della parola, quasi un atto ginnico ci suggerisce l’etimologia: insultare, ossia saltare su qualcuno. Come la preghiera o il comando, non ha un contenuto di verità ma è quasi un enunciato extralinguistico e performativo che modifica concretamente la realtà a cui si riferisce. La sua genesi è antica almeno quanto il mondo e, nel corso dei secoli, si è rivelato un fortunato genere letterario, con i suoi codici, le sua cifre stilistiche, i suoi manierismi. Genere colto, riservato a nobiluomini che ardono per difendere la propria reputazione, scrittori che sbeffeggiano altri scrittori, filosofi elitari che si scagliano contro l’odiata plebaglia. In verità la gran parte degli oltraggi nasce proprio dalla fantasia popolare, nelle strade, nelle bettole, nelle caserme, ma soltanto l’alta società aveva la possibilità di cimentarsi nell’arte pubblica dell’invettiva: «La collera ha i suoi privilegi» ironizzava quattro secoli fa William Shakespeare. Anche se c’era poco da scherzare. Come scrive il filosofo Alain de Botton ne L’importanza di essere amati, fino a poco tempo fa l’insulto era un cimento che conduceva facilmente alla morte. Fino alla Prima guerra mondiale, nella vecchia Europa non c’era gentiluomo che non avesse almeno una volta difeso il suo onore con la pistola o la spada: “Nel 1678 a Parigi un uomo morì per aver dichiarato che l’appartamento di un suo conoscente era di cattivo gusto. Nel 1702 a Firenze uno studioso tolse la vita a un cugino che lo aveva accusato di non capire Dante. In Francia durante il regno di Filippo d’Orléans due ufficiali si batterono sul Quay des Tuilleries per il possesso di un gatto d’Angora”. Oggi l’onore è un sentimento meno esclusivo e più diluito. Con l’avvento di internet e dei socialnetwork l’insulto ha subito una mutazione “democratica”, diventando una specie di romanzo collettivo e che ognuno può arricchire dal basso, con la propria esperienza o il proprio fardello di rancori e frustrazioni. Il web ha infatti abolito le barriere culturali, ha esteso oltre ogni limite il palcoscenico dell’offesa, offrendo a tutti l’opportunità di ringhiare contro il prossimo dalla comoda postazione del proprio soggiorno. Le falangi armate dell’insulto hanno così a disposizione un campo di battaglia potenzialmente illimitato. Un rapido sguardo alla ragnatela digitale ci restituisce l’ampiezza (e la virulenza) del fenomeno: ogni giorno milioni e milioni di individui colpiscono con rabbia e frustrazione le tastiere di smartphone, pc, tablet, nel tentativo di offendere, controbattere, denigrare, duellare con i propri avversari virtuali. Un fight club planetario di contumelie sovrapposte in cui i seguaci di qualsiasi tema o argomento si scontrano all’ultimo sangue in un’incontrollabile reazione a catena. Ormai anche sui siti di ricette culinarie, sui forum di meteorologia e nei newsgroup di botanica le discussioni finiscono in duelli rusticani. L’anonimato però spiega solo parzialmente il fenomeno, considerato che la gran parte dei proprietari di account Facebook e Twitter ha un nome e un cognome reali. La pulsione per l’oltraggio sembra dunque più forte del senso di vergogna che dovrebbe suscitare, al contrario si intravede un certo godimento nelle prolisse sequenze di improperi che circolano in rete, come se offendere qualcuno fosse un modo per rafforzare la propria vacillante identità. Un’anteprima del fenomeno l’abbiamo osservata nell’estate del 1986, quando i centralini di Radio radicale mandarono in onda per settimane migliaia di telefonate senza alcun filtro. Al netto della teatralità italica, ne uscì fuori la fotografia di un paese livido e dilaniato dalle sue eterne fazioni: nord contro sud, destra contro sinistra, juventini contro interisti, maschi contro femmine, laici contro religiosi, in un climax di offese e minacce il più delle volte irriferibili. Ogni insulto discende da un serie limitata di categorie, figlie di altrettanti pregiudizi: xenofobia, razzismo, omofobia, sessuofobia, misoginia, disprezzo del debole. Dal classico “vaffa” (in Italia è stato persino un manifesto politico) che augura al proprio avversario vaghi dispiaceri anali, alla similitudine fra l’individuo e i genitali maschili. In altri casi si tratta di assegnare il disvalore allo stato puro, la persona offesa è associata all’escremento; lo “stronzo” come allegoria della più spregevole nullità terrestre: c’est nul, dicono i francesi fin da bambini per denigrare qualcuno o qualcosa, nullo ovvero senza alcun valore. Degradare il nemico, spogliarlo della sua umanità, ridurlo al mero stato animale, come in un bestiario medievale esso diventa un cane, un porco, una capra, un avvoltoio, o un insetto. Immancabile poi la similitudine con la morte e il morente: il bersaglio di turno è così uno zombie, una salma, una mummia, un cadavere, una carogna. Per dirla con la psicologa Melanie Klein, l’insulto è uno strumento che mira all’esclusione di qualcuno dal proprio “gruppo di buoni e sani” uno strumento verbale che mette in mostra il “cattivo oggetto”: tu sei l’anormale, il malato estraneo al gruppo e devi farti curare. Chi non ha mai fatto ricorso a questa tipologia di offesa scagli la prima pietra: “Quello/a la è uno psicopatico”, “chiamate la neuro”, “stai fuori di testa”, sono iperboli che condiscono il linguaggio quotidiano e tendono a marcare la propria superiorità nei confronti dell’altro. In cattiva come in buona fede. Bisogna in effetti distinguere l’insulto dal rimprovero, il quale possiede una venatura moralistica e sottolinea la slealtà della controparte, in teoria meritevole dei terribili epiteti che gli vengono scagliati addosso. Ma anche in questo caso si resta nella sfera della fobia dell’altro, il “bastardo” è qualcuno che si comporta in modo scorretto, che suscita sincera indignazione, ma come ignorare la pesante allusione alla razza che contiene l’epiteto? Il “figlio di” allude invece alla lussuria materna, l’impurità che genera l’amoralità della prole. Il circolo vizioso dell’invettiva ci riporta quindi al vieto canovaccio di partenza, quello del pregiudizio. In fondo la più grande delusione per chi si appassiona a questa logomachia telematica sta nella totale mancanza di originalità delle espressioni e dei vocaboli impiegati dai contendenti. Essi sono prigionieri di uno schema asfittico e gregario che li porta a scandire all’infinito sempre le stesse, logore, parole. Come avrebbe detto Lacan: più che parlare sembrano parlati dal loro linguaggio. Alla fine della giostra rimane un’unica certezza: l’educazione è un arte molto più trasgressiva dell’insulto.

Carletta Lombardo per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2021. Le chiamano «granfluencer» (da influencer e grannies : nonne, in americano): hanno più di 80 anni e centinaia di migliaia di follower. A lanciarle, e seguirle sui social, sono i giovani, conquistati da quel mix di saggezza e ironia tipica dei senior. Come è successo ai «nonni di Taiwan»: 84 anni lei e 83 lui, proprietari di una lavanderia, che hanno rastrellato 600.000 follower su Instagram in poco più di 2 mesi. Da quando il nipote, vedendoli provati dal lungo lockdown, li ha trasformati in modelli. Il fenomeno si chiama Graynassaince , la rinascita della terza età: in atto negli States (date un'occhiata al blog «Advanced style» di Ari Seth Cohen) e ora in Italia. L'influencer più celebre? Nonna Licia, esule istriana trapiantata a Viterbo. Ha 91 anni, due femori rotti e una macula che «è peggio di una cambiale», ma il suo profilo Instagram @LiciaFertz fa il pieno di like: 391 commenti a post, di media, e 114 mila «nipoti virtuali». Ad averle ridato il sorriso però è stato quello vero, Emanuele Usai, esperto di digital marketing. «Dopo la morte di nonno Aldo, era depressa. Per farla vestire carina le ho proposto di fare delle foto - spiega -. Lei si metteva in posa come se l'avesse sempre fatto». Ed eccola, nonna Licia, in giardino coi cani adorati. Vestita con abiti coloratissimi - in minigonna e mise bon-ton - sempre con stile e grande ironia. Come nella foto in costume rosa shocking e occhiali a farfalla, mentre addenta una fetta di cocomero. O, bellissima, con un kimono di seta che le copre a malapena il seno. «Non sopporto che mi dicano che sono "ancora" una bella donna. C'è forse un'età dopo la quale non si può più essere belle? - precisa lei -. Il costume l'ho messo perché un'amica non lo indossava più. Si vergognava, a 65 anni! Ma la gioventù non è un merito e la vecchiaia non è una colpa». Ispirazione anche per i giovani («mi scrivono per consigli di lavoro e amore»), testimonial di aziende di prodotti per anziani e fashion, nonna Licia ha pure scritto un libro: Non c'è tempo per essere tristi (De Agostini), alla terza edizione in pochi mesi. «La mia nuova vita me l'ha confermato - confida -. Pensavo di non essere più utile e invece ho scoperto la gioia di essere me stessa». Novant' anni suonati e un'incredibile senso dell'umorismo anche per Giovanna Capobianco, 400 mila fan e 370 mila follower su Tik Tok, 17 mila su Instagram. Il suo segreto? Un irresistibile slang toscano-ciociaro (è originaria di Sora, in provincia di Frosinone, ma vive a Pisa), qualche motto («Fregatenn della vita, e tira a campà!») e molti travestimenti. «Vi garbo in versione Holly & Benji? Oggi mi so messa a gioà cor mi nipote, io di punta, lui in porta, e n'ho fatti tanti go eh! Ho 90 anni, ma che me ne frega», si legge in un suo post su Instagram @lanonnagiovanna. «È stato mio nipote (Nicola Pazzi, attore comico ndr ), con 'sta storia del telefonino a farmi ringiovanire. Adesso io mi diverto! Ho imparato a farmi i selfie e i video - racconta orgogliosa -. Prima guardo che i capelli siano a posto. Poi ci metto la "pezzola", il fazzoletto. Vedo le mie vicine: quella si lamenta, quell'altra non fa niente... Ma diamine. Io, almeno, mi diverto». Le ricette della tradizione pugliese sono invece l'ingrediente di successo di nonna Maria, 78enne, ex infermiera e tre nipoti che l'adorano. È lei la star di «Ricette delle nonne», che conta un canale YouTube (250mila iscritti) e un profilo Instagram (26.600 follower). «L'idea di aprire un canale YouTube è di mia nipote Federica. Voleva un posto dove conservare ricette, gestualità, modi di dire della famiglia. Abbiamo iniziato con la video-ricetta dei panzerotti». È il 3 febbraio 2019, ed è boom di visualizzazioni. «Quasi 5 milioni - ricorda Maria - ma all'inizio avevo paura dei social. Adesso so che c'è un modo giusto di pubblicare ed è con il linguaggio della spontaneità e della positività». Ogni venerdì Maria posta le ricette, circondata dalla famiglia e dal marito Sabatino, 85 anni. «Per noi è stata una rinascita - confessa -. Ora siamo più forti, ed è quello che rende i nostri piatti tanto speciali».

La polemica. Influencer, hashtag e meme: che noia, siamo diventati un popolo di caproni. Fulvio Abbate su Il Riformista il 6 Aprile 2021. Quand’ero bambino, ed erano gli incantevoli anni Sessanta, in cima alle nostre librerie economiche di teak, giunta lì a scansare le antiche cose buone di pessimo gusto – Loreto impagliato, le foto dell’amica di nonna Carmelina, il ritratto di zio Guido fumogeno in Etiopia e quello di papà bersagliere a El Alamein – in mezzo a ogni orrore familiare, campeggiava invece una enciclopedia dal titolo esemplare: “Conoscere”, il suo nome. Quel nome custodiva in sé l’imperativo dell’apprendimento doveroso, perfino in senso ludico, mai ricattatorio, mai punitivo. Istruttiva e straordinaria fin dalla sua livrea grafica, tra i Sumeri, Goffredo di Buglione, l’Atomo di Bruxelles, Gagarin, Porsenna e le appena annunciate meraviglie dei transistor, bastava osservarne i dorsi per capire che, se non proprio tutto, molte delle cose contenute e illustrate nelle sue pagine era davvero il caso di studiarle, apprenderle, apprezzarle. E questo al di là degli obblighi scolastici, dei compiti assegnati al mattino dagli insegnanti sotto sotto ancora fascisti, del “rosa rosae” e perfino dell’odiato Pi greco. Conoscere, apprendere, imparare, dunque. Se non proprio per ragioni di vanto, comunque come passaporto necessario per non fare pessime figure, da “zappe”, in società, meglio, con i nostri coetanei più banali: evitando di passare per “ignoranti” o ancora peggio per analfabeti al tempo televisivo del “Non è mai troppo tardi” dell’encomiabile maestro Manzi. Ignoro quale sia nell’attuale presente il corrispettivo, sia pure immateriale, di quell’enciclopedia benemerita, che, detto per inciso, molti “boomer”, ancora adesso, nonostante i traslochi, sebbene mai più sfogliata dagli anni dell’assassinio di Kennedy a Dallas, teniamo su una mensola di casa come monito ai bisogni necessari del sapere, magari accanto agli Scritti corsari di Pasolini. A proposito, scopro che: “Ok boomer! è un modo di dire e un meme usato da adolescenti e giovani adulti per respingere o deridere gli atteggiamenti tipicamente associati alle persone nate nei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale”, così leggo, e la derisione da parte dei nuovi arrivati è perfino riferita al “peso” delle informazioni culturali che questi ultimi, cioè noi che abbiamo conosciuto il Novecento, ci porteremmo dietro, come fosse una zavorra. Restando in tema di trionfante neo-analfabetismo, torna in mente però anche un’altra considerazione che a molti risulterà apparentemente secondaria, irrilevante. Racconta infatti lo scrittore e saggista Hans Magnus Enzensberger di anziani anarchici rifugiati nel Sud della Francia dopo la sconfitta della Repubblica, orgogliosi di se stessi, rispettosi della cultura, anche un po’ sospetti verso la generazione dei compagni più giovani già “capelloni”, così negli anni Settanta. Questo per dire che il passaggio generazionale non è mai indolore, anche quando si ha un pensiero comune, in quel caso perfino politico. Il guaio è che adesso, con queste nostre parole, nero su bianco, stiamo sottolineando l’evidenza di uno spettrale paesaggio di analfabetismo integrale che ci appare minacciosamente davanti, un analfabetismo ad ampio spettro, che investe pure l’incapacità ortografica, la disposizione esatta dei punti, delle virgole, le spaziature perfino. E, dato ancora più drammatico, forti degli strumenti offerti dai social, i nostri cari vicini analfabeti affermano la propria condizione acefala come necessaria e assoluta. Valga su tutto la semplificazione del pensiero ridotto a puro hashtag, a meme. Ora, non vorrei dire, ma l’avere deprezzato il capitale delle idee a favore del capitale materiale, economico, potrebbe averci portato a questi risultati. Penso anche alla figura dell’influencer. Intendiamoci, nessuno vuole affermare che l’enciclopedia “Conoscere” custodisse tutto il necessario scibile e gli enzimi per riuscire ad affrontare dialetticamente le cose del mondo, c’erano, sì, illustrazioni meravigliose degne del miglior iperrealismo, esatto, di un Mel Ramos, l’artista che ha mostrato la pin-up nuda in groppa a un ippopotamo, quasi un presentimento del mondo beota che sarebbe venuto. Nessuno avrebbe comunque mai immaginato che in seguito, davanti al carico criminogeno di paccottiglia subculturale in grado di negare il pensiero stesso, appunto, tra emoticon e ancora faccine, avremmo rimpianto la letture della nostra infanzia. La convinzione che la cultura sia una forma di ricatto, in mano ai “professoroni” (e qui la modalità mentale delle destre diffuse ha buon gioco), se un tempo, di fronte ala barbarie, estremo candore da stupidi avvelenati di ideologia, sollevavamo il cosiddetto “libretto rosso” di Mao Tse-Tung, adesso di fronte a questo spettacolo di analfabetismo basterebbe la cara indimenticabile enciclopedia “Conoscere”. Che mondo orrendo si prospetta, che mondo orrendo è già qui sotto casa a aspettarci.

Spunti anti-classista. Rimpiangere i libri e denigrare i social: il solito tic delle élite. Alberto Abruzzese su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. In queste settimane, il più che tardivo, improvvisato, sordo e spesso disonesto dibattito di governo e pubblico sulle rispettive doti della formazione a distanza oppure della formazione in aula, ci sta dimostrando quanto la tragica occasione pandemica non venga colta dai “decisori” in corso per rompere con il passato ma per rigettarlo dentro il presente e addirittura il futuro. L’imperativo è decidere il medium della formazione senza cambiare radicalmente i suoi contenuti, come invece sarebbe necessario per arrivare al medium più opportuno. Si è parlato di tutto questo anche su Facebook, per diretta sollecitazione di Derrick de Kerckhove, ricercatore e teorico in campo mediatico – da Toronto a Napoli – tra i più attenti alle conseguenze sociali della digitalizzazione del mondo umano. S’è discusso tra “amici” di vario orientamento critico sulle diverse opzioni culturali tra chi conserva e chi invece ricusa il primato storico, scientifico e ideologico, detenuto dai linguaggi del “libro”. Del libro, non solo in quanto scrittura alfabetica stampata su carta (o in digitale, come fosse pietra), ma del libro come mentalità, bolla culturale, simbolica e funzionale, del sistema di valori ancora potentemente alimentato, sostenuto e tramandato dagli apparati e dalle istituzioni, dalle politiche e professioni, della società moderna. Per alcuni tra noi, compreso me stesso, si tratta di un sistema di valori, pregiudiziale e superstizioso, che sta sopravvivendo alla stessa progressiva obsolescenza e morte dell’editoria cartacea. Dunque della scrittura-lettura dei libri come fulcro dell’intelligenza umana. Per altri di noi, o meglio della nostra stessa “cellula”, il primato del libro varrebbe invece tuttora proprio come garanzia di un pensiero critico, solidamente fondato e progressivo, non abbandonato al marasma sociale, per quanto fascinatorio, delle reti. E, negli stessi termini, varrebbe come baluardo contro la strapotenza raggiunta dalla tecnica sulla persona umana e sui suoi più irrinunciabili valori. La domanda cruciale è dunque se i libri siano e debbano essere ancora considerati la primaria fonte di conoscenza in grado di bilanciare gli effetti sociali (etici e estetici, politici e civili) della avvenuta nascita del “nostro gemello digitale”, come definito appunto dall’amico Derrick. Partecipando a questa discussione, Salvatore Iaconesi, tra i più vivaci attori e protagonisti di vita digitale, ha scritto: «Per avere a che fare con questa globalità, iper-connessione, intensità, quantità, attività, sensazione, il nostro corpo (composto di carne) non ci basta più. La nostra carne, come medium del sentire, non è più sufficiente». È a questa sua coraggiosa affermazione che vorrei rispondere. Con qualche mio eccesso da dilettante. Nel parlare di IA, dunque d’ogni sua applicazione digitale, robotica e via andando … molti influencer (categoria di operatori sociali che, desunta dal marketing, si può ormai estendere a giornalisti, intellettuali, professionisti e politici) tendono o meglio sono portati a immaginarsi che il mondo esista soltanto perché umano, apparato economico-politico umano. E dunque sia orientato a muoversi in superficie – sulla propria superficie, compresa la pelle umana – così, ancora e inevitabilmente, mirando verso se stesso e i suoi più estremi confini, comunque “terrestri”, nel senso di geopoliticamente umani. È Atlante, fratello di Prometeo, a reggere il mondo sulle sue spalle di Gigante. Il viaggio (al contrario delle stasi dei corpi migranti) è ancora ora quello delle “tre caravelle” verso nuove terre e altri corpi da sfruttare. I conflitti di potere sono ancora tra amici e nemici che, in urto tra loro, abitano e si contendono uno stesso territorio, le stesse risorse, il medesimo futuro, senza ascoltare altro che se stessi. Amici e nemici in e di una esistenza che non appartiene loro e tuttavia attraversano da proprietari e conquistatori. È proprio il metodo di ricerca esperienziale di Iaconesi a mostrarci, invece, di quanto ci si possa allontanare dai paradigmi più duri, resistenti e insensibili – corazzati – della modernità. Al posto del suo occidentale “principio speranza” ha messo la malattia: la sofferenza fisica diventa un valore da non rimuovere da sé (prassi quotidiana, invece, dei conflitti sociali). E la cura – non del sano versus il malato ma di questi verso il sano – è messa al posto della conoscenza. La coscienza del male, al posto del libero arbitrio del bene. La carne al posto del corpo e il corpo della persona al posto del soggetto sociale. Del suo interesse dispotico. Abbastanza per farne un laboratorio di pratiche umanamente situate in grado di funzionare almeno da correzione se non da vaccino all’idea che la civilizzazione umana debba continuare a navigare lungo le medesime rotte occidentali, costringendo il nostro corpo a seguirle e perseguirle. A espandersi con esse e in loro nome. Le ultime tappe delle neuroscienze e gli orizzonti a venire della fisica quantistica si sono fatte ora tanto strabilianti da prestarsi a potere frantumare la formula classica dell’essere umano, in quanto soggetto identitario destinato a conoscere e conquistare la terra e il cielo. A farsene carico come Atlante. E potere così sfigurare la missione prometeica simbolicamente impressa, stampata, sulla figura di Galileo. E così mutare definitivamente la direzione del suo cannocchiale. Bisogna allargare lo sguardo con la vista del microscopio. Per mezzo di macchine, il soggetto moderno – l’angelus novus che le ha concepite, sviluppate e fatte progredire nello spazio e nel tempo – sta rivelando la natura, essa stessa macchinica, di qualsiasi organismo esistente al mondo in ogni sua minima, media e massima dimensione. Dimensioni che diciamo propriamente materiali, quando se ne può riscontrare la effettiva loro consistenza fisica, ma che invece – nell’impossibilità di tale riscontro, di tale reale percezione esterna – diciamo impropriamente immateriali: sensazioni, finzioni di funzioni, relazioni affettive, appetiti o repulsioni, memorie. Tuttavia, ogni immaginazione umana – già prima di ogni sua concreta realizzazione, oggetto d’arte e artificio – funziona e può funzionare solamente grazie a motori in grado di produrla per essere consumata e consumarla per essere prodotta. Trans-metterla. Ovvero il mondo come perenne rifinitura (finish). E dunque, prima di ogni altra interfaccia necessaria alla nostra carne per intrattenersi materialmente con il mondo in cui è trattenuta (dallo stagno di Narciso a Internet), c’è da considerare quella interfaccia – propriamente la più personale, singola e intima – che ha preso il nome di interiorità. Pure quella che ci è stata detta anima: la presenza in noi più “spirituale” e per questo ritenuta più aliena da ogni scambio e accumulazione di interessi materiali, terreni. Le macchine – qualsiasi dispositivo tecnologico: dalla mano all’osso di Kubrick al martello alla spada al pallottoliere e alla penna d’oca sino all’IA – sono state e sono estensione della nostra carne. Coraggiosamente – quasi a volere trovare l’anima da soffiare dentro al “gemello digitale” in cui ci siamo tradotti – Iaconesi ci dice che una umanità da sempre siffatta in virtù della propria stessa carne non ci basta più “come mediun del sentire”. Ha quindi un reale bisogno delle nuove macchine numeriche? Pensiamoci insieme. Se già il “mondo nuovo” della voce umana venne alla luce grazie alla liberazione della bocca dalla sua precedente funzione prensile, ciò vuole allora significare che, procedendo su questa stessa linea, l’intera nostra carne è infine giunta al punto – estremo – di esonerarsi da se stessa? Così ragionando (è il mio modo e penso anche quello di Iaconesi), si arriva sempre e comunque a dovere riconoscere lo stato di necessità e il desiderio di sopravvivenza della natura che abitiamo (le leggi non scritte della Natura) e da cui siamo abitati minuto per minuto. Proprio agendo le qualità naturali che lo costituiscono, l’essere umano si è in esse “distinto” a tal punto, per mezzo della sua politica di civilizzazione, da arrivare a separarsi o meglio credere di essersi separato dai linguaggi non umani, inumani, della stessa natura che lo ha partorito e fatto crescere. Tanto da arrivare a credere di avere avuto la effettiva potenza di realizzazione necessaria a tale definitivo distacco. Ma veniamo al punto su cui ci interroga Iaconesi. Dato l’avvento già manifesto e riconosciuto della iper-potenza tecnologica, cosa ancora resterebbe da esonerare nella carne umana dopo avere raggiunto il suo corpo e il suo cervello? Interessante domandarselo: certamente perché ci impone come cruciale, ultimativa, la riflessione su quanto in effetti sia rimasto all’umano di veramente umano. Stando al progresso storico e sociale – “residuato bellico” di una qualsiasi delle applicazioni tecnologiche con cui la nostra carne si sarebbe liberata – resta allora utile chiedersi quanto l’Umanesimo arrivi di conseguenza a scoprirsi di fatto non più come virtù del libero arbitrio e, conseguentemente, della sovranità dell’essere umano sulle cose del mondo, ma semplicemente, brutalmente, virtù della potenza della tecnica. Eccetera, eccetera … vecchia questione. Ancora cumuli di libri! Mi interessa di più guardare la questione da un altro punto di vista. Credo che la nostra carne sia senza fondo e non ci sia mai bastata per vivere. Da qui, dunque, la catena di esoneri di cui si fa l’elenco, seppure senza avvertire, confessare, quanto essi sono di volta in volta avvenuti e avvengano in condizioni temporali e spaziali distanti tra loro: dunque non in uno stesso momento e non in uno stesso luogo. E quindi penso che la giusta sensazione di insufficienza di cui ci parla Iaconesi, volendo orientarci verso di essa, riguardi piuttosto soltanto l’esiguo, ristretto, “noi” di una intelligenza antropologico-culturale di esclusiva proprietà dei ceti sociali pienamente alfabetizzati, socialmente istruiti e, a ragione di questo, egemoni. Appunto il “noi”: non tutti gli esseri umani, ma la loro selezione, scrematura, domina su tutti gli altri. E con diversi mezzi domina sulla diversità delle loro esperienze vissute. Carne, privilegiata da sé medesima a proprio vantaggio e da se stessa tecnologicamente aumentata a fini strategici, si trova ancora a vivere oggettivamente e soggettivamente separata da una massa infinitamente più espansa di vita organica e inorganica. Per questo, ripeto sempre, si può pronunciare e scrivere la prima persona plurale soltanto tra virgolette così che ne condizionino e limitino il senso e la credibilità. E di conseguenza, per comprenderne il reale significato, sarebbe necessario virgolettare anche il tutti. Ci si dovrebbe finalmente convincere di quale inganno si nasconda nel gioco di società tra élite e mondo. La crema di pensiero e azioni del “noi” si mantiene scissa dal vero mondo di cui essa è ospite indiscreto. Per lei, società della conoscenza, la sfera del tutti&tutto in senso pieno, è di fatto quasi muta per il proprio orecchio. Alla sua coscienza critica risulta una estensione sommersa, narcotizzata, dai troppi rumori di fondo e dalle interferenze che vengono dalle infinite sensazioni rarefatte, cieche e mute, da cui il “noi” si protegge. La sua “eccellenza” – oggi non a caso una delle parole d’ordine di tutte le università del mondo e dei loro codici di comportamento etico e professionale – agisce dal di fuori, da estranea, assente, in sostanza disabile, rispetto al mondo. E questo è dunque nettamente, crudamente, ancora distante dal “noi” che ne ha usurpato ogni possibilità di rappresentazione. Dalla sua quasi perfetta sintesi tra conoscenza e possesso. Ad opera di questi soprusi, il “noi” raggiunge il proprio scopo: si dota di reciproca comprensione tra i suoi membri. È la comprensione realizzata dai canoni dell’istruzione e della formazione, che fanno del proprio linguaggio un vincolo etico e estetico. Familiare e civico. La coppia antagonista amico-nemico – coppia alla quale il pensiero politico moderno ha affidato i destini del mondo – resta così tutta dentro i limiti, ancora oggi sostanzialmente invalicabili, giorno per giorno imposti delle recite sapienziali così ben “forgiate” dall’Umanesimo. Dalla sua lunga sequenza aristocratica di forme di sovranità, prima celesti e poi terrene, che sono arrivane sino a ieri e ad oggi. Sino al bagno di sangue della democrazia, alla sua condizione utopica/distopica tra sovranità della politica e sovranità del “popolo”. . Delle pene e dei diritti. Tale tradizione lega me e te – i nostri “noi” amici e nemici – al possesso della medesima dote: quella del Libro, la parte che lega il tutto. Torniamo quindi all’inizio: la cosa da fare è andare contro il sistema di valori e pratiche incarnate in quella forma di vita sociale che ha avuto nel libro il suo dispositivo ideale – e a ragione di questo ritenere che solo le piattaforme di comunicazione digitali possano funzionare da antidoto, territori di contrasto, alle malie della modernità ultima. Grande letteratura, grandi narrazioni e grandi teorie, ma senza più altre vie d’uscita dalle loro fascinazioni. Questa linea di condotta va in direzione contraria a chi lancia anatemi all’indirizzo di barbarie umane che sarebbero frutto degli errori e colpe di una civiltà senza più educazione (trascinamento) verso le forme di conoscenza tramandate dai libri e dai modelli antropologico-culturali dei loro scrittori. Lo sforzo da compiere è però tutto da indirizzare verso la effettiva comprensione della specificità di questa sorta di svista – per più aspetti anche reciproca – tra i due divergenti mondi tecnologici che oggi abitano la terra (libro e algoritmo, se ancora mi consentite la sintesi terminologica di cui mi servo). Questa svista continua a accadere per tre ragioni. La prima consiste nel fatto che, spero si sia capito, il nodo di cui stiamo parlando in questo articolo non riguarda le funzioni che il libro e anche ogni altra sua traduzione digitale possano avere avuto ed essere destinate ad avere nel campo della ricerca tecno-scientifica e persino umanistica. La seconda ragione sta nel fatto che alla frequentazione dei territori analogici e a quella dei territori digitali non corrispondono esattamente le stesse vocazioni professionali. C’è chi frequenta la rete conservando la propria identità cartacea e chi frequenta la carta conservando la propria identità digitale. La terza ragione è a mio avviso più sostanziale. La sfera umana, quella sua assai estesa parte che la sfera sapienziale considera ignorante, viene presunta tale in quanto reputata arretrata rispetto alla sua presunzione alfabetica di credere d’essere una già compiuta espressione del mondo, costituirlo pienamente e costituirne il destino. Al contrario ci si può forzare a pensare che siano proprio le qualità analfabetiche imputate alle masse incolte, in-civili, ad essere immensamente più avanti nel senso di ancora, seppure virtualmente, aperte al futuro. Lo spazio umano, il suo abitare in natura, viveva già molto prima che il tempo della civilizzazione, il suo progredire, iniziasse a correre sempre più velocemente e, per così dire, a lasciarselo alle spalle. E dunque questo spazio in tutto umano – pur trascinato come tale da e in un futuro per sé monco e unilaterale – ha continuato a vivere sino ad oggi. Al mondo della carne – la vita organica più vicina alla vita della natura – il soggetto sapienziale ha imposto il suo tempo e i propri luoghi. Grazie alle tecnologie alfabetiche ha esercitato il proprio dominio, le sue teorie e pratiche di assoggettamento, collocandosi più avanti proprio in forza dei limiti – delle limitazioni – imposti dalla vita sapienziale a quella umana. Ora, alla vita umana, alle sue possibilità di espressione, i linguaggi non più analogici ma digitali offrono, data la natura virtuale delle loro piattaforme, la possibilità di collocarsi più avanti rispetto ai vincoli sapienziali sino qui sopportati come verità. Conclusione. L’unico modo per contravvenire allo schematismo e persino manicheismo di questa mia lettura – e così liberarsene in virtù di una semplice, banale, considerazione – sta nel riconoscere quanto, al di là della loro reciproca repulsione, la carne dei sapienti sia anche la carne degli ignoranti, seppure così violentemente divise dalla società. Quanto, dunque, la singola persona costituisca nel suo intimo la più profonda piattaforma espressiva di cui dispongono le sfere del sapere e quelle dell’ignoranza (così come sin qui ho cercato di declinarle): la vita che oggettivamente più le lega e le divide. Ripartire da questo ci porta a dovere riconoscere nella singola persona, dentro la sua coscienza infelice, il suo io diviso, il teatro di conflitti che la dividono tra due sue diverse, opposte, presenze, necessità: armate l’una contro l’altra. In attesa di una decisione. La posta di questo conflitto è il dolore della carne in sé e per sé. La sofferenza inferta e subita dovendo vivere socialmente.

"Vi dico cosa c'è dietro il "ciukinismo". Ma attenti a non gratificare il bullo". Il ciukinismo è una forma di cyberbullismo oggetto di un’inchiesta in corso. Ma i fenomeni social possono fare paura: “I giovani vendono il corpo in cam per 10 euro”. Elisabetta Esposito, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Un nuovo fenomeno del Web o la variante di una deriva già esistente? La procura dei minori di Lecce è al momento al lavoro su un’inchiesta che coinvolge adolescenti minorenni e altri appena maggiorenni. I media parlano di ciukinismo, ma non esiste un reato con questo nome: in una chat di Telegram denominata “Le Troiette di Instagram” sono apparse delle foto di giovanissime adolescenti ignare, con i loro dati sensibili e corredate di minacce e insulti. Il “capo” di questa chat aveva il nickname di Ciukino, da cui ciukinismo. “Gli adolescenti creano un mondo alternativo, ma non possiamo permettere una deriva violenta”, dice a IlGiornale.it Luigi De Gregorio, counselor, riabilitatore nelle dipendenze e conduttore di progetti contro bullismo e violenza di genere nelle scuole medie e medie superiori.

È corretto parlare di ciukinismo o si tratta di una forma di cyberbullismo?

"Quello cui i media hanno dato il nome di ciukinismo si iscrive nella cornice del cyberbullismo. Capisco la necessità mediatica di dare un nome alle cose, ma chiamarlo ciukinismo potrebbe risultare addirittura deleterio, perché il Ciukino potrebbe sentirsi gratificato da questo. Se parliamo di una personalità problematica è una considerazione da fare. All’origine di questi fenomeni ci sono molto spesso dei disturbi del comportamento, tuttavia ci potrebbe essere anche emulazione verso modelli di riferimento che vengono proposti dai media, non solo Internet ma anche ciò che passa in tv. E non dobbiamo sottovalutare la mancanza di comunicazione tra giovani e adulti".

Cosa scatta nella mente di un adolescente che commette questo tipo di atti?

"L’adolescente, che per definizione è oppositivo, vuole provare i propri limiti. Dal punto di vista psicologico, più si va in un mondo sommerso, meno ostacoli si trovano: in altre parole, nel mondo sommerso l'adolescente trova molta più coerenza con fantasie e manie, si trovano persone simili anche nei comportamenti devianti. In una società organizzata invece ci si deve contenere, ci si deve attenere alle regole. Inoltre una delle necessità dell’adolescente è quella di essere riconosciuto in quanto individuo, in quanto diverso. Noi adulti tendiamo a non considerare i giovani come individui: questo processo deve partire anche e soprattutto dai genitori".

Cos’è il mondo sommerso?

"È quello che non appartiene a noi adulti ma appartiene ai giovani. Noi ci muoviamo in un mondo riconoscibile, regolato da una serie di paradigmi e norme. Gli adolescenti hanno bisogno di spazio, creano un mondo alternativo e dobbiamo farcene una ragione: il mondo non è nostro, ma sarà uguale a quello che loro ritengono giusto. Per questo non possiamo permettere una deriva violenta, ma al tempo stesso non possiamo costringerli in un modo di vivere che è nostro e non loro. È una vecchia solfa, trita e ritrita: non significa che dobbiamo lasciare campo libero ai ragazzi, ma cercare di capirli, parlare il loro linguaggio. Per me il punto di partenza è sempre nella comunicazione".

Che distanza c'è oggi tra le generazioni?

"Si deve partire dall’idea che il mondo che conoscevamo è completamente cambiato con Internet, quello strumento al quale io adulto mi sono abituato, ma con il quale loro sono nati. Internet, i social network, le chat di incontri mi interessano da diversi punti di vista: ho analizzato, per esempio, le chat di incontri e ho notato che le persone non sanno più comunicare, corteggiare, sedurre. È come sfogliare dei cataloghi, l’intera umanità è diventata un catalogo: si cerca la pagina con più appeal e ci si butta dentro. C’è una distanza enorme tra giovani e adulti oggi, una distanza che possiamo colmare solo andando noi nel loro mondo, aprendoci alle proposte dei giovani, trovando una lingua comune. Inoltre gli adolescenti sono più forti, conoscono cose che noi non conosciamo. Noi adulti siamo cristallizzati in una forma che ci siamo dati, ma quando eravamo adolescenti ci sentivamo ugualmente lontani dai nostri genitori. Prima forse era più un discorso politico, come nel ’68-‘77, ora è maggiormente esistenziale. Possiamo provare ad arginare il danno nei ragazzi rinunciando alle nostre sicurezze, trovando un punto di incontro in modo che non vadano altrove a cercare delle proposte appetibili. Siamo noi che abbiamo la necessità di decostruirci. Ricordiamo sempre: i genitori non possono essere amici dei figli, perché altrimenti questi ultimi non li riconosceranno come guida. Si può essere però amicali, cioè comunicativi: c’è una grossa differenza. Smettiamo di guardare i giovani come vengono guardati da tutti, dimentichiamo il problema, altrimenti il rischio è di creare un’identità tra il giovane e la sua devianza".

Può capitare che dei maggiorenni sfruttino la situazione per ingrossare le fila della pornografia minorile?

"Assolutamente sì. Io credo che come in tutti gli ambienti ci siano i lupi. Il ragazzino potrebbe non sapere cosa può succedere in seguito a tali comportamenti, è affascinato da determinati atteggiamenti. Le spacconerie in chat, ad esempio, sono tutte parole del cyberbullo che, non avendo un mondo adulto sano di riferimento, trova sponda in qualcuno che alimenta il fenomeno gratificandolo. Una delle altre derive di questa gratificazione porta alcuni giovani a vendere il proprio corpo in cam per 10 euro: è lì che si può insinuarsi il pedofilo o il pornografo minorile".

Cosa si può fare per tutelare i minori vicini a ognuno, come figli, nipoti?

"È l’argomento più complicato. Dobbiamo ascoltarli, accompagnarli e avere un atteggiamento pedagogico. Purtroppo oggi la pedagogia è diventata in molti casi un modo per indicare, ma invece si deve accompagnare la persona verso se stessa. Smettiamo di pensare che gli adolescenti debbano diventare ciò che noi ci aspettiamo che diventino. Devono sentirsi liberi: possiamo lasciare una traccia, ma il sentiero di nostro figlio sarà il suo. E dobbiamo anche smettere di piazzarli di fronte alle piattaforme digitali fin da bambini. Inoltre la mia idea è che non si debba evitare la conflittualità. Ma la conflittualità deve essere sana, per costruire insieme confrontandosi. La conflittualità non deve essere mirata allo scontro fine a sé, alla prevaricazione. È necessario recuperare il rapporto con i bambini ripescando dentro noi stessi il bambino che siamo stati, utilizzandolo come interprete".

In alcuni Paesi, dopo questi reati, è prevista una riabilitazione tramite volontariato.

"Indirizzare i giovani al volontariato può funzionare sicuramente meglio di una punizione. Ma si deve portare il giovane a fare un percorso in cui vengono annullate le distanze: l’ideale sarebbe portare il cyberbullo a toccare con mano le conseguenze dei suoi gesti. Perché alcune vittime del cyberbullismo hanno sviluppato problematiche psichiatriche. Si può inoltre lavorare sulle emozioni: il dolore è dolore per tutti, non importa da dove arrivi, così come la gioia, l’amore, la paura. Sul piano razionale possiamo non incontrarci nell’immediato, ma un percorso correttivo in cui si va a toccare con mano il dolore costato agli altri può funzionare. Occorrono sanzioni educative, non punitive, oltretutto Basaglia si rivolterebbe nella tomba".

DAGONEWS il 4 febbraio 2021. Il richiamo dei soldi  ha trasformato il lavoro di influencer in una delle scelte di carriera più ambiziose per i giovani di tutto il mondo. Gli influencer, che su Instagram hanno oltre un milione di follower, possono guadagnare più di 250.000 dollari per un post e c’è chi, come Kylie Jenner, se ne mette in tasca un milione per sponsorizzare un prodotto con il suo viso rifatto su Instagram. Ma cosa c’è dietro questo mondo patinato?  Lo svela il nuovo documentario di HBO "Fake Famous" che mostra quanto sia facile ingannare i social media. Lo ha fatto il regista Nick Bilton che ha preso persone a caso trasformandole in influencer famosi con poche semplici mosse (e l’esperimento ha funzionato).

Acquisto di follower. «Non devi andare sul dark web, vai semplicemente su Internet e puoi comprare praticamente tutto quello che vuoi» dice Bilton mentre tira fuori una carta di credito per comprare migliaia di falsi follower. Collegandosi al sito Famoid.com (che è uno dei tanti siti che vendono a frotte falsi follower sui social media), Bilton ha pagato circa 119,60 dollari per acquistare circa 7.500 follower e 2.500 Mi piace per una delle cavie, Dominique Druckman. I follower acquistati da Bilton arrivano in pochi giorni: non c’è una singola iniezione di profili falsi per evitare di essere pizzicati dalla piattaforma. Bilton ha continuato ad acquistare bot e like per Druckman e per altri due aspiranti influencer: la studentessa Wiley Heiner e il designer Chris Bailey, fino a raggiungere i 250.000 follower.

Fingere uno stile di vita favoloso. Per far crescere i seguaci dei falsi influencer e attirare offerte da marchi per contenuti sponsorizzati, Bilton ha realizzato degli shooting in posti apparentemente lussuosi. Si può affittare una villa o un finto jet a 50 dollari l’ora scattare le foto e caricarle. Trucchetti facili usati da tanti follower che creano una finta vita lussuosa per attirare marchi e follower. Nel 2020, l'influencer Natalia Taylor, che ha 2,2 milioni di follower su YouTube, ha pubblicato una serie di foto su Instagram che sembravano mostrare una vacanza di lusso in un resort a Bali, in Indonesia. Ma, come ha spiegato in seguito, le foto sono state scattate non lontana da casa sua. Una piccola bugia, nel suo caso, per dimostrare quanto fosse facile mentire e fingere di essere quello che non si è. Una volta entrati nel giro marchi e soldi piovono dall'alto da soli: così è capitato a queste tre cavie di Bilton che si sono ritrovati ad avere occhiali da sole, gioielli e abbonamenti in palestra gratuiti solo in cambio di post su Instagram.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 5 febbraio 2021. Oh no, un nuovo social network. Proprio quando sembrava sconfitta l' ansia di sentirsi tagliati fuori dalle feste a cui tutti vanno, non essendoci più feste, ecco una nuova «festa», seppur digitale, per cui da una settimana tutti sembrano smaniare. Si chiama Clubhouse: cresce di mezzo milione di utenti al giorno. È un social accessibile a inviti e basato sulla sola voce: anziché con foto o interventi scritti si partecipa aprendo una conversazione, chiamata metaforicamente room , stanza, e si sceglie se gli altri possono intervenire, dando loro la parola (sistema che impedisce i litigi) o solo ascoltare voci o musica che trasmettiamo in diretta. Chi vuole ascoltare può entrare nelle «stanze» che l' app gli propone, secondo gli interessi che ha specificato: c' è di tutto, da «Politica estera» a «Identità», e un generico «Arts» che accorpa libri, moda e pure cucina. A differenza delle recenti novità social, come TikTok dove spopolano video ballerini con cui è difficile tenere il passo se si è sopra i 30, Clubhouse è alla portata di chi è sì tentato dall' esistenza di un nuovo modo di comunicare - l' app è nata ad aprile scorso, per chi nella solitudine da lockdown bramava di conversare per davvero, e non a mezzo fumettini, con chicchessia - ma è già esausto alla sola idea di impararne le regole. Come su Facebook all' inizio, si accede solo su invito. Ma trovarne uno pagando non è difficile (sulla piattaforma Unloved.com , ad esempio, costa 45 euro) e gli sviluppatori stanno moltiplicando gli inviti a disposizione. Per ora si usa solo da Apple, ma è iniziato lo sviluppo dell' app anche per Android. Una festa esclusiva: ma non inespugnabile. «Clubhouse è nuova, ma gli indicatori del successo ci sono», spiega l'imprenditore Marco Montemagno, tra i primi italiani ad aprirsi un profilo sull' app e «il più seguito, con 19.800 follower». Il capitale raccolto dalla società, che ha ad oggi un valore stimato di un miliardo di dollari e in cui ha investito il gigante del venture capital Andreessen Horowitz. «In Italia sta decollando: per ora la usano celebrity e comunicatori», prosegue Montemagno. Ma nel mondo gli utenti sono 6 milioni. Presto, comunicano i fondatori, si troverà un modo di monetizzare l' app, con biglietti d' ingresso alle «stanze». E che Twitter abbia lanciato Spaces, funzione simile, sembra una consacrazione. Già assiduo, oltre a rapper come Azealia Banks e che tengono su Clubhouse veri e propri concerti, è il miliardario Elon Musk, che quasi ogni sera alle 22 californiane declama il suo pensiero su trapianti di cervello, vita su Marte, hedge funds (e la sua intervista a uno dei protagonisti del terremoto azionario di GameStop ha fuso i server). In Italia la usano Fiorello, J. Ax, Levante, molti giornalisti. Molti sacerdoti, invitati dal prete-Youtuber don Alberto Ravagnani che raccoglie parecchio seguito in room mattutine dedicate al Vangelo del giorno. Molti improvvisati politologi, e ha aiutato che il boom italiano di Clubhouse avvenisse nei giorni della crisi di governo: ma le conversazioni hanno un tono confessionale, e così può capitare di essere invitati da uno sconosciuto a un dibattito intitolato «Draghi sarà il nuovo Monti?» il cui sottotitolo è «sono da solo in macchina, chi mi fa compagnia?». Ecco a cosa somiglia, ad un tratto, la nuova app: al vecchio baracchino dei radioamatori. Chi se lo ricordava?

Clubhouse: come funziona il social di cui tutti parlano. Clubhouse è una piattaforma che si basa esclusivamente sulle interazioni vocali: stanze in cui discutere liberamente di ogni tema, nessun archivio di post o contenuti. Mario Costa, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale.  Clubhouse non è un social network come tutti gli altri, a dire il vero non è nemmeno un social network vero e proprio, almeno non come i vari Facebook, Instagram, Twitter e TikTok che tutti conosciamo bene. La migliore descrizione per rappresentarlo è quella di una piattaforma che basa ogni interazione esclusivamente sulla voce con stanze (Room) all'interno delle quali discutere liberamente delle tematiche più svariate, con una netta divisione tra chi modera e chi ascolta: i primi hanno diritto di intervento, gli altri possono dire la loro "alzando la mano" e attendendo che venga concessa parola, un po' come accade nelle riunioni di Teams, Meet o Zoom. Niente testi, niente foto, niente video. È proprio questo che rende Clubhouse differente e da un certo punto di vista meno complesso in termini di tutela della privacy. Di fatto non viene creato alcun archivio di post e contenuti connessi all'account, risolvendo ogni problema a monte. La comunicazione è cifrata, ma al momento non è chiaro con quale metodo. Lanciato nella primavera scorsa durante i primi mesi della pandemia da Paul Davison e Rohan Seth, ex dipendenti di Pinterest e di Google, è oggi disponibile esclusivamente per il download sotto forma di applicazione iOS. La controparte per Android è in fase di sviluppo, ma non è dato a sapere entro quando verrà pubblicata. Scaricare l'app e installarla sul proprio iPhone però non è sufficiente. Per accedere a Clubhouse è necessario un invito da chi già fa parte della community. Insomma, un sistema in un primo momento chiuso. Anche questo contribuisce ad accrescere l'interesse verso la piattaforma. Tra gli altri requisiti l'aver compiuto 18 anni. Una volta registrati viene chiesto di indicare alcuni interessi personali così da ottenere suggerimenti mirati sulle Room da frequentare. Ci sono poi i Club, gruppi di persone che si incontrano per confrontarsi su un determinato argomento. L'idea intriga ed è già arrivato un primo finanziamento da 100 milioni di dollari. Nel momento in cui i social "tradizionali" affrontano una fase di stallo, in primis per via delle pressioni esercitate dalle autorità sul fronte privacy, un progetto simile può trovare terreno fertile per prosperare. Ne sentiremo ancora parlare.

Il nuovo sfidante di Facebook e Instagram. Cos’è Clubhouse, il social network esclusivo (per ora) basato su audio e podcast. Carmine Di Niro su Il Riformista l'1 Febbraio 2021. TikTok? Parler? Già ‘fuori moda’. Nella continua ricerca del social network del momento, quello che fa “più figo”, è già il turno di una ulteriore novità. Nel 2021 il compito di sfidare i giganti come Facebook, Instagram e Twitter potrebbe essere di Clubhouse, servizio nato nell’aprile 2020 e partorito dalle menti di Paul Davison e Rohan Seth, rispettivamente imprenditore e ingegnere (ed ex dipendenti di Pinterest e di Google), che in questi giorni è salito alla ribalta grazie ai finanziamenti ricevuti da importanti fondi finanziari americani. Ma in cosa consiste Clubhouse? A differenza di Facebook, Instagram o TikTok, il nuovo social punta tutto sull’audio, o meglio sulle conversazioni tra gli iscritti. Di fatto Clubhouse è un social a metà tra un podcast e una chat vocale. Al momento la possibilità di accedere a Clubhouse è piuttosto limitata: l’ingresso è infatti limitato solamente tramite inviti e richiede la registrazione con il proprio numero di cellulare. Senza invito si può comunque scaricare l’app e mettersi in lista d’attesa, aspettando che un amico già collegato possa poi invitarti ufficialmente. Inoltre l’app è disponibile solo su iPhone, per gli smartphone Android è ancora in fase di sviluppo. Al suo interno l’app è basata su un principio, quello delle Room, e si divide in tre livelli: Open, Social e Closed. Le Room sono stanze virtuali dove avvengono le discussioni, rigorosamente vocali. Tutti possono aprirne una, diventandone amministratore, ed è possibile farlo nei tre livelli di cui sopra. Il primo, quello Open, prevede che la stanza si aperta a chiunque stia navigando nell’app; una stanza Social sarà visibile invece solo agli utenti interconessi, come il sistema di amicizie su Facebook; la stanza Closed infine è una stanza chiusa in cui potrà accedere solo l’utente invitato dall’amministratore. Non mancano le critiche al nuovo social network. La problematica che ha fatto emergere Blooomberg è relativa a quella dei temi sensibili che possono essere discussi nelle varie Room: omofobia, antisemitismo, razzismo, bullismo. Chi controllerà le chat? Per ora l’azienda ha spiegato che i controlli ci sono, non aggiungendo particolari dettagli. Quanto alla questione privacy, al momento non esiste alcuna possibilità di scaricare o condividere esternamente gli audio presenti in chat.

Carlo Nordio per “Il Messaggero” l'1 febbraio 2021. Tra pochi giorni due miliardi di persone potranno celebrare - se ne avranno voglia - la nascita di un loro vincolo comune. Il 4 Febbraio 2004, infatti, fu creata Facebook, la rete alla quale accede regolarmente più di un quarto dell'intera umanità. L'impresa nacque da un'iniziativa del ventenne Mark Zuckerberg e di Eduardo Saverin che investirono mille dollari per creare una sorta di almanacco tra gli studenti di Harvard e facilitarne la cosiddetta socializzazione. Album analoghi esistevano già in forma cartacea un po' dappertutto, dalle scuole alle accademie militari. La rivoluzionaria novità, fornita dalla tecnologia, consisteva nel trasformare un'immagine fissa e muta in una persona viva e dinamica, con la quale condividere il volto e il pensiero.

IL SUCCESSO. Fu un successo immediato: nell'arco di un mese si erano iscritti metà degli studenti di Harvard. Nelle settimane successive le adesioni fioccarono dalle più importanti università americane, da Yale alla Columbia al MIT. In principio i fondatori ebbero delle grane legali, per presunta violazione dei diritti d'autore e della privacy: alcune le superarono con correzioni opportune, altre con composizioni amichevoli. Nel corso degli anni queste cause si moltiplicarono, e Zuckerberg fu anche accusato di evasione fiscale, un illecito che negli USA è paragonabile all'omicidio. Ma alla fine l'abile inventore ha risolto le controversie con pubbliche scuse, adeguati risarcimenti e transazioni giudiziarie, senza rallentare lo sviluppo della sua creatura. Nel settembre del 2006 furono fissate le condizioni per l'iscrizione: l'età superiore ai 13 anni, e un valido indirizzo email. Nonostante questi requisiti siano stati ritenuti inadeguati, e in parte riveduti, oggi Facebook, pur insidiata da un'agguerrita concorrenza, è per molti un accessorio indispensabile, vale miliardi di dollari e Zuckerberg è diventato uno degli uomini più ricchi e influenti del mondo. Descrivere il funzionamento di questa rete non è solo impossibile per ragioni di spazio, ma anche inutile, perché chi vi accede ne sa già abbastanza, e probabilmente più di chi scrive. Qui piuttosto parliamo dei vantaggi che reca e dei problemi che pone. I vantaggi sono evidenti. Ha consentito il ritrovamento di amici dimenticati, ha allargato gli orizzonti della curiosità e della fantasia, ha stimolato la discussione e gli scambi di idee, e ha colmato i momenti di solitudine del monotono quotidiano. Non sappiamo se all'origine di questo successo vi sia la nostra innata vanità, la pulsione ad esprimersi sui fatti propri o la curiosità morbosa di conoscere quelli altrui, o tutte queste cose insieme. L'uomo è, come è noto, un animale sociale, e ogni forma di estensione dei rapporti interpersonali deve, in linea di massima, considerarsi benvenuta. Sta di fatto che, nell'arco di pochi anni, Facebook e i suoi imitatori hanno sostituito gran parte dei sistemi di comunicazione, ieri limitati dallo spazio e dal tempo, e oggi dalla pandemia. Così il sito, utilizzato in origine da giovani esuberanti e inventivi, è diventato un pulpito di iniziative politiche, di esortazioni omiletiche, di promozioni economiche, di suggerimenti finanziari, di divertenti videogiochi, di contrasti polemici e di scambi sentimentali. Ha sostituito gli augusti scranni dei parlamenti, dei governi e persino della Chiesa, per inviare messaggi ridotti nel contenuto ma incisivi nella rapidità. E qui emergono i pericoli.

IL NULLA. L'argomentazione ragionata, la vigilanza accorta, e la stessa proprietà lessicale sono infatti state sostituite, anche negli interventi più autorevoli, da grossolane banalità. Così l'immaginazione vagabonda si è spesso espressa in asserzioni categoriche e unilaterali, svincolate da ogni controllo critico. Soprattutto nei messaggi dei politici si è avuta l'impressione che gran parte degli intervenuti non sapessero dove stavano andando, ma che ci andassero convinti. Alla mutilazione del dibattito corrisponde spesso un'infinità di nulla, e il pensiero assente è surrogato da un vocabolario a prestito. Il dubbio, faro del saggio, è stato spento dalla irruenza polemica di interlocutori lontani e spesso tra loro sconosciuti. L'elefantiasi della partecipazione ha prodotto altri inconvenienti deplorevoli. I furti di identità hanno creato equivoci compromettendo rapporti economici e familiari; le fake news hanno allarmato istituzioni e mercati; le fraudolente iniziative di imbonitori spregiudicati hanno generato incertezza nei contratti; in alcuni casi si è arrivati all'incitazione all'odio razziale e all'apologia degli stermini di massa. I responsabili delle reti hanno talvolta oscurato alcuni siti, e tolto la parola a personaggi autorevoli. Il recente blocco di quello del presidente Trump ha innescato la polemica sulla libertà di espressione, e sul diritto delle imprese private che ormai operano in monopolio, di decidere arbitrariamente chi far parlare e chi no.

IL CONTROLLO SUI PIÙ PICCOLI. Infine, e questo è l'aspetto più allarmante, è evaporato ogni controllo sulla integrità psichica dei minori, e più in generale dei soggetti deboli. Nei casi più gravi, l'incoraggiamento di attività emulative eccentriche, di giochi di ruolo e persino di torbide ritualità hanno determinato conseguenze disastrose nella maturazione intellettuale dei ragazzi, e talvolta la compromissione della loro salute e della loro vita. Nei giorni scorsi la morte di una fanciulla nell'esercizio di questi esperimenti ha riproposto la necessità di un limite agli accessi e di una più rigida regolamentazione dei contenuti. Non è, ovviamente, colpa di Facebook e dei suoi imitatori, dipende dall'uso che se ne fa. La pietra è magica nelle mani di Michelangelo ma fatale in quelle di Caino, e altrettanto va detto di questi siti: possono costituire indispensabili forme di comunicazione o degenerare in trappole insidiose. I gestori, e i governi, hanno tentato con più o meno successo di correggere queste anomalie e di limitarne i danni, ma questi accorgimenti, come gli antifurto, funzionano solo per un po', e in pochi mesi la fantasia e l'abilità dei ladri, in questo caso degli hacker, riprende il sopravvento. La guerra continua. Tutto sommato, i vantaggi superano gli inconvenienti. La circolazione delle idee, anche delle più stravaganti e bizzarre, è comunque uno stimolo alla vivacità dell'intelletto. Le nostre uniche riserve riguardano, come abbiamo detto, l'intervento dei politici, perché la mutilazione del dibattito appiattisce i giudizi su formule irritanti e preconfezionate. Ma forse questo guaio è compensato dalla possibilità di accesso anche a chi non dispone di altre tribune, e questa molteplicità di intromissioni ci consente di confermare il detto del filosofo, che la stupidità politica è altamente imparziale.

La "felicità" di una madre per la figlia di 9 anni aspirante stella di TikTok. Mamma manager e migliaia di follower grazie a video con brani e moine osé da diva. Redazione, Domenica 24/01/2021 su Il Giornale. «Benny G», 9 anni, minigonna, «sensualissima», non è l'unico caso. Le baby cantanti-ballerine (ma ci sono pure i maschietti) che scimmiottano atteggiamenti da «grandi» abbondano sui social. E non da oggi. Purtroppo l'asticella del buon gusto è in continua discesa, tanto da vedere bambine con i denti da latte vestirsi e muoversi in maniera imbarazzante. Eppure i loro video piacciono esageratamente, tanto da raccogliere i consensi di migliaia di follower. Tutti pazzi per dieci, cento, mille bimbe che sculettano, truccate pesantemente e che interpretano canzoni d'amore dove i richiami al sesso sono più che espliciti. Siamo sul crinale della pedofilia o è solo tutto un «grande gioco»? I genitori (soprattutto la mamma) di «Benny G» -la neomelodica più famosa e cliccata d'Italia- non hanno dubbi: la situazione è «sotto controllo», la bambina «si diverte» e tutti sono «felici e contenti». Quali nefaste conseguenze possano avere su «Benny G» (e tutti i piccoli web-fenomeni come lei) i video a getto continuo autoprodotti per TikTok e gli altri profili social non è un problema che assilla i genitori. Anzi, sono proprio loro i principali manager dei bimbi-prodigio: li ispirano, li incoraggiano, li spronano. Tutto meno che proteggerli da un'esposizione digitale che - sul punto concordano tutti gli esperti - produrrà «effetti psicologici devastanti». «Il modello di successo dell'influencer e l'adrenalina di sentirsi potenzialmente gratificati in tempo reale dai mi piace per qualsiasi esibizione social, stanno facendo danni enormi - spiega un report degli psicoterapeuti dell'età infantile -. Un circolo vizioso del quale spesso fanno parte integrante anche i genitori, cioè proprio quei soggetti che dovrebbero proteggere i bambini». Risultato: l'esercito dei «Benny G» cresce e, per ora, si gode gli applausi dei tiktoker. Ma le piccole star diventeranno grandi depressi? E le mamme che oggi, invece di tutelare le figlie dalla platea informe del web, godono dei loro successi virtuali? Fa impressione sapere che molte delle starlette-bonsai che si esibiscono in rete hanno più o meno la stessa età della povera Antonella, morta a 10 anni nel bagno di casa a Palermo risucchiata dal gorgo di una «sfida estrema». Anche Antonella inviava su TikTok video in cui ballava e cantava, ma era roba innocente, priva di «velleità artistiche» e comunque non certo invogliata da una madre e un padre esibizionisti. Al contrario, i genitori di Antonella con la decisioni di donare gli organi della figlia hanno dimostrato tutta la loro umanità. Il seguito di faccine entusiaste che accompagna le performance di «Benny G» è invece la spia di un fenomeno di segno opposto. Quello cioè di una realtà genitoriale che non solo non si accorge dei pericoli di internet, ma addirittura li sfida offrendo immagini «provocatorie» dei propri bambini in pasto allo stesso Moloch che ha divorato l'innocenza di Antonella.

(9Colonne il 27 gennaio 2021) - La Polizia Postale di Firenze, coordinata dalla Procura, ha denunciato una influencer siracusana per istigazione al suicidio dopo che gli agenti hanno individuato sul social network "Tik Tok" un suo video ritraente una "sfida" tra la donna ed un uomo, in cui entrambi si avvolgevano totalmente il volto, compresi narici e bocca, con il nastro adesivo trasparente, in modo tale da non poter respirare. Il video, visibile a tutti senza restrizioni, è stato segnalato e rimosso potendo costituire oggetto di emulazione da parte di minorenni, come accaduto nei recenti fatti di cronaca con sfide analoghe. Gli inquirenti hanno poi accertato che nel tempo la 48enne influencer aveva pubblicato anche altri numerosi video-sfide dello stesso tenore, che le hanno permesso di ottenere popolarità e l'attenzione di ben 731mila followers di diverse età. La visione dei video e la loro condivisione è stata considerata estremamente pericolosa per l'incolumità degli utenti, soprattutto minorenni, che potrebbero accettare "la sfida" emulando l'influencer, come testimoniato da un post in cui si legge: "Ciao ….. se mi saluti giuro mi lancio dalla finestra". Da qui la decisione di emettere un provvedimento urgente di perquisizione, anche informatica, e sequestro degli account social, eseguito dalla Polizia Postale di Catania.  (LaPresse) - Il video, estremamente pericoloso in quanto visibile a tutti gli utenti senza restrizioni, potendo costituire oggetto di emulazione da parte di minorenni, come purtroppo già accaduto nei recenti fatti di cronaca con sfide analoghe, è stato immediatamente segnalato dal Cncpo del Servizio polizia postale di Roma e rimosso dalla piattaforma Tik Tok. Nell’ambito della stessa attività di monitoraggio veniva accertato che nel tempo l’influencer aveva pubblicato anche altri numerosi 'video sfide' dello stesso tenore, che le hanno permesso di ottenere popolarità e l’attenzione di ben 731.000 followers di diverse età. La visione dei suddetti video e la loro condivisione è stata considerata estremamente pericolosa per l’incolumità degli utenti, soprattutto minorenni, che potrebbero accettare “la sfida” emulando l’'influencer', come testimoniato da un post in cui un utente scriveva: “Ciao, se mi saluti giuro mi lancio dalla fienstra”. Da qui la decisione dei magistrati titolari delle indagini di emettere a suo carico un provvedimento urgente di perquisizione, anche informatica, e sequestro degli account social, che veniva immediatamente eseguito dalla polizia postale di Catania.

TikTok è solo il grilletto, il dito che lo preme siamo noi. Giampiero Casoni su Notizie.it il 25/01/2021. Se non impariamo a discernere fra la pistola che può sparare in ipotesi e il dito che la fa sparare con certezza, quel dito ce lo ritroveremo sempre macchiato. Un martello pianta chiodi. Non è stato fatto per sfondare crani e uccidere, però può farlo. Così come un’auto: conduce gente a fare cose, non certo verso la morte, ma può farsi bara di lamiera. Con i social questa regola tanto banale e babbiona si è invece fatta un po’ più evanescente, nel senso che nella cultura di massa essi paiono essere strumento diabolico per insita natura, non per aberrazione di utilizzo. Roba manichea, roba a prescindere, roba di comodo, a voler essere un filino cinici. È il banalume che avanza e che per paradosso amarissimo contrafforta se stesso proprio nell’ambito che vorrebbe censurare. Cioè sui social, dove l’intestino crasso del paese si fa modello di didattica avanzata e di etica solenne e cazzia il posto stesso da cui parte il cazziatone. E non bisogna neanche pensarci troppo bene per capire che loro, i social, sono come tutte le altre cose dell’universo: di genesi innocua e di utilizzo a volte letale, come una caramella dolcissima che puo’ strozzarti.

Perché anche essi esistono nella misura in cui dovrebbero esistere regole che ne normino l’uso. Ed è qui che il nervo scoperto affiora come un boa infernale. Perché quelle regole sono si appannaggio diretto di chi i social li crea, ma lo sono anche e sopratutto di chi i social li usa e di chi controlla chi e come li usi. Non ce n’è: il web è zona franca da leggi perché immensa negli ambiti e perché la giurisprudenza tematica non deve mai essere succedaneo del buon senso, al più una sua estensione più rigida. Non giriamoci più intorno e usciamo dalla fanghiglia delle enunciazioni di maniera, questa non è materia da preamboli pelosi: permettere che i nostri figli bazzichino con i sessappigli sornioni del web fin dall’età in cui dovrebbero incerottarsi le ginocchia è da pazzi. E troppo spesso è una follia che non è figlia dell’ignoranza sul tema, ma madre della pigrizia beota che spinge ad ignorare quel tema. Perché siamo diventati genitori stanchi e abulici, abbiamo scoperto le infinite possibilità offerte dal lasciare i nostri figli inebetiti davanti a quegli schermi. Perché i nostri sogni geriatrici di giovinezza perduta ma resuscitabile sono spalmati languidi e scemi sul tempo che ci mettiamo a decidere che “in fondo non c’è nulla di male”. E ci ritroviamo, drogati di un dinamismo sociale estremo che non ci dovrebbe appartenere più, con i nostri bambini gettati in pasto a mondi oscuri. Pargoli inermi davanti alla Bocca Ringhiante mentre noi ci godiamo la partita, o lo shopping on line, o la schiacciatina sindacale con il coniuge. E giusto mentre facciamo della nostra età perduta un Lazzaro sornione diventiamo ciechi. E non vediamo che la nostra carne va in olocausto a posti dove si fa a gara per soffocarsi e dove l’ossessione di apparire è peso troppo grande per le piccole spalle che se lo prendono in carico. Non spetta a noi stabilire se questo sia stato il caso della povera Antonella, non tocca a noi aggiungere dolore grande a dolore immenso. Però il dato resta: e il dato è che se non impariamo subito a discernere fra la pistola che può sparare in ipotesi e il dito che la fa sparare con certezza quel dito ce lo ritroveremo sempre macchiato. Macchiato del sangue di chi abbiamo messo al mondo, di chi poi per quel mondo abbiamo sperso rincorrendo il sogno cretino di una genitorialità comoda. E sarà troppo tardi per capire che in questo, di mondo, essere Peter Pan significa essere uguali a Capitan Uncino.

Niccolò Zancan per “La Stampa” il 25 gennaio 2021. Il primo video è quello di un ragazzo che inquadra un pacco: «Che bello, porco cane, oggi ho comprato finalmente anche io il nuovo iPhone12». Il pacco gli cade dalla scale, lui si affanna inutilmente: «1200 euro andati, fanculo!». A quel punto, si accorge - fa finta di accorgersi - di avere il telefono in mano: lo stava usando per fare il video sul suo telefono nuovo. Cambio pagina: una bellissima ragazza di nome Valentina, di schiena, in costume intero, cammina e si tuffa dentro una piscina a sfioro sul mare. Nel terzo video c'è Fedez che si rivolge a suo figlio chiamandolo «Royal Baby», nel quarto Michelle Hunziker balla «Gerusalema» con un barboncino ritto sulle zampe posteriori. Poi c'è una ragazza che parla con cadenza siciliana: «È come dice Pablo Escobar, con i piccioli non accatti le femmine, accatti buttane». Per lei 113,600 like. Metti un marziano su TikTok. Entri in un minuto. Bastano nome, cognome, un numero di telefono e una data di nascita che nessuno verificherà. La prima impressione è questa: un po' «Corrida», un po' «La sai l'ultima?», un po' debuttanti allo sbaraglio. Un gigantesco frullatore di camerette, facce, corpi, battute, tentativi, scherzi, azzardi, balletti e musiche da tutte le parti del mondo. Quando diventi il più visto, uno dei più visti, incominci a guadagnarci. La bravura consiste proprio in questo. È quantificata accanto al nome di ogni profilo. Ecco il numero di volte che ti hanno guardato, ecco quanto sei piaciuto. Per esempio: Giada Candies, che pubblica sketch comici su tematiche femminili («Che poi nella mia famiglia ce l'hanno tutti le tette, tutti. Mia madre, mia sorella, mio cugina, pure mio zio ce l'ha, solo io sono così»), beh, dicevamo, Giada Candies ha 146.400 seguaci e 4 milioni e mezzo di like. Che sono tanti. Ma pochissimi, se rapportati a una vera star di TikTok: 106,6 milioni di seguaci e 8,5 miliardi di apprezzamenti pubblici. Lei si chiama Charlie D'Amelio, è una ragazza americana di Norwalk, Connecticut, nata il primo maggio 2004, che balla con naturalezza, canta su delle basi, si trucca e si disseta con dei beveroni. Perché proprio lei e non un'altra? Questo nessuno lo sa. Dopo cinque minuti che sei su TikTok, l'algoritmo inizia a tenere conto dei tuoi movimenti. Insomma: cosa stai cercando? Quali sono i tuoi gusti? Cosa vuoi vedere? Una dieta a base di verdure? Oppure un ballerino di nome Chase Hudson, forse fidanzato proprio con Charlie D'Amelio? Stai in Italia o vai in Spagna? Quanto resti collegato? Che parola scrivi nella barra delle ricerche? Salti mortali o vodka? Finisci nei gruppi con tematiche «gay» o in quelli con tematiche «pasta», vai sul lato degli stripper o su quello del fitness. In base ai tuoi movimenti, TikTok ti farà trovare altri video simili a quelli che stai cercando. (Cameriere? «Il solito»). Ma, soprattutto, questa è la grande promessa, si incaricherà di far vedere i tuoi video girati nella stanzetta a quante più persone possibili nel mondo, seguendo la logica imperscrutabile dell'algoritmo. Magari ti seguono 3 compagni di classe e il tuo video finisce in 3 milioni di telefoni. Dentro un simile caleidoscopio ognuno può lanciare una challenge, cioè una sfida. Cimentati anche tu. Canta due strofe di una canzone di Sia senza respirare. Appenditi a un cancello. Scendi con il sedere dalla ringhiera. Mostra quello che mangi durante la giornata. Mostra l'acne. Inventa la tua maschera di bellezza. Balla sulle braccia. La sfida è aperta: chiunque può provare a fare il video di maggior successo. In questo momento la «standupchallange», per fare un esempio, ha raggiunto 606,7 milioni di visualizzazioni. Consiste in questo: una persona è stesa a terra, l'altra gli sale sulla schiena. A tempo di musica, e ballando, quella a terra deve riuscire ad alzarsi in piedi e quella che gli stava sulla schiena dovrà arrivare a stare in verticale, in cima, sulle sue spalle. Roba da acrobati. È partecipando a una sfida di questo genere, forse, che una bambina di 10 anni di Palermo è morta soffocata, dopo essersi legata al collo la cinta dell'accappatoio. Perché il video ti dirà quanto «vali». «Tu faresti usare TikTok a tua figlia?», domanda il marziano a una ragazza che ha compiuto 18 anni. «No», risponde la ragazza. «Non liberamente, non a qualsiasi età». Ma perché? «Perché ti muovi, da piccolo, in un contesto pieno di grandi. Ti possono bullizzare. Ti possono demolire. Puoi finire a leggere frasi fasciste senza nemmeno capire che lo sono. Ti possono convincere a fare una dieta assurda, che ti farà diventare anoressica». Su TikTok ci sono giornalisti che cercano di parlare ai giovani, ci sono politici che inseguono gli elettori di domani, ci sono cantanti. C'è solitudine e c'è amicizia. Genio e volgarità. 130 mila like per questi versi cantati a filastrocca: «Ci sono 2 gradi e vai in giro in reggiseno/ Lì sotto credo che ci passi pure un treno/ Una Ferrari forse ciuccia pure meno/ Da bambina eri felice se arrivava l'uomo nero». Come è TikTok? Come il mondo.

·        L’ossessione del complotto.

Un filo rosso da Mattei alle trame anti italiane. Francesco Forte il 10 Novembre 2021 su Il Giornale. C'è un filo rosso che collega il quesito posto nel Giornale di ieri, su chi ha interesse a screditare il ruolo politico internazionale che l'Eni svolge con la sua politica petrolifera. C'è un filo rosso che collega il quesito posto nel Giornale di ieri, su chi ha interesse a screditare il ruolo politico internazionale che l'Eni svolge con la sua politica petrolifera e la probabile archiviazione del processo all'amministratore delegato dell'Eni Claudio Descalzi e del predecessore Paolo Scaroni, per la presunta maxi tangente, pagata per la concessione petrolifera in Nigeria, la cui prova via Whatsapp che starebbe in un colloquio di Descalzi con il teste chiave l'avvocato Piero Amara, risulta inventata. Il filo rosso è quello del sangue di Enrico Mattei. Esso ci porta alla inaugurazione da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella domenica scorsa di un giardino pubblico della Municipalità di Algeri intitolato a Enrico Mattei. Nella la targa in arabo e in italiano si legge «Personalità italiana, amico della rivoluzione algerina, difensore tenace e convinto della libertà e valori democratici». Il filo rosso è quello del sangue di Enrico Mattei, che morì il 27 ottobre 1962 nella esplosione sopra la campagna di Bascapè in provincia di Pavia, del bi-reattore su cui il presidente dell'Eni Mattei, si trovata solo con un giornalista americano mentre il suo pilota di fiducia Bertuzzi, esperto, pluridecorato, iniziava il volo verso l'aeroporto privato Eni di San Donato Milanese. L'aereo era stato sabotato. A Bascapè in quel luogo c'è un giardino del ricordo, di Enrico Mattei disegnato da un celebre architetto. Il giorno dopo Mattei si sarebbe dovuto recare in Algeria per quel patto di collaborazione con il governo algerino, che voleva stipulare. Per Mattarella l'Italia tramite l'Eni, dovrebbe continuare a svolgere i patti di collaborazione che da allora ha attuato e che sta attuando, nel quadro dell'Unione Europea e dell'alleanza atlantica in Africa e nel Medio Oriente. Per l'Eni di Mattei il rapporto fra concedente e concessionario di petrolio e gas non è un mero rapporto di do ut des, ma è di partecipazione azionaria all'estrazione, al trasporto, e di collaborazione più ampia. Descalzi era al fianco di Mattarella, perché fra Eni e l'algerina Sonatrach c'è un protocollo d'intesa per tale lavoro comune tramite la Trans Tunisian Pipeline Company che a Mazara del Vallo si riallaccia ad altre reti Snam. Quella dal Greenstream, va dalla Libia alla Sicilia. La rete del gas dal Mar Caspio va a Taranto, altre reti sono con il Medio oriente. Una grande politica internazionale. Due giardini a ricordo di Mattei ad Algeri e a Bascapè portano, con quel filo rosso alle vicende di Amara. Ma rimane la domanda: chi ha ispirato tutto ciò? Francesco Forte

A 10 anni dal "golpe" Monti riscrive la storia: "L'Europa ci soffocava". Francesco Forte il 15 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel 2011 la cacciata di Berlusconi e l'inizio dell'austerity. Della quale il Prof fu sostenitore. Oggi decorrono dieci anni da quando il governo Berlusconi è stato defenestrato e sostituito da quello del professor Mario Monti, nominato per l'occasione, senatore a vita, dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ex leader dell'ala dei riformisti del PCI. Uso il termine defenestrato perché il voto sfiducia con cui Berlusconi dovette dimettersi non riguardava la legge di bilancio, per gli anni successivi, ma il rendiconto del bilancio consuntivo un documento contabile, non operativo, la cui bocciatura implica di rettificare dati errati se vi sono. Ma la sfiducia era derivata da assenze involontarie dal voto. Il ministro dell'Economia del governo Berlusconi, Giulio Tremonti, la cui legge consuntiva si discuteva, era uscito in quell'attimo dall'aula per una disattenzione o una necessità fisica. Nel regolamento del Senato, in ogni votazione, su qualsiasi tema, l'assenza dall'aula, mentre si vota, vale come voto contrario. Il senatore Bossi della Lega, era alla bouvette e le condizioni fisiche gli impedivano di correre nell'aula. Anche se si volesse sostenere che Tremonti non credeva alla propria contabilizzazione del passato, ciò non comportava la sfiducia sulla sua manovra di bilancio, ma la revisione di dati passati. La nomina di Monti a senatore a vita, da parte del presidente della Repubblica, non dopo svolto l'incarico di governo, come riconoscimento di lavoro fatto giudicato degno di passare alla storia, bensì prima che la iniziasse, ha lasciato la sensazione che lo si volesse battezzare come uomo della provvidenza, per un compito d salvatore della patria, mediante la politica del rigore del bilancio. Ma il governo di Mario Monti, sbagliò il rigore, andando troppo in alto, oltre i pali superiori, come il calciatore Jorge Louis Jorginho, nel suo calcio di rigore della nazionale italiana contro la Svizzera. Questo sbaglio per eccesso-anziché metterci in sicurezza per i mondiali, ci ha inguaiato. La politica di rigore di Monti, con la tassazione patrimoniale sugli immobili sbagliata per sua natura e comunque per eccesso, ha fatto cadere il PIL A ciò si è aggiunta la legge Fornero sulla pensione obbligatoria a 75 anni, che ha creato disagio sociale e sfiducia perché le norme erano retroattive, ledendo i diritti di pensionamento stabiliti in precedenza. Mentre il Pil calava, per il rigore sbagliato, la spesa corrente era aggravata dagli indennizzi del governo per gli esodati: lavoratori pensionati nel frattempo senza l'età della nuova legge. Il declino del PIL italiano in termini reali, cioè al netto dell'inflazione, fu di 2,3 punti nel 2012 e di altri 1,9 nel 2013. In totale di 4,30 punti. Dal 2014 al 2019 il Pil è cresciuto di +0,1 nel 2014, di +0,8, nel 2015, di + 0,9 nel 2016, di +1,6 nel 2017, di + 0,9 nel 2018 e di + 0,3 nel 2019 prima della pandemia. Così i governi di sinistra e il governo 5 stellato hanno generato un recupero di PIL di solo 3,6 punti. Dunque quando - secondo la vulgata - vi era il peggio dovuto a Berlusconi il Pil era più alto di un punto di quando si sono installati nel potere i miglioratori. Quando c'era Berlusconi, cioè il peggio , nel 2011, il debito pubblico era al 120% del PIL Nel 2019, culmine dei governi dei miglioratori, il rapporto debito/PIL era arrivato al 134,8: un peggioramento di 15 punti in 10 anni. Berlusconi aveva semplificato gli investimenti con la legge obbiettivo; con la legge Biagi aveva reso più flessibile il mercato del lavoro; con i contratti di produttività voleva rilanciare la crescita e ridurre le crisi aziendali. Alla pensione sociale da lui introdotta è stato sostituito il reddito di cittadinanza. Berlusconi voleva la flat tax. Ora c'è il rischio del catasto patrimoniale. Si stava meglio quando si stava peggio! Adesso anche Monti lo ammette, ma sul Corriere della Sera scrive che non è colpa sua. Bensí di Draghi, che non fa le riforme. Il quale con la zavorra dei miglioratori è impantanato in mezzo al guado: da cui potrà uscire con gradualità. Francesco Forte

Dieci anni dopo la storia dà ragione a Berlusconi. Paolo Guzzanti il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. Nel 2011 la fine del suo governo a colpi di spread. Oggi è il padre nobile del Ppe e in lizza per il Colle. C'ero anch'io in Parlamento quel giorno in cui cadde l'ultimo governo Berlusconi. L'atmosfera era pesantissima. Lo spread saliva come una febbre e i giornali nemici del governo, giuravano che era tutta colpa del premier. Quando un'ultima deputata di Forza Italia si alzò per dire che abbandonava il partito, fu evidente che la maggioranza era erosa dalle termiti. Pochi minuti dopo il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annunciò che sarebbe andato dal capo dello Stato, il quale era, fin troppo perfettamente al corrente di quel che accadeva. Arrivederla e grazie, venga avanti l'esimio professore e precauzionalmente - senatore a vita Mario Monti. Un loden che varcò i teleschermi e simboleggiò l'Italia vestita in modo alpestre. Non era un governo tecnico, ma il primo esperimento di molti giochi senza frontiere che avremmo visto nell'ampio cortile costituzionale. Il resto lo sappiamo: l'Italia è l'unica democrazia liberale in cui da dieci anni non governa un premier espressione del voto popolare. Si dirà che anche Renzi era stato baciato dal Grande Consenso Vagante che agisce secondo regole e umori non definiti. Ma non era stato eletto al Parlamento italiano. Tutto ciò è noto, come lo sono le circostanze usate per estromettere dai Palazzi della democrazia rappresentativa il leader più popolare. Quindi, proviamo a vedere che cosa è successo fino ad oggi e valutare la differenza fra il prima e il dopo. Che cosa sono stati questi dieci anni e qual è l'effetto finale? Cominciamo dal Fiscal Compact, che era uno spettro per gli illiberali, ma che oggi nessuno osa contestare. Il Partito Popolare Europeo dal quale erano usciti acidi commenti sul premier italiano, oggi lo considera uno dei padri nobili, una figura di assoluto rispetto che figurerebbe molto bene come successore di Mattarella per rappresentare al più alto livello l'Italia governata da Draghi. Quanto alla magistratura, i fatti parlano da soli. Lasciamo per un attimo da parte il feroce accanimento giudiziario scatenato contro il fondatore di Forza Italia (che era la zattera rifugio degli elettori dei partiti di centro spazzati via dall'operazione Mani Pulite) che ha rovinato la vita politica non soltanto a lui ma anche a tutti i milioni di italiani che si sono trovato senza il loro rappresentante, nonché massacrati in pubblico e in privato. Ma oltre l'autentico martirio inflitto al cittadino Berlusconi Silvio, imprenditore e politico italiano più volte presidente del Consiglio, tutto il Paese e poi tutta l'Europa e anche il resto del mondo civile, si è reso conto del fatto che il sistema giudiziario italiano è intossicato da usi politici e anche personali o di banda. Certo non da Circolo degli Immacolati. Basta pensare al caso di Matteo Renzi che ha visto perseguiti i propri anziani genitori, oltre che se stesso a secondo di come si muoveva o si muove politicamente con una strabiliante coincidenza dei tempi. Abbiamo visto casi aperti in molte aree politiche in cui un avviso di garanzia, un rinvio a giudizio, una voce accuratamente riferita da speciali cronisti giudiziari, poteva affondare, come quando si gioca alla battaglia navale: «Avviso di garanzia in E4», colpito. «Avviso di garanzia in E5», colpito e affondato. Il decennio «senza Berlusconi» ha fatto capire tutto: le grandi leggi di riforma liberale che il leader di Forza Italia propugnava a favore sia dei cittadini che vivono della ricchezza prodotta da altri, sia degli imprenditori che quella ricchezza la producono, erano le uniche in grado di segnare una via verso il futuro. Si potrebbe dire con una battuta che dieci anni senza Berlusconi hanno prodotto il governo Draghi che da Berlusconi fu scelto per presiedere la Banca europea perché il premier che ci appare irresistibilmente dinamico, decisionista, forte perché ha dietro di sé l'Europa, è il contrappeso necessario e quasi fisico a tutto ciò che è mancato o è fallito in questi dieci anni. L'Europa del dopo-Berlusconi non ci ha messo molto a capire che il Cavaliere non era il problema ma semmai la soluzione e che tutto l'intrico di poteri usurpatori, deficienze amministrative, abusivismo giudiziario capace di deviare e devastare la Costituzione, doveva essere fermato. La deriva populista di destra e di sinistra che hanno finito per appaiarsi, è stata un'altra conseguenza dei «dieci anni» a secco di liberalismo. L'Europa ha deciso che sarebbe valsa la pena recuperare il tempo perduto offrendo a questo Paese spesso troppo furbo, ipocrita e decadente, ma pieno di potenzialità magnifiche, l'opportunità - now or never again di scrollarsi di dosso proprio tutti quei fattori, e gruppi di potere, che coincidono con i momenti chiave della soffocante congiura. Molto denaro in cambio di un nuovo virtuosismo. Obbligo di riforma a partire dalla magistratura e dal fisco. Libertà e liberalismo. Tutto ciò che costituiva il patrimonio dell'uomo estromesso dieci anni fa e che è rimasto tuttavia l'ultimo uomo in piedi pronto a difendere i valori per cui fu perseguitato, come oggi tutti ammettono. Paolo Guzzanti 

"Così consegnarono Berlusconi alla folla". Fabrizio De Feo il 13 Novembre 2021 su Il Giornale. L'azzurro era con l'allora premier quando si dimise: "Dentro il Quirinale festeggiavano...".

Onorevole Sestino Giacomoni, lei il 12 novembre di 10 anni fa accompagnò Silvio Berlusconi al Quirinale per le dimissioni.

«Ho vissuto una delle situazioni più surreali della mia vita, è un ricordo indelebile. Ero consigliere a Palazzo Chigi del presidente e suo assistente da circa sette anni. Ricordo perfettamente che approvammo la legge di Bilancio alla Camera, dopo di che il presidente si recò al Quirinale per rassegnare le dimissioni».

In piazza lei ebbe l'impressione di una scenografia creata ad hoc. Per quale motivo?

«Ero in auto con lui e mentre andavamo il Presidente disse alla scorta passiamo dall'ingresso laterale. Qualcuno dal Quirinale rispose: No, è una visita ufficiale, si deve passare dall'ingresso centrale. E lì, in una piazza solitamente blindata, quel giorno venne consentito di tutto, finanche il concerto improvvisato di un'orchestrina che intonava Bella ciao. Di certo c'è stata una regia. In molti avevano l'interesse che Berlusconi andasse a casa. Interessi personali, forse di partito, internazionali, non di certo del Paese. Davanti al Quirinale e forse anche dentro, festeggiavano l'uscita di scena dell'ultimo presidente del Consiglio indicato con il voto dal popolo italiano».

Aveste l'impressione che si volesse facilitare una forzatura politico-istituzionale?

«Ne avemmo la certezza, perché tornati con il presidente a Palazzo Grazioli, fummo costretti a rimanere, fino alle quattro di mattina, chiusi dentro il palazzo. Eravamo circondati da migliaia di persone che qualcuno aveva sapientemente incanalato in quelle vie del centro per far credere che il popolo volesse le sue dimissioni. In realtà si trattava solo di una minoranza rumorosa. La maggioranza silenziosa degli italiani, infatti, si era espressa chiaramente con il voto a favore del centrodestra e del presidente Berlusconi. Il clima era surriscaldato e a renderlo tale è stata soprattutto una precisa strategia mediatico-politica che ha voluto scaricare su Berlusconi tutti i mali del Paese, forse per lavarsi la coscienza».

Perché venne impedito l'accesso da un ingresso laterale? E che idea si è fatto della condotta di Napolitano?

«Su Napolitano preferisco non esprimermi, sarà la storia a giudicarlo. Il presidente della Repubblica è un arbitro. Per il resto è chiaro, volevano che passasse dall'ingresso centrale perché è lì che la sinistra aveva organizzato i cori dei suoi ultras, con tanto di orchestra!».

Ricorda qualcosa che Berlusconi le disse quel giorno?

«Il presidente, consapevole del complotto ordito contro il nostro governo, non voleva mollare, ma ci disse che si dimetteva per amore del Paese. Sapeva che se a quella forzatura avesse resistito, le conseguenze per il Paese sarebbero state peggiori. Da giorni, infatti, l'Italia era sotto attacco a colpi di spread.

Pensa che a febbraio possano esserci le condizioni per far tornare Berlusconi a varcare le porte del Quirinale?

«È il mio sogno, anche perché, dopo dieci anni e 5 presidenti del consiglio non indicati dal voto popolare, Berlusconi è ancora qua, come direbbe Vasco Rossi...Mi auguro che a febbraio Berlusconi possa salire al Quirinale. Sarebbe il coronamento di un impegno politico-istituzionale che un uomo della caratura di Silvio Berlusconi meriterebbe e l'unico modo per sanare una ferita profonda inflitta non solo a lui, ma alla storia del nostro Paese». Fabrizio De Feo

PiazzaPulita, Gianluigi Paragone inquietante: "Cosa mi ha detto un agente della Digos". Paranoia o complotto? Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. Qui PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7, dove nella puntata di giovedì 4 novembre, ospite in studio, ha fatto capolino Gianluigi Paragone, ormai punto di riferimento politico di tutto il movimento no-Green pass e no-Vax. Si parla di cortei, di manifestazioni. E Formigli ricorda "una questione fondamentale: la foto della manifestazione per il ddl Zan a Milano, un mare di persone. Proprio come alla Barcolana a Trieste. Poi ci sono gli stadi, piene tutte le settimane. Poi si arriva alle manifestazioni no-vax, che a me non piacciono per niente, non sopporto le loro tesi, ma altra cosa è vietare loro le manifestazioni. Cosa sta succedendo?", chiede a Paragone. "Noi andiamo in piazza a Milano da 15 settimane, è interessante che il solo dato di Trieste coincida con l'aumento dei contagi. Veramente, la sfortuna ci vede benissimo... - commenta sornione -. Però in queste settimane vedo che anche l'attenzione delle forze dell'ordine è particolare. Un mio candidato al Municipio ha ricevuto una dozzina di provvedimenti e per andare a lavorare deve mandare una mail alla Questura. Oggi la ha mandata e non ha ricevuto alcunché, e non può andare a lavorare", rimarca. Dunque, Paragone agita quello che sembra lo spettro di un controllo, o quanto meno di una repressione ad-personam: "Penso che se questo debba essere l'atteggiamento del questore di Milano... che so che sta prendendo delle informazioni su di me, so anche che mentre ero in marcia uno della Digos mi ha detto: Paragone non ci si metta anche lei, come a dire che i senatori devono restare dentro al palazzo. E il massimo è il Daspo a Puzzer: é andato col suo banchetto e gli hanno dato il foglio di via a Roma". E ancora: "Io dico, a me piacciono tutte la manifestazioni. Sono contento della manifestazione a Milano del ddl Zan, è giusto che si possa andare in piazza. Ma non riesco più a capire perché in tutta Italia le manifestazioni debbano essere così", conclude Paragone.

La cultura del sospetto. Il complottismo no vax è la malattia senile del comunismo italiano. Carlo Panella su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Le strampalate e le accuse infondate contro un non meglio identificato monopolio internazionale che avrebbe orchestrato Covid e campagna vaccinale in America nascono a destra. Ma da noi sono il prodotto di decenni di propaganda anticapitalista e giustizialista del Pci e dei suoi eredi. Allibiti davanti ai più di 8 milioni di italiani di più di 12 anni che non si vogliono vaccinare, un intero e grande popolo no vax pari quasi a quello dell’intera Svizzera, non dobbiamo cadere in un errore. La matrice complottista che spesso motiva questa scelta non è parte di una cultura di destra o del populismo. In Italia il complottismo, l’attribuzione a forze oscure del deep state, come a Big Pharma, e alle multinazionali di trame e complotti, è storicamente ed essenzialmente retaggio della sinistra. L’esatto contrario di quanto avviene negli Stati Uniti, nei quali fenomeni come QAnon sono parte del populismo di destra, a cui Donald Trump ha dato un potente contributo, sino all’occupazione violenta del Campidoglio, con la balla del voto rubato. In Italia, invece, è stata la sinistra, quella comunista e poi quella ex comunista e giudiziaria, a installare questo veleno diffuso nella cultura del paese. Su due percorsi paralleli, oltre alla denuncia delle trame dei monopoli internazionali e soprattutto americani. In un primo tempo la denuncia di trame americane per avvelenare e distorcere il retto cammino della democrazia. In un secondo tempo, dagli anni Ottanta a oggi, una deviazione radicale della magistratura militante, col pieno appoggio della sinistra ex comunista, che ha usato l’accusa di complicità con la mafia e con “poteri oscuri” per eliminare i suoi nemici politici. Il complottismo del Partito comunista italiano iniziò negli anni cinquanta con l’entrata dell’Italia nella Nato. La ratio era semplice: la cessione di sovranità all’Alleanza Atlantica che comportò quella saggissima scelta democratica della schiacciante maggioranza delle forze parlamentari danneggiava gli interessi dell’Unione Sovietica staliniana. Ecco allora che quel galantuomo dì Giuseppe Saragat, quando scelse la scissione socialista di Palazzo Barberini, venne dipinto come «pagato e servo degli americani». Su su nei decenni fino alla criminalizzazione di Bettino Craxi, accusato di applicare il “piano di Licio Gelli e della P2”, altro bau bau nei confronti di un deep state che altro non era che un club di intrallazzoni. Passando per la bufala del “Piano Solo” e dell’inesistente progetto golpista del 1964 del generale De Lorenzo, complice addirittura il presidente della Repubblica Antonio Segni. Senza dimenticare il caso Gladio, che portò Achille Occhetto a portare «le masse popolari» a manifestare in piazza chiedendo le dimissioni del presidente Francesco Cossiga «complice di trame oscure».

Caso Gladio, gonfiato da una mega inchiesta – finita nel nulla – del pm Felice Casson, che non a caso fu poi eletto senatore nelle liste degli ex comunisti. Caso interessante perché la struttura di Gladio altro non era che la saggia decisione della Nato di arruolare qualche centinaio di ex partigiani “bianchi”, di celare anche depositi di armi e radiotrasmittenti a loro disposizione, in modo da poter funzionare da quinta colonna in caso di invasione sovietica dell’Italia. Benemeriti, quindi, trasformati dagli ex comunisti poco meno che in golpisti al servizio «delle forze eversive».

Ma a quel punto, siamo agli anni Novanta del secolo scorso, il complottismo di sinistra  i riversa tutto sul filone dell’antimafia. Non certo quello di Giovanni Falcone, la cui nomina a Procuratore Nazionale antimafia fu impedita da Magistratura Democratica e dai magistrati vicini al PDS (ma non, va detto, da Giancarlo Caselli, Gerardo D’Ambrosio, e tantomeno da Luciano Violante e Gerardo Chiaromonte).

Il complottismo si fa Stato con le parole genialmente icastiche del gesuita padre Pintacuda, ideologo della Rete di Leoluca Orlando: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Da parte sua, Piercamillo Davigo dimostra pari genialità icastica con lo slogan che caratterizza Mani Pulite, l’apoteosi del complottismo all’italiana: «Non esistono politici innocenti, ma colpevoli su cui non sono state raccolte le prove». In quella sciagurata stagione germina l’ossessione per la “Casta” che sfocerà nello straordinario risultato di riempire il Parlamento di un terzo di eletti grillini che hanno dato la fantastica prova che sta sotto gli occhi di tutti.

Ma non finisce qui. Il culmine parossistico del complottismo di sinistra concepisce il suo capolavoro: accusa tutti coloro che hanno effettivamente dato un colpo mortale alla Mafia, dal generale Mario Mori, al colonnello Mauro Obino e gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe de Donno, Antonio Subranni e persino Calogero Mannino vuoi di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra (tutti assolti), vuoi di minaccia contro il Corpo dello Stato. 

È il paradossale processo in cui solo gli imputati che hanno arrestato i più pericolosi mafiosi sono accusati di avere indebitamente e occultamente avviato una trattativa con la Mafia. Di nuovo, tutti assolti. Ma soltanto dopo avere subito un decennio di fango e di gogna mediatica. Sempre da parte della sinistra.

Quella stessa sinistra che sdogana il giustizialismo di destra di Marco Travaglio, offrendogli per quasi un decennio prima la legittimazione della firma su la Repubblica e poi addirittura su L’Unitá. Scelta masochista tra le tante degli ex Pci perché Travaglio si porterà gran parte dei lettori del quotidiano fondato da Antonio Gramsci nel suo eccellente il Fatto.

Si dirà, ma tutto questo c’entra poco col complottismo anti scientifico implicito nei no Vax. Può darsi. Ma quel che è certo è che in Italia è essenzialmente sparso dalla sinistra comunista ed ex comunista l’ideologia contro le multinazionali e il “capitale monopolistico” che costituisce l’essenza, il brodo di cultura della diffidenza nei confronti del Big Pharma che ha prodotto i vaccini.

Indimenticabili le parole con del comunista Giuseppe Berti, relatore della mozione che chiedeva di non ratificare nel 1957 il Trattato di Roma, che istituiva il MEC, Mercato Europeo Comune, primo passo verso l’Europa Unita: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico».

Un problema politico. Ritratto del complottista, militante confuso e infelice della pseudoverità. Donatella Di Cesare su L’Inkiesta il 15 Ottobre 2021. Frustrato e impotente di fronte a una società complessa, preferisce ritagliarsi una realtà alternativa, mai comunque verificabile. Erede caricaturale dell’illuminismo, non si rassegna alla mancanza di senso delle cose. Anzi, trova spiegazioni logiche (i complotti, appunto) anche quando non ci sono. Come spiega Donatella Di Cesare nel suo ultimo libro (Einaudi), il cospirazionista si compiace della sua presunta perspicacia e cura così il suo narcisismo ferito. Il desiderio di trasparenza permea dal fondo la democrazia, la sorregge e insieme la inquieta. Chiarire, far luce, svelare, smascherare, sbrogliare, decifrare, risolvere – arrivare finalmente alla verità. Mai più misteri, menzogne, manipolazioni. L’apparenza sarà perfettamente conforme alla realtà. E ogni sospetto sarà superfluo. I complottisti sono convinti militanti della trasparenza. Al contrario di quel che si potrebbe supporre, non fuggono nella superstizione, non evadono nell’irrazionalità, ma sono invece iperrazionali e si rivelano, a ben guardare, gli eredi più oltranzisti degli ideali illuministici. Tutto ciò che è nascosto deve essere messo allo scoperto. L’occulto, l’arcano, il recondito non hanno più ragione d’essere. Di più: il mistero deve essere abolito. Per dirla a chiare lettere (e con il consueto manicheismo): il Bene è il principio normativo della trasparenza e il Male quel che lo ostacola. Sono le élite corrotte, le forze occulte, i media mistificatori. D’altronde il potere risiede nel segreto. È stato Georg Simmel a sottolineare, in un suo importante saggio del 1908, gli effetti ambivalenti che nella vita sociale può esercitare il segreto. A questo proposito non si può fare a meno di ricordare che il latino secretum viene da secernere, ossia mettere da parte, separare, escludere; ciò che è segreto è separato, appartato, riposto e, in tal senso, viene tenuto nascosto. Simmel insiste su quella che chiama la «attrattiva del segreto», che conferisce sempre un che di esclusivo, accorda una posizione eccezionale. Il prestigio del segreto, il credito di cui gode, la suggestione che esercita, non dipendono perciò dal suo contenuto, che potrebbe infatti essere anche vuoto. Il passo ulteriore – aggiunge Simmel – è un tipico errore, un rovesciamento sistematico, per cui agli occhi dei più ogni personalità superiore deve avere un segreto. Si suppone che chi ha potere abbia un sapere ulteriore e occulto. Ecco allora che il segreto viene esecrato, demonizzato. Eppure, non è il segreto a essere connesso con il male, bensì il male con il segreto. Il malvagio, l’immorale, il disonesto tenta di nascondersi; non vale, però, il contrario. Si intuisce perché il segreto da un canto rappresenti una barriera, dall’altro sia un perenne stimolo a infrangerla. La tentazione di trasgredire, profanare, divulgare, fa già parte dell’attrattiva del segreto. Ma lo stimolo al rischiaramento aumenta in modo iperbolico nella società democratica. La trasparenza, assurta a valore e norma, non può tollerare più nessun margine di oscurità, né alcun resto di opacità. Qui attecchisce il complottismo, che promette di cancellare con un colpo di spugna ogni mistero, di sciogliere immediatamente ogni enigma. Basta penetrare nel cuore del segreto per farlo sparire. Il che è possibile grazie allo schema collaudato del complotto, che garantisce chiarezza assoluta. Questa desacralizzazione risponde in tutto e per tutto allo spirito della modernità, all’obbligo più o meno esplicito di non nascondere nulla, all’imperativo incondizionato della «pubblicità». Ma il tentativo di portare tutto alla luce finisce per sortire l’effetto opposto. Dietro ogni complotto svelato si presume un complotto più recondito. Mentre il mistero riaffiora, seguita a proiettarsi l’ombra dell’invisibile. Non più, però, nell’oltre divino, bensì nello spazio umano, che si popola di spettri, figure minacciose, nemici malvagi. Tutta l’invisibilità si condensa nel potere, per definizione occulto. Così la società dell’informazione alimenta l’immaginario della società segreta. Ogni rivelazione mette allo scoperto un arcano ancora da rivelare. L’informazione diventa una macchina che produce un’oscurità più profonda. Perché è inesauribile la richiesta di rivelazione in un mondo che non è ancora riuscito a congedarsi dall’assoluto. Solo la certezza del complotto può dissipare ogni dubbio e interrompere la spirale. La trasparenza normativa è, dunque, l’altra faccia del complottismo. L’illusione di aver trovato il bandolo della matassa, di essere giunti finalmente a capo dell’enigma, lascia presto il posto al disinganno amaro e alla frustrazione. Anziché essere un universo ordinato e leggibile, il mondo sembra precipitare di nuovo nel caos. Assurdità e non senso prevalgono, mentre ovunque riemergono non detti, zone d’ombra, domande senza risposta. È in questo scarto tra il sogno della trasparenza e il risveglio nel corso oscuro degli eventi, tra il miraggio dell’immediatezza e l’urto nell’opacità, che il complottismo fiorisce e prospera. Il cittadino smarrito e disorientato, che non riesce a districarsi nella complessità crescente, che non sa vagliare e interpretare l’enorme flusso di informazioni da cui è investito, finisce per essere un potenziale complottista. Troppi dati, troppe notizie, e un vortice di versioni differenti, non di rado opposte. A chi credere? Certo non alla «versione ufficiale», quella dei media conniventi con i «poteri forti», complici di quelle «forze occulte», causa di ogni male, che hanno semmai tutto l’interesse a insabbiare ogni indagine e dissimulare le proprie responsabilità. Per scoprire la verità che c’è dietro occorre, anzi, oltrepassare la «disinformazione ufficiale». Chi si ferma lì è un ingenuo. «Si sa che ci ingannano», «si sa che ci dicono solo una parte», «si sa che ci nascondono le cose più importanti». L’onesto cittadino guardingo si vota all’informazione alternativa, si destina all’inesausta decifrazione dell’attualità. Mette i panni dell’investigatore incorruttibile, del controesperto integerrimo, dell’eroico cercatore di verità. Così questo novello Sherlock Holmes, in grado di resistere a ogni lusinga, refrattario a ogni manipolazione, si avventura nei bui sotterranei del potere politico e mediatico. Abbraccia pienamente una visione poliziesca del mondo, tende le orecchie, affina lo sguardo per non lasciarsi sfuggire nessun indizio. S’improvvisa non solo detective, ma anche economista, virologo, climatologo, dietologo, storico, specialista di geopolitica, conoscitore di affari internazionali. Alla fin fine «la competenza non è che un’invenzione delle élite per mettere il bavaglio alla gente comune». E lui non cade, certo, nella trappola. È più perspicace, coraggioso e lucido di altri – pronto a denunciare senza riguardi, e a voce alta, il «sistema», i «poteri forti», il «Nuovo Ordine Mondiale». Un po’ immodestamente confessa persino a se stesso quell’esaltante sensazione di appartenere a un’aristocrazia illuminata. La vertigine narcisistica del dissenso lo infervora: si sente investito da una missione sacra. Cerca la Verità contro tutto e tutti, notte e giorno. E aspetta di squarciare il velo. Tra sogni e deliri di onniscienza e onnivigilanza, non perde mai un programma d’inchiesta, ama noir e gialli, fiction in controtendenza, ricostruzioni alternative della storia. Si guarda bene dal leggere i giornali del mainstream, per non essere manipolato, e approda presto sul web per aprire un blog e avere un proprio spazio dove pubblicare, senza tabù, documenti che si vorrebbe restassero segreti, prove schiaccianti di quel che si sospettava. Tutto torna. I follower aumentano.

da “Il complotto al potere”, di Donatella Di Cesare, Einaudi, pagine 120, euro 12

L’ossessione del complotto. E se non c’è, è un complotto. UNA MANIA NATA CON L’UOMO  CHE NEGLI ULTIMI ANNI STA DIVENTANDO INARRESTABILE. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 19 settembre 2021. È capitato a tutti di sentirne più d’una. Gli americani non sono mai sbarcati sulla luna. Il traffico di droga internazionale è controllato dalla CIA. Lady Diana è stata assassinata. Gli attentati dell’11 settembre alle torri gemelle e a Strasburgo sono stati organizzati rispettivamente dai governi americano e francese. E ancora, le scie bianche lasciate dagli aerei sono sostanze chimiche diffuse nel cielo per ragioni tenute segrete. Esiste un complotto sionista a scala mondiale. Lo Stato e le case farmaceutiche nascondono la pericolosità dei vaccini. Il riscaldamento climatico è una tesi inventata da politici e scienziati per servire i loro propri interessi. E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Sono solo alcune delle teorie cospirazioniste di cui è più frequente sentir parlare. Forse ci aveva visto giusto Karl Popper che nel suo ‘La società aperta e i suoi nemici’ parla dell’ossessione per il complotto come di una cosa nata con la nascita stessa dell’essere umano, e definendola una teoria cospirativa della società che risiede nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di quel fatto e che hanno progettato o congiurato per promuoverlo. Ponendo in questo modo anche le basi per un’interpretazione della perdita di fascino della scienza e della ricerca che sembra aver colpito anche la nostra società. Ma da cosa nasce questa idea del complotto? E perché è così facile che prenda piede? Intanto va osservato come, nonostante le condizioni di benessere generale nella società contemporanea siano – in gran parte del mondo – di gran lunga superiori a quelle solo immaginate in epoche precedenti, oggi uno dei sentimenti maggiormente avvertiti a livello collettivo sia in realtà quello dell’insicurezza, frutto di un patchwork di fattori che alimentano paure di ogni tipo. A ciò si aggiunge una crisi dei fondamenti scientifici partita dalla fine del IXX secolo, dovuta in gran parte all’abbandono delle ambizioni di perfetta neutralità dell’osservatore nel processo di conoscenza e, contestualmente, alla presa d’atto dell’impossibilità di restituzione di fatti certi e oggettivi a scapito di più modeste affermazioni caratterizzate da indeterminazione, probabilità e relatività. Siamo insomma di fronte ad una sorta di paradosso della modernità: l’equazione con la quale veniva postulata una relazione di proporzionalità diretta tra conoscenza e certezza, viene invece a inficiare i risultati proprio al crescere dee percorsi di conoscenza. Una iattura, per certi punti di vista (o una luce che dovrebbe accendersi in molte menti, ma questo è un altro discorso). Il mix di queste due macro-situazioni – l’insicurezza e le conseguenti paure da un lato, la perdita di autorevolezza da parte della scienza dall’altro – costituiscono le basi di quella che molto efficacemente Ulrich Beck ha definito “società del rischio”. Allora, è forse proprio in questo scenario complessivo caratterizzato da un’assenza di solidi ancoraggi di senso che proliferano spiegazioni alternative finalizzate alla comprensione di una realtà percepita, con timore, fuori controllo. Dove non arriva la razionalità forse possono risolvere magiche elucubrazioni onnicomprensive, rassicuranti a modo loro. È questo, in sintesi, il brodo primordiale, quel grande background emotivo nel quale si alimenta – per far fronte alla paura e all’insicurezza che generano angoscia – ogni sorta di cospirazione o di complotto possibile e immaginabile. Alla base del complottismo, insomma, c’è sempre il convincimento che le cose non siano quelle che scaturiscono dalle narrazioni ufficiali. Anzi. È radicata l’idea che esista un’élite, ristretta ma con ramificazioni capillari in tutti i livelli della società e in tutto il globo, che controlla le istituzioni per mantenere saldo il potere nelle sue mani, fabbricando di volta in volta narrazioni per la gente comune in modo che non colga le reali intenzioni né tantomeno sospetti della sua stessa esistenza. L’impressione è che le spiegazioni più evidenti di fatti sociali a qualcuno paiano non essere soddisfacenti; e molto spesso la ragione sta nel fatto che accettarle faccia, in qualche modo, male. Ma ci sono elementi comuni nelle persone che fanno più spesso uso della categoria del complottismo per spiegare a modo loro alcuni fatti che accadono? Intanto va considerato che i sostenitori delle teorie del complotto sono in aumento, e costituiscono una comunità alquanto eterogenea (almeno dal punto di vista delle classiche variabili utilizzate nella ricerca sociale). Una recente indagine su un campione della popolazione francese ha messo in luce alcune caratteristiche volte alla possibile definizione di una sorta di idealtipo di complottista: ma se si esclude una maggiore (comprensibile) propensione da parte di chi ha titolo di studio più basso e una tendenza a subire meno il fascino del complottismo al crescere dell’età, non ci sono molte altre certezze. Anzi. In un’altra ricerca, questa volta riguardante 8 diversi Paesi fra i quali anche Usa e Gran Bretagna, mostra un’interessante relazione fra credenze ai fenomeni soprannaturali e teorie del complotto. I più permeabili alle teorie cospirazioniste sono nella maggioranza dei casi gli stessi che credono che si possa parlare con i morti o che pensano che esistano veggenti, persone in grado di predire l’avvenire. Sono anche quelli più inclini a credere nell’astrologia. L’esistenza della relazione fra credere in spiegazioni non razionali e teorie del complotto è peraltro confermata dai ricercatori del progetto Conspiracy, che è finanziato dall’Agenzia Nazionale della Ricerca francese. I sostenitori delle teorie del complotto costituiscono quindi un gruppo sociale eterogeneo, pur con alcune caratteristiche di omogeneità; sono in aumento, e la loro esistenza è una risposta spontanea in qualche modo non controllata a progressive lacune di carattere comunitario, economico e culturale. Ma c’è di più: qualche ricercatore azzarda l’ipotesi che alla base della tendenza a spiegare gli eventi sociali e storici in termini di segreti e cospirazioni malevole, vi sia una mentalità teleologica, cioè l’idea che sia necessario attribuire un fine ultimo a tutti gli eventi e alle entità naturali. Insomma, quello che a tutti gli effetti è oramai un vuoto istituzionale, genera risposte praticamente del tutto prevedibili, con conseguenze spesso poco entusiasmanti; una risposta incontrollata a un disagio percepito. Il fenomeno non è un compartimento stagno, tutt’altro; risulta essere organico a una frattura molto più marcata, i cui contorni sono sfumati e hanno a che fare con un malessere sociale generalizzato (perché frutto di situazioni anche molto diverse fra loro). Il complottista si sente tale per differenziarsi, non sentendosi organico nella società, e quindi il suo è a tutti gli effetti un tentativo di ricollocamento in un contesto sociale che, finalmente, lo accolga. Ma dove sta il pericolo in comportamenti di questo tipo? Perché il complottismo, in definitiva, può far male? I complottisti non sono pericolosi perché mettono in dubbio. Il dubbio è il fondamento di ogni epistemologia scientifica, e la scienza stessa ha elaborato i propri anticorpi proprio grazie alla falsificazione, al trial & error, e così via. Il vero problema dei complottisti è che mettono in dubbio tutto, disordinatamente, senza metodo né competenze, con un conseguente crollo verticale e inarrestabile di ogni ordine di certezze e autorevolezza. Sullo sfondo, l’etica di una propensione allo sfascio che non lascia spazio ad alcuna ipotesi alternativa di costruzione di solidità. Alla base di tutto ciò, un vizio di fondo della società contemporanea a forte caratterizzazione liberista, che non solo ha alimentato in maniera indiscriminata un’ideologia del narcisismo barattandola con la realizzazione personale ed esistenziale ma anche ha giustificato un modus vivendi fondato sul vittimismo, spesso unica modalità per sentirsi parte di qualcosa di chiaro, definito, incrollabile. In assenza del quale ci si situa, appunto, in narrazioni differenti, nelle quali tornare a sentirsi qualcuno. Ovviamente, la cultura del narcisismo non è necessariamente l’unica strada possibile per l’autorealizzazione. I modelli culturali narcisistici vanno compresi e ridimensionati. Per farlo c’è bisogno della proposizione di modelli alternativi e la risposta migliore a una ideologia imperante dell’individualismo non può che essere quella di una cultura dell’alterità. Che il complottismo fosse un fenomeno radicato e molto pericoloso per l’umanità tutta lo aveva capito, da tempo, anche un pensatore fra i più lucidi, Umberto Eco. Nel 2015, un anno prima di lasciarci, aveva tenuto una lectio magistralis  all’Università degli Studi di Torino dal titolo  ‘Conclusioni sul complotto: da Popper a Dan Brown’. Filosofia della scienza e letteratura assieme, a sostegno di una ricerca di risposte ad uno degli aspetti più controversi della complessità sociale.

·        Gli Amici.

Tradotto e curato da Enrico Testa. “La solitudine di Filottete”: l’eredità di Sofocle nel valore dell’amicizia. Eraldo Affinati su Il Riformista il 23 Luglio 2021. Grande e inconsolabile è la crisi interiore di Filottete, protagonista dell’ultimo dramma di Sofocle, tradotto in modo intrigante e accessibile nonché magnificamente curato da Enrico Testa (La solitudine di Filottete, pp. 173, Il Mulino, 14 euro): «Solo l’eco – querula – del mare / lontano risponde ai suoi lamenti amari». Molti dei nuclei semantici occidentali, forme verbali della nostra mente, strutture del pensiero, nascono da qui: l’isola deserta, in cui perdersi e chissà forse ritrovarsi; l’angoscia dell’abbandono, quando non abbiamo più nessun supporto, né pratico, né spirituale; il tradimento degli amici, ai quali avevamo concesso tutta la nostra fiducia. Parliamo di terre devastate, steccati piantati nel fango per delimitare il nostro regno, navi che si allontanano dopo averci scaricato in miseri anfratti, grotte abitate da rettili dove la nemesi divina celebrerà i suoi fasti senza darci modo di comprenderne il senso. Non sarebbe azzardato supporre che perfino Joseph Conrad, sul finire del diciannovesimo secolo, nel Negro del Narciso, uno dei suoi romanzi più simbolici, immaginando la segregazione di un marinaio ammalato nella cuccetta del mercantile, considerato malefico portatore di disgrazie, avesse inteso, neppure troppo velatamente, rendere implicito omaggio all’immortale eroe greco. Il quale, rammentiamolo in breve sintesi, venne lasciato da Odisseo sull’isola di Lemno, ancora oggi estrema propaggine egea di fronte alla costa turca, a causa della ferita procuratagli da un serpente («trafitto dal marchio feroce di vipera assassina»), che presto si era trasformata in una piaga fetida e purulenta. Il povero reietto, respinto dall’equipaggio quale segno sciagurato delle peggiori congiunture, non aveva potuto far altro che accettare la tragica sorte: «Solo, separato dagli altri uomini, / per compagni animali irsuti o screziati; / tra i dolori, la fame e le sue grida, / degno di compassione, / e sopportando angosce senza rimedio». Senonché, come rivelato da Eleno, l’oracolo, «infallibile indovino», soltanto l’arco in possesso di Filottete, dono di Eracle, avrebbe potuto battere gli achei. Odisseo, deciso a recuperare lo strumento dell’agognata vittoria, si affretta dunque a spedire sull’isola Neottolemo, figlio di Achille, chiedendogli di usare la menzogna pur di ottenere il vantaggio assicurato dalla magica arma: «Per l’onestà ci sarà tempo dopo». Il giovane retto («preferisco, mio signore, / fallire agendo da onesto che vincere da vile»), sente sulle proprie spalle il peso di questa cinica deliberazione. Dopo aver visto l’infelice prigioniero, prova pietà per lui e si trova di fronte a un dilemma apparentemente insolubile: scegliere un’azione giusta uscendo dal gruppo dei sodali, oppure compiere un’azione scaltra condannando l’innocente. Da che mondo è mondo, uscire in campo aperto, mostrando le proprie volontà, non provoca consenso, ma sempre dissenso, cosicché l’isolamento è certo: non tutti sono in grado di reggerlo. Il cielo in Sofocle, come ha sottolineato la maggioranza dei commentatori, è inesorabilmente basso, cupo, muto, privo di conforti provvidenziali, non offre soluzioni, anche per questo i ritratti umani dei personaggi coinvolti, definiti dal Coro, emergono alla maniera di bassorilievi indelebili. Pensiamo al cinismo di Odisseo: «Ogni occasione richiede certi uomini / e lì ci sono io: opportunamente». La tracotante sicumera di questa dichiarazione continua a lasciare stupefatto chiunque non voglia rinunciare a sognare un mondo migliore di quello che vede. Come dimenticare Filottete, sventurato protagonista, costretto a vivere sulla battigia cibandosi di pesci e uccelli, «senza amici e senza patria… / morto ancora nel mondo dei vivi»? «Irti scogli, anfratti sul mare, animali dei monti / allora siete voi la mia sola famiglia, / e le pietraie scoscese le sole / a cui possa rivolger la parola». Là dove la comunità sociale s’eclissa, consunta e sfilacciata dalle medesime tensioni che hanno contribuito a fondarla, l’individuo ferito e scartato, alla maniera di un frutto avvelenato, rischia di tornare a conoscere una condizione bestiale, riprovando su se stesso l’alba livida e rancida dell’umanità scellerata. Fino ai propositi suicidi: «Volando dall’alto in basso, da scoglio a scoglio, / la mia testa sarà sangue sulla pietra». Ecco il vero testamento di Sofocle, composto e rappresentato nel 409, all’età di novant’anni. Da una parte egli racconta il vuoto assoluto di chi non ha più appoggi fra i compagni ingrati: l’uomo sconsolato vaga sulla spiaggia arroventata bruciandosi gli occhi sotto il sole nella vana speranza di veder comparire prima o poi qualche vascello all’orizzonte; dall’altra il grande drammaturgo, senza farsi distrarre dal possibile fascino del Robinson ante-litteram, sentenzia di fatto la necessità ineludibile di ripristinare gli accordi violati, pena lo smarrimento e il deliquio. Anche l’intervento finale risolutivo di Eracle, che entra personalmente in scena mostrando la sua forza irrefrenabile, andrebbe riscattato dalla tipica svalutazione di stampo novecentesco che gli attribuisce una semplice funzione meccanica, forse senza valutare appieno lo spessore poetico insito nel Dio che, a causa della diatriba sorta fra i contendenti, si è sentito sollecitato a prendere posizione: «È per te che, lasciata la mia sede celeste, / giungo qui a dirti i voleri di Zeus». Nel compito dell’amicizia attiva e sapiente assegnato a Filotette e Neottolemo, entrambi chiamati a superare la discordia in nome del superiore bene comune da preservare, c’è qualcosa di più potente rispetto a quello che potrebbe essere un semplice programma da eseguire. Si sente quasi il presagio di un mondo nuovo, quando gli uomini diventeranno finalmente consapevoli di non poter vivere da soli. «Tu senza di lui non puoi conquistare Troia / né lui senza di te. / Ma come due leoni che fianco a fianco / vanno alla caccia, vegliate l’uno sull’altro: / tu su di lui e lui su di te». Eraldo Affinati

Giuliano Aluffi per “il Venerdì di Repubblica” il 9 maggio 2021. Lockdown e smart working hanno cancellato le serate con gli amici e i pranzi con i colleghi a cui siamo più legati? «Attenzione: la qualità dei rapporti potrebbe deperire rapidamente. Meglio trovare occasioni per vedersi e, in mancanza d’altro, ben vengano aperitivi o cene virtuali su Zoom». A dirlo e Robin Dunbar, docente di Antropologia dell’evoluzione all’Università di Oxford e grande esperto di amicizia: nel suo famoso saggio Di quanti amici abbiamo bisogno (Raffaello Cortina, 2011) individuo il numero massimo di relazioni sociali stabili che si possono avere in 150 (poi definito il numero di Dunbar). Ci è arrivato studiando la relazione tra la dimensione dei gruppi sociali dei primati, uomo compreso, e la grandezza dei loro cervelli. Piu neuroni si hanno, più si riescono a tenere a mente le caratteristiche di ogni membro del proprio gruppo e il modo migliore per mettersi in relazione con quello, che e precondizione per l’amicizia. «La correlazione tra numero di amici e dimensione di certe aree cerebrali vale ancora oggi per ognuno di noi» spiega Dunbar. «In studi condotti insieme alle neuroscienziate Penny Lewis e Joanne Powell abbiamo mostrato che le persone che dichiarano di avere più amici hanno una corteccia prefrontale più ampia: e l’area cerebrale legata alla “mentalizzazione”, ovvero a capire il punto di vista altrui, e alla capacita di trattenere i propri impulsi, preziosa per andare d’accordo con gli altri». Tanta organizzazione cerebrale ci permette di articolare le nostre relazioni secondo vari livelli di intimità e confidenza: quelle che Dunbar chiama le cerchie dell’amicizia e di cui parla nel nuovo saggio, Friends: Understanding the Power of Our Most Important Relationships (Amici, capire il potere delle nostre relazioni più importanti, Little Brown). «Queste cerchie si formano in base al modo in cui distribuiamo il nostro tempo con gli altri», spiega. «Studiando una ricca selezione di società – che va dagli abitanti di Dundee (Scozia) agli agricoltori del Nepal e ai pastori Masai dell’Africa occidentale – posso dire che la persona media dedica grosso modo il 20 per cento del suo tempo di veglia (circa 3,5 ore) alle interazioni sociali». Queste avvengono pero su livelli diversi, che Dunbar ha rappresentato con cerchi concentrici: «Il numero massimo di facce a cui associamo un nome e 1.500, cinquecento sono i conoscenti (persone con cui prenderemmo una birra dopo il lavoro, ma che non inviteremmo alla nostra festa di compleanno no), 150 quelle che ci sforziamo di contattare almeno una volta all’anno, 50 quelli che contattiamo almeno una volta ogni sei mesi, quindici gli amici-parenti che sentiamo almeno una volta al mese e cinque le persone a cui siamo emotivamente più vicini (io le chiamo “le spalle su cui piangere”) e che contattiamo almeno una volta a settimana. All’incirca il 60 per cento del nostro tempo sociale e riservato a tutti coloro che rientrano nella cerchia dei 15». «I confini di queste cerchie emergono dai nostri comportamenti socia- li, ad esempio dalla frequenza con cui su Facebook postiamo commenti dove specifichiamo il nome di una persona» spiega l’antropologo. «Ma pressochè gli stessi numeri spuntano anche se si categorizzano gli amici sulla base del- la frequenza con cui li si chiama al telefono. Lo conferma uno studio della Aalto University finlandese, che ha esaminato 1,9 miliardi di chiamate effettuate da 33 milioni di adulti». Le cerchie dell’amicizia vengono da lontano: riproducono strutture sociali che si sono formate nei lunghi tempi dell’evoluzione umana, quando si passava tutta la vita in comunità piccole, dove vedersi di persona era la norma. «Oggi le nostre cerchie sono geograficamente molto più disperse, e riescono a mantenersi salde grazie a telefono e internet» spiega Dunbar. «Ma rimangono alcuni fenomeni che testimoniano l’importanza del- la prossimità, come la “regola dei 30 minuti” trovata dai sociologi canadesi Barry Wellman e Diane Mok: in media se dobbiamo viaggiare per più di 30 minuti per vedere qualcuno che non sia un amico intimo o un parente stretto, questo riduce di molto il nostro desiderio di farlo». Wellman e Mok hanno trovato che gli incontri iniziano a diradarsi oltre gli otto chilometri, con un secondo brusco calo dopo 80 e un terzo calo netto a 160. «Curioso e che ciò valga anche ai tempi dello smartphone: i dati delle compagnie indicano con chiarezza che chiamiamo più spesso chi vive più vicino a noi». Esiste poi un singolare effetto di compensazione, che evidenzia la necessita di una costante manutenzione delle relazioni: «Kunal Bhattacharya della Aalto University ha trovato, sempre dai dati di telefonia mobile, che quando chiamiamo uno dei nostri 50 “buoni amici”, la telefonata e tanto più lunga quanto più tempo e trascorso dall’ultima volta che ci siamo sentiti. E cosi che si recupera la qualità emotiva delle amicizie» spiega Dunbar. Ciascuno di noi ha poi un modo personale di coltivarle, che Dunbar ha definito “impronta sociale”. L’ha de- dotto seguendo un gruppo di studenti universitari tramite questionari e analisi del traffico telefonico. «Nel contattare gli amici ognuno segue uno schema caratteristico: c’è il migliore amico trenta volte alla settimana e chi solo dieci. La cosa sorprendente – che mi fa parlare di “impronta sociale” – è la stabilita di questo schema. Mi spiego: se in una settimana io chiamo 20 volte il mio migliore amico Mark e 5 volte John, e poi, per qualsiasi motivo, magari perchè Mark si sposa e ha meno tempo per me, le loro posi- zioni nella mia cerchia di amicizie si invertono e John diventa il mio migliore amico, probabilmente chiamerò lui 20 volte a settimana, e 5 volte Mark. Insomma rimane pressochè invariato il modo in cui distribuisco il mio tempo tra gli amici, indipendentemente da chi essi siano». Un altro fattore importante e la personalità: «Gli introversi preferiscono dedicare maggiori quantità di tempo a un numero inferiore di amici. Gli estroversi invece puntano a costruire più relazioni, ma poi riservano meno tempo a ciascuno. Il risultato e che questi ultimi faticheranno di più a trovare qualcuno che corra in loro aiuto nel momento del bisogno». Già, perchè l’amicizia richiede impegno: «I dati ci dicono che bastano pochi mesi, in media sei, di assenza o disinteresse per farci scivolare nelle cerchie più esterne dei nostri amici». Insomma, quando, dopo un incontro fortuito al supermercato con qualcuno che non vedevamo da tempo, ci salutiamo dicendo con aria ispirata “dobbiamo assolutamente prenderci un caffe. Sentiamoci presto”, sarebbe meglio farlo davvero. Anche perchè gli amici sono anche una polizza sanitaria: «Le attività che facciamo insieme a loro – in particolare quelle che coinvolgono la musica – stimolano la produzione di endorfine, gli “ormoni della felicita” che tengono attivo il sistema immunitario» spiega Dunbar. «Mentre la solitudine pare associata a una minore resistenza a virus e batteri: Sarah Pressman, della Carnegie Mellon University, ha trovato che le persone che frequentano un numero di amici tra 4 e 12 hanno risposta immunitaria inferiore a chi ne frequenta più di 13».

·        Gli Influencer.

Il sondaggio rivelatore. Influencer avvoltoi: per il 62% degli italiani “vogliono solo visibilità”, ma alla maggioranza piace che parlino di politica. Gianni Emili su Il Riformista il 17 Novembre 2021. La maggioranza degli italiani vede di buon occhio le prese di posizione da parte degli influencer (Fedez, ma non solo) su temi di carattere politico. Secondo il sondaggio di Quorum per YouTrend, svolto tra il 3 e il 5 novembre su un campione di 1000 cittadini italiani maggiorenni, queste prese di posizione sarebbero un fatto positivo per il 57% degli intervistati. Il 30%, invece, le reputa un fatto molto (11%) o abbastanza (19%) negativo. La maggioranza relativa degli italiani (43%) dichiara inoltre di rimanere indifferente di fronte alla pubblicazione sui social di una presa di posizione da parte degli influencer, ma quasi un terzo (31%) afferma che troverebbe ciò interessante, contro un 18% che ne sarebbe al contrario infastidito. Ma il dato forse più interessante riguarda le opinioni relative alle motivazioni di tali prese di posizione: ben il 62% degli italiani, infatti, ritiene che queste abbiano come principale obiettivo quello di ottenere visibilità mediatica: più del doppio di chi (ed è il 28% del campione) ritiene invece che gli influencer prendano posizione perché credono nelle battaglie che decidono di portare avanti.Gianni Emili

Pago per i followers e divento influencer. L’acquisto di "seguaci" è una pratica diffusa ma scorretta: cosa non si fa per raggiungere la fama sui social. Valeria Chichi su Il Quotidiano del Sud l'1 novembre 2021. Più di un influencer lo ammette “off the record”, cioè in via confidenziale: quella dell’acquisto di followers è una pratica piuttosto comune tra le matricole, cioè tra coloro che sognano di diventare star del web e sono agli inizi della “carriera”. I primi 100K, il primo pugno di followers che comunemente fa fare il salto da persona qualunque con un account social a influencer appetibile per le aziende che vogliono investire su di lui, spesso è gonfiato con seguaci acquistati a pagamento. Chissà se anche Charlie D’Amelio o Kim Kardashian o Chiara Ferragni hanno ceduto alla tentazione di giocare sporco e aumentare la loro community con followers comprati durante la loro carriera? Loro certo non lo hanno mai raccontato, perché appunto, secondo il codice etico dei social network acquistare followers, soprattutto profili fakes, è vietato dalle policies aziendali. Le sanzioni previste sono la sospensione del profilo, e per le trasgressioni più gravi, anche la sua cancellazione. Il fatto è che, appunto, il numero dei followers è un parametro fondamentale, valutato dalle aziende quando decidono di fare un investimento in pubblicità sul profilo di una starweb. Infatti conquistare un follower significa essere credibile agli occhi della persona che c’è dietro quell’account, averne ottenuto la fiducia ed esercitare su di lei un’influenza che la trasforma in potenziale cliente di prodotti pubblicizzati e garantiti dall’influencer. L’alterazione volontaria del numero di followers e del traffico dei likes confonde i brand. Ciononostante in Italia la compravendita di followers non è illegale grazie alla generale deregolamentazione del settore. E quindi, comprando followers si trasgredisce alle regole dei social, ma non alla legge. Per accumulare followers occorre molto impegno: tempo, pazienza, originalità per emergere in un mondo dove la concorrenza è vastissima e agguerrita. Per cui, l’acquisto di followers è uno degli escamotage più utilizzati tra chi tenta di bruciare le tappe senza troppo fatica. Farlo, del resto, è una tentazione a portata di click. Innanzitutto esistono una serie di app gratuite che, come spiega il guru online dell’informatica Salvatore Aranzulla in un articolo dedicato: «Permettono di avere più seguaci a patto che tu stesso diventi seguace di altri utenti. Inoltre, dopo aver acquistato un pacchetto di follower, potrebbero passare diversi minuti o addirittura alcune ore prima che tu veda aumentare il numero dei tuoi seguaci su Instagram. I seguaci ottenuti con questo genere di applicazioni, inoltre, potrebbero smettere di seguirti da un momento all’altro». Tra le app che cita Aranzulla, che comunque sconsiglia in modo assoluto le pratiche di aumento fittizio di followers, ci sono Real Followers Pro (Android) una soluzione gratuita che permette di “comprare” pacchetti di followers con alcuni crediti virtuali. «Come per “magia”», continua Aranzulla, «il tuo profilo Instagram inizierà a popolarsi di nuovi seguaci che, come te, sono diventati seguaci di qualcun altro al fine di ottenere nuove monete virtuali spendibili in follower». In ogni caso, per entrare nella giungla delle offerte di followers finti, e si è disposti anche a pagare (poco), basta digitare nel campo delle ricerche Google “Comprare followers” per trovarsi di fronte a un mondo. Il sito followeritaliani.it promette pacchetti di follower “garantiti” e assicura: «Siamo attivi dal 2011. I nostri servizi sono stati utilizzati dai principali personaggi dello spettacolo e vips. Garantiamo la migliore qualità possibile a livello mondiale». Invece, piulike.com recita così: «Come ben saprai ottenere follower Instagram non è semplice, specialmente partendo da 0 o comunque da una rete di contatti molto contenuta. Spesso infatti gli utenti di Instagram tendono a seguire profili con molti followers, perché ritengono che tali account meritino di essere seguiti. Lo stesso non vale invece per gli account che hanno pochi seguaci. Nonostante i contenuti di un profilo Instagram siano estremamente interessanti, quasi sempre se non ha abbastanza followers, non viene seguito. Non preoccuparti, oggi è possibile aumentare facilmente la propria fanbase Instagram grazie ai nostri servizi! Ora ti starai chiedendo: perché dovrei affidarmi a Piulike? Perché siamo un’agenzia di comunicazione in Italia attiva da 15 anni, abbiamo aiutato Influencers, cantanti, personaggi di spicco a espandere la propria immagine e visibilità sui social». Instaboom.eu afferma: «La nostra tecnologia basata su intelligenza artificiale crea interazioni naturali all’interno di Instagram ( followers / likes/ views) in modo tale da far crescere il tuo account come lo faresti tu, dedicandogli 4/5 ore al giorno. Senza robot, senza account falsi. Tutto naturale». L’offerta per l’acquisto di followers online è lunghissima. Il prezzo dei followers su questi siti è irrisorio, inoltre viene garantita una incrementazione della fanbase spalmata nel tempo in modo da non diventare “sospetta” e l’assoluta discrezione e facilità di pagamento. Spesso dietro ai followers acquistati ci sono i cosiddetti bot: software in grado di generare traffico e interagire con messaggi e click come se fossero persone davanti a una tastiera, grazie all’intelligenza artificiale. Solo che i bot possono ripetere queste operazioni instancabilmente, per milioni di volte. I bot servono essenzialmente ad attirare l’attenzione di altri account con persone reali per cercare di strappare loro un like, un commento, o riuscire a farle diventare followers. Chiaramente, i social hanno messo a punto dei software sempre più sofisticati per contrastare l’uso di bot e il traffico non umano, un fenomeno intorno al quale gira un’industria di proporzioni enormi. In ogni caso su Internet è possibile trovare guide alla carriera per influencer che tra le regole per spopolare sui social, come: pubblicare con regolarità, prendere spunto dai contenuti popolari, interagire con la community e indicizzare i contenuti con hashtag corretti, ritengono un buon punto di partenza la pratica dell’acquisto di followers. Ma ci sono modi per guadagnare followers anche in maniera autorizzata: ad esempio quelli gestiti dalle piattaforme social, avvalendosi di inserzioni a pagamento come quelle offerte da Facebook o da Twitter che veicolano utenti reali sui propri commenti e contenuti. Costa di più ma consente di ottenere seguaci che interagiscono efficacemente online. Quindi c’è anche un’altra via: affidarsi ad agenzie di social media marketing che offrono l’assistenza nel percorso di crescita dell’account ricorrendo all’analisi del profilo, consigliando il tipo di contenuti in base al target di riferimento e “insegnando” i trucchi per sponsorizzarli al meglio. Una via per diventare influencer di certo più onerosa. Certo, la domanda nasce spontanea: ma ne varrà la pena?

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2021. «Time», dicesi la famosa rivista americana, ha inserito Harry Windsor e Meghan Markle tra le cento persone più influenti del pianeta, in una lista che comprende scienziati, economisti, capi di governo, stelle della musica e leggende dello sport. Le loro facce forzatamente pensose e generosamente ritoccate campeggiano addirittura su una delle copertine. La domanda sorge spontanea, avrebbe detto il ben più influente Aldo Biscardi. Perché? Cos' hanno fatto, di grazia, le Loro ex Grazie, per meritarsi un simile onore? Risposta: «Hanno dato voce a chi non ne ha (sarò sordo, ma non me n'ero accorto) e non si limitano a parlare, ma si lanciano in battaglia». In battaglia? E quali battaglie avrebbero combattuto, questi due ultrà del privilegio, al di là delle iniziative di beneficenza che accomunano l'intero jet set internazionale? Quale merito ci sarebbe nel far parte di una famiglia reale e poi nell'uscirne sbattendo la porta, per incassare i proventi di una popolarità acquisita esclusivamente in virtù dell'appartenenza a quella famiglia? Direte: ma perché ti accalori tanto? Perché mi dispiace che la fuffa patinata eserciti ancora un fascino così grande. Perché ci sono persone, anche dell'età di Harry e Meghan, che con le loro imprese influenzano davvero le persone che li circondano, ma non sono abbastanza «glamour» per intercettare la curiosità di una piccola frangia di rabdomanti mediatici sganciati dalla realtà che si arroga il diritto di decidere chi piace agli altri.

 Daniela Mastromattei per "Libero quotidiano" il 13 settembre 2021. «In futuro tutti saranno famosi per quindici minuti». Andy Warhol lo aveva capito già tanti anni fa. Aveva intuito che quel desiderio di celebrità sarebbe diventato un chiodo fisso, ma forse non aveva previsto l'influencermania. Blogger che spuntano come funghi. In Italia non ci sono solo Cristiano Ronaldo con 300 milioni di follower (qualcuno meno dopoil suo recente addio alla Juventus) e Chiara Ferragni con 24,8 milioni, anche se qualcuno fa notare la sottile differenza: il primo è seguitissimo perché è un calciatore campione del mondo, la seconda perché sul "vendere la propria immagine" ha costruito una professione e un impero. Di narcisisti a caccia di consensi è pieno il mondo e molti avendo fiutato il business provano la strada della bionda imprenditrice virtuale di Modena che deve tutto al suo «desiderio di voler apparire», come lei stessa ha rivelato: «Mi sono sempre fotografata tantissimo... Mi piaceva vedere la reazione della gente». E a soli 22 anni il debutto a Los Angeles con il suo blog TheBlondeSalad.com che le ha cambiato la vita. Era il 2009 da noi, l'attività di influencer era ancora sconosciuta. «I primi inviti alle sfilate li ho ricevuti nel 2010: non mi sembrava vero», ricorda la Ferragni. È successo tutto di colpo, non ero pronta, mi arrivavano proposte di brand che non mi piacevano e dire no era difficilissimo». Oggi quello che tocca si trasforma in oro. E sì che può permettersi di rifiutare di esibire i marchi che non le stanno simpatici, di non badare alle critiche di chi pensa che le sue recenti foto in lingerie con gli slip trasparenti siano «indecenti», consapevole di determinare i gusti di mezzo mondo. Per questo le aziende la corteggiano e la pagano profumatamente affinché indossi le scarpe col tacco sotto la tuta sportiva o le sneakers con l'abito da sera. Idee bizzarre che lei trasforma in tendenza, subito ripresa dall'esercito di fan pronto a seguire Chiara in capo al mondo. Non a caso nel 2017 Forbes l'ha incoronata personaggio più influente nel campo della moda. Ferragni, fenomeno di costume studiato anche nelle università americane, ultimamente però è stata sorpassata da Khaby Lame uno degli influencer italiani più forti al mondo con 110 milioni di fan su Tik Tok e 40 milioni su Instagram che lascia tutti senza parole con i suoi esilaranti siparietti. Il giovanissimo Khaby ha vissuto 20 anni nelle case popolari di Chivasso e ha fatto ogni tipo di lavoro, dal lavavetri al cameriere e ora i suoi video sono seguitissimi (piacciono pure a Mark Zuckerberg che ha messo un like) e le aziende se lo contendono. Come entrare in questo mondo? La prima mossa è aprire un profilo social (Facebook, Twitter, Instagram, Tik Tok ecc.) su cui pubblicare i propri selfie ritoccati ad arte, tanto di vero nel mondo virtuale c'è quasi nulla. Per attrarre e moltiplicare i follower molti ricorrono alle foto in costume da bagno o in biancheria intima (i maschi lo fanno mostrando pettorali e dintorni). Gli sguardi ammiccanti da soli non bastano, per raggiungere il maggior numero di persone si utilizza l'hashtag (nella lingua inglese "hash" si riferisce al simbolo del cancelletto "#" mentre "tag" significa parola chiave) che indirizza il post verso gruppi tematici. Per esempio, se il cancelletto viene messo prima della parola "lusso", ogni volta che sui social si cerca quel termine emerge il profilo di chi l'ha utilizzato. Seguire i personaggi famosi, commentando a destra e a manca, è importante per avere visibilità. I più furbi cominciano a seguire migliaia di persone a caso, per essere ricambiati. Poi, invece di ringraziare, smettono di seguire i follower. Alcuni se ne accorgono e abbandonano a loro volta, altri, più distratti, restano. Il giochetto può andare avanti all'infinito, per smettere quando il numero dei follower, come per magia, inizia a crescere spontaneamente. A quel punto si iniziano a seguire solo pochissime persone, selezionatissime. C'è pure chi compra migliaia di follower (finti), ma è un campo che non ci interessa. Le aziende sono molto attente al fenomeno e vanno a caccia di influencer che più li rappresentano per tipologia di follower (sensibili ad accogliere determinati prodotti). I nano influencer (dai mille ai 10mila follower), invece vengono ignorati e allora si propongono loro ai brand per uno scambio merce: indosso il tuo tailleur e tu me lo regali, metto le foto sul mio profilo del tuo albergo e in cambio mi offri un soggiorno. Lo sa bene Anna Penello, 25 anni, regina degli influencer di Padova con 239mila follower che racconta nel libro "Influencer mania" di Omar Rossetto e Mariasabella Musulin: «Ho aperto il mio profilo su Instagram circa 7 anni fa e ho cominciato a pubblicare foto dei miei outfit. Gli scatti spesso me li faceva mia sorella davanti al muro di casa prima che uscissi. Sono arrivata a 10mila follower in pochi mesi ed ero super entusiasta. Ho cominciato con delle collaborazioni, tutte in scambio merce. Io ero contenta perché mi regalavano una t-shirt o un braccialetto in cambio di una foto e per me già questo era surreale ma mi piaceva». Poi sono arrivati i "procuratori", che sanno riconoscere le blogger dalle uova d'oro: «Sono stata contattata da un'agenzia che si occupava solo di blogger e influencer, mi ha offerto un contratto e da lì ho cominciato a lavorare e a raddoppiare le mie collaborazioni con i brand e a percepire uno "stipendio"». Intanto sui social qualcuno precisa: non sono loro ad essere dei bravi influencer, siete voi tutti (o quasi) ad essere facilmente influenzabili.

Michele Serra per "la Repubblica" il 13 settembre 2021. Pare sia in corso, in Cina, un giro di vite contro i siti web dei fan club delle popstar (in italiano sarebbe: contro le pagine in rete gestite dai circoli di ammiratori dei cantanti e degli attori più popolari. Vedi come l'inglese ci frega, sempre, per capacità di sintesi). Come ogni censura, anche questa si fonda sulla presunta immoralità del bersaglio. E va detto, ammesso che la cretinaggine sia una forma di immoralità, che il fan club di una popstar sembra fatto apposta per attirare gli strali della censura senza che nessuno se ne dia troppa pena (a parte, ovviamente, il fan club e la popstar). Diciamo che la cretinaggine è come un San Sebastiano che fa di tutto per meritarsi le sue frecce. Beh, proprio qui sta il problema. Finché si tratta di censurare il grande artista o l'intellettuale scomodo, tutti sono capaci di indignarsi. Ma la libertà di parola, e di pensiero, non è garanzia di qualità. È anche libertà di minchiata, di melensaggine, di cuoricini, bacetti, glorie da un centesimo, piccole cose di pessimo gusto e di calibro infimo. La libertà ha un prezzo, e il prezzo è esattamente quello che stiamo pagando qui in Occidente: qualità bassa, perché "la parola a tutti" vuol dire che il vaglio è molto largo, e lascia passare, in caduta libera, anche tonnellate di robaccia. A parte l'apologia della violenza (che va sempre stroncata, a Pechino come a Viterbo o a Chattanooga), tutto il resto va difeso dalla censura. Non è la sorveglianza di un potere occhiuto che può salvarci: è la lotta quotidiana dell'intelligenza (di massa) contro la cretineria (di massa). Non esiste altra strada. Dunque ci tocca difendere la libertà del fan cretino della popstar burina, in attesa che, nel corso dei secoli, si accorgano di esserlo.

Emiliana Costa per leggo.it il 24 luglio 2021. Khaby Lame, classe 2000, è nato in Senegal ma vive a Chivasso dall'età di un anno. Rimasto in cassa integrazione durante il lockdown, ha iniziato a realizzare video esilaranti su TikTok. Oggi è l'italiano più seguito su Instagram e con oltre 84milioni di follower è il secondo TikToker al mondo. E dopo aver raggiunto la vetta dei social, qualcosa di nuovo bolle in pentola... Un video con Will Smith? Racconta tutto ai microfoni di Leggo dal Giffoni Festival.

(ANSA il 23 luglio 2021) - GIFFONI VALLE PIANA, 23 LUG - Alla fine "gli hater sono i fan numero uno, ti seguono più di tutti, fanno subito le critiche se per loro qualcosa non va, chi c'è meglio di loro". E' una delle risposte con le quali il 21enne Khaby Lame, senegalese arrivato con la famiglia in Italia quando aveva un anno, cresciuto a Chivasso, diventato in poco più di un anno un fenomeno mondiale del web (è il secondo Tiktoker più popolare al mondo, con oltre 90 milioni di follower), dimostra humour e intelligenza, rispondendo ai giornalisti nella sua prima visita al Giffoni film Festival dove ha incontrato i giovani giurati. Proprio a inizio pandemia un anno e mezzo fa, Khaby, che aveva da poco perso il lavoro, ha deciso di iniziare a postare brevi divertenti video muti che hanno subito conquistato gli internauti: "Mi è venuto istintivo, c'è alla base solo una grande passione per il cinema che ho fin da bambino. Ho deciso di non parlare proprio per poter comunicare con tutti". La sua fulminea popolarità è stata recentemente raccontata anche da un profilo sul New York Times, ma lui tiene i piedi per terra: "E' una cosa che mi ha riempito il cuore, mai avrei pensato di arrivare a testate come quella". E' nato, tutto per gioco, " nei mesi di pandemia, quando chiusi in casa c'era solo da giocare con i videogiochi… mai avrei pensato di avere così tanti follower". Khaby nelle interviste o in alcuni video ha affrontato anche temi come il razzismo, il Black Lives Matter e il non avere la cittadinanza italiana ma a Giffoni, almeno con i giornalisti, preferisce restare sul lato più leggero del suo successo: "Sto facendo quello che mi piace, sto creando il mio sogno, e un sogno non spaventa mai. La crescita è stata veloce, ma non mi sono montato la testa, spero di rimanere la stessa persona". Dopo aver fatto tanti lavori, da quello in fabbrica ad addetto per Amazon, "in cui non mi sentivo me stesso", ora "voglio studiare inglese" e poi mi piacerebbe entrare nel cinema "ma so che ci vuole tanta preparazione".

Emanuela Griglié per “la Stampa” il 3 luglio 2021. Vietato ritoccare. Basta labbra carnose, pelle di porcellana, gambe lunghe come autostrade. C' è una nuova legge in Norvegia che vieta agli infuencer di condividere sui social foto (promozionali) rielaborate senza dichiararlo, pena multe salatissime. Passata con 72 voti a favore e solo 15 contrari, si tratta di un'iniziativa che il governo del Paese scandinavo ha fortemente voluto nel tentativo di frenare almeno un po' la diffusione di ideali di bellezza irrealistici e irraggiungibili, che rendono soprattutto le donne sempre più insicure del loro aspetto. Del resto, già da un paio d' anni si parla di «selfie dysmorphia», l'alterazione della percezione del proprio aspetto fisico causata dalle tantissime foto che ci si fa col cellulare che sarebbe collegata all' aumento della richiesta di filler e interventi estetici. Ecco allora la decisione norvegese di «bollare» con un apposito marchio quelle immagini in cui le dimensioni del corpo, la forma o il colore della pelle del soggetto ritratto sono state alterate digitalmente o anche solo tramite l'applicazione di filtri. La legge riguarderà per ora solo gli annunci pubblicitari o le foto utilizzate a fini promozionali, ma includendo anche quelle condivise da influencer e celebrità «per ricevere qualsiasi pagamento o altro beneficio», su Facebook, Instagram, Snapchat, TikTok e Twitter. Norma che è arrivata dopo mesi di dibattito sulla «kroppspress», letteralmente la pressione per avere un certo aspetto fisico, per rientrare in determinati canoni, e degli effetti che questo comporta sulla salute mentale delle persone, soprattutto tra gli adolescenti. «La pressione sull' aspetto fisico è una realtà: sul posto di lavoro, a casa, nei vari media», scrive il ministero dell'Infanzia e della Famiglia norvegese in una nota, «è sempre presente, spesso impercettibile, ed è difficile da combattere. Abbiamo deciso che questo tipo di pubblicità dovrà essere etichettata in futuro, perché le foto manipolate producono un'immagine del corpo distorta. Vogliamo che i bambini e i giovani si accettino l'un l'altro per quello che sono». Molti influencer norvegesi hanno sostenuto il disegno di legge con entusiasmo e in alcuni casi vorrebbero addirittura che fosse esteso a tutti i post indiscriminatamente, non solo alle pubblicità. «I filtri dovrebbero essere qualcosa di divertente, di cui puoi ridere o perché ti piace l'idea di avere una farfalla sul viso», ha dichiarato l'influencer Annijor Jørgensen al quotidiano locale Verdens Gang, «non dovrebbero servire a creare un falso ideale di bellezza». Tuttavia, fatta la legge restano i dubbi. Tanti. Intanto che non sarà facilissimo applicarla, perché dimostrare che una foto è stata modificata o no non è sempre così semplice. Il ministero ha anche sottolineato che una conseguenza involontaria potrebbe essere che gli influencer si sentano spinti ad atti più estremi, sostituendo i filtri con gli interventi di chirurgia estetica «per sentirsi comunque all' altezza». Quella delle foto ritoccate, però, non è mica un'invenzione di Instagram: i photo editor delle riviste hanno sempre modificato le foto delle modelle e delle attrici per soddisfare meglio standard estetici impossibili. La novità è che ora ognuno può farlo con le proprie foto e con pochi tocchi sul telefono. E poi, il mondo dei social è globale e per definizione senza confini. Ma queste regole si applicheranno solo ai post creati in Norvegia, quindi gli utenti norvegesi continueranno comunque a imbattersi in foto manipolate di influencer e celebrità straniere. E in quella che sul «New Yorker» Jia Tolentino, già autrice del libro sui social e i loro inganni Tricky Mirror, definisce «la Instagram Face». Constatando come si sia affermato, tra donne belle in modo professionale, un unico volto cyborg. «È un viso giovane, ovviamente, con la pelle senza pori e gli zigomi carnosi e alti. Occhi da gatto e lunghe ciglia da cartone animato, un naso piccolo e labbra carnose. Ti guarda senza espressione», scrive l'autrice. È la faccia di Kim Kardashian West, Bella Hadid, Emily Ratajkowski e Kendall Jenner, che ormai si assomigliano tutte. Un filtro Instagram vivente.

L'influencer che partorirà in diretta su OnlyFans: guadagnerà 12mila euro. Le Iene News il 04 luglio 2021. Carla Bellucci, influencer e modella del Regno Unito, ha deciso di trasmettere il parto del figlio in diretta su Onlyfans: guadagnerà circa 12 mila euro. Il nostro Nicolò De Devitiis ci ha raccontato cos’è e come funziona questo social network esploso durante la pandemia. Più di diecimila euro per trasmettere in diretta il parto del figlio: Carla Bellucci, influencer del Regno Unito, ha fatto parlare di sé per una decisione fuori dal comune. La modella - secondo quanto riportano i media di gossip britannici - ha accettato la proposta di un fan e deciso di trasmettere il lieto evento a pagamento su Onlyfans. Si stima che l’incasso sarà di circa 12mila euro. “Sono una donna d’affari e ho bisogno di fare soldi. Io sono il mio business”, ha detto la stessa Carla Bellucci che, dopo l’annuncio della gravidanza, racconta di aver vissuto “uno dei miei mesi migliori. Ho ricevuto addirittura richieste per vendere il mio latte materno, che non sapevo nemmeno fosse una cosa fattibile”, ha raccontato al Daily Star. Ma che cos’è e come funziona OnlyFans, il social senza censura esploso durante la pandemia? Ce lo ha spiegato Nicolò De Devitiis, nel servizio che potete vedere in testa a questo articolo, incontrando chi su Onlyfans è protagonista: personaggi famosi come la pornostar Malena, ma anche persone e ragazzi comuni. È esploso soprattutto tra pandemia e lockdown. Il meccanismo è semplice: non c’è censura e quindi qui vengono condivisi anche foto e video di nudo (e non solo), ad alto contenuto erotico. Per vederli bisogna pagare un abbonamento a chi li posta. Perché guardarli qui? Sono “esclusivi”, cioè non si trovano altrove. Non solo, possono essere anche fatti su richiesta tra aste, mance e messaggi privati degli utenti, da cui passano i contenuti più “preziosi” e su misura (piedi compresi). C’è anche chi paga per l’intimo usato o solo per fare una chiacchierata. La migliore spiegazione arriva però, come potete vedere nel servizio qui sopra, dalle parole e dai racconti dei protagonisti da Malena a Paolo Patrizi, da lo spogliarellista Demo a Elena, Naomi, Martina, tre classiche "ragazze della porta accanto". Tutti ci tengono a difendersi da alcune accuse. Di “vendersi”: “non c’è nulla nuovo e di strano”, di non pagare le tasse: “si pagano tutte”, anche se si guadagna bene. Con un consiglio da Malena: va bene divertirsi, ma siate sicuri prima di condividere ogni foto perché cancellarle poi sarà impossibile.

Da Khaby Lame a Chiara Ferragni: quanto guadagna un influencer? I prezzi per ogni post. Le Iene News il 05 luglio 2021. Si può guadagnare da 50 euro per un post su Facebook fino a 60mila euro se si hanno oltre 5 milioni di seguaci su TikTok. Una società di strategia e comunicazione digitale ha stilato il listino prezzi con quanto potrebbe guadagnare ciascun influencer in base al suo numero di fan totali. Con Matteo Viviani avevamo parlato di influencer marketing assieme a chi lo fa ogni giorno Quanto guadagna un influencer in Italia? Dipende da vari fattori, dal numero di follower e dalla piattaforna: da Facebook a YouTube passando per Instagram e TikTok. A questa domanda prova a rispondere DeRev, società di strategia e comunicazione digitale, che ha stilato un vero e proprio listino prezzi. Che cosa ci sia dietro a ogni singolo post ne avevamo parlato con Matteo Viviani assieme ad alcuni influencer proprio nelle settimane in cui Instagram aveva annunciato di voler oscurare i like, come potete vedere nel servizio qui sopra. Pochi giorni fa Khaby Lame ha superato nel numero di follower Chiara Ferragni diventando l’influencer italiano con più seguaci. L’ampiezza della propria fanbase assieme all’engagement rate e al tasso di conversione è una delle variabili per classificare ogni singolo utente e di conseguenza il suo potenziale guadagno. Si va da un nano influencer con almeno 10mila follower a una celebrity con oltre 5 milioni di seguaci. Ogni parametro però varia in base al social di riferimento: da Facebook che è quello in cui è più difficile guadagnare fino a TikTok passando per YouTube e Instagram. "Abbiamo molti riferimenti per il mercato estero, soprattutto americano che sono assolutamente distorti per l’Italia, e nessuno specifico per il nostro Paese”, spiega il ceo di DeRev, Roberto Esposito. “Inoltre, in Italia confondiamo ancora la figura del content creator con il vip, quando invece i social sono abitati da migliaia di influencer che non sono famosi se non presso il proprio pubblico, spesso di nicchia e molto fidelizzato”. Ma vediamo nel dettaglio quanto si può guadagnare. Per guadagnare su Facebook in base alla classifica di DeRev è necessario avere più fan rispetto agli altri social: un nano influencer che ha tra i 10mila e i 25mila follower può ottenere da 50 euro fino a 250 per un post. Il guadagno aumenta all’aumentare dei follower: al top della piramide ci sono le celebrity con oltre 3 milioni di seguaci e guadagni fino a 15mila euro a post. Di sicuro vengono più pagati i video rispetto alle foto. Ed ecco allora che il listino prezzi cambia totalmente nel mondo di YouTube. Già con 5mila follower si può essere un nano influencer e guadagnare fino a 1.000 euro a post. Le celebrity invece con oltre 1 milione di seguaci possono arrivare anche a 50mila euro per un solo video. Invece su Instagram e TikTok ci sono gli stessi guadagni rapportati al numero di follower: si va da 250 euro per un post di un nano influencer con 10mila seguaci fino a 60mila euro per chi conta oltre 5 milioni di fan. “Questo listino è nato perché vuole essere una bussola per gli stakeholder, ma anche una mappa per chi ha il desiderio di saperne di più su come stiamo evolvendo e come funzionano i meccanismi che, in quanto follower e potenziali consumatori, ci vedono protagonisti”, spiega Esposito. Con Matteo Viviani avevamo abbiamo approfondito l’influencer marketing, ovvero la pubblicità fatta sui social network dagli influencer appunto. Abbiamo intervistato tre di loro: Kokeshi, Emanuele Ferrari, in arte “Emi’s Life” e la modella Zoe Cristofoli potete ritrovare le loro testimonianze nel servizio in testa a questo articolo. 

Quanto guadagna davvero un influencer? Pier Luca Santoro su La Repubblica il 2 luglio 2021. DeRev, società di strategia e comunicazione digitale, che ha redatto il primo listino dedicato al mercato italiano dell'influencer marketing. Di influencer e influencer marketing si parla molto, spesso anche a sproposito: molti pensano che fare l'influencer possa essere un lavoro, nonostante sia notizia di questi giorni che Khaby Lame, il cosiddetto re di TikTok, che ha superato anche Chiara Ferragni per numero di follower, in realtà guadagni ben poco. Alla base di tutto questo, c'è un equivoco di fondo: si confonde la popolarità con l'influenza. Come abbiamo scritto anche di recente, ci sono seri problemi sia di trasparenza sia di frodi ai danni delle imprese, degli enti e delle organizzazioni che utilizzano gli influencer, in maniera più o meno strutturata e adeguata. Tornando alla domanda che dà il titolo a questa pagina, se la si fa a Google si ottengono 576mila risultati in meno di mezzo secondo: per provare a mettere un po' di ordine sulla questione, arriva un'analisi di DeRev, società di strategia e comunicazione digitale, che ha redatto il primo listino dedicato al mercato italiano dell'influencer marketing; naturalmente è necessario tenere in considerazione che si tratta di valori indicativi, che forniscono indicazioni di massima. DeRev, partendo dalla classificazione degli influencer sulla base di 3 fattori analitici (numero di follower, Engagement Rate e tasso di conversione) ha ponderato i risultati finali compenetrando i dati per piattaforma e tipologia di collaborazione: il tariffario riporta un range di compenso medio in cui un influencer oscilla a seconda della complessità del contenuto richiesto e del suo grado di autorevolezza presso il proprio pubblico. Stando ai dati riportati nell'analisi, gli influencer di Facebook appaiono davvero come i più poveri: un Mega Influencer (scalino più alto della classifica) può sperare di guadagnare non oltre 5mila euro a post, ben lontani dai 25mila di YouTube o dai 15mila di Instagram e TikTok; i livelli Mid-Tier e Macro Influencer possono guadagnare da 750 a 2500 euro a post, sino a migliaia di euro. Sono decisamente più bassi i compensi medi previsti per Micro e Nano influencer: è uno dei tanti paradossi del cosiddetto influencer marketing, visto che in realtà tutti gli studi e le analisi dicono che sono proprio coloro che hanno un seguito relativamente ristretto ad avere maggiore credibilità e a generare maggior coinvolgimento. Infine, va tenuto conto che, su qualsiasi piattaforma, il costo di un post oscilla nel range di riferimento sulla base del tipo di collaborazione, ovvero se si tratti di semplici forme di brand ambassador e affiliazioni, o di quelle più complesse come branded content (unboxing compresi), campagne continuative e takeover (in cui l'influencer gestisce direttamente i canali aziendali per un periodo di tempo predefinito). Secondo una ricerca di Iab Europe e TikTok for Business, il cosiddetto creator marketing ha raggiunto nuovi massimi in Europa lo scorso anno con un investimento totale superiore a 1,3 miliardi di euro. E ora tutte le piattaforme social inseguono i creator e l'entusiasmo per gli influencer inizia a scemare. Comunque sia, i dati di DeRev possono fornire indicazioni massima utili agli investitori pubblicitari per sapere se stanno pagando il giusto prezzo e a Nano e Micro influencer una base per la contrattazione del compenso.

In diretta. Report Rai PUNTATA DEL 11/01/2021 di Giuliano Marrucci. Sono passati dieci anni da quando PewDiePie, il più famoso youtuber al mondo caricava la sua prima clip che lo riprendeva mentre giocava ai videogiochi. Oggi i suoi video sono stati visti circa 26 miliardi di volte e si stima che a fine 2020 abbia guadagnato poco meno di 60 milioni di dollari. Il gaming è un settore in continua crescita che ha esplorato, negli anni, nuove forme di espressione. Di recente abbiamo assistito a un esodo di influencer che da Youtube sono passati al meno noto Twitch. Con il 90% delle ore complessive di livestreaming, la piattaforma di proprietà di Amazon non ha rivali nel settore. Report ha provato a ricostruire i motivi del successo creando un canale ad hoc, e ha individuato le numerose lacune finanziarie che ancora affliggono il settore del gaming. Quanti soldi ha perso l’erario italiano per non aver creato un codice Ateco rivolto agli streamer?

“IN DIRETTA” Di Giuliano Marrucci Collaborazione Eleonora Zocca Immagini Giovanni De Faveri Montaggio Gabriele Di Giulio

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. C’è chi ha trasformato il fatto di passare ore e ore della propria vita a giocare in un mestiere, ha messo a frutto l’abilità nel gioco. Sono i gamer. Da un decennio sono le star indiscusse del web, che hanno trovato anche il modo di incassare decine e decine di milioni di dollari o di euro. In parte sono pagati dalle società per le quali veicolano l’immagine del prodotto che utilizzano, dall’altra accumulano attraverso i like da influencer perché svelano i trucchi per vincere al gioco che praticano. Però rimanendo al nostro sguardo, quello di Report, la domanda è: ma le pagano le tasse? Il nostro Giuliano Marrucci.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Lui è lo youtuber più famoso del mondo. Si chiama PewDiePie, e 10 anni fa ha iniziato a caricare video di lui mentre giocava ai videogiochi. Oggi ha 108 milioni di iscritti, i suoi video sono stati visti la cifra esorbitante di oltre 26 miliardi di volte, e a fine 2020 si stima avrà guadagnato poco meno di 60 milioni di dollari. Lui invece è il PewDiePie italiano. Si chiama Favij, ed ha iniziato a giocare ai videogiochi su Youtube nel 2012. Oggi il suo canale ha poco meno di 6 milioni di iscritti e oltre 3 miliardi e mezzo di visualizzazioni, che secondo il sito “Youtubers” gli avrebbero fruttato qualcosa tra i 2 e gli 8 milioni di dollari. Oltre Favij, solo in Italia, ci sono almeno altri 10 gamer con oltre un milione e mezzo di seguaci. Come ad esempio Stepny, che ha un canale con oltre 4 milioni di iscritti, e sforna una quantità di video impressionante da ormai 10 anni. Durante i quali, però, non aveva trovato il tempo di aprirsi la partita IVA. Fino a quando due anni fa non gli è piombata in casa la Guardia di Finanza.

BENEDETTO LABIANCA – COLONNELLO NUCLEO DI POLIZIA ECONOMICOFINANZIARIA DI FIRENZE L’evasione che noi abbiamo individuato da parte del soggetto ammonta a circa €600000 di ricavi non contabilizzati e non dichiarati. E, dal punto di vista invece dell'imposta sul valore aggiunto, sfiora i €900000 di volume d'affari ai fini dell'imposta sul valore aggiunto. Nel senso che il contribuente in questo caso non presentava dichiarazioni ai fini Iva.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Si tratta del primo caso in assoluto di indagini della Guardia di Finanza tra i conti di uno youtuber. Stepny nel frattempo ha regolarizzato la sua posizione con l’agenzia delle Entrate, ma questi ritardi hanno sempre un costo.

GIULIANO MARRUCCI C'è un limite alla retroattività in cui si può agire, consiste in…

BENEDETTO LABIANCA – COLONNELLO NUCLEO DI POLIZIA ECONOMICOFINANZIARIA DI FIRENZE In cinque anni.

GIULIANO MARRUCCI Quindi questo, per dire, se si fa un'indagine oggi che siamo nel 2020 si può andare al massimo al 2015.

BENEDETTO LABIANCA – COLONNELLO NUCLEO DI POLIZIA ECONOMICOFINANZIARIA DI FIRENZE Sì.

GIULIANO MARRUCCI Quindi un pochino di soldi di questi primi anni certo ce li siamo un po' persi.

BENEDETTO LABIANCA – COLONNELLO NUCLEO DI POLIZIA ECONOMICOFINANZIARIA DI FIRENZE Certo. Eh, ce li siamo un po’ persi…

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il fatto è che nonostante il fenomeno degli youtuber abbia raggiunto ormai da anni dimensioni consistenti, nessuno si è preso la briga di creare un nuovo codice Ateco ad hoc.

GIULIANO MARRUCCI È così complicato creare un nuovo codice Ateco?

VALERIO VERTUA - COMMERCIALISTA No, non è… non è complicato.

GIULIANO MARRUCCI Chi è che crea i codici Ateco?

VALERIO VERTUA - COMMERCIALISTA Il ministero…

GIULIANO MARRUCCI Quindi il mio prossimo compito è andare al MEF e dirgli: fate questo codice Ateco il prima possibile.

VALERIO VERTUA - COMMERCIALISTA Diciamo che questo sicuramente risolverebbe.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo chiesto al ministero dell’Economia e Finanze la quale ha girato all’Agenzia delle Entrate, la quale ci ha risposto che per quello che riguarda lo youtuber deve inserire il codice Ateco per la dichiarazione dei redditi corrispondente alla “conduzione di campagne marketing” mentre lo streamer, quello che fa le dirette web da casa per intenderci, deve indicare sulla dichiarazione, “attività di produzione cinematografica”. Da tempo c’è chi incassa facendo dirette web, l’Agenzia delle entrate fatica un po’ a stare al passo con i tempi. Ora però c’è un altro fenomeno in evoluzione: il 90% dei live streaming avvengono sulla piattaforma Twitch, che è di proprietà di Amazon. È cominciata una guerra feroce con Youtube, infatti ha rubato i gamer migliori e dentro c’è finita qualche perversione. C’è chi paga solo per vedere quante ore può rimanere sveglio lo streamer. Perversioni, appunto. Però potrebbe essere anche la prova tecnica della televisione del futuro.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Lei si chiama Sara Stefanizzi, in arte Kurolily. Ed è stata in assoluto la prima gamer in Italia a sbarcare su Twitch.

SARA “KUROLILY” STEFANIZZI - STREAMER Di solito faccio dal lunedì al sabato, dalle 14 alle 19, e poi faccio due serate a settimana dove si parla invece di libri e di gioco di ruolo.

GIULIANO MARRUCCI Quindi, alla fine, quanto tempo ti porta via?

SARA “KUROLILY” STEFANIZZI - STREAMER Eh, sono 6-7 ore al giorno, circa, solamente di parte in cui sono in streaming. Poi c’è tutta la parte dietro ovviamente di aziende, collaborazioni…

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Un altro che vive sulla piattaforma è Wesley, meglio noto come Los Amigos, streamma direttamente dal suo mini-loculo dove in una manciata di metri quadrati sono condensati cucina, studio e camera da letto.

GIULIANO MARRUCCI E senti, quante ore ci passi qui dentro?

WESLEY "LOS AMIGOS" JOSUÈ CAICEDO LUQUE - STREAMER Eh, tante, tante…….

GIULIANO MARRUCCI Tra streammare, fare i video, giocare……

WESLEY "LOS AMIGOS" JOSUÈ CAICEDO LUQUE - STREAMER Tante, però ho tutte le comodità. Quindi… Se devo mangiare mangio, se devo riposare riposo, c’ho tutto.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Costretti a stare relegati nei loro loculi senza sosta, i giovani streamer devono fare anche parecchi investimenti. Lei è Roberta Sorge, in arte Ckibe.

GIULIANO MARRUCCI Eccoci qua nel tuo…

ROBERTA “CKIBE” SORGE – STREAMER Il mio antro buio dove accade la magia… voilà!

GIULIANO MARRUCCI Wow! Cioè, ma questo è veramente il paradiso del nerd.

ROBERTA “CKIBE” SORGE – STREAMER Ho due postazioni: la postazione principale che è questa qui, dove appunto faccio giochi, disegno. Qui invece faccio cose molto fighe, tra cui costruire quelle figure che hai visto dietro.

GIULIANO MARRUCCI Investimento totale per uno studiolo come questo?

ROBERTA “CKIBE” SORGE – STREAMER Tantissimo.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Roberta è una delle prime streamer che in realtà nemmeno gioca. Disegna. Le emoticon. Come queste. In diretta. E c’è chi se la guarda per 3, 4 ore al giorno.

ROBERTA “CKIBE” SORGE – STREAMER Siamo persone vere che interagiscono con altre persone vere. Se dici ah, vabbè, ma ok, c’era già Youtube, c’erano già i social. Non così tanto. Così è proprio mega potente. È proprio un tipo di cultura che non è più in mano a dei media dove siamo passivi, ma è in mano a persone vere che tu puoi scegliere se guardarlo o non guardarlo, ma puoi anche dirgli: Io non sono d'accordo, Io sono d'accordo, Cosa ne pensi di questa cosa, e secondo me è rivoluzionario.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Insieme a Sara abbiamo chiesto al suo pubblico quante ore in media passano attaccati a twitch.

SARA “KUROLILY” STEFANIZZI - STREAMER Wow! Sto vedendo, sto vedendo un 5+ che va proprio fiuuuuuuu… Per ora guarda, siamo a un 45% che segue più di 5 ore al giorno. Mi pare comunque che abbia abbondantemente vinto la parte che segue più di 5 ore. Wow!

GIULIANO MARRUCCI Son tante eh…

SARA “KUROLILY” STEFANIZZI – STREAMER 45 per cento. Eh sì, sì, sì!

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il modello è stato importato dalla Cina, dove il mercato delle piattaforme di live streaming è enormemente più sviluppato.

DA “PEOPLE’S REPUBLIC OF DESIRE” - DOCUMENTARIO, CINA, 2018 Sembra che il live streaming sia diventata la principale tendenza dell’internet cinese. Le star del settore possono arrivare a guadagnare fino a 200 mila dollari al mese. Grazie per tutto quello che mi avete regalato negli ultimi 3 anni: macchina, casa, una famiglia.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Queste sono Douyu e Huya, le principali piattaforme cinesi di live streaming dedicate ai videogiochi. Sono entrambe di proprietà di Tencent, che è la più grande azienda videoludica del mondo, e che ora ha intenzione di fonderle in un’unica piattaforma da oltre 300 milioni di utenti mensili, più del doppio di Twitch. Ma i videogiochi sono solo la punta dell’iceberg. Questa è YY (waiwai), che è considerata in assoluto la più vecchia piattaforma di live streaming al mondo. Sono per lo più ragazze giovanissime rese un po’ tutte uguali dalla chirurgia plastica, che si prodigano tra un karaoke e un balletto ammiccante. Ma ultimamente vanno molto di moda anche queste sterminate dirette in esterna dai villaggi più sperduti, a partire da quelle sulla tipica pesca col cormorano. Questa invece è Taobao, del gruppo Alibaba. È seguito da circa 800 milioni di utenti e ospita decine di migliaia di canali, che fanno una cosa soltanto: vendono. Di tutto.

MATTEO LUPETTI – GIORNALISTA ESPERTO DI VIDEOGIOCHI Qua in occidente siamo ancora più a un concetto di web 2.0. in cui ti do la piattaforma e tu ci fai quello che vuoi. In Cina, le piattaforme, invece, davvero lavorano come se fossero dei canali televisivi: lottano per i presentatori migliori, organizzano un loro palinsesto di eventi speciali, organizzano reality, organizzano i talent…

GIULIANO MARRUCCI E da cosa guadagna lo streamer?

MATTEO LUPETTI – GIORNALISTA ESPERTO DI VIDEOGIOCHI Quasi unicamente dalle donazioni. Eccoli, questi sono virtual gift, che non sono nulla. Cioè, sono animazioni e oggetti digitali che gli utenti regalano allo streamer, e sono il fondamento dell’economia delle piattaforme di live streaming cinesi.

GIULIANO MARRUCCI E quanto valgono?

MATTEO LUPETTI – GIORNALISTA ESPERTO DI VIDEOGIOCHI Possono costare pochissimo. Possono arrivare a costare 2000 dollari.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Da noi invece, stando al sondaggio che abbiamo fatto in diretta con la nostra Kurolily…

GIULIANO MARRUCCI Quanti soldi date in donazione in media nell’arco di un mese?

SARA “KUROLILY” STEFANIZZI – STREAMER Oddio! Stanno che zero… Tipo fiuuu…allora, abbiamo l’81% che dona zero…

GIULIANO MARRUCCI Tirchi!

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ovviamente c’è chi incassa, visto che negli ultimi tempi è in corso un vero e proprio esodo di influencer verso la piattaforma di Amazon, Twitch. Prima è stato il turno di pesi massimi di Youtube come Pow3r, Jakidale o Yotobi. Ma da poco è sbarcato Fedez. La Ocasio Cortez ci ha organizzato un pezzo di campagna elettorale. E ora sono arrivate anche pornostar internazionali del calibro di Mia Malkova, Sasha Grey, e anche la nostra Valentina Nappi. Milano. Porta Romana. Spazio Filippetti. In questo gigantesco seminterrato nel cuore della città le hanno provate tutte: un bagno turco, un club esclusivo, uno spazio multifunzionale per eventi. Tutto finito in malora. Fino a che non sono arrivati David e soci, che lo stanno trasformando nella cattedrale italiana del gaming e dello streaming.

DAVID DALL’AGLIO - EVOX E questo è un po’ il cuore.

GIULIANO MARRUCCI E qua cosa ci viene?

DAVID DALL’AGLIO – EVOX Eventi, workshop, tornei…

GIULIANO MARRUCCI E ci sono altre situazioni come questa?

DAVID DALL’AGLIO – EVOX Di questa dimensione e di questa importanza, siamo i primi a fare una scommessa così importante.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO David è partito dal classico scantinato appena 4 anni fa, con una delle prime agenzie italiane dedicate esclusivamente all’universo dei gamer.

DAVID DALL’AGLIO – EVOX Oggi Twitch, un 30% è tenuto in piedi da talk show di musica, di arte, di intrattenimento. Ed è quella che cresce di più.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Grazie alla sua esperienza, in meno di un’ora, abbiamo allestito il necessario per la nostra prima diretta: “La mia prima live – spiegate twitch a un boomer”.

GIULIANO MARRUCCI Ci siamo? Quello sono io? Su Twitch? In quanti ci stanno vedendo, ora? Uno o due? Mia mamma no.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO In 4 ore e mezza di diretta si sono alternate una serie di celebrità della piattaforma. Paolo Cannone è un campione di League of Legends. Marco Merrino è famoso anche perché ogni tanto gli prende il matto e spacca qualcosa. Homyatol è celebre per le sue interminabili dirette in esterna, continuamente preso d’assalto da orde di fan. E poi lui: Gennaro, in arte GSkianto - che in diretta ci vive.

GIULIANO MARRUCCI La tua maratona durante il primo lockdwon quanto è durata?

GENNARO “GSKIANTO” CHIANTESE - STREAMER Cinquantacinque giorni, ma adesso sto ancora in un’altra maratona. Oggi è il 55esimo giorno.

GIULIANO MARRUCCI Ah, quindi domani hai battuto il record?

GENNARO “GSKIANTO” CHIANTESE – STREAMER Sì.

GIULIANO MARRUCCI La notte? Cioè… Nel senso, un po’ dormirai. Non so se dormi di notte, di giorno…

GENNARO “GSKIANTO” CHIANTESE – STREAMER Sì, dormo in live. Io quando dormo, per svegliarmi, uno può donare per svegliarmi, questo.

ANDREA “HOMYATOL” HAKIMI - STREAMER Io gliene avrò date 100, 200 per svegliarlo.

GENNARO “GSKIANTO” CHIANTESE – STREAMER Eh, mi hanno svegliato un sacco di volte, poi partono le bestemmie, partono…

GIULIANO MARRUCCI E questa roba qua ti dà da vivere al momento?

GENNARO “GSKIANTO” CHIANTESE – STREAMER Sì, sì. Non posso dire i guadagni perché da contratto di Twitch non posso dirlo, però si vive.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Con l’aiuto di David e con questa carrellata di personaggi mi aspettavo il botto. E invece, ecco le statistiche: poco più di 200 spettatori in media.

GIULIANO MARRUCCI Cioè quindi un flop totale!

MATTEO LUPETTI – GIORNALISTA ESPERTO DI VIDEOGIOCHI No, io direi di no! Per un primo streaming, ci sono persone che streammano per anni con uno spettatore su Twitch, prima di avere una propria comunità, non la troveranno mai! Duecento spettatori medi è un ottimo risultato.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Il fatto è che su Twitch bastano pochi numeri. Chiunque abbia un abbonamento prime su Amazon può infatti fare una sottoscrizione gratuita al canale del suo streamer preferito, e Amazon gli riconosce 3 euro e 50. E così, con un migliaio di seguaci, ecco fatto uno stipendio. A queste condizioni è normale che ci sia la coda. Ma quanto potrà mai durare? E se a un certo punto Amazon, dopo aver monopolizzato il mercato, decidesse di staccare la spina? Torniamo da Kurolily, e dai suoi sondaggi in diretta.

GIULIANO MARRUCCI Quindi la domanda è: quanti di voi che oggi sottoscrivono il canale di Kurolily se dovessero quel canale pagarlo extra, di tasca loro, continuerebbero comunque a farlo.

SARA “KUROLILY” STEFANIZZI – STREAMER Questa cosa mi spaventa molto! Allora, dice no il 55%. Che è la maggioranza…

GIULIANO MARRUCCI Vuol dire dimezzare le subs.

SARA “KUROLILY” STEFANIZZI – STREAMER Sì… Per me sarebbe un disastro, sarebbe veramente un disastro, cioè chiudo baracca e burattini.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un disastro perché ha mostrato quanto sia effimero e anche precario. Per l’industria invece è una furbata perché riescono a veicolare a costo zero, sulle spalle dello streamer, il loro prodotto. Ma tutto quello che abbiamo visto è una bolla o potrebbe essere la televisione del futuro? Lo streamer può diventare l’editore di se stesso? Sembra una domanda un po’ azzardata, però essendo questa piattaforma in mano ad una potenza come Amazon, la domanda è lecita. Anche alla luce delle esperienze che abbiamo visto recentemente dove la rappresentante democratica americana Alexandria Ocasio-Cortez ha realizzato la sua campagna elettorale attraverso le dirette web, e poi anche l’esperienza di Hasanabi, che ha fatto questa diretta in questi giorni, il 6 gennaio quando ha raccontato l’insurrezione, gli attacchi a Capitol Hill, ha realizzato 3 milioni di visualizzazioni, numeri da televisione generalista. Insomma, tutto questo deve far pensare. Certo è che lo streamer fa una vita da prigioniero in casa.

·        Privacy: la Privatezza.

Infelicità da condividere. Nell’era esibizionista, l’eccezione è il famoso che non parla della propria malattia. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 novembre 2021. A quanta privacy hanno diritto le persone famose come Virgil Abloh? È ancora concesso non pubblicare sui social il proprio referto medico? Quando è arrivata la notizia della morte di Virgil Abloh, stavo illustrando a interlocutori troppo educati per zittirmi la teoria che ho sviluppato senza aver passato neanche un giorno nelle aule di medicina ma in compenso moltissimi a scorrere Instagram: non è possibile che le sinapsi di gente abituata a filmarsi da mane a sera, a vivere in diretta, a non potersi permettere una giornata non fotogenica, non è possibile che quelle sinapsi lì non siano mutate rispetto a quelle di noialtri che le saponette andiamo a pagarle alla cassa del supermercato invece di taggarne il produttore che così ce le omaggia. Morire a sorpresa fa impressione sempre, è un fatto cui seguono telefonate «ma tu lo sapevi?» anche tra gente che il defunto lo conosceva solo di nome (e che però si sente comunque esclusa: è morto senza dirlo a nessuno nessuno, o sono solo io la figlia della schifosa che non è stata informata?). L’impressione è maggiorata quando il defunto era famoso: i famosi – noi non famosi ne siamo convinti da sempre, forse persino da prima di Taylor&Burton – ci devono qualcosa. Devono pagare il fatto d’essere più ricchi, più belli, di vivere vite più comode delle nostre, e devono pagarlo con la scomodità massima: la rinuncia a ogni privatezza. Come si permettono d’ammalarsi di nascosto? Il famoso può morire a sorpresa solo se è un incidente: John Kennedy jr. sì, Nora Ephron no. Queste erano le regole d’ingaggio fino a un decennio fa. Avevamo superato i dieci anni di Grande Fratello e ancora vivere in diretta ci sembrava una perversione per pochi. C’era un pieno di persone normali convinte di non essere come quegli sciamannati della televisione, di non voler vivere su un set con le telecamere anche in bagno. Poi è arrivato Instagram, e le telecamere abbiamo iniziato a portarcele in bagno senza neanche che fossero imposte dalla produzione televisiva. Per esibizionismo in purezza, mica per contratto. L’anno prossimo sono dieci anni che Nora Ephron è morta di nascosto. Non sapevano che fosse malata neanche gli amici abbastanza cari da essere stati da lei precettati a tenere le orazioni funebri (come si riconosce una donna di carattere: non ti dice che sta morendo da viva, e t’impone di lodarla da morta). Forse la misura di quanto sei benvoluto è la disponibilità degli altri a tenere i tuoi segreti. Se sei famoso e neanche un medico, un infermiere, il parente d’un altro ricoverato, nessuno ti vende a un rotocalco, forse muori lo stesso, ma almeno riesci a non farti in pubblico l’anticamera della morte: già morire è una scocciatura, almeno la possibilità di farlo con discrezione dovrebbe essere garantita. A meno che, appunto, tu non faccia parte di quella mutazione per cui avviene davvero solo ciò che avviene in pubblico. La sorella di Chiara Ferragni ha di recente raccontato su Instagram d’avere un tumore della pelle. Poteva non raccontarlo? Forse no: se vivi fotografandoti, e ti asportano un bozzo dalla fronte, i punti di sutura devi in qualche modo spiegarli al tuo pubblico. Certo, potresti dirgli che ti sei fatta un bernoccolo inciampando. Ci crederebbe: il pubblico crede a tutto, specie quello che si sente abbastanza furbo da non credere a niente. Se vivi in pubblico sei tenuta a morire in pubblico? Se sei sana in pubblico sei tenuta ad ammalarti in pubblico? Se il tuo matrimonio è di pubblico dominio, quando finisce è tuo dovere informarne il pubblico? Come funzionano le nuove regole d’ingaggio? Quando già sapeva che sarebbe morta di lì a non moltissimo, Nora Ephron aveva pubblicato una raccolta di saggi intitolata “I remember nothing”. Uno dei capitoli era la lista delle cose che le sarebbero mancate. Avevamo tutti voluto credere che una settantenne che fa la lista delle cose che le mancheranno da morta fosse semplicemente una che fa i conti con l’età, mica una che è stata diagnosticata incurabile. Reginetta delle ottuse, io per quel libro la intervistai pure: le chiesi di Sarah Palin, mica se stesse per morire (non me l’avrebbe detto, ovviamente; mi avrebbe riso in faccia, ovviamente). Forse la ragione per cui ci fa tanta impressione che qualcuno tenga nascoste la malattia e la morte, anche se siamo gente di prima della mutazione e non ci piace l’esibizionismo, è che abbiamo questa bislacca idea che si possa essere felici da soli, ma che l’infelicità vada condivisa. Ogni volta che sento sospirare, di qualcuno che magari ha avuto un infarto ed è stato ritrovato il giorno dopo, «poverino, è morto da solo», mi chiedo che consolazione sia mai avere qualcuno intorno, mentre muori. Certo, se hai un infarto magari quel qualcuno è utile a rianimarti, ma se muori di qualcosa da cui la compagnia non può salvarti, com’è accaduto a Ephron e ad Abloh, a che ti serve convocare gente al tuo capezzale? A morire pensando «brutti stronzi, voi invece siete ancora vivi».

Divorzia per colpa del video di Gigi D'Alessio. E la Sony la risarcisce. Il Tempo il 26 novembre 2021. Era comparsa casualmente in un videoclip di Gigi D'Alessio mentre passeggiava a Napoli, mano nella mano con l'amante. L'ex marito l'ha riconosciuta e ha chuesti e ottenuto il divorzio. Ma adesso la donna si prende la rivincita in tribunale, ottenendo un risarcimento dalla casa discografica Sony. Dopo che il filmato è stato diffuso e che, di conseguenza, la sua relazione è diventata pubblica, la donna ha chiesto di essere tutelata. Per i giudici è stato “leso il suo diritto alla riservatezza”.  All’epoca dei fatti, il video della canzone "Oj nenna nè" di Gigi D’Alessio aveva riscosso parecchio successo e il Dvd era stato venduto anche insieme a Tv Sorrisi e Canzoni. Per la donna è diventato così un boomerang. La Corte d’Appello – con una decisione condivisa dalla Cassazione (sentenza 36754) – aveva quindi presunto un danno alla lesione del diritto alla riservatezza e alla reputazione. Secondo la Sony c’era un consenso tacito considerando che il video era girato in pubblico. Inoltre, la casa discografica sottolineava che la protagonista della vicenda aveva “soffermato lo sguardo sullo strumento di ripresa per alcuni istanti”. Ma per i giudici quello sguardo poteva rappresentare solo curiosità verso la telecamera. Non era nemmeno stata allestita per l'occasione una preparazione scenografica che facesse pensare si stesse girando un video di D’Alessio. La Sony ha poi provato a puntare sul fatto che la relazione della donna fosse già finita al momento delle riprese (si era separata dal marito qualche mese prima). Ma la Cassazione ha sottolineato che si diventa ex solo dopo il divorzio e che, oltretutto, la prova dell’infedeltà può pesare in caso di scioglimento del matrimonio. 

Patrizia Maciocchi per ilsole24ore.com il 26 novembre 2021. Sony paga i danni alla signora ripresa in un video di Gigi d’Alessio, mentre sta mano nella mano, in una romantica serata napoletana, con un signore diverso da suo marito. Così una relazione extraconiugale diventa di dominio pubblico, in una zona nella quale il Dvd del cantante va a ruba, venduto anche in abbinata con Sorrisi e Canzoni Tv. È la stessa provincia, in cui abita la signora, dove le persone amano molto la musica e sono curiose. Lo scrivono i giudici «laddove la semplice notizia della relazione extraconiugale di una donna, ed ancor più dell’esistenza di tracce materiali visibili di tale relazione, suscitano ampia curiosità». Una popolarità non cercata, dalla quale la Corte d’Appello - con una decisione condivisa dalla Cassazione (sentenza 36754)- aveva presunto un danno alla lesione del diritto alla riservatezza e alla reputazione oltre che morale, per il patema d’animo sopportato. Angoscia dovuta al fatto che, sulle note della canzone “Oi nenna nè”, collegata al videoclip, era diventata di dominio pubblico una relazione sentimentale segreta.

L’assenza di un set esclude il consenso tacito

Per la Sony i danni non erano dovuti, perché si doveva presumere un consenso tacito, come avviene in caso di registrazioni di eventi che si svolgono in pubblico. In più la signora si era accorta di essere stata inquadrata per «aver soffermato lo sguardo sullo strumento di ripresa per alcuni istanti». Ma l’occhiata fugace non basta per desumere il consenso, che deriva solo dalla piena consapevolezza. Era dunque semplice curiosità verso la telecamera. I giudici valorizzano anche l’assenza di una preparazione scenografica, o comunque la sistemazione di mezzi che facessero chiaramente individuare il campo delle riprese e la finalità del video. Senza successo la società ricorrente, fa presente che il menage della signora era già compromesso perché con il suo ex c’era già stata una separazione, qualche mese prima. Ma è un argomento boomerang. La Suprema corte precisa, infatti, che si diventa ex solo dopo il divorzio e che, anzi, la prova dell’infedeltà può pesare in caso di scioglimento del matrimonio, per un eventuale addebito. Quindi la Sony paga. E per quanto riguarda il danno patrimoniale, essendo la donna non nota, la cifra sarà quella che si presume avrebbe potuto chiedere per cedere l’immagine. “Oi nenna nè” “veicolo” dell’informazione che avrebbe dovuto restare riservata, è dedicata, come si legge nel promo «a tutti quelli che hanno scoperto di poter amare ancora». Appunto

Giuliana Sias per editorialedomani.it l'8 ottobre 2021. L’incontro a base di sesso e droga al quale hanno partecipato Luca Morisi, l’ormai ex spin doctor di Matteo Salvini, e almeno altri due ragazzi, due escort di origine rumena, sarebbe stato organizzato attraverso un sito che si chiama Grinder boy. Il nome del sito ricorda, probabilmente non a caso, Grindr, un’app molto più nota che in passato è già finita al centro di fatti di cronaca. Catturando così l’attenzione di un pubblico che in genere ha poca dimestichezza con questo tipo di tecnologie. Ad esempio se n’era già parlato molto all’epoca della morte di Luca Varani, il ventitreenne torturato e barbaramente ucciso nel 2016 a Roma dopo aver partecipato a un “festino”. Ma anche più di recente, lo scorso luglio, quando il vescovo americano Jeffrey Burrill, segretario generale della conferenza episcopale degli Stati Uniti, si era dimesso in seguito a un’inchiesta pubblicata da The Pillar che ha rivelato che Burrill per tre anni, dal 2018 al 2020, ha usato Grindr quasi tutti i giorni. Dimostrando soprattutto quanto possa essere semplice identificare gli utenti iscritti, avere accesso ai loro dati personali e divulgarli senza il loro consenso. Ma cos’è precisamente Grindr? Si tratta di una delle tante applicazioni – scaricabile e navigabile cioè solo da cellulare – che in estrema sintesi servono per rimorchiare. Non è un social network ma un network anti-social nel senso che tende a creare una sfera di persone sicura con le quali potersi incontrare fisicamente: la finalità primaria, infatti, è l’uscita dalla app e l’approdo nel mondo reale. Ma a differenza di altre “dating app”, Grindr ha alcune particolarità: prima di tutto si rivolge esclusivamente alla comunità Lgbt. In secondo luogo la maternità di Grindr è americana (come tutto ciò che si muove dalle parti del capitalismo di piattaforma è nata in California nel 2009, grazie a un’idea di Joel Simkhai e a poche migliaia di dollari) ma nel 2016 è stata acquisita da una società cinese esperta in videogiochi, la Beijing Kunlun Tech Company. Inzialmente la Kunlun aveva acquistato solo il 60 per cento delle quote ma nell’arco di due anni, nel 2018, i cinesi concludono l’acquisizione diventando proprietari anche delle quote residue.

Diventare cinesi. La più grande app per incontri gay finisce dunque a sorpresa nelle mani di un’azienda che ha sede in un paese che ha considerato l’omosessualità un reato fino al 1997 e una malattia mentale fino al 2001. L’operazione commerciale si concretizza quando Grindr viene utilizzata in 197 paesi, è valutata 155 milioni e ha circa 2 milioni di visitatori su base quotidiana che trascorrono una media di 54 minuti al giorno sull’applicazione. Ma soprattutto, e non è un caso, proprio quando Grindr finisce al centro delle polemiche perché accusata di aver violato la privacy dei propri iscritti. Questo scandalo fa il paio con quello dei dati Facebook-Cambridge Analytica, esploso pochissimo tempo prima. Nel caso di Grindr è il sito BuzzFeed a rivelare che la piattaforma ha fornito dati sensibili a Apptimize e Localytics, due società che di mestiere sviluppano software e profilano utenti (cioè analizzano le loro preferenze di acquisto e poi dicono alle altre aziende, loro clienti, «ehi, a questo tizio piace leggere, a quest’altro invece puoi vendere un vino biologico, a quest’altro puoi proporre di comprare un biglietto per Disneyland perché ha due figli molto piccoli»).

Dati sensibili. Gli americani insomma si disfano più che di Grindr del polverone che rischia di investire l’ennesima app gratuita con un costo occulto molto elevato per i suoi clienti: quello del commercio dei loro dati personali. E in maniera molto inquietante la scelta ricade su una multinazionale di Pechino che in questo modo entra in possesso dei dati di un grande numero di persone con orientamento sessuale considerato ancora oggi «immorale» a quelle latitudini. Il principio che regola il funzionamento di Grindr è quello della geolocalizzazione per cui ti mette in contatto con gli altri utenti sulla base dei chilometri, o dei metri, che vi separano, giacché il fine è appunto incontrarsi in carne e ossa mentre lo schermo dello smartphone è solo una vetrina, una porta di accesso al reale. Poi se questo incontro serva effettivamente a conoscersi e fare amicizia o a finire a letto assieme, lo decide ovviamente chi partecipa alla chat. Come avviene in qualsiasi altra applicazione per incontri. Ma a differenza delle app dedicate a un’utenza eterosessuale, Grindr entra in possesso di dati estremamente sensibili, come lo stato di salute dei partecipanti. Iscrivendosi tra i campi da compilare c’è infatti quello che riguarda la propria storia sanitaria, e in particolare la propria situazione rispetto al test Hiv: anche se non è obbligatorio rispondere, né si può stabilire con assoluta certezza che tutti gli utenti dichiarino il vero, è possibile specificare quando hai fatto l’ultimo controllo, se sei sieropositivo, sieronegativo o non rilevabile. In qualche modo, quindi, Grindr effettua una potentissima attività di screening sulle persone Lgbt. Senza contare che chi si iscrive dichiara, più o meno apertamente, il proprio orientamento sessuale, in un contesto sociale che non sempre, e non ovunque, è altrettanto aperto e accogliente nei confronti di gay, trans e bisex. E infatti accedendo all’app, che si apre direttamente su una scacchiera di utenti disponibili a chattare che si trovano nelle tue vicinanze, una certa maggioranza di immagini profilo ritrae corpi privi di teste. «Io le chiamo “le Marie Antoniette”», mi spiega uno dei miei contatti, riferendosi ai tanti che nascondono il loro volto. In questi casi di solito a comparire sono i busti, quasi sempre scultorei. Se si utilizzasse Grindr per condurre uno studio sulla percezione del corpo tra gli omosessuali e sul livello di body shaming presente all’interno della comunità Lgbt di sicuro sarebbe utile rilevare che la maggior parte dei profili presenti è fondamentalmente anonima – nonostante questo dovrebbe essere un luogo sicuro rispetto allo stigma e all’esclusione sociale – ma muscolosa e a torso nudo. Vale a dire che l’app appare poco rappresentativa da un punto di vista puramente fisico della varietà umana che chiaramente compone l’universo omosessuale, che come tutti gli altri universi conta anche corpi non palestrati, imperfetti, eccessivamente magri o sovrappeso. Ciò nonostante l’assenza di fotografie sul proprio profilo non è un deterrente, cioè non compromette la possibilità di ottenere un primo contatto, anzi: io accedo da un account fantasma e in pochi secondi ricevo dieci messaggi. Per circa due giorni, ogni volta che effettuo l’accesso a Grindr, le richieste sono sempre immediate, e numerose. In quasi tutti i casi prima di tutto mi chiedono di inviare in privato una foto. La seconda domanda più gettonata è: cosa cerchi qui? Su una trentina di utenti, solo uno appare disponibile a conversare del più e del meno a lungo, anche senza che gli mostri un volto o parti intime del corpo. Tutti gli altri abbandonano in fretta la chat o insistono per capire se l’utente col quale interagiscono sia disponibile a organizzare un incontro di natura puramente sessuale. Al primo accesso, inoltre, ricevo immediatamente il messaggio automatico di un sito sul quale è possibile prenotare escort. Ma nessun sex worker si palesa su Grindr. Tutto sommato quindi questa app non è diversa da qualsiasi altra app per incontri tra eterosessuali: una certa maggioranza di utenti le frequenta più che per fare conoscenza nel senso più profondo del termine, per fare sesso. D’altra parte una conoscenza ha bisogno di molto più tempo di 48 ore per realizzarsi. Quel che è certo, però, è che la politica sulla privacy qui è particolarmente aggressiva: è possibile dare un minimo di consenso alla profilazione (cioè all’elaborazione dei tuoi gusti, interessi e comportamenti per poterli vendere a terze parti) ma in una delle schermate iniziali Grindr ti mostra un elenco lunghissimo di società partner e di “fornitori” con i quali, salvo tua diversa scelta, condividerà i tuoi dati personali. Infatti quando ti disconnetti inizi a ricevere molte chiamate da parte di call center che vogliono venderti il mondo. Ma si sa, se è gratis, vuol dire che il prodotto sei tu.

Giampiero Mughini per Dagospia il 26 aprile 2021. Caro Dago, quando sento pronunciare religiosamente la parola “privatezza” (e peggio ancora quando ne sento pronunziare il corrispondente inglese privacy) come se fosse un valore da difendere con le unghie e coi denti ho un senso di irritazione. Quando leggo che qualcuno si oppone a che un qualche nostro documento identitario contenga l’informazione che siamo stati vaccinati, penso che la genìa degli imbecilli sia davvero illimitata quanto al suo numero e alle sue modalità di esistenza. Nell’era della comunicazione elettronica la parola “privatezza” ha perduto qualsiasi sua possibile valenza. Lo avrò detto cento volte e lo ripeto, che Amazon mi conosce e conosce i miei gusti cento volte meglio che non Michela, la mia compagna da trent’anni. Stamattina mi è arrivata una mail da Amazon dove, in base alle mie precedenti “abitudini” di acquisto, mi raccomandavano il libro (meritorio) che Filippo Facci ha dedicato a quella famigerata aggressione a Bettino Craxi che stava uscendo dall’albergo romano dove risiedeva. Ebbene è un libro di cui un paio di giorni fa avevo scritto a Filippo che lo avrei comprato appena finito un lavoro che mi stava impegnando molto. E difatti lo avrei comprato domani o dopodomani. Una volta che mi è arrivata la raccomandazione di Amazon l’ho comprato subito. Male che vada mi arriverà domani pomeriggio. Spesso Amazon mi manda una lista di dieci libri che giudica adatti a me. Effettivamente nove li ho già, il decimo lo vorrei comprare. Qualche giorno fa girando per internet mi sono soffermato su un libro che non avevo e di cui non sapevo ma che mi sembrava suggestivo, un libro del 1974 dedicato al celebre Studio Boggeri che a partire dagli Trenta era stato una delle vette italiane in fatto di comunicazione visuale e grafica. Ho guardato e poi sono passato ad altro. Dopo qualche ora mi è arrivata una comunicazione dalla libreria che aveva messo in vendita quel libro. E’ sicuro di non volerlo?, mi dicevano. Ho cliccato e comprato. Alcuni mesi fa ho comprato un whisky da un’enoteca online di cui sono cliente. Dopo una settimana mi è arrivato l’annuncio di una Maison du whisky parigina che offre caterve di quella meravigliosa bevanda, e io ringrazio il cielo che quell’annuncio mi sia arrivato e che la privatezza ai tempi odierni sia una fanfaluca. Siamo costantemente collegati con mezzo mondo, questa è la nostra vita di oggi. Ci offriamo costantemente alla conoscenza e al giudizio di mezzo mondo, come dimostrano i miliardi di post che attengono alla vita privata e che vengono pubblicati minuto per minuto sui social. Affari loro, epperò sono abitudini di tutti o quasi. Stesse a me le telefonate che faccio ogni giorno potrebbero essere trasmesse in viva voce su tutta la piccola via romana in cui abito, dato che non sono mai telefonate a un’amante e bensì a qualcuno dei librai antiquari di cui sono cliente. E a non dire del cambiamento radicale della sensibilità diffusa, per cui tutti mettono in vetrina i loro panni e quelli sporchi e quelli puliti. Nelle interviste che occupano intere pagine dei giornali tutti raccontano per filo e per segno di come sono andate le loro cose di letto con tizio o con caia. Qui io non li seguo, perché quanto alle cose della mia vita personale mai un nome e cognome uscirà dalla mia bocca. Ma questo è un altro tema, tutto un altro tema. Non c’entra affatto la privatezza. C’entra la discrezione e il pudore, due monete divenute fuori commercio.

Giampiero Mughini per Dagospia il 19 settembre 2021. Caro Dago, una tra le più grandi boiate che circolano alla grande nel mondo in cui viviamo è quello della “privacy”, della supposta segretezza assoluta di tutto ciò che riguarda ognuno di noi come persona. Succede ad esempio che io debba fare un tampone ogni volta che vado a guadagnarmi il pane in un set televisivo. Faccio il tampone, mi danno il referto (per fortuna negativo), lo presento al responsabile della trasmissione di cui sono ospite. Ed ecco che quello fa un gesto con la mano a respingere il referto. No, no, è cosa personale alla quale lui non ha il diritto di accedere. E allora? Allora sono io che autocertifico che sono sano come un pesce. Buffoni. Ovvio che nell’era digitale la “privatezza” è una insostenibile utopia. Quelli di Google sanno al centesimo quante volte ho cliccato per andare a vedere i porno dell’attrice americana Envy, da me prediletta su tutte. Sanno quello e tutto il resto che mi riguarda. Non parliamo di Amazon, che mi conosce fino all’ultima sfumatura del mio essere. Stamane mi hanno mandato una lista di dieci libri che loro pensano mi si confacciano. Otto li avevo, uno lo vorrei tanto avere, il decimo (un libro di Michele Mari dal titolo “Milano illustrata”) mi sono precipitato ad acquistarlo da quanto reputo Mari (figlio di Enzo Mari e degno di cotanto padre) uno dei tre o quattro scrittori italiani contemporanei di maggiore e più raffinato risalto. Privatezza? Ma non diciamo sciocchezze. Io metterei il viva voce sulla mia strada quanto alle pochissime telefonate che faccio quotidianamente. Telefonate a promuovere un mio libro, un mio articolo, una mia comparsata televisiva? Mai mai mai. Telefonate roventi a una qualche donzella? Alla mia età sarei puramente ridicolo. Solo telefonate a librai antiquari di cui è appena uscito un catalogo, a chieder loro se quello o quell’altro titolo ce l’hanno ancora.

·        La Nuova Ideologia.

Far temere è potere. La paura è la vera chiave per capire i nuovi equilibri della geopolitica. Dario Ronzoni su l'Inkiesta il 6 novembre 2021. Nel suo ultimo libro pubblicato da Egea, il professor Manlio Graziano analizza il declino relativo dei Paesi di vecchia industrializzazione e le sue conseguenze in termini sociali ed economici. Il problema è che l’inquietudine viene sfruttata da politici senza visione per facili incassi elettorali, senza risolvere mai i problemi che la causano. C’è un sentimento che prevale nella confusione di questi tempi. Determina decisione politiche, favorisce alcuni partiti anziché altri e influisce a definire i nuovi contorni geopolitici globali. È la paura: l’emozione che accompagna il declino relativo dei Paesi di vecchia industrializzazione (compreso il Giappone), alle prese con uno shift of power globale che obbliga a riconsiderare ambizioni, progetti e identità. È la chiave di “Geopolitica della paura. Come l’ansia sociale orienta le scelte politiche” di Manlio Graziano, pubblicato da Egea editore. Secondo il professore, che insegna geopolitica e geopolitica delle religioni alla Paris School of International Affairs di Sciences Po e all’Università della Sorbona, proprio la paura è la più importante delle ripercussioni psicologiche dello slittamento dell’asse geopolitico mondiale: l’economia dell’Occidente è in fase di rallentamento da ormai 40 anni, l’età media delle società è sempre più alta e l’ordine delle cose sta cambiando in modo inesorabile. Il risultato è un’inquietudine diffusa, che attraversa le popolazioni e orienta le risposte della politica. E allora, in un’epoca di soluzioni improvvisate e umorali, serve prima di tutto una buona analisi. «Ci sono analisti che vorrebbero essere anche suggeritori della politica», spiega il professore a Linkiesta. «Sperano cioè di influire sugli eventi. Io preferisco fermarmi prima. Come spiego nel mio libro, tra geopolitica – di cui mi occupo – e politica c’è la stessa differenza che si trova tra matematica e ingegneria. Alla prima toccano i calcoli e le analisi, alla seconda l’azione. Io non ho ricette. Al massimo posso formulare alcune ipotesi». Che il mondo si trovi in uno stato di disarray (disordine, ndr), come diceva prima ancora dello scoppio della pandemia Richard Haass, presidente del Council of Foreign Relations, è ormai evidente: l’ordine nato con Yalta si è esaurito da decenni, la supremazia americana è in fase discendente e i tentativi di restaurarla (riferiti anche negli slogan a un passato già idealizzato) sembrano poco efficaci. Nel frattempo emergono nuove potenze e la maturità delle società occidentali/avanzate è diventata senescenza. La paura prevale, insieme al bisogno di essere protetti: prima dalla globalizzazione, che avrebbe bloccato salari e cancellato posti di lavoro, poi dal terrorismo e dall’Islam in generale, poi ancora dalla pandemia. Si è delineato, anche in seguito alla crisi economica del 2008, una confusa opposizione popolo-élite (su cui hanno prosperato alcuni partiti) che è sfociata anche in scontri violenti, come è avvenuto in Francia con i gilet jaunes. La verità è che, di fronte a una macrotendenza ben precisa, la politica di piccolo cabotaggio ha le armi spuntate. Soprattutto se nel mercato dei partiti c’è chi preferisce assecondare ansie e timori, facendo incetta di voti e vincendo le elezioni con un programma che per forza di cose non può risolvere i problemi. «Secondo alcuni dei miei studenti l’analisi che faccio è pessimista. Ma non direi. Siamo in una fase di transizione storica, più o meno come sono tutte le fasi della storia, solo che questa è più marcata di altre a causa dello shift of power – preferisco la formulazione inglese perché è più esatta. I disordini, in periodi come questo, ci sono sempre. Per orientarsi serve però capire dove ci si trova e cosa sta succedendo davvero. Più ci si illude che certe cose possano essere evitate, più si finisce ostaggio della paura». Sia chiaro, «avere nostalgia è normalissimo. Ma guardare in faccia alla realtà è un vantaggio: ci fa capire quello che si può fare e quello che non si può fare». Piangere sul passato non serve, come non serve evocarlo in slogan di facile presa. Un esempio da manuale riguarda l’immigrazione. La sua percezione è, in generale, negativa. Si cerca di limitarla o in certi casi di impedirla. Eppure, per una società sempre più anziana e che fa pochissimi figli, il contributo degli immigrati è fondamentale, «anche se ancora insufficiente». Anziché opporsi agli ingressi si dovrebbe piuttosto affrontare il problema dal punto di vista demografico, «di cui si parla poco e che invece è essenziale». Le società occidentali, più ricche, vanno verso l’estinzione e non si fa niente per impedirlo. «È vero che l’arrivo di stranieri è sempre problematico e non si può negare il suo impatto sociale: è uno sfasamento rispetto alle abitudini, sia degli individui che della società». Detto questo, però, occorre considerare la gravità della situazione presente. «E non basta dire che gli immigrati sono necessari per la sopravvivenza della società. Occorre agire con un’operazione di contropedale. Serve affrontare il tema in modo strategico». Cosa significa? «Faccio un esempio: il caso delle ultime elezioni tedesche. Come si è notato, il tema degli stranieri è stato pressoché assente dal dibattito dei partiti. Le ragioni sono diverse, ma ha influito senza dubbio la presa di coscienza che, a sei anni dell’apertura voluta da Angela Merkel [il famoso “Wir schaffen das”] i problemi sono stati ampiamente oscurati dai vantaggi. Questo ha fatto cambiare la percezione generale dei tedeschi e, al tempo stesso, quella dei loro politici». Allora perché in Francia, in Inghilterra o in Italia l’immigrazione è ancora un tema caldo? «Serve cambiare la narrazione, con un’operazione dall’alto. In Giappone per anni hanno resistito all’apertura agli stranieri, ma ormai si sono resi conto che non ci sono altre soluzioni. È un problema di sopravvivenza del Paese. È questo che è in gioco. Credo che se tutti i soldi spesi dall’Unione Europea – che sono impossibili da conteggiare – per tenere fuori gli stranieri fossero stati impiegati per organizzare la loro integrazione le cose ora sarebbero diverse. Il Next Generation Ue sarebbe stata un’occasione: del resto i sentimenti europei cambiano anche a seconda di quanti soldi arrivano». In ogni caso, «anche le politiche per la natalità vanno rafforzate. Anche se, si è visto, non danno i risultati sperati, soprattutto in una società ricca e matura: più cresce lo sviluppo, più diminuisce il numero dei figli, lo si vede in tutto il mondo». Il problema, in questo caso, «riguarda l’idea di famiglia, rimasta ancorata a un modello valido 100 anni fa, adatto a un ambiente contadino. Ora è tutto diverso, le donne lavorano, sono inserite a pieno titolo nella società, fanno figli più tardi, hanno aspettative e ambizioni al pari degli uomini. È un aggiornamento sociale cui non è seguito un aggiornamento culturale». Se in passato «il divorzio equivaleva alla bancarotta del nucleo», adesso è una realtà comunissima. «In Francia sono tanti, come tante sono le coppie che scelgono di non sposarsi». Il mondo cambia, ma le idee di una volta restano sospese nell’aria: quasi come una nebbia, offuscano la vista delle cose. Eppure, in questo momento di contraddizioni, si parla anche di coppie che decidono di non fare figli per scelta in nome della lotta al cambiamento climatico. «Credo che la società che decida di non riprodursi per non influire sul clima stia soltanto scegliendo tra due suicidi: uno più veloce e uno più lento». Perché, tra le grandi paure degli ultimi anni, quella del cambiamento climatico è fortissima ed è emersa in modo deciso negli ultimi anni. «Il riscaldamento globale è un fatto, non si può negare». Però, «è evidente che viene trattato attraverso un filtro politico. Dico che, a fronte di un fatto reale, questa accelerazione della drammatizzazione del problema è sospetta». «Per anni si è discusso se emettessero più CO2 le vacche o le industrie; oggi le vacche sono state assolte quasi unanimemente»; eppure «nella fase di blocco mondiale della produzione causata dalla pandemia non si sono registrate diminuzioni significative delle emissioni di CO2, anche se è vero che conta l’accumulo di quanto emesso in passato. Va ricordato che prima di questa serie di campagne, le ragioni delle variazioni delle microfasi climatiche erano misteriose anche agli occhi degli specialisti. A metà del XIV secolo è avvenuta una microglaciazione che, forse, ha determinato lo scoppio della pestilenza, e nessuno sa di preciso da cosa sia stata causata. Si è assistito a un raffreddamento globale fino a metà del XIX secolo, da quando è cominciata une fase di riscaldamento, che però ha conosciuto alti e bassi. Negli anni ’70 gli studiosi del clima erano preoccupati dal rischio di una nuova glaciazione. Ora, a distanza di 50 anni, si è preoccupati dell’opposto». Ma «siccome non sono uno specialista del clima, direi: “chi sono io per giudicare?”»; sul fronte politico, invece, «il discorso è chiaro e lineare. Queste campagne sono nate in Europa e in linea di mira ci sono sempre stati i due maggiori inquinatori del pianeta, la Cina e gli Stati Uniti, competitori dell’Europa. Ci sono investimenti colossali in gioco, con le varie lobby dell’energia schierate le une contro le altre; anche gli ecologisti dovrebbero essere perplessi, perché il nucleare, che produce scarsissime emissioni di CO2, viene oggi riproposto come una delle soluzioni. Ecco, io noto questi elementi, vedo in gioco moltissimi interessi, e tutto ciò mette in prospettiva la narrazione principale, soprattutto quella più catastrofista». E se allora tutto si gioca in questa competizione globale, tra Paesi e tra modelli, uno degli elementi più evidenti di questa fase è la crisi della democrazia. Siamo arrivati al suo esaurimento? «Anche qui, è un problema di prospettiva. La democrazia è, prima di tutto, una forma di organizzazione del potere. Quella nata nel ’700 negli Stati Uniti aveva il principio del “no taxation without representation”. Per i padri fondatori americani serviva un campo dove potessero essere confrontati i diversi interessi della società per trovare quello comune. Il tutto in una società in cui quasi tutti erano portatori di interessi: o come artigiani e commercianti o contadini. Con il tempo quella democrazia proprietaria si è svuotata, la ricchezza è stata concentrata in un numero sempre minore di persone ed è cresciuto il numero dei salariati. La società è cambiata ma è rimasto il guscio di quella struttura, quello secondo cui tutti possono ancora votare e decidere». Se non si ha presente questo sviluppo storico, continua, «una delle conseguenze sono le geremiadi sui poteri forti, o sugli interessi che orientano la democrazia. Che però viene costruita proprio per questo, cioè per conciliarli. L’assenza di riflessioni sul punto ha generato alla lunga una contrapposizione tra portatori di interessi e partigiani della democrazia diretta», i cui riflessi sono ben noti, soprattutto in Italia. In questo scontro di retoriche «la figura del politico ne è uscita malissimo. Tanto che si sono candidate persone che hanno fatto un vanto del non essere politici, da Silvio Berlusconi a Donald Trump, fino al Movimento Cinque Stelle. Invece, prendere decisioni implica avere consapevolezza di ciò che si fa, vuol dire conoscere le cose di cui ci si occupa. Per questo la politica dovrebbe essere fatta da professionisti». Radunando insieme questi argomenti, «alcuni abbastanza tabù nel discorso politico di oggi» forse una strada per uscire dalla crisi si trova. L’analisi c’è. Serve trovare chi riesce a trasformarla in azione. Tenga presente però che la realtà comanda sempre e che, paura o non paura, alle tendenze della geopolitica non si può sfuggire».

Dagotraduzione dal Washington Post il 5 dicembre 2021. Siamo in un'epoca storica di proteste? Un nuovo studio pubblicato giovedì che ha esaminato le manifestazioni tra il 2006 e il 2020 ha rilevato che il numero di movimenti di protesta in tutto il mondo è più che triplicato in meno di 15 anni. Secondo lo studio ogni regione del mondo ha registrato un aumento, e in alcune si svolti i più grandi movimenti di protesta, come le proteste degli agricoltori iniziate nel 2020 in India, le proteste del 2019 contro il presidente Jair Bolsonaro in Brasile e le proteste in corso dal 2013 di Black Lives Matter. Intitolato "World Protests: A Study of Key Protest Issues in the 21st Century", lo studio proviene da un team di ricercatori del think tank tedesco Friedrich-Ebert-Stiftung (FES) e dell'Initiative for Policy Dialogue, un'organizzazione senza scopo di lucro con sede alla Columbia Università, e si aggiunge a un crescente corpo di letteratura sulla nostra epoca di crescenti proteste. Osservando da vicino più di 900 movimenti o episodi di protesta in 101 paesi e territori, gli autori sono giunti alla conclusione che stiamo vivendo un periodo storico come gli anni intorno al 1848, 1917 o 1968 «quando un gran numero di persone si ribellò al modo in cui le cose stavano chiedendo un cambiamento». Ma perché? Qui, gli autori evidenziano un problema particolare: il fallimento della democrazia. La loro ricerca ha rilevato che la maggior parte degli eventi di protesta che hanno registrato - il 54% - è stata provocata dalla percezione di un fallimento dei sistemi politici o della rappresentanza. Nel 28% tra le richieste c’era quella che gli autori hanno descritto come "di democrazia reale". Altri temi includevano la disuguaglianza, la corruzione e la mancanza di azione sui cambiamenti climatici. Ma gli autori dello studio affermano che i politici non rispondono adeguatamente. «Troppi leader nel governo e negli affari non stanno ascoltando. La stragrande maggioranza delle proteste in tutto il mondo avanza richieste ragionevoli già concordate dalla maggior parte dei governi. Le persone protestano per buoni posti di lavoro, un pianeta pulito per le generazioni future e una voce significativa nelle decisioni che influenzano la loro qualità della vita», ha affermato Sara Burke, esperta senior di politica economica globale presso la FES e autrice dello studio. Le proteste significano cose diverse per persone diverse. Lo studio è stato pubblicato la stessa settimana in cui il Washington Post ha pubblicato una massiccia indagine in tre parti sull'insurrezione del 6 gennaio iniziata, in parte, come protesta per le preoccupazioni di alcuni partecipanti, alimentate da teorie cospirative, sulla rappresentanza democratica. Ci saranno anche significative proteste contro il cambiamento climatico alla fine di questa settimana, ma alcuni leader europei temono che i costi dell'abbandono dei combustibili fossili possano innescare un contraccolpo come il movimento di protesta dei "gilet gialli" in Francia. Solo negli Stati Uniti, negli ultimi anni si sono verificate enormi proteste da Occupy Wall Street e Black Lives Matter al Tea Party e alle campagne Stop the Steal. Ma monitorare la portata delle proteste globali è un compito titanico. Altri progetti, come il Global Database of Events, Language e Tone, supportato da Google, hanno analizzato gli articoli di notizie per i dati sulle proteste. Burke, insieme ai coautori Isabel Ortiz, Mohamed Berrada e Hernán Saenz Cortés, ha invece adottato un metodo che richiedeva più tempo. I ricercatori hanno lavorato su mezzi di informazione in sette lingue per identificare proteste e movimenti di protesta, trovando articoli "a mano", come ha detto Burke in risposta alle domande di Today's WorldView. La raccolta da sola rappresentava più di mille ore di lavoro prima ancora che fosse iniziata qualsiasi analisi. Ma le tendenze erano chiare. Nel 2006, lo studio ha registrato solo 73 movimenti di protesta. Nel 2020 ce ne sono stati 251 – più alti anche dopo la crisi finanziaria del 2008 o le rivolte della Primavera araba del 2011. L'Europa e l'Asia centrale hanno visto il maggiore aumento del numero di movimenti di protesta e ci sono state più proteste nei paesi ad alto reddito che in paesi in altre fasce di reddito, ma è stato riscontrato un aumento delle proteste in tutte le regioni e livelli di reddito. (Gli autori hanno tenuto registri dei movimenti di protesta in diversi anni, contrassegnandoli come "eventi di protesta" separati quando sono durati più di un anno per un totale complessivo di 2.809. Ciò non significa che si siano verificate solo 2.809 proteste individuali; altri studi hanno indicato il numero di proteste del Black Lives Matter a quasi 12.000 nel solo 2020.) Oltre ai problemi con la democrazia e la rappresentanza politica, il rapporto identifica la crescente disuguaglianza come un altro tema ampio delle proteste in tutto il mondo: contribuisce a quasi il 53% delle proteste studiate. Le singole questioni sollevate dai manifestanti includevano la corruzione, le condizioni di lavoro e la riforma dei servizi pubblici seguite dalla "democrazia reale", la richiesta più citata. C'è stato anche un aumento significativo delle richieste di giustizia razziale o etnica, come con le proteste di Black Lives Matter, ma c'è stato un piccolo - ma crescente - numero di proteste incentrate sulla negazione dei diritti degli altri, come il movimento di estrema destra "Pegida" in Germania, i movimenti anti-cinesi in Kirghizistan e il movimento dei "gilet gialli". Gli autori dello studio riconoscono che il loro lavoro è intrinsecamente politico. «Non ci sono numeri neutri nelle proteste», ha detto Burke, ammettendo che la vaghezza di alcuni numeri, come le stime sulla dimensione della folla, ha lasciato le voci aperte per l'interpretazione. Anche uno studio basato su Internet è limitato da quanto riportato. «Possiamo solo studiare ciò che possiamo vedere e ciò che possiamo vedere è sempre più influenzato da dove e chi siamo», ha aggiunto Burke. Alla domanda su cosa definisca la "democrazia reale", Burke ha ammesso che era in qualche modo soggettivo: «La democrazia di una persona è l'autocrazia di un'altra persona». Ma lo studio ha cercato di prendere in parola i manifestanti. Per esempio, ha spiegato Burke, la protesta del 6 gennaio 2021 a Washington DC (che non è stata inclusa nello studio perché fuori dal suo arco temporale) sarebbe stata classificata come una manifestazione per la "democrazia reale" ma anche come protesta volta a negare i diritti. La maggior parte delle proteste non è violenta come l'insurrezione del Campidoglio, secondo lo studio, ma c'è stato un lento e costante aumento della violenza tra il 2006 e il 2020, e poco più di un quinto delle proteste registrate coinvolgono qualche tipo di violenza di folla, vandalismo o saccheggio. In quasi la metà delle proteste studiate, ci sono state segnalazioni di arresti; poco più di un quarto ha visto segnalazioni di qualche forma di violenza da parte della polizia. Forse l'argomento chiave dello studio è che con l'aumento delle proteste, i leader dovrebbero prenderle più sul serio. Nello studio circa il 42% delle proteste è andato a buon fine, anche se la percentuale varia in modo significativo in base alla regione e al tipo di protesta, e tenga conto anche di successi parziali. Più aumentano le proteste, più numerose saranno quelle che andranno a buon fine. «Ultimamente le proteste in tutto il mondo hanno avuto una dubbia reputazione», ha detto Michael Bröning, direttore dell'ufficio FES di New York. «Dobbiamo capire che le proteste non sono un comportamento verbale, ma un principio fondamentale della democrazia. Ciò di cui abbiamo bisogno è a dir poco una riabilitazione globale della protesta». 

«Abbiamo incontrato il nemico… e siamo noi». Alessandro Maran, Consulente aziendale, appassionato di politica estera, su Il Riformista il 13 Settembre 2021. Non sono la guerra nucleare o il terrorismo le più grandi minacce per la democrazia americana, scrive Tom Nichols, ma il narcisismo e il nichilismo della gente comune. Insomma, se siamo demoralizzati, preoccupati, o addirittura indignati per lo stato sempre più terribile della nostra democrazia, sgombriamo il campo dai dubbi: il nostro peggior nemico, come dice Nichols, siamo noi. Se la democrazia liberale sta facendo fiasco, la colpa, sostengono i populisti illiberali, è delle élite: globalisti, burocrati, giornalisti, intellettuali, politici. Secondo Nichols, che ha appena pubblicato «Our Own Worst Enemy», sono, al contrario, i cittadini comuni che stanno fallendo la prova della democrazia. Quella di Tom Nichols è una riflessione stimolante sullo stato della democrazia americana che, ovviamente, vale anche per noi: tutto il mondo (occidentale) è paese. «Decenni di continue lamentele», scrive, «mandate regolarmente in onda in mezzo a continui miglioramenti degli standard di vita, alla fine hanno preteso il loro pedaggio». Il nemico, afferma Nichols, siamo «noi». I cittadini delle democrazie, scrive, «devono ora vivere con la chiara consapevolezza che sono capacissimi di sposare movimenti illiberali e di minacciare le loro stesse libertà». Nel libro, Nichols spiega che l’assenza di virtù civiche, unita alle aspettative crescenti degli americani e alla convinzione che tocchi al governo prendersi cura di ogni loro necessità, rappresenta oggi una minaccia esistenziale per il sistema di governo americano. Nichols lo racconta prendendo a prestito una scena di un vecchio film (del 1975) diretto da Sidney Pollack: «I tre giorni del Condor». La vita, si sa, imita l’arte ed il thriller, ambientato nella New York della metà degli anni ’70, si discosta dal genere spionistico tradizionale e pone interrogativi di tipo politico. Al centro della vicenda, c’è infatti la possibilità che i servizi segreti, o una parte di essi, sfuggano ad ogni controllo e agiscano secondo finalità e con mezzi non corretti e, comunque, non autorizzati da nessuno. Nella scena, due agenti della CIA discutono nervosamente del piano segreto (preparato da un funzionario deviato: Leonard Atwood) d’una guerra da far scoppiare nel Medio Oriente per assicurarsi il controllo del petrolio (piano che il rapporto del giovane Joseph Turner, nome in codice «Condor» aveva involontariamente smascherato). Quando l’alto ufficiale, Higgins (il vicedirettore di New York, incaricato di recuperare Turner, sopravvissuto al massacro) dice che, in realtà, si trattava di un buon piano, la sua insensibilità sbalordisce il giovane analista di livello inferiore. Ma Higgins dice che in tempi difficili, alla gente non importa come le risorse come il petrolio o il cibo sono loro assicurate: «Vorranno solo che gliele procuriamo». Lo scambio di battute è serrato: «È semplice economia, Turner… Non c’è discussione. Il petrolio ora, tra 10 o 15 anni, sarà il cibo, o il plutonio. Forse prima. Cosa pensi che la gente vorrà che facciamo allora?». «Chiediglielo!», risponde Turner. «Ora?», replica Higgins, scuotendo la testa. «Huh-uh. Chiediglielo quando stanno per esaurire le scorte. Quando fa freddo a casa e i motori si fermano e le persone che non sono abituate alla fame…hanno fame! Non vorranno che glielo chiediamo…. Vorranno solo che glieli prendiamo». Il risultato, dice Nichols, è che, di questo passo, «avremo una tecnocrazia che non chiede più la nostra opinione perché non può avere una risposta. E dico sempre, questo non sarà un takeover. Ci governeranno di default, perché non ce ne frega niente». Nichols è cresciuto in una casa popolare nel Massachusetts e ora è insegna al Naval War College e alla Harvard Extension School. Collabora con The Atlantic e Usa Today e qualche anno fa ha scritto il bellissimo «The Death of Expertise» («La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia», editore Luiss University Press). È un ex repubblicano di vecchia data che ha lasciato il partito disgustato dalla beatificazione di Trump (fa parte del «Never Trump» movement). La sua è in parte una geremiade su quello che siamo diventati  – un elettorato infantile e poco serio che vuole il suo lecca-lecca e lo vuole «ora» – e in parte un appello per fermare l’emorragia prima che sia troppo tardi. Il libro, scritto con uno stile colloquiale, sembra infatti una ramanzina di papà (dei papà di una volta): tirati sù, infilati la camicia e trovati un lavoro, per l’amor del cielo. Ma il libro tocca un tasto dolente. La democrazia liberale è minacciata dall’interno. Insomma, i populisti fomentano passioni violente e soffiano sul fuoco della paura e dell’insoddisfazione? Sì, certo. Ma sono gli elettori a mandarli al potere. Meno di un americano su sei crede che la democrazia funzioni bene, quasi la metà ritiene che non stia funzionando per niente e il 38% dice semplicemente bah. Nel ventesimo secolo, osserva Nichols, le democrazie liberali sono sopravvissute a molteplici conflitti globali, hanno sconfitto il fascismo ed il totalitarismo, hanno superato depressioni e recessioni multiple, eppure oggi sembrano incapaci di superare sfide meno complesse, anche in un contesto globale di relativa pace e prosperità. Segmenti rilevanti della popolazione negli Stati Uniti e nei paesi europei hanno perso fiducia nelle istituzioni democratiche, e un numero crescente di sondaggi dice che sono in molti a pensare che non sia poi così «essenziale» vivere in una democrazia. Nichols sostiene che in un’epoca segnata dal più cinico egocentrismo, i cittadini delle società occidentali hanno smarrito ogni considerazione dei valori democratici e le virtù dell’impegno civico. Ma Nichols riconosce che ogni rinnovamento della democrazia liberale si dovrà basare proprio sulla gente comune, cioè su quelli, tra loro, che possiedono la coscienza civica e le virtù necessarie per far funzionare il sistema e resta fiducioso sul futuro della democrazia liberale sia in patria che nel mondo. «Di una cosa sono certo», scrive nella prefazione, «la possibilità di tornare ad una vita democratica più civile e più serena è interamente nelle nostre mani, se scegliamo di farlo».

Quel conflitto per il potere globale. Andrea Muratore il 31 Agosto 2021 su Il Giornale. Niall Ferguson ne "La Piazza e la Torre" parla del confronto come motore del progresso collettivo, anche a costo di una continua conflittualità. Le società complesse hanno, nel corso della storia, seguito sostanzialmente due direttrici: la tendenza a strutturare una gerarchia precisa sul fronte organizzativo, politico e sociale e la creazione di reti complesse volte a trasmettere idee, conoscenze, rapporti umani. Gerarchia e dimensione collettiva hanno spesso proceduto all'unisono, nella politica come nell'economia, sono sorte una in bilanciamento dell'altra o si sono opposte. L'età imperiale romana è un caso del primo tipo; l'Italia dei comuni medievali del secondo, la Francia dell'era rivoluzionaria e napoleonica del terzo. Gerarchie e reti come motore d'azione sociale sono studiate dallo storico britannico Niall Ferguson nel saggio La piazza e la torre, che prende il nome dalla struttura urbanistica di Piazza del Campo a Siena, simbolo della "rete" su cui si proietta l'ombra della Torre del Mangia, simbolo della gerarchia. Ferguson interpreta la storia degli ultimi millenni in Occidente come un'alternanza continua tra cicli di predominio sostanziale del modello gerarchico di società e Stato (dal Medioevo alla fase degli imperialismi) e periodi in cui sono le reti a dare il là a nuovi modelli (i Comuni, la Francia rivoluzionaria, l'età dei moti ottocenteschi, a suo modo l'era di Internet). La sua è una teoria della complessità, che analizza il potere e gli sviluppi sociali come prodotti derivati delle mutazioni sociali, politiche e culturali, e la società in sé come frutto di interazioni relazionali. Essa insegna molto anche della lettura del mondo di oggi, in cui i principi dell'agorà e quelli verticistici sono in perenne interazione. Non necessariamente conflittuale. Che cos'è, in fin dei conti, la pandemia di Covid-19 se non un virus diffusosi grazie all'espansione capillare delle reti di interconnessione, dei sistemi sanitari centralizzati e delle interazioni umane e la cui conoscenza è spesso degenerata in infodemia per errori e abusi commessi sulle reti digitalizzate? Cos'è stata la risposta imposta da molti governi se non la riaffermazione della gerarchia e dell'autorità come strumento d'ordine nella fase di emergenza? Allargando il campo, non possiamo forse vedere nella storia del mondo globalizzato un perenne confronto tra il principio della piazza e quello della torre? Risposte emergenziali sono state imposte in nome della lotta al terrorismo; le reti digitali narrate dai guru del web come strumento di emancipazione collettiva sono finite egemonizzate da pochi potentati estrattivi, da regimi autoritari intenti a governarne i dati, da Stati desiderosi di inserirli nel quadro del loro progetto per l'interesse nazionale (sono questi due i casi di Cina e Stati Uniti); la governance globale dell'era presente è caratterizzata dalla massima concentrazione di retorica democratica nella storia a cui va sostanzialmente associandosi di pari passo una riduzione sostanziale di svariate sovranità statuale. In diversi Paesi occidentali la crisi della democrazia, ovvero la comparsa di crepe sulla piazza, a causa dell'inaridimento del dibattito politico ha prodotto la rivolta populista e l'illusione di una ristrutturazione della torre anche nel nostro contesto. Leader come Vladimir Putin, Xi Jinping e Papa Francesco sfruttano per i loro progetti politici il controllo sulla gerarchia e la valorizzazione del controllo delle reti di comunicazione e influenza delle istituzioni da loro presiedute. La società del digitale e dell'informatica, in questo contesto, diffonde un mito egualitario che va di pari passo con il problema della ripresa della disuguaglianza: "quando le reti e i mercati si allineano, come sta avvenendo ai giorni nostri, la disuguaglianza riesplode, perché i guadagni prodotti dalle reti finiscono in misura preponderante nelle mani di chi le possiede", nota con lucidità Ferguson. La folle corsa delle borse mondiali nell'era del Covid segnala l'attualità di quanto sottolineato dallo storico britannico, che nell'era presente ravvisa un'accelerazione della capacità delle reti di creare nuovi sistemi gerarchici data dall'abbattimento di diverse barriere comunicative e di contatto. E oggi come in passato, le catastrofi sanitarie testimoniano la fragilità del sistema e le sue aporie interne, le sue fragilità e le sue contraddizioni: un complesso di relazioni sociali ed economiche e un apparato politico si trova messo in discussione quando è messa alla prova la sua capacità di preservare la vita dei cittadini che al suo interno si muovono. Per la nostra società, questo significa che il Covid ha posto fine definitivamente al beato positivismo circa i destini positivi inevitabili della globalizzazione e delle libertà di movimento e degli interscambi ad essa associati, rilevando un sottobosco di ineguaglianza e fragilità. Ma la dialettica continua: e tra reti sempre più ampie e avanzate tecnologicamente e poteri gerarchici rilanciati dalla pandemia, in una sfida che prosegue giorno dopo giorno, è ancora duro dire chi, in prospettiva, dopo il Covid-19 avrà la meglio. 

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è 

Se l’ambientalismo diventa ideologia la citta va fuorispista. Antonio Ruzzo il 20 giugno 2021 su Il Giornale.  C’è un filo sottile che separa l’ambientalismo dall’ideologia, dalla convinzione che le sorti del Pianeta possano essere interamente nelle mani dell’uomo. Così non è, ovviamente, ed è un attimo che quel filo si spezzi. Sembra un po’ quello che sta accadendo in città, dove la «crociata» ambientalista del sindaco Sala e di alcuni suoi assessori rischia di portare Palazzo Marino su posizioni lontanissime dalla realtà milanese, in una città «parallela» che ignora proteste, disagi, difficoltà economiche esigenze che il post pandemia impone per una ripartenza economica che dire incerta è essere ottimisti. E quando l’ambientalismo diventa ideologia cancella soprattutto il buonsenso. Le piste ciclabili di per sè non sono un problema. É sacrosanto che una città organizzi la sua mobilità al meglio possibile e le bici sono un’ottima alternativa. Un’ottima alternativa, appunto. Non l’unica soluzione possibile. A parte che non tutti possono o sono in grado di pedalare, una città come Milano per muoversi, lavorare, trasportare ha bisogno di un piano di mobilità concreto e non ideologico che metta mano, ad esempio, all’organizzazione del trasporto pubblico che durante l’emergenza ha mostrato qualche limite e che riveda, altro esempio, gli orari di consegna delle merci, che ipotizzi un carico-scarico notturno magari utilizzando anche le metropolitane, che immagini la possibilità di creare hub di smistamento fuori dalle circonvallazioni per camion e furgoni con navette elettriche che poi entrano in città per consegnare porta a porta. Cose concrete, ma non se ne parla. La deriva ideologica di Palazzo Marino è di andare avanti sommando chilometri e chilometri di ciclabili senza dubbi e senza sentir ragioni investendo un sacco di danè che magari sarebbero più utili per rimodernare una rete elettrica «antica» che in questi giorni di caldo e di condizionatori accesi non tiene botta. Una deriva che ha portato a una politica fatta di annunci che sogna una città libera e felice dove l’urbanistica è solo «tattica», dove le periferie sono «green e friendly», dove non ci sono auto nè parcheggi (perchè se non ci sono le auto non servono) e dove in strada non si può più neppure fumare una sigaretta. Dalla viabilità all’ambiente alla sicurezza è un furbo «zigzagare» alla ricerca del consenso inseguito con la scorciatoia degli slogan che alla lunga però finisce per scavare un solco profondo con le esigenze di chi si ritrova a fine mese con un negozio che non incassa, con gli stipendi da pagare, con le bollette sulla scrivania. E in questi casi per far tornare i conti l’ideologia serve a poco. Sarebbe meglio, molto meglio, un buon amministratore di condominio…

Moriremo marxisti inconsapevoli. Nicola Porro il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. Tutte le economie del mondo vivono in un delicato compromesso tra mercato e Stato, tra privato e pubblico. Non c'è mercato senza leggi, non esiste Stato senza individui. L'Italia sta prendendo una brutta piega. Tutte le economie del mondo vivono in un delicato compromesso tra mercato e Stato, tra privato e pubblico. Non c'è mercato senza leggi, non esiste Stato senza individui. L'Italia sta prendendo una brutta piega. La pandemia, come aveva auspicato il ministro Speranza nel suo libro mai uscito, è un'occasione per ristabilire «l'egemonia culturale di sinistra». Progetto che si sta realizzando. Vediamo quattro casi lampanti. Nel governo si bisticcia su come allentare il blocco dei licenziamenti. Fino ad oggi c'è stato uno scambio perverso: lo Stato paga la cassa integrazione e le imprese stanno mute e non fanno fuori nessuno. Ne pagano le conseguenze (inintenzionali?) i meno garantiti e cioè giovani al primo impiego e donne part time. Già il punto di partenza è sbagliato: un imprenditore non licenzia per il piacere di licenziare, ma perché non è in grado di reggere il conto economico. Bloccare i licenziamenti per più di un anno, uccide in prospettiva le imprese (a meno che non sperino di avere incentivi in eterno) e danneggia il mercato del lavoro. Da sinistra sino a destra, in pochi ritengono questa norma emergenziale, semplicemente folle. Seconda palese invasione di campo: il blocco degli sfratti. Qui i piccoli proprietari hanno qualche influenza in più sul centrodestra, non fosse altro che in Italia essi sono numerosissimi. È difficile giustificare, da un punto di vista liberale, l'impossibilità per un proprietario di godere dei propri beni, soprattutto nel caso in cui i contratti non siano stati rispettati. Tanto vale abolire la proprietà privata: il blocco degli sfratti altro non è che la statalizzazione del risparmio privato. Terzo campanello d'allarme: la proposta, tanto gradita da professori e media democratici, di inasprire l'imposta di successione. Gioverebbe ricordare loro che essa fu abolita da un governo di centrosinistra nel 2000, per il semplice motivo che le sue aliquote, allora stellari, non generavano entrate. Ma oltre a essere una tassa poco efficace, è odiosa: come ha detto un importante dirigente del Pd, essa è giusta perché i ricchi devono «restituire» ciò che hanno accumulato. Fu Marx a scrivere che l'origine del capitale «gronda di sangue»: un pregiudizio che ritenevamo seppellito. Ultimo aspetto riguarda le semplificazioni: è l'anello più importante. Semplificare vuol dire togliere poteri allo Stato e pensare che i privati non siano dei mascalzoni per definizione: è la battaglia culturale più difficile. Ecco perché il progetto messo in piedi da Mario Draghi è così contestato. Non moriremo democristiani, ma marxisti inconsapevoli.

Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su...

Covid, Chiesa sottomessa alla nuova religione terapeutica. Diego Fusaro su Affari Italiani il 15/4/2021. Così leggiamo su "La Repubblica", rotocalco turbomondialista, voce del padronato cosmopolitico e ultimamente anche grancassa del nuovo Leviatano terapeutico: "Il prete no-mask di Vanzago trasferito: invitava a non usare la mascherina e criticava le norme anti-Covid" (13.4.2021). È la triste storia di Don Diego Minoni, parroco della chiesa dei Santi Ippolito e Cassiano, colpevole di non essersi piegato al nuovo ordine terapeutico e, di più, di aver esortato i suoi fedeli alla disobbedienza civile e a non barattare la libertà per la sicurezza del bios. Quel che colpisce in questa vicenda è il fatto che ad aver, per così dire, sanzionato il prete è stata direttamente la Chiesa, non il potere mondano: Chiesa la quale, trattando don Diego come un eretico, ha dunque, ancora una volta, preso apertamente posizione a sostegno del nuovo ordine pandemico e della nuova modalità di governo delle cose e delle persone. La vicenda mi pare istruttiva, giacché avvalora la tesi a suo tempo formulata da Ernst Bloch in "Ateismo nel cristianesimo". Secondo Bloch, esisterebbero due correnti diverse e anzi opposte interne al cristianesimo: da un lato, la corrente calda, che nel nome del regno dei cieli si oppone alle storture del regno terreno e arriva perfino a battersi per il rovesciamento del potere; dall'altro, la corrente fredda, che in maniera diametralmente opposta fa da stampella per il potere, scomunicando chiunque osi ad esso contrapporsi. Ebbene, la vicenda di Don Diego mostra in modo adamantino la compresenza, nella medesima istituzione e nel medesimo tempo, di entrambe le correnti. Che quella di Bergoglio e della Chiesa di Roma sia incontrovertibilmente la corrente fredda del Cristianesimo, in specie in relazione al nuovo ordine terapeutico (ma poi anche in connessione con il globalismo del blocco oligarchico neoliberale), lo suffraga il trattamento riservato a don Diego, colpevole di non essersi piegato al potere egemonico che si nasconde oggi dietro il lessico medico-scientifico. Insomma, rivendicare dall'altare la non sacrificabilità delle libertà e dei diritti in nome della salute è assai più grave, a quanto pare, che svuotare dall'interno il cristianesimo in nome dell'ideologia del global-capitalismo e della ovunque imperante dittatura del relativismo. Come più volte ho evidenziato, fin dalla epifania del coronavirus la Chiesa di Bergoglio è divenuta pavida ancella della nuova religione terapeutica: religione che promette la salvezza del corpo e che in nome di essa chiede di sacrificare tutto il resto. Messe via streaming, accettazione dell'ordinaria disumanità del distanziamento sociale, sospensione della estrema unzione per i malati di covid, acquasantiere di gel sanificante all'ingresso delle chiese, aperta tematizzazione da parte del sommo pontefice della obbedienza alle norme del governo. I virologi hanno esautorato i teologi, con la conseguenza che ove ancora si diano preti che credono in Dio più che nella religione terapeutica, subito vengono puniti dai nuovi adepti del culto sanitario. Se Gesù Cristo sanava i lebbrosi e se San Francesco li abbracciava addirittura, la Chiesa di Bergoglio ha scelto di adeguarsi al nuovo noli me tangere della contactless society propria dell'ordine terapeutico del distanziamento sociale, del controllo biopolitico totale e del culto del Sacro Dogma medico-scientifico.

Diego Fusaro (Torino 1983) insegna storia della filosofia presso lo IASSP di Milano (Istituto Alti Studi Strategici e Politici) ed è fondatore dell'associazione Interesse Nazionale (interessenazionale.net). Tra i suoi libri più fortunati, "Bentornato Marx!" (Bompiani 2009), "Il futuro è nostro" (Bompiani 2009), "Pensare altrimenti" (Einaudi 2017).

Il climatismo, una catastrofica ideologia. Riguardo il grande tema della sostenibilità vorrei riprendere in mano un libro controcorrente di Mario Giaccio che si intitola Il climatismo: una nuova ideologia (21º Secolo editore). Nicola Porro, Domenica 14/02/2021 su Il Giornale. Riguardo il grande tema della sostenibilità vorrei riprendere in mano un libro controcorrente di Mario Giaccio che si intitola Il climatismo: una nuova ideologia (21º Secolo editore). Scrive bene il prefatore professor Umberto Crescenti che con l'approvazione del COP21 di Parigi nel 2015 si «è raggiunto un accordo storico con la fine dell'era dell'energia fossile a vantaggio delle fonti di energie pulite e rinnovabili». In linea con le richieste dell'intoccabile e indiscubile IPCC sostenitore delle ragioni antropiche (cioè è colpa solo dell'uomo) del riscaldamento globale. Il riscaldamento globale porterà a distruzioni inaudite (peggio del Covid senza mascherina e vaccini) e gli unici disastri che non hanno legato al riscaldamento, ricorda il nostro geologo, sono terremoti e maremoti: per il resto è tutta colpa dell'anidride carbonica prodotta dall'uomo. Lo stesso padre del concetto di riscaldamento globale, James Hansen, ritenne quell'accordo «un falso» sia nelle premesse sia nelle soluzioni. La cosa finirebbe con una disputa tra esperti, se queste intese internazionali, che se non rettificano gettano gli Stati e i loro leader nel girone infernale dei negazionisti, non costassero un mucchio di quattrini. Non vogliamo qui entrare nelle numerose prove che Giaccio riporta dell'alternanza di riscaldamenti e raffreddamenti nella recente era terrestre, e tanto meno nelle numerose bugie, truffe e censure che hanno riguardato questa criminalizzazione dell'attività umana da parte dei grandi organismi Onu. Resta il principio ideologico: si ritiene che non possa che andare a finire così. Ci permettano di accostare l'ideologia della climatologia catastrofista a quella marxiana dell'ineluttabilità della morte del capitalismo. È dal 1848 che si prevede e non è mai accaduta. È almeno dagli anni '70, dal Club di Roma, che si pronostica la fine del mondo fossile e si inocula la colpa nello spirito dell'uomo. Eppure le cose non sono andate nei tempi pronosticati. Ma ciò che oggi maggiormente ci interessa, pazzi dell'idea di mettere un mucchio di quattrini europei per la sostenibilità (etichetta dai mille contenuti) e innamorati di ministeri green, è il seguente profetico passaggio: «Con il pretesto della sostenibilità ogni aspetto della nostra vita sarà regolato e controllato da esponenti della finanza e tecnocrati. Il protocollo di Kyoto propone la costruzione di mostri burocratici nazionali e sovranazionali, che dovrebbero razionare le emissioni e di conseguenza l'attività economica mondiale, con restrizioni obbligatorie e sanzioni Ovviamente il climatismo è uno strumento per effettuare prove generali di un governo globale, ovviamente monocratico e non sussidiario». La prima edizione di questo libro è stata scritta nel 2015: non sapevano che sarebbe arrivato il virus che ha portato più velocemente i medesimi risultati. Se dovesse scomparire, ci penserà la sostenibilità. Preoccupiamoci.

È trans anche il "genere": da bisogno a ideologia. Negli Stati Uniti persino le scuole fanno propaganda spingendo molti giovanissimi a cambiare sesso. Marco Gervasoni, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. La questione del «genere» (o gender in inglese) è una delle battaglie fondamentali dei prossimi anni. Ed è massimamente politica, perché i sostenitori di tale teoria intendono attuare un'autentica rivoluzione antropologica, ribaltare la natura umana, costruire una comunità in cui l'individuo possa scegliere se essere uomo, donna o qualcosa d'altro. Un'opzione che viene presentata come «diritto» ma che in realtà fuoriesce dalle decisioni dei singoli per cercare di farsi modello di una nuova comunità, in cui l'ordine biologico dell'uomo da un lato e dall'altro il legame con la tradizione e con la consuetudine siano completamente spezzati. Come ogni progetto politico, anche quello gender possiede un'ideologia forte e granitica: ed è questa che bisogna conoscere per chi intenda combatterla, come dovrebbe fare secondo noi qualsiasi conservatore o anche semplicemente ogni persona di buon senso. All'interno della teoria gender un peso importante è occupato dalla questione trans, cioè del passaggio di sesso, in particolare tra gli adolescenti. In Italia si tratta di un fenomeno ancora marginale, benché veda già il suo bell'esercito di supporter, ma negli Usa sta diventando sempre più diffuso. Il libro di Abigail Shrier, giornalista del Wall Street Journal, dal titolo Irreversible Damage. The Transgender Craze Seducing Our Daughters (Regnery Publishing) va letto quindi per diverse ragioni. La prima è che si tratta di una seria indagine giornalistica, non di una requisitoria ostile al «transgenderismo». E nell'indagine si parla con ragazze e ragazzi (ma soprattutto femmine) che hanno intrapreso assai presto il percorso di «transizione», con i loro genitori, con gli insegnanti, con scienziati e medici. Ne esce un ritratto decisamente inquietante, che smonta pezzo per pezzo la narrazione ideologica gender. Essa ci dice che la decisione di cambiare sesso sarebbe libera, spontanea, un diritto appunto dell'adolescente, che in tal modo si sentirebbe libero di scegliere la propria sessualità, non imprigionata più nel proprio corpo estraneo. Shier non nega certamente il disagio e anzi il dolore in cui le adolescenti si trovano, ma mostra come questa scelta sia spesso indotta da attori sociali che circondano le teenager. I genderisti affermano che il loro bisogno sarebbe sempre esistito, solo che nel passato religione e tradizioni l'avrebbero impedito. In realtà nel passato, anche recente, il fenomeno era ultra marginale e si è espanso negli ultimi anni perché, secondo l'autrice, gli attori della propaganda gender costruiscono le menti delle adolescenti. Sono i social e la scuola i due pilastri che convincono le ragazze che il senso di spaesamento, tipico dei quella età, ha origine dal sexual distress. Sui social infatti la propaganda gender imperversa. Più sorprendente è che essa sia presente anche a scuola, e invece in quelle statunitensi gli educatori, cioè i docenti, sono già loro molto spesso diffusori di questa dottrina. Quanto alla repressione familiare, Shrier mostra come molte adolescenti che hanno intrapreso la «transizione» vengono da famiglie atee, progressiste, favorevoli ai matrimoni gay e tutto il resto, ma certo non pronte ad accettare come se nulla fosse il cambio di genere delle loro figlie. Ma il libro, bellissimo, un modello di giornalismo purtroppo assente in Italia, ci mostra anche lo stato pietoso della libertà di parola negli Usa. La giornalista è stata più volte minacciata e censurata, prima, dopo e durante la pubblicazione del libro. Coloro che criticano la dottrina gender sono emarginati dalle scuole e dalle università, mentre agli scienziati che eccepiscono vengono rivolte minacce e pressioni dai gruppi organizzati, fino a far perdere loro il posto di lavoro negli ospedali (privati). Come ai tempi della caccia alle streghe di Salem, chi muove anche un dubbio nei confronti della propaganda gender viene additato come moderna strega, attraverso lo stigma della «omofobia». Sotto cui finiscono per cadere, come mostra Shrier, persino le lesbiche, accusate di essere ostili ai trans per ragioni di «sessismo». Un tale scenario di dissoluzione ha ora, alla Casa Bianca, chi ne sostiene le ragioni. Un motivo in più perché i conservatori o semplicemente le persone di buon senso si attrezzino per combatterlo.

Quando l’ideologia diventa umanitarismo: buonismo e snobismo radical chic. Clemente Sparaco su culturaidentita.it il 27 Dicembre 2020. L’anno che verrà è quello che ci si affanna a divinare in questi ultimi giorni dell’anno che volge al termine. E’ anche il titolo di una canzone famosa di Lucio Dalla scritta, manco a dirlo, sul finire di un anno, il 1978, aspettando il nuovo. Siamo a 10 anni dal ’68, quando, tramontati i sogni di trasformazioni epocali, si toccava con mano anche a sinistra la crisi dei grandi racconti, che avevano avuto per protagonisti i partiti, le masse, le avanguardie ispirate. Si avvertiva, quindi, che era tramontata non solo l’attesa messianica di una trasformazione rivoluzionaria, ma anche la fiducia nel nuovo. Proprio in quegli anni J. F. Lyotard teorizzava che era finito il moderno e che ci si avviava in un’epoca contraddistinta dal venire dopo e perciò connotata anche terminologicamente dal prefisso post: il postmoderno. Cosicché chi viveva quella condizione avrebbe avuto ormai la sensazione “di venire dopo la totalità della storia, con le sue origini sacre e mitologiche, la sua stretta causalità, la teleologia segreta, il narratore onnisciente e trascendente e la promessa di un lieto fine, in chiave cosmica o storica” (così Heller e Fehér in un loro felice saggio). In effetti, oggi che non si presume più di sapere quale sia la direzione della storia né di sapere se essa abbia una direzione (lineare e razionale), alla speranza del nuovo si è sostituito un desiderio di novità inessenziale e superficiale. E’ qualcosa di raggelante e di molto diverso da quanto presagiva Lucio Dalla, quando concludendo il suo brano cantava: “Io mi sto preparando, è questa la novità”. Perché il punto è proprio che noi non siamo preparati. Non lo siamo innanzitutto perché le nostre categorie ideali di lettura della storia sono inadeguate. E’ vero, l’ideologia, comunista, modernista, liberale, illuminista, scientista, presidia ancora giornali, case editrici, l’Università, la scuola, e continua a selezionare le fonti della storiografia, manipolando il passato per diffondere e a smerciare concetti e preconcetti andati a male. Ma questa sopravvivenza si esprime ormai solo nelle forme affievolite e melense di un’ideologia del bene, nella retorica dell’amore contro l’odio, della tolleranza contro i muri. Il materialismo dialettico ormai si è ridotto a consumismo pratico, la lotta per l’emancipazione a edonismo rozzo, l’emancipazione del soggetto ad arrivismo spicciolo, il libertarismo ad individualismo capriccioso, il collettivismo a massificazione mediatica. Dovunque i rottami di un dogmatismo ideologico che si traveste di umanitarismo: buonismo e snobismo radical chic di risulta. Il punto è che oggi è venuta a cadere non una singola ideologia, bensì la matrice narrativa e progressiva che era dietro la forza delle ideologie, sia quelle etico-politiche, sia quelle scientifiche. L’idea di modernità, definita come trionfo della razionalità sui vecchi ordini, “ha perso la propria forza di liberazione e di creazione” (A. Touraine) ed abbiamo smarrito la certezza del progresso, che era poi la nostra fede residuale. Stiamo pertanto cominciando a riapprendere che la storia non è una galoppata senza possibilità di ristagni e di involuzioni né la ragione una forza destinata al trionfo, perché l’una e l’altra possono deteriorarsi e ricadere in una sorta di nuova barbarie e di più raffinata violenza. La crisi si è fatta cronica ed è diventata strutturale. Dalla politica si è trasferita all’economia e quest’anno ha intaccato anche la salute con la pandemia, cosicché ormai si sparge in tutti i gangli del nostro organismo malato. Siamo in sostanza a quello che un interprete inascoltato della civiltà e della storia, il napoletano Giambattista Vico, chiamava il “ricorso”. Ma a fronte di tutto questo forse siamo messi finalmente nella condizione di capire che nell’ambito di questa nostra storia umana non esisterà mai la situazione assolutamente ideale e mai avremo un ordine di libertà definitivo. Siamo sempre in cammino ed in un cammino sempre relativo. L’ordine ideale non esiste. Il mondo liberato è un mito. Pertanto, anche il cambiamento non è un bene in se stesso. “Se esso è buono o cattivo – ha scritto J. Ratzinger – dipende dai suoi contenuti e dai punti di riferimento concreti. (…) Nella storia ci sarà sempre un progredire e un retrocedere. In rapporto alla autentica natura morale dell’uomo, la storia non si svolge linearmente, ma con ripetizioni. Nostro compito è lottare di volta in volta nel presente per quella strutturazione relativamente migliore della convivenza umana e custodire il bene così raggiunto, vincere il negativo esistente e difenderci dall’invasione delle potenze della distruzione”. Ed è forse questa la novità a cui dobbiamo prepararci per l’anno che verrà.

"Bestemmia? No, perché mi hanno cacciato". Stefano Bettarini punta il dito: un "complotto" a Mediaset contro di lui? Libero Quotidiano il 31 dicembre 2020. Una lobby gay al Grande Fratello Vip. Ne è convinto Stefano Bettarini, che dopo aver minacciato di fare causa al reality di Canale 5 condotto da Alfonso Signorini per essere stato squalificato per una bestemmia si sfoga così: "Per inciso, credo che qualcuno ci debba, vi debba delle spiegazioni su ciò che sia 'politicamente corretto'. Ciò che stabilisce 'chi' e 'come' le famiglie ed i bambini saltino fuori soltanto quando ci sia da crocifiggere qualcuno! Scomparire subito dopo e appena si allude (ridendo e sorridendo) ad "uccelli" e "scopate"... o peggio frasi irripetibili sulle donne! Vogliono forzarci e crearci questa lobby". "Non si combatte così l'omofobia - prosegue l'ex calciatore nelle sue Instagram Stories -. Il troppo stroppia sempre. Ma per me (personalissimo parere) ottengono solo e soltanto l'effetto contrario, ovvero irritare anche chi omofobo non è affatto".

·        I Radical Chic.

Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2021.

Bella casa, Pratesi.

«Un regalo dell' Opus Dei».

In che senso?

«Prima abitavamo in un altro appartamento sempre ai Parioli, un posto dove si trovava la tomba del loro fondatore. Ci hanno corteggiato per vent' anni affinché gliela vendessimo, poi alla fine l' assegno che ci hanno offerto è stato abbastanza cospicuo. Così abbiamo preso questa casa».

Ma perché in Italia le questioni ambientali hanno sedotto spesso persone con almeno due cognomi?

«Perché siamo radical chic».

Ah.

«Certo, io sono il perfetto esempio di radical chic, perché dovrei averne vergogna?»

Come sono i veri radical chic?

«Persone che hanno i soldi, spesso perché hanno alle spalle famiglie facoltose, e che cercano di arginare l' ondata di consumismo e malagrazia. Qualche volta per espiare un certo senso di colpa per essere nati ricchi. Ma radical chic non è un insulto, anzi. Non c' è niente di male nel rappresentare un' élite che coltiva la sensibilità ambientalista. Dirò di più».

Prego.

«Guardi il mio cagnolino, Robin. Un barboncino, molto ecologico. Non sporca, perché fa "pezzetti" piccoli, non aggredisce gli altri animali. I cani di grossa taglia sono inquinanti. I terrier o i bassotti sono fatti per la caccia».

Però prima di fondare il Wwf Italia nel 1966, lei era un cacciatore appassionato.

«Sì, perché io sono del 1934 e fino agli anni Sessanta non c' era la cultura del rispetto per la natura. L' unico modo per avvicinarsi a quel mondo era quello predatorio. Quanti safari ho fatto. Poi una volta, era il 1963, mi passò accanto un' orsa con tre cuccioli. Mi commosse.Piansi e decisi di smettere con i fucili».

L' ultimo animale che ha ucciso?

«Per errore, un anno fa, una zanzara».

Ma sono fastidiose, è comprensibile.

«No, perché ogni animale possiede un' anima terrestre, la natura sa bene quali sono i suoi equilibri. Non esistono animali più sacrificabili di altri, è questo il punto. Per esempio, i gatti sono ecologici, però uccidono i topi».

Be', è un po' il loro mestiere.

«C' è stato un periodo in cui mi sono messo a seguire gli itinerari dei topi sul Tevere. Avevo imparato dove vanno a nascondersi, che cosa mangiano, dove dormono. Bisogna conoscergli gli animali, è questo il problema».

Un problema italiano?

«Sì, perché la riforma Gentile del 1923 escluse le Scienze naturali dall' insegnamento. Un errore molto grave del quale ancora oggi paghiamo le conseguenze. Da dove crede che nasca questa noncuranza davanti ad una catastrofe ecologica come quella che stiamo vivendo? Tutti conoscono Dante, ma in quanti conoscono il cervo sardo, per dire?»

Lo avete riportato voi del Wwf.

«Sì, come il lupo. Pensi che nel 1970 ce n' erano solo cento esemplari, adesso quasi duemila. Abbiamo fatto battaglie per l' orso abruzzese. Mi piace l' Abruzzo perché lì vanno d' accordo con gli orsi: alcuni lasciano loro il pane, hanno anche fatto un dolce ispirato a loro».

È vero che i gabbiani a Roma li ha portati lei?

«Sì, nel 1973. Mi affidarono una gabbianella ferita, la curammo e la mettemmo nello zoo.

Poi lei nidificò e oggi...be', sono tanti».

A Milano ci sono i piccioni.

«L' unica specie fastidiosa, colonizzatrice e sfruttatrice di cui non si parla mai è un' altra».

Cioè noi umani?

«Sì, riponevo molte speranze in papa Francesco, anche perché quel nome mi aveva colpito. Certo, lui si è espresso in favore dell' ecologia e una volta ha anche timidamente accennato al fatto che non bisogna "riprodursi come conigli", però poteva dire qualcosa in più».

Lei vorrebbe abolire i cimiteri. Come?

«Diciamo che sarebbe meglio smettere di farne. Soprattutto quelli enormi, magari dotati di cappelle votive grandi come palazzi. Mangiano terreno, danneggiano la natura quando il nostro corpo è destinato a scomparire».

Polvere siamo e polvere torneremo, va bene, ma c' è il culto dei morti, millenario.

«Io le ho viste le torri dei morti in India, dove secondo i riti zoroastriani lasciano divorare i cadaveri da avvoltoi e nimbi».

Pratesi, non starà mica pensando...

«È una provocazione, certo. E la volta in cui l' ho detto i cattolici mi sono saltati addosso.

Ricordo un attacco feroce di Vittorio Messori».

Eh, forse aveva le sue ragioni.

«Dico solo che in Sardegna c'è una magnifica colonia di avvoltoi. Provocazioni a parte, riflettiamo su una cosa. Passiamo la vita a inquinare il pianeta con il nostro corpo, almeno pensiamo che una volta non più vivi torneremo alla terra e basta. Io e mia moglie Fabrizia abbiamo dato disposizioni per venire cremati. Le ceneri saranno disperse in campagna».

Nel Viterbese, dove eravate sfollati durante la guerra?

«Papà faceva il costruttore. Dopo la caduta di Mussolini lui scalpitava per tornare a Roma, dove aveva gli affari. Mamma no. Lei pensava ai suoi sette figli, non voleva rischiare. Allora sfidò il marito a carte: "Se esce l' asso di cuori restiamo qui". Uscì quella carta e non tornammo se non nel 1947. Anni dopo mio fratello mi rivelò la verità: mamma si era allenata a bluffare con le carte per mesi. Vinse con l'astuzia».

Lei poi si ha studiato Architettura a Roma.

«Volevo fare Scienze naturali, ma niente da fare. C'era da sostenere l' impresa di papà. Ma ho fatto l' architetto per anni e volentieri».

Una casa di cui è orgoglioso?

«Quella di Enrico Cuccia a Meina, sul lago Maggiore. Il direttore di Mediobanca voleva una villa molto raffinata e io avevo qualche remora ma poi, anni fa, quando capitai lì a ritirare un premio, provai a bussare. Mi aprì la vedova che mi abbracciò riconoscente. Ne ho fatte tante di case, anche quella di Filippo Carpi de' Resmini, già presidente dell' Aci».

Non tutti sanno che una volta lei correva con le auto sportive.

«Una volta prendemmo parte persino ad un pezzo della Mille Miglia. Ma è stato tanti anni fa, poi mi sono messo a girare in motorino. Oggi Fabrizia ha la macchina, ma questa maledetta artrite reumatoide mi ha rovinato le mani e non guido più da tanto tempo».

Ma se non bisognerebbe fare cimiteri perché quelle costruzioni divorano il terreno, come si fa per le abitazioni? Che criterio?

«Ci sono tanti edifici dismessi in Italia. Caserme, ospedali. Riconvertire il più possibile».

Fulco, sappiamo che lei applica alla lettera alcuni principi anti-spreco. Da quanto tempo non fa il bagno?

«Da anni. La doccia poi mai, l' ho trovata in questa casa ma l' ho fatta togliere. Sa quanti litri d' acqua consumiamo ogni anno?»

Ma come si lava?

«Con la spugna sotto le ascelle e poi ovviamente faccio il bidè. Non serve consumare tanta acqua, basta lavarsi nelle parti critiche con attenzione. Una volta mi chiesero se era opportuno fare pipì sotto la doccia per risparmiare acqua. Mi sembrò eccessivo».

Pratesi, ma come mai da anni non si parla che di ambiente e sostenibilità quando la rappresentanza politica dei Verdi si è assottigliata fin quasi a sparire?

«Secondo me è stata scardinata e assorbita dall' associazionismo, più pragmatico e meno incline a coloriture politiche. Penso che l' ultima vicinanza forte alla sinistra non sia stata proficua, non per il colore politico in sé quanto perché certe battaglie hanno bisogno di concretezza».

I dipinti del suo salotto, realizzati da lei, rappresentano animali da palude. Perché?

«Perché una delle battaglie più dure per noi è stata quella di togliere alla palude quella patina di disgusto che l' accompagna da secoli.

Abbiamo creato le prime oasi, abbiamo ridato dignità ad animali che altrimenti venivano banditi come demoni. Pensi solo ai ratti: lei crede che se avessero una bellissima coda piumata verrebbero così trattati male?»

È vero che sua madre ne aveva uno?

«Sì, si chiamava Baby Boy, lo aveva comprato in piazza Vittorio, a Roma. Stette con lei per anni, quando morì pianse a lungo. Chi ama gli animali li ama tutti, vede. Io quando scrivo accolgo sulla mano un insetto che non saprei riconoscere, ma mi cammina a lungo sulla pelle, sembra conoscerla come la sua casa».

Da ex cacciatore comprende i cacciatori quando dicono di amare la natura?

«Tasto molto delicato. Discuto con loro da decenni, con alcuni di loro sono anche diventato amico. E, mi creda, abbiamo provato a fare delle leggi che coniugassero la caccia con l'ecologia, ma non è stato possibile. Io credo che non sia possibile uscire e sparare ad un uccellino che pesa meno dell' arma, mi dispiace».

Si parla tanto di caccia, ma c'è anche la pesca.

«Ho praticato a lungo anche quella. Sono stato sui pescherecci, ho risalito il fiume Congo a bordo di una imbarcazione dove, sì, si pescava. Certo, la pesca sembra meno crudele della caccia perché non vedi l' occhio del capriolo che ti guarda spaurito, ma sempre caccia è».

Quando è stata l' ultima volta che ha pianto per un animale?

«Tanti anni fa. Eravamo in campagna e avevamo adottato un agnellino. Un giorno lui trovò una cesta di funghi sotto al tavolo, li mangiò e morì. Versai fiumi di lacrime».

Pratesi, ma poteva morire lei.

«Ma è morto lui. Capisce che cosa intendo quando dico che per me ogni animale ha una vita che deve essere rispettata come la mia?»

Zingaretti, su "Repubblica" sinistra elitaria e radical chic. (ANSA il 30 gennaio 2021) "Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, purtroppo ho visto solo l'eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo". Così il segretario del Pd Nicola Zingaretti su Facebook critica duramente l'articolo dal titolo "La sinistra timida pilotata dagli eredi della Dc". "Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazione al Quirinale - prosegue Zingaretti riferendosi ai giudizi su Matteo Renzi - è un esempio, chi rispetta quel luogo una nullità. La prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado. Ma ce la faremo anche questa volta".

Fulvio Abbate per Dagospia il 4 febbraio 2021. Alla fine, è stato un “uomo senza qualità”, Nicola Zingaretti, segretario del Pd, a spezzare le brame di un piccino mondo di sinistra convinto d’essere intoccabile. In possesso dell’occorrente completo di ciò che altrove, dove esserlo è invece possibile, consente una dimensione da veri “radical chic”. Il medesimo mondo che nel corso dell’ultimo ventennio, svanito il Pci, ha ritenuto necessario dare a se stesso un proprio seguito professionale invidiabile e benefit ulteriori, forte dell’applauso perfino di signore acefale, ma in ogni caso di buone letture, sicure che Veronica Lario fosse “una compagna” e, più recentemente, che Melania nutra in cuor suo politico disprezzo per Trump. Dunque, anche lei una femminista quasi come, un tempo, Carla Lonzi. Che imbarazzante candore, supportato, s’intende, dall’Invece di Concita De Gregorio. Invece, con un semplice tweet, Zingaretti, amorfo ex quadro cittadino della Fgci di via dei Frentani, così ai loro occhi, ha abbattuto un castello di carta profumata d’Eritrea che nel tempo, anche grazie all'amico Walter, era convinto della propria esistenza, meglio, della propria invidiabile persistenza. Un’enclave forte dei propri riti: serate a sgranocchiare cipster davanti al Festival di Sanremo in case di edificanti narratori, ad applaudire recital letterari alla Basilica di Massenzio, a mostrarsi ai vernissage del MaXXI, anche questo affidato a una signora del medesimo contesto, Giovanna Melandri, a pronunciare frasi da anime belle, davvero ispirate, dagli studi di Radiotre di Marino Sinibaldi, un altro cooptato ancora nel circoletto. Con la sua reazione a calco, nel cupio dissolvi della sinistra romana (dunque, italiana) il negletto (sempre ai loro occhi) segretario Pd ha preso di fatto a calci un mondo che, sempre nel tempo, era convinto della proprio inscalfibile invincibilità. E dei propri benefit. Che pena e imbarazzo per l'autore stesso, la difesa d’ufficio di Michele Serra corso a supporto morale della collega di “Repubblica”. Chissà quante persone dovrà consolare in questi giorni Veltroni, che di quel mondo è stato garante e principe dispensatore di opportunità. La verità? Magari, si potesse vivere nei lussi da radical chic nel desolante mondo della sinistra italiana, dove, nel migliore dei casi, è concessa una dimensione da condomini.  Resta però che grazie a Zingaretti da oggi siamo tutti finalmente liberi!

Caso Concita, processo stalinista a Zingaretti. "Parla come Salvini, dica cose di sinistra". "Repubblica" schiera anche Michele Serra per distruggere il segretario dem. Paolo Bracalini, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. Su Nicola Zingaretti si è scatenata la macchina del fango di Repubblica. Il segretario del Pd si è macchiato di una colpa troppo grave per essere perdonata in nome dalla comune militanza politica. Zingaretti è infatti colpevole di aver risposto male a Concita De Gregorio, utilizzando per giunta un termine («radical chic») che secondo le firme del quotidiano di riferimento del Pd non doveva permettersi di utilizzare, tanto più con una donna, che nella misteriosa logica di sinistra sarebbe più grave rispetto a polemizzare con un giornalista maschio. Dopo la character assassination fatta dalla De Gregorio, che ha descritto Zingaretti come un incapace, «un ologramma», uno «che inciampa, esita, traccheggia, tira fuori un foglietto da leggere» e che non è neppure capace da solo di «trovare l'uscita del Quirinale», un mediocre che «lascia dietro di sé l'eco malinconica di un vuoto», il segretario del Pd ha reagito con un tweet altrettanto polemico verso la giornalista di Repubblica che lo ha demolito attaccandolo sul personale, descrivendolo come un inetto (mentre invece ha magnificato il ministro Provenzano, con cui collabora il figlio della De Gregorio). Zingaretti per questo è stato preso a botte nuovamente dalla giornalista, mentre Fabio Fazio lo teneva fermo a Che Tempo che fa. Poi si è aggiunto Roberto Saviano, un altro opinionista della stessa famiglia, che ha attaccato la gestione dei vaccini Covid nel Lazio, amministrato da Zingaretti, ormai bersaglio dei giornalisti «radical chic». Un termine che appunto ha usato lo stesso segretario del Pd, vincendo così un altro round di mazzate, stavolta da un altro senatore di Repubblica, Michele Serra, scomodato solo quando la pratica si fa seria. Serra ieri ha preso il trattore ed è passato su quel che resta della reputazione di Zingaretti accusandolo più infame misfatto concepibile da quelle parti: parlare come Salvini (o come un giornalista non affiliato al Pd, ugualmente riprovevole). Se Repubblica arriva a spiegare al segretario del Pd come utilizzare la lingua italiana per non sembrare un leghista e gli consiglia di rileggere quello che scrive come si fa con gli scolari poco svegli, significa che lo considera un incapace. Secondo il Tempo la lite Zingaretti-De Gregorio ha coalizzato le donne del Pd contro il segretario autore di una «vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra», per la solita questione dell'intoccabilità di una giornalista donna per giunta di sinistra. In effetti quasi nessuno si è levato, dal partito, per prendere le parti del povero Zingaretti trattato malamente da Repubblica. Solo Gianni Cuperlo è intervenuto confessando di aver trovato «davvero incomprensibile l'accento scelto da Concita De Gregorio per descrivere il tratto umano e politico di chi oggi, alla guida del Pd, si sobbarca una rotta tra le più complicate cercando ancora in queste ore di pilotare la crisi verso uno sbocco utile al paese». La segreteria Zingaretti non ha mai conquistato il cuore dei «radical chic», per usare un suo termine, della galassia dem, specie le redazioni amiche (cioè la maggioranza). Diversamente da segretari che hanno plasmato una generazione di giornalisti di sinistra come ha fatto Walter Veltroni, e a differenza anche di Renzi che in un primo momento aveva ai suoi piedi i «giornaloni», Zingaretti è stato sempre visto come un normalizzatore dopo la stagione personalistica renziana, un ritorno alla vecchia Ditta, in cui è cresciuto seguendo la gavetta tipica del funzionario Pci. «Tanto una brava persona», ma ci vuole un'altra tempra politica per conquistare i salotti che contano.

Estratto dell’articolo di Gianfranco Ferroni per “il Tempo” il 2 febbraio 2021. Non si placa la polemica nel Partito democratico, dopo il testo che Concita De Gregorio ha dedicato a Nicola Zingaretti. Il segretario deve sapere che molte tra le parlamentari dem sono contro lui: discutono animatamente, e la prima critica riguarda “il tono della replica di Nicola, che non avrebbe mai fatto una cosa simile se a scrivere quel fondo fosse stato un uomo. Vergognosa prova di machismo, e proprio contro una donna di sinistra”. Ed è solo il primo gol per Concita. Poi: “Nicola deve ricordarsi che Concita sta pagando di tasca sua tutte le condanne per le querele a carico dei giornalisti de l’Unità, per la fine che è stata fatta fare alla testata fondata da Antonio Gramsci. Sono tutti scappati, Concita no. Almeno un po’ di rispetto ci vuole, per come è stata trattata”. Secondo gol per la De Gregorio. Ma non finisce qui, perché si arriva alla tripletta: “Nel partito si era parlato, e a lungo, della direzione di Rai3 proprio per Concita, sia per il suo valore professionale che per quanto sta patendo da anni per colpa nostra, ma inspiegabilmente quella nomina è stata affondata da qualcuno che sta sempre in mezzo a noi”. Alla fine, qualcuno dica a Zingaretti che i social è meglio lasciarli a chi li sa maneggiare, e dai grillini su questo tema può iniziare ad imparare. Un tweet sbagliato può rovinare anche chi guida un partito apparentemente tranquillo come quello dei dem. E se cominciano ad arrabbiarsi le parlamentari...

Michele Serra per "la Repubblica" il 2 febbraio 2021. Il segretario del Pd, per il suo stesso ruolo, è un riferimento importante per la parte (non piccola) di italiani che si sente di sinistra. Dunque anche per molti dei lettori di questo giornale. Proprio per questo mi ha molto colpito, nell' irritato post su Facebook contro Concita De Gregorio e il suo articolo su Repubblica , che Nicola Zingaretti abbia usato il termine "radical chic". Quel termine non aveva alcuna attinenza con l' articolo di De Gregorio (tra l' altro molto più severo con Renzi che con l' attuale reggenza del Pd) e nemmeno con la sua autrice, che lavora da una vita nell' ambito, un tempo molto pop, oggi comunque legato al senso comune del Paese, del giornalismo quotidiano. È stata direttrice dell' Unità , non di Ville&Casali. Ma soprattutto quel termine, che nel breve testo di Zingaretti suona come il vero capo d' imputazione, è schiettamente di destra. Da molti anni è largamente e impropriamente usato dalla destra - politici e giornalisti - per bollare di snobismo, di irrealismo, di classismo malcelato, chiunque abbia da obiettare qualcosa alla demagogia populista, sia esso un professore di liceo che difende la consecutio temporum o una comandante di nave che soccorre i migranti o un elettore urbano che vota secondo urbanità. Qualunque buona causa, secondo questa lettura rozza (e falsificante), è solo il vezzo ipocrita di persone viziate e annoiate. Anche una cosa un tempo considerata iper-popolare come la democrazia, secondo gli assalitori di Capitol Hill, è un inganno dell' establishment. È radical chic. Inventato mezzo secolo fa in un contesto molto specifico (la Manhattan degli artisti che flirtava, per moda, con l' estremismo delle Pantere Nere) dallo scrittore dandy Tom Wolfe (che era molto più snob dei suoi bersagli: ma questo è un altro discorso), il termine è diventato poi uno dei più abusati luoghi comuni, la classica arma spuntata, un blabla in mezzo a tanti. Non per caso lo usano a raffica i leghisti, che adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre. È un poco come quando la sinistra, nei tempi ormai molto remoti della sua egemonia culturale, amava dare del "qualunquista" o del "fascista" a chiunque non appartenesse al proprio giro. Nel momento in cui anche il capo della sinistra italiana bolla di radical chic una giornalista anch' essa di sinistra, viene dunque da chiedersi: ma dove sono finite le parole "di sinistra"? La celebre invocazione di Nanni Moretti (D' Alema, di' qualcosa di sinistra!) è del 1998. Sono passati più di vent' anni: è una generazione. Molte delle parole vecchie, si sa, sono state ingoiate dalla storia, che le ha ruminate fino a farle sparire. Padroni e proletariato, per esempio, hanno un suono otto-novecentesco che le rende quasi impronunciabili, e anche se il loro oggetto (il dominio del capitale sulle persone) è palesemente ancora in essere, non le si usa più per le stesse ragioni per le quali non si portano più le ghette, o non si arano più i campi con i buoi. Il tempo passa e ci rimette in riga, come è normale che sia. Sono le parole nuove che evidentemente difettano, a sinistra, tanto che il linguaggio della destra ha un visibile, anzi udibile sopravvento nel discorso pubblico. La sconfitta culturale della sinistra è perfettamente leggibile in questa lenta, inesorabile sottomissione, che sia ben chiaro non riguarda solo il Pd e il suo segretario, riguarda il grande corpo della sinistra nel suo complesso, compresi giornali e giornalisti. E dire che di lavoro da fare ce ne sarebbe molto, anche se risalendo la corrente come i salmoni. Cominciando con una generale restituzione di senso alle parole, a ciascuna parola: operazione che, mi rendo conto, renderebbe quasi impossibile il lavoro dei vari staff social, nonché dei digitatori in proprio, perché la velocità compulsiva è nemica delle parole. (Se qualcuno avesse avuto il tempo di rileggere quel post di Zingaretti, magari lo stesso Zingaretti, avrebbe avuto il tempo di pensare: radical chic lo dicono Salvini, Feltri e Belpietro, dunque è meglio cercare un' altra parola). Eppure si può fare. Coraggio, si può fare. Per finire con una nota di ottimismo, un solo esempio: quando il Pd oppone allo slogan "dalla parte degli italiani" lo slogan "dalla parte delle persone", fa e dice una cosa di sinistra. Basta una parola per cambiare significato a una intera politica. E non è che non lo si nota: lo si nota. Non è che non lo si capisce: lo si capisce. E ci si sente meglio rappresentati. Ci si sente un poco meno soli, che in questo momento è davvero una cosa di sinistra.

Paolo Bracalini per "il Giornale" il 2 febbraio 2021. Siamo ai confini della realtà: dopo il Pd contro i giornalisti «radical chic» di Repubblica, ecco il Pd contro Fabio Fazio. È bastata una critica per far rivoltare i vertici Pd contro i loro più fedeli supporter mediatici, con toni da «editto bulgaro» che sarebbero giudicati inaccettabili se a farli fosse il centrodestra. Ma siccome si tratta del Pd, il regolamento di conti contro giornali e programmi tv è perfettamente democratico, nessun bavaglio in questo caso. Siamo al secondo round della rissa messa in scena da Nicola Zingaretti, offeso da un articolo di una firma di Repubblica molto vicina al suo partito come Concita De Gregorio, tanto da essere stata in passato direttrice dell' Unità, organo del Pd. Ma si vede che i nervi sono tesi tra i Dem e che le critiche sono sempre legittime soltanto se i destinatari sono Salvini, Berlusconi o la Meloni. «È l' eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical chic, che vuole sempre dare lezioni a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo. Che degrado» ha twittato l' altro giorno un risentito Zingaretti dopo l' articolo della De Gregorio che lo dipingeva come «un ologramma», ma «tanto una brava persona», insomma una schiappa di leader. Non è finita lì perché un altro volto tv graditissimo (almeno finora) al Pd, Fabio Fazio, l' ha invitata a RaiTre dove la giornalista ha tirato altre frecciatine a Zingaretti. Notare che la De Gregorio è stata invece generosa con il ministro Peppe Provenzano («bellissimo il suo discorso ai funerali di Macaluso»), di cui suo figlio, Lorenzo Cecioni, è uno dei consiglieri al ministero per il Sud. Si noti anche che la De Gregorio è in corsa per la direzione della Gazzetta del Mezzogiorno e che, riferisce Dagospia, «è già stata a Bari e sta muovendo tutti i suoi contatti politici per non farsi sfuggire l' occasione di una nomina di prestigio». Tra i rumors gira voce che sia proprio il Pd ad essersi messo di traverso alla nomina della De Gregorio, che aspira ad una nuova direzione (dopo quella disastrosa dell' Unità, che ha chiuso). Dettagli che aiutano ad inquadrare meglio la diatriba tutta interna al più esclusivo salotto democratico. A cui si aggiunge Roberto Saviano, firma della scuderia Fazio, che casualmente attacca la Regione Lazio («Lo scempio della prenotazione vaccini Covid nel Lazio») guidata appunto da Nicola Zingaretti. Lo sgarbo di Fazio, che per una volta invece di leccare il Pd ha dato voce alle critiche al suo segretario, ha molto irritato i Dem, indignati per «l' assenza di contraddittorio». Nei social del programma i sostenitori del Pd si sfogano contro Fazio e la sua ospite: «Non ha la schiena dritta, Zingaretti ha fatto bene a risponderle a tono», «È stata perfida contro il Pd e subito viene cercata dai talkshow», «Assurdo il giornalismo di sinistra attacca a testa bassa i leader che invece dovrebbe difendere», «Trovo scorretto che si inviti Concita e non la controparte. Fazio non va bene così», «Che delusione incredibile Repubblica», «Concita la bella signora radical chic che in tv si tocca sempre i capelli non si deve permettere di offendere Zingaretti che è una persona seria». Questi solo alcuni degli elettori Pd offesi dalla coppia Fazio-Concita da cui si aspettano evidentemente una militanza cieca verso il Partito. I dirigenti Pd pensano le stesse cose, qualcuno come Orlando, vicesegretario del partito, lo fa apertamente: «È assolutamente legittimo promuovere una campagna politica contro un partito e che una trasmissione televisiva dia spazio a questa campagna. Mi pare invece stravagante la pretesa che questo partito non risponda». L' ira Pd si salda con la linea dei renziani, ostili a Fazio, con in prima linea il deputato Iv Michele Anzaldi, segretario della Vigilanza Rai, che dopo mesi di martellamento sul superpagato conduttore di RaiTre ha trovato adesso un alleato nel Partito Democratico: «È positivo che il Pd si accorga finalmente dello scandalo Fazio, una costosissima trasmissione fuori dalle regole che non rispetta la Risoluzione contro i conflitti di interessi di autori e agenti» ha scritto recentemente il renziano Anzaldi. Tanto da far circolare l' ipotesi che il contratto pluriennale di Fazio, in scadenza proprio nel 2021, possa non essere rinnovato. Sarebbe un editto bulgaro clamoroso. Ma assolutamente Democratico.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 3 febbraio 2021. Criticare Zingaretti è cosa buona e giusta, esattamente come criticare qualsiasi politico di cui non si approvino discorsi ed azioni. Non capisco per quale motivo Concita De Gregorio, editorialista di Repubblica ed ex direttore de L' Unità, sia stata aggredita dal segretario del Pd per avergli rimproverato alcuni atteggiamenti. Io non sposo le linee ideali di questa giornalista, della quale non sono amico, non avendola mai neppure incontrata. Però non comprendo per quale ragione ella non possa pubblicare un articolo aspro sul leader democratico, che non è Dio in terra bensì un uomo modesto, di cultura modesta, come quasi tutti gli esseri viventi. Non basta essere a capo di un partito ex comunista per sfuggire al giudizio, fosse anche sbagliato, espresso dalla stampa. Io mi sono dimesso entusiasticamente dall' Ordine dei giornalisti, che considero un ovile, eppure questo non mi impedisce di difendere una categoria sempre più vilipesa soltanto perché talvolta fa male il suo mestiere. Concita, nel caso in questione, si è limitata a esercitare un diritto: quello di spiegare ciò che pensa riguardo un personaggio pubblico. Dov' è il problema? Mistero. Mi risulta che pure Roberto Saviano, scrittore di successo a me poco gradito, abbia lanciato strali su Zingaretti, e anche egli è stato per questo bistrattato. Non entro nel merito dei suoi appunti (per me è libero di esternare ogni sua opinione, comprese quelle poco apprezzate). Tuttavia rimango basito nell' apprendere delle censure di cui è stato vittima. Da notare che tutti si sciacquano la bocca con la democrazia di cui evidentemente ignorano l' autentico significato, visto che se qualcuno elabora concetti originali, non conformistici, immediatamente viene condannato dai soliti soloni, di norma progressisti appassionati di politicamente corretto. Questo è un fenomeno abbastanza recente. La guerra al vocabolario infuria: è vietato ricorrere ai termini negro, zingaro, clandestino, per fare qualche esempio. Tutte parole, quelle citate, nient' affatto offensive ma, chissà perché, sono state messe al bando. Alla battaglia contro il linguaggio popolare partecipano intellettuali veri e sedicenti, col risultato di rendersi ridicoli. Ieri poi Michele Serra, un tempo l' unico comunista spiritoso e ora intruppatosi nel mucchio selvaggio della sinistra generica, sulla solita Repubblica verga un commento sul dirigente del Pd e non trova di meglio che aggrapparsi ai radical-chic, che Zingaretti ha evocato, per prenderlo per i fondelli. Serra afferma che radical-chic fa parte del linguaggio di Salvini e Feltri, quando io questa locuzione non la adopero, poiché mi dà sui nervi. In sostanza Michele su di me dice il falso, essendo abituato alle falsità tipiche della sinistra, comunista. Compagni, vi conosco, perciò non vi stimo. Ma sono in grado di tollerare persino gli stolti.

Vittorio Feltri replica a Michele Serra: "Dice che uso il termine radical-chic? Menzogna, tipico dei comunisti". Libero Quotidiano il 02 febbraio 2021. Nel mirino di Michele Serra, ci è finito Vittorio Feltri, il direttore di Libero. In un articolo su Repubblica di oggi, martedì 2 febbraio, la firma tendenza sinistra ha messo nero su bianco che il direttore sarebbe solito utilizzare il termine "radical chic". Falso. E a confermare il fatto che quanto detto sia Falso, ci pensa direttamente Feltri, su Twitter, laddove in breve cinguettio rispondere alla firma: "Michele Serra scrive su Repubblica che io uso dire radical chic. Non è vero. E non dire il vero è un esercizio tipicamente di sinistra, comunista", taglia corto il direttore replicando al "comunista Michele Serra".  Michele Serra scrive su Repubblica che io uso dire radical chic. Non è vero. E non dire il vero è un esercizio tipicamente di sinistra, comunista. — Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2021. Ma non è l'unico cinguettio. Vittorio Feltri, nella sua rassegna stampa, individua anche una frase di Antonio Padellaro che ci tiene a confutare. "Antonio Padellaro consiglia di non usare la parola poltrona per indicare il seggio parlamentare", premette il direttore di Libero. Il quale a strettissimo giro di posta aggiunge: "Vabbè usiamo divano o meglio letto visto che onorevoli e senatori non fanno che dormire e non comprano i vaccini", conclude in un mix dei due argomenti topici in questi ultimi giorni, consultazioni (ovvero poltrone) e vaccini. Antonio Padellaro consiglia di non usare la parola poltrona per indicare il seggio parlamentare. Vabbè usiamo divano o meglio letto visto che onorevoli e senatori non fanno che dormire e non comprano i vaccini. Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2021. Infine, Vittorio Feltri si spende in una ulteriore riflessione sulla parola "poltrone". "Continua la guerra alle parole - ricorda -. Poltrona è vietata. Noi a Milano usiamo cadrega e a Bergamo scagna. Cosa preferite?", chiede ai suoi follower. Domanda ovviamente retorica, quella del direttore: sempre e comunque di poltrona si tratta. Continua la guerra alle parole. Poltrona è vietata. Noi a Milano usiamo cadrega e a Bergamo scagna. Cosa preferite? — Vittorio Feltri (@vfeltri) February 2, 2021

Mail a Dagospia di Pierluigi Panza il 2 febbraio 2021. Caro Dago, oggi, nella polemica tra Concita De Gregorio e il segretario Pd Zingaretti (che le ha dato della “radical chic”) si è inserito Michele Serra. Il quale, dopo aver ricordato il contesto in cui nasce questo termine, scrive: “Il termine è diventato uno dei più abusati luoghi comuni, la classica arma spuntata, un blabla in mezzo a tanti. Non per caso lo usano a raffica i leghisti, che adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre”. Questo comprova la perfetta appartenenza di Serra ai radical chic ovvero, (cito da Wikipedia) a coloro che ostentano “una certa convinzione di superiorità culturale, con l'ostinata esibizione di questa cultura elevata" senza, naturalmente, possederla. Che Odoacre, infatti, usasse un “linguaggio politico povero” lo sa e dice solo Serra sulla base di non si sa quale fonte, poiché non esistono trascrizioni dei discorsi di Odoacre. Il quale certamente sapeva il latino, fu investito del ruolo dal Senato Romano e del quale  abbiamo un solo documento col quale concede al proprio comes domesticorum romano Pierius alcune proprietà in Sicilia. Quando si parla di “abusati luoghi comuni”, come quello dell’ignoranza dei barbari (visione, per altro, un po’ razzista), si dovrebbe quindi scrivere che ciò è un “abusato luogo comune usato a raffica da radical chic come Michele Serra”. Wikipedia  - Flavio Odoacre è stato un generale sciro o unno che nel 476 divenne re degli Eruli e patrizio dei Romani, riconosciuto poi dall'imperatore romano d'Oriente Zenone quale Patrizio d'Occidente, spesso chiamato Re d'Italia e si autoproclamò augusto, cosa che gli costò il regno e la vita. Fu il primo re barbaro di Roma.

Paolo Guzzanti per “il Giornale” il 31 gennaio 2021. Prendiamo nota della data perché passerà alla storia: ieri, addì 30 gennaio il segretario generale del partito erede degli eredi del Pci ha usato per esprimere massimo disprezzo, il termine «radical chic». Zingaretti ha voluto infatti rendere pubblica la propria reazione di rigetto nei confronti di Concita De Gregorio (nel tondo) che ieri mattina in un articolo di Repubblica aveva descritto il segretario dem come un uomo talmente insignificante e ridicolo, da leggere davanti ai giornalisti uscendo dal Quirinale, un foglietto con parole di circostanza, del tutto banali e perdenti rispetto a quelle frizzanti e improvvisate a braccio come nei comizi o nei talk, da Matteo Renzi uscendo dallo stesso Palazzo, cosa che ha destato deplorazione piuttosto che ammirazione. Il fatto notevole e anzi inaudito perché non ha precedenti, è che Zingaretti, ha pensato che fosse arrivato il momento di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, anche se poi ne è venuto fuori un sanpietrino lanciato per frantumare un equivoco, che ha così espresso pubblicamente: «Ho letto su Repubblica una pagina di Concita De Gregorio, in cui purtroppo ho visto solo l'eterno ritorno di una sinistra elitaria e radical-chic, che vuole sempre dare lezione a tutti, ma a noi ha lasciato macerie sulle quali stiamo ricostruendo». Macerie della sinistra causate dai radical-chic? A che cos' altro poteva riferirsi Zingaretti se non alla definitiva e imbarazzante chiusura dell'antica testata dell'Unità, di cui De Gregorio è stata l'ultima direttrice, coronata dal più disastroso insuccesso? La dichiarazione di Zingaretti prosegue poi così: «Chi fa un comizio in diretta dopo le consultazioni al Quirinale (allusione a Renzi ndr) è considerato un esempio; chi invece rispetta quel luogo, una nullità. Vorrà dire che la prossima volta mi porto una chitarra. Che degrado! Ma ce la faremo anche questa volta». Come i lettori comprendono, non stiamo riferendo di uno scambio di battute salaci, ma di un annuncio di divorzio pubblico - l'accusa è di maltrattamenti e crudeltà mentale tra l'ultimo dirigente dell'ex Partito comunista e un genere di giornalismo ucciso dalla sua stessa tossina: il ridicolo. Non era mai accaduto che un segretario ex comunista usasse l'espressione «radical chic» creata dal geniale scrittore americano Tom Wolfe nel 1970 per definire la presunzione pestifera di sinistra abituata con un atteggiamento presuntuoso e spocchioso ad intimidire la sinistra politica con un linguaggio scaltro, allusivo, e di abbondanti secrezioni tossiche. L'expertise di Zingaretti è difficilmente confutabile: l'articolo della De Gregorio consiste in un ritratto di malintenzionato snobismo per descriverlo come un poveraccio, incerto persino nel camminare, spoglio di qualsiasi dignità. Che si tratti di una scrittura di genere e indubbio, dal momento che le meritate fortune di De Gregorio derivano da una coltivata abilità nel costruire sensazioni di facile e superficiale disprezzo. Ciò che oggi registriamo è che il segretario del maggior partito della sinistra mandi a quel paese l'aggressività inconsistente dell'ideologia «radical chic» portatrice di rovine per la sinistra stessa. Quando nel 1976 Eugenio Scalfari fondò la Repubblica con pochi valorosi o sconsiderati fra i quali io stesso, incontrammo la naturale diffidenza dei dirigenti del partito comunista che guardavano con sospetto un giornale «di sinistra» che sfuggiva alla loro influenza. Seguì un periodo di reciproco sospetto al termine del quale giornale e partiti si riconobbero le rispettive indipendenze, almeno in un primo tempo perché poi le cose cambiarono. Da allora i rapporti tra partiti e giornali sono cambiati non in meglio ma qualcosa di pessimo è sopravvissuto di quell'epoca: il delirio di onnipotenza dei radical chic, ormai privo di qualsiasi fascino. Questa è la ragione per cui ci è sembrata un segno dei tempi la scomunica e il divorzio fra residuati della spocchia e un leader della sinistra italiana politica che è andato molto vicino ma senza usarla - all'espressione più amata dai grillini. Una storia d'amore fittizio è terminata, cenere alla cenere, parce sepulto.

La disfida dei radical chic, padroni del Bene e del Male. De Gregorio contro Zingaretti, Michele Serra e Flavia Perina: esistono i radical chic? Ecco chi sono. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 05/02/2021 su Il Giornale. Non so se avesse ragione Concita De Gregorio o Nicola Zingaretti nella disfida dei radical chic andata in onda qualche giorno fa su giornali e social media. La prima che accusa il secondo di essere un sughero inconsistente, lui che sbertuccia lei sul “ritorno di una sinistra elitaria e radical chic che vuole sempre dare lezioni”. Probabilmente nessuno dei due aveva davvero torto. È tuttavia necessario, sarebbe sciocco non farlo, che questa rubrica si occupi del tema. Non solo perché è l’oggetto dei nostri ragionamenti, ma perché sentire il bue (Zinga) che dà del cornuto all’asino (Concita) richiede un approfondimento. Soprattutto se, come successo in questi giorni, sul tema decine di giornalisti e commentatori hanno sprecato fiumi e fiumi di inchiostro. Parto da un principio. Radical chic oggi non c’entra un tubo con quanto inventato da Tom Wolfe per gli artisti che filtravano con le Pantere Nere. Perché i termini, soprattutto alcuni, cambiano significato nel tempo. Radical chic oggi rappresenta chi vanta di avere una superiorità morale e politica tale da dividere il mondo in buoni e cattivi, il tutto spesso condito con un nonnulla di “due pesi e due misure”. Rappresenta insomma chi elogia la battaglia ambientalista e poi va in giro col jet privato. Radical nei contenuti ma chic nelle movenze. Chi combatte l’inquinamento e smanetta sugli iPhone. Chi predica accoglienza ma non a Capalbio. Chi si indigna per le mascherine mancanti nella manifestazioni di destra e nulla dice per gli assembramenti dei Black Lives Matter o dei seguaci di Navalny. Chi insomma ritiene che si debba difendere la libertà di espressione, ma non se ad esprimerla sono gli anti-abortisti. In sostanza è l’appellativo perfetto per chi bacchetta sempre a destra e sparge solo petali a sinistra. Sbaglia Flavia Perina a sostenere che in fondo siamo tutti radical chic, pure i cronisti di questo giornale. Non è così. Lo sono invece i tanti inviperiti per l’affondo rivolto da Zingaretti alla De Gregorio: possibile che un leader politico non possa criticare come gli pare un giornalista? Lei l’ha definito “sughero” e tanto altro, avrà pur diritto il povero Zinga a replicare piccato, no? Anche la categoria di cui non faccio ancora tecnicamente parte, infatti, sa dare esempio di altissimo schicchismo. Il più elitario. Ma sbaglia soprattutto Michele Serra a definirlo un termine “schiettamente di destra”: non è la parola ad essere di destra, è l’insieme di soggetti che essa rappresenta ad essere progressista. Non è vero neppure che l’establishment tout court sia considerato dalla “demagogia populista” come tale: Draghi, per esempio, nessuno si sognerebbe mai di definirlo tale. Radical chic non è una condizione sociale. È una forma mentis. Tipo quella di Serra, secondo cui i leghisti “adoperano uno dei linguaggi politici più poveri dai tempi di Odoacre”. Sul tema, comunque, il migliore dei commenti l’ha scritto Giampiero Mughini, al quale va dato atto di aver fornito - inconsapevole - un’ottima descrizione dei soggetti di questa rubrica. Radical chic sono quelli che si lasciano “andare alle tiritere su dove sta il Bene e dove sta il Male” per poi puntare il ditino contro chi ritengono indegno. “E questo perché in fatto di Bene e di Male” loro sono categorici: tutto quello che a loro non piace è “il Male” e allora ne dicono “peste e corna”. Bettino Craxi era il male, Silvio Berlusconi era il male, oggi Matteo Salvini è il male.Dagospia il 14 febbraio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Spettabile Dagospia, per la seconda volta in pochi giorni mi corre l’obbligo di palesare i consueti riferimenti imprecisi di opinionisti radical-chic. La settimana scorsa fu Michele Serra che, per criticare il linguaggio politico dei leghisti, si riferì a inesistenti discorsi di Odoacre. Questa volta è Francesco Merlo che, scrivendo dell’uscita di scena dell’ex primo ministro Giuseppe Conte cita malamente Teodosio nel modo seguente: “Ma dagli Stati Generali in poi (ndr si riferisce a Conte) si trasformò come Teodosio che davvero credette di poter fare l’imperatore di Roma pur essendo un ispanico, un provinciale, un burino, un ciociaro, sepolto dalla sua ambizione…”. Di tutte queste attribuzioni a Teodosio l’unica corretta è “hispanico”, che però, allora, non definiva uno straniero essendo l’Hispania una regione dell’Impero Romano. Teodosio fu detto addirittura “il Grande” e fu imperatore romano (379-395), visse anche in Italia e a Roma sino al 391 e sotto di lui, con l’editto di Tessalonica, il Cristianesimo divenne la sola religione ufficiale dello Stato. Fu, per alcuni anni, imperatore unico e più che “sepolto dalla sua ambizione” (più correttamente dalla “propria ambizione”), Teodosio fu sepolto addirittura da Sant’Ambrogio! Peggio di questa citazione ci sarebbe solo l’altra, dove si dice che per l’uscita di scena di un politico non è stato “intonato il Requiem di Mozart o Brahms”. Lasciamo perdere… Pierluigi Panza

Dagonews il 15 aprile 2021. “La violenza di uomini colti come Corrado Augias e Pierluigi Panza nei confronti della serie tv su Leonardo ha qualcosa di snob”. Vittorio Sgarbi rivela che la polemica tra la Lux Vide, che ha coprodotto il film per la tv, e il critico del Corriere della Sera nasce da “un equivoco profondo”. “Un film non è un saggio e non è un racconto, è il tentativo di prendere un personaggio storico e far sentire qualcosa che coinvolga persone che nulla sanno di lui”. Le licenze della sceneggiatura, quindi, “non compromettono il racconto della figura di Leonardo che risulta dalle opere, dall’impegno e dal suo rapporto con Dio. E’ un film utile per il grande pubblico che lo guarda”. Poi il critico torna sulle parole di Panza che suggeriva a Luca Bernabei, ad della Lux Vide, di cambiare consulente storico: “Che il caro amico Vittorio Sgarbi sia “il più grande esperto in Italia su Leonardo” – scrive Panza - lo lasciamo dire a un non esperto come il dottor Luca Bernabei: dopo la morte di Carlo Pedretti l’ambita palma va forse a Pietro Marani”. Sgarbi rimarca che il libro che ha scritto su Leonardo lo ha fatto proprio con il Pietro Marani citato da Panza. “Lui dice che non sono una figura di riferimento per raccontare il maestro? Io non sono uno specialista, ma la presenza di Marani dà al mio libro la ragione per la quale alla Lux Vide hanno ritenuto di avere una mia legittimazione che io ho dato perché si tratta di una serie tv e non di un libro”. “Il paradosso – continua Sgarbi - è che il critico del Corriere della Sera ha suggerito a Bernabei di fare un film sul “Salvator Mundi”, il dipinto venduto a 450 milioni attribuito a Leonardo, ma la Lux Vide ha chiamato me. Lo spunto che Panza ci ha dato, dunque, farà nascere una nuova serie tv per raccontare l’avventura del Salvator Mundi e altre storie misteriose di quadri. E Bernabei ha chiesto a me di fare da consulente e non a lui…”

Spunti anti-classista. Rimpiangere i libri e denigrare i social: il solito tic delle élite. Alberto Abruzzese su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. In queste settimane, il più che tardivo, improvvisato, sordo e spesso disonesto dibattito di governo e pubblico sulle rispettive doti della formazione a distanza oppure della formazione in aula, ci sta dimostrando quanto la tragica occasione pandemica non venga colta dai “decisori” in corso per rompere con il passato ma per rigettarlo dentro il presente e addirittura il futuro. L’imperativo è decidere il medium della formazione senza cambiare radicalmente i suoi contenuti, come invece sarebbe necessario per arrivare al medium più opportuno. Si è parlato di tutto questo anche su Facebook, per diretta sollecitazione di Derrick de Kerckhove, ricercatore e teorico in campo mediatico – da Toronto a Napoli – tra i più attenti alle conseguenze sociali della digitalizzazione del mondo umano. S’è discusso tra “amici” di vario orientamento critico sulle diverse opzioni culturali tra chi conserva e chi invece ricusa il primato storico, scientifico e ideologico, detenuto dai linguaggi del “libro”. Del libro, non solo in quanto scrittura alfabetica stampata su carta (o in digitale, come fosse pietra), ma del libro come mentalità, bolla culturale, simbolica e funzionale, del sistema di valori ancora potentemente alimentato, sostenuto e tramandato dagli apparati e dalle istituzioni, dalle politiche e professioni, della società moderna. Per alcuni tra noi, compreso me stesso, si tratta di un sistema di valori, pregiudiziale e superstizioso, che sta sopravvivendo alla stessa progressiva obsolescenza e morte dell’editoria cartacea. Dunque della scrittura-lettura dei libri come fulcro dell’intelligenza umana. Per altri di noi, o meglio della nostra stessa “cellula”, il primato del libro varrebbe invece tuttora proprio come garanzia di un pensiero critico, solidamente fondato e progressivo, non abbandonato al marasma sociale, per quanto fascinatorio, delle reti. E, negli stessi termini, varrebbe come baluardo contro la strapotenza raggiunta dalla tecnica sulla persona umana e sui suoi più irrinunciabili valori. La domanda cruciale è dunque se i libri siano e debbano essere ancora considerati la primaria fonte di conoscenza in grado di bilanciare gli effetti sociali (etici e estetici, politici e civili) della avvenuta nascita del “nostro gemello digitale”, come definito appunto dall’amico Derrick. Partecipando a questa discussione, Salvatore Iaconesi, tra i più vivaci attori e protagonisti di vita digitale, ha scritto: «Per avere a che fare con questa globalità, iper-connessione, intensità, quantità, attività, sensazione, il nostro corpo (composto di carne) non ci basta più. La nostra carne, come medium del sentire, non è più sufficiente». È a questa sua coraggiosa affermazione che vorrei rispondere. Con qualche mio eccesso da dilettante. Nel parlare di IA, dunque d’ogni sua applicazione digitale, robotica e via andando … molti influencer (categoria di operatori sociali che, desunta dal marketing, si può ormai estendere a giornalisti, intellettuali, professionisti e politici) tendono o meglio sono portati a immaginarsi che il mondo esista soltanto perché umano, apparato economico-politico umano. E dunque sia orientato a muoversi in superficie – sulla propria superficie, compresa la pelle umana – così, ancora e inevitabilmente, mirando verso se stesso e i suoi più estremi confini, comunque “terrestri”, nel senso di geopoliticamente umani. È Atlante, fratello di Prometeo, a reggere il mondo sulle sue spalle di Gigante. Il viaggio (al contrario delle stasi dei corpi migranti) è ancora ora quello delle “tre caravelle” verso nuove terre e altri corpi da sfruttare. I conflitti di potere sono ancora tra amici e nemici che, in urto tra loro, abitano e si contendono uno stesso territorio, le stesse risorse, il medesimo futuro, senza ascoltare altro che se stessi. Amici e nemici in e di una esistenza che non appartiene loro e tuttavia attraversano da proprietari e conquistatori. È proprio il metodo di ricerca esperienziale di Iaconesi a mostrarci, invece, di quanto ci si possa allontanare dai paradigmi più duri, resistenti e insensibili – corazzati – della modernità. Al posto del suo occidentale “principio speranza” ha messo la malattia: la sofferenza fisica diventa un valore da non rimuovere da sé (prassi quotidiana, invece, dei conflitti sociali). E la cura – non del sano versus il malato ma di questi verso il sano – è messa al posto della conoscenza. La coscienza del male, al posto del libero arbitrio del bene. La carne al posto del corpo e il corpo della persona al posto del soggetto sociale. Del suo interesse dispotico. Abbastanza per farne un laboratorio di pratiche umanamente situate in grado di funzionare almeno da correzione se non da vaccino all’idea che la civilizzazione umana debba continuare a navigare lungo le medesime rotte occidentali, costringendo il nostro corpo a seguirle e perseguirle. A espandersi con esse e in loro nome. Le ultime tappe delle neuroscienze e gli orizzonti a venire della fisica quantistica si sono fatte ora tanto strabilianti da prestarsi a potere frantumare la formula classica dell’essere umano, in quanto soggetto identitario destinato a conoscere e conquistare la terra e il cielo. A farsene carico come Atlante. E potere così sfigurare la missione prometeica simbolicamente impressa, stampata, sulla figura di Galileo. E così mutare definitivamente la direzione del suo cannocchiale. Bisogna allargare lo sguardo con la vista del microscopio. Per mezzo di macchine, il soggetto moderno – l’angelus novus che le ha concepite, sviluppate e fatte progredire nello spazio e nel tempo – sta rivelando la natura, essa stessa macchinica, di qualsiasi organismo esistente al mondo in ogni sua minima, media e massima dimensione. Dimensioni che diciamo propriamente materiali, quando se ne può riscontrare la effettiva loro consistenza fisica, ma che invece – nell’impossibilità di tale riscontro, di tale reale percezione esterna – diciamo impropriamente immateriali: sensazioni, finzioni di funzioni, relazioni affettive, appetiti o repulsioni, memorie. Tuttavia, ogni immaginazione umana – già prima di ogni sua concreta realizzazione, oggetto d’arte e artificio – funziona e può funzionare solamente grazie a motori in grado di produrla per essere consumata e consumarla per essere prodotta. Trans-metterla. Ovvero il mondo come perenne rifinitura (finish). E dunque, prima di ogni altra interfaccia necessaria alla nostra carne per intrattenersi materialmente con il mondo in cui è trattenuta (dallo stagno di Narciso a Internet), c’è da considerare quella interfaccia – propriamente la più personale, singola e intima – che ha preso il nome di interiorità. Pure quella che ci è stata detta anima: la presenza in noi più “spirituale” e per questo ritenuta più aliena da ogni scambio e accumulazione di interessi materiali, terreni. Le macchine – qualsiasi dispositivo tecnologico: dalla mano all’osso di Kubrick al martello alla spada al pallottoliere e alla penna d’oca sino all’IA – sono state e sono estensione della nostra carne. Coraggiosamente – quasi a volere trovare l’anima da soffiare dentro al “gemello digitale” in cui ci siamo tradotti – Iaconesi ci dice che una umanità da sempre siffatta in virtù della propria stessa carne non ci basta più “come mediun del sentire”. Ha quindi un reale bisogno delle nuove macchine numeriche? Pensiamoci insieme. Se già il “mondo nuovo” della voce umana venne alla luce grazie alla liberazione della bocca dalla sua precedente funzione prensile, ciò vuole allora significare che, procedendo su questa stessa linea, l’intera nostra carne è infine giunta al punto – estremo – di esonerarsi da se stessa? Così ragionando (è il mio modo e penso anche quello di Iaconesi), si arriva sempre e comunque a dovere riconoscere lo stato di necessità e il desiderio di sopravvivenza della natura che abitiamo (le leggi non scritte della Natura) e da cui siamo abitati minuto per minuto. Proprio agendo le qualità naturali che lo costituiscono, l’essere umano si è in esse “distinto” a tal punto, per mezzo della sua politica di civilizzazione, da arrivare a separarsi o meglio credere di essersi separato dai linguaggi non umani, inumani, della stessa natura che lo ha partorito e fatto crescere. Tanto da arrivare a credere di avere avuto la effettiva potenza di realizzazione necessaria a tale definitivo distacco. Ma veniamo al punto su cui ci interroga Iaconesi. Dato l’avvento già manifesto e riconosciuto della iper-potenza tecnologica, cosa ancora resterebbe da esonerare nella carne umana dopo avere raggiunto il suo corpo e il suo cervello? Interessante domandarselo: certamente perché ci impone come cruciale, ultimativa, la riflessione su quanto in effetti sia rimasto all’umano di veramente umano. Stando al progresso storico e sociale – “residuato bellico” di una qualsiasi delle applicazioni tecnologiche con cui la nostra carne si sarebbe liberata – resta allora utile chiedersi quanto l’Umanesimo arrivi di conseguenza a scoprirsi di fatto non più come virtù del libero arbitrio e, conseguentemente, della sovranità dell’essere umano sulle cose del mondo, ma semplicemente, brutalmente, virtù della potenza della tecnica. Eccetera, eccetera … vecchia questione. Ancora cumuli di libri! Mi interessa di più guardare la questione da un altro punto di vista. Credo che la nostra carne sia senza fondo e non ci sia mai bastata per vivere. Da qui, dunque, la catena di esoneri di cui si fa l’elenco, seppure senza avvertire, confessare, quanto essi sono di volta in volta avvenuti e avvengano in condizioni temporali e spaziali distanti tra loro: dunque non in uno stesso momento e non in uno stesso luogo. E quindi penso che la giusta sensazione di insufficienza di cui ci parla Iaconesi, volendo orientarci verso di essa, riguardi piuttosto soltanto l’esiguo, ristretto, “noi” di una intelligenza antropologico-culturale di esclusiva proprietà dei ceti sociali pienamente alfabetizzati, socialmente istruiti e, a ragione di questo, egemoni. Appunto il “noi”: non tutti gli esseri umani, ma la loro selezione, scrematura, domina su tutti gli altri. E con diversi mezzi domina sulla diversità delle loro esperienze vissute. Carne, privilegiata da sé medesima a proprio vantaggio e da se stessa tecnologicamente aumentata a fini strategici, si trova ancora a vivere oggettivamente e soggettivamente separata da una massa infinitamente più espansa di vita organica e inorganica. Per questo, ripeto sempre, si può pronunciare e scrivere la prima persona plurale soltanto tra virgolette così che ne condizionino e limitino il senso e la credibilità. E di conseguenza, per comprenderne il reale significato, sarebbe necessario virgolettare anche il tutti. Ci si dovrebbe finalmente convincere di quale inganno si nasconda nel gioco di società tra élite e mondo. La crema di pensiero e azioni del “noi” si mantiene scissa dal vero mondo di cui essa è ospite indiscreto. Per lei, società della conoscenza, la sfera del tutti&tutto in senso pieno, è di fatto quasi muta per il proprio orecchio. Alla sua coscienza critica risulta una estensione sommersa, narcotizzata, dai troppi rumori di fondo e dalle interferenze che vengono dalle infinite sensazioni rarefatte, cieche e mute, da cui il “noi” si protegge. La sua “eccellenza” – oggi non a caso una delle parole d’ordine di tutte le università del mondo e dei loro codici di comportamento etico e professionale – agisce dal di fuori, da estranea, assente, in sostanza disabile, rispetto al mondo. E questo è dunque nettamente, crudamente, ancora distante dal “noi” che ne ha usurpato ogni possibilità di rappresentazione. Dalla sua quasi perfetta sintesi tra conoscenza e possesso. Ad opera di questi soprusi, il “noi” raggiunge il proprio scopo: si dota di reciproca comprensione tra i suoi membri. È la comprensione realizzata dai canoni dell’istruzione e della formazione, che fanno del proprio linguaggio un vincolo etico e estetico. Familiare e civico. La coppia antagonista amico-nemico – coppia alla quale il pensiero politico moderno ha affidato i destini del mondo – resta così tutta dentro i limiti, ancora oggi sostanzialmente invalicabili, giorno per giorno imposti delle recite sapienziali così ben “forgiate” dall’Umanesimo. Dalla sua lunga sequenza aristocratica di forme di sovranità, prima celesti e poi terrene, che sono arrivane sino a ieri e ad oggi. Sino al bagno di sangue della democrazia, alla sua condizione utopica/distopica tra sovranità della politica e sovranità del “popolo”. . Delle pene e dei diritti. Tale tradizione lega me e te – i nostri “noi” amici e nemici – al possesso della medesima dote: quella del Libro, la parte che lega il tutto. Torniamo quindi all’inizio: la cosa da fare è andare contro il sistema di valori e pratiche incarnate in quella forma di vita sociale che ha avuto nel libro il suo dispositivo ideale – e a ragione di questo ritenere che solo le piattaforme di comunicazione digitali possano funzionare da antidoto, territori di contrasto, alle malie della modernità ultima. Grande letteratura, grandi narrazioni e grandi teorie, ma senza più altre vie d’uscita dalle loro fascinazioni. Questa linea di condotta va in direzione contraria a chi lancia anatemi all’indirizzo di barbarie umane che sarebbero frutto degli errori e colpe di una civiltà senza più educazione (trascinamento) verso le forme di conoscenza tramandate dai libri e dai modelli antropologico-culturali dei loro scrittori. Lo sforzo da compiere è però tutto da indirizzare verso la effettiva comprensione della specificità di questa sorta di svista – per più aspetti anche reciproca – tra i due divergenti mondi tecnologici che oggi abitano la terra (libro e algoritmo, se ancora mi consentite la sintesi terminologica di cui mi servo). Questa svista continua a accadere per tre ragioni. La prima consiste nel fatto che, spero si sia capito, il nodo di cui stiamo parlando in questo articolo non riguarda le funzioni che il libro e anche ogni altra sua traduzione digitale possano avere avuto ed essere destinate ad avere nel campo della ricerca tecno-scientifica e persino umanistica. La seconda ragione sta nel fatto che alla frequentazione dei territori analogici e a quella dei territori digitali non corrispondono esattamente le stesse vocazioni professionali. C’è chi frequenta la rete conservando la propria identità cartacea e chi frequenta la carta conservando la propria identità digitale. La terza ragione è a mio avviso più sostanziale. La sfera umana, quella sua assai estesa parte che la sfera sapienziale considera ignorante, viene presunta tale in quanto reputata arretrata rispetto alla sua presunzione alfabetica di credere d’essere una già compiuta espressione del mondo, costituirlo pienamente e costituirne il destino. Al contrario ci si può forzare a pensare che siano proprio le qualità analfabetiche imputate alle masse incolte, in-civili, ad essere immensamente più avanti nel senso di ancora, seppure virtualmente, aperte al futuro. Lo spazio umano, il suo abitare in natura, viveva già molto prima che il tempo della civilizzazione, il suo progredire, iniziasse a correre sempre più velocemente e, per così dire, a lasciarselo alle spalle. E dunque questo spazio in tutto umano – pur trascinato come tale da e in un futuro per sé monco e unilaterale – ha continuato a vivere sino ad oggi. Al mondo della carne – la vita organica più vicina alla vita della natura – il soggetto sapienziale ha imposto il suo tempo e i propri luoghi. Grazie alle tecnologie alfabetiche ha esercitato il proprio dominio, le sue teorie e pratiche di assoggettamento, collocandosi più avanti proprio in forza dei limiti – delle limitazioni – imposti dalla vita sapienziale a quella umana. Ora, alla vita umana, alle sue possibilità di espressione, i linguaggi non più analogici ma digitali offrono, data la natura virtuale delle loro piattaforme, la possibilità di collocarsi più avanti rispetto ai vincoli sapienziali sino qui sopportati come verità. Conclusione. L’unico modo per contravvenire allo schematismo e persino manicheismo di questa mia lettura – e così liberarsene in virtù di una semplice, banale, considerazione – sta nel riconoscere quanto, al di là della loro reciproca repulsione, la carne dei sapienti sia anche la carne degli ignoranti, seppure così violentemente divise dalla società. Quanto, dunque, la singola persona costituisca nel suo intimo la più profonda piattaforma espressiva di cui dispongono le sfere del sapere e quelle dell’ignoranza (così come sin qui ho cercato di declinarle): la vita che oggettivamente più le lega e le divide. Ripartire da questo ci porta a dovere riconoscere nella singola persona, dentro la sua coscienza infelice, il suo io diviso, il teatro di conflitti che la dividono tra due sue diverse, opposte, presenze, necessità: armate l’una contro l’altra. In attesa di una decisione. La posta di questo conflitto è il dolore della carne in sé e per sé. La sofferenza inferta e subita dovendo vivere socialmente.

Ernesto Galli Della Loggia contro Mani Pulite: ricordate quando tifava per il pool? Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Febbraio 2021. Va molto bene denunciare la “demagogia scatenata dalle inchieste di Mani Pulite”, come fa Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di ieri. E va benissimo dolersene, registrando la mole dei danni fatti al Paese dall’imperversare di quella cultura, che poi era una prassi perché non si trattava di speculazioni dottrinarie ma dell’Italia da rivoltare come un calzino mettendo ai piombi la politica corrotta a cominciare dal “furfante” Bettino Craxi (copyright Petruccioli) da rammostrare agli italiani mentre consuma “il rancio nelle patrie galere” (così Rutelli, quello dei diritti umani). Solo che la denuncia del 2021 sarebbe più completa se fosse guarnita del dettaglio che invece manca: e cioè un’indicazione almeno vaga su chi abbia scatenato la demagogia di cui ci si duole. C’è infatti sentore, diciamo, che il Terrore giudiziario degli anni Novanta del secolo scorso imperversasse anche grazie a qualche aiutino celebrativo della stampa che oggi ne rimpiange la vittima istituzionale, e cioè l’immunità parlamentare (ma ci sarebbero anche quelle più carnose e singolari, il manager con la testa chiusa in un sacchetto di plastica e il dirigente che scende in cantina e si tira una fucilata in bocca, due tra i tanti destinatari delle cure di giustizia secondo il modello dei pubblici ministeri che facevano sognare il popolo onesto). C’era ben poca perplessità, a quell’altezza di tempo, circa il profilo demagogico di quella presunta giustizia, e anzi qualcuno ricorda (qualcuno ricorda?) gli editoriali del medesimo professor Galli della Loggia sul medesimo Corriere della Sera a proposito degli “eccezionali risultati” ottenuti dal Pool milanese, persino con il consiglio ad Antonio Di Pietro, poi a sua volta esposto a qualche interesse inquirente, di sottoporsi senza troppe menate garantiste al trattamento così efficacemente riservato a quelli che fino al giorno prima lui interrogava e teneva al gabbio finché confessavano. Più manette per tutti, pressappoco, era il lungimirante assunto di quell’editorialismo. Tra i problemi della giustizia, di cui pure – et pour cause – ci si occupa in modo non proprio tempestivo, c’è dunque quest’altro: la stampa magari non responsabile di averla resa ingiusta, ma sicuramente responsabile di aver lasciato che si rendesse ingiusta. È una specie di demagogia per omissione, non meno grave.

·        Wikipedia: censoria e comunista.

Dagotraduzione da Unherd il 17 luglio 2021. Wikipedia è il quinto sito web al mondo, raccoglie 6,1 miliardi di visite al mese e contiene una panoramica di quasi tutti gli argomenti. L’influenza dell’enciclopedia online è così grande che è l’opera di riferimento più grande e più letta della storia, con 56 milioni di edizioni. Ma la verità su questo fornitore di informazioni apparentemente neutrale è un po' più complessa. Da sempre, Wikipedia è scritta da una comunità di volontari che tra di loro entrano in competizione per migliorare le informazioni e avvicinarle quanto possibile alla verità. Secondo il co-fondatore Larry Sanger, questi volontari dovrebbero «combattere». Questa battaglia di idee sulla piattaforma di Wikipedia ha costituito una parte cruciale dell'impegno dell'enciclopedia per la neutralità, che secondo Sanger è stata abbandonata dopo il 2009. Negli anni successivi, su temi che vanno dal Covid a Joe Biden, è diventata sempre più partigiana, sposando principalmente il punto di vista dell'establishment. Per questo motivo Sanger ha lasciato il sito nel 2007, perché «irrimediabilmente rotto». Ecco cosa ha detto. 

C’è un pregiudizio di sinistra su Wikipedia?

«Non puoi assolutamente citare il Daily Mail. Non puoi nemmeno citare Fox News su questioni socio-politiche. È vietato. Che cosa vuol dire? Vuol dire che se una polemica non compare sui principali media di centro-sinistra, allora non apparirà su Wikipedia». 

E sul Covid? 

«Se leggi gli articoli di Wikipedia, puoi vedere come stanno semplicemente esprimendo il punto di vista del Consiglio economico mondiale o del Forum economico mondiale, dell'Organizzazione mondiale della sanità, del CDC e di vari altri portavoce dell'establishment come Fauci: prendono lì i loro spunti... C'è un'applicazione globale di un certo punto di vista, che è sorprendente per me che sono un libertario, o un conservatore amante della libertà». 

In quali modi, oltre alla politica, si manifesta questa visione dell'establishment?

«La medicina orientale viene sprezzantemente definita ciarlataneria, e così via. È fatto, apparentemente, senza scrupoli. Per esempio, se parliamo di cristianesimo, il punto di vista offerto è quello liberale, che si trova nelle confessioni principali e nel cattolicesimo liberale, ma è in contrasto con l'attuale punto di vista di tipo fondamentalista credente nella Bibbia».  

Come vengono distorte le voci di Wikipedia?

«Ci sono aziende come Wiki PR, dove scrittori ed editori pagati entrano e cambiano gli articoli. Forse c'è un modo per far funzionare un tale sistema, ma non se i giocatori che sono coinvolti e che vengono pagati non sono identificati per nome. Dovrebbero essere identificati per nome e dire "rappresentiamo questa azienda" se sono ufficialmente registrati con una sorta di società di editing di Wikipedia. Ma invece non devono farlo». 

Perché sta succedendo?

«Perché è Wikipedia è molto influente nel mondo. Dietro le quinte c’è un grande fermento per pilotare gli articoli». 

Sull’acquisizione di Big Tech? 

Ci siamo affidati a punti vendita come Facebook, Twitter e YouTube con i nostri dati e abbiamo permesso loro essenzialmente di conquistare il mondo dei media. Ciò di cui ci siamo fidati era la nostra libertà e la nostra privacy, che fondamentalmente non ci avrebbero fatto chiudere. Ma ci hanno pugnalato alle spalle, essenzialmente».

Wikipedia, 20 anni in direzione ostinata e contraria. di Riccardo Luna su L'Espresso il 15 gennaio 2021. Wikipedia, che oggi compie 20 anni, sembra fatta apposta per far svanire le nostre certezze. È uno dei siti più visitati del mondo ma il suo fondatore non è diventato miliardario (è felice lo stesso). Ogni mese genera 18 miliardi di pagine viste in decine di lingue e non ha mai speso un dollaro per farlo sapere. Ogni mese aggiunge ventimila articoli e non paga nulla agli autori che sono tutti volontari. Non fa titoli acchiappaclic: semplicemente non fa titoli. Non ha pubblicità e vive solo di donazioni anche minuscole (due dollari il minimo). Non profila gli utenti, quando ci navighi non c'è nessun cookie che inizia a spiarti con il tuo consenso distratto. Non usa algoritmi per indovinare i tuoi argomenti preferiti: li scegli tu quando ne hai bisogno. Non teme di mettere i link quando cita qualcuno o qualcosa: ti invita a cliccarci e ad approfondire. Mette i fatti prima di tutto, ma segnala anche opinioni e idee se hanno cambiato il mondo. Non è cresciuta perché ha investito i soldi dei venture capitalist della Silicon Valley: è cresciuta perché serviva e alla gente è piaciuta subito. Non ha azionisti, non pensa di quotarsi in Borsa: alle spalle ha una fondazione. Non usa l'intelligenza artificiale ma solo quella di esseri umani: se escludiamo l'edizione in cebuano, nelle Filippine, che ha un bot per tradurre i testi dall'inglese, è un sito fatto al 100 per cento da esseri umani. È gratuita ma è stato calcolato che il valore che genera per ogni utente è di circa 150 dollari l'anno. Non è diretta da un giornalista, è gestita da una comunità, ma con il tempo è diventata un argine contro le notizie false più autorevole dei giornali. Per molte domande gli assistenti vocali di Apple, Google e Amazon vi daranno la stessa risposta: quella che hanno trovato su Wikipedia. Quando ha debuttato Microsoft aveva lanciato da otto anni una sua enciclopedia per fare concorrenza alla Britannica: si chiamava Encarta ed era un cd-rom multimediale che si aggiornava ogni anno: l'ha chiusa nel 2009, la Britannica invece si è arresa nel 2012. È digitale, ma volendo te la puoi stampare tutta (gratis ovviamente): qualcuno lo ha fatto. Wikipedia è troppo bella per essere vera: in un mondo guidato dal profitto ha messo al centro la conoscenza, al posto della competizione si è basata sulla collaborazione anche fra estranei, e la tecnologia - la piattaforma wiki - l'ha messa al servizio delle persone. Insomma dal 2001 è sempre andata in direzione ostinata e contraria. Non stava sbagliando strada, stava costruendo una utopia. Nel mare del web, l'isola che non c'era. 

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 17 gennaio 2021. Per scrivere questo pezzo su Wikipedia abbiamo consultato Wikipedia. E già questo cortocircuito testimonia quanto la ricerca di fonti affidabili sia stata sostituita, anche per via di questa enciclopedia online, da un' erudizione dozzinale di massa. Ci tocca ammetterlo, da giornalisti: Wikipedia ha reso molto più rapido il processo di documentazione su fatti e persone e ha agevolato, almeno nei tempi, il nostro lavoro. Parimenti però lo ha reso molto più sciatto e meno verificato. Lo scadimento attuale della qualità dell' informazione passa anche da lì. Ecco perché, in occasione dei 20 anni dalla nascita di Wikipedia che cadono oggi, è giusto raccontare l' opportunità che essa ci ha offerto di sviluppare una fast culture, versione culturale del fast food, munendoci di un Bignami in rete sempre consultabile; e così favorendo un' apparente competenza universale e gratis, una preparazione in estensione e senza costi. Allo stesso tempo però Wikipedia, fondata il 15 gennaio 2001 da Jimmy Wales e Larry Sanger, è stata anche tra le responsabili di un ventennio sfascista per la nostra istruzione, che ci ha reso più ignoranti in profondità. Per colpa di questo serbatoio universale di voci (55 milioni in tutto il mondo, di cui 1 milione e 666mila solo in Italia), ci si documenta meno sui libri e si attinge meno a fonti autorevoli. Ci si fida piuttosto, proprio perché di facile accesso, a una fonte che è, per auto-ammissione, inaffidabile. Le pagine di Wikipedia possono essere scritte da chiunque, senza che gli autori siano esperti nel settore di cui scrivono. I loro contributi non vengono vigilati, vagliati e, se inesatti, cassati. No, restano lì, generando un miscuglio di storie vere e false notizie, spesso indistinguibili le une dalle altre. E la cui responsabilità, in ogni caso, non può essere fatta ricadere su colui che scrive. «Wikipedia NON PUÒ garantire, in alcun modo, la validità delle informazioni pubblicate», si legge nelle avvertenze generali dell' enciclopedia. «Nessuno degli autori può essere ritenuto responsabile per la presenza di qualsiasi informazione inaccurata, diffamatoria o lesiva». In tal modo si lascia libero spazio alla produzione di bufale, che a fatica potranno essere smascherate e smentite, specie se su contenuti molto specifici. E si rischia di diffamare qualcuno, senza che chi lo fa ne paghi poi le conseguenze. Ma il vero dramma di Wikipedia è che ci ha dato la convinzione di sapere, lasciandoci in realtà conoscitori di nulla. Grazie a questa enciclopedia siamo diventati tuttologi del Niente e nientologi del Tutto. Essa ha avuto lo stesso ruolo che aveva, per Platone, la scrittura rispetto alla conoscenza tramandata oralmente. «Della sapienza», rispondeva nel Fedro il re Theuth al dio Thamus che magnificava la scrittura, «tu procuri ai tuoi discepoli l' apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per tuo mezzo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre in realtà non le sapranno». Così facendo, Wikipedia ha anche impoverito il processo mnemonico, delegando il nobile compito della memoria alla consultazione di una pagina online. Non si tiene più a mente e non si riporta al cuore (ri-cordare): quando ci sfugge la data di un evento o il nome di un personaggio, basta cercare su Wikipedia In più essa ha depauperato lo sforzo creativo, la fatica di scrivere frasi ed esprimere concetti originali: quando non sappiamo che dire, basta attingere a Wikipedia, magari senza citare la fonte. In senso lato, il limite della ventenne enciclopedia è avere promosso l' idea di una cultura partecipativa prodotta da un' intelligenza collettiva. La stesura di un testo smette di essere un faticoso esercizio individuale e diventa un lavoro di squadra, un' opera corale in cui ciascuno apporta il proprio pezzo, che spesso contraddice quello dell' altro. Viene meno così il discrimine tra un autore (autorevole, appunto) e una platea di fruitori. Ma tutti sono al contempo autori e fruitori in uno scambio di ruoli che comporta un livellamento generale. La cultura si allarga ma al contempo si abbassa. Del resto, l' unica vera grande opera collettiva (e perlopiù anonima), prima di Wikipedia, resta la Bibbia. Ma quella, almeno, era scritta da dio. In tutti i sensi.

I vent'anni di Wikipedia: l'enciclopedia "di tutti" per la cultura usa e getta. Il portale ha un'idea comunista del sapere: informazioni gratuite, ma non autorevoli. Massimiliano Parente, Venerdì 15/01/2021 su Il Giornale. Wikipedia compie vent'anni, tanti auguri a te, tanti auguri però con molte riserve. Tanto per dire gli aspetti positivi: tutti oggi cercano qualsiasi cosa su Wikipedia. Dunque su Wikipedia c'è scritto, Wikipedia ha detto, eccetera eccetera. Ma Wikipedia, l'enciclopedia online più letta in assoluto, chi la scrive? Chiunque. Vale a dire che chiunque di voi, lettore dell'enciclopedia, può a sua volta come lettore ritenere di modificare la voce che state leggendo. Con quale autorevolezza? Nessuna, solo perché siete lettori. Immaginate di essere in una sala operatoria. Chi può operare? Il chirurgo, però anche voi, se volete, un taglietto lì, un altro là, così, perché siamo tutti uguali. Alla base di tutta l'idea c'è un principio di sapere comunista, che chiunque sia detentore di un sapere da condividere con altri. Per chi non sapesse l'infame meccanismo: ogni voce di Wikipedia è modificabile dagli utenti. Vale a dire: voi cercate la voce Albert Einstein, ma dietro questa voce non c'è un comitato scientifico, ci sono gli utenti. Vero è che gli utenti, tra competenti e incompetenti sono talmente tanti, che la voce finisce più o meno per autoregolarsi su dei criteri di affidabilità. Ma, appunto, più o meno, e quel più o meno, nel caso di un'enciclopedia, fa la differenza. C'è, tra i tanti esempi (tra cui poeti e personaggi inesistenti), il caso di Philip Roth: Wikipedia diceva che per quel tal romanzo, lui si fosse ispirato a quella tal cosa. Roth protestò, Wikipedia rispose che ci voleva un'altra fonte, e lui non bastava. Cioè Philip Roth non bastava a correggere un'inesattezza su Philip Roth, chiunque altro sì. È successo anche a me, negli ultimi venti anni su Wikipedia degli studenti universitari avevano creato una voce sul sottoscritto estremamente documentata, ma poi siccome sono un incosciente un giorno, proprio sul Giornale, ho messo in dubbio l'autorevolezza di Wikipedia e Wikipedia ha cancellato la mia voce, piena di fonti, riducendola ai minimi termini. Un'enciclopedia vendicativa. Se parli bene di me, ti tengo, se parli male ti cancello. Bella storia. In generale, sebbene tutti si servano di Wikipedia (e a grandi linee, per farsi un'idea di qualcosa, va benissimo), è il criterio alla base che traballa e fa danni. Innumerevoli i giornali che hanno pubblicato fake news basandosi su Wikipedia. Per forza, se chiunque può contribuire su qualsiasi argomento, qualsiasi argomento è soggetto all'intervento di dissenzienti, haters, negazionisti di ogni genere. In fondo è un'enciclopedia comunista, che nega che il pensiero sia prodotto da delle élite di competenti. È anche un'enciclopedia grillina, almeno nei presupposti. È la visione di un revisionismo infinito da parte di chiunque, dando per scontato che chiunque non possa apportare altro che il bene. Se non ci credete provate: su qualsiasi argomento, voi potete intervenire. Chi ha fondato Wikipedia era convinto che tutti gli uomini siano uguali. Ma ognuno di noi si guarderebbe bene dal far entrare chiunque in sala operatoria. Detto questo mi sono giocato anche le poche righe che Wikipedia ha mantenuto sul sottoscritto, da oggi non esisterò più, se mi va bene. Tuttavia ho chiamato uno scrittore bravo e popolare come Diego De Silva per chiedergli un suo parere su Wikipedia, e mi ha detto: «Mi va bene Wikipedia, ma dopo controllo sulla Treccani». Temo che anche De Silva si sia giocato Wikipedia.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” l'1 gennaio 2021. Quando dice «noi wikipediani» sembra appena arrivata da Marte. «Eh lo so...», ammette. «È una parola un po' marziana». Ma Iolanda Pensa, 45 anni, ha i piedi ben piantati sul pianeta Terra. Italo-elvetica nata a Ginevra 45 anni fa, questa donna cresciuta sul Lago di Como, madre di due ragazzini di 11 e 12 anni, ricercatrice di arte contemporanea africana all'università svizzera, sembra vivere a doppia velocità per quante sono le cose che è riuscita a fare nella vita. L'ultimissima: diventare presidente di Wikimedia Italia, associazione che sostiene, promuove, moltiplica i progetti della casa madre, chiamiamola così. Cioè di Wikipedia. Una qualifica a zero retribuzione ma a soddisfazione 1000, soprattutto perché lei ci è arrivata partendo dal volontariato dell'ultima fila e cominciando con un semplice commento sull'arte senegalese. «C'era una voce che mi pareva non funzionasse per come era scritta», racconta, «e allora ho fatto le mie considerazioni e mi sono firmata. È partito tutto da lì, nel 2006». Da lì. Cioè dal commento e dagli studi sull'arte africana che lei coltiva dal 1998. Laureata in lettere con indirizzo in Storia dell'Arte, ha ottenuto prima la specializzazione sulla Dak' Art (cioè la Biennale dell'arte africana contemporanea di Dakar) e poi due dottorati: uno in Antropologia sociale a Parigi e l'altro in Urbanistica a Milano. Tutto questo dopo aver viaggiato fra Stati Uniti, Africa, Medio Oriente, Siberia, dopo aver collaborato a varie riviste d'arte e progetti europei e dopo aver aperto una fondazione in Olanda. Tante vite in una sola, appunto. Che però hanno un riferimento fisso dal 2006: essere una «wikipediana». «La cosa affascinante di Wikipedia - dice lei - è che sia un progetto utopico, migliaia di persone che collaborano nella realizzazione di un sapere capace di rappresentare il mondo. Io mi ci sono avvicinata con questo ideale». Si è avvicinata, ha contribuito ad approfondire molte voci, soprattutto quelle sull'arte africana, ha cominciato a collaborare e oggi - in Italia - conosce come pochi altri i meccanismi per promuovere progetti, attivare convenzioni o per raccogliere i fondi che li rendono possibili. Per esempio è suo e della sua squadra (328 persone) il lavoro italiano sul «Wiki Loves Monument», il più grande concorso fotografico mondiale che nel 2021 compirà 10 anni. Il compito di Iolanda Pensa è (attraverso Wikimedia) invitare il pubblico italiano di Wikipedia a produrre le fotografie dei monumenti, occuparsi delle autorizzazioni per poterle pubblicare (in Italia è vietato fotografarli), organizzare i database per caricare le immagini... Insomma: la parte istituzionale e organizzativa, mai i contenuti delle singole voci. «Il 15 gennaio Wikipedia compie 20 anni», annuncia la professoressa Pensa. «Mai come in questi ultimi mesi di pandemia si comprende il senso di questo movimento. Partecipare alla ricerca, accedere alla conoscenza, garantire la trasparenza dei dati e delle fonti... sono concetti che si stanno consolidando, ci sono editori che ora rendono disponibili i contenuti delle loro enciclopedie come Wikipedia fa da quando è nata. Il mondo sta andando in questa direzione, vuol dire che è quella giusta». La regola aurea dei wikipediani è che nella casa del sapere ognuno costruisce il suo pezzetto a beneficio di tutti. Salvo eccezioni, ovviamente. «Ari29», per dire. Al suo attivo ha il numero più alto di contributi mai registrati da un singolo utente italiano. Da quando ha cominciato a darsi da fare - anni fa - ha modificato un milione di voci sugli argomenti più disparati (un utente considerato attivo ne modifica in media 5 al mese). «Ari 29» approfondisce testi, sistema categorie, migliora le pagine in continuazione. Iperattiva. Forse anche lei, come Iolanda Pensa, è arrivata da Marte.

E Wikipedia censura il "Memento". La denuncia dei Comitati per le libertà: rifiutata la voce sul Memento. Luigi Mascheroni, Lunedì 26/11/2012 su Il Giornale. Lager e gulag sono due universi concentrazionari differenti, ma le vittime rimangono uguali.

Il Gulag visto "al di qua" del filo spinato. La differenza sta nel ricordo. Rievocare l'orrore della Shoah è un dovere mondiale, celebrare «l'altra metà della memoria», quella relativa agli orrori staliniani, è ancora difficoltoso. Da una decina d'anni è stata istituita, il 7 novembre, la giornata «Memento gulag» per ricordare le vittime del comunismo. A lanciarla, nel 2003, furono Vladimir Bukovskij, leader del dissenso antisovietico, e lo storico Stéphane Courtois, coordinatore dell'équipe di studiosi che scrisse Il libro nero del comunismo. Bene. Se provate a digitare su Wikipedia, l'enciclopedia più consultata del web (e più obiettiva, si dice) le parole «Giornata della memoria», usciranno decine di voci che raccontano diffusamente l'Olocausto, ma anche le vittime delle foibe, del terrorismo e molto altro, ma nulla sugli orrori staliniani. E se si provasse a cercare «Memento Gulag», troverete una videata con la scritta: «Su questo argomento è stato espresso un dubbio di enciclopedicità», mentre fino a poco tempo fa - come denunciano i “Comitati per le Libertà” promotori della Giornata della memoria - si leggeva: «Questa pagina è stata cancellata. “Memento Gulag” presenta un contenuto palesemente non enciclopedico o promozionale». Da notare che l'evento vide, ad esempio, nel 2006 a Berlino, la partecipazione del presidente del Bundestag tedesco e di Giorgio Napolitano... Commento di Libertates, il sito Internet dei «Comitati per le Libertà»: «Insomma, chi è morto giace, per Wikipedia, e chi è vivo si dia pace. Se poi qualcuno continuasse fastidiosamente a invocare la memoria per chi ne è stato privato, e per chi si batte per essa, troverà sempre a vigilare i solerti agenti di Wikipedia, sezione Kgb».

Wikipedia secondo anarcopedia.org. Dato che Wikipedia censura buona parte delle discussioni sulle sue stesse deficienze, questo articolo verterà su queste, per bilanciare la visione su Wikipedia stessa e su Meta-Wikipedia. Wikipedia è una grande wiki ad accesso pubblico. Pur avendo raggiunto una base di utenti molto larga, le sue risorse sono amministrate in maniera centralizzata e grossomodo gerarchica dalla fondazione non-profit Wikimedia, dagli utenti privilegiati (sysop) ed infine dagli utenti comuni che accedono al sito. È proprio questa struttura di potere che limita e rende di fatto poco influenti gli orientamenti della larga base di utenti e fruitori. Indice:

1 Che cosa non è Wikipedia secondo Wikipedia?

2 Che cos'è Wikipedia secondo Wikipedia?

3 Una licenza libera "liberamente" imposta.

4 Differenze e rapporti con Anarcopedia.

5 Note.

Che cosa non è Wikipedia secondo Wikipedia?

«Wikipedia non è un'anarchia». «Wikipedia è libera e aperta, ma restringe sia libertà che apertura quando esse interferiscono con lo scopo di creare un'enciclopedia. Di conseguenza, Wikipedia non è un forum per discorsi liberi e non regolati. Il fatto che Wikipedia sia un progetto aperto che si auto-governa non significa che una qualche parte del suo scopo sia di esplorare la possibilità di comunità anarchiche. Il nostro scopo è di creare un'enciclopedia, non di testare i limiti dell'anarchia. Se volete provarci, potete usare il fork di Wikipedia Anarchopedia» (da Wikipedia: Cosa non è Wikipedia - Wikipedia non è un'anarchia).

Che cos'è Wikipedia secondo Wikipedia?

«Wikipedia [...] è [...] come il socialismo "scientifico" di Friedrich Engels e Karl Marx». «Wikipedia non è assolutamente come il comunismo, ma molto più come una democrazia, e quindi come il socialismo "scientifico" di Friedrich Engels e Karl Marx, e tu non puoi fare molto meglio di questo» (da da Wikipedia: Risposte alle obiezioni comuni - Comunismo).

Una licenza libera "liberamente" imposta.

Wikipedia non accetta testi che non siano compatibili con la licenza GNU FDL o con la licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike. Questo, per un progetto di libera diffusione del sapere, è molto limitativo. Ci sono moltissimi contenuti rilasciati con licenze open content, ma non compatibili con la suddetta licenza: questi contenuti non possono essere pubblicati su Wikipedia. La libertà, tuttavia, è il frutto di una scelta, non è il frutto di un'imposizione. «Se non vuoi che il tuo testo possa essere modificato e ridistribuito da chiunque senza pietà e senza altri limiti, allora non inviarlo a Wikipedia, ma realizza piuttosto un tuo sito web personale». Questa frase è quanto di più paradossale possa essere concepito per un progetto di libera comunicazione della conoscenza. Principalmente per questi motivi:

È una regola imposta dall'alto e non fondata su un accordo tra pari.

Se anche fosse una regola fondata su un accordo tra pari, si tratterebbe di una regola autarchica, atta ad escludere chi ha un diverso concetto di libertà ed intende difendere la propria libertà. Ad esempio: perché mai un povero autore che non vuole che la sua opera possa essere sfruttata commercialmente da un ricco editore non può avere accesso a Wikipedia?

L'accettazione di altre licenze open content non comporterebbe alcun pericolo né per la stabilità né per l'organizzazione interna di Wikipedia. Wikipedia è perfettamente in grado di gestire testi rilasciati con licenze open diverse.

I pensatori anarchici non hanno un pensiero comune: l'anarchismo si caratterizza per avere correnti di pensiero tra loro assai diverse, ma al tempo stesso nessuna dottrina anarchica ha mai preteso di essere la dottrina degli anarchici. Il fatto che, con l'imposizione del duo anglofono GNU FDL - Creative Commons Attribution-ShareAlike, debba essere obbligatoriamente seguito un solo concetto di libertà è antilibertario per definizione. È una forma che incide sulla sostanza, sui contenuti, selezionati sulla base di criteri formali (una questione di "razza", insomma). Per rispettare la legge dello Stato e al tempo stesso la libertà di tutti gli autori, Wikipedia potrebbe accettare qualsiasi testo legalmente pubblicabile. Perché aggiungere ai limiti della legge, i limiti del diritto privato?

Differenze e rapporti con Anarcopedia. Per approfondire, vedi Anarcopedia. La differenza più notevole rispetto a Wikipedia è l'assenza su Anarcopedia di una qualsiasi struttura centrale di potere che guidi lo sviluppo del progetto. Wikipedia, inoltre, possiede regole molto stringenti sul contenuto e sulla condotta degli utenti e impone a tutti i contributori la doppia licenza GNU FDL / CC BY-SA (Creative Commons Attribution-ShareAlike). Su Wikipedia le voci sono scritte applicando il così detto NPOV ("neutral point of view", "punto di vista neutrale", che però resta, di fatto, ancorato al concetto di neutralità presente nelle menti degli amministratori, i quali decidono, in ultima istanza, cosa è neutrale e cosa non lo è), mentre su Anarcopedia esse sono editate secondo un punto di vista anarchico, che non significa mancanza di oggettività (sull'enciclopedia tutti possono esprimersi liberamente circa la corrispondenza al vero di quanto scritto in una voce), ma scelta tematica e scelta critica. Un altro elemento di divergenza è rappresentato dal concetto di rilevanza enciclopedica, che per Wikipedia è strettamente legato a quello di visibilità (termine sempre più associabile alla logica capitalistica dei social network: la visibilità come espressione individuale o corporativa di un potere economico o comunque oggetto di pratica mercantile): ad esempio, autori che non sono sul mercato o che non hanno una buona visibilità sul web si vedono negata la possibilità di aprire voci che li riguardino, al contrario, multinazionali come Nestlé avranno sempre la possibilità di comparire su Wikipedia, benché la pubblicità sulla sua wiki sia vietata (certamente è vietata per i piccoli imprenditori). Per questo motivo Anarcopedia ha deciso, sin dalla sua nascita, di ospitare sulla propria enciclopedia tutte quelle voci che sono state cancellate dagli amministratori di Wikipedia sulla base di argomenti - come la scarsa visibilità o l'eccessivo tasso critico rispetto al potere (si veda, ad esempio, la voce «Accuse di razzismo e xenofobia alla Lega Nord») - in cui gli anarcopediani vedono una censura dell'individualità e del pensiero. È possibile che Anarcopedia adotti articoli di Wikipedia, ma il Collettivo è da tempo pervenuto alla conclusione che sia opportuno scrivere ex novo le voci, non soltanto per non fare di Anarcopedia un fork di Wikipedia, ma anche in considerazione della scarsa veridicità e precisione di molti articoli presenti su Wikipedia aventi per oggetto temi anarchici.

Note.

Ad esempio, Wikipedia, riferendosi alla tragica fine di Giuseppe Pinelli, parla di mera morte (termine proposto come "neutrale", ma assolutamente di parte), mentre Anarcopedia parla di assassinio. La stessa "sottile" differenza è riproposta dalle due targhe in memoria di Pinelli presenti a Milano in piazza Fontana: "ucciso", dice la targa storica degli studenti e democratici milanesi, "morto", dice la targa dell'amministrazione.

·        La Beat Generation.

La vera storia della beat generation. Luca Gallesi su Inside Over il 28 ottobre 2021. Quando si parla di beat generation, molti immaginano un branco di yankee smidollati, tendenzialmente progressisti, poco inclini all’igiene personale e molto dediti al consumo di droghe o altre sostanze inebrianti utili a mantenere perenne lo stato di alterazione. La realtà, però, è diversa, e ci rimanda a una generazione, quella americana degli anni Cinquanta, che sotto alcuni aspetti si ricollega idealmente più ai giovani avventurosi che seguirono D’Annunzio a Fiume nel 1919 piuttosto che agli hippie barbuti che affollarono Woodstock nel 1969. Tanto per cominciare, il precursore riconosciuto del movimento beat, Jack Kerouac, autore del celeberrimo On the Road e inventore del termine beat, inteso da lui come abbreviazione di beatitude, è cattolico in religione, conservatore in politica e buon patriota nella vita. Classe 1922, appassionato di libri, football e belle ragazze, Kerouac sembra avviato a una promettente carriera come giocatore di quando si rompe una gamba e deve ripiegare sulla letteratura, senza rinunciare ovviamente alla frequentazione del gentil sesso. Spirito libero, Kerouac non si accontenta dell’apparente benessere offerto dalla società americana uscita vincente dall’immane conflitto mondiale, e reagisce all’insensatezza del sogno consumistico ispirandosi ai numi tutelari della letteratura Usa: Walt Whitman, Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, in qualche modo accomunati dall’amore per l’America profonda della natura selvaggia e dal rifiuto di ogni costrizione, anche e soprattutto letteraria. 

La sfida con gli intellettuali chic

Il forte individualismo e lo sdegno per la vita comoda lo pongono subito in contrasto con i giovani intellettuali alla moda che pontificano dalle colone della Partisan Review o dalle aule della Columbia University, più interessati a costruirsi una brillante carriera che a crearsi una vita degna di essere vissuta. Kerouac sceglie di vivere, e si inabissa nei vortici di una esistenza superficialmente disordinata, ma disciplinata interiormente dalla ferma volontà di diventare uno scrittore vero, libero e aperto al mondo. Ecco alcune delle sue regole letterarie:

Riempi di annotazioni i tuoi taccuini segreti e scatenati selvaggiamente sulla macchina per scrivere, per la tua gioia

Aperto sempre, ascolta tutto

Non ti ubriacare mai fuori dalla tua casa

Ama la vita

Il risultato è evidente nella sua prosa, fatta di interminabili e veloci paragrafi che stordiscono il lettore: “Le persone che mi interessano sono solo quelle pazze, pazze di vita, pazze di salvezza, pazze di discorsi, quelle che desiderano tutto subito, quelle che non sbadigliano mai né mai parlano per luoghi comuni ma bruciano, bruciano, bruciano come delle meravigliose candele gialle romane che esplodono come ragni tra le stelle….”

Quel sostegno alla destra repubblicana

La sua ricerca lo conduce “sulla strada”, dove incontra altri ribelli come lui, accomunati dalla vitalità, dall’ansia e da un impegno che non assume caratteristiche politiche: per lui e i suoi sodali, la politica è “soulless”, senz’anima, dato che il dovere della politica è addomesticare gli individui liberi e ribelli. Questo, però, non gli impedisce di manifestare delle opinioni, che sono decisamente conservatrici: esprime, infatti, pubblico sostegno alla nomina presidenziale del candidato repubblicano più a destra, il Senatore Robert Taft, e manifesta simpatia addirittura per il Senatore Joseph McCarthy, poichè provava ripulsione per le idee comuniste, considerandole qualcosa assolutamente non-americano. 

Racconta un amico di Kerouac, lo scrittore Jack McClintock, che una volta, durante una festa a casa di Ken Kesey (l’autore di Qualcuno volò sul nido del Cuculo), a New York, Allen Ginsberg si avvicinò di soppiatto a Kerouac e, per prenderlo in giro lo avvolse in una grande bandiera a stelle e strisce. Senza dire una parola, Kerouac si girò, ti tolse con delicatezza la bandiera e la piegò molte volte con accuratezza, come si fa quando si vuole onorare un caduto, e la appoggiò sul divano, sgridando Ginsberg: “La bandiera non è uno straccio”. 

 Morì qualche anno dopo, nemmeno cinquantenne, distrutto dall’alcol e prosciugato dal successo. Sulla sua tomba un epitaffio, semplice ma esauriente: “He Honored Life”. Non possiamo dire altrettanto di molti suoi colleghi.

·        La cultura è a sinistra.

"Quella vergognosa malafede dell'intellighenzia di sinistra..." Giorgio Strehler il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. Confessioni, segreti e "j'accuse" del grande artista. 

Malgrado il tuo entusiasmo, quando parli di Brecht, io sento in te una certa amarezza quando ricordi quegli anni. Pensi forse di non essere stato compreso in Italia dagli intellettuali di sinistra e di destra?

«Sì. Perché il comportamento dell'intellighenzia e della critica nei riguardi di Brecht e del mio lavoro su Brecht ha toccato punte di malafede. I grandi maestri e i grandi rivoluzionari sono sempre la pietra di paragone per valutare quel fascismo sottile e perverso, che va ben oltre i limiti storici, perché si insinua, si inserisce nel cuore stesso della nostra società ben più in profondità di quanto non appaia. Il lavoro su Brecht è sempre stato frenato dalla destra, che denunciava il nostro teatro perché così facendo tradiva le regole dell'obiettività che un teatro pubblico deve avere, come perversamente marxista e comunista, e dalla sinistra cosa che secondo me è ancora più grave che stigmatizzava un teatro nel quale la vera lezione rivoluzionaria, edulcorata in un prodotto di consumo, era divenuta una moda, un ammiccamento. Sono molti quelli che, da sinistra, hanno criticato e criticano ancora i nostri spettacoli brechtiani perché sono dei prodotti borghesi che snaturano il messaggio di Brecht. E, purtuttavia, quelli che lui ha potuto vedere gli sembrarono esemplari: ci sono le sue lettere, le sue testimonianze... La malafede dell'intellighenzia di sinistra ha raggiunto il suo parossismo nel 1968, scatenandosi contro la miseria intellettuale di Brecht, contro il Piccolo e contro di me. È proprio in quegli anni che nacque Santa Giovanna dei macelli. E questo spettacolo ha suscitato delle critiche piene di fiele, addirittura oscene. La rappresentazione delle opere di Brecht, dunque, se non fu interrotta non fu però mai incoraggiata perché contestata un po' da tutti (...).

Che cosa ha fatto il Piccolo per gli autori contemporanei?

«Un teatro che non parla dei problemi contemporanei ai contemporanei può molto presto cadere nell'estetismo e nel formalismo. Certo è possibile parlare del nostro presente con le parole dei testi di ieri: la poesia e la verità sono senza tempo. Ma è certamente vero che un teatro non può veramente iscriversi nella problematica del suo tempo se non stimola e non adotta le opere del suo presente. Il teatro critico e poetico che si rivolge alle opere del passato, vicino o lontano, è talvolta una conquista culturale e un segno di debolezza. Noi viviamo questa sconvolgente contraddizione. Tutto il teatro contemporaneo vive questa aridità della produzione drammatica. Sovente mi sono chiesto perché tutta questa teatralità che abbiamo creato, tutta questa ricerca sul teatro, con il teatro, non è riuscita a generare un teatro contemporaneo, degli autori, dei testi, allo stesso livello di quelli del passato. Si è così obbligati a riflettere su come oggi la rappresentazione sia più importante della scrittura, su come la storia del teatro, dopo Cechov e Pirandello, sia soprattutto una storia di spettacoli (...)».

Per capire la Guerra civile è molto meglio "l'usato". Alessandro Gnocchi l'8 Settembre 2021 su Il Giornale. I libri meno conformisti sulla nostra Storia non si pubblicano più. Tocca fare modernariato. Per un bibliofilo, ma anche per un lettore qualsiasi, la bancarella di libri usati è croce e delizia. Croce perché c'è bancarella e bancarella: quelle specializzate in rarità impilano tesori che talvolta l'appassionato non si può permettere e lasciano il rimpianto, una struggente nostalgia per il volume così vicino eppure inarrivabile. Delizia, quasi per lo stesso motivo: c'è sempre la speranza che, guardando bene, salti fuori l'inaspettato, il capolavoro misconosciuto in vendita a pochi euro. Inoltre, davanti a una bancarella rifornita, ci si può levare curiosità a lungo coltivate oppure nate lì per lì, davanti a una copertina o a un nome attraente. E si torna a casa con una pila di libri acquistati a poco prezzo. Ah, che bello comprare tutti gli Achille Campanile e Marcello Marchesi ed Ennio Flaiano e Antonio Delfini e Giuseppe Berto e Giovanni Comisso che capitano sottomano. Che bello comprare le vecchie edizioni dei Canti di Giacomo Leopardi, con il commento di Giuseppe e Domenico De Robertis. E poi Papini, Prezzolini, Longanesi... Che bello dare la caccia alle varie edizioni di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, una diversa dall'altra, anche nel contenuto. Che miniera di intelligenza può essere una bancarella. C'è un altro aspetto interessante. Sempre più spesso, capita al bibliofilo di imbattersi in libri che oggi nessuno pubblicherebbe, per i motivi più disparati. Chi stamperebbe oggi una edizione anastatica del manoscritto del Canzoniere di Umberto Saba? Chi fonderebbe una casa editrice (Aria d'Italia) per portare sugli scaffali le opere di un solo autore (Curzio Malaparte)? Chi farebbe una plaquette con un pugno di poesie di Pier Paolo Pasolini (Dal diario, Edizioni Salvatore Sciascia, a cura di Leonado Sciascia)? Per non dire dei fuori catalogo: Bagatelle per un massacro, il pamphlet antisemita di Luis-Ferdinand Céline, tanto spregevole nel contenuto quanto prezioso nello stile, si trova unicamente sulle bancarelle. Ci sono casi che lasciano perplessi, perfino sbalorditi. A cinque-dieci euro ti porti a casa un libretto di poche pagine ma sufficienti per fare una riflessione su come è cambiato il nostro Paese. Nel 1975, il direttore di Storia Illustrata Carlo Castellaneta allegò al numero 215 della rivista una piccola antologia, dal titolo La guerra civile in Italia contenente «testi di scrittori che furono testimoni di quelle vicende dalle due parti della barricata»; testi che «vogliono essere di monito alle nuove generazioni a non ricadere negli orrori di una guerra fratricida, ma anche un esempio nei valori della Resistenza» . Il volume raccoglie scritti di Nuto Revelli, Davide Lajolo, Valdo Fusi, Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Piero Caleffi, Ubaldo Bertoli, Carlo Levi, Giose Rimanelli, Mario Gandini. Il volume era targato Mondadori, ed era in una collana di «testimonianze di prima mano». Era una raccolta «editorialmente corretta», che non metteva in discussione i capisaldi ideologici della Resistenza. Però dava la parola anche ai vinti, in particolare dava il giusto rilievo a un romanzo come Tiro al piccione di Giose Rimanelli, che raccontava con efficacia il punto di vista di un repubblichino anzi repubblicano: «È veramente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani, diciamo di essere i veri figli d'Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l'Italia appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vicenda e non sappiamo chi è nel torto e chi nella ragione». Il romanzo, autobiografico, ebbe una vita editoriale travagliata. Fu preso da Einaudi ma l'editore torinese, quando il libro era già in bozze, fermò tutto nonostante questo parere di Cesare Pavese: un «giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un'idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci». Alla fine fu pubblicato da un editore ancora più grande: Mondadori, nel 1953. Ma rientrò nel catalogo di Einaudi nel 1991, l'anno in cui lo storico Claudio Pavone, da sinistra, recuperava il concetto di «guerra civile». Nello stesso anno Einaudi ripubblicò anche Un banco di nebbia di Giorgio Soavi, un'altra testimonianza dall'altra parte della barricata, anche in questo caso scartata (con qualche dubbio di Italo Calvino) da Einaudi e approdata a Mondadori nel 1955. Altri libri si sono poi aggiunti, in particolare quelli di Carlo Mazzantini (A cercar la bella morte è in edicola allegato con il Giornale). La antologia curata da Carlo Castellaneta ci interroga fin dal titolo: quella «guerra civile» potrebbe incappare in qualche accusa di revisionismo. Il contenuto... Beh, come immaginate verrebbe presa una selezione che mette assieme, sullo stesso piano, Uomini e no di Elio Vittorini (manicheo fin dal titolo, proprio lui, Vittorini, che aveva tessuto l'elogio dello squadrismo nella prima edizione del Garofano rosso) e appunto Tiro al piccione di Rimanelli, che non ha certezze da esibire? La domanda è retorica: una antologia così finirebbe massacrata da qualche antifascista in assenza di fascismo, una specie intellettuale tornata in grande spolvero nell'Italia di oggi. Non è che, per caso, mentre eravamo distratti dalle guerricciole politiche, la cultura italiana ha fatto uno o due passi indietro al punto da apparire meno libera perfino rispetto ad anni di forti divisioni ideologiche dalle conseguenze tragiche? Non sarà, alla fine, un problema di analfabetismo di ritorno, forse anche di andata? Una o due generazioni di chierici sono convinte che i «fasci» (categoria che comprende chiunque abbia idee diverse da loro) devono tacere, e così negano, innanzi tutto a se stessi, la più umile e meno giudicante delle virtù: la conoscenza, che precede le nostre, personali idee per illustrarci la complessità del mondo. Ecco, proprio «complessità» è la parola ipocritamente sventolata dalle menti semplici, e irresponsabili, che vogliono rifarci combattere una guerra civile per fortuna terminata da un pezzo. Alessandro Gnocchi

8 settembre: i morti dimenticati di Arbe, il campo di concentramento fascista in Croazia.  Simone Modugno e Linda Caglioni su La Repubblica il 7 settembre 2021. Sull'isola croata di Arbe, in Dalmazia, c'è ancora traccia di una storia poco nota dell'occupazione della Jugoslavia, che sconfessa il mito del cosiddetto “buon italiano”. A partire dal 1942 i fascisti vi costruirono un campo di concentramento dove furono internate tra le 10 e le 15 mila persone tra croati, sloveni ed ebrei. Molti di loro vi morirono per malattie, infezioni e denutrizione. Dopo la firma dell'armistizio dell'8 settembre del '43, il sito venne smantellato in fretta e furia. La vicenda non ottenne mai particolare visibilità, benché quello di Arbe fu uno dei peggiori tra i campi organizzati dal regime fascista. Foto tratte dalla mostra "A ferro e fuoco. L'occupazione italiana della Jugoslavia 1941-1943"

Gianni Oliva per “La Stampa” l'8 settembre 2021. La memoria antifascista ha rielaborato l'8 settembre nella combinazione di sfascio e di rinascita: c'è un'Italia piegata, che si arrende agli angloamericani e naufraga di fronte al dilagare dell'occupazione tedesca, ma nella deriva della storia nazionale fiorisce l'Italia della scelta, quella che muove i primi passi verso il domani e stimola il Paese con l'esempio dei suoi uomini migliori. Le pagine di Roberto Battaglia (autore nel 1953 di una Storia della resistenza italiana che è stata per decenni manuale di riferimento) sono paradigmatiche: «quando andiamo a rintracciare l'inizio del movimento resistenziale, noi troviamo ripetersi dovunque lo stesso fatto: l'emergere dalle masse popolari di antifascisti, di militari, di giovani già decisi fin dal primo momento a impugnare le armi, a iniziare subito dopo l'armistizio e non domani la guerriglia, ad agire per una decisione spontanea che viene da un profondo istinto di ribellione». Confusione, indifferenza Prima di lui, Piero Calamandrei aveva parlato con intonazione poetica di un 8 settembre segnato dalla scelta corale dei tanti pronti a combattere per una stagione nuova: «era la chiamata di una voce diffusa come l'aria, era come le gemme degli alberi che spuntano lo stesso giorno». Sulla stessa lunghezza d'onda si sono espressi Guido Quazza («l'8 settembre è la data di nascita dell'antifascismo come forza decisiva») o Raimondo Luraghi («nel momento dell'armistizio, in tutte le fabbriche l'entusiasmo e lo spirito di lotta sono altissimi»). Queste ricostruzioni attingono a un elemento di verità, perché ci sono uomini che sin dai primi momenti intuiscono (come Giaime Pintor) che «un popolo portato alla rovina da una finta rivoluzione può essere riscattato solo da una rivoluzione vera», ma si tratta di scelte individuali, numericamente marginali. Il tratto distintivo che avvolge l'Italia dell'armistizio è un altro: il silenzio, il silenzio della morale, della ragione, della volontà. Anche là dove brulica la confusione di soldati che si muovono senz' ordini o di cittadini che arraffano nei depositi abbandonati, la scena è dominata dalla paralisi delle energie e dall'esaurimento psicologico. La letteratura ha compreso e interpretato questo silenzio ben prima della storiografia. Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza, descrive il disorientamento di un reparto in servizio nella campagna romana: quando, dopo molte ore, giunge notizia dell'armistizio e dello sbandamento, c'è chi reagisce con rabbia («il comando non ci ha avvisati! Lascia che abbia un figlio e che la patria venga a chiedermelo soldato!»), chi si aggrappa all'ottimismo della volontà («io non ci credo, un esercito non si sbriciola così, andiamo»), sino a che si sentono gli echi di esplosioni e ognuno decide individualmente la fuga. Chi esita, come il protagonista Johnny, si ritrova solo in una camerata deserta: «Johnny risalì in camerata, nessuno dei suoi era rientrato. Ognuno si era già arrangiato da solo». Mario Tobino ne Il clandestino, descrive un 8 settembre antieroico, dove «l'esercito italiano avvilito non si diresse in alcuna direzione, tradì e non tradì, lasciò passare le ore rimanendo smarrito, non aggredì i tedeschi né si schierò con loro». Cesare Pavese in Prima che il gallo canti descrive una Torino quasi indifferente nella sua rassegnazione: «i giornali portavano in grossi titoli la resa, ma la gente aveva l'aria di pensare ai fatti suoi. Sbirciavo negli occhi i passanti: tutti andavano chiusi, scansandosi. Nessuno parlava di pace». Curzio Malaparte, corrosivo e iconoclasta, offre ne La pelle una descrizione di lucido cinismo: «tutti noi, ufficiali e soldati, facevamo a gara a chi buttava più "eroicamente" le armi e le bandiere nel fango. Finita la festa, ci ordinammo in colonna e così, senz' armi e senza bandiere, ci avviamo verso i nuovi campi di battaglia, per andare a vincere con gli Alleati quella stessa guerra che avevamo già persa con i tedeschi». In questo disincanto amaro, la letteratura propone gli avvenimenti armistiziali con un realismo che è stato a lungo sconosciuto alla storiografia. Lo scrittore si avvicina ai fatti attraverso la propria sensibilità, li racconta come li ha visti, li ha ascoltati, li ha avvertiti sulla propria pelle: sono racconti che si sviluppano tra contraddizioni, sfumature, dubbi, perché il loro destinatario è l'emozione di chi legge e l'emozione non ha bisogno di grandi quadri esplicativi, né di un percorso di lettura predeterminato. Lo storico, invece, ha un approccio razionale, interroga il passato attraverso le domande poste dalle urgenze del presente, si muove in uno spazio stretto, dove le insidie dell'agiografia e della rimozione vanno al di là dell'onestà intellettuale del ricercatore. Semplificazioni e rimozioni Questo è ancor più vero quando il periodo che si affronta è un passato prossimo segnato da fatti traumatici: «storia», in questo caso, significa fondare la memoria e la legittimità di una stagione nuova, operazione che implica semplificazioni e rimozioni. Da qui nasce una «vulgata» dell'8 settembre così lontana dall'amarezza sofferta di Fenoglio o Malaparte e, indirettamente, un'indicazione: la letteratura spesso rappresenta gli avvenimenti meglio (e prima) della ricerca storica.

Quei martiri che hanno scelto di morire per l'Italia. Andrea Muratore il 9 Settembre 2021 su Il Giornale. Il martirio della divisione "Acqui" a Cefalonia fu una pagina tragica dei giorni della disfatta italiana. In cui furono però gettati i semi della rinascita del Paese. Cefalonia è un nome associato a una grande tragedia italiana, a una storia di tenacia e eroismo culminata in una delle pagine più buie del secondo conflitto mondiale: la resistenza dei militari della divisione "Acqui" all'offensiva tedesca avviata dopo la resa dell'Italia agli Alleati, avvenuta l'8 settembre 1943, e il suo successivo martirio. Sì, perché solo di un vero e proprio martirio in nome dell'onore e della dignità dell'Italia si può parlare leggendo, a oltre settant'anni di distanza, la pagina di resistenza dei militari della divisione guidata da Antonio Gandin, catapultati nel turbine della storia dall'incertezza dei comandi italiani, dalla pusallinamità della monarchia dei Savoia, dalla doppia resa dell'Italia in quelle complesse giornate. Un'Italia che capitolò dapprima davanti agli Alleati, con la firma dell'armistizio di Cassibile, e in seguito di fronte ai tedeschi trasformatisi da alleati ad invasori, la cui dignità e il cui buon nome furono difesi da militari rimasti in larga parte senza ordini e senza direttive. Dalla resistenza dei militari a Roma a Porta San Paolo al triste episodio della corazzata Roma, passando per la toccante esperienza delle unità della Regia Aeronautica mandate a combattere a tempo scaduto contro gli ex nemici a Salerno, le forze armate italiane scrissero una serie complessa di pagine di storia. Aventi il suo culmine nelle tre settimane di Cefalonia. Che cosa spinse i militari di una divisione tutt'altro che temprata da battaglie feroci e reduce da due anni e mezzo di occupazione delle isole greche a rifiutare gli ultimatum tedeschi di resa? Che cosa mosse i ragazzi della "Acqui" a scontrarsi contro gli Alpini della 1. Gebirs Division e gli agguerriti "cacciatori" della 104. Jager Division trasformatisi improvvisamente da alleati in aggressori? Che speranza avevano coloro che, dopo la resa di Cefalonia, furono trucidati o inviati nei campi di prigionia nelle autorità in via di disfacimento? Cefalonia ci insegna l'assurdità dell'eroismo, la grandezza dello spirito di corpo, il valore degli ideali patriottici e nazionali. Padre Luigi Ghilardini, che ha raccolto le testimonianze dei militari da lui assistiti durante la battaglia e l'eccidio condotto a sangue freddo dai militari tedeschi, ricorda nelle sue memorie che i soldati della Acqui cadevano invocando la propria madre e l'Italia. Cefalonia insegna la forza dello spirito di corpo dato che, come ricorda Alfio Caruso in Italiani dovete morire, inizialmente "la Acqui non fu per niente compatta nell'urlare il proprio 'no!' al tedesco" e "Gandin e i suoi collaboratori volevano giungere a un accordo" mentre solo gli elementi del 33°artiglieria e del comando di Marina "erano decisissimi a usare le armi contro l'odiato ex alleato". Furono i raid dei bombardieri Stuka a compattare Cefalonia sulla resistenza, a portare 11.700 militari a trasformarsi in guerrieri per tenere fede al giuramento alla patria sacrificando la vita. Splendeva un sole inclemente su Cefalonia il 13 e il 14 settembre, giorni in cui col "referendum" interno i militari della Acqui scelsero di non arrendersi ai tedeschi. E splendeva anche il 24 settembre, giorno in cui gli alpini sudtirolesi della 1° divisione Edelweiss fucilarono alla periferia di Argostoli 129 dei 164 ufficiali arresi dopo i combattimenti. Lungi dall'essere commessa da efferati reparti delle Ss, la strage di Cefalonia, che causò cinquemila delle 9.406 vittime accertate tra i militari della "Acqui", fu compiuta da militari della Wehrmatcht: chiamati a eseguire le leggi di guerra. Al processo di Norimberga il generale Telford Taylor definì il caso di Cefalonia come "una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli nella lunga storia del combattimento armato" perpetrata contro uomini che "indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra". Ciò ha influito notevolmente sul ricordo postumo della strage, sulla calata di un imbarazzante velo di silenzio rimasto steso per decenni sulla vicenda per non turbare la narrazione dei nuovi rapporti italo-tedeschi e sul mito che vedeva la Wehrmacht in larga parte esente dai più duri crimini compiuti dai nazisti. Ma a suo modo Cefalonia è stata una pagina scomoda anche per la narrazione resistenziale che ha pervaso la storia repubblicana, perché retrodata inevitabilmente l'inizio dell'opposizione italiana al nazismo e alla Germania e ci ricorda quanti semi del futuro d'Italia furono gettati nei giorni della resa. Giorni in cui mentre a Cefalonia si combatteva 600mila militari italiani, disarmati dalla Wehrmacht, scelsero la prigionia per prestare fede al giuramento verso l'Italia, preferendola alla continuazione della guerra a fianco dei tedeschi. I martiri di Cefalonia e gli internati militari italiani (Imi) salvarono, a prezzo di atroci sofferenze, il nome della nazione, mostrarono come anche nell'ora più buia della storia dell'Italia unita ci fossero uomini pronti a sacrificare la vita in suo nome, lanciarono un messaggio che a decenni di distanza scuote le coscienze. Dobbiamo a Carlo Azeglio Ciampi, il presidente della Repubblica che più si è impegnato sulla ricomposizione della memoria storica dei fatti più tragici del Novecento, la pubblica attestazione del fatto che Cefalonia fu l'inizio della rinascita dell'Italia. E non il punto più profondo della disfatta. Ciampi, il 1 marzo 2001, visitando Cefalonia commemorò quei soldati ricordando che "la loro scelta consapevole fu il primo atto della Resistenza". "Dimostraste che la Patria non era morta. Anzi, con la vostra decisione, ne riaffermaste l'esistenza. Su queste fondamenta risorse l'Italia", nazione debitrice di coloro che nel settembre 1943 si immolarono in suo nome. 

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di 

Neonazista condannato a leggere i classici della letteratura. Samuele Damilano su L'Espresso il 2 settembre 2021. Succede in Gran Bretagna, dove un ex studente che aveva scaricato documenti legati al suprematismo bianco potrà evitare il carcere se recupera Jane Austen e Charles Dickens. I libri di Jane Austen e Charles Dickens al posto di due anni di prigione. È la “sentenza” ricevuta da Ben John, 21enne, ex studente all’università De Montfort di Leicester. Il giovane, specializzato in criminologia, aveva scaricato nel corso degli ultimi tre anni più di 70.000 documenti ispirati al suprematismo bianco, oltre a una folta e dettagliata letteratura su come preparare un attacco terroristico. Ma al posto di questi documenti, per evitare di finire in prigione, dovrà leggere i classici della letteratura inglese. La corte di Leicester, nel nome del giudice Spencer, ha stabilito che il crimine consisteva in un «isolato attacco di follia». Dopo avergli fatto promettere che non avrebbe cercato ulteriore materiale appartenente al mondo dell’ultradestra, il giudice, secondo quanto riporta il Guardian, ha chiesto a John: «Hai letto Dickens e Jane Austen? Inizia con “Orgoglio e pregiudizio” e “Il racconto di due città”. Prova con la “Dodicesima notte” di Shakespeare, pensa ad Hardy. Poi, il 4 gennaio, verrai a riferirmi. E se non avrai fatto progressi, soffrirai». Già nel 2018, John era stato intercettato dalla Corte per aver pubblicato una lettera chiamata “Eternal Front”, in cui sosteneva di essere parte di un gruppo nazifascista del Lincolnshire e offendeva gay e immigrati. Ma la prescrizione di cure psichiatriche non è servita a molto; tra aprile e agosto 2019 ha scaricato sul suo computer migliaia di documenti appartenenti alla galassia dell’ultradestra. È stato dunque arrestato nel gennaio 2020 con l’accusa di terrorismo, che in Inghilterra può comportare più di 15 anni di galera. «I contenuti di cui John si nutriva sono repellenti. È materiale strettamente collegato ad Hitler, al fascismo. Ma c’era anche una notevole quantità di letteratura contemporanea. Per questo mi sono convinto che si tratta di un giovane in lotta con le sue emozioni. Non è affatto una causa persa, ed è capace di vivere una vita normale e in grado di aiutare la società», ha spiegato il giudice.

Lo Stato può imporre il rispetto delle norme, ma non di ritenerle giuste. Legge sopraffazione: lo Stato può richiedere rispetto norme ma non di ritenerle giuste. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 31 Agosto 2021. È diffuso un piccolo fraintendimento (piccolo si fa per dire, ovviamente): e cioè che i diritti di libertà, ma direi i diritti in genere, costituiscano beni da “meritare”. E che meritarli significhi subordinarsi a un sistema di valori e farne professione. Ha questo stampo la dichiarazione antifascista richiesta da certe istituzioni municipali per poter partecipare ad attività pubbliche. Ha questo stampo la revoca della semilibertà a un fascista che assiste a un raduno politico. Ha questo stampo la tortura inflitta al mafioso che non si pente.

Non si capisce – ed è un segno esemplare dell’incertezza democratica di questo Paese – che si può chiedere al cittadino di rispettare la legge: non di condividere il valore che ne è alla base, e cioè di ritenerla giusta. E non lo si capisce perché si ignora che mentre la legge è un fatto, la giustizia è un valore: e in democrazia è quello, il fatto, cioè la legge uguale per tutti, non la giustizia, che ciascuno concepisce secondo il proprio criterio, a dover essere considerato nella distribuzione degli obblighi e dei diritti. Nel nome delle discriminanti valoriali – quella antifascista e quella antimafiosa sopra tutte – si compiono sopraffazioni illiberali di cui ci si vergognerebbe se appena quella parola – democrazia – avesse un contenuto anziché ridursi a un modo di dire. Iuri Maria Prado

Un errore rimuovere il fascismo dalla storia. Andrea Cangini il 30 Agosto 2021 su Il Giornale. "Il fascismo non è stato un semplice incidente della storia, un regime autoritario che governava contro il popolo. Il fascismo ha goduto di un ampio, diffuso, radicato consenso nel Paese". «Il fascismo non è stato un semplice incidente della storia, un regime autoritario che governava contro il popolo. Il fascismo ha goduto di un ampio, diffuso, radicato consenso nel Paese. Rimuoverlo e cancellare l'analisi veritiera e onesta della sua natura ha reso fragili le basi della nostra democrazia». Uno storico revisionista? Un politico postfascista? No, a mettere nero su bianco questo giudizio è stato un uomo politico notoriamente di sinistra ed inequivocabilmente antifascista: Walter Veltroni. Analisi corretta, il resto ne consegue.

Aver rimosso dalla storia nazionale il ventennio fascista e aver impiegato quasi mezzo secolo per riconoscere, con lo storico Claudio Pavone, che tra il 43 e il 45 l'Italia fu dilaniata da una vera e propria «guerra civile» ha impedito allo spirito della Nazione di metabolizzare il trauma subìto e al corpo di cicatrizzarne le ferite. Non c'è, dunque, da stupirsi se nel pieno della peggior crisi sanitaria, economica e geopolitica del dopoguerra il dibattito pubblico italiano si sia incagliato sulle parole di un viceministro accusato di mussolinismo, sul giudizio di uno storico dell'arte riguardo le foibe, sulla carnevalata di un dirigente politico in divisa del Terzo Reich. È quel che accade quando non si fanno i conti con la Storia. Con la propria storia nazionale e con la dimensione tragica della Storia universale. Il primo è un problema tipicamente italiano, il secondo riguarda un po' tutte le democrazie occidentali. Anche e soprattutto gli Stati Uniti, patria non a caso della «cancel culture», da Obama in poi emblematicamente impegnati a ritirarsi dal mondo (e perciò dalla Storia). Il motivo è chiaro. È chiaro sin dai tempi del precipitoso disimpegno dalla Somalia che la principale potenza globale non ha più la forza morale e la tenuta sociale per sopportare la morte di propri soldati in guerra. Come se la guerra per uno Stato e la morte in guerra per un militare non fossero più eventualità possibili. Ne consegue che, come ha ricordato con amara rassegnazione Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di sabato, gli americani hanno appaltato a società private di contractor attività belliche da sempre in capo agli eserciti nazionali. E persino peggio ha fatto l'Italia ribattezzando «pace» la guerra. Ipocrisie che rendono insostenibile, perché ufficialmente privo di senso, qualsiasi sacrificio collettivo. Rimuovere i traumi nazionali, tacere la dimensione tragica della Storia, sostituire le «analisi veritiere» con rappresentazioni di comodo: sono questi i tre errori capitali che impediscono alla società Italiana di maturare e ad un Occidente tornato bambino di arrestare la propria, innegabile, decadenza. Andrea Cangini

 Leonardo Martinelli per “La Stampa” il 25 agosto 2021. Sovranista? Pure lui? Sembra impossibile che quel termine, imbarazzante e contraddittorio, temuto e ricorrente, esca anche dalla penna dell'economista francese Thomas Piketty, idolo di una certa gauche contemporanea. E invece sì, avviene nel suo nuovo, attesissimo libro, dal titolo Une breve histoire de l'égalité, che esce a Parigi venerdì (e in Italia sarà pubblicato in autunno dalla Nave di Teseo, come il precedente, Capitale e ideologia). Con Piketty, però, il sovranismo diventa «universalista»: rappresenta la capacità di ogni Paese d'imporre nuovi obiettivi d'eguaglianza, senza perdersi nei meandri dell'unanimità del multilateralismo. Altra espressione chiave del saggio: una nuova forma, alternativa, di socialismo che l'Europa deve proporre al mondo. Dovrà essere «democratico, partecipativo, ecologico e meticcio». Una profonda aspirazione per questo studioso militante. «Il movimento verso l'eguaglianza sociale, economica e politica», ha spiegato Piketty all'Agence France Presse, «è una tendenza sul lungo termine e non è pronta a fermarsi. Iniziò con la Rivoluzione francese e la rivolta degli schiavi a Santo Domingo, che segnarono l'inizio della fine delle società dei privilegi e di quelle schiaviste e coloniali. Il cammino verso l'eguaglianza è stato sempre alimentato dalle rivolte contro l'ingiustizia, all'interno dei Paesi e a livello internazionale. E sarà così anche in futuro». Anzi, l'economista vede in questa fase post Covid, che accentua i divari, l'occasione per rilanciare il processo. La falsa promessa di Reagan Come? «Da qualche decennio», continua, «si è inventato un diritto sacrosanto a fare fortuna utilizzando le infrastrutture pubbliche di un Paese, il suo sistema sanitario e educativo e altro. E poi a trasferire i propri asset sotto un'altra giurisdizione, lasciando la fattura da pagare al resto della popolazione». Qualcuno la chiama ottimizzazione fiscale. Ecco, Piketty distrugge anche un altro concetto dei bei tempi del liberismo indefesso: la libera circolazione dei capitali, «almeno quando avviene senza una contropartita fiscale o sociale. E non si può aspettare di fare l'unanimità per arginarla: ogni Paese deve uscire unilateralmente da questo sistema, proponendo agli altri degli obiettivi espliciti e quantificati di giustizia fiscale e sociale e la creazione di assemblee transnazionali per centrare questi target». È quello che Piketty chiama sovranismo universalista. L'obiettivo di un'aliquota fiscale minima del 15% per le multinazionali, stabilito nel G7? Ecco un'occasione per metterlo in pratica. «Se si resta al 15%», ha spiegato al settimanale L'Obs, «si tratterà di un'autorizzazione a frodare il fisco per gli attori più potenti. Mentre per le piccole e medie imprese e il ceto medio sarà impossibile delocalizzare i profitti o i redditi in un paradiso fiscale. L'unica soluzione è che ogni Paese decida in maniera unilaterale di aumentare questa aliquota minima. Se la Francia la portasse al 25%, le entrate fiscali per quest' imposta passerebbero da quattro a 28 miliardi di euro. Che vuol dire tanti più infermieri, professori, infrastrutture supplementari per i cittadini». E, secondo Piketty, una decisione unilaterale farebbe da traino per gli altri Stati. Ma l'idea che le ineguaglianze fossero necessarie per accrescere la produttività e, quindi, la crescita? «La promessa reaganiana che per renderla dinamica si dovesse passare attraverso la riduzione della fiscalità dei più ricchi non ha funzionato. Negli Stati Uniti le aliquote fiscali più alte erano in media dell'80% dal 1930 al 1980, prima di essere portate al 30%». Ma, ha aggiunto Piketty all'Obs, «nel frattempo anche la crescita del reddito nazionale pro capite è stata divisa per due, passando dal 2,2% tra il 1930 e il 1980 ad appena l'1,1% tra il 1990 e il 2020». Insomma, per lui non solo una fiscalità fortemente progressiva non impediva la crescita, ma addirittura la favoriva, perché «storicamente è la lotta per l'eguaglianza che ha consentito la prosperità, grazie a un accesso più amplio all'educazione e al sapere. Sono fatti storici». Un testo militante In parallelo l'Europa deve ritornare propositiva a livello del sistema democratico, soprattutto in antitesi con la Cina. È l'obiettivo di Piketty, un nuovo socialismo democratico e partecipativo. «Quando si dice: "Non esiste un'alternativa al capitalismo", è un'assurdità. Come se ne esistesse solo un tipo Basta guardare alla differenza che intercorreva tra il capitalismo coloniale e autoritario del 1910 e la socialdemocrazia degli anni Ottanta. Non saremo sempre prigionieri dello stesso sistema». Ragiona sul lungo periodo, per arrivare a imporre questo nuovo modello di democrazia. Si aspetterà forse, dice, il 2050. Piketty presenta il suo nuovo saggio come un testo militante. «È un libro di storia e di scienze sociali, ma anche di mobilitazione cittadina», spiega all'Afp. «Le questioni economiche sono troppo importanti per essere lasciate a un piccolo gruppo di specialisti e dirigenti. Per trasformare le relazioni del potere bisogna che i cittadini si riapproprino di questo sapere, è una tappa essenziale».

Battute e capricci. I talebani inclusivi e l’umorismofobia dei nostri valorosi cancellettisti. La vignetta di Andrea Bozzo che critica l’ipocrisia talebana diventa lo scandale du jour un po’ per la solita confusione tra oggetto e bersaglio, un po’ perché i militanti postmoderni hanno la coda di paglia. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Agosto 2021. Pur essendo la massima studiosa vivente di scandali da 36/48 ore dell’internet, mi sono – in coincidenza col penultimo scandale du jour – resa conto d’aver trascurato una statistica importante: quanti degli sdegni occorsi negli ultimi anni sono dovuti alla confusione tra oggetto e bersaglio d’una battuta? 

Capitò alla capostipite delle linciate dall’internet, Justine Sacco. Era il 2013, e il bersaglio della battuta «vado in Africa, spero di non prendermi l’Aids, ah no: sono bianca» erano chiaramente i razzisti e i tic del loro ragionamento. «Chiaramente» è chiaramente l’avverbio sbagliato, considerato che, come spessissimo sarebbe accaduto in seguito, la confusione fu grande e la Sacco tuttora è quella che, per carità, ha pagato un prezzo troppo alto, ma aveva comunque fatto un’inaccettabile battuta razzista. 

(Ci sarebbe da discutere del concetto di «battuta inaccettabile», sensato come le lasagne vegane: se non disturba nessuno, che battuta è?). 

Nel mio minuscolo, capitò a me una volta che qualche passante chiese a Elena Stancanelli se conoscesse (di fama, suppongo) Pasolini e se Pasolini, al posto della Stancanelli, avrebbe rimproverato quel ragazzino di borgata che, nel discutere coi neofascisti, dimostrava la scarsa familiarità con la lingua italiana che è tipica dei romani. M’intromisi dicendo che no, Pasolini sarebbe stato impegnato a ingropparselo, il ragazzino. 

In mezzo a moltissimi offesi in-quanto-fan-di-Pasolini, che è un tic scemo ma aveva una sua logica nell’occasione, venni redarguita per giorni da gente che, scambiando oggetto e bersaglio della battuta, riteneva avessi insultato il ragazzino. 

Andrea Bozzo è un disegnatore che non conoscevo fino all’altroieri, e il fatto che ora sappia chi è dimostra che ha ragione lui quando dice che «diventi un marchio a costo zero»: i linciaggi dell’internet sono un aggiornamento del vecchio detto secondo cui non esiste la cattiva pubblicità. 

L’altro giorno i talebani hanno promesso un governo «inclusivo». Inclusivo è una parola totem del postmoderno. Sei inclusivo se non abbandoni i cani in autostrada e non declini le parole secondo generi escludenti. Sei inclusivo se per recitare nel tuo film scritturi un nero un cinese un indiano un paio di trans e una paraplegica, senza farti distrarre dal fatto che il tuo film parla della squadra olimpionica della Germania nazista. 

«Inclusivo» rappresenta tutto ciò che immaginiamo come opposto ai talebani nello spettro della civiltà. Siamo inclusivi perché rispetto ai diritti fondamentali siamo così coperti che ci resta lo spazio mentale per scandalizzarci se un’opera d’arte non è accessibile in sedia a rotelle. 

Se di mestiere osservi lo scarto, non quello tra la sedia a rotelle e i gradini dell’opera d’arte ma quello tra le buone intenzioni e la logica, o tra le cattive intenzioni e la nostra capacità di notarle, il talebano che parla d’inclusività non può non farti ridere. 

Bozzo ha fatto una vignetta che ha messo sulla sua pagina Facebook. Chi fa mestieri che hanno a che fare con l’esprimersi lo sa: i social sono una palestra. Li usi per vedere l’effetto che fa, per calibrare, per capire come funzionano le cose. Se sei intelligente, lo fai essendo consapevole che la stragrande maggioranza del pubblico affronterà quel che vede come fosse l’opera finita; ma, se quella cosa lì la fai per lavoro, non ne avrai certo concesso il primo sfruttamento a Mark Zuckerberg o a Jack Dorsey, che non ti pagano. 

Ma non voglio che questa sembri una scusa, facciamo che della confusione tra prove generali e première parliamo un’altra volta, e oggi restiamo alla confusione tra oggetto e bersaglio. Nella vignetta di Bozzo, c’è un talebano così grandemente inclusivo che parla una lingua senza generi: «Tranquill*, stavolta facciamo i brav*» (sì, «i» è articolo maschile, ma l’italiano non riescono a renderlo neutro quelli – quell* – che ci provano sul serio, possiamo pretendere ci riescano le vignette?). 

La vignetta, il cui bersaglio è ovviamente l’ipocrisia talebana, diventa lo scandale du jour un po’ per la solita confusione tra oggetto e bersaglio, un po’ perché i militanti postmoderni hanno un fienile in fiamme in luogo del culo (versione breve: la coda di paglia). Invece di dire che l’occidente serve a questo – a difendere i capricci, le stronzate, la libertà di fare come ci pare in tema d’irrilevanze – hanno deciso d’indispettirsi moltissimo con chi fa notare che i capricci sono tali. Rubo la battuta a qualcuno su Twitter: chissà quanti uomini afgani in questo momento si percepiscono donne. Ma torniamo alla vignetta di Bozzo. 

Su GayPost (chissà chi è il loro social media manager) esce un articolo dai toni così deliranti che non saprei renderli riassumendolo, quindi ne ricopierò stralci. «Una vignetta rilanciata dalle solite realtà transescludenti e queerofobe» (ma come parlate, nota di Soncini); «folklore ideologico, spacciato per esercizio di libero pensiero» (questa frase non ha alcun senso nella lingua italiana, chissà se ne sono consapevoli gli autori dell’articolo, ndS); «sulla pelle di donne che verranno cancellate realmente» («sulla pelle» sempre segno di scarsità dialettica, ndS); «vignette vergognose e sostanzialmente cretine sull’uso di asterischi e schwa» – eccetera, con tanto di mischione retoricamente pasticciatissimo con gli isterici della dittatura sanitaria, assai più vicini agli isterici della neutralizzazione della lingua di quanto lo siano a chiunque rida di qualunque cosa. 

Il fatto è che ridere è, attualmente, la più grave delle ipotesi. Che ci infilino in un burqa o ci privino dei diritti civili ci sembra meno devastante rispetto all’idea che qualcuno rida di noi: dei nostri diritti, desideri, tic, caratteri. Verrebbe da dire che si sta come nello Scherzo di Kundera, inquisiti all’idea che si sia osato fare una battuta, non fosse che a chi ha un qualche senso dell’umore viene da ridere all’idea di paragonarsi alla dittatura in cui è ambientato Lo scherzo. 

«C’è chi ha tempo e fantasia di ironizzare», ha stigmatizzato, condividendo l’articolo di Gaypost, Monica Cirinnà (chissà chi è il suo social media manager), la senatrice che ricordiamo perché, quando Carrefour stampò una maglietta in cui un marito uccideva la moglie, minacciò «chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera», col piglio di Rosa Parks che cambia posto in autobus invece che di una che rinuncia ai punti sulla spesa. 

Mentre Bozzo veniva indicato come nemico del progresso da gente che si scrive in bio «Riot. Feminist. Foucaultian» (tutte le mancanze di senso del ridicolo portano a Foucault) e la definisce «una vignetta orrenda, atroce», mi sono procurata il suo numero di telefono. Anche per chiedergli se la vignetta rimossa da Facebook facesse di lui un martire, o il nuovo Gipi (che ebbe per analoghe ragioni una striscia oscurata da Instagram). 

Mi ha risposto uno che rideva molto, il che avrebbe fatto partire l’embolo ai militari di Kundera e ai militanti del cancelletto, e che era persino un po’ lieto d’essere il capro espiatorio del giorno, giacché ove c’è un’accusa arriva una difesa: «La solidarietà fa piacere perché siamo tutti un po’ narcisisti». E che trovava giustamente esilarante che Facebook gli avesse comunicato che lo riteneva responsabile d’incitamento al terrorismo (sotto il talebano, l’autore aveva scritto: «Diamogli una chance»). 

Il problema, però, trascende lui, e ci riguarda tutti: è lo svuotamento di senso delle parole. «Se quella è una vignetta vergognosa, la gente che cade dalla fusoliera dell’aereo cos’è? Non c’è una parola per dirlo». 

Bozzo ci tiene a precisare cose che gli potrebbero valere un supplemento di linciaggio: «Non sono una vittima di niente», ma anche «ci sta che non siamo d’accordo, mica è la negazione dell’individuo», ma soprattutto «pensi che ho fatto una battuta del cazzo? A me continua a far ridere ma vabbè, passiamo oltre». 

Metà della platea social gl’ingiungeva di scusarsi, l’altra metà se ne appropriava. «Ho unito il paese», ride, notando che, in chiave anticancellettista, l’avevano lodata da Marco Rizzo a Mario Adinolfi: il nemico del mio nemico, eccetera. 

Mentre si paragonava alla nonna di Gaber che non era lei che cambiava idea, erano i partiti che si spostavano, mi ha raccontato d’una volta in cui l’aveva seguito gente convinta fosse vicino ai Cinque stelle perché aveva fatto qualche battuta contro il Pd, poi «quando ho iniziato a prendere per il culo quegli scappati di casa mi scrivevano: sei cambiato, una volta non eri così» – un meccanismo noto a chiunque sia così balzano da non essere tifoso, vivendo nell’epoca delle curve di stadio. 

Pur essendo la massima studiosa eccetera, non ero ancora riuscita a capire come la sinistra potesse intestarsi una battaglia contro la libertà d’espressione e per quella che Guido Vitiello ha chiamato l’«umorismofobia». Me l’ha spiegato Bozzo, senza che neppure glielo domandassi: «Le cose serie le facciamo fare a Draghi, per fortuna; ai partiti che resta? Le battaglie identitarie». 

Partito comunista assolto (con voto bulgaro). Stalin e i fatti d'Ungheria contano poco. Matteo Sacchi il 12 Agosto 2021 su Il Giornale. La giuria popolare scagiona il Pci guardando al "locale" e non al resto. Alla fine è andata come doveva andare. Con un bel 365 voti da una parte e 95 dall'altra, più una manciata di astenuti su un quorum totale di circa 500 votanti. Con un risultato bulgaro del 73% a favore, il Pci, martedì sera, è stato assolto da qualunque colpa verso la storia. Per fortuna non risultano purghe verso il 19% di votanti che invece ha pensato che dall'appoggio a Stalin sino ai fatti di Ungheria e la vicinanza al Kgb qualche responsabilità bisognasse pur attribuirla a Togliatti e compagni. Per carità, quello andato in scena, come da tradizione, a San Mauro Pascoli è soltanto un giocoso processo alla storia che si ripete ogni 10 agosto. Però gli anni scorsi le giurie hanno mostrato un diverso livello di severità. Per intenderci l'anno scorso giudicando i Vitelloni raccontati da Fellini si è arrivati ad un inedito pareggio. Quindi ad essere un fatuo viveur degli anni Cinquanta che fa il gesto dell'ombrello ai lavoratori si finisce sul filo di lana della condanna e ad aver detto che occupare l'Ungheria è una bella idea, e che i gulag sono quanto meno un male necessario, la si passa liscia. Era andata meno bene a Badoglio nel 2009 condannato con larga maggioranza sempre a Villa Torlonia. Evidentemente tutte le ambiguità dell'Otto settembre sono state meno perdonabili per il pubblico degli ambigui rapporti con Mosca. Ma con le giurie popolari sono rischi che si corrono. Anche se a essere sinceri, quando la giuria non era ancora popolare ma «qualificata» venne assolto Togliatti (nel 2008) anche se per un molto più risicato 4 a 3. Ma veniamo al processo di ieri dove in un certo senso sia l'accusa che la difesa sono nati da rami diversi del tronco del vecchio Pci. A mettere in luce le magagne del partito comunista più grande dell'Occidente è stato Giuseppe Chicchi, ex sindaco di Rimini ed ex parlamentare che è partito nel Pds ed è approdato a Leu. Non ha lesinato nelle accuse anche se ha chiaramente il cuore a sinistra: «Il Pci ha avuto un rapporto subalterno all'Urss e non ha avuto il coraggio di rompere quando in tante circostanza era possibile farlo. È stato un partito al guinzaglio che ha limitato persino la sua azione riformista in nome degli equilibri internazionali e ha sempre messo in primo piano gli interessi di Mosca. Berlinguer intuì i limiti di tutto ciò ma fu tardivo nella sua azione». E ancora: «Nel 1926 Gramsci scrive a Togliatti che si trovava a Mosca nel pieno delle purghe staliniane. In quella lettera Gramsci evidenzia la centralità della società civile; il processo rivoluzionario deve essere prima sociale poi politico. E questa è una visione che è mancata al Pci». La politologa Nadia Urbinati, a lungo collaboratrice dell'Unità e di Left (e anche di un Corriere della Sera sempre più spostato a sinistra) ha però rintuzzato ogni tentativo di «revisionismo». Secondo lei il Pci ha avuto «un ruolo centrale nella costruzione ed estensione della democrazia in Italia». Da abile difensore, ha relegato i contatti con Mosca a un fatto reale ma marginale. E con arguta scelta tattica ha puntato sul locale. Ha puntualizzato che il Pci ha sviluppato una particolarissima «capacità di governo nei territori in ambito amministrativo, fatta di servizi e pragmatismo nelle risposte, lontana dall'alone ideologico. Il modello emiliano-romagnolo nasce in questo modo». E cosa succede quando si deve mettere sul piatto una amministrazione accudente a casa propria (anche a costo di buffi tutti regalati alle generazioni a venire) rispetto ai gulag o alle purghe a casa degli altri? Che Stalin o Kruscev diventano quasi simpatici. Chapeau! alla difesa, un po' meno alla memoria storica o al «proletari di tutto il mondo unitevi!».

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 21 luglio 2021. Ma siamo sicuri che, a bombardare Roma, non siano stati i nazisti? O magari gli aragonesi in combutta con i cartaginesi? Lecito chiederselo dopo l'ennesima gaffe di Virginia Raggi, classico esempio di sindaco che amministra una città, senza conoscere alcunché sia della città che della sua storia. Due giorni fa, in occasione del 78° anniversario del bombardamento sulla Capitale, in particolare sul quartiere di San Lorenzo, la Raggi ha scritto in un tweet: «Roma è e sarà sempre antifascista. Ho deposto una corona per commemorare il 78° anniversario del bombardamento che nel 1943 colpì San Lorenzo e altri quartieri della città. Un evento drammatico che non dobbiamo dimenticare perché senza memoria non c'è futuro». Peccato sia stata lei la prima a dimenticarsi di un dettaglio non trascurabile: a bombardare Roma non furono mica i fascisti, ma gli americani. In molti glielo hanno ricordato su Twitter sbeffeggiandola: «Ma almeno leggiti Wikipedia!», «La Raggi gnaa fa proprio, eh», «Padroneggia la storia come l'attività amministrativa», «Pensa che ero fermamente convinto l'avessero bombardata gli Americani, che erano antifascisti». Il dramma è che, all'ignoranza, la Raggi associa l'accecamento ideologico (autoindotto, per compiacere i salotti buoni e il pensiero buonista), cosicché finisce per vedere il mostro fascista dovunque, anche dove non c'è. Del resto non è la prima volta che il sindaco, insieme al suo staff, scambia fischi per fiaschi e vede cose che voi romani neanche immaginate... perché non esistono. In un video promozionale della Ryder Cup di golf a Roma, pubblicato sul profilo Facebook della Raggi, i collaboratori del sindaco non si accorsero che, al posto del Colosseo, c'era l'Arena di Nîmes, che dalla Capitale dista qualcosa come mille chilometri...Quando non lo scambia con altri anfiteatri, la Raggi confonde il Colosseo con la Basilica di San Pietro, robba da ggniente, come direbbero a Roma. Presentando qualche giorno fa un altro torneo di golf, l'Open d'Italia, ha detto testualmente: «Dal green dell'Open si può ammirare, guardando bene, anche la cupola del Colosseo, uno scenario davvero eccezionale e straordinario». Già, la Cupola del Colosseo. E noi che pensavamo fosse un anfiteatro a cielo aperto. Se a volte la Raggi aggiunge cupole, altre volte toglie consonanti. Risale a un mese e mezzo fa la scena imbarazzante del sindaco impossibilitato a inaugurare davanti al presidente Mattarella la targa dedicata a Carlo Azeglio Ciampi, perché al nome Azeglio mancava una «g»: si era accorciato in «Azelio». Peggio del buco era solo la toppa: dal Cerimoniale del Campidoglio facevano sapere che la targa non era stata scoperta perché «seriamente danneggiata». Non era vero, l'unico danno era l'offesa alla memoria di Ciampi. Il vizio di voler cambiare la storia, forse perché consapevole che alla storia lei non passerà mai se non come peggior sindaco, la Raggi non l'ha mai perso. Già a inizio giugno era incappata in un primo errore sul bombardamento di Roma, sbagliando la data: «Ho incontrato a Porta San Paolo», aveva scrit Il bombardamento di Roma durante la Seconda guerra mondiale avvenne il 19 luglio del 1943, ad opera di bombardieri statunitensi delle forze aeree alleate del Mediterraneo. L'attacco fu sferrato la mattina: la città subì pesanti danni materiali e numerose perdite umane. San Lorenzo fu senza dubbio il quartiere più colpito dai bombardieri americani. Le 4.000 bombe (circa 1.060 tonnellate complessive) sganciate sulla città provocarono circa 3.000 morti e 11.000 feriti, di cui 1.500 morti e 4.000 feriti per l'appunto nel solo quartiere di San Lorenzo to in un tweet, «il partigiano Mario Di Maio, testimone del bombardamento di San Lorenzo avvenuto il 19 maggio del 1943». Ma che maggio, era luglio... Lo scorso anno si era invece sbarazzata senza fare un plissé di Romolo e Remo: aveva modificato il tradizionale appuntamento dell'Estate Romana, sostituendolo con il nome bruttissimo Romarama e adottando come logo, in modo inspiegabile, al posto della lupa una gatta rosa.  Con questi presupposti la Raggi probabilmente si candida alla più sonora sconfitta elettorale di un sindaco uscente. Ma, al contempo, vista la sua padronanza in storia e geografia, si propone seriamente al ruolo di leader dei 5 Stelle: dovrà solo fare un corso accelerato, per apprendere da Gigino Di Maio che la Russia si affaccia sul Mediterraneo e che Pinochet fu il dittatore del Venezuela, da Manlio Di Stefano che gli abitanti del Libano si chiamano libici e da Alessandro Di Battista che Napoleone vinse nella celebre battaglia di Auschwitz. Naturalmente combattendo contro i fascisti.

Il direttore Sansonetti "La memoria storica è fondamentale". La gaffe della Raggi sull’orrore del bombardamento del ’43 che però era americano. Riccardo Annibali su Il Riformista il 21 Luglio 2021. Scivolone della sindaca di Roma che con un tweet equivoco attribuisce una mano fascista alle bombe piovute sulla Capitale il 19 luglio del 1943 nel quartiere di San Lorenzo. Il primo bombardamento che Roma subì durante la seconda guerra mondiale, una pagina tragica per la storia di Roma che Virginia Raggi ha celebrato con una cerimonia per il 78° anniversario delle incursioni aeree. La Raggi non è nuova alle inesattezze nelle sue uscite tanto è che nel corso del suo mandato è diventata rinomata tra i romani (e non) che l’hanno incoronata regina delle gaffes. È difficile tenere il conto di tutte quelle che ha fatto, tra visionarie cupole al Colosseo per il 78esimo open di Golf d’Italia, e il compositore Ennio Morricone che diventa addirittura “Morirono” (sempre colpa del povero t9). Stavolta la recidiva Sindaca sceglie come terreno di battaglia la storia, più precisamente quella del Novecento della sua città. E un evento in particolare, il bombardamento di San Lorenzo.

IL TWEET INCRIMINATO – Per ricordarlo Raggi ha pubblicato un tweet con tanto di foto della celebrazione, sul suo profilo ufficiale. A qualche utente disattento, o a qualcuno con poca dimestichezza, potrebbe quasi sembrare che a bombardare la città siano stati i fascisti, infatti sono diversi i commenti al post che si congratulano con la sindaca. E invece fu l’aviazione anglo-americana che risaliva la Penisola verso nord, a bersagliare Roma. Partiti alle 11 le Fortezze volanti insieme ai Liberator scortati da 268 caccia sganciavano 4mila bombe in poco più di 2 ore uccidendo oltre 1.700 persone solo a San Lorenzo. Virginia Raggi sul bombardamento di Roma era già inciampata poche settimane fa, ad inizio giugno, quando twittò: “Oggi, in occasione del 77esimo anniversario della Liberazione di Roma, ho incontrato a Porta San Paolo il partigiano Mario Di Maio, testimone del bombardamento di San Lorenzo avvenuto il 19 maggio del 1943”. Peccato che, appunto, quel tragico evento avvenne il 19 luglio, non maggio. Tra il nome di Carlo Azeglio Ciampi che diventa “Azelio” sulla targa, scaricando la responsabilità sul marmista di Velletri e il video promo con la francese arena di Nimes al posto del Colosseo Virginia raggi prova a riscrivere la storia della sua città.

LE CRITICHE NEI COMMENTI – I followers ovviamente non si sono lasciati sfuggire l’occasione di criticare il tweet che recita: “Roma è e sarà sempre antifascista. Ho deposto una corona per commemorare il 78° anniversario del bombardamento che nel 1943 colpì San Lorenzo e altri quartieri della città. Un evento drammatico che non dobbiamo dimenticare perché senza memoria non c’è futuro”. Gli utenti non hanno mancato di far notare però che l’incursione fu opera di bombardieri statunitensi delle forze aeree alleate del Mediterraneo. “L’ennesima occasione svanita per tacere!”, oppure “Cosa c’entra il bombardamento di S.Lorenzo del 1943 con l’antifascismo? Basta con lo stravolgimento della realtà storica”, e ancora “Se non ci fosse stato il nazi-fascismo quel bombardamento si sarebbe evitato. Il suo obiettivo fu lo sfiancamento di quel regime. La guerra è guerra e la Storia non si legge ma si studia”. I DIFENSORI DELLA SINDACA – Nel dibattito sul significato delle parole di Virginia Raggi non manca, tra quanti le contestano una scarsa conoscenza della Storia, chi prova a difenderla dando un’interpretazione più ampia: “Bombardarono per liberarci dal regime fascista, fecero danni si ma a fin di bene”. Una linea difensiva che comunque agli occhi di qualche utente non scagiona la sindaca “Giustissimo, ma il tweet lo trovo poco chiaro”. Riccardo Annibali

Il caso. L’asterisco toglie voce all’italiano. Maurizio Bettini su La Repubblica il 10 agosto 2021. In controtendenza con la storia dell’alfabeto lo schwa e gli altri segni grafici non hanno un corrispettivo fonetico. I Greci raccontavano che a inventare l’alfabeto fosse stato il dio Hermes, osservando il volo di uno stormo di gru. In effetti quando migrano questi uccelli disegnano in cielo una linea retta, mentre sopra e sotto di essa ali e zampe formano dei segni che, presi insieme, possono suscitare l’immagine di caratteri alfabetici disposti in una riga. L’invenzione dell’alfabeto ha costituito un evento cruciale nella storia della cultura umana, segnando il passaggio dal mondo dell’oralità a quello della scrittura.

La lingua italiana non si cambia con l’asterisco. Simonetta Fiori su la Repubblica il 7 agosto 2021. Lo schwa e gli altri segni grafici inclusivi entreranno nel vocabolario? Secondo Luca Serianni, che studia l’italiano da anni, no. Ecco perché. E se spostassimo la discussione? Non più la diatriba tra bianchi e neri, tra i paladini dell'asterisco transgender e i cultori della grammatica tradizionale, tra chi rivendica il politicamente corretto anche nelle desinenze e chi gli oppone una fiera allergia. Anche perché quello dello schwa, il simbolo inclusivo della "e" rovesciata per rendere neutro il genere, è un partito largamente trasversale, avversato da uno schieramento che da Maurizio...

Vittorio Feltri demolisce Michela Murgia: "matria", asterisco e carattere neutro? "Dizionario nel Gulag". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Ultimamente va di gran moda riscrivere le regole della grammatica e la logica ad esse sottese. Una scrittrice, la sarda Michela Murgia, che non ha mai fatto mistero di subordinare la sua attività letteraria alla militanza politica, ha capito che il filone rende in termini di notorietà, motivo per il quale è ormai scatenata. Ogni settimana mette in discussione uno o due pilastri della lingua italiana, in attesa, consapevole o inconsapevole, di veder crollare l'intero edificio. Questo sarebbe il risultato nel caso le proposte della Murgia ottenessero un esito positivo. La Murgia crede che la lingua sia sessista e patriarcale. Vale a dire che il vocabolario rifletta la secolare sottomissione della donna. Bisogna dunque rimediare e risarcire la parte rosa del mondo. Come? All'inizio Murgia pensò di intervenire direttamente sul dizionario. Basta dire "patria", è pura discriminazione. Meglio "matria". E pazienza se sono secoli, anzi millenni, che si dice "la madre patria", la Murgia non ha tempo di curarsi di dettagli minimi come l'uso comune nel corso del tempo. "Matria" comunque non riuscì a sfondare, stranamente. Il vaso di Pandora delle cazzate però era stato scoperchiato una volta per tutte. Arrivarono quelli più intelligenti di tutti e proposero di introdurre l'asterisco per far capire che ci si rivolge alle donne e agli uomini ma senza presupporre umilianti gerarchie. Capito, car* amic*? Mentre Dante Alighieri, Pietro Bembo, Alessandro Manzoni sono stati lì a pensare tutta la vita per darci uno strumento per comunicare, e per creare letteratura comprensibile in tutto lo Stivale, questi sapientoni del politicamente corretto ne sparano a raffica, una al minuto.

L'IDEA GENIALE

Siccome l'asterisco non sembrava bellissimo, hanno avuto l'idea di introdurre un nuovo carattere, chiamato Schwa (dall'antica radice indoeuropea) che si trascrive con una "e" rovesciata, in questo modo: "El ". Capito, car amich181? Comodo no? Bello da vedersi, no? Da pronunciarsi non saprei, del resto nessuno può giurare di conoscere la maniera corretta. Più ci penso, più mi rendo conto che l'Italia è un paese popolato da mostri di intelligenza come la Murgia, che ha trovato subito dei sostenitori. Ora rendetevi conto cosa accadrebbe se lo/la/l* Schwa venisse insegnato nelle scuole, come alcuni già auspicano. Sarebbe il caos più totale, la lingua sarà sessita ma è logica, per questo funziona. Gli studenti poi con capacità di apprendimento ridotta sarebbero abbandonati a se stessi. Questo delirio è figlio di un femminismo più attento alla forma che alla sostanza, ma forse è figlio solo di intellettuali che hanno capito come restare al centro dell'attenzione. Le pari opportunità erano sacrosante: tutti uguali alla partenza. Poi è arrivato il momento delle quote rosa, che già sembravano una forzatura e la negazione del femminismo stesso, visto che si chiedeva un numero di donne quasi a prescindere dal merito. Quindi è arrivato il movimento #metoo con relativa caccia al presunto stupratore/molestatore, il tutto con denunce distanti anni e anni dai fatti incriminati. Infine si è pensato alla brillante riforma grammaticale. Il primo passo è stato il dibattito tragicomico su come andasse chiamata una donna al vertice di istituzioni o aziende: presidente, presidentessa o presidenta? Sindaco o sindaca? Avvocato, avvocatessa o avvocata? Un vero rebus dalla rilevanza pari a zero. Ma come diceva il mio amico Giorgio Gaber, "quando è moda, è moda".

ALL'ESTERO

In altri Paesi che sono più "avanti" del nostro, tipo la Francia, sono stati costretti a promulgare una legge che impedisce di riempire di simboli le pagine dei documenti. Insomma, i parigini hanno già avuto la possibilità di sperimentare queste riforme ortografiche e hanno deciso di tornare indietro il più rapidamente possibile. La lingua serve a capirsi non a riparare storici torti. Si direbbe facile da intendere. Eppure... C'è perfino chi ha chiesto di essere identificato con il pronome della terza persona plurale: Essi o Loro. Queste persone si dichiarano non binarie dal punto di vista sessuale. Sono sia omo sia etero, dipende dalle giornate. Inoltre contengono moltitudini, non solo una semplice personalità. Non sono soltanto fluidi/e/*, ovvero bisessuali. Noi dobbiamo assecondare la loro volontà per non essere sessisti e oppressori. Ma così non si capisce più niente, direte voi, se cambi la funzione logica dei pronomi è finita. In effetti avete ragione ma il politicamente corretto ha fatto un salto di qualità. Un tempo si limitava a coniare eufemismi per cui un nano era diversamente alto o a vietare la parola "negro". Oggi invece si spinge dentro alla testa di chi parla e scrive, come fanno tutte le dittature, per ottenere una resa totale e perfino convinta. E per entrare nella testa delle persone non c'è niente di meglio che impadronirsi della lingua con la quale pensiamo e ci esprimiamo. È un classico dei Paesi totalitari. 

Luigi Mascheroni per “Il Giornale” il 12 luglio 2021. Tutto cominciò quando Lilli Gruber provò a convincere gli italiani che, oltre a quella di Beppe Severgnini e Rula Jebreal, l'opinione di Tomaso Montanari, storico dell'arte televisivo, fosse meritevole di essere ascoltata. Il talk show, del resto, è soltanto la declinazione più spettacolare delle mostre, dal latino monstrare, derivazione di monstrum: con senso di biasimo, riferito a cose che sarebbe conveniente tenere nascoste. Critico molto preparato e intellettuale troppo politicizzato, Tomaso Montanari da Firenze e di sinistra, in direzione ostinata e contraria anche al Pd - non ha mai tenuto nascoste le proprie avversioni. Cose che non sopporta: Matteo Renzi, i sindaci della sua città (tutti), i turbo-liberisti, ma anche i liberali, Matteo Salvini (però un po' meno di Matteo Renzi), l'arte contemporanea («La libertà degli artisti contemporanei coincide con la loro massima irrilevanza»), Renzi, i ragni pelosi, mettersi la cravatta, il fatto che Vittorio Sgarbi venda più di lui, Renzi, la riduzione di Firenze al suo brand, l'idea che anche chi non ha sostenuto una biennalizzazione di Storia dell'architettura e un esame di Museologia possa passeggiare in infradito per le città d'arte, le infradito, Renzi, Renzi in infradito e i politici in generale. «Non è che ai politici italiani non interessi la cultura. È che sono molto ignoranti». Quando il qualunquismo si salda al populismo. Bacioni. A Tomaso Montanari con una «M» in meno e un surplus di pubblicazioni la Cultura interessa (in realtà solo Bernini e il Barocco...), ma la politica di più. Fra un trompe-l'oeil di Pietro da Cortona e l'engagement, meglio un posto nella Commissione per la riforma del Ministero per i Beni Culturali. E fra i ritratti di Velázquez e l'etica politica, perché non accettare dal ministro Franceschini - dopo aver sfiorato la querela - la presidenza della Fondazione Richard Ginori? Una volta di sé ha detto: «Sono antipatico e inopportuno». Come dargli torto? Sempre dalla parte della ragione come tutti i migliori intellò (bistecca fiorentina, ribollita, lampredotto, cantucci e crema della Gauche caviar, ottima all'Enoteca Pinchiorri); di indole modesta («Ogni volta che leggo Dante non posso dimenticare di essere stato battezzato nello stesso battistero»); riservato (solo una cosa adora più degli abissi del Tiepolo: essere ospite a Otto e mezzo); odiatore zdanoviano di Salvini e della Meloni (anche nell'arte la destra è mediocre: tutti i geni, da Michelangelo in giù, sono mancini); già ordinario di Storia dell'arte all'Università di Napoli, di Roma Tor Vergata e della Tuscia, con persino una laurea honoris causa alla Leopolda in Antirenzismo (i due non si sopportano da quando studiavano nello stesso liceo a Firenze, poi ai tempi della Giunta Rossi l'antipatia divenne astio: il governatore aveva promesso a Montanari l'assessorato alla Cultura, ma Renzi mise il veto... può capitare...), e convinto sostenitore della specializzazione professionale: nella vita si fa una sola cosa, ma fatta bene: «Basta con questa multidisciplinarietà!» (è docente universitario, consulente ministeriale, opinionista, saggista, editorialista, critico e autore televisivo), Tomaso Montanari è da qualche giorno anche il nuovo rettore dell'Università per Stranieri di Siena. Sbaragliando le squadracce liberali infiltratesi nell'ateneo, è stato eletto con percentuali campane: l'87% dei voti. Ma c'è da dire che era l'unico candidato...A sinistra della sinistra adorano i plebisciti. Nelle prime dichiarazioni, Montanari ha affermato: «Saremo nemici delle diseguaglianze, rispettando le differenze». Che, a pensarci, è una cosa che negli ultimi duecento anni hanno ripetuto in tanti, da Karl Marx ai socialisti utopisti, dalla Destra sociale a Salvini. Multiculturalismo in salsa sovranista. La domanda è: Montanari è un Fusaro che ce l'ha fatta o una Paola Taverna che non è riuscita a entrare in Parlamento? A proposito di democrazia, il progetto politico del «Prof» è una squadra di governo composta da: Greta Thunberg all'Ambiente, Marta Fana all'Economia, Elly Schlein al Gender, Andrea Crisanti a Sanita&Lockdown, Davigo alla Custodia cautelare, Carola Rackete alla Marina mercantile, Lilli Gruber alle Comunicazioni, Ali Khamenei ai Rapporti con il Vaticano, Tomaso Montanari ai Beni culturali, Kim Jong-un agli Esteri. E il Canaro della Magliana? Del resto, come ha detto una volta: «Sono Amici miei». Come se fosse Antani. Allievo morale dell'ultra conservatore Salvatore Settis, amico della compianta zarina Giulia Maria Crespi (faticò a entrare nel suo salotto, ma poi ci litigò per un Burri), già membro del consiglio nazionale di «Italia Nostra», formidabile polemista quando Chiara Ferragni trasformò gli Uffizi nello «sfondo di un'influencer», inflessibile sostenitore del NO, qualsiasi sia la domanda («Mi si NoTav di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo per niente?»), feroce pamphlettista versus le mostre blockbuster («Ma perché la gente va a vedere gli Impressionisti e Caravaggio?! Stiano a casa a guardare la Gruber!») e furioso Savonarola contro la Firenze dell'arte svenduta al merchandising, Montanari sogna un'Italia sotto teca. Guardare e non toccare. Soprattutto il Colosseo. Se esiste una nemesi, Montanari nella prossima vita organizzerà visite guidate nella Firenze di Dario Nardella con indosso un grembiule da cucina con stampato sopra il pisello del David. «Ars longa, vita brevis». Echo-chamber di fanatismo e intransigenza, Montanari è dotato di un tempismo esemplare. Quando il premier Draghi accennò timidamente alla riapertura del Paese, rispose: «È il nostro Bolsonaro». Quando il generale Figliuolo stava compiendo la più grande campagna vaccinale della storia, lo ha fucilato: «Quel tizio in mimetica, loquace ma inconcludente». Quando Renzi ha avanzato legittimi dubbi sulla possibilità che il DdlZan fosse approvato, ha scritto: «Il tradimento saudita sul #DdlZan è una di quelle azioni imperdonabili che sfigurano per sempre il volto morale di chi le compie: nessuna cinica convenienza politica potrà cancellarlo», e bisogna stare a attenti a studiare il barocco tutta la vita, che poi si finisce per scrivere frasi così (e a mettersi le Birkenstock: l'etica non dovrebbe essere inscindibile dall'estetica?). E infine, quando Michela Murgia, giorni fa, si è schierata con il terrorismo palestinese, senza se e senza Hamas, Tomaso twittò: «Le voglio bene. E oggi è uno di quei giorni in cui dirlo è bello». Il Signore di Gaza, Yahya Sinwar, ha lasciato un «like». Free Palestine! Ho bisogno di un Plasil. Qualcuno ha fatto notare che se gli intellettuali - a sinistra - sono come Montanari, non c'è da stupirsi che molti vedano Fedez come il leader del Pd post Letta. E comunque, quando Renzi, quindici giorni fa, ha postato «Che al posto di Arcuri, Bonafede, Costa, Boccia e Provenzano ci siano persone più capaci come Figliuolo, Cartabia, Cingolani, Gelmini e Carfagna mi sembra positivo», Montanari voleva andare in esilio al Louvre. Ma poi: Montanari di tutto cioè è la causa o l'effetto? Vabbè, ci sono cose peggiori. Tipo? «Mah, essere studenti dell'Università per Stranieri di Siena». 

Da “la Repubblica” l'8 luglio 2021. Caro Merlo, Anais Ginori cita "La notte di San Lorenzo" (sul Venerdì, Cannes), film dei Fratelli Taviani. Erano così di sinistra da attribuire ai tedeschi il bombardamento americano evocato nel film. È questo pensiero sempre militante il problema. Voltaire è francese, infatti. Leonver

Risposta di Francesco Merlo: Lei riapre il capitolo penoso della critica della ragion critica. Ci sono miti della nostra cultura che almeno in parte sono stati costruiti più sull' ideologia che sulla verità. Il cinema dei fratelli Taviani è pieno di poesia e di candore popolare. Ma l'eccidio di San Miniato (San Martino nel film), 55 morti, fu dovuto alla disgrazia del fuoco amico: un bomba americana. Invece nel film del 1982 i Taviani, che a San Miniato sono nati, attribuirono la strage del 22 luglio 1944 ai fascisti in combutta con i tedeschi. Lunga e penosa, la storia della falsa attribuzione, che fu coperta appunto per ragioni ideologiche, nulla toglie alla grandezza della Resistenza e alla spietatezza criminale dei nazifascisti. Ma i crimini che commisero non li rendono responsabili di quelli che non commisero. Ecco perché quella tragedia molto racconta, anche con il pasticcio delle due lapidi (la prima nel 1954 di Ferruccio Parri, la seconda nel 2008 di Oscar Luigi Scalfaro) della forza dell'ideologia nei libri, nei giornali, nei film e nella critica ai film. Ci vorrebbe su San Miniato un nuovo film con l'arte dolente dei Taviani e la pietas manzoniana della storia.

La storia riscritta in silenzio. Simonetta Fiori su La Repubblica il 6 luglio 2021. Dai nomi delle vie alle delibere comunali, dai consigli regionali alle ordinanze dei sindaci: così il revisionismo che rivaluta il fascismo si diffonde sotto traccia dal nord al sud del Paese. Piccoli smottamenti, cadute non sempre appariscenti, più spesso sotterranee. Ma messi insieme producono una slavina invisibile che travolge i capisaldi della storia contemporanea. Il disegno di legge presentato da Fratelli d’Italia con l’equiparazione delle foibe all’Olocausto è solo la parte più scoperta di un fenomeno in rapida accelerazione che da Alessandria a Grosseto, da Dalmine a Vibo Valenzia, da Monfalcone a Lecce, dilaga in tutta la penisola rimbalzando di municipio in municipio, di borgo in borgo, lungo un’unica traiettoria disegnata dal nuovo revisionismo della destra.

Educazione civile e filosofia pratica in Giovanni Gentile. Luigi Iannone il 13 luglio 2021 su Il Giornale. Giovanni Gentile impiegò due mesi per scrivere Genesi e struttura della società, il volume che insieme ne chiude traiettoria filosofica e vicenda umana. Presentiva la fine in quell’estate del ’43 e, a qualche amico antifascista col quale ancora manteneva contatti, aveva confessato: «I vostri amici possono uccidermi, se vogliono. Il mio lavoro nella vita è finito». Sette mesi dopo cadde sotto i colpi di un commando comunista e Genesi, pubblicato postumo nel 1946, ne divenne testamento spirituale con intenti chiari sin dall’esergo: «è stato scritto a sollievo dell’animo in giorni angosciosi e per adempiere un dovere civile in vista dell’Italia futura». Ma Gentile non era un illuso. Il fascismo era agli sgoccioli. Al contempo, non voleva aspettare che maturassero gli eventi perché «bisogna marciare come vuole la coscienza. L’ho predicato per tutta la vita. Non posso smentirmi ora che sto per finire». E proprio in questo ennesimo tentativo di rilancio si ripresentò uno dei motivi dell’antica frattura politica con il rivale Croce. Se, infatti, questi agevolava ogni sottolineatura distintiva nei confronti della «invasione degli Hyksos», Gentile teorizzava l’attualismo caldeggiando l’azione, tant’è che il sottotitolo è Saggio di filosofia pratica. Genesi è infatti un lavoro impregnato di senso religioso in cui, però, risalta la relazione inscindibile tra riflessione filosofica e prospettiva pedagogica. Apre al futuro con l’intenzione di indicare i contorni su cui forgiare la vita spirituale della nazione. Conta in una idealità alta che sfiori l’eterno, che non debba per forza di cose palesarsi solo dopo la morte fisica in quanto, i valori di cui l’eterno si sostanzia, dimorerebbero nell’intimo di ogni individuo (in interiore homine) e sempre predisposti ad inverarsi nella società. Valori tradizionali, come quelli della famosa triade (Dio, Patria, Famiglia), a cui connette l’umanesimo della cultura, su cui direttamente aveva messo mano come ministro dell’istruzione, e l’umanesimo del lavoro; vale a dire, una teoria che certificasse il valore dell’agire lavorativo che mai si sarebbe dovuto esaurire nel dato salariale ma sempre elevarsi ad alta espressione dello spirito umano. A questo punto, però, come si evince dall’ampia introduzione di Gennaro Sangiuliano alla nuova edizione del volume (Oaks edizioni, p.190, euro 19), l’intento non era più solo quello di codificare una identità italiana che potesse affondare le radici nella storia ma agevolare il grande risveglio morale e nazionale attraverso un nuovo fronte capace di tenere insieme mondi diversi. Pur riprendendo molti dei temi utilizzati ne La filosofia di Marx del 1899, Gentile sente infatti la necessità di convogliare lo studio di una vita in una sorta di imbuto teoretico finale. Vuole riplasmare questa nuova missione di riscatto attraverso una teologia civile che non solo includa Dante, Leopardi, l’eredità risorgimentale, la centralità della scuola e della religione, ma approdi all’umanesimo del lavoro, che diviene sintesi politica fra ‘diversi’ ma anche prospettiva di azione.

Uccidete Gentile per educarne cento. Marcello Veneziani, La Verità/marcelloveneziani.com 15 aprile 2021. C’è una data, un simbolo e un atto da cui prende origine la cancellazione del pensiero avverso, l’eliminazione con disprezzo di chi non si conforma e l’egemonia culturale. È il 15 aprile del 1944. In quel giorno viene ucciso un filosofo, forse il più grande filosofo italiano del Novecento e il più grande promotore di cultura in Italia. Giovanni Gentile fu filosofo del fascismo e la definizione è vera ma riduttiva: la sua filosofia era già compiuta prima che nascesse il fascismo, la sua impronta culturale va ben oltre il regime; fu gran ministro della pubblica istruzione, fece una vera riforma della scuola, fondò l’Enciclopedia italiana, fondò e diresse istituti di cultura. Fu ucciso da un commando di partigiani comunisti. Non ricostruirò la storia dell’assassinio, i retroscena, i colpevoli. Il miglior libro sul tema, il più onesto, resta quello di Luciano Mecacci, La ghirlanda fiorentina, edito da Adelphi. Eravamo in guerra, il clima era feroce. Ma a Gentile, prima che il suo passato di ministro e di fascista, non si perdonò il suo appello alla pacificazione e a sentirsi italiani prima che fascisti e antifascisti. Inviso anche ai fascisti più fanatici, fu proprio quel suo appello alla concordia a renderlo ingombrante; avrebbe favorito una transizione meno feroce dal fascismo all’antifascismo. Non rivangherò le responsabilità comuniste, l’atto d’accusa di Concetto Marchesi prima dell’omicidio, la “sentenza di morte” emessa contro di lui, poi la dissociazione del Partito d’Azione; e non tornerò sul tema se il mandante fosse Palmiro Togliatti o l’Intellettuale Collettivo. Ne ho scritto abbastanza. Non ci sarebbe comunque da sorprendersi di Togliatti, considerando le sue responsabilità nel massacro degli anarchici da parte dei comunisti in Spagna, sui comunisti italiani rifugiati e trucidati in Unione sovietica, la complicità sulle foibe… Il suo cinismo e il suo allineamento a Stalin non ci impediscono di riconoscere la sua grande intelligenza politica, l’amnistia concessa da Guardasigilli ai fascisti, il suo ruolo di costituente e poi nella repubblica. Togliatti avrebbe potuto giustificare l’esecuzione come azione di guerra ma andò oltre, usando parole sprezzanti. Come sarà per Mussolini e i gerarchi, non bastò “giustiziarli”, ma vi fu lo scempio di Piazzale Loreto; così non bastò uccidere Gentile, si volle fare scempio della sua figura e del suo pensiero. Sull’Unità del 23 aprile del ’44 Togliatti rifiutò il tono rispettoso per un morto, volle scrivere “il necrologio di una canaglia”; “traditore volgarissimo”, “camorrista”, “corruttore di tutta l’intellettualità italiana” (compreso quella che poi passò armi e bagagli al Pci); “intellettualmente disonesto”, “moralmente un aborto”, “un gerarca corrotto”. Dopo di lui infierirono sul cadavere, con odio, Eugenio Curiel e altri intellettuali: “raccattato nell’immondezzaio”, “lenone”, “mediocre vacuo”…Gentile non aveva nulla da guadagnare nell’esporsi con l’ultimo fascismo di Salò, da cui era rimasto fino allora appartato: aveva tanti contro, non aveva mai amato l’alleanza con Hitler, detestava il razzismo; ma per coerenza e carattere non si tirò indietro, come scriverà in Genesi e struttura della società (un libro che ripubblicai con Vallecchi, ora uscito da Oaks a cura di Gennaro Sangiuliano). Si espose, accettò di presiedere l’Accademia e fu ucciso. Era stato fascista e mussoliniano, aveva avuto onori e onorari dal regime, e grande potere; ma era stato anche attaccato da molti fascisti e intellettuali, fu emarginato dal regime dopo i Patti Lateranensi. Per Gentile il fascismo passa ma l’Italia resta, lo Stato viene prima del Partito e la Nazione prima del regime. Aveva difeso e riformato la scuola e l’università italiana, la Normale di Pisa, aveva fondato l’Istituto di studi orientali, l’Ismeo, aveva creato quel monumento alla cultura che è l’Istituto dell’Enciclopedia, la Treccani. E aveva difeso tanti intellettuali antifascisti, dissidenti ed ebrei, ne aveva portati ben 85 – contarono i suoi detrattori in camicia nera – a collaborare all’Enciclopedia; protesse antifascisti militanti come Piero Gobetti che pure lo aveva attaccato e giovani docenti oscillanti tra l’ossequio al fascismo e il larvato antifascismo, come Norberto Bobbio. Era stato, si, paternalista, autoritario, passionale; ma anche generoso, educò ai doveri e al coraggio, difese e diffuse cultura e intelligenza. Il filosofo Antonio Banfi, diventato comunista, commentò sul giornale comunista La nostra lotta l’assassinio di Gentile; dopo una caterva d’insulti, ammetteva trincerandosi dietro un si dice: “Era, si dice, un onesto uomo, affabile, generoso di aiuto, molti protesse e difese in anni tempestosi… Era uno studioso, un filosofo”; ma i tempi erano quelli che erano, richiedevano atti drastici e spietati. E dire che Togliatti, come Gramsci, era stato gentiliano all’epoca di Ordine nuovo, come ammise il cofondatore Angelo Tasca. Dopo la guerra, quando curò per le edizioni di Rinascita il profilo di Marx scritto da Lenin, Togliatti cancellò il riferimento a Gentile, unico citato da Lenin tra i filosofi viventi. La censura ideologica cominciò allora…Uccidere Gentile fu una bestialità coerente al clima generale. Peggio che sparargli fu però infangarlo e diffamarlo dopo morto, usare il suo assassinio come uno spauracchio, volere la sua eliminazione come premessa per instaurare l’egemonia culturale e liberare gli stessi intellettuali all’ombra del Pci dal debito imbarazzante verso di lui. Condannavano il filosofo della dittatura e poi si piegavano al partito di Stalin e al totalitarismo comunista. L’uccisione di Gentile fu un parricidio culturale e insieme un avvertimento e un esempio, da seguire seppure in forme incruente in tempo di pace: eliminare chi dissente, cancellare i non allineati; morte civile e infamia. I meriti, i valori, le verità non contano se sei dalla parte sbagliata. Cominciò così l’egemonia culturale…MV, La Verità 15 aprile 2021

Marcello Veneziani. Giornalista, scrittore, filosofo. Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste, ha scritto su vari quotidiani e settimanali. È stato commentatore della Rai. Si è occupato di filosofia politica scrivendo vari saggi tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Comunitari o liberal, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra e La sconfitta delle idee (editi da Laterza), I vinti, Rovesciare il 68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino (editi da Mondadori), Lettere agli italiani. È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come Vita natural durante dedicato a Plotino e La sposa invisibile, e ancora con Mondadori Il segreto del viandante e Amor fati, Vivere non basta, Anima e corpo e Ritorno a sud. Ha poi pubblicato con Marsilio Lettera agli italiani (2015), Alla luce del mito (2016), Imperdonabili. Cento ritratti di autori sconvenienti (2017), Nostalgia degli dei (2019) e Dispera bene (2020). Inoltre Tramonti (Giubilei regnani, 2017) e Dante nostro padre con Vallecchi, 2020.

Contro la nuova retorica dell’antifascismo bisogna rileggere l’opera di Renzo De Felice. Mario Bozzi Sentieri lunedì 21 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Dopo l’appello-denuncia “Libera parola in libero Stato”, a firma di Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, contro il regime dell’artifizio e dell’ipocrisia, voluto dai legislatori del linguaggio “politicamente corretto”, cresce   il disagio del mondo culturale (quello vero) nei confronti della debordante (e volgare) deriva del “nuovo” antifascismo. In un recente articolo, intitolato “L’antifascismo è una cosa seria”, pubblicato sull’inserto ligure de “il Giornale”, Dino Cofrancesco, Professore Emerito dell’Università di Genova, intellettuale di estrazione liberal-socialista,  si è scagliato, senza mezzi termini,   «contro la stomachevole retorica  antifascista che è arrivata persino a proporre Bella ciao come inno nazionale da eseguire subito dopo Fratelli d’Italia» (e senza risparmiarsi la disgustosa ipocrisia che , in tal modo, si sarebbe fatto un passo avanti nell’unione spirituale di tutti gli Italiani). Cofrancesco, mentre  rivendica coloro che hanno segnato la sua vita di studioso e di cittadino  (Guido Calogero, Leo Valiani, Giuseppe Faravelli, Augusto Del Noce), pone l’accento  sulle distinzioni tra  gli “insopportabili settari” della più recente vulgata antifascista e la generazione di intellettuali e di “Maestri antifascisti”, “tanto intransigenti nella difesa della libertà quanto rispettosi dei nemici politici (Valiani, decisivo nell’esecuzione di Mussolini, dedicò le sue memorie, Tutte le  strade conducono a Roma,1947, ai caduti dell’una e dell’altra parte)”. A figura emblematica di questo scontro tra gli “ayatollah dell’antifascismo” e un “revisionismo storiografico serio” lo studioso genovese pone Renzo De Felice, un richiamo che va rimarcato. De Felice ci riporta ad una stagione straordinaria e troppo rapidamente dimenticata della nostra cultura nazionale. Nel 1975, a dieci anni dall’uscita del primo volume della monumentale biografia di Mussolini, la sua Intervista sul fascismo a Michael Ledeen fece scalpore e accese un grande dibattito, nella prospettiva di una comprensione più distaccata del nostro passato.  Al punto che venne perfino difesa da comunisti come Giorgio Amendola, la cui Intervista sull’antifascismo (1976), a cura di Piero Melograni, arrivò a confermare non poche tesi dell’altra. De Felice aprì scenari inusuali sulla distinzione fascismo-regime e fascismo-movimento, in esso individuando motivi di rinnovamento sociale, elementi di idealizzazione e modernizzazione e ben delineando la distinzione tra regimi conservatori ed esperienze propriamente fasciste. Amendola  rilanciò  una lettura problematica del fascismo e dell’antifascismo, entrambi immagini speculari di una complessità, insieme ideologica e politica  (Amendola si interrogò sulle contaminazioni rivoluzionarie del fascismo, rappresentate dall’anarco-sindacalismo, dall’interventismo rivoluzionario, dal corporativismo, dall’avanguardismo giovanile)  non riconosciuta però dalla vulgata antifascista, incapace di fare veramente i conti con la propria storia, “che è – parole di Amendola – storia di un movimento che ebbe, accanto a momenti di alta tensione morale e politica, brusche cadute. Si preferisce ignorare tali limiti e debolezze per mantenere una versione di comodo, retorica e celebrativa, che non risponde alla realtà”. De Felice riconsegnò il fascismo alla Storia dell’Italia, costringendo tutti, a sinistra e a destra, ad uscire dal tunnel delle incomprensioni e della retorica di parte, con un’unica preoccupazione: quella – disse in occasione della contestatissima Intervista, rilasciata a Ledeen – “di capire il fascismo, anche se qualcuno obbietta che così c’è il rischio di capirlo troppo”. Il paradosso è che, rispetto alla metà degli Anni Settanta e alle acquisizioni di scuola defeliciana, si sia purtroppo tornati indietro. Oggi, le “affermazioni apodittiche”, la “demonologia”, le “interpretazioni basate su un classismo rozzo ed elementare” – parole di De Felice – rischiano di farci arretrare sulla strada della verità storica e dell’integrazione nazionale. Il fascismo più che un problema storiografico è diventato il collante almeno per una parte dei vecchi partiti antifascisti ed il solo produttore di identità etico-sociale nella desertificazione dei valori. La Storia, quella vera, sembra interessare a pochi, laddove più facile è lasciare il campo alla retorica di parte.  Con il risultato che ora la vulgata corrente è in mano a mezze figure, più impegnate a lanciare anatemi che a fare una seria ricerca storica. Da Guido Calogero ed Augusto Del Noce … a Michela Murgia, non ci sembra un bell’acquisto per la cultura antifascista...

«Bella ciao» non sia obbligatoria ma non è un inno comunista. Aldo Cazzullo il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. Caro Aldo Cazzullo, per gli uomini del Pd che annaspano in cerca di idee, l’appiglio estremo è da 75 anni sempre lo stesso: l’antifascismo. Quando si tratta di frenare l’emorragia di consensi, la retorica antifascista e le note di «Bella ciao», inno dei partigiani rossi, devono ricordare a tutti da che parte sta la vera democrazia. Peccato che questo sia un falso storico. I partigiani che combatterono il fascismo furono i repubblicani, i liberali, i militari fedeli alla monarchia, i cattolici, gli azionisti seguaci di Pertini e Salvemini... I partigiani comunisti combatterono la dittatura fascista non per la libertà, ma per instaurare un’altra dittatura: la loro. Raffaele Laurenzi, Milano

Caro Raffaele, Non sono d’accordo con lei. I partigiani non avevano bollini, tanto meno rossi. Certo, c’erano i comunisti, i socialisti, i monarchici, i cattolici, gli azionisti. Ma la maggioranza erano giovani senza partito, che anzi dopo vent’anni di fascismo non sapevano neppure cosa fossero i partiti, e semplicemente rifiutarono di obbedire ai bandi Graziani, e quindi di combattere per Hitler e Mussolini. Sono certo che questo discorso vale pure per molti resistenti delle brigate Garibaldi. Detto questo, certo, c’erano i comunisti. Qualcuno pensava di costruire una democrazia. Molti sognavano di fare la rivoluzione come in Russia. Ma questo è un discorso perfetto per le polemiche politiche di oggi, magari per giustificare chi invece combatté per Hitler e Mussolini. All’epoca l’urgenza era di stabilire da quale parte stare: con chi mandava gli ebrei italiani nei campi di sterminio, o contro. Questo non toglie un’oncia alla gravità dei delitti commessi da partigiani comunisti nel triangolo della morte emiliano e altrove. Quanto a «Bella ciao», imporre di cantarla per legge è sbagliato. Ma non è una canzone comunista. È una canzone che parla di libertà. Ad Alba, città dove la Dc aveva il 60 per cento, il secondo partito era il Pli e il terzo il Pri, si cantava «Bella ciao» senza pensare di fare una cosa di sinistra. E comunque Giorgio Bocca raccontava di aver fatto la guerra di liberazione per quasi venti mesi senza mai intonarla.

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao. Matteo Carnieletto il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l'Italia la liberarono gli americani. La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l'inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l'Adnkronos. In questo modo "si intende riconoscere finalmente l'evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". E ancora: "Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". E questo è tutto. Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: "Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto". Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l'inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c'è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l'inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un'altra, come ricorda Il Corriere della Sera: "Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come 'inno'. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince". I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l'AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: "Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L'Unità".

Chi ha liberato l'Italia. Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che "la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni - sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale - mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però... (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall'una né dall'altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un'altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: "I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: "Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di 'autonomi': bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che 'nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati'. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, 'sono la metà o poco meno'". Nota giustamente Stefanini che il "dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!". Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di "antifascismo prêt-à-porter", che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto...

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue...

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 7 giugno 2021. «Bella Ciao» come l'inno di Mameli, almeno il 25 aprile. Nelle cerimonie ufficiali della Festa della Liberazione, subito dopo l'inno nazionale, va intonata la canzone simbolo della Resistenza. Anche se in realtà, nella proposta di legge in cui viene motivata l'iniziativa, si sottolinea il «carattere istituzionale» di "Bella Ciao", il fatto che sia «un'espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica». Nel testo, a prima firma del deputato Pd Gian Mario Fragomeli, ma sottoscritto anche da nomi noti come Fiano, Fassino o Boldrini, si ripercorre la storia della canzone, cercando di dimostrarne la neutralità politica: «Possiamo affermare con certezza - scrivono i proponenti - che "Bella Ciao" non è espressione di una singola parte politica, ma che, al contrario, tutte le forze democratiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone». Una tesi che non fa breccia a destra, come spiega chiaramente Ignazio La Russa: «"Bella Ciao", non per colpa del testo, ma per colpa della sinistra, non copre il gusto di tutti gli italiani - spiega il senatore di Fratelli d' Italia - non è la canzone dei partigiani, ma solo dei partigiani comunisti. Se proprio si vuole tornare indietro nella storia, c' è la canzone del Piave per ricordare i caduti della guerra». Netto il giudizio negativo di Rachele Mussolini, nipote del Duce, che la definisce una «proposta divisiva, che non toglie o aggiunge nulla a quello che è lo stato attuale delle cose: l'hanno sempre cantata il 25 aprile e ora vogliono avere l'ufficialità di questo inno. Ce ne faremo una ragione». La legge, presentata alla Camera lo scorso 21 aprile, è sostenuta da Pd, Italia Viva e Leu, ma tra i firmatari c' è anche un deputato del Movimento 5 stelle. Da vedere se troverà il consenso necessario in Parlamento, il testo è stato assegnato alla commissione Affari costituzionali di Montecitorio lo scorso venerdì, ma l'esame non è ancora stato avviato.

“Bella Ciao” obbligatorio? La Rai ci propina il documentario sul “mito” dei partigiani buoni…Monica Pucci lunedì 7 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Mentre impazza il dibattito sulla proposta di legge che vorrebbe ‘Bella ciao’ inno del 25 aprile, al canto popolare sarà dedicato per la prima volta un documentario, che dovrebbe andare in onda il prossimo 15 dicembre su Rai1. Benzina sul fuoco nel dibattito sull’inno “partigiano”, del quale la sinistra chiede un riconoscimento istituzionale rendendolo obbligatorio subito dopo l’Inno di Mameli, in occasione di eventi celebrativi, come il 25 aprile. La Rai, intanto, si è portata avanti col lavoro… Lo scorso 31 maggio è stato annunciato che ‘Bella Ciao’ diventerà un documentario coprodotto da Palomar Doc e Rai Documentari e diretto da Giulia Giapponesi con il titolo ‘Bella Ciao – La storia oltre il mito’. Con oltre un miliardo di visualizzazioni online, Bella Ciao è il canto popolare italiano più ascoltato nel mondo negli ultimi anni. Come canzone di lotta e resistenza è stata recuperata nell’ultimo quarto di secolo da decine di realtà di protesta, dalla primavera araba alle proteste #occupy Usa e #occupy Mumbai, dalla lotta alla globalizzazione alla lotta ai cambiamenti climatici, dai funerali dei vignettisti di Charles Hebdo alle rivolte in Sudan e ai movimenti di piazza in Libano, in Cile, in Turchia. Tutto fa brodo, quando c’è da cantare “oh partigiano portami via”, anche nelle fiction di successo, come “La casa di carta” di Netflix. Ma in Italia quel canto resta di parte e divisivo, non certo rappresentativo di tutti, visto che ha segnato le fasi più cruente della guerra civile e accompagnato le azioni vendicative dei partigiani italiani senza scrupoli. 

La tragica storia di Luisa Ferida: innocente, fu fucilata dai partigiani con il bimbo in grembo. Viola Longo venerdì 30 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Qualcuno l’ha ricordata in occasione del 25 aprile, per rammentare che anche ombre si affastellano su quella data. In molti sui social la stanno ricordando in queste ore, in cui ricorre l’anniversario del suo assassinio. Luisa Ferida, al secolo Luigia Manfrini Farné, era un’attrice di successo, aveva 31 anni ed era incinta a uno stadio avanzato quando il 30 aprile 1945 venne fucilata a Milano dai partigiani. La sua unica colpa era quella di essere la compagna dell’altrettanto noto attore Osvaldo Valenti, a sua volta giustiziato quel giorno: aveva aderito alla Rsi e si era arruolato nella X Mas «in quanto simbolo di dignità e onore». Tanto bastava.

Una sentenza già scritta. Per Valenti e Ferida, come per molti che fecero la stessa fine, i partigiani, che in questo caso erano quelli della divisione “Pasubio”, al comando di Giuseppe Morozin, che rispondeva al nome di battaglia di “Vero”, celebrarono un processo sommario, con una sentenza di fatto già scritta: morte. Secondo quanto riferito dallo stesso Morozin anni dopo, fu Sandro Pertini in persona a spingere per l’esecuzione. Anche per quella della Ferida.

L’ordine di Pertini: uccideteli. Fra i molti che hanno raccontato la storia tragica di Ferida e Valenti, c’è stato anche Raffaello Uboldi, giornalista di razza e autore, tra l’altro, della prima biografia di Pertini, Il cittadino Sandro Pertini, cui seguì poi il volume Pertini soldato. Ebbene, anche Uboldi, scomparso nel novembre 2018 e che di Pertini fu collaboratore e amico, scrive nel suo 25 aprile. I giorni dell’odio e della libertà, che Pertini «non muoverà un dito per salvare dalla fucilazione Valenti e la Ferida, nemmeno lei, che era colpevole di nulla; anzi, si sarebbe speso a favore dell’esecuzione». “Vero” Morozin nel suo Odissea Partigiana, del 1965, fu molto più netto, raccontando che Pertini lo chiamò tre volte, intimando di uccidere i due attori.

Luisa Ferida, fucilata dai partigiani «senza prove». Il racconto che Uboldi fa della loro condanna a morte è drammatico e, specie per la Ferida, carico di pietà. «La loro sorte è comunque segnata, li vogliono morti, sono considerati un simbolo, al di là delle colpe che vengono loro contestate senza uno straccio di prova. Vogliono morta anche lei, che un qualsiasi altro tribunale manderebbe assolta, per di più è incinta, attende un bambino, non c’è luogo al mondo dove la condanna non verrebbe sospesa. Non nella Milano di questo aprile 1945. E così Luisa muore con lui, uccisa senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia».

Poi lo Stato ammise: «Uccisa perché amante di Valenti». Undici anni dopo, nell’ottobre del 1956, la madre di Luisa Ferida, Lucia Pasini, ottenne che le autorità italiane scrivessero nero su bianco che la figlia era stata giustiziata senza colpa. La donna chiese e ottenne, infatti, una pensione di guerra, poiché Luisa era la sua unica fonte di sostentamento. Ne scaturì un’istruttoria da parte dei Carabinieri, che si concluse con questo rapporto: «La signora Manfrini Luisa, in arte Luisa Ferida, non consta abbia fatto parte di formazioni militari ausiliarie della Repubblica sociale italiana. Le cause del decesso della Manfrini devono ricercarsi nel fatto che la predetta era amante del noto attore Osvaldo Valenti». Una esecuzione partigiana, come scritto da Uboldi, «senza appello, senza prove, senza un processo, senza giustizia». 

I ragazzi di Salò? Veri rivoluzionari. Un libro ribalta i vecchi tabù storiografici. Redazione martedì 7 Marzo 2017 su Il Secolo d'Italia. Di titoli sulla Rsi se ne contano a bizzeffe. Alcuni sono davvero illuminanti, altri si muovono nella dimensione – sia pure importante – della testimonianza, altri obbediscono a logiche di parte. C’è ora un libro in uscita per la casa editrice Il Mulino anticipato sul Corriere da un’analisi di Paolo Mieli, L’Italia di Salò 1943-45, che tenta di fare i conti oltre ogni pregiudizio con una pagina di storia fino ad oggi rimossa o deformata. Gli autori, Mario Avagliano e Marco Palmieri, ben sottolineano – scrive Paolo Mieli – “i limiti della storiografia che ha teso a negare ogni dignità a coloro i quali militarono dalla "parte sbagliata"“.  Quella scelta fu per molti giovani e giovanissimi non una macchia, non una colpa ma – affermano i due autori del libro – “una sorta di rivolta generazionale contro il vecchio sistema, rappresentato dalla monarchia, dalle forze della borghesia che avevano voltato le spalle a Mussolini e dai quadri dirigenziali del regime”. Il tabù storiografico che considera i combattenti della Rsi “avventurieri” o “idealisti in buona fede” non è utile chiave di lettura per spiegare dopo decenni un fenomeno che attirò tanti giovani, molti dei quali destinati dopo la guerra ad una brillante carriera nel mondo dello spettacolo. Tra questi, oltre alla famosa coppia di attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, Giorgio Albertazzi e Dario Fo, Enrico Maria Salerno, Ugo Tognazzi, Walter Chiari, Mario Carotenuto, Mario Castellacci, Fede Arnaud Pocek e Raimondo Vianello, che meglio di altri seppe spiegare cosa lo spinse ad andare volontario nella Rsi, e cioè “un impulso di ribellione verso il colonnello comandante che il 12 settembre del 1943, con un piede già sulla macchina carica di roba, mi chiamò per dirmi a bassa voce come fosse una confidenza: ‘Vianello, si salvi chi può!’ “. Un esempio classico dello stile italiano del pavido voltagabbana, una cifra esistenziale che appunto i giovani della Rsi vollero respingere col loro esempio, pur se consapevoli di andare a combattere per una causa destinata a perdere. Mieli sottolinea inoltre che il libro dedica pagine particolarmente interessanti al fascismo clandestino nell’Italia liberata, ai “non cooperanti” – in particolare quelli del campo di Hereford – e ai gruppi spontanei che si organizzano nell’Italia meridionale e in particolare in Sicilia dopo lo sbarco alleato raccogliendo i fedelissimi del fascismo. Un capitolo dove spiccano i nomi di Dino Grammatico, Maria D’Alì, Salvatore Bramante, Angelo Nicosia. La storia della rete di non cooperanti e fascisti in Sicilia è ricca di episodi poco conosciuti e per nulla approfonditi. Nella fase finale della guerra, ad esempio, in Sicilia si sviluppa – annota Paolo Mieli -una protesta “contro la leva a cui aderiscono insieme elementi neofascisti, anarchici, cattolici, separatsiti e comunisti. Ci si batteva, con lo slogan ‘Non si parte’, per bloccare il reclutamento di soldati che dovevano andare a combattere contro la Rsi negli ultimi decisivi mesi del conflitto. Episodio simbolo della rivolta è quello del 4 gennaio 1945, a Ragusa, dove una giovane incinta di cinque mesi, Maria Occhipinti, si sdraia davanti a un camion che si accinge a trasportare nel continente alcuni reclutati. Un consistente gruppo di ragusani si unisce alla protesta. L’esercito spara sulla folla, uccide un ragazzo e il sgarestano Giovanni Criscione”. Il movimento “Non si parte” creò episodi insurrezionali in vari centri della Sicilia (Modica, Vittoria, Comiso, Giarratana) mentre la Occhipinti dopo la guerra sarà eletta deputata con il Pci. 

Vittorio Feltri: «Nessuno è cretino come le persone di sinistra. E si sentono pure superiori». Eugenio Battisti venerdì 26 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Due tweet velenosi di Vittorio Feltri. Stile british ma pungente, non fa sconti alla sinistra. Come sempre. Se i grillini si spappolano -scrive – la sinistra è drammatica. “Sono convinto anche io che le persone di sinistra siano superiori. Cretine come loro non c’è nessuno”. Così il direttore di Libero su Twitter. Poche parole che tolgono ogni dubbio sulla fotografia dell’attuale stato di salute del Pd. Che continua a caratterizzarsi per una spocchiosa superiorità. Quasi ontologica, morale – come analizzò, proprio da sinistra, il sociologo Luca Ricolfi. Quella superiorità e autoreferenza che sottrae il partito di Zingaretti dalla realtà. Dalla sua torre eburnea gli eredi del grande Partito comunista hanno perso il contatto con gli elettori e sbiadito la loro vocazione popolare. Come dimostrano i sondaggi più recenti, che fotografano il Pd a rischio di scendere sotto il 20 per cento. Feltri non le manda a dire. All’ex maggioranza di Conte e alla Lega. Che seduta a Palazzo Chigi dimentica le priorità di una volta. Gli sbarchi, per esempio. “In Italia abbiamo già abbastanza problemi. Salvini dove sei?”. Una marmellata impazzita che favorisce Fratelli d’Italia. Il partito della Meloni cresce perché è anticonformista. Diventeranno il primo partito? “Tempo al tempo”.

"Cultura di destra? Tutta nazista": il delirio di Flores d'Arcais. Francesco Giubilei il 17 Maggio 2021 su Il Giornale. Il direttore di MicroMega in un'intervista definisce la cultura di destra "una contraddizione in termini" e aggiunge "Con Meloni e Salvini a rischio la Costituzione”. È la crisi della sinistra che per esistere attacca la destra. Passi Scanzi che non è certo noto per il proprio contributo alla cultura italiana ma se anche un intellettuale come Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micro Mega, si lascia andare a dichiarazioni stereotipate e offensive nei confronti della cultura di destra, significa che nel mondo culturale della sinistra esiste un problema. Nell’intervista rilasciata a Gianmarco Aimi su Mowmag, Flores d’Arcais pronuncia una serie di affermazioni che sono un misto di superficialità e cattivo gusto. Alle accuse rivolte al mondo politico di centrodestra con cui definisce Salvini e Meloni “proto-fascisti” che mettono “a rischio la Costituzione”, si aggiungono gli attacchi alla cultura di destra definita “tutta nazista” e una “contraddizione in termini”. Non ripeteremo l’elenco di intellettuali di destra realizzato da Alessandro Gnocchi pochi giorni fa sulle pagine de “Il Giornale” ma è necessario provare a comprendere il motivo per cui, nell’ultimo periodo, si sono intensificati gli attacchi alla cultura di destra con una tale virulenza. Una certa sinistra è da sempre ossessionata dalla politica di destra ma che ciò si trasli anche alla cultura, è significativo di una preoccupazione nei confronti di un mondo che non solo è cresciuto con la nascita di case editrici, associazioni, riviste online e con un’importante attività nei territori ma ha iniziato a fare sistema creando collaborazioni e sinergie. La destra è da sempre accusata di nutrire un “complesso di inferiorità” verso la sinistra, in realtà ad oggi la situazione sembra essersi invertita e il mondo culturale di sinistra, pur senza ammetterlo apertamente, guarda con malcelata invidia alla coerenza che la destra ha saputo mantenere conservando una propria forte identità. A fronte di una sinistra “che non esiste più” (Floris d’Arcais dixit), la destra non solo è viva e vegeta ma cresce nei consensi e nella riscoperta di un panorama culturale e storico che, al netto di quanto dicono alcuni intellettò, è florido e di grande spessore. Una vitalità della cultura di destra che genera preoccupazione da parte di chi si ritiene detentore dell’egemonia culturale. Eppure, un sano confronto tra diverse tradizioni culturali, sarebbe non solo utile ma anche costruttivo e il mondo progressista potrebbe giovare da un dialogo con pensatori, autori e personalità con una diversa storia alle spalle. Affinché vi possa essere uno scambio di idee, occorre però un rispetto reciproco che non sempre esiste da parte di una certa intellighenzia. Rispettare una cultura di stampo conservatore, cattolico, identitario, significa metterla sullo stesso piano di tradizioni ascrivibili a un’area culturalmente opposta. Per farlo è necessaria un’onestà intellettuale del tutto assente nel caso di numerosi pensatori che continuano a utilizzare toni e un registro linguistico analogo agli anni Settanta che rischia di attualizzare uno scontro di cui non si sente il bisogno. Significative le parole di Flores d’Arcais sugli arresti degli ex terroristi in Francia: “la lotta al terrorismo fu fatta calpestando i diritti degli imputati” attraverso “episodi di vera e propria tortura” con “i vertici di molti organismi dello Stato che erano piduisti”. Invece di attaccare in modo ossessivo la destra, il mondo culturale progressista dovrebbe essere aiutare la sinistra a riscoprire l'identità smarrita che non si ritrova certamente demonizzando un avversario politico e culturale ancora oggi considerato un nemico e non un leale avversario.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più influenti d’Italia.

Pingitore: «Stimo Giorgia Meloni. In Italia chi dà fastidio alla sinistra è etichettato come fascista». Guido Liberati mercoledì 12 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. “Attraverso il politicamente corretto si può anche instaurare una dittatura. Chi stabilisce che cos’è politicamente corretto? Quale autorità si investe per mettere a tacere quelli che non la pensano in un certo modo”. Così Pier Francesco Pingitore, in una intervista a Il Giornale dove affronta, senza citarlo esplicitamente, anche il ddl Zan. “Non esiste un codice del politicamente corretto – osserva il regista, autore satirico e commediografo italiano – e, se esistesse, sarebbe la iattura peggiore del mondo. La libertà di parola e di pensiero che abbiamo ereditato dalla Rivoluzione francese deve essere salvaguardata da qualunque recinto si voglia fabbricare”. A questo proposito, Pingitore, che con il Bagaglino ha messo alla berlina mezzo secolo di potenti d’Italia, spiega anche perché la sinistra ha sempre il pallino in mano in ambito culturale. “A sinistra hanno la Matta, la carta a cui puoi assegnare qualunque valore e vince sempre. La matta è che, se non la pensi come loro, ti chiamano fascista e, a quel punto, hanno vinto. Con questa matta, probabilmente, hanno esercitato la loro egemonia. A sinistra chiamano fascista chiunque dia loro fastidio”. Nell’intervista, Pingitore parla anche dei leader politici che danno fastidio alla sinistra.  “Della Meloni ho una grande stima. La ritengo una persona perbene, preparata, in buona fede e con un grande attaccamento alle sue idee e alla sua parte politica. Salvini è un uomo politico abbastanza dotato che, a volte, commette degli eccessi di cui potrebbe fare a meno. Ha, comunque, la capacità di avere un seguito e questo, per un uomo politico, non è poco”. Quindi, l’autore del Bagaglino, racconta qual è l’opera teatrale a cui è più legato.  “Ho scritto la trilogia su Mussolini, un’opera a cui sono molto legato. Sono tre drammi ambientati perlopiù nei luoghi dove avvennero i fatti. Son partito prendendo in considerazione la notte del 25 luglio in cui cadde Mussolini e potei ambientare proprio a villa Torlonia il ritorno a casa del Duce sconfitto, interpretato da Luca Biagini. Mi ha interessato seguire la caduta di un uomo che fino a 24 ore prima aveva in mano l’Italia. Poi, qualche anno dopo, misi in scena l’operazione Quercia, ossia l’operazione con cui i tedeschi organizzarono la liberazione di Mussolini dall’albergo sul Gran Sasso, a Campo Imperatore. Ambientammo proprio in quell’albergo i 12 giorni che Mussolini passò da prigioniero, in attesa che succedesse qualcosa. Era il settembre del ’43 e non sapeva se sarebbero arrivati gli americani, gli inglesi o i tedeschi e Mussolini faceva anche un certo esame di coscienza della sua vita. L’ultimo atto, invece, l’ho chiamato Scacco al Duce perché ho messo in scena l’ultima notte di Claretta e Mussolini che, arrestati dai partigiani, sono stati portati nella cascina sulle pendici del lago di Como in attesa della fucilazione. Sono affezionato a questa trilogia perché mi sembra un’opera teatralmente originale”. Un’opera dal punto di vista drammaturgico straordinaria, che il Secolo d’Italia ha anche recensito, ma che non ha avuto la visibilità e la critica che meritava. Con la sinistra egemone nei posti di potere, Rai su tutte, è inutile domandarsi anche il perché.

La libreria che boicotta la Meloni? Finanziata dalla Regione di Zingaretti. Alessandra Benignetti l'11 Maggio 2021 su Il Giornale. La libreria indipendente di Alessandra Laterza risulta tra quelle beneficiarie del contributo economico della Regione Lazio per i "progetti di promozione e diffusione della lettura". Peccato che le iniziative siano tutte orientate a sinistra...Qualcuno la difende, altri gridano alla censura. Quello della libraia di Tor Bella Monaca che ha annunciato che in nome della "resistenza" non venderà il libro autobiografico di Giorgia Meloni è diventato un vero e proprio caso politico. Tanto che ieri ai microfoni di Radio Uno, persino il segretario del Pd, Enrico Letta, per gettare acqua sul fuoco delle polemiche, si è precipitato ad annunciare che acquisterà il volume. "Voglio e mi interessa leggerlo, sono sincero", ha detto il leader Dem, dando una lezione di tolleranza. "No pasaran", resta invece il motto di Alessandra Laterza, che ha deciso di mettere l’autobiografia della Meloni nell’Index librorum. "Io questo libro non lo vendo", ha scritto chiaro e tondo sul suo profilo Facebook la proprietaria di Booklet Le Torri, piccola libreria di quartiere che ha aperto i battenti nel 2018 in questo fazzoletto di periferia romana. "So scelte, - rivendica - mejo pane e cipolla, che alimentare questo tipo di editoria…alla lotta e al lavoro, il mio è indipendente". "Aprire una libreria a Tor Bella Monaca non risponde all'esigenza di vendere solo libri ma anche di raccontare una forma di resistenza civile", ha spiegato Laterza all’Adnkronos. Nel negozio di Laterza, però, la politica, è stata protagonista in più di un’occasione. Qui ha ospitato i Dem Walter Veltroni e Roberto Morassut, e tra una decina di giorni accoglierà Alessandro Zan, primo firmatario del discusso ddl contro l’omotransfobia, per la presentazione del libro della scrittrice e attivista per i diritti Lgbt, Cristiana Alicata. Dibattiti perlopiù a senso unico, con buona pace dell'indipendenza. Del resto, è la stessa piccola imprenditrice romana a non farne mistero. "Sono più vicina alla sinistra e e la propaganda della destra su certi temi non mi interessa", ha detto alla stessa agenzia di stampa. Peccato che nel 2020 la sua attività, che come altre librerie indipendenti romane ha risentito della crisi prodotta dalla pandemia, sia stata beneficiaria di un contributo a fondo perduto erogato dalla Regione Lazio. Si tratta, in particolare, di un bando di Lazio Crea, società in house creata dalla giunta Zingaretti, finanziato con 500mila euro dalla Regione, che un anno fa ha sovvenzionato fino ad un massimo di 5mila euro i "progetti di promozione e diffusione della lettura per grandi e piccoli". Tra questi, secondo le carte visionate dal Giornale.it, anche quelli dichiaratamente schierati a sinistra di Alessandra Laterza, che nel 2016 è stata pure candidata del Pd nel VI Municipio. Nel febbraio del 2020 ad arrivare in soccorso della libraia, che già prima del Covid lamentava di essere a rischio chiusura, secondo quanto riportava l’agenzia Dire, erano scese in campo anche la presidente Dem del I municipio di Roma, Sabrina Alfonsi, e l’allora vice ministro dell’Istruzione in quota Pd, Anna Ascani, che aveva "visitato la libreria". La libreria "presidio culturale" – viene da aggiungere, della sinistra – è poi risultata beneficiaria del contributo in denaro - pubblico - messo a disposizione dalla regione per le librerie indipendenti.

Non solo. La libreria di Alessandra Laterza ha collaborato con Lazio Crea anche per l’organizzazione della rassegna cinematografica "R-Estate a Torbella", andata in scena dal 13 al 26 luglio dello scorso anno nella periferia romana. "La sedicente partigiana del terzo millennio si scopre essere una storica militante del Pd che guarda caso ha preso fondi da una società della giunta Zingaretti", è il commento di Chiara Colosimo, consigliere regionale di Fratelli d’Italia. "Onestamente dopo lo scandalo Concorsopoli non ci stupiamo più di niente, ma almeno abbiano la compiacenza di lasciare in pace Giorgia Meloni anche se ci rendiamo conto che la sua coerenza e il suo successo danno molto fastidio". "Boicottare il suo libro e spacciarlo come gesto di resistenza è quindi solo una ridicola pantomima. – accusa Colosimo - La verità è infatti che la libraia si rifiuta di vendere il libro della Meloni e anche altri, solo perché l'incasso, probabilmente, l'ha già fatto grazie ai fondi regionali messi gentilmente a disposizione dai suoi compagni di partito".

Censura, alla Feltrinelli non c’è spazio per il libro di Mantovano sul ddl Zan: la denuncia dell’editore. Eleonora Guerra venerdì 14 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. Uscito da due mesi, richiesto dai clienti e, ciononostante, non reperibile nelle librerie Feltrinelli. È la sorte subita dal libro Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, a cura di Alfredo Mantovano, secondo quanto denunciato dalla casa editrice Cantagalli. Che, parlando di «grave disservizio», ha rimarcato come il caso del libro contro il ddl Zan sembri «assumere i connotati di una vera e propria censura o “ostruzionismo commerciale”».

La denuncia della casa editrice Cantagalli. «Siamo purtroppo costretti a comunicare un grave disservizio a danno del volume stampato per i nostri tipi», si legge in una nota della Cantagalli. «Con amarezza, infatti – vi si legge – anche per un dovere di tutela dell’opera in questione e degli autori, dobbiamo costatare che, nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume a tutt’oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on-line). E che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena».

La richiesta di chiarimento e le scuse della Feltrinelli. L’editrice Cantagalli ha fatto sapere anche di aver chiesto conto alla Feltrinelli di queste segnalazioni e di aver ricevuto delle scuse. «Su nostra sollecitazione – è spiegato nel comunicato – il nostro distributore, Messaggerie Libri spa, oggi ha chiesto chiarimenti ufficiali alla direzione della suddetta catena, ricevendo in risposta una mail dove, tra le varie cose, si chiede scusa, dichiarando il proprio dispiacere per l’accaduto e promettendo di ordinare il libro».

Cantagalli: «Librerie libere, ma rifiutare ordini è altro». Cantagalli, quindi, ha chiarito la propria convinzione del fatto che «la libreria o la catena di librerie ha tutta la libertà di scegliere se ordinare, esporre e vendere un libro, compiendo valutazioni di carattere commerciale o valutandone il contenuto. Quindi, essa può rifiutare di accogliere un libro nei propri scaffali, se non ritiene di poterlo vendere o se ritiene che il libro non abbia contenuti interessanti o adeguati». «Tuttavia – ha però puntualizzato la casa editrice – la libreria o la catena di librerie non ha diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro e intenda ivi acquistarlo. Tanto meno la libreria può addurre scuse al cliente che vuole acquistare il libro affermando che Cantagalli non è distribuita da Messaggerie Libri spa o che il libro è fuori catalogo ed è reperibile solo nelle bancarelle dei libri usati».

Il ddl Zan miete la prima vittima: le librerie Feltrinelli "censurano" il volume di Alfredo Mantovano. Libero Quotidiano il 14 maggio 2021. Non è ancora stato nemmeno approvato e già, quello che per ora è ancora soltanto un disegno di legge, sta iniziando a mietere le prime vittime. In una nota diffusa dalla casa editrice Edizione Cantagalli, vengono infatti sottolineati gli ostacoli incontrati con le librerie Feltrinelli nella vendita di un volume curato dal Centro Studi Rosario Livatino, in libro che commenta articolo per articolo il ddl Zan. L'obiettivo della legge è quindi già stato raggiunto prima ancora che questa sia entrate in vigore: censurare ogni tipo di pensiero e riflessione che pone semplici perplessità nei confronti di una ideologia che vuole essere imposta. "Siamo purtroppo costretti a comunicare un grave disservizio a danno di un volume stampato per i nostri tipi e intitolato Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo, a cura di Alfredo Mantovano" si legge nella nota (qui l'intervista del vicedirettore di Libero, Fausto Carioti, all'autore del saggio). "Nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume tutt'oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on line) e che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena". La Catena Librerie Feltrinelli ha quindi mandato una email di scuse alla Cantagalli, per aver improvvisamente rimosso il libro dai propri scaffali e dal catalogo online. "Accogliendo con piacere le scuse della Catena Librerie Feltrinelli" prosegue la nota "Ci preme tuttavia rimarcare il fatto che il comportamento sopra descritto sembra assumere i connotati di una vera e propria censura o “ostruzionismo commerciale”, che certamente non si confà ad un paese democratico come il nostro che all’art 21 della Costituzione riconosce la libertà di pensiero tramite la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".  

"Non lo vendono, è censura": il libro anti ddl Zan sparisce dagli scaffali. Luca Sablone il 14 Maggio 2021 su Il Giornale. La denuncia della casa editrice Cantagalli: "Una libreria non ha il diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro, è ostruzionismo commerciale". La casa editrice Cantagalli ha comunicato un grave disservizio ai danni del volume intitolato "Legge omofobia perché non va. La proposta Zan esaminata articolo per articolo" a cura di Alfredo Mantovano. L'ex sottosegretario al ministero dell'Interno, che ha destrutturato punto per punto le ragioni della legge contro l'omotransfobia, ritiene che il dibattito sia puramente ideologico e che il fine riguarderebbe non soltanto gli aspetti giuridici ma anche un complesso disegno culturale. Nel testo curato dall'attuale vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino vengono elencati infatti diversi problemi che potrebbero riguardare la sfera delle opinioni personali e i presunti rischi che correrrebbe la libertà d'insegnamento.

"La legge Zan non va". La casa editrice Cantagalli attraverso una nota ha fatto sapere che, nonostante il libro sia stato distribuito in libreria dal 18 marzo 2021, "dopo ripetute segnalazioni di clienti che desideravano acquistare il saggio presso la catena di librerie Feltrinelli, il volume a tutt'oggi non è presente in tale catena (è presente invece e disponibile su Librerie Feltrinelli on-line) e che i clienti interessati al libro non hanno la possibilità ancora oggi di acquistarlo, neppure ordinandolo, presso tale catena". Dall'ufficio stampa di Cantagalli fanno sapere che il loro distributore, Messaggerie Libri spa, ha chiesto chiarimenti ufficiali alla direzione della catena in questione. Via mail è poi arrivata una risposta in cui, tra le altre cose, "si chiede scusa dichiarando il proprio dispiacere per l'accaduto e promettendo di ordinare il libro".

"Ostruzionismo commerciale". Cantagalli da una parte sottolinea che comunque la libreria o la catena di librerie ha tutta la libertà di scegliere se ordinare, esporre e vendere un libro dopo aver compiuto valutazioni di carattere commerciale o aver valutato il contenuto: "Quindi essa può rifiutare di accogliere un libro nei propri scaffali se non ritiene di poterlo vendere o se ritiene che il libro non abbia contenuti interessanti o adeguati". Ma dall'altra sottolinea che la libreria o la catena di librerie "non ha diritto di rifiutare un ordine di una persona che è interessata al libro e intenda ivi acquistarlo". Accogliendo le scuse arrivate dalla Catena Librerie Feltrinelli, la casa editrice Cantagalli ha rimarcato l'attenzione sul comportamento adottato nei confronti del volume sul ddl Zan: "Sembra assumere i connotati di una vera e propria censura o 'ostruzionismo commerciale', che certamente non si confà ad un paese democratico". Senza dimenticare infatti che l'articolo 21 della nostra Costituzione riconosce la libertà di pensiero tramite la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La nota conclude: "Tuttavia siamo convinti che i tempi in cui i libri venivano bruciati nella pubblica piazza siano ormai lontani ricordi di un passato che ci auguriamo vivamente non ritorni mai più".

"È stato promesso che avrebbero ovviato al tutto, ma al momento non ho avuto riscontri. Le richieste dei clienti non sono state assecondate: chi va da Feltrinelli a ordinare il libro non lo trova e gli viene detto che verrà eventualmente consegnato dopo 15-20 giorni", ha dichiarato a ilGiornale.it​ il direttore della casa editrice Cantagalli.

Alessandro Gnocchi per "il Giornale" il 6 maggio 2021. Pare che a destra, non ci sia cultura da trecento anni, così ha pontificato Andrea Scanzi, giornalista del Fatto quotidiano, famoso per libri imprescindibili su qualunque argomento vada di moda nel salotto televisivo di Lilli Gruber, conduttrice di Otto e Mezzo su La7. Accettiamo volentieri la divertente provocazione. Scanzi potrebbe dare una occhiata agli autori di destra, per vedere se ne trova almeno un paio significativi e degni di essere letti. Per aiutarlo, riprendiamo il famoso elenco stilato dal poeta Giovanni Raboni nel 2002 sul Corriere della sera: «Nel mondo: Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Drieu La Rochelle, T. S. Eliot, E. M. Forster, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Thomas Mann, Mauriac, Maurras, Montherlant, Nabokov, Pound, W. B. Yeats. In Italia: Croce, D'Annunzio, Carlo Emilio Gadda, Landolfi, Marinetti, Montale, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa. Transfughi. A parte, dai nomi sopra indicati, vanno ricordati i transfughi dalla sinistra: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell. E in Italia: Silone, Vittorini. Perseguitati: sono i grandi perseguitati da Stalin, impossibile dire quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove: Babel', Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel' stam, Pasternak, Solzenicyn». Il grande poeta era stato un po' stretto di manica, del resto il pezzo, elenco a parte, si prendeva quasi una pagina intera. Per proseguire nel gioco, si possono aggiungere, tra gli italiani, Berto, Bettiza, Buscaroli, Cattabiani, De Felice, Delfini, Del Noce, Isotta, Longanesi, Malaparte, Matteucci, Piovene, Ricossa, Romeo, Ungaretti. E gli stranieri? Sono tantissimi. Chateaubriand, De Maistre, Donoso Cortés, Finkielkraut, Friedman, Heidegger, Houellebecq, Hayek, Hoppe, Mises, Douglas Murray, Philippe Muray, Popper, Rand, Rothbard, Salamov, Scruton, Vogelin. L'elenco, come avete visto, comprende monarchici, pagani, tradizionalisti cattolici, futuristi, post fascisti, lib-lab, liberali, liberisti, libertari, conservatori, antimoderni, reazionari... Tanto è ampia la cultura di destra da includere anche autori che non sono di destra secondo il metro (sballato) utilizzato dagli intellettuali di sinistra. Tra gli italiani non sono citati i viventi, per vari motivi ma principalmente per evitare l'accusa di partigianeria: alcuni collaborano con questo giornale. Ma i nomi ci sono, da Buttafuoco a Veneziani passando per tutto le lettere che stanno in mezzo nell'ordine alfabetico. C'è anche un gruppo agguerrito di editori dalle diverse sfumature ma accomunati dall'opzione liberale, a volte conservatrice ma non necessariamente (Liberilibri, Rubbettino, Giubilei e Regnani). Facciamo un solo nome, in omaggio a Scanzi: un grande antimoderno, Massimo Fini, autore di saggi illuminanti, collaboratore del Fatto. Scanzi avrà intercettato di sicuro almeno quelli. Certo, l'impressione generale è che gli intellettuali di sinistra (ma anche di destra e di centro) siano così impegnati a scrivere libri fondamentali (per il portafogli) da non aver avuto, negli ultimi trecento anni, il tempo di leggerne uno.

Francesco Borgonovo per "la Verità" l'11 maggio 2021. L'altra sera, a Otto e mezzo, Andrea Scanzi se n' è uscito dicendo che «da 300 anni non esistono intellettuali di destra». Ovviamente è una bestialità: gli intellettuali di destra esistono eccome (basti citare il solo Veneziani), e alcuni di loro si sono persino presi la briga di replicare a Scanzi. Tuttavia la sensazione è che ai progressisti di tali repliche interessi nulla. Di più: gli esponenti più visibili della sinistra italiana sembrano disinteressati a qualsiasi ragionamento proveniente dalla parte avversa. Restano chiusi nella loro arroganza, totalmente indisponibili all' ascolto e al confronto. In fondo, parlare con loro è inutile: non prenderanno mai in considerazione le obiezioni - per quanto sensate - provenienti «da destra». Proviamo allora a lasciare che di alcune questioni di stringente attualità si occupi qualcuno che al mondo della destra non appartiene affatto. Pochi giorni dopo l' uscita di Scanzi, mi sono ritrovato in mano un vecchio libro di Giorgio Bocca, uno che si può a ragion veduta considerare un mostro sacro della sinistra italiana (partigiano, antifascista, antiberlusconiano...). Il volume s' intitola Il Provinciale, e rileggerlo oggi ha un effetto quasi balsamico. Commentando i cambiamenti intervenuti nella società italiana dopo il Sessantotto, Bocca scrive: «L' intolleranza si diffonde, chi non è intollerante passa per uno senza principi, uno che tira a campare». Il grande giornalista racconta di quando un giovane storico di Rimini gli sottopose una antologia della cultura di destra da lui curata. Era «una raccolta di volgarità e asinerie chiosate in modo ironico». Al giovane progressista che voleva irridere la destra, sentite che rispose Bocca: «La cultura di destra, se per essa intendi una cultura non marxista, non ottimista, non sicura delle magnifiche sorti e progressive è la cultura di Freud, di Skinner, di ciò che va pubblicando l' Adelphi, il meglio della cultura europea fra le due guerre mondiali». Liquidato l' arrogante storico, Bocca proseguiva a elencare alcune tare degli intellettuali di sinistra: le stesse che essi presentano oggi. «L' avversario politico non va discusso ma cancellato, ammazzato o almeno insozzato», spiegava. «L' avversario non deve ragionare, non bisogna lasciarlo ragionare se no può mettere in crisi i credenti». Non funziona così anche adesso? Pensate solo al dibattito sul ddl Zan: le critiche non valgono, bisogna accettarlo in blocco o si è omofobi. Stesso discorso per i discorsi sull' immigrazione, il Covid... Insomma, su ogni tema o si aderisce alla linea tracciata a sinistra o si è dipinti alla stregua di subumani. Ancora Bocca: «Fascisti!Ecco la parola magica che nel Sessantotto divide i buoni dai perfidi, i democratici dai reazionari». Il ruvido cronista piemontese scriveva queste frasi nel 1991, le riferiva al movimento studentesco del tempo che fu, ma evidentemente le riteneva ancora valide. E aggiungeva poco dopo: «I danni fatti alla cultura politica italiana da case editrici come la Feltrinelli, la Editori Riuniti e anche la Einaudi sono stati pesanti [...]: una cattiva scuola fatta di nominalismo e demagogia». Da azionista, laico e socialisteggiante, Bocca aveva colto perfettamente tutti i limiti della sinistra comunista prima e post comunista poi. Compresa la disponibilità a servire il «pensiero dominante», cioè a imbellettare di fumisterie i discorsi utili ai potentati economici. Vale la pena di ricordare, a tal proposito, un episodio meraviglioso narrato nel Provinciale. Trovandosi a Bari per un servizio, Bocca si imbatte in una serata culturale in cui l' ospite d' onore era - nientemeno - Herbert Marcuse, uno dei padri del Sessantotto, nemico del capitalismo e del consumismo, in qualche modo anticipatore della rivoluzione sessuale. «Lui fece la sua conferenza, disse ai baresi [...] le sue cose eversive e poetiche e poi finì a cena nella casa dell' avvocato Paolo Laterza, il fratello del mio editore. Conoscevo Paolo perché mi aveva fatto assolvere dalla querela di un fascista [...]. A Milano mi avrebbero condannato, ma Paolo giocava a Bridge e frequentava il circolo della vela con il giudice. Lì il vecchio Herbert e la moglie, canuta e un po' stramba, furono abbandonati in una saletta: la commedia sinistrese era finita». Fu allora che Marcuse disse: «Voi italiani non vi capisco. A Torino mi ha invitato mister Fiat, a Milano mister Pirelli, qui sono stato festeggiato da prefetti, colonnelli, miliardari. Ma davvero ai ricchi italiani piacciono tanto i comunisti?». La risposta l' abbiamo sotto gli occhi in questi giorni: gli intellettuali dem piacciono al potere che li usa per fare i suoi comodi (sostenere la causa Lgbt, ad esempio). E, viceversa, agli intellettuali piace giocare con il potere, ma sempre credendosi «rivoluzionari». Oggi gli artisti si dannano per le Ong, i diritti gay o per eleggere Fedez a eroe del libero pensiero. Ai tempi di Bocca «attori famosi come Gassman che avevano guadagnato miliardi con filmetti commerciali scioperavano contro la repressione nemica delle arti. Repressione di chi? Contro chi? Non si sapeva bene, non si spiegava, ma c' era.[...] Attori di successo come Volonté o Castel si azzuffano con poliziotti che non guadagnano la centesima parte di quel che guadagnano loro, i repressi». In un libro successivo, Pandemonio, del 2000, il vecchio Giorgio rincarava la dose, parlando delle nuove battaglie per i diritti in epoca di globalizzazione: «Ma una rivoluzione che fa il gioco dei ricchi che rivoluzione è?». E aggiungeva: «Ora gli innovatori, i progressisti, i riformatori sono i ricchi, mentre i retrogradi e reazionari diventano i poveri». Niente di più vero. E non è un caso che la penna acuminata di Cuneo non fosse poi così gradita ai nuovi liberal, che gli rimproveravano l' eccessivo conservatorismo e perfino - sottovoce - una certa omofobia. Intendiamoci: Giorgio Bocca non ci è mai andato leggero nemmeno con la destra. Anche lui ha avuto la sua ferocia, i suoi abbagli. Ma aveva capito perfettamente quali fossero i vizi della «cultura di sinistra». Sono gli stessi di adesso, solo che i progressisti continuano a considerarli virtù.

Renato Farina e gli "intellettuali di destra", la lezione ad Andrea Scanzi: "Ma tu lo conosci Pirandello?" Renato Farina Libero Quotidiano il 07 maggio 2021. Guarda un po' che altezza di dibattito ha prodotto il Concertone dei sindacati. Andrea Scanzi da Lilli Gruber ( 8e½ su La7, 3 maggio) interviene su Fedez e dintorni con questa possente affermazione, del tipo che non ammette repliche. Il Mosè della cultura d'Italia tira in testa a Francesco Borgonovo le sue tavole delle leggi divine: «Prima hai detto: manca sempre un cantante di destra in questi contesti del primo maggio. Ti do una notizia, non ci sono! Il vostro grande problema sul politically correct e sulla cultura è che vi sentite inferiori perché non avete uno straccio di intellettuale da 300 anni. Siete costretti a brandire Sgarbi, Vittorio Feltri e Povia. Siete messi male». Qui lasciamo perdere i tre citati, i cui primi due - del terzo non conosco le doti dialettiche - se lo mangerebbero in insalata, mi permetto alcune rispettose osservazioni, obbedendo al catechismo di San Pio X (notoriamente di destra) che considera opera di misericordia spirituale «istruire gli ignoranti» ma anche «sopportare con pazienza le persone moleste».

1 - Il pulpito da cui parla Scanzi è quello dell'autore di best-seller, che hanno venduto parecchio, appena un po' meno di Francesco Totti. A qualificarlo a sinistra come indiscusso vate è l'uso reiterato del termine «cazzaro» che è un po' il suo marchio di fabbrica. L'uomo non sa neppure che il termine «cazzaro» fu meravigliosamente introdotto nella cultura italiana dal popolo romano anticomunista. Carlo Tullio Argan era in quel 1984 (meno di trecento anni fa) sindaco comunista dell'Urbe. Era il più celebrato storico dell'arte marxista del secolo, caposcuola dominatore delle università. A quel tempo alcuni studenti di Livorno organizzarono una memorabile burla culturale (di destra). Buttarono nel Fosso Mediceo, dopo averle modellate con il Black & Decker, sculture riproducenti i lunghi colli di Amedeo Modigliani. Furono ripescati. Argan si pronunciò: «Le teste sono certamente del Maestro!». Quando la beffa fu rivelata apparve una gigantesca scritta sui muri di Roma: «ARGAN CAZZARO». La cultura di destra è questa roba qui, sul versante popolare. E Scanzi dovrebbe versarle un obolo, ma che ne sa?

2 - Capiamo che è l'enfasi a trascinarlo. Credendosi autore di satira, si ritiene autorizzato a sostenere che l'intera cultura dell'età moderna sia assimilabile a un concetto che trecento anni fa non esisteva ancora, cioè la divisione del mondo in destra e sinistra, nata dopo la Rivoluzione francese. Ci sono realtà che balzano fuori dallo schema. Semplicemente ci sono artisti e filosofi, scienziati e musicisti, che evocando bellezza e verità, si sono prestati a essere amati o ammirati o criticati, ma sempre imparando, da destra e da sinistra. Nessuna opera del genio è mai assoggettabile al timbro della destra o della sinistra. Anzi i capolavori hanno vita propria.

La Madonna Sistina di Raffaello ha incantato gli opposti, Goethe e Dostoevskij, i giovani di Hitler a Dresda e i pionieri comunisti a Mosca. Beethoven è di sinistra e Wagner di destra? Kant di sinistra e Hegel di destra? Ma dai. È vero, non ho citato italiani. Il grande Silvio Pellico, uno degli autori più tradotti e venduti al mondo con Le mie prigioni. Essendo un cattolico a tutto tondo, fin quasi al bigottismo il suo essere un martire del risorgimento gli ha meritato un vergognoso occultamento nelle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia. E siamo al punto. Uno come Scanzi non lo sa, perché si è bevuto il bottiglione di spuma culturale da quattro soldi fornito dai padroni delle università, case editrici, scuole di giornalismo del dopoguerra. Ciò che non è assimilabile alla sinistra non esiste, non può esistere. O viene marchiato come volgare, salvo poi essere resuscitato come roba di sinistra occultata. Esempio? Totò, principe di Costantinopoli, che si vantava di esserlo.

3 - Fermiamoci, prima di arrivare al presente, all'ultimo secolo. Il Novecento. Prima del fascismo. Ma anche durante il Ventennio mussoliniano: in conformità con esso, oppure in dissenso, ma sempre in opposizione alla sinistra. Le poesie rabbiose e scarlatte di Marinetti e il suo futurismo sono quanto di più scorretto esista, ma anche di una destra progressista, o no? Gabriele D'Annunzio e i due Nobel per la letteratura del Novecento, cioè Luigi Pirandello e Grazia Deledda, difficilmente sono collocabili lontano dalla destra. La grandissima poetessa Ada Negri, che ha avuto il torto, a differenza di Giuseppe Ungaretti, di morire nel 1945 ma prima della liberazione. Come si fa a parlare così cretinamente? E dove lo mettiamo Giuseppe Prezzolini, protagonista assoluto della cultura italiana. Uomo di destra, conservatore, persino arditamente reazionario, ma totalmente geniale, costretto a navigare lontano dai porti delle grandi case editrici, e solo valorizzato quand'era ormai centenario, mentre se ne stava non a caso in esilio a Lugano. I suoi colleghi Giovanni Papini e Domenico Giuliotti, a sua differenza, si convertirono al Vangelo, furono tutto meno che fascisti, ma catalogabili in quel cattolicesimo colto e ruvido, francamente poco politicamente corretto. Tanto che li hanno dimenticati, e la nouvelle vague di vescovi e teologi li osteggia. Giuliotti scrisse: «Non indulgo alle mezze tinte. O bianco o nero; o sì o no. Chi dice: forse, mi ripugna. Ecco perché il mio stile non rifugge dalle espressioni più volgari: non posso chiamar cigno un porco, né lo sterco ambrosia». Potrebbero essere tradotte in linguaggio del XXI secolo da Feltri: stesso concetto. Sparito. Ucciso dalla cultura dominante.

4 - Capitolo a parte, che risolvo ed esaurisco con un nome e cognome: Giovannino Guareschi.

5 - E Giovanni Testori? Fu attaccato e quasi impalato dall'Espresso e dai circoli consimili perché furiosamente attaccò la cultura dominante di quel tempo. Lo fece sul Corriere della Sera con «Il marxismo non ha il suo latino». Mi avrebbe fulminato se lo avessi definito e mi tirerebbe i piedi stanotte se osassi accostarlo alla destra, anarchico com' era. Ma nel 1982 osò elogiare il sindaco di Milano Carlo Tognoli perché promosse una stupefacente mostra rompendo un tabù. Riconobbe per primo che furono artisti grandissimi i Mario Sironi, proprio nelle opere più fasciste, con i suoi affreschi magniloquenti di simboli duceschi. Non solo in quelle ovvio. Riconobbe che il fascismo covò la narrativa, da Riccardo Bacchelli a Mario Soldati, la scultura, l'architettura (con lo splendido razionalismo della Stazione Centrale), il cinema. Nel gennaio del 2020, coraggiosamente Maurizio Cecchetti su Avvenire (diretto da Marco Tarquinio) osò elogiare e denunciare. «Oggi sappiamo - per esempio riguardo all'Italia sotto il fascismo -, che la cultura, anche al soldo del regime, produsse anche cose pregevoli e questa "contraddizione" è stata ampiamente studiata negli ultimi quarant' anni, superando le censure ideologiche. Dalla mostra sugli Anni Trenta tenutasi a Milano nel 1982 fino a quella allestita da Germano Celant alla Fondazione Prada nel 2018 (Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918-1943) è assodato che il nostro Paese fu in Europa quello di punta per l'arte tra le due guerre». Ma come ha cantato Francesco De Gregori, «Tutto questo Alice Scanzi non lo sa», il quale magari è di sinistra, ma lo sa chiunque abbia studiato un minimo filosofia o economia o storia deviando dai manuali. Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Augusto Del Noce, Adriano Bausola, Cornelio Fabro, Renzo De Felice: correnti diverse, liberali, fascisti, cattolici, ma spediti ai margini. Mogol e Lucio Battisti, Bruno Lauzi nel campo della musica, e che dire di Riccardo Muti costretto a difendersi perché troppo bravo ma trattato con sussiego perché guardato con ostilità dai compagni che stonano?

 6 - E oggi? Non oso catalogare a destra scrittori eccellenti, rifuggono da etichette, anche perché cercare il martirio è peccato. Ma Massimiliano Parente è politicamente scorrettissimo, ed è appena scomparso il massimo musicologo quale è stato di sicuro Paolo Isotta. Eppure scriveva anche sul Fatto e Scanzi dovrebbe sapere chi lo perseguitò e che era il miglior amico di Feltri e di Stenio Solinas (cultura di destra alla grande). Che dire poi dei linciaggi cui, tra i conduttori, sono stati ripetutamente sottoposti Luca e Paolo, non solo comici e critici del costume sbrodoloso della sinistra autocelebrantesi con la Litizzetto e Fazio. Cito ancora alla rinfusa. Marcello Veneziani, Francesco Perfetti, Antonio Socci, Giuseppe Parlato. E dove lo mettiamo Aurelio Picca e che posto c'è per Paola Musu? Uffa, ho finito lo spazio. E mi scusino quelli di destra che ho dimenticato, perché è gente che sfida a duello.

Uto Ughi, lo sfogo: “La sinistra ha ghettizzato molti autori e fatto perdere l’identità alla cultura italiana”. Adriana De Conto lunedì 19 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. “La sinistra si è impadronita della cultura italiana, censurando molti autori e facendole perdere l’identità”. Uto Ughi, il grande violinista si lascia andare a una severa riflessione sul livello della nostra cultura. Lo fa a margine di una bella intervista a tutto campo di Francesco Borgonovo sulla Verità. Il  maestro ha parlato della sua formazione, delle sue letture e del suo talento musicale. “Le letture sono un nutrimento per il pensiero. Un giorno senza leggere nulla per me è un giorno perduto». L’intervista si indirizza giocoforza su questioni politiche, sulla riapertura dei teatri, soprattutto, che Uto Ughi giudica non più rinviabili:  «Di fatto le statistiche confermano che nei concerti eseguiti dal lockdown a oggi i contagi sono stati irrilevanti. A causa della pandemia la musica dal vivo si è completamente fermata causando un danno irreparabile alla cultura musicale del nostro Paese». Quando poi Borgonovo gli chiede una riflessione sulla cultura italiana il maestro è un fiume in piena e il discorso si fa ancora più politico:  «La cultura dovrebbe prescindere dagli schieramenti politici», esordisce. «Dobbiamo iniziare dall’immediato dopoguerra. La fine del fascismo ha portato a una istintiva ripulsa per tutto ciò che potesse anche solo sembrare fascista, dando rilievo e portando alle stelle tutto ciò che era antifascista. Si è voluta eliminare tutta la cultura antecedente al disastro della guerra». Questo ha avuto conseguenze nefaste, spiega. «Gli intellettuali antifascisti hanno escluso quelli che, anche se non fascisti, non si opposero direttamente al regime. Prima della guerra l’Italia aveva uno spessore culturale altissimo – illustra Ughi il suo ragionamento- . Solo fermandomi alla musica classica ricordo Mascagni, Respighi, Casella... Eppure la sinistra si è subito impossessata della cultura, trattando tutto ciò che era antecedente la guerra come fascista. In più – aggiunge nel corso dell’intervista- è stato dato enorme spazio alla cultura americana. Così si è persa l’identità culturale italiana a favore di una cultura di importazione che avrebbe condizionato per sempre il nostro Paese». Tra le vittime sacrificate sull’altare dell’egemonia della sinistra, Uto Ughi è molto critico: «In effetti una larga parte della cultura italiana è stata emarginata e ghettizzata. Ci sono state vittime illustri, penso ad esempio a Giovanni Papini. Persino Dino Buzzati non è così studiato a scuola come dovrebbe essere. E ci sono state anche molte altre censure». Non si nasconde il grande professore d’orchestra, giudicando i temi ancora divisivi . «Ad esempio la censura pressoché totale della tragedia delle foibe. Tuttavia le intelligenze “di destra” sono quasi sempre rimaste isolate e non hanno avuto la forza di formare un grande e diffuso movimento di opinione. Si è quindi lasciato il predominio della cultura alla sinistra, forse anche perché è stata data poca attenzione ai valori dello spirito». «La rottura con il passato – ha concluso – ha prodotto una cultura di bassissimo livello; che ha disconosciuto il ruolo prestigioso che l’Italia si era conquistata. La sinistra ha potuto proporre i suoi esponenti e formare le platee a suo gusto».

Gemma Gaetani per “la Verità” il 26 marzo 2021. Che la romanità sia una caratteristica dominante nel mondo dello spettacolo lo sappiamo da tempo. Ma una volta, almeno, aveva una tonalità politicamente più neutra: o la connotazione politica non c' era proprio oppure tutte le diverse posizioni erano considerate. C' erano i fenomeni più squisitamente locali, come Lando Fiorini e il suo teatro Il Puff. Ma c' erano anche grandi personalità capaci al contempo di rappresentare la città eterna e un più ampio diametro di italianità e di umanità. Talenti come Alberto Sordi, Gigi Proietti e Carlo Verdone. I quali, con tutte le loro diversità e peculiarità, non si sono mai comportati da uomini sandwich del partito di turno. Adesso, però, avanza un nuovo fenomeno: la Borgata Radical Chic. Una barca, anzi un barcone, di romani più o meno veri e più o meno (realmente) «figli del popolo» che mettono la loro romanità al servizio della politica.

Quella progressista, ovviamente. Nelle librerie, ad esempio, stanziano pile di fumetti di Zerocalcare, fumettista che ama ostentare il marchio Dop di «ultimo de Rebibbia». Peccato sia nato ad Arezzo, vissuto in Francia e poi, planato al quartiere della periferia romana, ha comunque studiato all' istituto privato francese Lycée Chateaubriand (due sedi in centro a Roma, a oggi circa 6.000 euro l' anno di retta). Zerocalcare, oltre alla patente di romano, ha il passaporto rosso, e non perde occasione per mostrarlo. Nel 2019 minacciò la diserzione dal Salone del libro perché gli era «impossibile pensare di rimanere tre giorni seduto a pochi metri dai sodali di chi ha accoltellato i miei fratelli», scrisse su Facebook. Gli «accoltellatori» erano i responsabili della casa editrice Altaforte, accusata di essere «vicina a Casapound» e quindi espulsa dal Salone. Il concetto è sempre il solito: la cultura di destra non ha semplicemente diritto di esistere. Zerocalcare e gli altri alfieri contemporanei della romanità agiscono così: si presentano come una sorta di «Quarto Stato» della capitale, ma sguazzano nel potere egemonico-culturale della sinistra, ricavandone un certo successo anche commerciale (in questo caso il capitale è benedetto). Un altro esponente della categoria, ora un po' in disgrazia, è Chef Rubio, che non è romano ma di Frascati (dunque, tecnicamente, un burino). Divulgava il cibo di strada in tv parlando come Mario Brega - e ruttando dopo le deglutizioni come Bombolo - per poi insufflare pubblicamente nel dialetto del Colosseo una fede sinistroide sempre più aggressiva infine sfociata in un pesantissimo antisionismo filopalestinese. Solo a quel punto - prima, tutto bene - i contratti tv sono saltati. Ora twitta contro «la tv controllata e censurata dai sionisti» galvanizzando soggetti che gli twittano «Sei il mio Banksy della cucina». Vero: peccato che non sia un complimento.

Propaganda sempre. Poi c' è Makkox, che dai volumi a fumetti si è espanso al video (nel programma di La7 Propaganda live) e ai quotidiani (Il Foglio) a forza di attaccare Matteo Salvini e chi lo vota. È nato a Formia e cresciuto a Gaeta, Latina. Misteri dell' ideologia progressista: per tradurre i neri devi essere nero, per parlare delle donne devi essere donna, per fare il romano de sinistra vai benissimo anche se vieni da Terni, Umbria. Zoro, al secolo Diego Bianchi, conduttore di Propaganda live, almeno è davvero romano. Ha introdotto il romanesco come compiaciuto e svaccato linguaggio della presentazione tv e ogni venerdì, come da titolo, fa propaganda in diretta. Per lui «romanaccio is the new italiano». E potrebbe essere persino una cosa bella, se non fosse a senso unico. La fumettista romana Paola Ceccantoni, in arte Pubble, avendo idee di destra, non gode certo della stessa visibilità di Zoro o Zerocalcare, e viene spesso oscurata persino sul Web. Il Parnaso progressista, che schifa le periferie vere, ha deliberato di emancipare mediaticamente il romanesco se chi lo parla è di sinistra, tutti gli altri sono ridotti a «pesciarole» (così fu definita Giorgia Meloni, romana della Garbatella). La romana non di sinistra va insultata nella realtà e nella finzione: Martina Dell' Ombra, personaggio della siciliana Federica Cacciola, mette in scena una pariolina cretina, sovranista, qualunquista, e ovviamente razzista, omofoba eccetera. Gemello di Martina era Ruggero De Ceglie, imprenditore politicamente scorretto, schiavo dei «sòrdi» (il denaro) e della «sorca» (sineddoche volgarissima per «donna») che si esprimeva in turpiloquio romanesco più che in romanesco. Francesco Mandelli, di Erba, che lo ideò e interpretò, disse: «Ruggero è il berlusconismo». E figurati se potrebbe mai esistere un Ruggero progressista...

Accenti fuori luogo. L' unico vero erede della romanità trasversalmente rappresentativa in stile Sordi-Proietti-Verdone è Federico Palmaroli, autore de Le frasi di Osho: nelle sue fotovignette deride tutti i politici, facendoli parlare appunto in romanesco. È impermeabile alla strumentalizzazione propagandistica della satira, e poiché non prende di mira soltanto destra e centrodestra è stato sprezzantemente ribattezzato «Fasho» da Andrea Scanzi. Nel 2009 Roberto Castelli, criticando l' attore Massimo Ghini che nella fiction Rai Papa Giovanni - Joannes XXIII aveva fatto parlare il giovane papa Roncalli (bergamasco) in romanesco, disse che il centralismo amministrativo della Roma sede di ministeri e Parlamento si replicava nell'«occupazione romana dell' offerta cinematografica e televisiva di Stato». La critica è stata riproposta recentemente dalla vox populi dei social network nei confronti dell' attore Luca Marinelli, che ha interpretato prima il padre omosessuale di una bimba rifiutata dalla snaturata madre etero ne Il padre d' Italia, poi Lo Zingaro attratto dai trans nel film Jeeg Robot (un tripudio di romanità). Marinelli è stato accusato di aver interpretato con un accento troppo romano perfino l' orgogliosamente genovesissimo Fabrizio De André nella fiction Rai Il principe libero. Il regista Luca Facchini lo ha difeso dicendo che non voleva «un imitatore ma un attore», come se l' immedesimazione nel personaggio possa essere solo interiore e non anche linguistica: pensate che stupidi tutti gli attori che fanno i corsi di dizione... Che importa, in fondo: la prevalenza del romanesco è giustificata sempre e ovunque. A patto, ovviamente, che sia di sinistra.

Roberto Vivaldelli per ilgiornale.it il 16 marzo 2021. L'obiettivo è chiaro: imporre la neo-lingua del pensiero unico progressista a tutta la macchina burocratica dell'Unione europea, adottando un linguaggio cosiddetto "inclusivo" e rispettoso delle minoranze etniche e di genere (Lgbt). A denunciare l'ultima folle deriva del Parlamento europeo è stata per prima Simona Baldassarre, medico, europarlamentare della Lega e Responsabile del Dipartimento Famiglia del Lazio. Come riporta Libero, infatti, il Parlamento europeo, e nella fattispecie l'unità Uguaglianza, inclusione e diversità facente capo alla Direzione generale per il personale, ha redatto il glossario del linguaggio "sensibile" per la comunicazione interna ed esterna, rivolto al personale dell'istituzione per "comunicare correttamente su questioni riguardanti la disabilità, le persone LGBTI+, la razza, l'etnia e la religione". Nei fatti trattasi di un vero e proprio vocabolario dedicato a funzionari, assistenti, portaborse, portavoce e politici da adottare per essere al passo con i tempi della cultura del piagnisteo e del political correctness imperante. Soprattutto, l'attenzione è massima verso le parole che, d'ora in poi, non si dovranno più impiegare, in particolare verso l'universo Lgbt. Quindi vietato assolutamente dire "gay, omosessuali e lesbiche" e spazio alle più accomodanti espressioni "persone gay, persone omosessuali, persone lesbiche". Guai a dire anche "matrimonio gay": la nuova neo-lingua impone che si dica "matrimonio egualitario". Scorretto anche parlare di "diritti dei gay e degli omosessuali" che va sostituito con "trattamento equo, paritario". Pensate inoltre di essere maschi o femmine? Vi sbagliate di grosso, la biologia per i super burocrati di Bruxelles non esiste. È un'invenzione dei suprematisti bianchi e della società patriarcale. D'ora in poi si parla di "sesso assegnato alla nascita" e non del retrogado "sesso biologico". Sbagliato altresì parlare di "cambio di sesso", che ora diventa una "transizione di genere". E poi arriviamo alla famiglia. Dimenticatevi quella tradizionale e sostituite "padre" e "madre" con un più generico "genitori": vorrete mica offendere qualcuno? La nuova neolingua adottata dal Parlamento europeo è un clamoroso assist alla cancel culture dilagante in tutto l'Occidente e non è diverso dalla furia iconoclasta degli attivisti che abbatte le statue. L'ideologia ultra-progressista che muove queste iniziative è la medesima. E fa tornare alla memoria 1984 di George Orwell: quando un sovversivo viene fatto sparire dal partito, si applica la damnatio memoriae: viene cioè eliminato, da tutti i libri, i giornali, i film e così via, tutto ciò che si riferisca direttamente o indirettamente alla persona in oggetto. E così il nuovo linguaggio "inclusivo" viene imposto e quello "vecchio" cancellato, con un ordine dall'alto, alla medesima maniera. E come scriveva lo stesso Orwell "ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione".

 Minoranze da difendere? Tutte, tranne gli ebrei...La sinistra non tutela più il "popolo" bensì le "diversità". Ma si è "scordata" una religione. Marco Gervasoni - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Il progressismo attuale, cioè la sinistra, lo sappiamo, non tutela più le classi lavoratrici e il «popolo» quanto le minoranze. Non c'è minoranza etnica, linguistica, religiosa, sessuale e persino di scelte culinarie (il veganesimo) che non sia difesa dai progressisti come modello di uno stile di vita che dovrebbe arricchire spiritualmente questo triste Occidente. Segno tangibile di decadenza, troviamo questa spasmodica ricerca della diversità anche in altri periodi caratterizzati dalla fine di una civiltà, come durante l'epoca alessandrina, il tardo impero romano, gli ultimi tempi di quello bizantino e così via. In attesa dei barbari che vengano a rivitalizzare la decadenza, la sinistra oggi è essenzialmente ed esclusivamente genderista, immigrazionista, filo islamica. L'unica minoranza religiosa che i progressisti si guardano bene dal difendere, e anzi spesso aggrediscono, è costituita dagli ebrei. Si riconferma così il classico paradosso che l'identità ebraica è al tempo stesso invisibile eppure onnipresente, e che la figura dell'ebreo è oggetto di operazioni di proiezione fantasmatica da parte dei non ebrei. In più, a complicare il quadro, sta il sostanziale filo islamismo dell'attuale sinistra, e per quanto non possiamo istituire una meccanica sovrapposizione tra antisemitismo e islam, oggi, in Occidente, gli islamisti sono i principali nemici degli ebrei. La patria di tutti questi paradossi non è gli Stati Uniti, nonostante il peso della identity politics (cioè l'assemblamento di minoranze) sia molto forte e gli ebrei abbiano un ruolo importante nella vita pubblica di oltre oceano. No, il luogo in cui cercare la contraddizione è il Regno Unito, dove la sinistra intellettuale e politica, rappresentata dal Labour, è al tempo stesso profondamente anti popolare e con uno spiccato carattere anti semita, e certamente anti israeliano. Le dimissioni di Corbyn non hanno modificato di molto il quadro: nonostante il linguaggio marxista e persino leninista, il Labour party è esattamente questo patchwork di minoranze di ogni tipo. Tutte tranne gli ebrei, che anzi spesso sono stati vittima della propaganda laburista. Ma il fenomeno è più profondo: il Labour non fa nient'altro che farsi collettore di immagini che circolano nella sfera pubblica inglese e in quella culturale, e della cultura che una volta si sarebbe detta di massa. Per questo il tema dell'antisemitismo a sinistra, ben tracciato da una serie di studi, appare in una luce nuova in questo volumetto proprio perché scritto da un attore (David Baddiel, Jews don't count, Harper Collins) il cui nome da noi non dice molto ma nel Regno Unito è un noto attore e presentatore televisivo, nonché sceneggiatore e romanziere, spesso impegnato nell'attività della comunità ebraica inglese. E qui si dimostra coraggioso assai perché anche a Londra tv e cinema sono occupati militarmente dai progressisti: che Baddiel sfida apertamente, accusandoli di difendere tutte le cause delle minoranze, meno quella degli ebrei. Di fatto, come spiega l'autore, per la sinistra gli ebrei non sono affatto una minoranza. Prova ne è che, nel mondo delle sceneggiature tv e cinematografiche, tutte dominate dal politicamente corretto, nella storia devono essere presenti tutte le minoranze, tutte ovviamente incarnazione di figure positive (i cattivi sono quasi sempre maschi bianchi etero ormai), tranne gli ebrei. Attraverso esempi calzanti spesso molto divertenti (si sente la penna dell'umorista), Baddiel cita i rarissimi casi in cui ebrei sono presenti nelle fiction, e sono quasi tutti personaggi negativi o perlomeno ambigui. Così, secondo un paradosso, alla fine la sinistra politicamente corretta finisce per fare la stessa cosa della produzione artistica della Germania nazista; in cui gli ebrei dovevano essere assenti, salvo incarnare figure negative. Persino nella scelta degli attori è così: rarissimamente personaggi ebrei sono interpretati da attori che lo sono davvero, diversamente da quando accade per le altre minoranze. Ovviamente la questione palestinese occupa un posto fondamentale, fino a un Ken Loach che spiega come «l'antisemitismo» sia una reazione «comprensibile» di fronte alle «azioni di Israele». Quanto all'antisemitismo nel Labour, Baddiel mostra come la spiegazione della intellighentsia rossa di oltre Manica sia piuttosto primitiva: solo propaganda della destra e dei suoi giornali. Fino a un noto editorialista del Guardian che istituisce una rigida gerarchia del razzismo, partendo dalle etnie o dalle religioni più aggredite fino a quelle più tollerate: indovinate chi siede all'ultimo posto? Gli ebrei, quasi estinti in Europa nel secolo scorso da un progetto sterminazionista, sarebbero insomma oggi poco toccati dal razzismo, quando non sarebbero razzisti essi stessi nei confronti degli arabi. Una sorta di neo negazionismo, come denuncia la scrittrice Deborah Lipstadt intervistata dallo stesso Baddiel. Che alla fine non fornisce rimedi e soluzioni: intanto però diverse organizzazioni islamiche hanno già chiesto che sia bandito dalla tv per... razzismo. Amara conferma della correttezza della sua tesi.

L'ultimo sfregio degli antifa: "No foibe no party". A Genova spuntano dei manifesti che inneggiano alle foibe. L'unione degli istriani: "Un'azione che tutti dovrebbero denunciare". Matteo Carnieletto - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. A distanza di 75 anni c'è ancora non solo chi nega le foibe, ma addirittura chi inneggia ad esse. Non solo il 10 febbraio, quando si commemora il Giorno del Ricordo, ma tutto l'anno. Per la sinistra più radicale, infatti, le cavità carsiche in cui furono gettati gli italiani a guerra finita sono un pensiero fisso. Quasi un desiderio che non si è mai del tutto realizzato. E così questa mattina Genova si è svegliata tappezzata di manifesti, ovviamente abusivi, in cui si inneggia alle foibe. Lo ha annunciato l'Unione degli istriani, postando le immagini su Facebook: "Nel capoluogo ligure sono stati affissi nelle scorse ore alcuni manifestini abusivi dal chiaro messaggio oltraggioso dei nostri drammi. 'No Foibe, no party', si legge sui placati lordati di stella rossa, firmati 'Genova antifascista', che hanno infastidito e indignato molti di noi. Come sempre, quando si tratta di offese a danno delle nostre tragiche vicende, la legge è magnanima, al punto che questa iniziativa non costituisce reato alcuno". L'Unione degli istriani fa poi notare il doppiopesismo che, sempre di più, viene portato avanti in queste occasioni: "Ben diverso sarebbe stato qualora oggetto dell'ingiuria fossero stati i campi di sterminio nazisti". Massimiliano Lacota, presidente dell'Unione, afferma al Giornale.it: "Si tratta di una iniziativa che, al contrario di coloro che vorrebbero minimizzare, va invece denunciata e sulla cui condanna dovrebbero essere d'accordo tutte le istituzioni regionali e cittadine, così come le forze politiche. Dopodiché sappiamo bene che rimarrà beatamente impunità, anche qualora gli autori materiali dovessero rivendicarla, perché nel nostro Paese si possono offendere i nostri drammi liberamente, senza commettere alcun reato. Ed è proprio su questo punto che va fatta una riflessione seria". Già, perché le vittime delle foibe sono ancora considerati morti di serie B.

Dopo le foibe la Resistenza: un libro smonta le tesi di Pansa. Laterza è ormai la casa editrice dell’Anpi. Adele Sirocchi sabato 6 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Bisogna “rinsaldare gli anticorpi dell’antifascismo”. Questo lo scopo del libretto che Laterza dà alle stampe dopo quello di Eric Gobetti teso a minimizzare il dramma delle foibe.  Si intitola “Anche i partigiani però” e si presenta come un’operazione di fact checking per ristabilire la verità sulla Resistenza. L’autrice del libro, Chiara Colombini, lavora all’Istituto storico della Resistenza di Torino. Non proprio una voce super partes. Ma come sempre avviene dalle parti della sinistra, la verità ideologica si sovrappone al vero e fanno tutt’uno. Il libro, che in sostanza è un’apologia della Resistenza fondata sul principio aprioristico che i partigiani non hanno mai commesso atrocità, viene salutato con entusiasmo dal Fatto: “Un piccolo manuale di difesa delle idee e che restituisce le giuste ragioni a chi ha sempre avuto ragione”. Guai a dare spazio alle “ragioni dei vinti”, si finisce con l’oscurare un “mito”, quello resistenziale, che deve continuare ad essere fondativo dell’etica collettiva. “Si sta affermando – commenta su La Verità Francesco Borgonovo –  la tendenza a cancellare i pur piccoli passi avanti compiuti negli anni passati verso un’interpretazione meno ideologica della Storia. Tra la fine dei Novanta e i primi Duemila, complice il ritorno del centrodestra al governo e grazie all’enorme successo del Sangue dei vinti di Giampaolo Pansa, si cominciò ad affrontare pubblicamente il lato oscuro della resistenza. … Libro dopo libro, ricerca dopo ricerca, il muro di silenzio edificato dalla retorica resistenziale aveva iniziato a mostrare segni di cedimento. Ora, però, qualcosa sta di nuovo cambiando. La sinistra, trovandosi in profonda crisi, si è aggrappata con le unghie all’unico baluardo di unità che ancora le rimanga: l’antifascismo”. Purtroppo voci libere come quella di Giampaolo Pansa stentano a levarsi. E Pansa così definiva la Resistenza in un’intervista al Secolo d’Italia: “Non fu un movimento popolare. Fu un fenomeno ristretto a una minoranza che decise di prendere le armi. L’intera guerra civile fu una guerra combattuta tra due minoranze”. Altra cosa è l’epica resistenziale, di cui ha bisogno l’Anpi per giustificare i soldi pubblici che continua a prendere. Non a caso il libro della Colombini va forte in quel circuito e saranno le sedi dell’Anpi a divulgarlo, presentarlo, caldeggiarlo. L’autrice – continua Borgonovo – “riesce a giustificare «collocandoli nel loro contesto» i fatti di sangue del triangolo della morte emiliano, sostiene perfino che appendere per i piedi Benito Mussolini e Claretta Petacci a piazzale Loreto fu inevitabile, quasi un atto di pietà per evitare lo scempio dei cadaveri. È un tentativo, l’ennesimo, di negare dignità a un pezzo d’Italia. La Colombini sostiene che la memoria della resistenza sia sotto attacco: in realtà è ancora dominante più o meno ovunque. Tentare di scalfirla e di svelarne le bugie significa semplicemente ristabilire la verità storica, e ridare dignità a tante vittime innocenti di una lotta che troppo spesso è stata prima comunista e poi «di liberazione»”.

Foibe, Pansa: «L’Anpi è un club di trinariciuti comunisti che dicono solo falsità». Desiree Ragazzi martedì 5 Febbraio 2019 su Il Secolo d'Italia. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». Giampaolo Pansa proprio non ci sta a sentire le fandonie e le falsità che in questi giorni circolano sulle foibe. Prima il post revisionista dell’Anpi di Rovigo, poi la sponsorizzazione e partecipazione dei partigiani a una conferenza negazionista a Parma. La Giornata del Ricordo si avvicina e lo scontro con l’Anpi si fa sempre più forte. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – dice Pansa – Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi ne parla anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa (Ed. Rizzoli) dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti. «Quel libro era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti – scrive il giornalista nella sinossi del libro – Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento». È un libraccio che racconta la verità su questa Italia del cazzo. Ai comunisti dico: attaccatemi. E più mi attaccherete, più copie venderò. Nel libro scrivo che dopo molti anni si vede con chiarezza l’assurdità paradossale della sinistra italiana nella Prima Repubblica. C’erano il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito socialdemocratico. Poi esisteva un quarto partito: l’Anpi.

Che cosa sapevano gli italiani dell’Anpi?

«Quasi niente, anche i suoi dirigenti erano pressoché ignoti. E soprattutto nessuno di loro poteva essere sottoposto a una valutazione dell’opinione pubblica…»

Lei scrive che la crisi della sinistra italiana non è un guaio del 2019 perché risale nell’immediato dopoguerra.
«
I comunisti e tutta la sinistra non hanno più voce in capitolo. Sono in rotta di collisione con la verità e la storia. Ecco perché parlare oggi di Anpi è anacronistico. In un certo modo è come parlare dei superstiti di Garibaldi che cento anni dopo parlano dello sbarco dei garibaldini…»

La sinistra quando deve ricordare i crimini commessi dai comunisti ha sempre l’orticaria…

«Si vergogna di essere nata da una costola del comunismo internazionale. E, quindi, si ostina  a negare, negare, negare. E a dire che non è assolutamente vero che furono commessi crimini atroci. Oggi negano le foibe, ma qualcuno dentro c’è morto ed era gente che non piegava la testa ai soldati di Tito».
ITALIANA: è giusto che il Ministero degli Esteri ignori completamente il pluralismo nella cultura?
Paolo Gambi il 4 marzo 2021 su Il Giornale. Il Ministero degli Affari Esteri ha presentato un nuovo portale, “Italiana”, dedicato alla promozione della lingua, della cultura e della creatività italiana nel mondo, che vede il Ministero impegnato sia nel ruolo di promotore che di produttore e sostenitore diretto di iniziative culturali. L’idea sembrerebbe ottima. Peccato che parta nel peggiore dei modi. A lanciare l’iniziativa infatti, oltre al ministro Di Maio e alla vice direttrice Cecilia Piccioni – figure istituzionali – il ministero ha chiamato personaggi che raccontano la malattia di fondo della cultura italiana. Ossia la sua faziosità militante e la totale mancanza di pluralismo. Padrona di casa è stata Loredana Lipperini. Una giornalista di lungo corso ed esperienza, innegabile, ma radicalmente militante. Un po’ il simbolo di quella costellazione di premi, fiere, eventi in cui esisti solo se fai professione di fede. E di appartenenza alla banda. Che poi è la stessa Lipperini che nel 2004 firmò a favore del terrorista Cesare Battisti e che ancora oggi (dopo che lo stesso terrorista ha ammesso i suoi crimini) non ha fatto marcia indietro.

La persona giusta per lanciare un’iniziativa del Ministero degli Esteri? Ospite d’onore, ovviamente, Michela Murgia. Che sì, tecnicamente è una scrittrice. La Lipperini addirittura la definisce “grande”. Una scrittrice che però dichiara: “A me di scrivere romanzi non frega niente, io sento la scrittura come un dovere civile”. Cioè uno strumento di propaganda per le sue idee. In altri paesi verrebbe definita “attivista”. E infatti è riuscita a usare persino il minuto che aveva a disposizione per fare la sua stanca propaganda e a prendersela con chi si fa vanto delle superiorità artistiche e storiche italiane, che lei bolla come “etnocentrismo”. Non c’è da spenderci parole sopra, basta leggere alcune di quelle che sono già state scritte.

L’Italia è un paese di scrittori e poeti. Proprio lei bisognava affiancare alla Lipperini? Poi c’era Paolo Fresu. Nulla da dire sulle sue qualità musicali, certo. Ma guardacaso è stato coordinatore del PD in Sardegna e da sempre fa propaganda politica per lo ius soli, uno dei cavalli di battaglia di una certa sinistra. E che addirittura invita chi non la pensa come lui a non comprare i suoi dischi. Insomma, un altro attivista. Se oltre a loro fossero stati invitati almeno un paio di artisti o persone di cultura con altre visioni del mondo per riequilibrare il tutto non ci sarebbe nulla da obiettare. Meglio ancora sarebbe stato se fossero state coinvolte persone meno divisive, persone di cultura e artisti più liberi, in quell’idea di cultura libera che in Italia sembra pura utopia.

Invece no. Gli altri invitati non hanno svolto questo ruolo. Ancora una volta chi occupa gli spazi della cultura per trasformarli con la solita arroganza in pulpiti di propaganda non si rende conto di quanto sia grave la mancanza di pluralismo. Proprio come accade alla fiera del libro di Torino e in tante altre manifestazioni e premi, che pure beneficiano di danaro pubblico, come spesso denuncio. E ancora più grave questo diventa nel momento in cui a promuovere l’iniziativa è un’istituzione come il Ministero degli Esteri. Che utilizza soldi pubblici e che quindi dovrebbe essere molto attento a una visione plurale. Il messaggio che il Ministero degli Esteri lancia è: volete fare cultura? Sostenete i terroristi, usate l’arte e la cultura per fare propaganda politica, siate faziosi. E soprattutto siate femministe radicali. Altrimenti per voi non ci sarà mai spazio. Un messaggio molto pericoloso, in una democrazia fragile come la nostra.

La cultura è a sinistra ma l’Italia è liberale e conservatrice. Perché? Ipotesi e proposte. Paolo Gambi l'11 gennaio 2021 su Il Giornale. I sondaggi raccontano che l’Italia è un paese a maggioranza liberale e conservatrice. La Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia rappresentano almeno metà della popolazione. Eppure, nonostante la maggioranza della popolazione non sia di sinistra, continuano a spuntare come funghi profeti del verbo illiberale e ideologico, che siano Saviano che si accosta al martire Giordano Bruno, Greta Thunberg che riesce a ideologizzare – e quindi rovinare – anche la cosa più bella che ci sia, cioè la natura e la battaglia per l’ambiente, o una qualche femminista radicale, tipo la Murgia, che riesce a insaporire d’odio anche un commento ad un’opera. E questi profeti continuano ad avere scranni nei giornali, posti in televisione e quindi seguito. Tanto da egemonizzare tutti gli spazi e le iniziative culturali. Non che manchino letterati e uomini (e donne) di cultura liberali o conservatori. Come non sono mai mancati. Da Borges a D’Annunzio, da Marinetti a Montale, da Pirandello a Yeats. Eppure se si parla di cultura, lo deve fare qualcuno della sinistra militante. Così a nessuno sembra strana, per esempio, l’egemonia estremista al salone del libro di Torino.

Giuseppe Verdi, prima deputato e poi senatore della destra. Perché? Perché la cultura continua a essere egemonia della sinistra e delle sue cangianti ideologie? Avanzo quattro ipotesi e altrettante proposte:

È un fatto antropologico: quelli di sinistra sono intelligenti, i liberali e i conservatori sono trucidi, stupidi e ignoranti. Questo è quello che pensa nella media una persona di sinistra. Che probabilmente è convinta che anche Ezra Pound, in quanto persona di cultura, sia in qualche modo filocomunista. Proposta: abbattere il muro di snobismo dei radical chic semplicemente considerandoli ciò che sono, cioè l’ultimo stadio di una classe dirigente culturale distaccata dalla realtà.

La sinistra ha ancora un barlume di coordinamento culturale. I circoli di sinistra riescono ancora a egemonizzare qualunque realtà culturale perché sono ancora organizzati e dietro a loro il potere politico tende sempre una mano. Per converso i liberali e i conservatori sono ciascuno in preda alla smania di se stesso (da bravi liberali individualisti) o non disposti a mettersi al piano della sinistra (da bravi conservatori), mentre i politici di centro-destra considerano spesso la cultura come un settore di poco interesse. La proposta è molto semplice: basterebbe che liberali e conservatori superassero, almeno un po’, il proprio individualismo e si impegnassero a costruire cose insieme. E insieme facessero un appello ai propri politici di riferimento perché mettessero chi fa cultura in condizioni di operare in pace.

I liberali e i conservatori in Italia non hanno ancora (ri)elaborato i propri capisaldi culturali. Questo è un tema centrale. La sinistra è in continua elaborazione della propria ideologia. In Italia in quindici anni si è passati dalla lotta di classe alla lotta di genere e nessuno oggi ha dubbi su quali siano i temi della sinistra: femminismo, cultura dei “diritti”, ambiente. L’universo del centro-destra italiano è molto più indietro in termini di elaborazione del pensiero. Cosa significa in Italia oggi essere di centro-destra? Significa essere liberali, conservatori, sovranisti? Proposta: trovare le parole chiave intorno a cui costruire un percorso comune. Parole semplici che possano mettere insieme le tante realtà che compongono l’universo del dentro destra, parole come tradizione, libertà, persona. Io ne propongo una: Bellezza.

La semina ideologica della sinistra è stata lunga, si raccolgono frutti di alberi piantati decenni fa. Proposta: non avere paura di seminare oggi per il futuro. Avere il coraggio di spendersi per le idee in cui si crede, per quanto ora possano sembrare piccoli semi. Perché domani potrebbero essere grandi alberi sotto la cui ombra riposare in pace.

·        Gli Ipocriti Sinistri.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 28 ottobre 2021. Ricordo, anni fa, durante un Salone del libro di Torino, una divertentissima serata, era una festa Einaudi, sul terrazzo di casa Franco – Ernesto Franco, direttore editoriale della Einaudi. Erano gli anni in cui la guerra ideologica tra berlusconismo e antiberlusconismo era al suo culmine, gli anni del conflitto di interesse da una parte e dall’altra dei Saloni del libro che, a scorrere l’elenco degli ospiti d’onore, erano qualcosa di molto simile a un congresso ombra del Pd. Comunque. L’aspetto divertente della serata, che scorreva via fra un finger food (“Ottimi questi bocconcini di Fassona!”) e un calice di rosso (“Ummmmmh… Questo Barolo Monfortino mi sembra un po’ freddo”), era ascoltare le ironie dell’intero parterre di invitati sul Presidente (all’epoca) del Consiglio Silvio Berlusconi, “impresentabile” e “vergognoso”, con cui nessuno di loro voleva avere a che fare (“Persona imbarazzante…”), ma del quale stavano spiluccando il luculento catering, pagato dalla casa madre: Mondadori. La stragrande maggioranza di loro era autore del gruppo della famiglia Berlusconi, ma – si sa – “Einaudi è un’altra cosa…”. Certo, è sempre “un’altra cosa”. Il “problema è un altro” e “la questione è più complessa”. La questione, più che complessa, è curiosa. E si ripete da quando Silvio Berlusconi, patron di Mondadori-Einaudi (e oggi anche di Rizzoli) entrò in politica, e continua ancora oggi, quasi vent’anni dopo… E anche le domande restano le stesse.

La prima: come è possibile che, a parte qualche direttore del “Giornale” e pochissime altre grandi firme, per uno scrittore o un professore o un giornalista “di area” sia praticamente impossibile entrare in Mondadori, mentre l’ultimo scappato di casa che pascola nell’area della Sinistra trova subito un contratto a Segrate (o in Mediaset, che è lo stesso)?

La seconda: ma quante acrobazie retoriche devono compiere tutti gli avversari barra nemici di Berlusconi che pubblicano per Mondadori e Einaudi, e ora Rizzoli, per giustificare la propria scelta? Sul tema negli anni si è scritto tanto, ed esiste bibliografia enorme. Keyword: “Ipocrisia”. 

Oggi la polemica, sempre tenuta viva a destra e sempre sminuita a sinistra, torna di moda. I grillini doc sono infastiditi, o fanno finta di niente, ma intanto il loro leader e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si è accodato a quanti pur combattendo in tutto e per tutto Berlusconi poi bussano alla porta del suo gruppo editoriale: il suo primo libro, “Un amore chiamato politica”, esce per Piemme. Che fa appunto parte della galassia editoriale del Presidente. La domanda è sempre quella: con tutte le case editrici che ci sono, proprio una di Berlusconi? Ma perché? Da un lato lo criticano ma poi, quando sono a caccia di un editore, non disdegnano di farci business. E l’uomo politico pessimo diventa improvvisamente un imprenditore eccellente. Dipende tutto dai punti di vista. E quello economico - si sa - riserva spesso prospettive inedite…A parte pochissime eccezioni (Corrado Stajano che passò subito a Garzanti, Michele Serra che se ne andò a Feltrinelli dimostrando che un’alternativa c’è sempre, Vito Mancuso che a un certo punto pose un problema etico, tardivamente Roberto Saviano… ma andiamo a memoria: dimentichiamo di certo qualcuno), tutti i migliori antiberlusconiani hanno sempre continuato a scrivere, pubblicare e guadagnare senza vergogna con Berlusconi (“No, semmai sono io che faccio guadagnare lui con i miei libri”, come capisce chiunque, non è una risposta, ma solo una divertente boutade).

Dalla “A” di Corrado Augias (18 libri dal 1996 al 2020 pubblicati con Mondadori o Einaudi) alla “Z” di Gustavo Zagrebelsky (12 saggi dal 1996 a oggi usciti da Einaudi), l’alfabeto dei berlusconiani-a-intermittenza è completo, passando anche per la “T” di Marco Travaglio: da pochi mesi ha pubblicato una sua biografia “per immagini” di Indro Montanelli per Rizzoli, cioè Berlusconi (“Sì, ma i perché i diritti di Montanelli sono di Rizzoli!”. “Può darsi, ma i soldi che prendi sono di Berlusconi”).

E per il resto, non manca nessuno. C’è il fondatore del quotidiano “La Repubblica”, Eugenio Scalfari, arcinemico del Cavaliere, con il quale però ha pubblicato nei prestigiosi “Meridiani” Mondadori. Segrate val bene un’abiura. Ai tempi del primo governo guidato dai Cinquestelle, del resto, dichiarò di preferire Berlusconi a Di Maio.

E poi Concita De Gregorio, la quale ha pubblicato molto con Einaudi, anche il suo ultimo “Il tempo di guerra”. Lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa: per Einaudi ha scritto decine di saggi e con Mondadori ci ha fatto pure lui un “Meridiano”.

Paolo Cognetti, il bestsellerista che ha pubblicato “Le otte montagne” con Einaudi ma che in un incontro pubblico sul palco disse di aver deciso di abbandonare Milano per rifugiarsi sui monti perché oppresso dal “berlusconismo” che si respirava in città. 

O Nicola Lagioia, autore d’oro Einaudi e antiberlusconiano di ferro il quale – non a caso - l’anno prossimo prenderà il posto di Ernesto Franco come direttore editoriale della Einaudi: offrirà anche lui ricchi buffet pagati da Berlusconi ai suoi amici Raimo, Lipperini&Co.?

E ancora: come dimenticare Federico Rampini, Nadia Fusini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano, Adriano Prosperi… e nomi ancora più radicali come Erri De Luca (simpatico, disse: io non me ne vado, semmai è lui che deve buttarmi fuori…), Francesco Guccini e perfino Massimo D’Alema, tutti – chi più chi meno, chi prima chi dopo - autori “al soldo” di Segrate… 

Almeno Mauro Corona, di fronte alla irrisolta contraddizione di voltare la faccia al Berlusconi politico ma salutare sussiegosi il Berlusconi editore, una volta confessò: “Come scrittore ho il cuore a sinistra e il portafoglio a destra: devo pur mangiare”. Appunto.

·        "Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

"Bella ciao", la storia della canzone italiana più famosa su History Channel. Un docufilm ricostruisce la nascita e la fortuna di un brano leggendario: dai partigiani della Brigata Maiella (Abruzzo), fino alla serie tv "La casa di carta". La Repubblica il 25 ottobre 2021. Bella ciao è il canto popolare (e il brano italiano) più famoso al mondo, intonato dai partigiani della Brigata Maiella (Abruzzo) e della Brigata Garibaldi (Marche): sono loro i primi ad aver mixato melodie tradizionali a nuove parole patriottiche. Le parole risuonarono poi al Festival della Gioventù Democratica a Praga, era l'estate del 1947, nella versione partigiana. Versione riscoperta poi in Italia e resa celebre dal Festival di Spoleto del 1964, dove si cantò anche una Bella ciao in versione "mondine".

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Bella ciao. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Bella ciao è un canto popolare italiano, secondo alcuni proprio di alcune formazioni della Resistenza in realtà mai cantato o pochissimo cantato nella versione del partigiano, prima della fine della guerra. La stessa Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI) riconosce che Bella ciao divenne inno ufficiale della Resistenza soltanto vent'anni dopo la fine della guerra e che: "È diventato un inno soltanto quando già da anni i partigiani avevano consegnato le armi". La sua conoscenza ha cominciato a diffondersi dopo la prima pubblicazione del testo nel 1953 sulla rivista La Lapa, ma è diventata celeberrima soltanto dopo il Festival di Spoleto del 1964 perché idealmente associato all'intero movimento partigiano. Nonostante sia un brano italiano legato a vicende nazionali, viene usato in molte parti del mondo come canto di resistenza e di libertà.

Storiografia.

Non ci sono indizi della rilevanza di Bella ciao tra le brigate partigiane e neppure della stessa esistenza della versione del partigiano antecedente alla prima pubblicazione del testo nel 1953. Non ci sono tracce nei documenti dell’immediato dopoguerra né è presente nei canzonieri importanti: "Non c’è, ad esempio, nel “Canzoniere Italiano” di Pasolini e nemmeno nei “Canti Politici” di Editori Riuniti del '62. C’è piuttosto evidenza di una sua consacrazione popolare e pop tra il '63 e il '64, con la versione di Yves Montand e il festival di Spoleto, quando il Nuovo Canzoniere Italiano la presentò al Festival dei Due Mondi sia come canto delle mondine sia come inno partigiano. Una canzone duttile, dunque, e talmente “inclusiva” da poter tenere insieme le varie anime politiche della lotta di liberazione nazionale (cattoliche, comuniste, socialiste, liberali...) ed esser cantata a conclusione del congresso DC che elesse come segretario l’ex partigiano Zaccagnini". Come è riportato nel testo di Roberto Battaglia Storia della Resistenza italiana (Collana Saggi n. 165, Torino, Einaudi, 1953) era Fischia il vento, sull'aria della famosa canzone popolare sovietica Katjuša, che divenne l'inno ufficiale delle Brigate partigiane Garibaldi. Anche il noto giornalista ed ex partigiano nonché storico della lotta partigiana, Giorgio Bocca, affermò pubblicamente: «Bella ciao … canzone della Resistenza, e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l'una né l'altra nate dai partigiani o dai fascisti, l'una presa in prestito da un canto dalmata, l'altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell'Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto. Affermazioni queste poi certificate da Carlo Pestelli nel suo libro Bella ciao. La canzone della libertà, nel quale ricostruisce in modo dettagliato le origini e la diffusione della canzone Bella ciao. Anche gli storici della canzone italiana Antonio Virgilio Savona e Michele Straniero hanno affermato che Bella ciao non fu cantata o fu poco cantata durante la guerra partigiana ma venne diffusa nell'immediato dopoguerra. Solo poche voci, come quella degli storici Cesare Bermani e Ruggero Giacomini sostengono che una qualche versione di "Bella ciao", sia stata cantata da alcune brigate durante la Resistenza, anche se non necessariamente nella versione del partigiano di cui, come specificato sopra, non esistono prove documentali della sua esistenza fino agli anni cinquanta. Secondo Bermani, pur senza portare prove convincenti a dimostrazione, era l'inno di combattimento della Brigata Maiella in Abruzzo, cantato dalla brigata nel 1944 e portato al Nord dai suoi componenti che dopo la liberazione del Centro Italia aderirono come volontari al Corpo Italiano di Liberazione. La ragione per cui non se ne aveva adeguata notizia, osserva Bermani, starebbe in un errore di prospettiva storica e culturale: l'idea che la Resistenza, e quindi il canto partigiano, fossero un fenomeno esclusivamente settentrionale. Tuttavia viene fatto notare che l'ipotesi non è supportata da evidenze perché esistono molti documenti scritti dai partigiani della Brigata Maiella, comprese le canzoni che cantavano, e in nessuno di loro compare il minimo accenno a Bella ciao, mentre compaiono altre canzoni; allo stesso modo, nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao. Per di più dal diario del partigiano Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1º aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata Maiella che si chiamava: “Inno della lince”. Bermani in ogni caso concorda che la sua diffusione nel periodo della lotta partigiana fosse minima anche se, sempre nella sua opinione e senza portare evidenze documentali che la sostengano, la cantavano anche alcuni reparti combattenti di Reggio Emilia e del modenese, ma non era la canzone simbolo di nessun'altra formazione partigiana. Ragion per cui Cesare Bermanii afferma che Bella ciao sia "l'invenzione di una tradizione" e che: «A metà anni Sessanta, il centrosinistra al governo ha puntato su Bella ciao come simbolo per dare una unità posteriore al movimento partigiano». Secondo Giacomini, invece, la prima attestazione scritta di Bella ciao come canto della Resistenza italiana sarebbe nell'opuscolo "La rappresaglia tedesca a Poggio San Vicino" scritto da don Otello Marcaccini e pubblicato nel luglio 1945. In questo opuscolo don Otello Marcaccini, parroco di Poggio San Vicino (MC), commemora le vittime della rappresaglia tedesca avvenuta il 1º luglio 1944 e riporta: «La vita per i patrioti è gaia ma pur sempre vigilante e rischiosa. Si macellano bovini, si acquista vino che viene distribuito anche alla popolazione a basso prezzo. Ora gli abitanti di Poggio S. Vicino, prima per plausibili ragioni diffidenti, assistono come meglio i Partigiani e prendono parte attiva alle loro vicende ora liete ora dolorose.

I bambini poi sono sempre in mezzo a loro, rendono piccoli servizi, si entusiasmano e ripetono le loro canzoni di battaglia:

"se io morissi da Patriota

Bella ciao, ciao, ciao".»

D'altra parte questa versione, con l'utilizzo del termine "patriota" al posto di "partigiano", confermerebbe ulteriormente che non esistono prove documentali che la versione del partigiano sia antecedente alla prima pubblicazione del testo a metà degli anni cinquanta del Novecento. Sempre secondo Giacomini, un'altra attestazione di Bella ciao come canto della Resistenza italiana si avrebbe in una lettera datata 24 aprile 1946 scritta dalla russa Lydia Stocks ad Amato Vittorio Tiraboschi. Tiraboschi, col nome di battaglia Primo, era stato il comandante della zona di Ancona della Brigata Garibaldi-Marche e, successivamente, della V Garibaldi-Ancona. Lydia Stocks dopo l'8 settembre fuggì da un campo di internamento femminile in provincia di Macerata e raggiunse i partigiani sul monte San Vicino, dove conobbe Douglas Davidson, comandante di distaccamento e il comandante Tiraboschi ("Primo"), a cui facevano riferimento tutti i gruppi partigiani della zona del San Vicino. «Quando penso di tutto ciò, ho voglia di piangere perchè ancora ricordo tutto quello che abbiamo provato, tutti quale giovani ragazzi che andavano morire con il canto Bella ciao. E poi venivano ferite e morti, che non dimenticherò mai finchè vivrò, perchè ho amato con tutto il mio cuore tutti quelli ragazzi e amerò sempre. Per me la Italia [è] stata una seconda Patria e lo amo popolo Italiano con tutti i suoi difetti. Quanto sarò felice se la Italia di nuovo sarà in piedi, ma senza i Fascisti... Non tanti che possano comprendere tutto questo, ma Voi, sì, perchè avete sofferto con noi.» La fonte riporta solo il titolo della canzone, per cui non è possibile sapere quale fosse la versione testuale di Bella ciao che veniva cantata. Annalisa Cegna, direttrice dell'Istituto storico della Resistenza di Macerata, si è dimostrata piuttosto cauta riguardo la tesi di Giacomini: "Un solo documento non è sufficiente per avere garanzie storiche."

Origine del testo

La Bella ciao partigiana riprende nella parte testuale la struttura del canto dell'Ottocento Fior di tomba che Costantino Nigra riporta in numerose versioni tra i Canti popolari del Piemonte, pubblicati per la prima volta nel 1888, tra i quali uno inizia con il verso Sta mattina, mi sun levata. Nigra riporta anche una variante veneziana che inizia con Sta matin, me son levata. Le varie versioni raccontano la storia di una donna che vuol seguire per amore un uomo, anche se ciò comporterà la morte e l'essere seppellita, tanto le genti che passeranno diranno "che bel fiore" o "che buon odore" a seconda della versione. A proposito della canzone Nigra, sempre nel suo libro del 1888, osservava: «Il fiore che deve crescere sulla tomba della bella, morta per amore, è il tema d’una canzone che è forse la più cantata in tutta Italia. Questo tema è talmente popolare presso di noi, che in molti casi s’aggiunge, come finale, ad altre canzoni che non ci han nulla a che fare.» Sia musicalmente sia nella struttura dell'iterazione (il "ciao" ripetuto), deriva anche da un canto infantile diffuso in tutto il Nord: La me nòna l'è vecchierella, rilevato da Roberto Leydi, di cui si riporta l'inizio:

«La me nòna, l'è vecchierèlla

la me fa ciau, la me dis ciau, la me fa ciau ciau ciau»

Alcuni ipotizzato il legame con un canto delle mondine padane, ma altri, come Cesare Bermani: sostengono che la Bella ciao delle mondine sarebbe stata composta dopo la guerra dal mondino Vasco Scansani di Gualtieri.

Il seguente testo è quello più diffuso della versione partigiana, con alcune varianti:

«Una mattina mi son svegliato

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

una mattina mi son svegliato

e ho trovato l'invasor.

O partigiano portami via

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

o partigiano portami via

che mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

e se io muoio da partigiano

tu mi devi seppellir.

Seppellire lassù in montagna

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

seppellire lassù in montagna

sotto l'ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

e le genti che passeranno

mi diranno che bel fior.

E questo è il fiore del partigiano

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

e questo è il fiore del partigiano

morto per la libertà.»

Origine della musica

Bella Ciao eseguita dall'Orchestra Rappresentativa delle Guardie Serbe (ROG)

La musica, di autore sconosciuto, è stata fatta risalire, in anni passati, a diverse melodie popolari. Una possibile influenza può essere stata quella di una ballata francese del Cinquecento che, seppur mutata leggermente a ogni passaggio geografico, sarebbe stata assorbita dapprima nella tradizione piemontese con il titolo Là daré 'd cola montagna, poi in quella trentina con il titolo Il fiore di Teresina, poi in quella veneta con il titolo Stamattina mi sono alzata, successivamente nei canti delle mondariso e infine in quelli dei partigiani. Una versione della Bella ciao delle mondine fu registrata dalla cantante Giovanna Daffini nel 1962.

Un'altra possibile origine della melodia è stata individuata da Fausto Giovannardi a seguito del ritrovamento di una melodia yiddish (canzone Koilen) registrata da un fisarmonicista Klezmer di origini ucraine, Mishka Ziganoff, nel 1919 a New York. Secondo lo studioso Rod Hamilton, della The British Library di Londra, "Kolien" sarebbe una versione di "Dus Zekele Koilen" (Due sacchetti di carbone), di cui esistono varie versioni risalenti agli anni 1920.

La Bella ciao delle mondine

Come sopra riportato, alcuni sostengono che la Bella ciao partigiana sia stata preceduta dalla Bella ciao delle mondine che lo storico Cesare Bermani reputa invece posteriore. Di seguito il testo di Bella Ciao delle mondine.

«Alla mattina appena alzata

o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao

alla mattina appena alzata

in risaia mi tocca andar.

E fra gli insetti e le zanzare

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

e fra gli insetti e le zanzare

un dur lavoro mi tocca far.

Il capo in piedi col suo bastone

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

il capo in piedi col suo bastone

e noi curve a lavorar.

O mamma mia o che tormento

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

o mamma mia o che tormento

io t'invoco ogni doman.

Ed ogni ora che qui passiamo

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

ed ogni ora che qui passiamo

noi perdiam la gioventù.

Ma verrà un giorno che tutte quante

o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao

ma verrà un giorno che tutte quante

lavoreremo in libertà.»

In questo contesto si nota come l'espressione "bella ciao" indichi la giovinezza che si perde e sfiorisce nel

lavoro.

«Stamattina mi sono alzata,

stamattina mi sono alzata,

sono alzata – iolì

sono alzata – iolà

sono alzata prima del sol...»

Diffusione

La fortuna di questo canto, che lo ha fatto identificare come canto simbolo della Resistenza italiana e dell'unitarietà contro le truppe naziste come elemento fondante della Repubblica Italiana, consiste nel fatto che il testo lo connota esclusivamente come canto contro "l'invasore", senza riferimenti - per stare alla ormai classica tripartizione di Claudio Pavone - alla Resistenza come "guerra di classe" o come "guerra civile" (come invece è nel canto più cantato dai partigiani, quella Fischia il vento dove invece sono presenti i riferimenti al "sol dell'avvenire" e alla "rossa bandiera"). Non vi sono elementi concreti né fonti a sostegno di coloro che affermano che la popolarità internazionale di Bella ciao si diffuse negli anni 1950, in occasione dei numerosi "Festival mondiali della gioventù democratica" che si tennero in varie città fra cui Praga, Berlino e Vienna, al contrario la mancanza di fonti al riguardo fa ritenere che questa affermazione sia una costruzione posteriore. La canzone raggiunse una grandissima diffusione di massa negli anni sessanta, soprattutto durante le manifestazioni operaie e studentesche del Sessantotto. Le prime incisioni di questa versione partigiana si devono a Sandra Mantovani e Fausto Amodei in Italia, e al cantautore francese di origine toscana Yves Montand. La prima volta in televisione fu nella trasmissione Canzoniere minimo (1963), eseguita da Gaber, Maria Monti e Margot, che la cantarono senza l'ultima strofa: "questo è il fiore di un partigiano - morto per la libertà". In 45 giri avvenne, da parte di Gaber, solo nel 1965. I Gufi la cantano nell'album I Gufi cantano due secoli di Resistenza, edito nel 1965. Nel 1972 viene incisa da un partigiano ligure, Paolo Castagnino "Saetta", con il suo Gruppo Folk Italiano, insieme a un'altra dozzina di canti della Resistenza, dei quali narra nelle note di copertina l'origine. Saetta è stato un protagonista della Resistenza, comandante della Brigata Garibaldina «Longhi» decorato di medaglia d'argento al valor militare e della massima onorificenza partigiana sovietica. Nel 2002 la canzone fu cantata dal giornalista Michele Santoro in apertura di un'edizione straordinaria del programma televisivo Sciuscià, da lui condotto, in polemica con il cosiddetto editto bulgaro. I Modena City Ramblers, particolarmente legati alla Resistenza, hanno reinterpretato il brano varie volte, la prima delle quali è presente già nell'EP Combat folk. Lo hanno poi cantato in versione combat folk durante il Concerto del Primo Maggio tenutosi a piazza San Giovanni a Roma nel 2004 (ripetuta poi negli anni successivi). La versione del 1994 è stata usata per chiudere la campagna elettorale di SYRIZA nel 2015. È stata rifatta più volte dal gruppo ska Banda Bassotti (che spesso cantano la Resistenza nei loro testi), con ritmo più veloce. Tra le innumerevoli esecuzioni spicca anche quella del musicista bosniaco Goran Bregović, che la include regolarmente nei propri concerti, e che ha dato al canto popolare un tono decisamente balcanico. Dal 1980 viene cantata da Enrico Capuano in una versione folk rock nelle tante manifestazioni politiche e antifasciste. Riproposta ogni anno nella scaletta dei suoi tour negli USA e in Canada a partire dal 2011. Da segnalare la versione eseguita nel 2008 su Rai 3 in occasione del concerto del Primo Maggio insieme alla Tammurriatarock e i Bisca. Ai funerali del regista Mario Monicelli il 1º dicembre 2010 la banda del quartiere Pigneto suonò Bella ciao, accompagnata dal coro della folla e col sottofondo delle campane della vicina chiesa. Durante i preparativi del Festival di Sanremo 2011, il conduttore di quell'edizione, Gianni Morandi, annunciò che avrebbe eseguito la canzone Bella ciao nella serata dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia insieme all'inno fascista Giovinezza. Tale combinazione fu al centro di polemiche e l'iniziativa fu bloccata dal consiglio d'amministrazione della RAI. Durante le proteste dell'ottobre 2011, il movimento Occupy Wall Street, gli indignados a stelle e strisce, intonò Bella ciao. Il candidato socialista François Hollande ha scelto il canto popolare dei partigiani dell'Emilia-Romagna per concludere un suo discorso in occasione delle elezioni presidenziali 2012, tra gli applausi della folla. Durante le manifestazioni contro Erdoğan avvenute nella piazza Taksim di Istanbul e in tante altre città turche nel 2013, alcuni manifestanti hanno intonato il motivo della canzone. La canzone Bella ciao era molto cara a don Andrea Gallo, morto il 22 maggio 2013. Durante i funerali il 25 maggio l'arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, ha dovuto interrompere la sua omelia ai funerali di don Gallo. Infatti, mentre in chiesa lui ricordava "l'attenzione agli ultimi" di don Gallo, dall'esterno si è levato il canto di Bella ciao, intonato poi anche dai presenti in chiesa che hanno applaudito. Bella ciao, in italiano, è stata anche cantata a Parigi dall'attore comico francese Christophe Alévêque durante le commemorazioni funebri delle vittime della strage avvenuta nella sede del settimanale satirico francese Charlie Hebdo: nel corso di una cerimonia pubblica di sostegno del giornale (trasmessa in diretta l'11 gennaio 2015 dalla France 2), e durante il funerale del fumettista Bernard Verlhac, detto "Tignous" (trasmesso in diretta da BFMTV). La canzone è stata utilizzata nella serie spagnola di Antena 3/Netflix La casa di carta. Nell'attuale guerra civile siriana è stata utilizzata dagli indipendentisti curdi. Nella rivoluzione sudanese del 2018 e 2019 alcuni ribelli hanno intonato la canzone, realizzando anche una cover del brano. Nel 2019 viene fatta una canzone inglese, Do it now, con un nuovo testo sulle note di Bella ciao per i cambiamenti climatici. Sempre nel 2019, viene cantata all'aeroporto di Barcellona dai manifestanti per l'Indipendenza della Catalogna per protestare contro le condanne inflitte a dodici leader catalani. Nel 2019 anche i manifestanti cileni cantano e suonano Bella ciao mentre si ritrovano in Plaza Italia per protestare contro il presidente Sebastián Piñera e per chiedere riforme economiche e cambiamenti politici. Sempre nel 2019 è diventata una delle canzoni simbolo delle piazze italiane del Movimento delle sardine e Paolo Gentiloni, neo Commissario europeo all'Economia, con gli altri commissari Socialisti e Democratici, la canta al Parlamento europeo a Strasburgo.

Sing for the Climate. Do it now.

Nel 2012 in Belgio il regista e attivista ambientalista belga Nic Balthazar aveva aderito alla manifestazione ambientalista "Sing for the climate" e in quell'occasione aveva girato un video, dove i manifestanti cantavano in coro il brano Do it Now sulle note di Bella ciao. La clip successivamente fu proiettata durante la seduta plenaria della (UNFCCC) tenutasi a Doha in Qatar del 2012. In occasione delle manifestazioni Venerdì per il futuro, il brano è stato adottato come inno. Nella versione cantata da bambini turchi, in occasione della manifestazione mondiale studentesca del 15 marzo 2019, è diventata un inno per l'ambiente.

Altre versioni.

Oggi è molto diffusa tra i movimenti di Resistenza in tutto il mondo, dove è stata portata da militanti italiani. Ad esempio è cantata, in lingua spagnola, da molte comunità zapatiste in Chiapas. A Cuba è cantata nei campeggi dei Pionieri, mettendo la parola guerrillero al posto della parola "partigiano". È conosciuta e tradotta anche in cinese. Dal 1968 in poi questa canzone è stata spesso ripresa come propria da movimenti di sinistra e di estrema sinistra, soprattutto giovanili, anche se in origine era riconosciuta come appartenente a tutta la Resistenza, alla quale parteciparono formazioni e individui di diverse opinioni, dai comunisti ai socialisti, dai repubblicani e azionisti ai cattolici fino ai partigiani autonomi - contraddistinti da un fazzoletto di colore azzurro e contrari al comunismo. Una versione sessantottina aggiungeva una strofa finale che recitava: "Era rossa la sua bandiera... come il sangue che versò" (nel tempo svariate sono comunque le cosiddette strofe finali inventate). Per questo motivo ancora oggi ispira autori italiani e stranieri, ed è utilizzata in numerose occasioni, anche non direttamente collegate alla Resistenza.

CINQUE COSE DA SAPERE SU “BELLA CIAO”. REDAZIONE GARZANTI il 15.04.2020.

Quante volte vi siete ritrovati ad ascoltare o cantare Bella ciao? Ecco cinque curiosità che dovete assolutamente sapere su questo canto, tratte dal libro Bella ciao.

1. La sua origine è misteriosa

Ancora oggi la sua origine non è stata chiarita e la sua paternità è incerta.

C’è chi sostiene che derivi da un canto di risaia nato negli anni 30 in Emilia Romagna, chi addirittura che rilsaga da una melodia Yiddish registrata nel 1919 a New York e portata in Europa da un emigrato di ritorno al paese natio alla fine degli anni Venti.

Quel che è storicamente provato è che Bella ciao è un canto nato durante la Resistenza e si è stato diffuso soprattutto nel dopoguerra come canto di liberazione e antifascista.

2. La casa di carta c’entra molto…

Il successo planetario di Bella ciao, oggi, lo si deve alla serie tv spagnola – La casa de papel, storia di una grande rapina andata in onda dal 2017 e vincitrice nel 2018 di un International Emmy Award, che ha avuto grande risonanza non solo in Spagna ma anche in Italia (col titolo La Casa di carta), Argentina, Brasile. La canzone partigiana, cantata in italiano, è presente in alcuni passaggi cruciali, a sottolineare i momenti di felicità e la componente ribellistica del gruppo di rapinatori.3. Lo conoscono (e lo cantano) davvero tutti

Le occasioni per ascoltarla o cantarla sono tante: manifestazioni, comizi, funerali, trasmissioni televisive, film, viaggi della memoria, ma non solo.

Nel 1984, ai funerali di Enrico Berlinguer il canto partigiano risuona più volte, cantato dall’enorme folla e nel 2007 a quelli di Enzo Biagi.

Nel 2010 Woody Allen e dalla sua New Orleans Jazz Band ne suononano una versione al clarinetto all’Auditorium di via della Conciliazione.

Nel 2013 risuona dietro il feretro di Jovanka Broz, la vedova di Tito, che aveva lasciato disposizione che fosse quel canto a risuonare al suo funerale.

Il canto è ormai un successo mondiale, favorito anche dalle interpretazioni di Goran Bregovic e di Manu Chao, dei Chumbawamba, e di tanti altri artisti.

4. È il canto antifascista per antonomasia

Da quando si è diffusa in tutto il mondo, Bella ciao risuona come canto di protesta antifascista in manifestazioni contro i poteri forti e dittatoriali.

Fu intonata durante le manifestazioni turche contro il premier Erdoğan avvenute in Piazza Taksim a Istanbul e in tante altre città turche nel 2013.

È stata cantata anche dal movimento “Occupy Wall Street” nel 2011.

5. È cantato in 40 lingue diverse

Un jingle di rara potenza, che troviamo in numerose versioni e rifacimenti. I più recenti per dimostrare vicinanza e soliderietà agli italiani durante l’emergenza sanitaria covid-19.

25 aprile e "Bella ciao", l'origine della canzone che piace a tutti. Un canto popolare o un canto dei partigiani? Ma questo brano, tradotto in 40 lingue, viene intonato anche allo stadio. Francesco Guidetti il 24 aprile 2021 su quotidiano.net. Bella Ciao? “Ie trasarla me sgangiadomma/Oi sucar ciai sucar ciai sucar ciai ciai ciai/Ie trasarla me sgangiadomma/le castenghere isle coi”. No, tranquilli, non siamo impazziti. Sono solo alcuni versi di Bella Ciao (che non è affatto un canto comunista) in sinto piemontese, variante regionale della lingua usata tra i rom delle Alpi occidentali. E potremmo continuare, magari proponendo la versione in latino. Oppure in curdo, scritta da Ciwan Haco, artista molto popolare da quelle parti. Del resto, non c'è da stupirsi. La canzone della Liberazione è tradotta in 40 lingue. Segno che piace a tutti, a prescindere dal livello culturale e dal profilo professionale. Piace a tutti perché è estremamente 'facile', non a caso i bambini la imparano subito. E non solo il motivo musicale, ma anche il testo. Un esempio: i francesi sono gli unici che la cantano in versione originale (celebre quella di Ivo Livi, più noto come Yves Montand, immortale cantante francese di origini pistoiesi) perché la sentono allegra, anche se sanno benissimo che si tratta di una storia di amore e morte, la storia di un combattente per la libertà che sta per essere ucciso. Insomma, siamo di fronte alla canzone 'popolare' per eccellenza. Il che pone un problema. Se è così popolare chi l'ha inventata? Discorso complesso, lo dimostrano studiosi come Carlo Pestelli Cesare Bermani. C'è chi parla di canti delle mondine, ma la questione è assai controversa. Chi sostiene di averla sentita nelle trincee nella Grande Guerra. Chi, cerca che ti ricerca, ne trova echi a metà Ottocento E' il caso di canti popolari come “Fior di tomba” o “La bevanda sonnifera”: “Noi alter due farem l'amor/e con quel ciao le la mi fa ciao/lei la mi' dì ciao ciao ciao”.

La Liberazione atto di nascita o di fine?

E poi, il grande interrogativo. E' canzone popolare post seconda guerra mondiale? Insomma, i partigiani la cantavano davvero? Molti studiosi scrissero di no, ma proprio Pestelli ci spiega come le arie fossero ben note, a esempio, in Emilia, in particolare nel modenese. E, per restare in questa regione, non va sottovalutato che Bella Ciao (dove la parola 'bella' risuona 18 volte e il 'ciao' 30) fosse il canto preferito da quei partigiani abruzzesi decisivi per la Liberazione di Bologna.

Fatto sta che la cantano (quasi) tutti. Magari senza intenti politico-celebrativi. Come allo stadio (“chi non salta è bianconero oh oh oh”), seppur con significati diversi. A Livorno la curva storicamente rossa intona le strofe per motivi di identità. In Danimarca, tradotta, la sua eco si sente sugli spalti del Brondby IF, football team tra i più famosi (ci giocò anche Michael Laudrup). E anche l'industria dell'intrattenimento l'ha fatta sua: con spettacoli teatrali, con film, con il  rock. Si pensi solo alla versione dei Modena City Ramblers.

La a canzone popolare, nel corso del tempo, è diventata tra i più celebri inni di protesta e resistenza. Ecco la sua storia e la sua diffusione, dalle piazze italiane e di tutto il mondo, fino alle serie tv come "La casa di carta". Da tg24.sky.it. È uno dei canti popolari italiani più famosi al mondo, si è diffuso nel secondo dopoguerra e nel tempo è stato ripreso da più parti, dalla musica folk alle serie tv, passando per tanti movimenti di protesta in giro per il mondo. Di autore sconosciuto, "Bella Ciao" divenne l’inno del movimento partigiano italiano, anche se è diventata celebre e scelta come canto ufficiale soltanto dopo la Resistenza. Ma con la sua prima diffusione, in poco tempo, si conquistò la fama canto di ribellione per eccellenza contro il nazi-fascismo.

UN CANTO POCO CONOSCIUTO DURANTE LA RESISTENZA

Gli studiosi non sono riusciti a individuare un'origine certa per Bella ciao. Nel tempo si sono ipotizzati legami con un canto infantile diffuso nel Nord Italia o una ballata francese del Cinquecento poi assorbita dalle tradizioni popolari orali. La musica e il testo della canzone restano di origine sconosciuta e sono forse la sintesi di melodie diverse.

Il canto si iniziò a diffondere tra le fila del movimento partigiano già durante la Seconda guerra mondiale. Ma all'epoca non era ancora annoverata tra gli inni della Resistenza. Decisamente più popolare era "Fischia il vento", il famoso canto sull’aria della canzone sovietica Katjuša. "Bella Ciao" inizialmente era poco nota e veniva inneggiata solo in alcuni reparti combattenti di Reggio Emilia e del Modenese, nella Brigata Maiella e in altri gruppi partigiani delle Langhe, e non era certo ancora riconosciuta come la canzone simbolo della Resistenza.

IL SUCCESSO NEL DOPOGUERRA

Dopo la Liberazione, l’ufficiale versione partigiana di "Bella ciao" venne però presentata al primo Festival mondiale della gioventù democratica che si tenne a Praga nell'estate del 1947. Al festival si presentarono i giovani partigiani emiliani che parteciparono alla rassegna canora "Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace". Fu così che "Bella Ciao" venne per la prima volta cantata, tradotta e diffusa in tutto il mondo grazie alle numerose delegazioni che partecipavano all'evento.

DALLA PRIMA INCISIONE ALLA TV

Le prime incisioni di "Bella Ciao" per come la conosciamo oggi, si devono a Sandra Mantovani e Fausto Amodei in Italia, e al cantautore francese di origine toscana Yves Montand. La prima volta che è stata cantata in televisione fu nella trasmissione Canzoniere minimo (1963), eseguita da Gaber, Maria Monti e Margot, che la cantarono senza l'ultima strofa: "Questo è il fiore del partigiano morto per la libertà". Fu poi pubblicata in 45 giri da Gaber nel 1965.

LE RIEDIZIONI PIÙ FAMOSE: DALLE BAND FOLK A "LA CASA DI CARTA"

Tra le riedizioni più popolari in Italia ci sono quella del gruppo folk Modena City Ramblers e quella del gruppo ska Banda Bassotti. Una delle più popolari in Europa è invece quella eseguita dal musicista bosniaco Goran Bregović. Tra le ultime e più celebri rievocazioni del canto c’è certamente quella intonata dai protagonisti de "La casa di carta", la serie Netflix che ne ha fatto il pezzo portante della sua colonna sonora.

UN INNO DI PROTESTA

L’inno non ha smesso di essere un canto di battaglia ripreso da diversi movimenti di protesta e spesso impugnato anche dalla politica. "Bella Ciao" è stata intonata dal movimento Occupy Wall Street durante le proteste dell'ottobre 2011, cantata durante le manifestazioni contro Erdoğan avvenute in piazza Taksim a Istanbul nel 2013 e in tanti altri contesti di lotta come quello dell'attuale guerra civile siriana, dove "Bella Ciao" è diventato uno dei canti degli indipendentisti curdi. Questo stesso canto, in Italia, è stato ripreso anche dal movimento delle Sardine, che ne ha fatto il suo inno, da intonare in tutte le piazze italiane in cui si sono svolte le manifestazioni. Nel 2019, il brano Do it Now sulle note di Bella ciao, è stato adottato come inno in occasione delle manifestazioni Fridays for Future.

La vera storia di “Bella ciao”, che non venne mai cantata nella Resistenza. La nostra storia di Dino Messina su Il Corriere della Sera il 10 luglio 2018. Di Luigi Morrone.

Gianpaolo Pansa: «Bella ciao. È una canzone che non è mai stata dei partigiani, come molti credono, però molto popolare». Giorgio Bocca: «Bella ciao … canzone della Resistenza e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto». La voce “ufficiale” e quella “revisionista” della storiografia divulgativa sulla Resistenza si trovano concordi nel riconoscere che “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani.
Ma qual è la verità? «Bella ciao» fu cantata durante la guerra civile? È un prodotto della letteratura della Resistenza o sulla Resistenza, secondo la distinzione a suo tempo operata da Mario Saccenti?
In “Tre uomini in una barca: (per tacer del cane)” di Jerome K. Jerome c’è un gustoso episodio: durante una gita in barca, tre amici si fermano ad un bar, alle cui parete era appesa una teca con una bella trota che pareva imbalsamata. Ogni avventore che entra, racconta ai tre forestieri di aver pescato lui la trota, condendo con mille particolari il racconto della pesca. Alla fine dell’episodio, la teca cade e la trota va in mille pezzi. Era di gesso.
Situazione più o meno simile leggendo le varie ricostruzioni della storia di quello che viene presentato come l’inno dei partigiani. Ogni “testimone oculare” ne racconta una diversa. Lo cantavano i partigiani della Val d’Ossola, anzi no, quelli delle Langhe, oppure no, quelli dell’Emilia, oppure no, quelli della Brigata Maiella. Fu presentata nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”. E così via.
Ed anche sulla storia dell’inno se ne presenta ogni volta una versione diversa.
Negli anni 60 del secolo scorso, fu avvalorata l’ipotesi che si trattasse di un canto delle mondine di inizio XX secolo, a cui “I partigiani” avrebbero cambiato le parole. In effetti, una versione “mondina” di “Bella ciao” esiste, ma quella versione, come vedremo, fa parte dei racconti dei pescatori presunti della trota di Jerome.
Andiamo con ordine. Già sulla melodia, se ne sentono di tutti i colori.È una melodia genovese, no, anzi, una villanella del 500, anzi no, una nenia veneta, anzi no, una canzone popolare dalmata … Tanto che Carlo Pestelli sostiene: «Bella ciao è una canzone gomitolo in cui si intrecciano molti fili di vario colore»
Sul punto, l’unica certezza è che la traccia più antica di una incisione della melodia in questione è del 1919, in un 78 giri del fisarmonicista tzigano Mishka Ziganoff, intitolato “Klezmer-Yiddish swing music”. Il Kezmer è un genere musicale Yiddish in cui confluiscono vari elementi, tra cui la musica popolare slava, perciò l’ipotesi più probabile sull’origine della melodia sia proprio quella della canzone popolare dalmata, come pensa Bocca.
Vediamo, invece, il testo “partigiano”. Quando comparve la prima volta?
Qui s’innestano i racconti “orali” che richiamano alla mente la trota di Jerome. Ognuno la racconta a modo suo. La voce “Bella ciao” su Wikipedia contiene una lunga interlocuzione in cui si racconta di una “scoperta” documentale nell’archivio storico del Canzoniere della Lame che proverebbe la circolazione della canzone tra i partigiani fra l’Appennino Bolognese e l’Appennino Modenese, ma i supervisori dell’enciclopedia online sono stati costretti a sottolineare il passo perché privo di fonte. Non è privo di fonte, è semplicemente falso: nell’archivio citato da Wikipedia non vi è alcuna traccia documentale di “Bella ciao” quale canto partigiano.
Al fine di colmare la lacuna dell’assenza di prove documentali, per retrodatare l’apparizione della canzone partigiana, molti richiamano la “tradizione orale”, che – però – specie se di anni posteriore ai fatti, è la più fallace che possa esistere. Se si va sul Loch Ness, c’è ancora qualcuno che giura di aver visto il “mostro” passeggiare sul lago …Viceversa, non vi è alcuna fonte documentale che attesti che “Bella ciao” sia stata mai cantata dai partigiani durante la guerra. Anzi, vi sono indizi gravi, precisi e concordanti che portano ad escludere tale ipotesi.
Tra i partigiani circolavano fogli con i testi delle canzoni da cantare, ed in nessuno di questi fogli è contenuto il testo di Bella ciao. Si è sostenuto che il canto fosse stato adottato da alcune brigate e che fosse addirittura l’inno della Brigata Maiella. Sta di fatto che nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come “inno”. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: “Inno della lince”.
Mancano – dunque – documenti coevi, ma neanche negli anni dell’immediato dopoguerra si ha traccia di questo canto “partigiano”. Non vi è traccia di Bella ciao in Canta Partigiano edito dalla Panfilo nel 1945. Né conosce Bella ciao la rivista Folklore che nel 1946 dedica ai canti partigiani due numeri, curati da Giulio Mele.
Non c’è Bella ciao nelle varie edizioni del Canzoniere Italiano di Pasolini, che pure contiene una sezione dedicata ai canti partigiani. Nella agiografia della guerra partigiana di Roberto Battaglia, edita nel 1953, vi è ampio spazio al canto partigiano. Non vi è traccia di “Bella ciao”. Neanche nella successiva edizione del 1964, Battaglia, pur ampliando lo spazio dedicato al canto partigiano ed introducendo una corposa bibliografia in merito, fa alcuna menzione di “Bella ciao”. Eppure, il canto era stato già pubblicato. È infatti del 1953 la prima presentazione Bella ciao, sulla Rivista “La Lapa” a cura di Alberto Mario Cirese. Si dovrà aspettare il 1955 perché il canto venga inserito in una raccolta: Canzoni partigiane e democratiche, a cura della commissione giovanile del PSI. Viene poi inserita dall’Unità il 25 aprile 1957 in una breve raccolta di canti partigiani e ripresa lo stesso anno da Canti della Libertà, supplemento al volumetto Patria Indifferente, distribuito ai partecipanti al primo raduno nazionale dei partigiani a Roma. Nel 1960, la Collana del Gallo Grande delle edizioni dell’Avanti, pubblica una vasta antologia di canti partigiani. Il canto viene presentato con il titolo O Bella ciao a p. 148, citando come fonte la raccolta del 1955 dei giovani socialisti di cui si è detto e viene presentata come derivata da un’aria “celebre” della Grande Guerra, che “Durante la Resistenza raggiunse, in poco tempo, grande diffusione”. Nonostante questa enfasi, non c’è Bella ciao nella raccolta di Canti Politici edita da Editori Riuniti nel 1962, in cui sono contenuti ben 62 canti partigiani. Sulla presentazione di Bella ciao nel 1947 a Praga in occasione della rassegna “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace” non vi sono elementi concreti a sostegno. Carlo Pestelli racconta: «A Praga, nel 1947, durante il primo Festival mondiale della gioventù e degli studenti, un gruppo di ex combattenti provenienti dall’Emilia diffuse con successo Bella ciao. In quell’occasione, migliaia di delegati provenienti da settanta Paesi si riunirono nella capitale ceca e alcuni testimoni hanno raccontato che, grazie al battimani corale, Bella ciao s’impose al centro dell’attenzione», omettendo – però – di citare la fonte, onde non si sa da dove tragga la notizia. Sta di fatto, che nei resoconti dell’epoca non si rinviene nulla di tutto ciò: L’Unità dedica alla rassegna l’apertura del 26 luglio 1947, con il titolo “La Capitale della gioventù”. Nessun accenno alla presentazione del canto.
Come si è detto, sul piano documentale, non si ha “traccia” di Bella ciao prima del 1953, momento in cui risulta comunque piuttosto diffusa, visto che da un servizio di Riccardo Longone apparso nella terza pagina dell’Unità del 29 aprile 1953, apprendiamo che all’epoca la canzone è conosciuta in Cina ed in Corea. La incide anche Yves Montand, ma la fortuna arriderà più tardi a questa canzone oggi conosciuta come inno partigiano per antonomasia.
Come dice Bocca, sarà il Festival di Spoleto a consacrarla. Nel 1964, il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi come canto partigiano all’interno dello spettacolo omonimo e presenta Giovanna Daffini, una musicista ex mondina, che canta una versione di “Bella ciao” che descrive una giornata di lavoro delle mondine, sostenendo che è quella la versione “originale” del canto, cui durante la resistenza sarebbero state cambiate le parole adattandole alla lotta partigiana. Le due versioni del canto aprono e chiudono lo spettacolo.
La Daffini aveva presentato la versione “mondina” di Bella ciao nel 1962 a Gianni Bosio e Roberto Leydi, dichiarando di averla sentita dalle mondine emiliane che andavano a lavorare nel vercellese, ed il Nuovo Canzoniere Italiano aveva dato credito a questa versione dei fatti. Sennonché, nel maggio 1965, un tale Vasco Scansiani scrive una lettera all’Unità in cui rivendica la paternità delle parole cantate dalla Daffini, sostenendo di avere scritto lui la versione “mondina” del canto e di averlo consegnato alla Daffini (sua concittadina di Gualtieri) nel 1951. L’Unità, pressata da Gianni Bosio, non pubblica quella lettera, ma si hanno notizie di un “confronto” tra la Daffini e Scansiani in cui la ex mondina avrebbe ammesso di aver ricevuto i versi dal concittadino. Da questo intreccio, parrebbe che la versione “partigiana” avrebbe preceduto quella “mondina”. Nel 1974, salta fuori un altro presunto autore del canto, un ex carabiniere toscano, Rinaldo Salvatori, che in una lettera alle edizioni del Gallo, racconta di averla scritta per una mondina negli anni 30, ma di non averla potuta depositare alla SIAE perché diffidato dalla censura fascista. La contraddittorietà delle testimonianze, l’assenza di fonti documentali prima del 1953, rendono davvero improbabile che il canto fosse intonato durante la guerra civile.Cesare Bermani sostiene che il canto fosse “poco diffuso” durante la Resistenza, onde, rifacendosi ad Hosmawm, assume che nell’immaginario collettivo “Bella ciao” sia diventata l’inno della Resistenza mediante l’invenzione di una tradizione. Sta di fatto che lo stesso Bermani, oltre ad avvalorare l’inattendibile ipotesi che fosse l’inno della Brigata Maiella, da un lato, riconosce che, prima del successo dello spettacolo al Festival di Spoleto «si riteneva, non avendo avuto questo canto una particolare diffusione al Nord durante la Resistenza, che fosse sorto nell’immediato dopoguerra», dall’altro, però, raccoglie svariate testimonianze che attesterebbero una sua larga diffusione durante la guerra civile, smentendo di fatto sé stesso. Il problema è che le testimonianze a cui fa riferimento Bermani per avvalorare l’ipotesi di una diffusione, sia pur “scarsa”, di “Bella ciao” durante la guerra civile, sono contraddittorie e raccolte a distanza di svariati anni dalla fine di essa (la prima è del 1964 …), con una conseguente scarsa attendibilità. Dunque, se di invenzione di una tradizione si tratta, è inventata la sua origine in tempo di guerra. Ritornando al punto di partenza, come sostengono Bocca e Panza, “Bella ciao” non fu mai cantata dai partigiani. Ma il mito di “Bella ciao” come “canto partigiano” è così radicato, da far accompagnare il funerale di Giorgio Bocca proprio con quel canto che egli stesso diceva di non aver mai cantato né sentito cantare durante la lotta partigiana. Perché “Bella ciao”, nonostante tutto, è diventata il simbolo della Resistenza, superando sin da subito i confini nazionali? Perché ha attecchito questa “invenzione della tradizione”? Qualcuno ha sostenuto che il successo di “Bella ciao” deriverebbe dal fatto che non è “targata”, come potrebbe essere “Fischia il vento”, il cui rosso “Sol dell’Avvenir” rende il canto di chiara marca comunista. “Bella ciao”, invece, abbraccerebbe tutte le “facce” della Resistenza (Guerra patriottica di liberazione dall’esercito tedesco invasore; guerra civile contro la dittatura fascista; guerra di classe per l’emancipazione sociale), come individuate da Claudio Pavone.
Ma, probabilmente, ha ragione Gianpaolo Pansa: «(Bella ciao) viene esibita di continuo ogni 25 aprile. Anche a me piace, con quel motivo musicale agile e allegro, che invita a cantarla». Il successo di “Bella ciao” come “inno” di una guerra durante la quale non fu mai cantata, plausibilmente, deriva dalla orecchiabilità del motivo, dalla facilità di memorizzazione del testo, dalla “trovata” del Nuovo Canzoniere di introdurre il battimani. Insomma, dalla sua immediata fruibilità. Dino Messina (1954), lavora dall’86 al “Corriere della sera”, ha cominciato in cronaca di Milano e per diciannove anni nella redazione cultura, dove si è occupato principalmente di storia contemporanea. Ora cura la pagina dei commenti. Nel 1997 ha pubblicato con l’ex partigiano Rosario Bentivegna e l’ex repubblichino Carlo Mazzantini “C’eravamo tanto odiati” (Baldini & Castoldi), nel 2008 da Bompiani il libro di interviste “Salviamo la Costituzione italiana”.

Bella ciao, la vera storia della canzone: "E' nata a Macerata". Lo storico Giacomini ha trovato le prove : "La cantavano i partigiani sul monte San Vicino. Poi fu adottata dalla Brigata Maiella che la portò al Nord". Stefano Marchetti il 17 aprile 2021 su ilrestodelcarlino.it.

"Una mattina mi son svegliato...". Un verso, cinque parole. e l’hai già riconosciuta: "Bella ciao" non è soltanto una canzone, ma un’icona, un inno alla libertà, all’indipendenza. Alla Resistenza. L’hanno cantata Yves Montand, Giorgio Gaber, Anna Identici e Claudio Villa, Milva l’ha interpretata con grinta raffinata, la ascoltiamo nelle manifestazioni di piazza. Già, ma quando è nata "Bella ciao"?

E dove? La notorietà di questo canto popolare è pari al suo ‘mistero’. Numerosi storici hanno dedicato tempo e passione alle ricerche. Di certo si coglie la discendenza da "Fior di tomba", antico canto popolare del Nord, ma non è chiara l’origine della versione partigiana: c’è chi ne ha trovato le radici tra l’Appennino modenese e reggiano, chi l’ha collegata a un canto delle mondariso (anche se la versione ‘della risaia’ è stata scritta nel 1961) e chi ne individua la sorgente in Lazio. Lo storico Cesare Bermani ne ha attribuito la nascita alla Brigata partigiana Maiella che dall’Abruzzo portò il canto più a Nord, per raggiungere l’Emilia.

"Sì, ma in realtà i partigiani della Brigata Maiella conobbero e raccolsero ‘Bella ciao’ nelle Marche, nell’area del Monte San Vicino, fra Cingoli, Apiro e San Vicino, nel Maceratese. ‘Bella ciao’ è nata qui", dice Ruggero Giacomini, storico della Resistenza marchigiana, che con l’editore Castelvecchi ha pubblicato il saggio "Bella ciao. La storia definitiva della canzone partigiana che dalle Marche ha conquistato il mondo".

Giacomini, ma ne è sicuro?

"Certo, era qualche anno che in vari scritti trovavo riferimenti a una storia marchigiana di ‘Bella ciao’. Già nel 2012 avevo dedicato un saggio alla strage nazifascista del 4 maggio 1944 sul Monte Sant’Angelo ad Arcevia e mi ero imbattuto nella testimonianza del generale Ricciardi che ricordava quando da ragazzino, sfollato con la famiglia ad Arcevia, aveva sentito i partigiani entrare in città cantando ‘Bella ciao’. Ma questi ricordi non mi convincevano pienamente". 

Perché?
"Pensavo che potessero essere sovrapposizioni di memorie successive. Inizialmente ritenevo improbabile un’origine marchigiana di ‘Bella ciao’, anche se coglievo molti indizi. Finché nell’archivio dell’Istituto Storia Marche di Ancona ho trovato la prova chiave".

Quale?
"Una lettera scritta il 24 aprile 1946 ad Amato Vittorio Tiraboschi, già comandante della Brigata Garibaldi Marche, da Lydia Stocks, una russa che dopo l’8 settembre 1943 era fuggita da un campo di internamento femminile in provincia di Macerata e aveva raggiunto i partigiani sul monte San Vicino poi, dopo la guerra, si era trasferita in Inghilterra. Ebbene, lei rammenta ‘tutti quei ragazzi che andavano a morire con il canto Bella ciao’: certamente Lydia, che stava in Inghilterra, non poteva essere influenzata. E questo va a confermare la testimonianza di don Otello Malcaccini, parroco di Poggio San Vicino, che nel luglio 1945 dedicò un opuscolo alla feroce rappresaglia tedesca dell’anno precedente: scriveva che in paese nel 1944 i bambini affiancavano i partigiani e cantavano ‘Se io morissi da Patriota, bella ciao, bella ciao’. Dunque già nella primavera del 1944 qui si cantava ‘Bella ciao’".

Che poi ‘passò’ alla Brigata Maiella…

"Esattamente. In terra marchigiana i partigiani della Maiella entrarono il 24 giugno 1944 e nella loro avanzata liberarono vari paesi. Il 18 arrivarono a Poggio, dove sostarono accolti dalla popolazione. Qui adottarono e adattarono ‘Bella ciao’".

Ma perché questa storia non è venuta alla luce prima?

"Perché si parla poco della Resistenza nelle Marche, quando invece è stata fortissima, dura e precoce. È sorprendente che in Italia si conosca poco di queste nostre storie di Resistenza: forse perché noi marchigiani siamo fatti così, ragioniamo per municipalismi, e custodiamo una modestia contadina che non sempre ci fa emergere".

Che storia ha “Bella ciao”. Il canto partigiano più famoso ha origini incerte e una diffusione trasversale, e se ne riparla per una discussa proposta di legge. Il Post il 7 giugno 2021. Lo scorso venerdì ha iniziato l’iter parlamentare una proposta di legge – firmata da parlamentari di PD, Italia Viva, M5S e LeU – per rendere la canzone partigiana Bella ciao l’inno ufficiale della Festa della liberazione dal nazifascismo, che cade ogni 25 aprile. Nel testo presentato i parlamentari motivano la proposta facendo riferimento al «carattere istituzionale» della canzone, rappresentativo dei «valori fondanti della Repubblica», ma in queste ore i partiti più a destra della coalizione di centrodestra – Fratelli d’Italia e Lega – hanno criticato duramente la proposta, accusando i parlamentari che l’hanno voluta di essere «sconnessi con la realtà». In particolare il vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, di Fratelli d’Italia, ha detto: «Bella ciao, non per colpa del testo ma per colpa della sinistra, è diventata una canzone che non copre il gusto di tutti gli italiani: è troppo di sinistra. Non è la canzone dei partigiani, è la canzone solo dei partigiani comunisti». In realtà, Bella ciao è stata a lungo una canzone piuttosto trasversale, come ha ricordato anche Concetto Vecchio su Repubblica portando come esempio il congresso democristiano del 1976 – quello in cui fu eletto segretario Benigno Zaccagnini – che si chiuse proprio con quella canzone. Oggi esistono traduzioni di Bella ciao in moltissime lingue ed è stata suonata e cantata in contesti molti diversi, pur rimanendo tra i canti più tradizionali e amati delle manifestazioni di sinistra italiane e non solo. La storia di Bella ciao è stata indagata da molti storici e storiche, che hanno cercato di ricostruirne le origini e di ripercorrerne le trasformazioni. La genesi della canzone, tuttavia, è ancora dibattuta. Per molti anni è circolata l’ipotesi che Bella ciao discendesse da un canto diffuso tra le mondine nelle risaie durante gli anni Trenta, ma alcuni studi hanno poi stabilito che canti di questo tipo comparvero per la prima volta nelle risaie dagli anni Cinquanta, cioè dopo le prime attestazioni del canto partigiano. Alcuni sostengono che discenda semplicemente da canti regionali del Centro-Nord Italia, e altri ancora – come il giornalista Giampaolo Pansa – sostengono che in realtà i partigiani non la cantarono mai e che diventò popolare solo nel Secondo dopoguerra. Ma molte ricerche e pubblicazioni recenti hanno documentato come Bella ciao fosse diffusa durante la Resistenza, sebbene in misura minore rispetto a Fischia il vento, un’altra canzone partigiana più connotata politicamente (“A conquistare la rossa primavera/Dove sorge il sol dell’avvenir”). Lo storico Stefano Privato, nel suo libro del 2015 Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, scrive che Bella ciao era diffusa perlopiù nelle zone di Reggio Emilia, nell’alto bolognese, sulle Alpi Apuane e nei dintorni di Rieti. Cesare Bermani, invece, che è esperto di storia orale, sostiene che i primi a cantare Bella ciao siano stati i partigiani abruzzesi della Brigata Maiella, e che furono loro a portarla verso nord dove sarebbe stata adottata anche dai partigiani toscani ed emiliani. Il dibattito storico è ancora aperto, perché un recente studio di Ruggero Giacomini, storico marchigiano, racconta come nella zona di Macerata si cantasse già una versione di Bella ciao – con un testo leggermente diverso da quello oggi più diffuso – prima della primavera del 1944, quando cioè la Brigata Maiella entrò nelle Marche liberando varie città e aiutando la Resistenza locale. L’origine del canto partigiano è dunque ancora incerta, e lo stesso si può dire della sua melodia, anche se in molti la fanno risalire a una canzone popolare ebraica (yiddish) suonata da Mishka Ziganoff. Tuttavia non è noto come questo giro di accordi di un musicista rom ucraino naturalizzato statunitense sia diventato la base di Bella ciao. Sicuramente nel corso del Novecento Bella ciao ha acquisito sempre maggiore popolarità, forse proprio in virtù del fatto che era ritenuta più universale rispetto ad altri canti partigiani comunisti. Negli anni l’hanno cantata e suonata, tra gli altri, Milva, Manu Chao, Claudio Villa, Yves Montand, Woody Allen, Tom Waits. Una nuova e ancora più estesa fama gliel’ha portata poi la serie di Netflix La casa di carta, in cui viene usata dal protagonista della serie – il “Professore” – come una specie di richiamo alla rivolta. A seguito della serie, che ha avuto un grande successo in molti paesi del mondo, sono uscite nuove versioni e remix della canzone, tra cui quelle dei DJ Hardwell e Steve Aoki. Già prima della Casa di carta, comunque, Bella ciao era diventata un inno internazionale alla lotta per la libertà, e per questo erano stati fatti già moltissimi adattamenti e traduzioni. Viene usata per esempio dai curdi siriani indipendentisti, che hanno lottato contro l’ISIS e che da decenni combattono contro la Turchia per ottenere l’indipendenza, mentre negli ultimi anni – e anche prima della Casa di carta – si è sentita in manifestazioni di piazza internazionali, dalla Turchia al Libano al Cile. 

Bella ciao: la vera storia e le versioni migliori del canto simbolo della Resistenza. Redazione Notizie Musica il 25 Aprile 2021. La vera storia di Bella Ciao: origini, e significato del canto simbolo della Resistenza partigiana al nazi-fascismo. Da decenni ormai in Italia c’è un canto popolare che è associato alla Giornata della Liberazione dal nazi-fascismo, le Festa del 25 aprile: Bella ciao. Se tutti la conoscono, almeno nel suo ritornello che ha saputo conquistare il mondo, non sono in molti ad aver presente la storia e le origini di un canto ben più antico di quanto si possa credere. Andiamo a riscoprire insieme le origini, ancora oggi piuttosto misteriose, di Bella ciao, e la sua storia fino ai giorni nostri, senza dimenticare di ascoltarne alcune versioni moderne che ancora oggi fanno ballare milioni di persone.

La vera storia di Bella ciao. Stando alle ricostruzioni tradizionali, Bella ciao si farebbe risalire a un canto intonato dalle mondine del vercellese nei primi anni del Novecento, attorno al 1906. In questa prima versione non si cantava certo di resistenze belliche, bensì dello sfiorire della giovinezza causata dal duro lavoro nelle risaie. Da diversi anni però questo collegamento diretto tra Bella ciao e il canto delle mondine non sembra più convincere gli studiosi. L’origine della versione che tutti ancora oggi conosciamo viene fatta risalire addirittura da Costantino Nigra, nella sua opera Canti piemontesi, a una canzone dal titolo Fior di Tomba, il cui tema è l’abbandono da parte del proprio amore. Un brano probabilmente di derivazione francese e risalente al Cinquecento. Quale che sia la sua origine, comunque, negli anni della Resistenza Bella ciao venne recuperata, trasformata nel testo e utilizzata come canto di saluto alle proprie amate da parte dei partigiani in partenza verso quelle battaglie che, spesso, significavano morte onorevole per i propri ideali. Ovviamente nel corso degli anni sono stati in moltissimi a cimentarsi con un canto popolare di tale importanza e bellezza. Oltre ai vari gruppi combat folk / rock di casa nostra, come i Modena City Ramblers, la Banda Bassotti o i Gang, vale la pena ricordare le notevoli versioni di Milva, di Giorgio Gaber e di Goran Bregovic. La prima incisione di Bella ciao risale al 1963, ad opera di Sandra Mantovani e Fausto Amodei. Gaber la incise nel 1967, il ‘reuccio’ Claudio Villa nel 1975.  Ma nel corso degli anni sono tantissimi gli artisti, italiani e non, che ci si sono voluti cimentare. E anche appartenenti ai generi più disparati. Oltre ai già citati, ricordiamo gli Ska-P, Chumbawamba, Tom Waits e Hardwell.

25 aprile, la vera storia di “Bella Ciao”. Dai partigiani a Yves Montand, come è diventata un inno di resistenza. Origine ed evoluzione di una canzone che seppur conosciuta da pochi ai tempi della Liberazione, si è poi trasformata in un simbolo. A ricostruire le tappe è stato Carlo Pestelli, musicista, cantautore e dottore di ricerca in Storia della lingua nel libro per Add Editore “Bella ciao. La canzone della libertà”. Andrea Giambartolomei il 25 aprile 2016 su Il Fatto Quotidiano. Da brano della Resistenza, poco diffuso tra i partigiani, a canzone simbolo della liberazione dal nazifascismo fino un inno internazionale di libertà. La storia di “Bella ciao” ha origini misteriose e controverse, ma anche un straordinario successo mondiale. A riassumerla oggi è Carlo Pestelli, musicista, cantautore e dottore di ricerca in Storia della lingua, autore di “Bella ciao. La canzone della libertà”, libro sintetico, divulgativo e utile, pubblicato da Add editore.Da storico Pestelli recupera le ricerche sui canti popolari dalle quali riemergono le somiglianze di “Bella ciao” con alcuni brani dell’Italia settentrionale ormai quasi dimenticati. “Bella ciao è una sorta di bignami che tiene conto di tante cose. Come dice il ricercatore Enrico Strobino è una ‘canzone gomitolo’ in cui si riuniscono molti fili. Il testo rimanda di sicuro a ‘Fior di tomba’, mentre è più complicato indicare l’origine della musica: c’è ‘Bevanda sonnifera’, ci sono alcune villotte nel Nord ed elementi kletzmer”, spiega a ilfattoquotidiano.it l’autore. Il primo brano, ad esempio, ha due elementi comuni, l’incipit “Una mattina mi son svegliato” e il finale con il fiore sulla tomba con “quelli che passeranno”, elementi che risalgono addirittura a un brano francese diffuso tra il XV e il XVI secolo. Dal secondo brano, invece, prende il ritmo e le ripetizioni. Le note iniziali, inoltre, sono stranamente uguali a un brano kletzmer, “Koilen”, inciso da un ebreo di Odessa a New York nel 1919.Come è arrivata alla seconda guerra mondiale? Innanzitutto va sfatato un mito: a lungo si è ritenuto che “Bella ciao” derivasse dai canti di lavoro delle mondine, le donne che coglieva il riso. “In realtà la versione delle mondine è nata dopo, negli anni Cinquanta”, spiega Pestelli. Citando gli studi di Cesare Bermani, autore de “La ‘vera’ storia di Bella ciao”, il musicista ribadisce che “Bella ciao” non era il brano partigiano più diffuso ed era noto ad alcuni combattenti di Reggio Emilia e del Modenese, ad alcuni componenti della Brigata Maiella che dall’Abruzzo erano arrivati a Bologna e ad altri partigiani delle Langhe. “Durante una presentazione del libro – aggiunge – un’anziana signora mi ha detto che lei nel 1944 cantava un brano del tutto simile nella ‘Repubblica partigiana di Alba”.Soltanto tempo dopo è diventato il brano partigiano per eccellenza. “Accade alla fine degli anni Cinquanta quando si ha la necessità di unificare le varie anime della Resistenza, quella comunista, socialista, cattolica, liberale, monarchica-badogliana – riassume -. Non si poteva usare ‘Fischia il vento’ o altri canti politicizzati. ‘Bella ciao’ slega la Resistenza dalle appartenenze di partito e racconta qualcosa che può essere atemporale”. Ed è per questo che il congresso Dc che elesse come segretario il partigiano Benigno Zaccagnini si concluse sulle note di “Bella ciao”, mentre dopo l’incisione dei Modena City Ramblers e i governi Berlusconi identifica la sinistra.La sua popolarità arriva più tardi. Nel 1963 lo chansonnier francese di origine toscane, Yves Montand (al secolo Ivo Livi) incide il brano che avrà un successo internazionale e, di riflesso, lo riporterà in auge anche in Italia, dove verrà eseguito da Milva e Giorgio Gaber. Poco dopo sono il festival di Spoleto e anche il Nuovo Canzoniere Italiano dell’entomusicologo Roberto Leydi (autore de “La possibile storia di una canzone”), che nel 1964 porta sui palchi italiani l’ex mondina Giovanna Daffini in uno spettacolo chiamato “Bella ciao”. Da lì in poi si è diffusa ovunque: secondo Pestelli il tema della libertà contro un oppressore non precisato lo hanno reso un brano adattabile, adottato dai braccianti messicani in California, dai curdi e dai turchi, dagli ucraini anti-Putin e da quelli filorussi e altri ancora. Ultimo in ordine di tempo, le manifestazioni dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo, pretesto da cui è nata l’idea del libro.  

La vera storia di "Bella Ciao". Vittorio Bobba, 17 Ottobre 2021,su weeklymagazine.it. Da oltre settant’anni non c’è festa, manifestazione o evento in generale dove i trinariciuti di guareschiana memoria non cantino ‘Bella Ciao’ come il Mazzolin di Fiori dei gitanti sul pulmann, per dare un senso corale e di comunanza tra appartenenti alla stessa fede politica. La canzone ‘Bella Ciao’ viene sbandierata dal dopoguerra come simbolo musicale della lotta partigiana. Nulla di più falso.

Nessun partigiano ha mai cantato o conosciuto Bella Ciao prima della fine della guerra.

La canzone è stata scritta nel 1918 dal musicista tzigano di origini ucraine Mishka Ziganoff, e fu incisa nel 1919 dal suo autore con il titolo “Koilen” in un disco a 78 giri dal titolo “Klezmer-Yiddish”

I musicisti girovaghi tzigani suonavano nelle piazze di tutta Europa, certamente anche in Italia, ed è probabile (sebbene le origini siano molto incerte, che questa melodia così orecchiabile sia stata presa in prestito per la versione che circolava tra le mondine fin dagli anni trenta. La si può facilmente trovare su YouTube in varie versioni, da quella famosissima di Milva a quella struggente di Nanni Svampa.

Fatto sta che la stessa Associazione Nazionale Partigiani d’italia (ANPI) riconosce che Bella ciao divenne inno ufficiale della Resistenza soltanto vent’anni dopo la fine della guerra e che: “È diventato un inno soltanto quando già da anni i partigiani avevano consegnato le armi”. La sua conoscenza ha cominciato a diffondersi dopo la prima pubblicazione del testo nel 1953 sulla rivista “La Lapa” ma è diventata celeberrima soltanto dopo il Festival di Spoleto del 1964.

Sebbene più fonti citino Bella Ciao tra i canti della resistenza, è assai improbabile che lo fosse. Lo stesso storico Cesare Bermani (non certo uno studioso di destra) “concorda che la sua diffusione nel periodo della lotta partigiana fosse minima anche se, sempre nella sua opinione e senza portare evidenze documentali che la sostengano, la cantavano anche alcuni reparti combattenti di Reggio Emilia e del modenese, ma non era la canzone simbolo di nessun’altra formazione partigiana. Ragion per cui Cesare Bermani afferma che Bella ciao sia “l’invenzione di una tradizione” e che: «A metà anni Sessanta, il centrosinistra al governo ha puntato su Bella ciao come simbolo per dare una unità posteriore al movimento partigiano»”.

Come è riportato nel testo di Roberto Battaglia Storia della Resistenza italiana (Collana Saggi n. 165, Torino, Einaudi, 1953) era Fischia il vento, sull’aria della famosa canzone popolare sovietica “Katjuša”, che divenne l’inno ufficiale delle Brigate partigiane Garibaldi

Anche il noto giornalista ed ex partigiano nonché storico della lotta partigiana, Giorgio Bocca, affermò pubblicamente: «Bella ciao … canzone della Resistenza, e Giovinezza … canzone del ventennio fascista … Né l’una né l’altra nate dai partigiani o dai fascisti, l’una presa in prestito da un canto dalmata, l’altra dalla goliardia toscana e negli anni diventate gli inni ufficiali o di fatto dell’Italia antifascista e di quella del regime mussoliniano … Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto.»

Dal 1964 Bella Ciao è stata utilizzata dalle varie associazioni partigiane di ogni colore politico, come dimostra il fatto che fu cantata dal congresso della DC all’elezione del segretario ed ex-partigiano Benigno Zaccagnini.

È una canzone popolare divulgata, nelle sue differenti versioni, tra le regioni del Piemonte e Veneto ma alcune tracce sono state individuate anche nel centro Italia. Il perduto amore, la liberazione dal lavoro opprimente e la morte sono le tematiche dei differenti testi tramandati, principalmente, in forma orale. Ed è sulla base del metodo di diffusione l’origine dei costanti cambiamenti di contenuto e significato.

“Alla mattina appena alzata/ o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao/ alla mattina appena alzata/ in risaia mi tocca andar.” È l’incipit di una versione diffusa negli anni Trenta. Non si parla di invasori ma di lavoro in risaia. Nei diversi studi, sul testo, si rintraccia la trasmissione di questo inno nel lavoro dei campi di risaia. Saranno proprio le mondine del nord e centro Italia a tramandare questo inno di liberazione. “ Ma verrà un giorno che tutte quante/ o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao/ ma verrà un giorno che tutte quante/ lavoreremo in libertà.”

Con Bella Ciao è narrato anche l’amore in cui, anziché raccontare dell’immagine del partigiano, quel “fiore” indica Rosettina o Rosina “che l’è morta per l’amor.” Molteplici sono le fonti che raccontano e diffondono il motivetto di Bella Ciao, già dalla metà del XIX secolo. Qualche traccia si ritrova anche tra i testi antichi di canti popolari francesi, forse dovuto alla vicinanza con il Piemonte.

Bella Ciao diventato inno della sinistra: ma le origini sono altre Di cosa parleremo. Da lucascialo.it. il 10 Giugno 2019.  “Bella Ciao” è ormai un inno cantato in ogni manifestazione organizzata dall’universo della sinistra italiana. Dalle manifestazioni sindacali, al 25 aprile, passando per il Primo maggio, il 2 giugno, Pasqua, Natale e Ferragosto. Ad ogni occasione e ovunque ci siano bandiere rosse, ecco che parte la canzoncina dei partigiani. Bella Ciao è una canzone che dovrebbe unire tutto il paese e tutti i partiti democratici, visto che è stata ideata durante la Seconda guerra mondiale e nel corso della ribellione dal nazi-fascismo. Quindi, dovrebbe appartenere non solo ai partiti di sinistra, ma anche a quelli di centro e quelli di destra. Intendendo per essi però quelli liberali e ovviamente non post-fascisti. Invece, Bella ciao è diventato un inno che divide, di esclusiva matrice di sinistra. Come se ci avesse posto il copyright. Eppure le origini di questo inno sono altre. A spiegare bene le origini di Bella Ciao è un articolo de Il Gazzettino, scritto dal Direttore Roberto Papetti in risposta a un lettore. Bella Ciao non è stata la canzone della Resistenza italiana. Come si ricorda anche in uno dei più bei libri su quel periodo, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, le brigate partigiane, in larga parte egemonizzate dal Pci, avevano eletto a loro inno altri testi, primo fra tutti Fischia il vento. Bella Ciao non faceva parte del repertorio canoro della sinistra e non ne farà parte per diversi decenni nel Dopoguerra. Come riporta Wikipedia, la Bella ciao partigiana riprendeva nella parte testuale la struttura del canto Fior di tomba, mentre sia musicalmente che nella struttura dell’iterazione (il “ciao” ripetuto) derivava da un canto infantile diffuso in tutto il nord, La me nòna l’è vecchierella (già rilevato da Roberto Leydi). Un’altra possibile influenza può essere stata quella di una ballata francese del Cinquecento, che seppur mutata leggermente ad ogni passaggio geografico, sarebbe stata assorbita dapprima nella tradizione piemontese con il titolo di Là daré d’côla môntagna, poi in quella trentina con il titolo di Il fiore di Teresina, poi in quella veneta con il titolo Stamattina mi sono alzata, successivamente nei canti delle mondariso e infine in quelli dei partigiani. Il legame con la Bella ciao delle mondine è invece un falso storico. Nei cortei del 25 aprile era cantata solo nei settori in cui sfilavano i partigiani bianchi e il segretario della Dc Benigno Zaccagnini la faceva suonare alla conclusione dei lavori delle assisi di partito. Allora sotto le bandiere rosse riecheggiavano altre note. Bella Ciao perché inno di sinistra La svolta avviene nel 2002 quando Michele Santoro in una puntata della trasmissione Sciuscià la intona polemicamente all’inizio di una puntata dedicata alla libertà di informazione, dopo le dure dichiarazioni di Berlusconi contro lo stesso Santoro, Biagi e Luttazzi (il cosiddetto editto bulgaro). Da quel momento il destino di Bella Ciao cambia. La canzone diventa prima l’inno semi-ufficiale dei cosidetti girotondi ( il movimento antiberlusconiano guidato da Nanni Moretti), poi assurge al ruolo di canzone prediletta della sinistra post-comunista, rimasta orfana di melodie storiche come Fischia al Vento e Bandiera Rossa.

Ancora su "Bella Ciao" e lo strano destino di una canzone "unitaria" che continua a dividere.

LETTERE AL DIRETTORE Sabato 27 Aprile 2019 su ilgazzettino.it

Egregio Direttore,

perché demonizzare Bella ciao? Da un po' di anni a questa parte, in occasione del 25 Aprile, è sempre la solita solfa. Io ho avuto modo di cantarlo fin da fanciullo in ogni uscita di gruppo, durante le scampagnate o le gite in montagna e posso garantire che non frequentavo gruppi legati a fazioni di sinistra, bensì religiosi o parrocchiali. Più tardi, quando ho avuto modo di essere fra gli organizzatori delle sfilate mestrine del 25 aprile, dove Anpi e Fivl sventolavano assieme le loro bandiere, nessuno s'è mai peritato di mettere all'indice questo canto tradizionale. Oggi si adduce a pretesto che è stato strumentalizzato e perfino un sindaco arriva a togliersi la fascia per poterlo cantare. Ridicolo! Se è per quello anche Papaveri e papere fu tacciato di pesanti sottintesi politici, eppure non s'è smesso di cantarlo. Oggi si trasmette di tutto e si fa satira esplicita, più o meno di parte, attraverso le canzoni, ma nessuno si sogna di zittirle. La polemica invece resiste suBella ciao, che alla fin fine è la più unitaria. Chissà perché. Plinio Borghi Mestre

Caro lettore, il destino di Bella Ciao è emblematico dei paradossi in cui la storia del nostro Paese si trova spesso imbrigliata. Bella Ciao non è stata la canzone della Resistenza italiana. Come si ricorda anche in uno dei più bei libri su quel periodo, Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, le brigate partigiane, in larga parte egemonizzate dal Pci, avevano eletto a loro inno altri testi, primo fra tutti Fischia il vento. Bella Ciao non faceva parte del repertorio canoro della sinistra e non ne farà parte per diversi decenni nel Dopoguerra. Nei cortei del 25 aprile era cantata solo nei settori in cui sfilavano i partigiani bianchi e il segretario della Dc Benigno Zaccagnini la faceva suonare alla conclusione dei lavori delle assisi di partito. Allora sotto le bandiere rosse riecheggiavano altre note. La svolta avviene nel 2002 quando Michele Santoro in una puntata della trasmissione Sciuscià la intona polemicamente all'inizio di una puntata dedicata alla libertà di informazione, dopo le dure dichiarazioni di Berlusconi contro lo stesso Santoro, Biagi e Luttazzi. Da quel momento il destino di Bella Ciao cambia. La canzone diventa prima l'inno semi-ufficiale dei cosidetti girotondi( il movimento anti-berlusconiano guidato da Nanni Moretti), poi assurge al ruolo di canzone prediletta della sinistra post-comunista, rimasta orfana di melodie storiche come Fischia al Vento e Bandiera Rossa. Personalmente credo che Bella Ciao mantenga tutto il suo valore storico, la sua attualità e la sua forza di canzone della memoria e della libertà. Ma, a torto o a ragione, qualcuno ritiene che una parte politica si sia appropriata di questa melodia e, quindi, non la sente più come propria. O non la vive come un inno unitario.

«Bella ciao» non sia obbligatoria ma non è un inno comunista. Aldo Cazzullo il 14/6/2021 su Il Corriere della Sera. Caro Aldo Cazzullo, per gli uomini del Pd che annaspano in cerca di idee, l’appiglio estremo è da 75 anni sempre lo stesso: l’antifascismo. Quando si tratta di frenare l’emorragia di consensi, la retorica antifascista e le note di «Bella ciao», inno dei partigiani rossi, devono ricordare a tutti da che parte sta la vera democrazia. Peccato che questo sia un falso storico. I partigiani che combatterono il fascismo furono i repubblicani, i liberali, i militari fedeli alla monarchia, i cattolici, gli azionisti seguaci di Pertini e Salvemini... I partigiani comunisti combatterono la dittatura fascista non per la libertà, ma per instaurare un’altra dittatura: la loro. Raffaele Laurenzi, Milano

Caro Raffaele, Non sono d’accordo con lei. I partigiani non avevano bollini, tanto meno rossi. Certo, c’erano i comunisti, i socialisti, i monarchici, i cattolici, gli azionisti. Ma la maggioranza erano giovani senza partito, che anzi dopo vent’anni di fascismo non sapevano neppure cosa fossero i partiti, e semplicemente rifiutarono di obbedire ai bandi Graziani, e quindi di combattere per Hitler e Mussolini. Sono certo che questo discorso vale pure per molti resistenti delle brigate Garibaldi. Detto questo, certo, c’erano i comunisti. Qualcuno pensava di costruire una democrazia. Molti sognavano di fare la rivoluzione come in Russia. Ma questo è un discorso perfetto per le polemiche politiche di oggi, magari per giustificare chi invece combatté per Hitler e Mussolini. All’epoca l’urgenza era di stabilire da quale parte stare: con chi mandava gli ebrei italiani nei campi di sterminio, o contro. Questo non toglie un’oncia alla gravità dei delitti commessi da partigiani comunisti nel triangolo della morte emiliano e altrove. Quanto a «Bella ciao», imporre di cantarla per legge è sbagliato. Ma non è una canzone comunista. È una canzone che parla di libertà. Ad Alba, città dove la Dc aveva il 60 per cento, il secondo partito era il Pli e il terzo il Pri, si cantava «Bella ciao» senza pensare di fare una cosa di sinistra. E comunque Giorgio Bocca raccontava di aver fatto la guerra di liberazione per quasi venti mesi senza mai intonarla.

Bella ciao a norma di legge. Marcello Veneziani l'8 giugno 2021. È inutile girarci sopra: imporre Bella Ciao a norma di legge nelle cerimonie pubbliche è fatto per spaccare, creare un fossato di odio e di rancore, andare contro quella metà o forse più del Paese e dei partiti che lo rappresentano e che vogliono lasciare alle spalle dopo quasi ottant’anni la polemica antiquata e aspra sul fascismo e sull’antifascismo. Un conto è il giudizio storico, un altro è l’uso militante e propagandistico. E qui si tratta di uso politico e fazioso, moralista e vessatorio di un canto che peraltro non nacque per la guerra partigiana e divenne solo nelle manifestazioni politiche del dopoguerra l’inno della Liberazione. Condivido quel che ha scritto, con finalità diverse dalle mie, anzi per amore di Bella Ciao, Maurizio Maggiani su la Repubblica, che ha visto nella proposta di istituire il canto a norma di legge, una forma di vampirismo, compiuto da “dissanguatori di ideali e di memorie”, per ridare vita a smorte e svuotate cerimonie. Chiunque ne senta la voglia, nelle manifestazioni politiche, civili, sindacali, di intonare quel canto è liberissimo di farlo. Ma imporlo a tutti, per legge, è un modo per rendere odioso e divisivo un canto che ha una sua genuina freschezza. Anche se oggi dire Bella Ciao potrebbe essere inteso come una molestia sessuale secondo il catechismo del catcalling… MV, 8 giugno 2021

“Bella Ciao” inno ufficiale per manipolare la storia: l’egemonia comunista non va mai in pensione. Marzio Dalla Casta lunedì 7 Giugno 2021 su Il Secolo d'Italia.  Ha ragione chi dice che la sinistra è ridotta proprio a mal partito se costretta a risollevarsi con una canzone, in questo caso Bella Ciao. Prove di intempestività e di siderale distanza dalle reali esigenze di quelle che una volta indica come «masse popolari» i compagni ne offrono da tempo. L’avvento di Enrico Letta ne ha solo intensificato la frequenza, come dimostrano – una dopo l’altra – le proposte su ius soliomotransfobia e voto ai 16enni. A queste va ora ad aggiungersi la più recente, tesa a trasformare Bella Ciao in una sorta di vice-inno nazionale da eseguire obbligatoriamente il 25 Aprile. Una questione di lana caprina, dal momento che quella canzone di dubbia origine è già un prezzemolo per ogni minestra.

Bertinotti: «Bella Ciao si è ritualizzata». Come ha paventato Fausto Bertinotti, si è «ritualizzata» perdendo fatalmente la propria energia mobilitante. Ma se è così (e così è) perché renderla addirittura ufficiale? Semplice, perché se dipendesse dagli ex-post e neocomunisti, la storia d’Italia comincerebbe solo nel 1945, il suo mito fondante sarebbe unicamente la Resistenza e l’unico patriottismo ammesso quello costituzionale. Nel frattempo, sono riusciti ad equiparare antifascismo e democrazia. Ne avevano bisogno come l’aria visto che prendevano ordini e rubli da una potenza straniera, nemica e totalitaria come l’Unione Sovietica. L’antifascismo, dunque, come grande lavacro dei crimini comunisti commessi ad ogni latitudine, Italia compresa come ben sa chi ha raccontato gli orrori consumati a guerra finita nel cosiddetto Triangolo della morte.

La Resistenza al posto del Risorgimento. Il resto, invece, è riuscito a metà: il Risorgimento ha cessato di essere mito fondante, come dimostra il pullulare di leghe, al Nord come al Sud, ma il trapianto della Resistenza no. Risultato: siamo immersi in una sorta di Striscia di Gaza della memoria collettiva. Vegetiamo in una terra di nessuno dove tutto è in discussione, dall’unità nazionale all’inno nazionale. Messa così, anche l’ufficializzazione di Bella Ciao ha un suo perché. Conferma che la sinistra italiana è ancora a trazione comunista, almeno sotto il profilo culturale. Tutto da dimostrare, invece, la redditività elettorale dell’operazione. Anzi, è più che probabile che la promozione della canzone partigiana a vice-inno non riuscirà a sventare il fiasco annunciato dai sondaggi. In tal caso, servirà a digerire la sconfitta. Perché, come si dice: “Canta che ti passa“.

Sorpresa: Bella Ciao non è né un canto partigiano né un inno comunista. Adele Sirocchi martedì 23 Aprile 2019 su Il Secolo d'Italia. Con il 25 aprile in arrivo, siamo destinati ad ascoltare nuovamente le note e le parole di Bella Ciao, spacciata erroneamente come la canzone della Resistenza: un mito sulla cui costruzione retorica vale la pena di soffermarsi. Inno global è ormai Bella Ciao, da noi colonna sonora di ogni corteo di sinistra, di ogni contestazione contro i fantasmi del fascismo. La si cantò in chiesa per don Gallo, la intonò Santoro in tv contro Berlusconi, l’hanno insegnata ai migranti contro Salvini. Val la pena allora di andare a vedere da dove nasce questo “mito” resistenziale canoro. Ma davvero i partigiani cantavano quella canzone? Mica tanto vero, visto che era una canzone delle mondine, le cui parole vennero adattate a una melodia yddish registrata agli inizi del ‘900 a New York  da un musicista ucraino. Fa testo di ciò il video in cui Laura Boldrini riceve a Montecitorio un gruppo di ex partigiani e canta con loro Bella Ciao. Mentre uno di loro canta un altro contesta la canzone e afferma che i partigiani cantavano Fischia il vento.Ma le vie della musica sono strane e contorte: ed ecco che quella canzone diviene prima canto delle mondine e poi viene rielaborata dai partigiani ma in zone circoscritte: Alto Bolognese, Montefiorino, Reggiano, Reatino. Insomma erano troppo pochi a cantarla per poterla considerare davvero la canzone-simbolo della Resistenza. Nella versione del canto delle mondine la fa conoscere Giovanna Daffini all’inizio degli anni Sessanta: “Questa mattina mi sono alzata/ o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao/ sta mattina, appena alzata/ in risaia mi tocca andar/ e tra gli insetti e le zanzare/ un dur lavor mi tocca far…”. Nel canzoniere resistenziale spiccavano altri inni. Uno era sicuramente “Bandiera rossa“, un altro “Fischia il vento“, inno ufficiale delle Brigate Garibaldi, un altro era La Badoglieide, composta nella primavera del 1944 da un gruppo di partigiani piemontesi di Giustizia e Libertà. A decretare la fortuna di Bella Ciao, come scrive lo storico Stefano Pivato, “è il clima politico d’inizio anni Sessanta. Nel periodo che precede e accompagna la costituzione dei primi governi di centro-sinistra e si afferma l’idea della Repubblica nata dalla Resistenza, una canzone come Fischia il vento, contenente espliciti richiami all’ideologia comunista  e oltre tutto costruita sulla melodia di un canto russo, male si presta a interpretare il clima di concordia e di unità di intenti che si intende allora stabilire intorno alla memoria della Resistenza”. (S.Pivato, Bella Ciao. Canto e politica nella storia d’Italia, Laterza, 2005).

Insomma spiace davvero per i  cultori di Bella Ciao, ma trattavasi di una canzonetta delle mondine assurta a inno della Resistenza sull’onda del compromesso storico e sulla scia di un annacquamento delle spinte comuniste insite nel filone maggioritario della lotta partigiana. Trattandosi di canzonetta orecchiabile non mancarono da subito, sempre negli anni Sessanta, le parodie irriverenti, tra le quali questa che riportiamo di seguito e che è sempre citata da Pivato: “Alla mattina quando mi alzo/ io meno il ca meno il ca meno il ca parapappapà/Alla mattina quando mi alzo/io meno il cane a passeggiar…”. Una nota di colore con la quale concludiamo questo excursus sulla vera origine di Bella Ciao.

Lo scrittore Maggiani: voi di sinistra, giù le mani da Bella ciao. Siete come i vampiri, succhiate la vita…Adele Sirocchi l'8 giugno 2021 su Il Secolo d'Italia. Lo scrittore Maurizio Maggiani non vuole che Bella ciao diventi un inno istituzionale. E’ una voce che, dalla sinistra non partitica, si leva contro quella parlamentarizzata che vuole fare di Bella ciao la propria canzone di bandiera, con pari dignità dell’inno nazionale. Maggiani, autore del pluripremiato romanzo “Il coraggio del pettirosso“, su Repubblica si oppone a questo progetto, dietro il quale – lo dice senza mezzi termini – c’è puzza di putrefazione. E già perché la sinistra svuota ogni cosa della sua sostanza, condannandola alla morte. Siete come vampiri, è l’accusa che lo scrittore rivolge ai vari “onorevoli Fragomeli, Verini, Boldrini e Fiano, Stumpo, Anzaldi e Sarli“. A quelli, insomma, che su Bella ciao hanno costruito una bella e propagandistica proposta di legge. Ma quel canto, ricorda Maggiani, è un canto libero liberamente scelto. Se lo si impone dall’alto, non ha più senso. E la sinistra, le cui piazze sono vuote da anni, vorrebbe ora anche spegnere quelle note che sono l’unica cosa che ancora vive da quelle parti. Cosa volete fare di Bella ciao? Tuona Maggiani. Volete dissanguarla, ucciderla, essiccarla. Volete fare – continua – “quello che la sinistra, quell’ineffabile, fantasmatico resto mortale che voi egregiamente rappresentate dagli alti scanni della Repubblica, ha fatto di tutto ciò che ha toccato e avocato a sé di espressione di popolo, di valore fondante, di liberazione; gli avete succhiato la sostanza, lo avete svuotato e diseccato. Se posso permettermi, il vostro è il lavoro del vampiro, dissanguatori di ideali, di memorie, di nobiltà. Esangui imbelli al cospetto della storia e delle battaglie che impone, questo potere vi è rimasto intatto, tutto quello che toccate si dissolve in noncurante rito, in vuoto ablare”. Una prosa adamantina che inchioda la sinistra, “fantasmatico resto mortale”, alle sue responsabilità storiche. E no, continua Maggiani, Bella ciao non è adatta a diventare un inno. Perché – finalmente qualcuno che lo ricorda! – non è una canzone comunista, e neanche troppo partigiana.  Bella ciao – scrive Maggiani – “non è nemmeno comunista, come biascicano gli analfabeti; in effetti non è nemmeno un granché partigiana, i partigiani, gli uomini e le donne combattenti, nella battaglia avevano bisogno di cantare qualcosa di più forte, non amavano pensare di farsi seppellire sotto un bel fior, ma, nell’infausto caso, di promettere dura vendetta sarà del partigian”.

E allora, conclude Maggiani, lasciate stare Bella ciao. Cari di sinistra – esorta – “non lordate dunque le vostre mani del sangue innocente di Bella ciao“.

25 aprile sempre più rosso: la sinistra ci impone Bella ciao. Matteo Carnieletto il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. La sinistra propone di rendere obbligatoria Bella ciao durante il 25 aprile. Ma si dimentica che questo inno non fu mai cantato durante la Resistenza e che l'Italia la liberarono gli americani. La proposta di legge depositata alla Camera dai deputati di Partito democratico, Italia Viva, Movimento 5 Stelle e Liberi e Uguali è semplice: far diventare Bella ciao l'inno istituzionale del 25 aprile, da cantare subito dopo quello di Mameli. Lo riporta l'Adnkronos. In questo modo "si intende riconoscere finalmente l'evidente carattere istituzionale a un inno che è espressione popolare – vissuta e pur sempre in continua evoluzione rispetto ai diversi momenti storici – dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". E ancora: "Nello specifico, pertanto, con l’articolo 1, comma 1, si prevede il riconoscimento da parte della Repubblica della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. Il comma 2 dello stesso articolo stabilisce, inoltre, che la canzone Bella ciao sia eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". E questo è tutto. Il problema è che i firmatari di questa proposta di legge dimenticano una cosa importante: Bella ciao non fu mai cantata durante la Resistenza. Giorgio Bocca, non certo un pericoloso reazionario, disse: "Nei venti mesi della guerra partigiana non ho mai sentito cantare Bella ciao, è stata un’invenzione del Festival di Spoleto". Il riferimento è a quando, nel 1964, il Nuovo canzoniere italiano propose l'inno partigiano al Festival dei due mondi, consacrandolo così in maniera definitiva. Certo, c'è chi sostiene, come Alessandro Portelli sul Manifesto, che questa canzone fosse l'inno della Brigata Maiella e che sarebbe stata cantata fin dal 1944. Ma la realtà è un'altra, come ricorda Il Corriere della Sera: "Nel libro autobiografico di Nicola Troilo, figlio di Ettore, fondatore della brigata, c’è spazio anche per le canzoni che venivano cantate, ma nessun cenno a Bella ciao, tanto meno sella sua eventuale adozione come 'inno'. Anzi, dal diario di Donato Ricchiuti, componente della Brigata Maiella caduto in guerra il 1° aprile 1944, si apprende che fu proprio lui a comporre l’inno della Brigata: Inno della lince". I canti dei partigiani erano altri, come Fischia il vento, per esempio. Oppure Risaia. Ma Bella ciao proprio no. Ricorda infatti l'AdnKronos che questo inno non compare in alcun testo antecedente gli anni Cinquanta: "Nella relazione vengono anche presentati alcune esempi di raccolte di canzoni (come il Canta partigiano edito da Panfilo a Cuneo nel 1945 e le varie edizioni del Canzoniere italiano di Pasolini) o riviste (come Folklore nel 1946) nei quali il testo di Bella ciao non compare mai. La prima apparizione è nel 1953, sulla rivista La Lapa di Alberto Mario Cirese, per poi essere inserita, proprio il 25 aprile del 1957, in una breve raccolta di canti partigiani pubblicati dal quotidiano L'Unità".

Chi ha liberato l'Italia. Presentando questa proposta di legge, Laura Boldrini ha affermato che Bella ciao ci ricorda che "la resistenza non fu di parte, ma un moto di popolo, che coinvolse tutti coloro che non ritenevano più possibile vivere sotto una dittatura: un moto eterogeneo. Fecero parte della resistenza comunisti, socialisti, azionisti, liberali anarchici quindi essendo Bella Ciao un canto della Resistenza ed essendo stata questa un moto di popolo è giusto che diventi un inno istituzionale, espressione popolare dei più alti valori alla base della nascita della Repubblica". Non fu così. La resistenza non fu affatto un moto di popolo. Non si schierarono milioni di italiani contro poche migliaia di fascisti. Entrambi i fenomeni - sia quello della Resistenza sia quello della Repubblica sociale - mossero poche centinaia di migliaia di persone, come ricorda Chiara Colombini in Anche i partigiani però... (Laterza). Alla prima aderirono poco più di 130mila persone, alla seconda poco più di 160mila. In mezzo oltre 40 milioni di italiani. Non si registrò dunque nessun movimento di popolo né dall'una né dall'altra parte. Ha però ragione la Boldrini quando afferma che la Resistenza fu un fenomeno eterogeneo in cui erano presenti diverse anime. Tra queste, quella certamente prevalente era quella comunista che aveva un obiettivo molto chiaro: sostituire una dittatura con un'altra. Lo aveva capito bene Guido Alberto Pasolini, fratello di Pier Paolo, che dopo aver combattuto i tedeschi fu ammazzato dai partigiani rossi: "I commissari garibaldini (la notizia ci giunge da parte non controllata) hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell'Italia". Se ci fermiamo ai numeri, poi, notiamo che essi sono impietosi. Li ricorda Maurizio Stefanini sul Foglio: "Il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di 'autonomi': bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che 'nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati'. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, 'sono la metà o poco meno'". Nota giustamente Stefanini che il "dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni!". Basterebbero questi numeri a far tornare la Resistenza nella giusta collocazione storica. Ma non è così. Scegliere Bella ciao come inno ufficiale del 25 aprile significa renderlo ancora di più di una parte soltanto, a discapito di tutte le altre. Ma forse è proprio quello che certe forze politiche vogliono. Non a caso, Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti ancora degni di questo nome, ha parlato di "antifascismo prêt-à-porter", che ha come fine quello di richiamare le masse (o almeno così si spera) prima delle elezioni. Difficile dargli torto...

Matteo Carnieletto. Entro nella redazione de ilGiornale.it nel dicembre del 2014 e, qualche anno dopo, divento il responsabile del sito de Gli Occhi della Guerra, oggi InsideOver. Da sempre appassionato di politica estera, ho scritto insieme ad Andrea Indini Isis segreto, Sangue...

Dalle toghe rosse ai preti rossi, la litanìa è sempre la stessa: una canzone mono-nota, scrive Girolamo Fragalà su “Il Secolo d’Italia”. Dalle toghe rosse alle tonache rosse. Le pecorelle non sono tutte uguali, la carità cristiana è lasciata ai posteri (e non per l’ardua sentenza), del perdono manco a parlarne, si prega solo per alcune anime e si spera che le altre vadano dritte all’inferno, avvolte nelle fiamme. Di preti che si mettono in mostra per la loro fede più comunista che cattolica ne stanno uscendo parecchi. Militanti col pugno chiuso e poco moderati. L’ultimo in ordine cronologico è don Paolo Farinella, sacerdote della Diocesi di Genova, che è stato ospite del programma di Radio2 Un giorno da pecora. Contro chi si è scagliato? Naturalmente contro Berlusconi che «fa soldi solo con la corruzione e se ne frega della fede». Roba quasi da querela. Come se non bastasse, il “don” ha aggiunto: «Se lui non fosse così vigliacco da scappare dai tribunali e venisse fuori che è colpevole, deve andare dentro». Il tutto mentre continuano a girare a mille, sul web, le performance di don Gallo, sacerdote antagonista, fede vendoliana. Record di visualizzazioni per il video in cui si vede il prete, nella Chiesa di San Benedetto a Genova, sventolare il paramento sacro che aveva sulla tonaca come se fosse una bandiera rossa e cantare Bella Ciao. La gustosa scena è avvenuta alla fine della Messa, davanti ai fedeli. Don Gallo nel 2009 partecipò al Genova Pride e ultimamente ha dichiarato che «sarebbe magnifico avere un Papa gay». Facendo un piccolo salto indietro, ricordiamo don Giorgio, il parroco di Monte di Rovagnate, che creò un mare di polemiche per una sua frase («prego il Padreterno che mandi un bell’ictus a Berlusconi facendolo rimanere secco») che nulla aveva di cattolico. Tutti “figli” di don Vitaliano, che tutti ricordano come il prete no-global: insieme con Vittorio Agnoletto (ex parlamentare di Rifondazione comunista) piombò nella sala stampa del Festival di Sanremo munito di bandiere pacifiste. Tra chi insulta,  chi augura gli ictus e chi canta Bella Ciao sull’altare, l’unica vera vittima è la Chiesa. Che finisce per perdere credibilità a causa delle tonache rosse. Proprio ciò che sta accadendo alla magistratura a causa delle toghe rosse.

Tre domande per Diego Fusaro. Giordano Di Fiore de Il Riformista l'1 Giugno 2020. Tre domande per Diego Fusaro, filosofo e saggista. Dopo la positiva esperienza condotta con Marco Rizzo, ho pensato di rivolgere le stesse identiche domande al noto opinionista controcorrente. In verità, in un primo momento, avrei voluto, in qualche modo, riadattare le domande: sarei partito dalla relazione tra Kant e il potere, per poi arrivare a definire meglio il ruolo della democrazia moderna. Infine, mi sono convinto che sarebbe stato più proficuo per il lettore essere meno accomodanti e portare avanti il nostro dibattito sulla libertà, sulla teoria dell’emergenza permanente, sul ruolo ambiguo degli schieramenti politici. Il presupposto, come già nell’introduzione a Rizzo, è quello di provare, nel nostro piccolo, a dare voce a chi, oggettivamente, in questo momento, ne ha poca, con la consapevolezza che il pensiero critico, qualunque sia la nostra opinione, sia il vero vaccino ai mali della democrazia. Buona lettura.

Dal crollo del muro in avanti, trovo che in Italia si sia creata, nel popolo di sinistra, una certa confusione. Gli avversari politici utilizzano l’espressione “buonismo”, in senso dispregiativo. Qualcosa di vero, tuttavia, sembra esserci: quando si propongono sanatorie a tempo determinato e quando si fa finta di appellarsi alla solidarietà per, in realtà, legittimare la schiavitù, si fa finta di essere buoni, ma si fa il gioco del cosiddetto “potere”. Lei cosa ne pensa?

D.F.     Si, confusione è una parola molto garbata e neutra: io la definirei meglio metamorfosi kafkiana delle sinistre. Il mio maestro soleva definirla il serpentone metamorfico pci pds ds pd: dal grande Antonio Gramsci, al bardo cosmopolita Roberto Saviano. Più che di confusione, parlerei di una normalizzazione integrale delle sinistre, le quali, da polo di rappresentanza del lavoro, sono diventate il polo di rappresentanza del capitale cosmopolita. Peggio ancora, sembrano passare larga parte del loro tempo a demonizzare le richieste di emancipazione delle classi lavoratrici, che chiedono, evidentemente, salari più dignitosi e maggior protezione da parte dello Stato. Confusione, dunque, è un’espressione vera, e, al tempo stesso, fin troppo buona: non buonista, ma molto buona, sicuramente. Le sinistre sono diventate l’ala culturale della destra finanziaria capitalistica: come ho spiegato nel mio libro “Pensare altrimenti”, c’è una sorta di sinergia tra la destra liberista del danaro e la sinistra libertaria del costume, che sono, per cosi dire, la doppia apertura alare del globalismo capitalistico. La destra del danaro vuole un unico mondo ridotto a mercato, senza stati nazionali sovrani che possano limitare l’economia. La sinistra, anziché valorizzare gli stati nazionali e la lotta contro l’economia, definisce gli stati nazionali fascisti e nazisti, in quanto tali. La destra del danaro vuole ancora produrre una sorta di globalizzazione senza luoghi e la sinistra l’appoggia in pieno. Ciò che la destra vuole, la sinistra legittima: questo è il paradosso del nuovo ordine totalitario del capitalismo.

Ho trovato molto singolare che, durante il cosiddetto lockdown, molte persone si siano ritrovate a cantare Bella Ciao, ma non per strada, sul balcone! Qualcosa del genere è successo anche per la Festa dei Lavoratori. In pratica, molte persone che credono di riconoscersi nei valori della Libertà e della Resistenza hanno, poi, sposato la linea dell’obbedienza totale al capo. Come mai è avvenuto tutto questo?

D.F.     Si, il cantare Bella Ciao, nel lockdown, dietro le sbarre dei propri balconi o inneggiare, come accaduto, ai droni, alla tracciabilità e alla delazione è un vero e proprio rovesciamento dialettico. Per dirla con Hegel, come la virtù illuministica si capovolge nel terrore giacobino, cosi la società aperta si capovolge in lockdown. E Bella Ciao si capovolge nell’elogio dell’esercito nelle strade, e della delazione. Nihil novi sub sole: sono le avventure o le disavventure, se si preferisce, della dialettica.

In questi mesi, un governo, diciamo così, tendente a sinistra, tramite l’artificio dello stato di emergenza permanente – che molto ricorda la guerra permanente di orwelliana memoria – ha giustificato l’azzeramento di libertà costituzionali conquistate in anni di lotte sociali. Qual è la sua opinione in merito? Cosa ci aspetta ancora nei prossimi mesi?

D.F.     Eh sì, è proprio così: la tesi che sostengo, e che concorda in parte con quelle di Agamben, è che il nuovo principio della società sia il distanziamento sociale, che impedisce, o limita fortemente, ogni relazione, ogni contestazione, ogni luogo pubblico: con il lockdown, lo limita totalmente. Si tratta di una razionalità politica, che, in questo modo, impedisce in partenza ogni contestazione del capitale. È una svolta autoritaria in seno al capitale, a mio giudizio, che usa l’emergenza del virus per costruirci sopra una razionalità politica di tipo autoritario e repressivo. Forse il capitalismo stava iniziando a perdere il suo consenso, e, quando la classe dominante ha il dominio, ma non il consenso, Gramsci docet, usa il manganello, la violenza: in questo caso, utilizza le norme emergenziali. Per garantire la sicurezza, bisogna rinunziare alla Costituzione e alla libertà.  Più durerà l’emergenza, più si rinunzierà a Costituzione e libertà e l’eccezione diventerà quella che oggi già chiamano la nuova normalità.

Il Pd vuole "Bella Ciao" a scuola "Cantatela con l'Inno di Mameli". Alcuni deputati dem hanno presentato una proposta di legge per inserire il canto partigiano nei programmi scolastici. Alberto Giorgi,  Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. Il risultato delle Regionali deve aver dato alla testa al Partito Democratico. Già, perché ora i dem tornano alla carica su una questione a loro molto cara: affiancare Bella ciao all’Inno di Mameli, facendo sì che il canto simbolo dei partigiani e della resistenza entri di diritto nei programmi scolastici di tutto il Paese a decorrere dall'anno scolastico 2020/2021. La pensata non è nuova e anzi risale alla scorsa primavera, quando l’Italia era in piena emergenza coronavirus. In data 30 aprile, infatti, un gruppo di parlamentari dem – tra cui Piero Fassino, Michele Anzaldi, Stefania Pezzopane, Patrizia Prestipino e Gian Mario Fragomeli – presentano a Montecitorio una proposta di legge per inserire nei programmi scolastici lo studio della canzone "rossa" per eccellenza, così da ottenere il riconoscimento ufficiale della canzone simbolo della lotta partigiana come canto ufficiale dello Stato italiano, quasi alla pari dell'Inno di Mameli. Oltre all’idea in sé, stupiscono anche le tempistiche, visto che in quelle difficili e durissime settimane l’Italia era in ginocchio e terrorizzata dalla pandemia di coronavirus, che continuava a mietere vittime. Con il Paese congelato dalla serrata e dalla paura, alcuni deputati del piddì hanno però pensato bene di badare ad altro e di interessarsi a Bella ciao. In quel 30 aprile, allora, a Montecitorio fa capolino la seguente proposta di legge: "Riconoscimento della canzone Bella ciao quale espressione popolare dei valori fondanti della nascita de dello sviluppo della Repubblica". Ma come detto non è tutto. "Non meno importante, infine, la legge dispone anche che in tutte le scuole, all’insegnamento dei fatti legati al periodo storico della Seconda Guerra Mondiale, della Resistenza e della lotta partigiana, venga affiancato anche lo studio della canzone Bella Ciao", come spiegato dal dem Fragomeli. Dalla scorsa primavera a questo autunno, perché praticamente all’indomani del risultato elettorale del referendum, delle Regionali e delle Comunali, la proposta di legge – come rende noto Il Tempo – è stata appena licenziata dalla commissione e approderà dunque in Aula, dove il Pd farà di tutto per ottenerne l’approvazione. D’altronde, secondo loro, come si legge all’interno della proposta di legge stessa, "Bella ciao è un inno facilmente condivisibile e non è espressione di una singola parte politica, visto che che tutte le forze politiche possono ugualmente riconoscersi negli ideali universali ai quali si ispira la canzone". Il blitz del Pd sulla canzone partigiana è tutto condensato nell'articolo uno del provvedimento che potrebbe diventare legge. All’articolo uno, infatti, si legge: "La Repubblica riconosce la canzone Bella ciao quale espressione popolare dei propri valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo. La canzone Bella ciao è eseguita, dopo l'inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo". Insomma, Bella ciao come secondo inno nazionale.

Azzolina difende Bella Ciao: "Parte del patrimonio culturale". Ad aprile, un insegnante assegnò l'esecuzione musicale di Bella Ciao. Il deputato di FdI, Rampelli, aveva chiesto l'intervento del ministro dell'Istruzione. La risposta di Azzolina: "Il canto è parte del patrimonio culturale". Francesca Bernasconi, Martedì 20/10/2020 su Il Giornale. "Il brano Bella Ciao è parte del patrimonio culturale italiano". Così, il ministro dell'istruzione, Lucia Azzolina, si è espressa in difesa del noto canto, al centro di un'interrogazione presentata dal deputato di Fratelli d'Italia, Fabio Rampelli. Tutto parte da un compito assegnato agli alunni delle scuole medie dell'Istituto Ottaviano Bottini, di Piglio, in provincia di Frosinone. Lo scorso aprile, un insegnante di musica aveva assegnato come compito l'esecuzione di Bella Ciao, che sul sito della scuola veniva definita "simbolo della Liberazione che abbiamo festeggiato il 25 aprile". Una notizia che aveva sconcertato il deputato FdI: il 25 aprile, aveva commentato Rampelli, "rappresenta oggettivamente la liberazione dell’Italia dalla dittatura e dall’occupazione nazista". Invece, "l’inno partigiano è divisivo perchè rappresenta una parte politica ben definita, purtroppo protagonista anche di violenze efferate e ingiustificate, anche nei confronti di civili, preti, donne e bambini". Secondo il deputato, si legge nell'interrogazione, "è inaccettabile che temi di natura chiaramente politica, surrettiziamente presentati come formativi, vengano inseriti nell’attività scolastica di ragazzi che le famiglie affidano alla scuola per ragioni didattiche e non certo per vederli sottoporre a un’attività propagandistica, a meno che non ci sia lo spazio per uno studio plurale e imparziale degli accadimenti". Infine, Rampelli aveva lanciato un appello al ministro Azzolina, chiedendole se non ritenesse necessario "adottare le iniziative di competenza per evitare la diffusione di una visione politicizzata della storia nelle scuole, evitando che sia altresì consentito un indottrinamento delle nuove generazioni". Non solo. Il deputato FdI chiedeva anche un indirizzo rivolto ai dirigenti scolastici, perché distinguessero "la festa della Liberazione dall’inno dei partigiani", considerato "divisivo ed evocatore di violenze storicamente accertate". Ma, rispondendo per iscritto all'interrogazione di Rampelli, Lucia Azzolina difende Bella Ciao, definendolo un canto "parte del patrimonio culturale italiano, noto a livello internazionale, tradotto e cantato in tutto il mondo. È un canto che diffonde valori del tutto universali di opposizione alle guerre ed agli estremismi". Inoltre, la canzone avrebbe sempre fatto parte del libro di testo adottato dalla scuola: "In particolare- spiega Azzolina- il brano in questione, assegnato con lo scopo di essere suonato con il flauto dai discenti, rientra nel novero dei canti popolari in trattazione nell’ambito della musica leggera e precisamente nel capitolo dedicato alle "Canzoni del presente e del passato"". E conclude riaffermandone il valore in quanto parte del patrimonio della cultura italiana. La situazione ha sollevato anche questioni giudiziarie. Il ministro dell'Istruzione, infatti, ha ricordato come lo scorso maggio fosse stata ricevuta dal Ministero "una nota con la quale la dirigente scolastica dell’istituto comprensivo di Piglio, notiziava che in data 2 maggio la stessa aveva sporto querela contro ignoti per il reato di diffamazione a seguito della lettura di alcuni post, apparsi su Facebook, nei quali veniva offesa l’immagine della scuola e di una docente di musica per aver assegnato ad una classe il compito di svolgere con uno strumento musicale (flauto dolce) la canzone Bella Ciao". Da questo punto di vista, sarà l'autorità giudiziaria a definire eventuali responsabilità.

Dritto e Rovescio, Giuseppe Cruciani su Bella Ciao: "Non ha un'impronta italiana, proprietà dei comunisti". Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020. Siamo a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 1 ottobre. E in studio si parla della priorità del Pd: insegnare Bella Ciao in tutte le scuole italiane, proposta accompagnata da un disegno di legge. Proposta cancellata in modo netto da Giuseppe Cruciani, che prima di battibeccare sul tema con Sara Manfuso spiega: "Nessuno nelle classi italiane ha bisogno di cantare canzoni, non si canta neppure l'Inno italiano figurarsi Bella Ciao. Penso che Bella Ciao sia una canzone di cui si sono appropriati, legittimamente, dopo la seconda guerra mondiale sostanzialmente i comunisti - rimarca il conduttore de la Zanzara -. Non vale per tutti, non ha un'impronta italiana, non ha un valore trasversale: è una canzone di una parte politica, quella di sinistra. È questa la realtà dei fatti, si vuole introdurre a scuola qualcosa che appartiene a una stagione politica che si è conclusa", conclude un impeccabile Giuseppe Cruciani.

Insegnante minaccia alunni: "Canta Bella Ciao o sei fascista". Insegnante di scuola media minaccia alunni di brutto voto se non intonano Bella Ciao: "Chi non canta, è fascista". Rosa Scognamiglio, Martedì 28/01/2020, su Il Giornale. "Se non canti Bella Ciao, vuol dire che sei fascista e ti metto un brutto voto". Con questa frase un'insegnante di scuola media avrebbe intimato ai suoi studenti di intonare l'inno della Resistenza partigiana minacciando una sfilza di insufficienze a chiunque si fosse rifiutato di farlo. Dalle parole ai fatti, il passo è breve. Così, con metodi educativi piuttosto discutibili, una professoressa ha ben pensato di politicizzare la classe - virando verso una inequivocabile ideologia di sinistra - con la minaccia di un brutto voto sul registro qualora i giovanissimi alunni avessero osato delle rimostranze o si fossero rifiutati di cantare i versi di Bella Ciao. Ma non è tutto. A quanto pare, l'insegnante si sarebbe spinta ben oltre il semplice ammonimento. La faziosa educatrice avrebbe talora apostrofato con l'appellativo "fascista" coloro che non avrebbero assecondato la sua richiesta perentoria. Dunque, spaventati dalle conseguenze di un eventuale diniego sulla media in pagella, i ragazzini non avrebbero potuto far altro che compiacere l'insegnante. A dare notizia dell'accaduto è stata la Lega Prato che, stando a quanto si apprende dalla testa d'informazione GoNews.it, ha riportato la segnalazione di un genitore - l'identità dell'uomo non è stata rivelata per evitare la gogna social – il quale riferiva della presunta condotta diseducativa adottata dalla professoressa durante le ore di lezione. "Abbiamo letto con molta preoccupazione la richiesta d'aiuto di un genitore di un bambino di seconda media: questi denunciava ieri sul suo profilo Facebook che la professoressa di Italiano avrebbe minacciato gli alunni di una classe di seconda media di cantare Bella ciao, pena un brutto voto. - si legge nella nota trasmessa dal gruppo consiliare Lega Prato - L'insegnante avrebbe anche detto agli alunni che se non avessero intonato Bella ciao sarebbero stati dei fascisti. Speriamo si sia trattato di un frainteso, perché altrimenti sarebbe un fatto gravissimo: tanto più apostrofando come fascisti dei bambini colpevoli di non aver imparato una canzone. Per questo chiediamo lumi alla presidenza della scuola media interessata. Pretendiamo quindi chiarezza: questi sarebbero metodi inaccettabili, trattandosi eventualmente di una educatrice che si rivolge a minori con pregiudizio e minacce". Al momento la vicenda resta ancora da accertare ma non è escluso che, nei prossimi giorni, possa essere ulteriormente dettagliata da altre eventuali testimonianze. Nel caso in cui, tale segnalazione fosse confermata, le conseguenze per l'insegnante potrebbero avere persino conseguenze giudiziarie fino alla sospensione dal servizio.

Bella ciao a scuola. Ma i ragazzi sanno della strage partigiana di Mignagola? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2020.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

La paventata introduzione del canto “Bella ciao” nelle scuole, per il 25 aprile e/o per manifestazioni celebrative della Resistenza ha suscitato aspre polemiche. Perché questi temi continuano ad essere così divisivi? Può valere la pena far capire a scolari e studenti come mai tali questioni continuino ad essere così “irritanti”, a 75 anni di distanza, offrendo loro uno squarcio di verità su un periodo storico che ha conosciuto non solo luci, ma anche ombre. Importante, però, che questo avvenga senza faziosità e giudizi, sulla scorta di fonti autorevoli e, meglio ancora, attraverso le dichiarazioni rese in sede processuale dagli stessi protagonisti e testimoni. Non bisogna temere i fatti, proprio per avere un panorama equilibrato e completo di quella pagina drammatica della nostra storia e per consentire ad ognuno di maturare un giudizio personale. Dopotutto, a scuola si va per questo. “Anche a Treviso ci fu un eccidio rosso come quello delle Fosse Ardeatine a Roma” scrive Bruno Vespa nel suo “Vincitori e vinti” del 2005 in riferimento alla “Strage della Cartiera Burgo”. Una vicenda di 75 anni fa, iniziata il 27 aprile ’45 e terminata ai primi di maggio: la struttura industriale, a 7 km da Treviso, era stata adibita dai partigiani a campo di concentramento per i prigionieri fascisti e per i civili anche solo sospettati di collaborazionismo. La cartiera giunse a raccogliere circa 2000 persone rastrellate nella zona: militari repubblicani, ausiliarie, civili più o meno legati al passato regime, possidenti. Per quanto misconosciuta, la strage è ampiamente documentata - oltre che dai rapporti dei Carabinieri - dalle testimonianze dei partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi che furono chiamati a deporre nel processo del 1949.  In realtà, questo eccidio presenta caratteristiche diverse rispetto a quello delle Fosse Ardeatine. Innanzitutto fu compiuto a guerra finita e non fu una rappresaglia condotta nel solco delle pur terribili leggi di guerra dell’epoca (anche se con 5 vittime in più): si trattò di processi sommari, torture ed esecuzioni che, come riportavano i Carabinieri, nemmeno tenevano conto dei nomi degli imputati. Anche sui numeri non c’è corrispondenza con le Ardeatine: materialmente furono recuperati “solo” 100 morti; secondo il cappellano delle Brigate nere don Angelo Scarpellini, le uccisioni furono 700, mentre per il maresciallo dei Carabinieri Carlo Pampararo, 900. Per vari storici furono, comunque, diverse centinaia. Il numero non è chiaro perché, come documenta il partigiano e storico comunista Ives Bizzi, i corpi di molte vittime vennero disciolti nell’acido solforico della cartiera o bruciati nei suoi forni, oppure seppelliti in luoghi remoti o gettati nel fiume Sile. Tale dettaglio fu confermato nel 2007 al Gazzettino anche dal partigiano rosso Aldo Tognana, ex comandante della piazza militare di Treviso: «Il parapetto sul Sile era tutto sporco di sangue, di notte avevano portato lì prigionieri fascisti e non, e li avevano uccisi e gettati nel fiume.»

Inoltre, emergono dal processo torture, stupri ed efferatezze sui prigionieri che si spinsero fino alla crocifissione. “Tutti i prigionieri venivano portati in cartiera – dichiarò al processo del ’49 il partigiano comunista Marcello Ranzato -  i tedeschi - senza che loro venisse torto un capello - venivano custoditi nel garage; i fascisti, invece, in altri locali del pianterreno della cartiera. Questi venivano bastonati e seviziati, tanto che alle volte udivo urla e rumore di percosse. Venivano anche fatti processi sommari. Simionato Gino, “Falco”,  (il loro capo n.d.r.) era uno dei più attivi seviziatori e percuoteva le sue vittime con zappe o badili nelle ore notturne”. Come riportato in “La cartiera della morte” (Mursia 2009) di Antonio Serena, con prefazione di Franco Cardini, il 27 aprile furono catturati presso Olmi sette fascisti della Banda Collotti che portavano con sé dell’oro; questo fu spartito fra partigiani comunisti e democristiani. I prigionieri furono tutti uccisi, anche una donna incinta, amante di Gaetano Collotti. Il 29 aprile, don Giovanni Piliego si recò alla cartiera per confessare dei prigionieri visitati il giorno prima, ma questi erano già stati uccisi. Si rivolse così al vescovo Mantiero che protestò con il CLN e con gli americani. Il 30, militari Usa giunti con una jeep, imposero la cessazione delle attività, ma gli ammazzamenti continuarono. "Dopo la liberazione abbiamo avuto cinque giorni di carta bianca – testimoniò il partigiano Romeo Marangone -  Abbiamo continuato gli arresti”. In realtà, come testimoniò don Ernesto Dal Corso, parroco di Carbonera, le esecuzioni proseguirono ben oltre il 30: “La maggior parte delle uccisioni avvenne dietro una specie di processo presenziato da tali Polo Roberto, Sponchiado Antonio, Brambullo Giovanni, Zancanaro Silvio, Trevisi Gino”. Anche dopo lo stop ordinato dal CNL, invece, “Simionato Gino ha ammazzato un numero di 37 persone, dicono, a colpi di badile”. Spiega lo studioso Massimo Lucioli: “Testimoni oculari riferirono al processo come il giorno 4, un sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana, Luigi Lorenzi, di 20 anni, (catturato nonostante il lasciapassare del CLN) venne preso di mira perché aveva difeso un’ausiliaria dalle violenze dei partigiani. Altri raccontarono di come egli portasse una medaglietta religiosa al collo: minacciato di crocifissione e rifiutando di togliersela avrebbe risposto: “Muoio come Nostro Signore. La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano”.  Stando alle testimonianze e ai referti, Lorenzi fu inchiodato a due assi di legno, frustato e poi gli venne spaccata la testa. Come da lettera del Comune di Breda, il giorno 8 la madre di Lorenzi andò dal sindaco, il partigiano Giuseppe Foresto (che aveva contatti con i partigiani della cartiera) il quale le rispose, mentendo, che suo figlio era stato rimesso in libertà due giorni prima”. Su denuncia dei familiari delle vittime, fu istruito il processo già nell’estate del ’45, ma in un brutto clima: “Nessuno vuole parlare – riferiscono i rapporti dei CC - tutti sono terrorizzati, perché i colpevoli sono in circolazione, coloro che potrebbero dare preziose notizie, vivono ancora sotto l'incubo della rappresaglia”. Il processo a carico del solo Gino Simionato e di altri ignoti andò avanti fino al 1954, quando il giudice Favara così sentenziò: “Pur essendo altamente deplorevole l’indiscriminazione con cui taluni partigiani o patrioti ebbero a sfogare la mal repressa rabbia, troppo spesso senza accertarsi prima della colpevolezza dei singoli individui rastrellati […] dichiaro non doversi procedere a carico degli imputati in ordine ai reati loro rubricati, perché estinti per effetto amnistia. Si trattava dell’amnistia promulgata dal segretario del PCI Palmiro Togliatti nel 1946, poi reiterata nel ’53.

Dalla finta sinistra dei diritti civili alla vera destra della finanza internazionale, il "pensiero scomodo" di Alessandro Meluzzi. Giordano Di Fiore, Creativo, su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Tre domande per il Prof. Alessandro Meluzzi: continua il nostro viaggio all’interno del pensiero “scomodo”.  E’ trascorso un po’ di tempo da quell’insolito 25 Aprile, passato ad intonare Bella Ciao, ma dal balcone. Una situazione tanto ossimòrica da meritare un approfondimento. Qualcosa che andasse oltre il pensiero unico dominante, dettato dalla dittatura sanitaria. Ecco perché abbiamo deciso di formulare tre domande “urticanti” e riproporle, senza mai cambiarle, ad alcune personalità fuori dagli schemi, molto differenti tra di loro, ma caratterizzate da una rara libertà di pensiero. Abbiamo avuto il piacere di intervistare il filosofo Diego Fusaro, l’On. Marco Rizzo, il Prof. Massimo Cacciari. Non poteva mancare il Prof. Alessandro Meluzzi, psichiatra, docente e noto opinionista, il quale ci fornisce delle risposte molto pungenti, tratteggiandoci il tragico ritorno ad un mondo pre-marxiano, dominato ancora una volta dalla dinamica servo-padrone, storicamente arretrando  rispetto alla dialettica della Rivoluzione Francese. Dal crollo del muro in avanti, trovo che in Italia si sia creata, nel popolo di sinistra, una certa confusione. Gli avversari politici utilizzano l’espressione “buonismo”, in senso dispregiativo. Qualcosa di vero, tuttavia, sembra esserci: quando si propongono sanatorie a tempo determinato e quando si fa finta di appellarsi alla solidarietà per, in realtà, legittimare la schiavitù, si fa finta di essere buoni, ma si fa il gioco del cosiddetto “potere”. Lei cosa ne pensa?

«Di buone intenzioni è spesso lastricata la via dell’Inferno. L’esibizione di buoni sentimenti è lo strumento migliore attraverso cui idee repressive o di sfruttamento dell’uomo sull’uomo possono mascherarsi da umanitarismo, di buonismo o, peggio, di politicamente corretto: quella dimensione per la quale alcune idee dominanti, basata sulla percezione della non esclusione di altri, servono, in realtà, a sancire, a consolidare e a cristallizzare il potere di alcune élite ristrettissime sui più. Il fatto che alcuni padroni mettano i bianchi contro i neri, i cinesi contro gli europei, i migranti contro i nativi è uno strumento attraverso il quale chi controlla il vero potere, quello della finanza, riesce attraverso il divide et impera a riaffermare non solo forme di vetero-schiavismo, diventato neo-schiavismo, ma anche l’azzeramento di quella classe media, figlia dell’illuminismo e della Rivoluzione Francese, che è stata quanto di più civile che la storia dell’umanità abbia prodotto. Ma una nuova, antica distinzione tra padroni e schiavi si riafferma, mascherata da buonismo».

Ho trovato molto singolare che, durante il cosiddetto lockdown, molte persone si siano ritrovate a cantare Bella Ciao, ma non per strada, sul balcone! Qualcosa del genere è successo anche per la Festa dei Lavoratori. In pratica, molte persone che credono di riconoscersi nei valori della Libertà e della Resistenza hanno, poi, sposato la linea dell’obbedienza totale al capo. Come mai è avvenuto tutto questo?

«Della sinistra comunista post-comunista e post-socialista, dopo la caduta del muro di Berlino, è stato fatta una sorta di OPA ostile, nel senso che il globalismo capitalista e totalmente finanziarizzato si è in qualche modo silenziosamente comprato gli apparati dell’antica sinistra (pensate ai residui del PC diventato PDS, PD e quant’altro), come, peraltro, è successo ai diversi partiti socialisti, trasformandoli dai partiti dei diritti sociali, dei lavoratori e delle classi subalterne a presunti partiti di presunti diritti civili. Insomma, non era più l’obiettivo di lottare per il possesso e il controllo dei mezzi di produzione, ma la libertà di poter sfilare in mutande con piume in testa, rivendicando il gender, o pensando a visioni di biopolitica o biosocialità dalle quali Foucault stesso sarebbe inorridito. Questa finta sinistra dei diritti civili che esclude l’antico ruolo strutturale, economico e anticapitalista si è ridotta a quella delle canzoni ‘Bella Ciao’ sui balconi, in una dimensione in cui questa finta sinistra diventa il principale presidio della vera destra, che è quella della finanza internazionale dei Rothschild, dei Soros, dei Rockefeller e dei Gates che vorrebbero marchiarsi con microchip sottopelle».

In questi mesi, un governo, diciamo così, tendente a sinistra, tramite l’artificio dello stato di emergenza permanente – che molto ricorda la guerra permanente di orwelliana memoria – ha giustificato l’azzeramento di libertà costituzionali conquistate in anni di lotte sociali. Qual è la sua opinione in merito? Cosa ci aspetta ancora nei prossimi mesi?

«Diceva un grande intellettuale francese, André Malraux, che la prima vittima della guerra è la verità, dopo la quale c’è la perdita dell’innocenza. Dietro la logica della guerra sta sempre la logica della falsificazione: falsificazione dei sistemi di spionaggio, falsificazione delle informazioni sul nemico, falsificazione delle verità interne. La spagnola venne così chiamata perché la Spagna, non essendo paese belligerante nella Prima Guerra Mondiale, era l’unica nazione in cui la verità su quella vera pandemia poteva circolare. È la conseguenza di questa falsificazione. Nulla è meglio per dominare i popoli che mantenerli in uno stato di guerra permanente o di finta guerra permanente, affinché la vera guerra delle élites, che comandano e anestetizzato le masse oppresse, debba sempre avere legittimazione. Chi ha il potere, gestendo la semiosfera dei segni, può permettersi di impedire che circolino le informazioni che riguardano le verità che potrebbero liberarci. Invece, le élite ci tengono al guinzaglio con la minaccia di un pericolo superiore (ora un virus, ora una guerra, ora una carestia, ora un tracollo economico). Sono quelle élite, prestatrici di denaro e stampatrici di titoli, che governano attraverso il ricatto dello Spread e un’idea di debito, muovendo una psico-info-epidemia di monete. Sotto la minaccia di una guerra, ora materiale, ora economica, il popolo soccombe, non avendo le leve della dinamica, che rappresentano la vera chiave del mantenimento dello status quo».

Rovinano pure la festa di Natale con la pretesa di cantare la solita Bella ciao sotto l’Albero. Francesco Storace giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cercate, cercate pure, ma Bella Ciao non la trovate tra i Canti di Natale. Perché è una pagliacciata mischiare sacro e profano. Eppure succede e stanno (quasi) tutti zitti. Come se si dovesse fare politica persino sotto l’Albero. Il silenzio sarebbe continuato se non esistesse la rete, con i suoi social, le sue notizie, anche se confinata in un ambito locale. Ma le vergogne si scoperchiano perché è inaccettabile turlupinare la buona fede delle persone. La “location” per l’esibizione della canzone tanta cara alla sinistra estremista – inclusa quella che governa l’Europa – è un comune in provincia di Foggia, Torremaggiore. Il 7 dicembre il sindaco Emilio Di Pumpo, accende l’Albero con tutte le sue luci. Arrivano i cantori – si fanno chiamare Street Band Vagaband, nomen omen… – e alla fine della cerimonia si canta l’immancabile Bella Ciao di questi tempi sardinati. Antifascismo da operetta. Da piccoli noi, “quelli di prima”, amavamo Tu scendi dalle stelle oppure Jingle bells. E certo non la buttavamo in politica. Ma nell’Italia blasfema c’è spazio per rovinare persino il Natale, una storia bimillenaria, il cammino dell’umanità. Senza senso del ridicolo. L’ex sindaco Lino Monteleone ha usato parole durissime nei confronti di un’iniziativa quantomeno sfrontata: “Ciò che mi stupisce è che si usi anche la banda presente all’evento facendole intonare ‘Bella ciao’: non mi risulta che sia un canto natalizio. Del resto, sono molti ormai i segnali di rigurgito ideologico, un atteggiamento frequente e ingiustificato, anche di rimozione della verità”. E si potrebbe anche aggiungere che se nel nostro paese si arriva a intonare Bella Ciao pure in Chiesa come è accaduto in Toscana, ormai la sfrontatezza ha oltrepassato ogni limite immaginabile. Ed è un peccato anche perché, nel caso del comune pugliese, si è voluto appiccicare un bollo ideologico ad un’iniziativa che aveva visto la partecipazione attiva di realtà sociali, a partire dall’Anfass e da altri soggetti locali. E’ stata quella canzone inutile, fuori luogo, dannosa, a far esplodere la polemica. Perché almeno durante le feste, le feste sante, c’è chi vorrebbe essere lasciato in pace. Invece no. La banda musicale rivendica il gesto: “E’ stato suonato il ritornello della canzone Bella ciao, dopo la richiesta di alcuni presenti tra il pubblico. Noi riteniamo di essere strumenti attraverso il quale divulgare musica e non potremmo farlo senza l’ascolto del nostro pubblico”. Chissà se qualcun altro dal pubblico avesse chiesto loro di intonare Faccetta Nera come avrebbero reagito… Ovviamente, applausi al signor sindaco dai suoi compagni. Ecco un commento di una signora dalla pagina Facebook del Peppone di Torremaggiore: “Una come me che è cresciuta a pane e ‘Bella ciao’ non ci vede niente di male che sia stata suonata in occasione delle feste natalizie perché appartiene al colore politico della nostra amministrazione e a quanto pare so che invece è stata molto apprezzata dalla gente presente”. Che facciamo? Che cosa merita un commento del genere? Sei cresciuta a pane e “Bella ciao”, cara compagna? Evidentemente ti ha fatto male se non riesci a distinguere una canzone di parte con una festa sacra. Sono quelli che pensano di potersi permettere di tutto. Non è democrazia, è anarchia.

Ue, Gentiloni e i commissari socialisti cantano Bella Ciao in aula, ira Meloni. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Alessandro Sala per corriere.it il 4 dicembre 2019. Hanno intonato «Bella Ciao», il canto partigiano per antonomasia (sulle cui origini vi sono però parecchie discordanze), all’interno dell’aula dell’Europarlamento di Strasburgo, dopo il via libera definitivo alla Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. E lo hanno fatto in perfetto italiano, segno che la conoscevano bene. Sette dei 9 nuovi commissari di area socialista, tra cui il titolare degli Affari Economici Paolo Gentiloni, hanno pensato di festeggiare così l’avvio della nuova esperienza di governo, con un momento goliardico durante una foto-opportunity limitata agli esponenti del loro gruppo, dopo quella di rito con l’intera squadra. C’è grande partecipazione al coro e tra i più entusiasti si notano l’olandese Frans Timmermans, che della von der Leyen è il vicepresidente esecutivo con delega al Green Deal Europeo, ovvero le macropolitiche ambientali; la maltese Helen Dalli, commissaria all’Uguaglianza; e la portoghese Elisa Ferreira, commissaria per la Coesione e le riforme. Nessuno dei sette si sottrae al battimano ritmato che accompagna la piccola esibizione.

Meloni indignata. Ma un video registrato nell’occasione con un telefonino ha iniziato a circolare anche al di fuori delle chat del gruppo e oggi è stato diffuso su Facebook dalla presidente di Fratelli d’italia, Giorgia Meloni, sotto l’eloquente titolo di «Unione sovietica europea». « Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee — si chiede l’esponente della destra italiana —? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?». Anche il leader leghista Matteo Salvini è intervenuto sul coro dei commissari: «Complimenti a Pd e 5 Stelle per la scelta di Gentiloni come rappresentante dell’Italia in Europa — scrive l’ex vicepremier su Twitter —. Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournée internazionale».

I precedenti. Anche se le origini partigiane di «Bella Ciao» non sono certe, e non è neppure certo che si tratti un brano italiano, nella politica italiana questo canto viene spesso evocato come canto di resistenza. Il soggetto del testo, del resto, lo è. Lo hanno rispolverato le «sardine» che nelle ultime settimane hanno riempito le piazze in nome della resistenza civile (per esempio qui durante il raduno di Genova); lo ha cantato nei giorni scori in chiesa di Vicofano, nel Pistoiese, don Massimo Biancalani, suscitando la rabbia di Salvini; lo aveva intonato addirittura Michele Santoro in diretta tv nel 2002 in polemica con l’allora premier Silvio Berlusconi. E risuona regolarmente ad ogni celebrazione del 25 aprile e nelle manifestazioni della sinistra. Nulla di strano, insomma, che dei parlamentari di sinistra la considerino un proprio simbolo. Ma il fatto che siano commissari, quindi rappresentanti istituzionali e non esponenti di parte, e che il canto sia avvenuto all’interno dell’Aula con tanto di coreografia ufficiale della Ue ha mandato su tutte le furie Giorgia Meloni.

«Noi Popolari siamo più seri». Ma non solo lei. Anche l’europarlamentare Fulvio Martusciello (Forza Italia), dal canto suo, ha scritto in una nota:«Ma pensassero a lavorare che sono pagati per questo. Bonino, Frattini o Tajani che pure sono stati commissari europei non lo avrebbero mai fatto. Non è un caso che i commissari che cantano sono tutti socialisti. Noi popolari siamo seri e una cretinaggine del genere non l’avremmo mai fatta».

I commissari europei cantano “Bella Ciao”, Meloni: “Teatrino ridicolo e scandaloso”. Alberto Consoli mercoledì 4 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Commissari europei intonano “Bella Ciao”. Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?”. Ha ragione Giorgia Meloni: un teatrino deprimente che sta facendo il giro del web. “Siamo alla tragica fine dell’Europa”, commentano i più, ossia gli utenti social che stanno condividendo questa scena molto poco edificante. Sul sito di Giorgia Meloni, la prima a diffondere dal suo profilo Fb il video, non ci sono solo commenti riferibili a una condivisione politica. Moltissimi commentatori si scandalizzino per ben altro. L’Europa ha grandi problemi da dibattere: la crisi economica, il ruolo che la Ue vorrà darsi, stratta tra Usa, Cina e Russia. Aziende in crisi, L’economia che arranca. Eppure gli “autorevoli commissari”, trovano il tempo per pagliacciate del genere. Ma come – è il senso dei commenti- intendono inculcarci l’idea che senza Europa saremmo dannati, persi, senza una bussola politica. Poi perdono tempo a “cazzeggiare”? Il video è pubblicato dai social di FdI con un titolo ironico: “Unione sovietica europea”. Ironia a parte,  l’indignazione resta. L’inno “Bella ciao” ormai viene usato come una clava un po’ da tutti: dalle sardine, da alcuni preti, dalle piazze di sinistra, dai preti rossi il primo giorno di scuola. Lo strimpella il ministro dell’Economia Gualtieri. Bella Ciao, a dispetto delle sue origini, è usato come slogan-contro: ogni volta che c’è da vocare le paure fasciste e sovraniste. Follia. Tristissima scena quella dei commissari Ue, che osserviamo, per fortuna per pochi minuti.  Tristissima Europa.

Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 18 dicembre 2019. Paolo Gentiloni non è più lo stesso. Da quando è partito per le brume centroeuropee ha perduto quell' aura da pacioso romano senza qualità rimarchevoli; si è dato al canto sguaiato a favore di telecamera, intonando "Bella ciao" assieme ai colleghi commissari di conio socialistoide; ha sviluppato un' inquietante ipertrofia tricologica che gli ha immobilizzato la capigliatura in un grigio bozzolo verticale da cicisbeo settecentesco. Ma forse ha soltanto somatizzato una scossa elettrica, o ha capito troppo tardi - prendendola male - che l'Ue l'ha subito declassato a commissario europeo all' ipocrisia e ai sogni irrealizzabili del Vecchio continente. Prendete la sua ultima uscita di rilievo, che risale a nemmeno una settimana fa: «Il patto di stabilità, che è stato pensato in un momento di crisi, ora va rivisto». In apparenza sembra intelligente, del resto era stato lo stesso Romano Prodi a definire «stupido» il patto di stabilità. Ma Gentiloni non ha compreso che quel vincolo è assurdo perché è stato immaginato per un continente tutt' altro che in crisi, ma con una crescita immaginaria del 4-5%. Ecco perché ora, in piena recessione, faremmo bene a ripensarlo. Insomma Gentiloni o mente o invecchia male. Non si spiega altrimenti la ragione per cui la sua resistibile intelligenza, che era stata sottratta all' Italia con la promessa di affidargli la delega all' Economia nell' esecutivo guidato da Ursula von der Leyen, sia stata invece posta al servizio dei cosiddetti "obiettivi di sviluppo sostenibile" (Sustainable development goals) ovvero una serie di target ricompresi nell' agenda 2030 dell' Onu. Si tratta di raggiungere ben 17 risultati che sembrano altrettanti capitoli d' un libro dei sogni per attempati prestidigitatori della politica incatenati alle treccine di Greta Thunberg. Qualche esempio? Azzerare la povertà e la fame, combattere contro il riscaldamento globale, raggiungere la stabilità locale e mondiale, ridurre le disuguaglianze, costruire società eque e resilienti, ed economie prospere. Vasto programma che sa di prepensionamento, per il nostro Gentiloni. E a conferma del sospetto genuino sta il non trascurabile dettaglio che finora il coordinamento degli obiettivi di sviluppo sostenibile era affidato a Valdis Dombrovskis. E a questo punto la situazione si chiarifica: Dombrovskis lascia ufficialmente che sia Gentiloni a baloccarsi con i periodi ipotetici dell' irrealtà, per la semplice ragione che l'ex primo ministro lettone è nel frattempo diventato un vicepresidente esecutivo con delega economica per i Servizi finanziari. In altre parole: svolgerà lui, campione internazionale del rigorismo nordeuropeo, le mansioni principali che sarebbero altrimenti state di stretta competenza gentiloniana. Si poteva però immaginare che l'ex premier italiano volesse di conseguenza ritagliarsi una libertà di tono e di giudizio nei confronti del profilo ancora enigmatico mostrato dalla nuova Commissione. Come a dire: voi, che mi avete ingaggiato all'Economia per premiare il ribaltone estivo antisovranista, adesso mi togliete le deleghe più pesanti in omaggio al vostro eterno pregiudizio antimediterraneo; sicché il minimo che io possa fare è difendere il mio interesse nazionale. Magari nulla di tutto ciò invece: le prime mosse dell' oleografico Gentiloni sono state caratterizzate dal più inveterato provincialismo germanofilo. Banco di prova esemplare la discussione intorno alla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, rispetto alla quale Gentiloni si è ben guardato dal rilevare punti oscuri o criticità (come hanno fatto perfino alcuni noti "berlinesi" come il corrierista Federico Fubini e il professor Carlo Cottarelli), e ha preferito anzi piegarsi supinamente alla dottrina dominante: «Non c' è alcun motivo tecnico o politico per definire quell'intesa un rischio per l' Italia Non vedo ragioni che possano spingere un singolo Paese a bloccare l' intesa sul Mes». Sono parole che Gentiloni ha rilasciato al Corriere della Sera, in un dialogo tra figure dell' establishment culminato in un avvertimento che non segnala alcuna discontinuità rispetto ai moniti del passato: «Nel complesso la Commissione non ha respinto nessun bilancio, tantomeno quello italiano. Ma le sue valutazioni, che verranno sottoposte alla ratifica dell' Eurogruppo, andranno prese molto sul serio». In questo atteggiamento da europrofessore alle prese con alunni indisciplinati è racchiuso il vero mandato di Gentiloni: perpetuare il tutorato tecnocratico sull' inadempiente classe politica italiana. Il che potrebbe anche starci, se non fosse che il medesimo Gentiloni ha svolto una funzione non trascurabile nel nostro recente paesaggio governativo, e si deve anche a lui se nel 2018 la vecchia Commissione europea stava per infliggere al governo gialloverde una procedura d' infrazione per eccesso di debito. Proprio così: al netto delle imperizie, dei proclami roboanti e delle velleità spendaccione del primo governo Conte, i burocrati europei rilevarono con l' allora ministro dell' Economia Giovanni Tria che i conti lasciati in eredità dai governi Renzi e Gentiloni risultavano «non conformi con il parametro per la riduzione del debito nel 2016 e nel 2017». Più esplicitamente, la Commissione reclamava «uno sforzo strutturale di bilancio dello 0,3 per cento del pil, pari a circa 10,2 miliardi». Altro che 2,4 per cento di deficit in più, come s' illudeva di strappare l' avvocato degli italiani Sappiamo come è andata a finire. Giusto ieri la Commissione europea ha avviato un' indagine approfondita nei confronti dell' Italia a causa «del persistere di squilibri macro-economici eccessivi», scandisce il Rapporto sul Meccanismo di Allerta adottato dalla Commissione. Nel ringraziare, oggi, con calore l' ex inquilino di Palazzo Chigi per aver servito con tanta perizia l' interesse nazionale, ci pregiamo infine di ricordare come egli non sia stato certo meno accorto nella legittima cura del proprio interesse privato. Una volta ottenuta l' euronomina, in effetti, secondo i dati già segnalati da Libero, il conte Gentiloni Silveri ha dovuto rendere pubblico un personale tesoretto azionario da principino della Borsa: oltre 700mila euro distribuiti fra Amazon, Expedia, Eni, Enel, con obbligazioni BTP e investimenti in vari fondi gestione. Chapeau. Vi risparmierei la replica del censimento dei beni immobili, ma ne riparleremo il giorno in cui Gentiloni proverà a infliggerci la prossima patrimoniale sulla casa.

Marco Rizzo, Partito Comunista: “Commissari Ue cantano un’idea e sono gli stessi che la distruggono”. Rossella Grasso il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. In pochi minuti è diventato virale un video che vede i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) mentre cantano “Bella Ciao” al Parlamento europeo dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea. Un video vecchio di una settimana che ha indignato Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. “Adesso basta, non se ne può più – ha tuonato sulla sua pagina Facebook – Anche i commissari UE cantano ‘Bella Ciao’. Sono quelli che equiparano il comunismo al nazismo. Questa canzone è violentata ovunque. I Partigiani si rivoltano nella tomba. Vergogna! Fuori da UE, euro e Nato!” Se non stupisce che Meloni e Salvini fossero contrari a una simile esternazione dal parte del gruppo dei neocommissari socialisti, la posizione del segretario generale è particolare e gli abbiamo chiesto una spiegazione: “Vediamo i soggetti e l’oggetto – ha detto Rizzo – I soggetti sono il potere costituito dell’Unione Europea, la gabbia europea che attanaglia i popoli europei, secondo il nostro giudizio politico, sono gli uomini che consentono al fondo monetario internazionale e alla Banca Centrale europea di esercitare al meglio il loro potere. L’oggetto è una canzone che ha rappresentato le istanze di cambiamento, di battaglia, in cui sono morte decine di migliaia di persone tra cui in maggioranza comunisti. Possono rivoltarsi nella tomba i Partigiani a vedere che questi signori cantano la loro canzone? Purtroppo nel mainstream del capitalismo globalizzato "Bella ciao" la cantano tutti. E a me dà fastidio”. Per Rizzo si tratta di un vero e proprio ossimoro, l’esatto contrario del significato profondo di quella canzone. “Possiamo far cantare un’idea da quelli che quell’idea la distruggono? È la modalità con cui si crea il consenso e si crea anche il dissenso in questa società. Stessa cosa succede per chi inquina il mondo che si pone la questione dell’ambiente. È buffo ma oggi è così. Il 70% dell’inquinamento del mondo è fatto da 100 multinazionali e tra queste c’è chi impone la discussione sulla green economy. Come dire, "chiagnono e fottono"? Io sono contrario”. L’indignazione per il gesto in Parlamento europeo arriva anche da Salvini che ha twittato “Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournee internazionale!” e Meloni che ha definito “scandaloso” l’accaduto. Per una volta le estremità di destra e sinistra sono tutti d’accordo? “Per definizione non sono mai d’accordo con la Meloni – ha detto – Penso di essere un po’ più titolato di Salvini e Meloni a parlare di Resistenza e partigiani anche perché gli antenati della Meloni durante la Resistenza stavano dall’altra parte“. “Bella Ciao” è una delle canzoni più cantate in tutti i contesti, anche non politici, come è accaduto per la popolare serie di Netflix ‘Casa de papel’ tanto da diventare per molti identificativa della serie tv, tralasciando il suo vero significato (e YouTube ne è testimone). La cantano anche le sardine ogni volta che scendono in piazza e per Rizzo anche questo è un abuso decontestualizzato. “Ormai tutti la cantano – ha detto il segretario comunista – Ma allo stesso modo mi sono incazzato quando ho visto il Che Guevara usato da Casapound. C’è un limite a tutto. ‘Bella Ciao’ la cantano tutti addirittura i padroni dell’Europa. È una roba folle”. Il segretario del partito comunista orgogliosamente ammette di non aver mai indossato una maglietta con il Che stampato su. Perché come ‘Bella Ciao’ “il Che è qualcosa che ti resta nel cuore – ha continuato – è l’idea del grande rivoluzionario. Questa società riesce persino a commercializzare un grande sentimento. È una società che fa schifo”. Rizzo non ci sta a credere che le sardine siano un movimento rivoluzionario. “La rivoluzione significa cambio di sistema – spiega – non mi pare che ci sia né tra le sardine, né tra il popolo viola né tra i 5stelle, né da Podemos né da Syriza una modalità di intercettare il dissenso in queste società contemporanee, nessuna di loro ha messo in discussione il sistema basato sull’economia capitalistica, nessuno parla di economia socialista, di cambio del sistema. Questa è la rotta su cui interpretare quello che accade ed è la differenza tra ribellione e rivoluzione”. Il segretario comunista guarda con sospetto a quel movimento che dice essere nato “guarda caso” a Bologna, dove tra poco ci saranno le amministrative che avranno un riflesso nazionale. Ragionando di partigiani, simboli e Resistenza non può non tornare alla mente Nilde Iotti scomparsa 20 anni fa proprio il 4 dicembre. Marco Rizzo l’ha conosciuta ed è convinto che siano politici come lei ad aver fatto la differenza. Lo afferma con amarezza perché “oggi politici come lei non ce ne sono più – ha detto – È stata una donna che ha partecipato all’emancipazione femminile in Italia, ma tutta la storia delle donne è legata all’idea del riscatto e del cambiamento della società. Qual è il primo posto al mondo in cui le donne hanno votato? L’Unione Sovietica. Dove per prime le donne hanno avuto i diritti di maternità, il primo ministro donna, tutti i mestieri ad alto livello sono stati anche per le donne dall’ingegnere all’astronauta, il diritto all’aborto e al divorzio? Sempre l’Unione Sovietica. Nilde Iotti ha portato tutto questo in Italia con un livello di dignità politica altissimo. Se pensiamo a Nilde Iotti e a cos’è oggi la politica, beh insomma…anche sul versante femminile lo scenario è disarmante”.

La storia di "Bella Ciao", l’inno che nacque dopo la Resistenza. Roberta Caiano su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Nell’ultimo periodo la famosa canzone “Bella Ciao” è diventata un successo mainstream cantata ovunque. Senza dubbio la sua risonanza tra un pubblico giovanile la si deve alla serie Tv spagnola La casa di Carta, che continua a cavalcare gli schermi arrivando alla sua terza stagione. Andata in onda per la prima volta su Netflix nel 2017, continua ad avere un enorme successo mondiale e con essa la canzone Bella Ciao. Ma in questi ultimi mesi la canzone è stata adottata anche come inno dalle migliaia di giovani sardine che stanno affollando le piazze di moltissime città italiane a protestare contro Matteo Salvini. E’ notizia fresca, invece, quella che riguarda i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, i quali dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea, hanno intonato Bella Ciao al Parlamento europeo. Il video è diventato così virale da scatenare polemiche e commenti di indignazione e sconcerto. Oltre a Giorgia Meloni e Salvini, che si sono subito affrettati a chiosare la notizia su twitter, si è espresso in merito anche il segretario generale del Partito Comunista, Marco Rizzo. Il politico ha dichiarato in un’intervista che “la canzone ha rappresentato le istanze di un cambiamento di battaglia in cui sono morte decine di persone, tra cui in maggioranza partigiani comunisti italiani.” La maggior parte delle volte Bella Ciao è considerata la canzone intonata dai partigiani mentre liberavano l’Italia. Tutt’oggi viene usata come inno antiautoritario non soltanto in Italia ma in tante piazze del mondo. In realtà non molti sanno che questa è una leggenda che la tradizione ha tramandato sino ai nostri giorni. Infatti Bella Ciao non esisteva durante la Resistenza e nessuno la cantava, anche se alcuni studiosi sostengono che in alcune zone di Reggio Emilia e del Modenese fosse in realtà già nota. Tra le bande partigiane il canto più diffuso era Fischia il vento, nato nel 1943 dalla cadenza sovietica . Bella Ciao nella versione che conosciamo, debutterà ufficialmente a Praga nel 1947 durante il "Festival mondiale della gioventù democratica" e di lì conoscerà una fortuna sempre maggiore, anche al di là dei confini nazionali. Infatti la sua notorietà internazionale si diffuse alla fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50 in occasione dei Festival che oltre a Praga, si tennero anche a Berlino e Vienna dove fu cantata dai delegati italiani e in seguito tradotta in varie altre lingue. Questo canto deve la sua identificazione come simbolo della Resistenza italiana al testo, in quanto connota la canzone esclusivamente come inno contro “l’invasore”.

Bella Ciao, hit non di lotta ma di resistenza. Paolo Delgado il 6 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Le incerte radici della canzone simbolo. La incise Yves Montand, Daffini la cantò al festival dei due mondi di Pesaro: rappresentava la propaganda comunista. Poi i Dc la cantarono a Zaccagnini. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, avendo Bocca assicurato che i partigiani non l’avevano mai cantata. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, essendo Bocca uno di quelli che avevano assicurato che il canto destinato a diventare una sorta di nuova Internazionale, ritinteggiata in rosa pallido, i partigiani non l’avevano mai cantata. Aveva ragione lui o Cesare Bermani, autore del primo studio sulla canzone- simbolo La vera storia di "Bella Ciao", secondo cui invece qualcuno la cantava, comunque senza grande diffusione. E’ un fatto che i canzonieri della Resistenza usciti quando l’odore della polvere da sparo era ancora acre, nella seconda metà degli anni ‘ 40 e nei primissimi ‘ 50, proprio non la nominano e anche l’ipotesi di Bermani, secondo cui sarebbe stata l’inno della Brigata Maiella, sembra poco probabile: il figlio del fondatore della Brigata, Ettore Troilo, cita in un suo libro le canzoni delle Brigata e dell’ "inno" non c’è traccia. Fonti beninformate giurano che la canzone fu presentata alla rassegna di Praga sulle "Canzoni mondiali per la Gioventù e per la Pace", una delle tipiche iniziative Cominform dell’epoca, e che, complice l’orecchiabilità, il motivo decollò lì. Come in tutti i pezzi folk, rintracciare l’origine è un’impresa. Carlo Pestelli, autore a sua volta di Bella ciao. La canzone della libertà, parla di canzone- gomitolo, nella quale si intrecciano, anche in questo caso come spesso capita nelle canzoni folk, ‘ si intrecciano molti fili di vari colori’. Il gomitolo finale arriva al grande pubblico con l’incisione di Yves Montand, allora stella mondiale francese di origine italiana e comunista. L’anno dopo il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi di Pesaro, intonata da Giovanna Daffini, e fioccano le polemiche sulla propaganda comunista al Festival. I commentatori vicini alla Dc si scompongono ma poco più di 10 anni dopo, quando Benigno Zaccagnini, l’ "onesto Zac", rappresentante eminente dei morotei viene eletto segretario della Dc i delegati salutano il sedicente nuovo corso proprio col già vituperato motivo.

Oggi la cantano dappertutto. A New York, a Occupy Wall Street, e a Hong Kong, In Cile come in Iraq, a Parigi come a Roma e ieri anche sotto la porta di Brandeburgo. Ci mette parecchio di suo la serie Netflix "rivoluzionaria" per eccellenza, La casa di carta. Se la cantano lì, nella fiction più antibanche che sia mai stata trasmessa. Però è difficile credere che Paolo Gentiloni e i rappresentanti del Pse avessero in mente una feroce campagna contro le banche quando, dopo il voto a favore della commissione von der Leyen, hanno dato vita al noto coretto. La fortuna del canto non-partigiano, sostiene qualcuno, si deve proprio all’assenza di tonalità forti. Niente a che vedere con roba come Fischia il vento, che la vernice rossa non gliela si scrostava di dosso nemmeno a provarci per ore. E’ una canzone che poteva andare bene per tutti, fascisti esclusi, e dunque pareva fatta apposta, in Italia, per consentire a quello che si chiamava allora ‘ arco costituzionale’ di festeggiarsi senza troppe tensioni. Ma in fondo come e perché si sia arrivati a questo esempio eminente di ‘ invenzione della tradizione’ conta poco. Meglio chiedersi cosa l’opzione canora transnazionale indica oggi. Bella Ciao, nonostante le apparenze, non è una canzone di lotta. E’ una canzone di resistenza ( con la r minuscola). La può cantare chiunque ritenga di trovarsi alle prese con un potere che opprime, con l’invadenza di una potenza estera, persino con la temuta vittoria elettorale di un partito ritenuto minaccioso. E’ una canzone gentile: la può cantare chi resiste con le bottiglie molotov ma anche chi si affida alla resistenza passiva e persino chi si limita ad assieparsi in una piazza. Se non proprio buona per tutti gli usi, quasi.

Bella Ciao? Sallusti: “Nessun partigiano l’ha mai cantata”. Vaurosenesi.it il 30 aprile 2019. “Bella ciao” canzone di tutti gli italiani? Sallusti: ‘Nessun partigiano l’ha mai cantata’. Per Alessandro Sallusti ‘non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza, introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista’. A Quarta Repubblica, il talk show condotto da Nicola Porro, in onda tutti i lunedì sera su Rete 4, si discute sul fatto che la canzone Bella Ciao rappresenti o meno tutti gli italiani con Ilaria Bonaccorsi, Vittorio Sgarbi, Alessandro Sallusti, Marco Gervasoni e Vauro. Argomento spinoso e divisivo che, infatti, fa discutere animatamente gli ospiti in studio. La tesi di Porro è che sia diventata una canzone di parte e che, quindi, non è giusto che venga fatta cantare anche a suo figlio a scuola. Di questa stessa idea, ma con sfumature diverse, sono anche il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti e il critico d’arte Vittorio Sgarbi. Dalla parte opposta della barricata, è proprio il caso di dirlo, si sistema la storica e giornalista, Ilaria Bonaccorsi, mentre il vignettista Vauro Senesi sostiene, come gli altri ma da un punto di vista agli antipodi, che non sia la canzone di tutti perché appartiene solo agli italiani antifascisti.

Ma Bella ciao può essere considerata o no la canzone di tutti gli italiani. È questo il tema di discussione introdotto a Quarta Repubblica da Nicola Porro verso la fine della puntata andata in onda lunedì 29 aprile. Secondo la definizione di Wikipedia, Bella Ciao “è un canto popolare, nato prima della Liberazione, diventato poi celeberrimo dopo la Resistenza perché idealmente associato al movimento partigiano”. Dunque, secondo il conduttore, “chi la canta gli dà un contenuto politico, è diventata una canzone di una parte” che non dovrebbe essere fatta cantare nelle scuole. Una tesi contrastata con veemenza da Ilaria Bonaccorsi, secondo la quale, invece, il canto appartiene a tutti gli italiani perché “è una canzone trovatella che racconta di una reazione ad una oppressione, nel caso specifico la reazione a 20 anni di dittatura nazifascista e alla fine di una guerra tragicamente combattuta accanto ad Hitler. Non è la canzone di una parte, ma degli esseri umani”.

L’affondo di Alessandro Sallusti: ‘Comunisti parte minoritaria della Resistenza’. La pensa naturalmente in maniera opposta Alessandro Sallusti, secondo il quale “vi siete accodati alla narrazione che ci fanno da 70 anni di quelle vicende. In realtà Bella ciao non può essere la canzone di tutti, anche perché è una fake news. Nessun partigiano l’ha mai cantata – sostiene il direttore del berlusconiano Il Giornale – Non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza. È stata introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista proprio per impossessarsi definitivamente di un fenomeno, quello della Resistenza, di cui il Partito Comunista è stato una parte, tra l’altro anche minoritaria, ma ha cercato ed è riuscito, perché ancora 70 anni dopo noi immaginiamo che i partigiani erano tutti e soltanto comunisti e che cantavano Bella ciao. Non è vera né l’una né l’altra cosa”.

Vauro d’accordo con Sgarbi. A questo punto interviene Vittorio Sgarbi, convinto che Bella ciao “è una bella canzone, ma va rispettato che sia di una parte, perché altrimenti essa perde la sua forza di rottura. Non puoi immaginare La Russa, Berlusconi o Sallusti che la canta, perché è offensivo. Il partigiano monarchico Edgardo Sogno mai l’avrebbe cantata. La caratterizzazione di sinistra, per cui immagino Vauro sia contento, va lasciata a Bella ciao, non possiamo farla diventare cosa di tutti. Se Casapound la canterà sarà un delitto”. Opinione con cui concorda anche Vauro. Il vignettista prima premette che “sarà un miracolo di questa trasmissione, ma è già la terza puntata che vado d’accordo con Sgarbi”. Poi però attacca a testa bassa: “Alla domanda se Bella ciao è la canzone di tutti gli italiani, io rispondo un secco e netto no. È la canzone di tutti gli italiani che si riconoscono nella Costituzione della Repubblica italiana, antifascista e nata dalla Resistenza. L’antifascismo è un valore e anche una discriminante”.

Alessandro Sallusti fa a pezzi Vauro a Quarta Repubblica: "Parlate di partigiani e dimenticate le foibe". Libero Quotidiano 30 Aprile 2019.  "Bella ciao è una fake news. Non era la canzone dei partigiani ma è stata introdotta negli anni Cinquanta dalla retorica comunista". Alessandro Sallusti, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, su Rete 4, fa a pezzi il vignettista Vauro Senesi che, invece, insiste sulla necessità di insegnare il fascismo nelle scuole anche se il conduttore sottolinea che i bambini non sanno nulla dell'argomento: "L'istruzione è il primo anticorpo contro il fascismo", tuona il vignettista. Ma il direttore de Il Giornale lo massacra: "In quella scuola si sono dimenticati di insegnare le foibe e la strage di Osoppo e tante altre cose ancora".

O anti-grillino, portami via...La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra. Ma se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale e neppure Salvini che si barcamena come può. Alessandro Sallusti, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Ieri ho partecipato a un dibattito televisivo, ospite di Nicola Porro su Rete4, sul ritorno in auge di Bella Ciao, la canzone che modificata nel testo fu adottata negli anni Cinquanta dal Pci per dare una colonna sonora postuma alla retorica della Resistenza e all'antifascismo perpetuo da utilizzare contro chiunque, da Berlusconi a Salvini, si sia frapposto con successo all'avanzata del comunismo. La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra, ma anche nelle scuole e in un caso addirittura in chiesa, Eugenio Scalfari le ha dedicato un pezzo della sua omelia domenicale su La Repubblica. Un revival sinistro in ogni senso, che come tutti i revival è indice dell'incapacità di guardare al presente e al futuro, un po' come Little Tony che si è fermato a Cuore matto e Bobby Solo a Una lacrima sul viso. Sono fermi lì, quelli del Pd, alla rivoluzione sognata e per fortuna nostra fallita. Ma se proprio vogliamo dare una colonna sonora a questo tempo bisognerebbe che anche la sinistra uscisse dalla «nostalgia canaglia» (peraltro titolo di una fortunata canzone cantata da Al Bano e Romina) e scrivesse un nuovo spartito con parole e musica comprensibili non tanto ai nostri nonni, ma ai nostri figli e nipoti, cosa che però non mi pare Zingaretti e soci siano intenzionati o capaci di fare. Proporsi, tra accelerazioni e frenate (ieri quella dell'ex ministro Delrio) come possibili stampelle dei Cinque Stelle nel caso di una rottura tra Di Maio e Salvini, più che un programma politico è una mossa della disperazione nella quale era già caduto Bersani sei anni fa all'indomani della sconfitta, o «non vittoria» come la chiamò lui, alle Politiche del 2013. Se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale (quella radicale e intollerante è talmente al lumicino che bastano polizia e carabinieri) e neppure Salvini che si barcamena come può stante la situazione. L'inutile «fascismo-antifascismo» andrebbe sostituito con il più utile «grillismo-antigrillismo» perché nell'opaco movimento di Di Maio e nei suoi agganci con i servizi segreti italiani e stranieri sta il vero pericolo per la democrazia, proprio come ai tempi di Bella ciao, ballata pensata da chi ci voleva portare al fianco di Stalin.

Red Ronnie a Stasera Italia contro le Sardine e Bella Ciao: "L'invasore chi è, Matteo Salvini o l'Europa?" Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Parole che strappano un sorriso a Matteo Salvini. Parole di Red Ronnie a Stasera Italia, il programma di Rete 4, rilanciate sui social proprio dal leader della Lega, di fatto difeso a spada tratta dal cantante. Barbara Palombelli chiede a Red Ronnie: "Ma che tipo è Salvini secondo te?". Lui risponde: "È un istintivo, uno che si dice che raggiunga la pancia perché parla con la pancia. Raramente legge dei discorsi, diffido da chi lo fa". Dunque, Red Ronnie prosegue: "All'inizio del servizio avete fatto sentire la canzone C'è chi dice no di Vasco Rossi, in un servizio in cui elencavate tutti i nemici del leghista. Io ho il disco, e devo mettere un pezzo della canzone: continuano a giudicarlo per il Papeete, perché era a torso nudo, perché beveva il mojito. È un po' come quello che Vasco diceva di se stesso. Gli dicevano: guardate l'animale, è un animale? E Salvini oggi è un po' quell'animale che tutti dicono", afferma. Ma non è finita, perché poi nel mirino di Red Ronnie ci finisce Bella Ciao, tornata in auge nelle piazze delle sardine: "Visto che parliamo di canzoni, vorrei parlare di Bella Ciao. È una canzone che va bene nella Casa di Carta ormai. Ma cantare Bella Ciao, quando si dice: mi sveglio la mattina, è arrivato un invasore. Ma l'invasore chi è? Salvini o qualcuno dell'Europa che ci sta invadendo e ci sta comprando? Io sono un anarchico, però vedo che ci sono molte cose che non stanno andando in questo mondo, c'è qualcuno che non sa più che ore sono", conclude. Intervento, come detto, rilanciato sui social da Salvini col commento: "Fortissimo Red Ronnie, parole di buonsenso!".

Ciao compie (solo) 200 anni: è la parola italiana più celebre dopo «pizza». Esaltata dai partigiani e al Festival di Saremo, la sua prima attestazione scritta risale al 1818 (e a Milano), scrive Paolo Di Stefano il 23 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera".

«Ciao ciao bambina». Nel 1959 Domenico Modugno vinse a Sanremo con Johnny Dorelli cantando Piove. In realtà quella canzone resterà nella memoria per il ritornello: «Ciao ciao bambina», che presto si diffonderà all’estero nella trascrizione inglese «Chiow Chiow Bambeena», in quella tedesca «Tschau Tschau Bambina», in quella spagnola «Chao chao bambina». Dalida la cantò nella versione francese. Il linguista Nicola De Blasi (nel libro «Ciao», pubblicato dal Mulino) sostiene che la canzone di Modugno e di Dino Verde rappresentò la svolta decisiva nella fortuna internazionale della parola «ciao», la forma di saluto più familiare che si conosca non solo in Italia. In realtà, segnala De Blasi, il termine era già noto oltre i confini nazionali: in un romanzo francese di Paul Bourget del 1893, un personaggio diceva in italiano «Ciaò, simpaticone» e nei primi del Novecento veniva suonato un valzer intitolato «Ciao». Il saluto filtrò ben presto nei film neorealisti e nelle commedie all’italiana nel momento in cui il nostro cinema aveva un successo mondiale.

Dal cinema ai giornali. Nel film di Monicelli I soliti ignoti, del 1958, Gassman saluta l’amico Capannelle ricoverato in ospedale con le parole «Addio, ciao, bello». Insomma, il nostro «ciao» si diffonde nel mondo sulle ali del boom economico come «icona quasi fonosimbolica» e del diffondersi del «tu» nei rapporti personali. Tant’è che nel 1967, l’anno tragico per Sanremo in cui Tenco presenta Ciao amore ciao, la Piaggio decide di battezzare «Ciao» un suo motorino che con lo slogan pubblicitario «Bella chi ciao» punta sul pubblico giovanile. E ai lettori giovani, l’anno dopo, si rivolge anche il settimanale illustrato «Ciao 2001», mentre a grandi e bambini viene proposta la crema al cioccolato «Ciaocrem».

Nelle canzoni. Il ’68 è l’anno in cui sempre a Sanremo Luis Armstrong duetta con Lara Saint Paul cantando Ciao, stasera son qui. L’irresistibile ascesa di «ciao» giunge all’apoteosi nel 1990 con la mascotte eponima dei Mondiali di calcio. E attualmente, dopo «pizza», «ciao» è la parola italiana più pronunciata nel mondo fino a «ciao raga», «ciao neh», «ciaone». «Questa mattina mi son svegliato, oh bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao»: va detto che il canto intonato dai partigiani, che si sarebbe imposto molto dopo come inno politico di resistenza e di liberazione, fu lanciato grazie anche a iniziative commerciali prestigiose come il disco di canti popolari italiani interpretati da Yves Montand. Il più celebre etnomusicologo, Roberto Leydi, dimostrò che Bella ciao è radicata nella tradizione popolare perché risale a un canto piemontese dell’Ottocento dove però manca la parola «ciao», che invece compare in un canto delle mondine anni Quaranta.

Le prime testimonianze. E pensare che l’origine della parola non ha nulla a che fare con la confidenza, se è vero, come è vero, che «ciao» deriva dal latino «sclavum», variante di «slavum» quando a essere ridotte in schiavitù erano le genti di provenienza slava. A partire dal Quattrocento si introduce l’abitudine di salutare qualcuno dichiarandosi suo schiavo (il friulano «mandi» proviene da «comandi»): da qui la parola «ciao» che origina dal veneziano «s’ciavo», schiavo, appunto. Ma c’è un compleanno che quest’anno va festeggiato: è esattamente di due secoli fa la prima attestazione scritta di «ciao» (che naturalmente doveva esistere in forma orale già da un po’), la stessa parolina che immettiamo decine di volte al giorno chattando su Facebook o su WhatsApp. Il 1818 è l’anno in cui il tragediografo cortonese Francesco Benedetti in una lettera accenna alle gentilezze ricevute da una signora che lo conduce alla Scala e dai milanesi in genere: «Questi buoni Milanesi cominciano a dirmi: Ciau Benedettin». D’altra parte un anno dopo la scrittrice inglese Lady Sidney Morgan allude al comportamento di alcuni spettatori che in un palco della Scala si scambiano un «cordial ciavo». Altra conferma del bicentenario arriva da una lettera della contessa veronese Giovanna Maffei, che nel 1818 riferisce al marito i saluti del figlio ancora bambino: «Peppi à appreso a dire il tuo nome, e mi disse di dir ciao a Moti». Oggi la funzione fonosimbolica si è moltiplicata, se al telefono, nella fretta del congedo, non facciamo che ripetere: cià cià cià cià cià cià…

·        Antifascisti, siete anticomunisti?

Il Partito fascista che non rinascerà dopo 100 anni. Giordano Bruno Guerri il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti. Esattamente 100 anni fa Benito Mussolini trasformò il suo movimento in Partito Nazionale Fascista. Non è un ricordo festoso, ma stupiscono, imbarazzano, i timori di chi sventola a ogni passo il pericolo della «ricostituzione» di quel partito. La temevano, più a ragione, gli autori della nostra Costituzione, che nel XII emendamento provvisorio scrissero asciuttamente «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». Quasi nessuno, però, ricorda il secondo capoverso di quell'emendamento (lo ha fatto pochi giorni fa Stefano Bruno Galli): «In deroga all'articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall'entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista». L'articolo 48 è quello per cui «sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. ... Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge». I costituenti dunque stabilivano che, a partire dal 1953, «i capi responsabili del regime fascista» avrebbero potuto votare e addirittura essere eletti alla Camera o al Senato: una decisione non da poco, visto che erano ancora vivi per citare solo i due più brillanti Giuseppe Bottai e Dino Grandi. Curiosamente, il vezzo di diffondere il timore della possibile ricostituzione di un partito fascista è cresciuto con gli anni, invece di diminuire. L'ultima volta, recentissima, è stata per l'ignobile - abietta, infame, meschina, miserabile, nefanda, spregevole, turpe - aggressione di alcuni facinorosi alla sede della Cgil. La nostra condanna va da sé, ma occorre ricordare che per procedere legislativamente allo scioglimento di una forza politica (per esempio Forza Nuova) occorre prima una sentenza della magistratura che certifichi il tentativo di ricostituire un partito fascista. Questa sentenza non c'è. C'è il pericolo? Giurerei che non lo credano neanche quelli di Forza Nuova e dei movimenti simili. Il fascismo storico non può rinascere perché non ci sono le condizioni che lo permisero: l'immensa crisi del dopoguerra, gli scontri armati in piazza con socialisti e comunisti e - non ultimo - la mancanza di un capo carismatico come Mussolini. Non può rinascere anche perché il sistema internazionale (a partire dall'Ue) non lo consentirebbe, e soprattutto perché nessuno ne ha voglia, a parte qualcuno che confonde Dio, Patria e Famiglia con Punizione, Disciplina e Tristezza. Chi sbandiera il pericolo fascista lo fa per una deprecabile mancanza di studi, che lo metterebbero in grado di interpretare i nessi storici. Oppure, temo più spesso, per distrarre l'opinione pubblica da problemi concreti, quelli che davvero dovremmo affrontare ogni giorno. Per esempio un sistema scolastico che aiuti a capire le differenze fra storia e attualità. Giordano Bruno Guerri

L’ossessione fascista degli antifascisti. LO SPAURACCHIO DELL’ETERNO FASCISMO È ORMAI USATO PER DEMONIZZARE L’AVVERSARIO POLITICO.  Beatrice Nencha il 2 Novembre 2021 su Nicola Porro.it. Abbiamo un problema: il ritorno dell’eterno fascismo. Prima ancora dell’incursione di Forza Nuova dentro la sede della Cgil, la parola Fascismo stava già tornando in auge, in tutto il mondo, grazie alla pandemia. Non a caso la rivista spagnola Vanguardia, nel dossier di marzo 2021 intitolato “El mundo después de la Covid 19”, si interroga sul risorgere delle pulsioni fasciste, parallelamente all’imporsi di quello che è stato denominato il “Nuovo ordine mondiale”.

Covid come strumento di potere

Nel reportage “Autocracias y populismo en los nuevos tiempos”, l’autore Joshua Kurlantzick – giornalista e membro del sud-est asiatico presso il Council on Foreign Relations – riflette su cosa, durante l’emergenza dovuta al Covid-19, abbia accomunato il tragitto politico di numerosi governi, in ogni parte del mondo. Da quello del presidente delle Filippine Rodrigo Duerte, passando per l’Ungheria di Viktor Orbàn e l’India del primo ministro Narendra Modi, per arrivare al partito conservatore “Legge e giustizia” in Polonia fino ai governi di Israele, Canada, Australia, Russia. Solo per citarne alcuni.

“Un contagio della magnitudine del Coronavirus offre alle figure autoritarie una opportunità di consolidarsi al potere superiore a qualsiasi altro avvenimento, eccetto una guerra” scrive Kurlantzick, elencando come l’uso dei poteri emergenziali sia avvenuto, in moltissimi Paesi, a scapito delle libertà civili della popolazione. La compressione dei principali diritti costituzionali è stata compensata solo in parte dalla promessa di sicurezza offerta dallo Stato ai propri cittadini. A questa promessa si è poi saldata, da parte di dirigenti autocrati, “l’opportunità di stigmatizzare determinate minoranze nella popolazione, incolpandole dell’epidemia. Di fatto, dalle Filippine all’Ungheria, attraverso l’India e la Cambogia, i governanti di molti Paesi stanno usando il Coronavirus per accumulare poteri e stabilire nuove regole che saranno difficili da eliminare quando l’emergenza sarà cessata. Molti di questi nuovi poteri non hanno un limite temporale come scadenza. E la pandemia avrà consolidato il potere di questi despoti in modo indefinito” sottolinea l’autore.

Stato d’emergenza perenne

Queste riflessioni dovrebbero colpirci, anche se non viviamo in Cambogia. Dall’inizio della pandemia, quasi due anni fa, l’Italia è impantanata in uno stato di emergenza perenne. Nonostante da tempo l’emergenza non sia più così evidente, né nei numeri né nella logica dei provvedimenti emanati da enti spesso nemmeno di rango istituzionale ma, nei fatti, dotati di maggiori poteri e di una trasparenza a dir poco carente. Comitati e istituti che emanano norme spesso in contrasto tra di loro: da un lato c’è l’assoluta rigidità di protocolli (più politici che sanitari) come il lasciapassare verde per accedere al posto di lavoro; dall’altro l’assoluto disinteresse a conoscere quali siano i luoghi di maggior contagio del virus, i soggetti ad esso più esposti (in maggioranza, a leggere i dati dell’Istituto superiore di Sanità, soggetti non più in età lavorativa) e il modo più efficace per proteggerli. Mentre appaiono totalmente ignorati, da questi apparati, i costi sociali, economici e psicofisici generati da uno stato di emergenza endemico, che non può che erodere la fiducia dei cittadini nelle istituzioni democratiche rappresentative. La scarsa partecipazione politica alle più recenti tornate elettorali, anche se locali, dovrebbe suonare come un campanello di allarme.

Bastano queste forti compressioni dello stato di diritto e del principio di checks and balances dei poteri per connotare l’operato di un governo con l’aggettivo “fascista”? O neofascita? O populista? O autoritario? Qui entriamo in un campo spinoso da maneggiare, persino per i politologi, che non concordano su una definizione condivisa del fenomeno. Sicuramente, la pandemia ha fatto risorgere l’uso demagogico, e talvolta improprio, di tutte queste denominazioni per qualificare quei governi che hanno imposto limitazioni durature dei diritti costituiti ai propri popoli. Ma questo è avvenuto solo nei governi e nei regimi dittatoriali considerati di destra? Su questo tema si interroga la rivista Il Mulino, che ha dedicato la sua ultima pubblicazione trimestrale all’analisi del concetto di Fascismo come “eterno ritorno”.

Fascismo immaginario

“La tesi del fascismo eterno è una conseguenza della banalizzazione del fascismo stesso, al punto in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali” scrive Steven Forti, professore di Storia Contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de Historia Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa. In questo modo personalità del tutto diverse come Trump, Bolsonaro, Salvini, Meloni e Orbàn possono essere etichettate come “fasciste” dai media, e dai loro oppositori, pur non avendo tratti né obiettivi in comune col fenomeno politico conosciuto come “fascismo” storico”. Tanto che per Trump è stata coniata, tra le tante, anche la magmatica definizione di “leader postfascista senza fascismo”. Come spiega Emilio Gentile, la tesi del “fascismo eterno” – o Ur Fascismo, avanzata da Umberto Eco in una conferenza tenuta negli Usa nel 1995 – “ha portato a una sorta di astoriologia in cui il passato storico viene continuamente adattato ai desideri, alle speranze, alle paure attuali”. Ma leggiamo quali elementi, secondo Eco, sono caratteristiche tipiche del Fascismo: il culto della tradizione, il rifiuto del modernismo, il culto dell’azione per l’azione, il rifiuto di qualsiasi critica, la paura dell’Altro, l’appello alle classi medie frustrate, l’ossessione del complotto, l’elitismo popolare, l’eroismo, il machismo, un “populismo qualitativo” e la creazione di una neolingua. Secondo il semiologo e filosofo piemontese, la presenza di almeno una di queste caratteristiche sarebbe sufficiente a creare una “nebulosa fascista”.

Demonizzare l’avversario politico

Tuttavia, la facilità con cui si possono addebitare alcune di queste connotazioni a governi considerati oggi di centro o di sinistra, oltreché a quelli populisti o conservatori, dovrebbe portare a maneggiare la definizione di “fascismo” con più onestà intellettuale e accortezza. E non come spauracchio demagogico e retorico per guadagnare facile consenso elettorale o demonizzare l’avversario politico. L’analisi politica dovrebbe essere non solo più precisa, ma anche più profonda. Come osserva lucidamente Forti “né il concetto di fascismo né quello di populismo ci aiutano a capire cosa sono e quali obiettivi hanno Trump o Salvini: tempi nuovi richiedono nuove categorie”.

Provate a elencare alcuni degli ultimi provvedimenti di un governo a caso, sia esso italiano o francese o americano: imporre un pass per frequentare luoghi di svago, di cultura o di lavoro, discriminando chi non lo possiede; imporre l’uso di una neo lingua per rifondare la grammatica e rendere impersonale (“equa”) la definizione di genere; enfatizzare le differenze tra oppressi e oppressori in chiave razziale (crical race theory); stigmatizzare la pandemia come risultato di un comportamento irresponsabile dei “non vaccinati”, creando divisioni all’interno del corpo sociale; usare la tecnologia per censurare opinioni e articoli che non corrispondono alla narrativa ufficiale di governo, intaccando la libertà di espressione, la libertà di stampa e la libertà di manifestare per i propri diritti da parte delle minoranze.

Se mettete su queste azioni, o su una di esse, la faccia di Salvini o di Trump, sarebbe facile bollarle come imposizioni autoritarie o “fasciste”. Anche se non sono loro ad averle imposte bensì leader democratici per i quali, oggi, servirebbe un nuovo Eco per definirne le gesta.

Beatrice Nencha, 1° novembre 2021

Enzo Risso per editorialedomani.it il 3 novembre 2021. La cronaca delle ultime settimane ha posto nuovamente all’ordine del giorno il tema della presenza nel nostro paese di nostalgie e pulsioni verso il fascismo. L'inchiesta di Fanpage sulla campagna elettorale di Milano; l’assalto alla sede della Cgil a Roma; il video, corredato di saluto romano e cori pro duce allo stadio Olimpico, sono solo gli ultimi casi. Nelle viscere di una parte della nostra società il fascismo resta un tema irrisolto. Per poco più di un terzo degli italiani (36 per cento) i regimi fascisti hanno realizzato cose importanti nei loro paesi. Ne sono conviti i residenti a Nordest (41 per cento) e in Centro Italia (43 per cento), nonché la maggioranza degli elettori di Giorgia Meloni (69 per cento). Significativo, per identificare l’animus che aleggia lungo lo stivale, è osservare quanti ritengano attuale o anacronistico parlare del fascismo. Per il 43 per cento è un tema superato, anzi è bollato come la «solita manovra retorica cui ricorre la sinistra quando non ha argomenti». Questa opinione è particolarmente vivida tra le fila degli elettori di Fratelli d’Italia (70 per cento), ma è ben presente nei ceti popolari (52 per cento), nel ceto medio-basso (47 per cento), nonché tra i residenti delle isole (50 per cento) e del Nord-est (47 per cento). Il senso anacronistico non coinvolge solo i partiti di centrodestra (57 per cento in Forza Italia, 67 nella Lega), ma lo ritroviamo tra gli elettori indecisi (42 per cento), tra i pentastellati (36 per cento) e, in forma ridotta, anche tra le fila del Pd (15 per cento). Tra i giovani, il 40 per cento reputa sorpassato il discorso sul fascismo, mentre nella Generazione X (i nati dal 1965 al 1979 e cresciuti nel cuore degli anni Ottanta) la percentuale lievita al 46 per cento. Il dato più significativo, nonostante il clamore suscitato dall’assalto alla sede della Cgil, è quello relativo alla necessità di reprimere i movimenti che inneggiano al duce e al regime. La quota di favorevoli è rimasta, più o meno, la stessa rispetto a un anno fa. Nel dicembre 2020, il 70 per cento degli italiani si diceva favorevole alla repressione. Una quota che, allora, saliva al 76 per centro nelle fila dei giovani della Generazione Z (nati tra il 1997 e il 2010), ma scendeva al 65 per cento tra le fila delle Generazione X. Fra quanti erano favorevoli alla repressione c’erano porzioni non secondarie di elettori di Fratelli d’Italia (43 per cento), anche se il dato toccava il suo apice tra i supporter di Pd (92 per cento) e M5s (80 per cento). Pochi giorni dopo l’assalto alla sede della Cgil la percentuale di quanti ritengono giusto mettere fuori legge le associazioni o i partiti che si richiamano al fascismo è cresciuta di un solo punto (71 per cento). Se la vicenda non ha mutato gli equilibri complessivi, ha inciso su una parte dell’elettorato di Giorgia Meloni. La sua base, dopo la vicenda della Cgil, si spacca in due, con una metà (50 per cento) favorevole alla repressione (con un incremento di 7 punti rispetto al 2020) e l’altra metà suddivisa tra i nettamente contrari (18 per cento) e i silenti (32 per cento che non sa). Il dato, tuttavia, non sembra essere il risultato di una riflessione autocritica sul tema, bensì il prodotto dell’ampliamento della base elettorale di Fratelli d’Italia. La crescita di consensi registrata nell’ultimo anno ha inglobato persone provenienti da storie politiche differenti, ex Pdl, Lega, M5s o centristi. Elettori che non hanno legami nostalgici e che, anzi, sono particolarmente infastiditi da questi rigurgiti. Dal punto di vista dei segmenti sociali, l’ipotesi di repressione dei movimenti fascisti trova più freddi, rispetto la media, i ceti popolari (66 per cento), gli operai (64 per cento), i disoccupati (63 per cento) e i lavoratori autonomi (59 per cento). Il tema del rapporto col fascismo mostra, oggi come ieri, il carattere anomalo e anti-sistema che la destra italiana porta con sé dalle origini. In particolare, come sottolineava il politologo Marco Revelli, sfoggia il permanere, in alcuni segmenti della società, di tratti anti-liberali e totalitari, in cui la pulsione nostalgica verso il fascismo si coniuga con la tensione critica e il rifiuto epidermico e empatico dei valori e delle regole del modello democratico.  

 Salvini e Bolsonaro? La sinistra si indigna, ma sono i compagni ad omaggiare sempre i "cattivi". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 03 novembre 2021. Ma da che pulpito viene la predica! Vi indigna, eh, vedere Salvini incontrare un presidente democraticamente eletto, come il brasiliano Jair Bolsonaro. E ritenete che la sua «presenza sia indigesta», come ha detto il grillino Mario Perantoni. E pertanto vi considerate legittimati a protestare, come hanno fatto ieri a Pistoia centri sociali e antagonisti, o a disertare, come ha fatto il vescovo della città. Peccato che voi cattocomunisti, grillini e gente varia di sinistra, soffrite di un doppio male: la memoria corta e lo strabismo cronico. Non vi ricordate di quando i vostri leader incontravano brutti ceffi. E, se pure ve ne ricordate, guardate a quegli incontri con occhio indulgente perché, quando il personaggio ingombrante è di sinistra o islamico, allora è solo un compagno che sbaglia (non troppo) o una simpatica canaglia. Se invece è un sovranista, è un nemico del popolo. Visto che i compagnucci sono smemorati o strabici, glieli ricordiamo noi quegli incontri scomodi. Che ne pensate di quella passeggiata nel 2006 tra Massimo D'Alema, allora ministro degli Esteri, e un deputato di Hezbollah, gruppo terroristico anti-israeliano, con cui l'altro se ne andava a braccetto per le strade di Beirut? E che ne dite di quei suoi incontri con un altro presidente brasiliano, il comunista Lula, condannato per corruzione e riciclaggio (accuse dalle quali, sebbene le condanne siano state annullate, non è stato assolto) e tuttavia ritenuto frequentabile dagli italo-comunisti? Non solo da D'Alema, ma anche dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri, che da ministro dell'Economia lo ha incontrato a febbraio 2020, dopo essere andato a trovarlo in carcere in Brasile due anni prima. Un abboccamento dal quale non poteva esimersi l'allora segretario del Pd Nicola Zingaretti che, poco prima che impazzasse la pandemia, trovava il tempo di stringere la mano a Lula. Cioè l'uomo che si è sempre rifiutato di consegnarci Cesare Battisti. Quanto a frequentazioni sudamericane discutibili non si può non ricordare il doppio incontro di delegazioni grilline, nel 2017 e 2019, coi ministri di Maduro, il presidente venezuelano che sta affamando il suo popolo. Forse volevano emulare D'Alema, che nel 2008 aveva siglato un accordo con Chávez, predecessore di Maduro. Ma parliamo di poca cosa rispetto alle reiterate strette di mano sinistre con Fidel Castro. Lo incontra ripetutamente Romano Prodi negli anni da premier: ne resterà positivamente impressionato tanto da definire, alla sua morte, quella incarnata da Castro «la speranza di un comunismo diverso». E lo va a trovare Fausto Bertinotti, da segretario rifondarolo, definendo la Cuba castrista «una terra miracolosa». Con lo stesso interesse con cui ha guardato ai tiranni latinoamericani, la sinistra ha mostrato sorrisi a personaggi controversi del mondo arabo. Il palestinese Arafat è stato il campione degli esponenti rossi, da D'Alema a Prodi che lo hanno accreditato come interlocutore, fino a Federica Mogherini, immortalata da giovane fan col leader palestinese. Ma anche Gheddafi, per l'amicizia col quale Berlusconi ha subito insulti, è stato incontrato più volte da Prodi, in veste di presidente della Commissione Ue. Caso singolare è quello del curdo Ocalan, artefice di azioni terroristiche, nel 1998 prima accolto in Italia come richiedente asilo grazie all'appoggio di Rifondazione Comunista (fu Bertinotti a incontrarlo) e poi scaricato dal premier D'Alema. Ma uno come Baffino, che ha abbracciato i peggiori leader, avrebbe potuto anche non fare lo schifiltoso con Ocalan. All'elenco manca Di Maio, che forse avrebbe voluto incontrare Pinochet, prima di scoprire che era già morto e non era il dittatore del Venezuela. 

L'antifascismo senza memoria è solo un'arma. Stenio Solinas il 27 Ottobre 2021 su Il Giornale. Non le è bastato, già un ventennio fa, il "lavacro" di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato, già un ventennio fa, il «lavacro» di Fiuggi, né l'essere già stata ministro della Repubblica, né l'essere tutt'ora un deputato nonché il segretario di un partito riconosciuto a pieno titolo nella dialettica parlamentare. Non le è bastato aver detto, ridetto, stradetto e in più lingue (visto che ne parla niente male almeno un paio) che lei con il fascismo non ha niente a che spartire, per età, per rifiuto di ogni tentazione totalitaria, e tantomeno con il neofascismo, palla al piede per ogni partito che intenda rifarsi a un'idea di destra. Non le basterà, come ha appena fatto, intervistata da Bruno Vespa nel suo ultimo libro fresco d'uscita (Come Mussolini rovinò l'Italia. E come Draghi la sta risanando) dire che «il 25 aprile celebra la liberazione dell'Italia dal nazifascismo»... Qualsiasi cosa abbia detto, dica e dirà Giorgia Meloni sul tema non muterà di una virgola ciò che c'è dietro a esso: un'Italia fragile, un Paese senza, aggrappato a una memoria di comodo, non avendo mai voluto fare veramente i conti con la sua storia. Diceva Renan che la nazione «è un plebiscito quotidiano». A giudicare dalle ultime amministrative, siamo una nazione in sciopero. L'antifascismo è la chiave che serve a tener chiuse le miserie italiane. Abbiamo perso una guerra e ci siamo crogiolati con l'idea che l'avesse persa il fascismo e vinta gli italiani... Non è un caso che la vulgata più popolare sull'argomento sia stata un film comico, Tutti a casa. Ricordate? «Colonnello è successa una cosa straordinaria», diceva il tenente Innocenzi, Alberto Sordi sullo schermo: «I tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando contro». Dalla tragedia ci stavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata la nostra maschera nazionale. Il film è degli anni Sessanta, quando l'antifascismo strumentale si accinge a blindare la nascita del centro-sinistra da future tentazioni di centro-destra. Prima non era stato così, e in fondo gli anni della ricostruzione sono quelli di un Paese troppo vicino a ciò che è successo per giocarci sopra o per fare finta di avere in maggioranza resistito lì dove invece in maggioranza aveva acconsentito. Per ogni antifascista improvvisato che punta il dito sul fascista non pentito c'è sempre qualcuno che ricorda al primo che no, che non ha i titoli per ergersi a coscienza civile... Nella Milano degli anni Cinquanta, Leo Longanesi, uno che ha fatto e disfatto il fascismo, salta sul tavolo di un ristorante e grida all'indirizzo di chi lo denunciò all'indomani della Liberazione: «Prendetelo, è un antifascista». Quello si alza e imbocca di corsa l'uscita. Il fatto è che siamo sempre più un Paese senza memoria. Avevamo il più forte Partito comunista d'Occidente. Si è sciolto come neve al sole e non trovi nessuno fra i suoi politici di lungo corso, fra i suoi mâitres à penser intellettuali che sull'argomento vada mai veramente a fondo. Ti guardano seccati, come se gli stessi chiedendo di rivelare chissà quali oscenità private. Per anni sono stati al servizio di un'idea, poi sono passati ad altro, come si cambia d'abito al mutare delle stagioni. Il comunismo prêt à porter. Naturalmente, memoria e identità sono legate fra loro e in politica l'esserne privi è tanto più dannoso perché sono le classi dirigenti che costruiscono il carattere di una nazione. La fine della Prima repubblica, il non essere mai nata della Seconda, il proliferare di sigle parlamentari, il nascere e il morire di maggioranze di governo senza legittimazione di voto, la moratoria alle elezioni politiche, che cosa ci raccontano se non un Paese senza timone né rotta? Ci si affida così a un feticcio nominale, residuo postbellico riesumato a comando, immagine di comodo costruita su una lettura parziale e autoconsolatoria di cosa sia stato il ventennio fascista, la sua pervasività, le sue connivenze, il grado di partecipazione, di consenso, persino di entusiasmo. Era stato un antifascista serio, Piero Gobetti, a definire il fascismo «l'autobiografia della nazione». Per anni si è continuato a far finta che quell'autobiografia fosse antifascista I conti non tornano, non possono tornare, non torneranno mai. Giorgia Meloni se ne faccia una ragione, si metta l'anima in pace e si candidi alla guida del Pd. Stenio Solinas

Budapest 1956: tragedia e eroismo della rivoluzione ungherese. Andrea Muratore su Inside Over il 24 ottobre 2021. La rivoluzione ungherese del 1956 fu uno degli eventi chiave della storia europea della Guerra Fredda e un punto di svolta per l’area del Vecchio Continente controllata dall’Unione Sovietica. L’epopea dei “ragazzi di Buda” che per due settimane, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre sfidarono il potere sovietico e il suo dominio sull’Ungheria è passata alla storia e tuttora è considerata una parte chiave della storia europea. La durissima repressione operata dall’Armata Rossa sancì un rafforzamento del controllo sovietico sulle aree occupate con la fine della Seconda guerra mondiale.

L'Ungheria post-bellica

Occupata nel 1945 dall’Armata Rossa dopo aver partecipato a fianco della Germania alla seconda guerra mondiale, l’Ungheria aveva subito uno dei più traumatici declini mai capitati a uno Stato europeo nell’era contemporanea. In meno di trent’anni, dal 1918 in avanti, Budapest era passata dall’essere la seconda città di un impero, l’Austria-Ungheria, a diventare la capitale di uno Stato ristretto di oltre due terzi del suo territorio e diventato satellite di una delle due superpotenze mondiali.

L’Ungheria, nazione abitata da una popolazione politicamente molto dinamica, legata ai valori pubblici e identitari, fu sottoposta a una delle più repressive dittature mai insediatesi nella zona, che avrebbe avuto come unico termine di paragone futuro la Romania di Nicolae Ceaucescu.

Il regime di Matyas Rakosi, al potere dal 1948 al 1956, fu uno dei maggiormente duri in termini di stretta sulle libertà politiche, di espressione e di confessione religiosa; complice la natura di ex Paese alleato della Germania, l’Ungheria fu sottoposta a una sorveglianza speciale da parte di Mosca e a una vera e propria esternalizzazione dei metodi staliniani tristemente famosi in Russia. Purghe, persecuzioni delle minoranze, ghettizzazione di membri dello stesso Partito Comunista accusati di revisionismo o vicinanza alla Jugoslavia di Tito erano all’ordine del giorno, così come le azioni dell’Autorità per la Sicurezza Pubblica, il servizio segreto di Budapest (Avh).

L’onda lunga della destalinizzazione dopo la morte del dittatore sovietico nel 1953 raggiunse anche Budapest. Negli anni precedenti nelle purghe era caduto vittima anche Laszlo Rajk, ex ministro dell’Interno e fondatore dell’Avh, mentre per spostare l’attenzione dalla crescente problematica della crisi economica il regime provò, tardivamente, a incentivare dibattiti e riflessioni interne.

L'anomalia ungherese

Il problema dell’Ungheria era, in quella fase, triplice. In primo luogo, il Paese era costretto nonostante la formale alleanza a pagare pesanti riparazioni di guerra a Unione Sovietica, Repubblica Ceca e Jugoslavia che, nell’era Rakosi, assorbivano circa un quinto del budget nazionale, oltre a dover mantenere sul suo territorio le forze dell’Armata Rossa.

In secondo luogo, l’Ungheria era vittima di iperinflazione, depauperamento dei salari e problemi legati all’assenza di prospettive nella fase dell’industrializzazione post-bellica, che aveva portato i redditi nel 1952 a due terzi del livello del 1938.

In terzo luogo, l’insicurezza economica e sociale si sommava con un contesto interno che vedeva una popolazione dinamica, istruita e abituata a standard di vita ben più elevati depauperata nelle prospettive di sviluppo e ostacolata nella volontà di commerciare e confrontarsi con i Paesi occidentali.

In quest’ottica maturarono le condizioni perché si sviluppasse una magmatica esplosione che ebbe nella messa in discussione dei miti del conformismo bolscevico il suo innesco.

Ottobre 1956: esplode la rivoluzione

L’innesco della rivoluzione ungherese avvenne per eventi accaduti in Polonia. Tra il 19 e il 21 ottobre 1956 in Polonia, il “revisionista” Władysław Gomułka venne riabilitato ed eletto a capo del Partito Operaio Unificato Polacco, dopo una “prova di forza” con i sovietici.

In sostegno a Gomulka si mossero movimenti politici di tutta l’Europa orientale, tra cui un gruppo di studenti dell’Università di Tecnologia e di Economia di Budapest ritrovatosi il 23 ottobre a Pest sotto la statua di Sándor Petőfi, il poeta che secondo la tradizione storica del Paese avrebbe scatenato la rivoluzione del 1848 con la lettura di una sua poesia e a cui nome era stato intitolato un gruppo interno al partito favorevole alle politiche riformiste dell’ex primo ministro Imre Nagy.

L’acclamazione della folla di Pest per Nagy, ritenuto l’oppositore numero uno di Rakosi e fautore della recente caduta di quest’ultimo dalla guida del partito, si tradusse in sostegno aperto quando la folla acclamò il politico del centro del partito e inneggiò in suo favore. Nel timore di non riuscire a placare la rivolta, il Comitato centrale del Partito comunista decise nella notte di richiamare a capo del governo Nagy, conscio del fatto che le proteste stavano ricevendo il sostegno della popolazione e si stavano trasformando in rivolta anti-sovietica.

Nagy tentò di restare nel solco della disciplina di partito, ma impostò una linea decisionista. Come ricorda Il Giornale, Nagy fece sciogliere “la terribile polizia segreta stalinista”, ordinando inoltre di liberare i prigionieri dai campi di detenzione, mentre “i nuovi patrioti” liberano il cardinale József Mindszenty, oppositore del regime comunista incarcerato nel 1948. Giornalisti, pensatori, oppositori del regime tornano ad aver voce ovunque nella nazione. Nel primo giorno di novembre, l’Ungheria, paese satellite che nello scacchiere della Guerra Fredda rappresenta una bandierina in più, annuncia l’intenzione di uscire dall’alleanza politico-militare dei Paesi comunisti”, suscitando il definitivo tracollo della pazienza sovietica per l’esperimento ungherese.

La repressione

Ovunque l’Ungheria entrò in subbuglio: i fedelissimi della linea stalinista e repressiva del Partito Comunista furono messi all’angolo e in certi casi cacciati dalle loro posizioni politiche armi in pugno, nelle fabbriche del Paese formarono consigli operai anarco-sindacalisti e fu indetto lo sciopero generale. Mosca rispedì due membri del Comitato Centrale del Pcus, Mikojan e Suslov, a Budapest e mobilitò le truppe nella regione magiara, mentre ovunque si apriva una strisciante guerra civile tra lealisti e rivoluzionari sovrapposta ai combattimenti tra i protestanti e le truppe sovietiche stanziate in Ungheria.

In seguito alla comparsa dei blindati sovietici, si estese l’insurrezione. I comandanti sovietici spesso negoziavano dei cessate il fuoco a livello locale con i rivoluzionari. In alcune regioni le forze sovietiche riuscirono a fermare l’attività rivoluzionaria. In Italia, nel frattempo, crollava nella fila del Partito Comunista Italiano il mito dell’infallibilità sovietica e un centinaio di intellettuali (tra cui Renzo De Felice, Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa, Antonio Maccanico) firmarono un manifesto di netta condanna delle azioni di Mosca.

Per due settimane, il governo di Budapest cantò apparentemente vittoria sul futuro del Paese, conscio inoltre del fatto che la parallela crisi di Suez attirasse l’attenzione degli attori occidentali facendo cadere la pretesa sovietica di un possibile intervento occidentale nella zona d’influenza di Mosca. Del resto gli Stati Uniti espressero con precisione il 27 ottobre la loro posizione per bocca del Segretario di Stato dell’amministrazione Eisenhower, John Foster Dulles, dichiarandosi contrari a ogni intervento in Ungheria.

Ciononostante, a Budapest si preparavano barricate, milizie armate con il tricolore ungherese verde-bianco-rosso strappato per rimuovervi i simboli comunisti sul braccio combattevano fianco a fianco con i militari dell’esercito regolare passati ai rivoluzionri, il governo temeva un intervento sovietico. Col senno di poi legittimamente: l’Urss il 31 ottobre ufficializzò i piani d’invasione dell’Ungheria, che entrò in azione quattro giorni dopo.

L’attacco sovietico fu una vera e propria guerra all’Ungheria: combinando  incursioni aeree, bombardamenti di artiglieria e azioni coordinate tra carri e fanteria i sovietici travolsero, passo dopo passo, ogni ostacolo di fronte a loro. Il successore di Stalin, Nikita Krushev, non potè esimersi dall’applicare una linea diversa da quella del dittatore suo predecessore, conscio che perdere l’Ungheria avrebbe leso la posizione geostrategica di Mosca.

Gli scontri terminano poco prima di Natale e lasciano sulle strade di una Budapest distrutta e ben 3.000 morti, mentre l’Armata Rossa subì a sua volta perdite non indifferenti, superiori ai 700 caduti. Mosca insediò a capo del governo di Budapest un fedelissimo, Janos Kadar. Negli anni successivi sotto la sua guida sarebbero stati migliaia gli ungheresi incarcerati e centinaia quelli giustiziati per questioni legate alla rivoluzione del 1956, tra cui l’appena diciottenne Péter Mansfeld, vittime della retorica secondo cui “il 1956 è stata una contro-rivoluzione“ a cui le forze del proletariato mondiale avevano legittimamente risposto.

Un dramma epocale

L’Urss temeva un effetto contagio. A Cluj, in Transilvania, si era protestato contro il governo romeno, mentre a Bratislava, in Cecoslovacchia, il tema principale era la questione universitaria. Inoltre, l’Urss aveva bisogno di rafforzare la sua presa su un Paese di confine e non lesinò le forze: l’Ungheria fu invasa, occupata e gradualmente schiacciata assieme al suo popolo perché aveva scelto la linea deviazionista.

Tra novembre e dicembre l’esperienza della primavera fuori stagione di Budapest finì in uno spazio ancor più breve di quello in cui era fiorita. Nagy fu arrestato e sarebbe stato giustiziato due anni dopo, nel quadro dell’ennesima purga contraddistinta da processi-farsa. Troppo importante la posta in palio per l’Urss, che avrebbe però subito un grave danno d’immagine dalla sua azione. Pietro Nenni, leader del Partito Socialista Italiano, andò ancora oltre i compagni del Pci e sull‘Avanti! del 28 ottobre scrisse: “Si può schiacciare una rivolta, ma se questa, come è avvenuto in Ungheria, è un fatto di popolo, le esigenze ed i problemi da essa poste rimangono immutati. Il movimento operaio non aveva mai vissuto una tragedia paragonabile a quella ungherese, a quella che in forme diverse cova in tutti i paesi dell’Europa orientale, anche con i silenzi, i quali non sono meno angosciosi delle esplosioni della collera popolare”.

Nenni non aveva, di fatto, torto: trent’anni dopo, col collasso del regime comunista, il pensiero dei cittadini della nuova Ungheria libera e indipendente andò proprio ai martiri del 1956. Caduti per l’indipendenza nazionale prima ancora che per il socialismo reale. Tanto che nel giugno 1989 proprio la commemorazione pubblica di Imre Nagy segnò l’inizio della fine del potere sovietico in Ungheria. Nella giornata del 16 giugno, durante questa commemorazione, ebbe modo di far conoscere il suo volto al mondo un giovane politico capace in futuro di segnare a sua volta la storia ungherese, Viktor Orban. Capace di far decollare la sua carriera proprio commemorando lo spartiacque decisivo della storia del Paese nel Novecento. A testimonianza della natura unificante e universale che l’epopea dei “ragazzi di Buda” ha per la nazione magiara.

Alessandro Sallusti: "Non tocca alla Meloni, ma a Veltroni e compagni", chi si deve scusare per il proprio passato. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 23 maggio 2021. «Io sono Giorgia», l'autobiografia edita da Rizzoli di Giorgia Meloni, è appena uscita e già è in testa alle classifiche di vendita. Tanto per cambiare, il successo di pubblico non coincide con quello di critica. Sui giornali si parla del libro per stroncarlo a prescindere: c'è la spocchia del critico letterario che scambia una biografia per un romanzo, cosa che non è, e c'è chi l'ha spulciato a caccia di anomalie nel racconto, manco fossimo in tribunale. E poi c'è chi - come ha fatto anche ieri Gad Lerner sul Fatto Quotidiano - contesta alla Meloni «amnesie e buchi neri» rispetto al fascismo. Premesso che non sono l'avvocato difensore di Giorgia Meloni, mi chiedo come in una sua autobiografia avrebbe potuto trovare spazio il fascismo, essendo la signora nata nel 1977, anno in cui Gad Lerner di anni ne aveva 23 e già faceva politica nel quotidiano Lotta Continua, l'organo della sinistra extraparlamentare il cui vertice fu condannato per l'omicidio del commissario Calabresi. Intendo dire che ci risiamo con il solito vizio della sinistra radical chic, quello di non voler fare i conti con il proprio passato ma pretendere che lo facciano gli avversari, anche quando questi sono totalmente estranei ai fatti che gli vengono rinfacciati. Se un politico, solo perché di destra, può essere tranquillamente inchiodato al fascismo, che dire dei politici che hanno militato nel partito che incarnava l'ideologia che ha provocato la più grande tragedia del Novecento, cioè quella comunista? Gad Lerner è stato convintamente comunista e non mi risulta, per esempio, che abbia mai rinfacciato a Napolitano di essere non erede ma entusiasta sostenitore di alcuni dei crimini del regime sovietico. Gad Lerner e i suoi emuli, all'uscita di uno dei tanti libri di Veltroni o di D'Alema, non hanno mai scritto: sì, però non dici che sei stato comunista, cioè parente contemporaneo di chi ha prodotto i gulag, la privazione di libertà fondamentali e tanta povertà. No, si sono tutti genuflessi per tessere elogi, peraltro immeritati, alle capacità narrative dei compagni. Caro Gad, fattene una ragione. Giorgia Meloni non ha nulla a che fare con il fascismo, e se qualche nostalgico le si accoda in scia non è colpa sua. Se uno come Napolitano ha potuto indisturbato rimuovere il proprio passato e salire al Colle, significa che ognuno ha le sue amnesie. E quelle della sinistra sono grandi come una casa.

Fascista o comunista purché sia arte autentica. Vittorio Sgarbi il 24 Ottobre 2021 su Il Giornale. Chi grida allo scandalo per le mostre di Depero sappia che lì a fianco c'è quella del marxista Perilli. Agli imbecilli e ignoranti che la buttano in politica, e che non sono in grado di capire né concetti, né battute, né paradossi, occorre dire che, in tanto parlare di fascismo e antifascismo, una cosa sola è certa: che l'unico fascista, amato, idolatrato e onorato in Trentino, è Fortunato Depero, al quale io, in qualità di presidente del Mart, ho, dopo molte pressioni locali, consentito fossero dedicate due belle e importanti mostre in tutta la città di Rovereto, nella sede principale di Mario Botta e nel museo d'arte futurista, insieme ad altre, volute dal Comune, nel Museo della città, nel Museo storico italiano della guerra e alla Fondazione Campana dei caduti, e all'omaggio a Depero dalla sua valle, a Cles. La fantasia dell'artista, le sue creazioni, soprattutto negli anni '20, '30 e '40 sono, in tutto il mondo, la più straordinaria esaltazione del Fascismo. Nel '32 è proprio il grande artista a scrivere: «l'arte nell'avvenire sarà potentemente pubblicitaria». Il suo percorso fascista inizia nel 1923 con due veglie futuriste e con la ridecorazione della casa d'arte che apparirà nella rivista Rovente futurista. Per quelli che pretendono di demonizzare qualunque manifestazione del Fascismo, l'esperienza di Depero è la più clamorosa smentita; ed è esattamente quello che io ho detto, strumentalizzato da beceri ignoranti che pretendono di chiamarsi «Sinistra italiana», oltre che da modesti giornalisti locali, ricordando ciò che tuttora vive nella cultura, nell'esperienza, nella conservazione dei monumenti, nei teatri italiani, con l'impresa della Treccani, con le opere di Pirandello, con le conquiste di Marconi e di Fermi, iscritto al partito fascista dal 1929, con la legge di tutela del patrimonio artistico italiano che è ancora quella voluta dal gerarca Bottai nel 1939, con la grande architettura dell'Eur e delle città di fondazione, il cui pieno riconoscimento è toccato ad Asmara, città coloniale, dichiarata dall'Unesco patrimonio dell'umanità. Quanto a Marconi, si iscrisse al Partito fascista nel giugno del 1923, otto mesi dopo la formazione del primo governo Mussolini. Fu la scelta di un conservatore che era stato testimone dei duri scontri del biennio rosso, aveva visto nella occupazione delle fabbriche la minaccia del contagio bolscevico e dava del leader del fascismo un giudizio non diverso da quello di una larga parte della classe politica europea fra cui, in particolare, Winston Churchill. Così ho detto e così è. Vi è chiaro, imbecilli? E così come Asmara, Depero indica, con la sua creatività, la perfetta coincidenza della sua arte con la visione del Fascismo, in cui si rispecchia anche l'impresa transoceanica di Balbo. E puntualmente il futurismo si esprime nella Aeropittura. Depero era una persona «coi piedi per terra», e per nulla affascinato da aeroplani e nuvole. Il suo punto d'osservazione era paradossalmente più alto di quello raggiungibile con gli aeroplani futuristi: era stato a New York e aveva toccato con mano quel futuro solo vagheggiato e teorizzato dai Futuristi italiani. Nel 1931 pubblica Il Futurismo e l'Arte Pubblicitaria, già in bozze a New York nel 1929. Secondo Depero l'immagine pubblicitaria doveva essere veloce, sintetica, fascinatrice, con grandi campiture di colore a tinte piatte, per così poter aumentare la dinamicità della comunicazione. Nel 1932 espone prima in una sala personale alla XVIII Biennale di Venezia, e poi alla V Triennale di Milano. A Rovereto pubblica una rivista di cui usciranno solo cinque numeri nel 1933: Dinamo Futurista. In seguito, nel 1934, le Liriche Radiofoniche, che declamerà anche all'EIAR fascista (la Rai di allora). Molti saranno i Futuristi di terza generazione ad andare in pellegrinaggio a Rovereto, come altri da d'Annunzio, protetto e locupletato dal fascismo (diversamente da me che esercito gratuitamente la funzione di presidente del Mart, e che non ho alcun interesse economico nelle iniziative che promuovo), per rendergli omaggio o per coinvolgerlo in qualche iniziativa. I principali committenti di Depero sono corporazioni, segreterie di partito, grandi alberghi, amministrazioni pubbliche, industrie locali. Le opere richieste sono eminentemente didascaliche, propagandistiche, decorative. Rispettosamente fasciste. Verso la seconda metà degli anni '30, a causa dell'austerità dovuta alla politica autarchica da lui condivisa, contribuisce al rilancio del Buxus, un materiale economico a base di cellulosa atto a sostituire il legno delle impiallacciature, brevettato e prodotto dalle Cartiere Bosso. Nel '40 pubblica l'autobiografia. Nel '42 realizza un grande mosaico per l'E42 di Roma, mentre nel '43 con A Passo Romano cerca di dimostrare il suo allineamento sostanziale con il Fascismo anche per ottenerne lavori e commesse. Finita la guerra, nel tentativo di giustificarsi di fronte al nuovo ordine dello Stato italiano per quel libro apertamente fascista, afferma che loro, i Futuristi, credevano fermamente che il Fascismo avrebbe concretizzato il trionfo del Futurismo, e che lui aveva anche «bisogno di mangiare». Nel '47, in parte sponsorizzato dalle Cartiere Bosso, ritenta di riproporsi in America, ma la trova ostile al Futurismo perché ritenuto l'arte del Fascismo. Nel '49 torna quindi in Italia, disilluso e dimenticato dall'antifascismo di regime. È la solita storia, come nelle proclamazioni di oggi. Ennio Flaiano scriveva: «i fascisti si son sempre divisi in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Agli antagonisti di Depero e agli opportunisti di oggi rispondeva Pasolini: «nulla di peggio del Fascismo degli antifascisti». Per ciò che riguarda i teppisti, che si nascondono dietro la sigla «Sinistra italiana», è utile ricordare Leonardo Sciascia: «il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è». Per rimuovere l'accusa di Fascismo, Fortunato Depero aderisce al progetto della collezione Verzocchi sul tema del lavoro, nella già fascista e ora comunista Forlì. Contestualmente (1955) entra in polemica con la Biennale di Venezia, accusata di censurare lui e il Futurismo, pubblicando il saggio Antibiennale contro le penose critiche politiche al Futurismo. E proprio perché io non ho voluto lasciare spazio soltanto all'arte di propaganda di Depero, alla grande mostra sul pittore fascista, nei suoi anni migliori, ho affiancato quella sul profondamente intimista e spirituale Romolo Romani, che ritira subito la sua adesione al manifesto futurista e muore precocemente nel 1916. Si tratta di una palese e dichiarata contrapposizione tra arte applicata e arte implicata, come ho spiegato in diverse occasioni. I disegni di Romani hanno, rispetto alle invenzioni dei futuristi, una verità e una necessità spirituale che si esprimono in forme nuove attraverso una ricerca profonda che non ha niente di propagandistico. Ogni disegno è una ossessione o la trascrizione di una visione. Per questo Romani si ritirò. Ai futuristi interessava il mondo, e Depero lo ha dimostrato. A Romani importava seguire la propria anima, trascriverne i palpiti, registrare apparizioni in segni necessari perché ne potessimo conservare memoria. E, se non fosse chiaro questo, aggiungerò che, nell'offerta di mostre del Mart, vi è un artista di cui si conosce la professione di antifascismo nei tempi giusti, non oggi: Alceo Dossena, morto nel 1937, quando il Fascismo c'era. È facile fare gli antifascisti quando il regime è finito, e accusare di Fascismo ridicoli facinorosi che, con la collaborazione delle Forze dell'Ordine che smanganellano innocui manifestanti, occupano la sede della Cgil! Non si può dire? E come collegare le proteste contro il green pass con l'assalto al sindacato? Ecco allora gridare «al fuoco al fuoco!» chi si piega devotamente alle prescrizioni autoritarie del governo, docili come furono durante il Fascismo. Mentre non deve essere abbastanza chiaro che l'altra mostra proposta nel museo, con il confronto fra Guccione e Perilli, onora due artisti dichiaratamente comunisti. Il settore culturale, da sempre priorità della sinistra, in quegli anni incarnata dal Partito Comunista Italiano, vede l'adesione di artisti e intellettuali, e tra questi anche gli esponenti di Forma 1, fra i quali Perilli. I giovani pittori nel 1947 si trovano di fronte a un bivio: aderire o disobbedire alle linee estetiche realiste proprie dell'iconografia sovietica? E la risposta arriva con la stesura del Manifesto redatto dal gruppo di artisti militanti. Gli esponenti di Forma 1 si proclamano ufficialmente «formalisti e marxisti», opponendosi all'idea che l'arte abbia una funzione sociale e politica esprimibile esclusivamente attraverso un realismo di carattere illustrativo. E vero comunista fu, con queste legittime riserve, Achille Perilli. Non meno progressista fu Piero Guccione, il cui ritratto di Antonio Gramsci, una grande tela di 1,50 x 1,50 m, è stato per quasi quarant'anni esposto nelle varie sedi delle sezioni del Partito della sinistra sciclitana, costituendone il simbolo e il riferimento per intere generazioni. Sarebbe buona cosa che i vigliacchi e gli ignoranti che parlano di cose che non conoscono avessero l'umiltà di studiare, visto che non hanno la capacità di capire. Vittorio Sgarbi

L’anticomunismo non è solo un valore della destra, risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 23 ottobre 2021.

Caro Aldo, oltre all’antifascismo non di sinistra, esiste anche l’anticomunismo non di destra? Ritengo di sì, forse più marcatamente. Sono due movimenti non uguali ma simili? O è più corretto parlare di singoli antifascisti e di singoli anticomunisti? Lei ha scritto che l’antifascismo non è solo un valore di sinistra. Anche l’anticomunismo non è solo un valore di destra? Ed entrambi dovrebbero essere un valore condiviso? Fino a quando le parole «fascismo» e «comunismo» circoleranno, non finiremo mai di porci domande. Alessandro Prandi

Caro Alessandro, Assolutamente sì. Così come l’antifascismo non è un valore soltanto di sinistra, allo stesso modo l’anticomunismo non è — o non dovrebbe essere — un valore soltanto di destra. Mário Soares — l’uomo che fu undici volte nelle carceri di Salazar e tre volte primo ministro del Portogallo; confinato sull’isola di São Tomé, esiliato, eletto presidente della Repubblica — mi ha raccontato che, quando sembrò che i comunisti di Álvaro Cunhal e i militari ancora più a sinistra guidati da Otelo de Carvalho potessero prendere il potere, il primo ministro laburista James Callaghan gli assicurò che avrebbe fatto intervenire la Raf (Royal Air Force) a Lisbona, pur di sostenere il governo socialista guidato appunto da Soares. Sempre per restare a Londra, il più grande scrittore civile del Novecento, George Orwell, uomo di sinistra, che aveva preso posizione contro Franco («Omaggio alla Catalogna»), era un convinto anticomunista. Proprio a Barcellona vide gli stalinisti fucilare gli anarchici. Non a caso legò il proprio nome a un romanzo costato al totalitarismo comunista più di una battaglia perduta, «La fattoria degli animali». I socialdemocratici tedeschi combatterono gli spartachisti; e più tardi Brandt, per quanto sostenesse la necessità di dialogare con l’Est, prese nettamente le distanze dal comunismo e dal marxismo. In Italia le cose come d’abitudine si complicano. Bettino Craxi fu un leader socialista e anticomunista (sia pure con un uso spregiudicato del denaro; ma questo è un altro discorso). Qui però entriamo nel terreno minato del mito del comunismo italiano, per cui un’idea rivelatasi sbagliata e spesso con applicazioni criminali da Vladivostok a Trieste da noi diventava giusta, o almeno nobile. Certo Togliatti aveva fatto la svolta di Salerno, schierando il Pci nel fronte antifascista con cattolici e monarchici; migliaia di partigiani comunisti diedero la vita per combattere il nazifascismo; e gli eletti comunisti alla Costituente scrissero la Carta con democristiani e liberali. Però era lo stesso Togliatti che aveva fatto fucilare gli anarchici di Barcellona.

Il regime del pensiero unico. Marco Gervasoni il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Lo diciamo da docenti universitari di storia contemporanea: basta con tutta questa litania sul fascismo, sull'Italia che non avrebbe fatto i conti con il regime, sugli eredi del Duce a cui sarebbe chissà perché preclusa una candidatura: in una parola, su questo continuo guardare indietro. Tipico di un paese anagraficamente anziano, con élite vecchie anche mentalmente e in cui i giovani sono considerati delle fastidiose anomalie. Che poi non è neanche storia, questo continuo cianciare di fascismo, ma è uso politico della storia, cioè propaganda, clava mediatica usata contro il centrodestra dal mainstream, che è quasi totalmente di sinistra. Inoltre pur con tutto il parlare di fascismo, nell'ultimo ventennio gli studi storici sul regime non hanno marcato nessuna evoluzione: più si strumentalizza il fascismo, meno lo si conosce. Come non se ne può più della protervia di chi si erge a rilasciare patenti di antifascismo, ora soprattutto nei confronti di Giorgia Meloni e di Fratelli d'Italia. Abbiamo già scritto giorni fa qui che possiamo dirci antifascisti in quanto anticomunisti: come Luigi Sturzo, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Mario Scelba e tanti altri. Ma l'intervista che Giorgia Meloni ha rilasciato ieri al Corriere della sera dovrebbe chiudere la questione. La presidente di Fratelli d'Italia ripete (sottolineiamo, ripete) la condanna del regime fascista già espresso tante volte, e pure sullo stesso giornale nel 2006. Ha ripetuto che dentro Fratelli d'Italia non vi sono né antisemiti né neofascisti: e non basta qualche personaggio folcloristico ripreso dai video. Folclore per folclore, andiamo a vedere nelle sezioni del Pd in Toscana o in Emilia Romagna. Laddove esistono vie e busti dedicato a Lenin, e nessuno ha nulla da fiatare. Così come nessuna ha rimproverato Zingaretti perché in un suo libro del 2019 ha elogiato il regime sovietico: quello dei gulag, della censura, degli stermini. E vogliamo parlare di dirigenti come Pier Luigi Bersani, abbastanza maturi da aver fatto parte del Pci, per decenni finanziato dai regimi rossi, che peraltro puntavano i loro missili su di noi? Se c'è qualcuno che dovrebbe invocare l'oblio della storia, dovrebbero essere i post comunisti. Per parafrasare il grande storico Marc Bloch sulla Rivoluzione francese, è il tempo di dire agli intellettuali «Fascisti, antifascisti noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, cosa fu il fascismo». E ai politici di sinistra chiediamo di entrare finalmente nel XXI secolo. Marco Gervasoni

Rachele Mussolini e Gualtieri, due eredi sono, ma è il comunismo furbo che tiene famiglia a Roma. Anche Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso è già inghiottito dai comunisti. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud l'8 ottobre 2021. Il fascismo di certo non c’è più ma il comunismo furbo del comparaggio di potere quello sì, altroché. Rachele Mussolini che prende tutti i voti a Roma – con buona pace del Corriere della Sera che se ne scandalizza – non sposta un bicchiere ma Gualtieri che arriva al Campidoglio, di una torta a doppio strato guarnita di Giubileo in arrivo e l’Expo da fare, sa che farsene, altroché. Rachele può solo essere una nipote ma un Gualtieri cresciuto alla scuola di partito del Pci è un erede, e tutta quella furbizia della doppiezza ce l’ha nel suo corredo, altroché. Il comunismo da temere non è certo quello genuino di Marco Rizzo ma quello furbo che comanda, quello dei magistrati compiacenti, sempre loro, ed è quello dei giornalisti di regime – sempre loro – nonché quello degli affaristi sempre pronti a farsi gli affari loro. Nella cupola loro, col comunismo furbo che sa sempre dove stare. Per stare al meglio a tavola. E figurarsi cosa non stanno facendo per riconquistare Roma. Tiene famiglia il comunismo furbo del comparaggio e sa dove andare a prendersi il dovuto tributo. Il vero sondaggio è la sostanza di un calcolo facile. Con tutti i dipendenti Rai che vivono a Roma, e coi loro parenti, con tutti quelli che lavorano nei ministeri, col parastato, con tutto il gregge di Santa Romana Chiesa, sempre grata al potere – e con tutti quelli che devono far carriera – altroché se non è solida la democrazia compiuta del comunismo implicito di tutto questo potere esplicito. Una massa fabbricata in anni di egemonia stagna nell’automatismo. Con l’accorta assenza del popolo – presente solo nell’astensione sempre più forte – e nel riflesso condizionato poi, dei cosiddetti veri liberali, storicamente incapaci di alloggiare fuori dall’ombra rassicurante del comunismo fatto sistema. Certo, non lo chiamano comunismo il loro comunismo, i comunisti. Dicono sia progressismo, perfino riformismo, magari liberal-socialismo e di certo è la cuccia calda della sinistra, la botola in cui – e lo sanno benissimo – prima o poi andranno a rinchiudersi tutti, ma proprio tutti, senza eccezione alcuna. Come Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso già inghiottito dai comunisti in marcia verso il municipio, a confermare – nell’illusione di averli presi, i suoi nemici – il dettato di Vladimir Il’i Ul’janov: “Ci venderanno la corda con cui li impiccheremo”. Inghiottito, altroché. Preso al laccio.

Francesco Borgonovo per La Verità il 9 ottobre 2021. Prendiamo atto, con appena un filo di sconforto, che in Italia non si deve rendere conto dei clamorosi errori commessi all'inizio della pandemia, i quali hanno causato migliaia di morti. Non si deve rendere conto nemmeno delle discriminazioni e degli atteggiamenti autoritari assunti negli ultimi mesi ai danni di chi sta esercitando un diritto costituzionale. No: si deve rendere conto soltanto del legame (al solito pretestuoso) con il fascismo. Ora, che la macchina politico-mediatica del progressismo militante cerchi regolarmente di occultare le colpe della propria area - seppellendole sotto montagne di scemenze sulle «lobby nere» - non stupisce. Stupisce molto di più, e un po' dispiace, che la destra ci caschi ogni volta. Che accetti non solo di stare al gioco, ma che appaia spesso terrorizzata e corra a piegare il capo ai nuovi inquisitori. A questo proposito, vale la pena di soffermarsi un momento su quanto accaduto giovedì sera nello studio di Corrado Formigli. A un certo punto, Alessandro Sallusti ha posto una questione interessante: perché non si chiede mai a un Pier Luigi Bersani di dichiarare che il comunismo è stato il male assoluto? Formigli ha risposto ridacchiando, come se si trattasse di una proposta irricevibile. Poi è intervenuto Antonio Padellaro che ha dichiarato quanto segue: «Bersani viene dal Partito comunista italiano. Pretendere che definisca il comunismo - che era nella sigla del suo partito - il male assoluto mi sembra un po' troppo». Ecco, in questo scambio c'è tutta l'ipocrisia che da decenni corrode la nostra nazione. Il Partito comunista italiano ha avuto legami d'acciaio con il Partito comunista sovietico che incarcerava gli oppositori e spediva la gente nei gulag. Il Pci è stato finanziato dal mostro russo. Ma chi ha fatto parte del Pci non deve giustificarsi di nulla, anzi il solo pensiero che ciò avvenga suscita risatine. Eppure i comunisti esistono ancora, non si fanno problemi ad alzare il pugno chiuso (lo ha fatto una volta persino il sindaco di Milano, Beppe Sala). Vanno orgogliosi della loro storia perché - anche giustamente - non accettano che sia ridotta alla complicità con la macchina di morte sovietica. Quando si è trattato di approvare, in sede europea, l'equiparazione - per altro molto discutibile - tra nazifascismo e comunismo, la sinistra italiana (quella istituzionale, non i centri sociali) ha vivamente protestato. E allora perché la destra continua imperterrita a giustificarsi? «Che non si commettano viltà verso le proprie azioni», scriveva Nietzsche. «Che non le si pianti poi in asso!». Ebbene, perché insistere con l'autoflagellazione? Ci sono almeno due dati di fatto da tenere presenti. Il primo è che la sinistra non ha alcun titolo per giudicare gli avversari. Da sempre detiene il primato dell'ipocrisia, non esita a compiere le peggiori azioni e mai se ne scusa. Pretende che gli altri facciano esami del sangue e non è nemmeno stata in grado di riconoscere le colpe più recenti. Avete mai sentito qualcuno dire, ad esempio: «Sì, forse se a Bibbiano portavano via i bambini alle loro famiglie qualche motivazione ideologica c'era, e aveva a che fare con la nostra ideologia?». Certo che no. Del resto, i comunisti e i post comunisti ci hanno messo anni a riconoscere che i terroristi facevano parte del loro album di famiglia e ancora adesso lo ricordano a malincuore. Pensate realmente che possano, un giorno, mostrare un po' di rispetto per gli avversari? Se le condizioni sono queste, davvero si vuole continuare a rendere conto a giornalisti che s' ingozzavano di involtini primavera alla faccia delle responsabilità cinesi sull'esplosione della pandemia? Prima si dissocino dai ravioli, poi vedremo se ragionare con costoro. Veniamo al secondo dato di fatto. Forse è ora di comprendere che non ci sarà mai abiura sufficiente. La destra, compresa quella cosiddetta estrema, riflette criticamente sul fascismo (anzi, sui fascismi) da decenni. Nel 1961 lo scrittore francese Maurice Bardèche - che si definiva fascista - condannava implacabilmente le mostruosità naziste e pure il cesarismo mussoliniano in un libro intitolato Che cosa è il fascismo? (Settimo sigillo). Risale al 1985 il saggio in cui Alain De Benoist rispose una volta per tutte ai critici (di destra) della democrazia: «Non resta che una legittimità plausibile: la legittimità democratica, cioè la sovranità del popolo». Nel 2021, però, gli indici sono ancora puntati, le cattedre ancora abbondano di maestrini. Se poi vogliamo riferirci alla destra «istituzionale», giova ricordare ciò che avvenne a Gianfranco Fini. Pronunciò le famose parole sul male assoluto, a Fiuggi ruppe con la tradizione missina, si avvicinò ad Israele Eppure, pensate un po', continuarono a dargli del fascista, a insultarlo e ad attaccarlo per anni. Almeno fino a quando non si schierò contro Silvio Berlusconi: allora, per un po', a sinistra lo coprirono di elogi, salvo poi abbandonarlo senza pietà al suo destino. Altro esempio? Ieri, all'Aria che tira, alcuni illustri ospiti continuavano a ripetermi che la Costituzione italiana è fondata sull'antifascismo (cosa falsa), ma ovviamente si sono ben guardati dal condannare l'aggiramento della Costituzione medesima che porta il nome di green pass. Poi hanno cominciato a dire che «il 25 aprile dovrebbe essere la festa di tutti». Beh, ricordate i fischi e gli attacchi subiti da Silvio Berlusconi e Letizia Moratti quando si presentarono alle manifestazioni di piazza? Ricordate i costanti attacchi alla Brigata ebraica? Se pure Giorgia Meloni andasse in piazza il 25 aprile a sventolare la bandiera dell'Anpi, la insulterebbero senza pietà. Sapete che significa? Che non ne avranno mai abbastanza. Che i progressisti continueranno sempre e comunque a pretendere «scuse» e «prese di distanza» dalla destra, perché l'accusa di fascismo è l'unica arma che hanno in mano, sgangherati come sono. Figurarsi: accusano di nazismo gli israeliani nazionalisti, i critici dell'immigrazione di sinistra, le femministe che si oppongono all'ideologia gender Non esiste e non esisterà mai un perimento entro il quale la destra italiana verrà ufficialmente riconosciuta come «presentabile». Non accadrebbe nemmeno se la destra diventasse all'improvviso di sinistra: la riterrebbero, comunque, moralmente inferiore. Quindi, cari amici, basta con le scuse, le prese di distanza, le giustificazioni e gli arretramenti. È ora di capire che il meccanismo è truccato, è ora di togliere dal piedistallo i mangiainvoltini, i prelati della Cattedrale politicamente corretta, gli ipocriti di mestiere che hanno fatto dell'intolleranza una professione. Se qualcuno commette dei reati, è giusto che paghi in conformità alla legge. Ma, appunto, si deve rendere conto dei reati, non delle idee, almeno in democrazia. Soprattutto, si rende conto di fronte ai tribunali, non ai tribuni. Costoro pretendono che la destra si scusi di esistere. Ma ciò che vogliono davvero è che la destra smetta di esistere. Per lo meno, non aiutiamoli.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 ottobre 2021. "Enrico lascia stare: Roma è cosa loro. Fanno di tutto per attaccarti. Lascia stare". Dai microfoni di Radio Radio, l'emittente romano che ha lanciato Enrico Michetti, questa mattina è partito l'appello alla resa. A lanciarlo Ilario Di Giovambattista, patron di Radio Radio e da sempre sponsor del candidato di centrodestra. Durante la trasmissione Accarezzami l'anima, uno spazio mattutino che prima era occupato da Michetti, Di Giovambattista si è rivolto a Michetti. Gli ha consigliato di gettare subito la spugna. Perché tutto complotta contro il tribuno.

Da radioradio.it l'11 ottobre 2021. Che l’Italia sia uno dei Paesi occidentali con il sistema mediatico più orientato verso gli organi politici è fattuale, risaputo e anche teorizzato a livello accademico. Mai, però, si sarebbe potuto immaginare un incollamento tale da giustificare un vero e proprio accanimento nei confronti di un candidato avverso a gran parte della stampa nostrana. È quello che vede travolto in queste ore il professor Enrico Michetti, passato dall’essere proveniente dalla “destra, destra, destra, forse neofascista” (Gruber, Otto e Mezzo, La7) ad aver pronunciato “frasi antisemite” in un articolo risalente al febbraio 2020 (Andrea Carugati, Il Manifesto), fino all’essere “pilotato da Radio Radio, l’emittente dei No Vax” (Lorenzo D’Albergo, la Repubblica). In verità già prima della sua discesa in campo, alle prime voci di candidatura, l’esperto amministrativista era stato oggetto della propaganda di quotidiani, tv, radio. “La Corte dei Conti indaga sulla Fondazione di Michetti, il professore che Meloni vorrebbe candidato sindaco di Roma”, titolava il Fatto Quotidiano nella fasi calde della scelta da parte del centrodestra. E come non dimenticare la farsa instaurata sul saluto romano più igienico, che “in una delle sue trasmissioni a Radio Radio il possibile candidato di Fratelli d’Italia a sindaco di Roma ha rivalutato in tempo di Covid” (Marina de Ghantuz Cubbe, la Repubblica/Roma). Così il “tribuno della Radio” (altra definizione che voleva essere dispregiativa) è stato bersagliato negli ultimi mesi. Sul costante attacco che verosimilmente si consumerà fino al ballottaggio del 17 e 18 ottobre è intervenuto in diretta il direttore Ilario Di Giovambattista a “Accarezzami l’Anima”. Ecco le sue parole. “Io sono molto preoccupato perché in questa campagna elettorale io ho avuto la conferma di quello che già pensavo: in Italia c’è una stampa della quale mi vergogno. Io vorrei raccontarvi quello che è successo ieri, credo che ormai le cose siano abbastanza chiare. Guardate il titolo di Repubblica di oggi: "l’uomo nero contro le città". Io sono molto preoccupato perché Roma deve essere cosa loro. Roma è cosa loro, nessuno può azzardarsi da persone perbene a entrare in un agone politico. Siamo a una settimana dal voto e per fortuna non hanno trovato nei confronti di Michetti che negli ultimi 30 anni ha aiutato soprattutto i sindaci di sinistra. Vi giuro: io ho paura. Ho paura perché se i cittadini si informano attraverso la stampa, attraverso i mainstream, purtroppo siamo un Paese truffato. È una stampa truffatrice, una stampa della quale mi vergogno. Non c’è niente di deontologico nella stampa italiana, si salvano in pochi, ma veramente in pochi. Sono tutti sotto un padrone, soprattutto politico. Non vedo l’ora che finisca questa settimana, perché tanto ho capito come la stanno mandando. Ho capito come la stanno indirizzando. Anche la manifestazione di Piazza del Popolo: erano tutti fascisti vero? Se decine di migliaia di persone sono tutte fasciste allora si dovrebbero interrogare i nostri capi. Sanno bene che non è così. Sanno bene a un certo punto è successo qualcosa, forse li hanno chiamati loro. Non ci possiamo permettere di parlare di niente, di niente, zero. Io ho capito come vogliono mandarle le elezioni, fossi il professor Michetti mi ritiro. Io sto invitando ufficialmente il professor Michetti a farli vincere così. Enrico ritirati, non sono degni di te. Dammi retta, è cosa loro, ti distruggono. Io sono spaventato. E chiedo veramente a Enrico Michetti: Enrico ritirati, falli vincere. Roma è cosa loro, se non vincono questa volta vanno fuori di testa. Se la sono già venduta, già spartita. È inutile. È tutto apparecchiato. È tutto fatto. Però di mezzo ci sono i cittadini. L’unica speranza sono i cittadini, ma se i cittadini si informano attraverso questa stampa corrotta è la fine. Ecco perché in Italia tante cose non vanno, perché hanno creato un sistema. Il sistema politico-giornalistico è una delle cose più marce, più schifose del nostro Paese. Non voglio avere proprio niente a che fare con questa feccia”.

Vittorio Sgarbi, "a Giorgia Meloni lo avevo detto": complotto prima del ballottaggio? Una inquietante teoria. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. "L’ho già detto a Giorgia Meloni all’indomani del primo turno: vedrai, faranno qualsiasi cosa per etichettare Enrico Michetti come neofascista. E i fatti mi hanno dato ragione. Tutto è partito da quella che io chiamo la “congiura di Fanpage”. Si è usato un infiltrato clandestino alla ricerca di un reato che non c’è. E gli effetti si sono visti. La verità è che siamo di fronte a una profonda violazione delle regole democratiche da parte dell’informazione e di certa politica. Come non pensare alla Gruber che ha definito Michetti come un neofascista davanti a Calenda che ha cercato addirittura di correggerla?”. Così Vittorio Sgarbi parla del prossimo ballottaggio di Roma e delle conseguenze politiche nate dopo il voto delle amministrative del 3 e 4 ottobre. "Nello spostare il tiro sul fantasma del fascismo che non c’è, evitando di parlare delle migliaia di persone che hanno manifestato liberamente per un sacrosanto diritto di libertà. C’erano sì Fiore e Castellino, ma è anche vero che non si manganellano le persone civili, non si fa sanguinare chi ha idee diverse", spiega Sgarbi puntando il dito sull'informazione. "La gente non capirà che il pericolo fascista non esiste. Per quanto riguarda Michetti, tutti gli elettori che lo hanno votato al primo turno, devono tornare a votare, questo è il mio invito. Devono capire che la pressione mediatica che stiamo subendo sta facendo diventare santo il governo e fascista la gente che scende in piazza", chiarisce in una intervista al Giornale. Sulla manifestazione di Landini per la democrazia e per il lavoro, contro i fascismi, annunciata a Roma il 16 ottobre, raccomta che "farà un’interrogazione parlamentare perché non è accettabile che si faccia politica col sindacato nel giorno di silenzio elettorale. Landini non è un corpo apolitico, ma attraverso il sindacato fa politica e non può farla il giorno del silenzio elettorale, condizionando le urne. La facciano piuttosto il 18, il 19, non il 16. È un’azione chiaramente contro la Meloni". Infine un consiglio al candidato sindaco di Roma Enrico Michetti. "Da soli né io né lui abbiamo la possibilità di potere fare un comizio in piazza dicendo che non è vero che siamo fascisti. Ma ormai Gruber, Fanpage e Landini, i tre finti democratici, hanno imposto un taglio eversivo alla comunicazione. Spero ora che vadano a votare quelli che vengono chiamati fascisti senza esserlo e che siano più numerosi di quelli che vengono chiamati al voto contro i fascisti inesistenti. Ripeto, il rischio fascista non c’è. C’è un rischio eversivo da parte dell’informazione", conclude Sgarbi. 

Quarta Repubblica, il sospetto di Sallusti sugli scontri a Roma: "Qualcuno ha lasciato che accadesse". Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. I sospetti su quanto accaduto nella giornata di sabato 9 ottobre a Roma sono tanti. In particolare ci si interroga come tutto ciò sia stato possibile. A chiederselo anche Alessandro Sallusti, ospite di Quarta Repubblica su Rete 4. "La cosa è talmente strana che o il Paese è in mano ad un branco di incapaci o qualcuno dentro lo Stato ha lasciato che accadesse. È evidente che questo fa gioco alla sinistra". In piazza, con il pretesto di protestare contro il Green pass anche Roberto Fiore e Giuliano Castellino, leader di Forza Nuova. I due sono stati arrestati, ma com'è possibile che potessero manifestare indisturbati? Una domanda che si è posto lo stesso Matteo Salvini, da giorni con Giorgia Meloni attaccato su tutti i fronti. "Ho fatto il ministro dell'Interno e qualunque cosa accadesse era colpa mia – ha detto Salvini sui suoi canali social – Ora, mi domando: se questo estremista di destra era tranquillamente in piazza del Popolo, con il microfono in mano e davanti a migliaia di persone, chi lo ha permesso? Chi non lo ha impedito? L'attuale ministro dell'Interno ha fatto tutto quello che poteva, ha fatto tutto quello che doveva?". Il leader della Lega punta il dito contro Luciana Lamorgese, ministro dell'Interno: "Non prevedere le necessarie misure di sicurezza e non prevenire gli incidenti, anche gravi, significa che è la persona sbagliata, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato". Non solo, perché a indignare maggiormente il direttore di Libero è anche l'uscita di Beppe Provenzano. Il vicesegretario del Partito democratico ha detto che Fratelli d'Italia "è fuori dall'area democratica e repubblicana". Parole fortissime che hanno scatenato la polemica: "Quello che è più inquietante è che il vice segretario del Pd ha buttato lì che forse si dovrebbe chiudere Fratelli d'Italia". E infine: "Stasera hai dimostrato che chi di dovere doveva sapere cosa succedeva e non ha fatto nulla". 

Dentro il Matrix di Giorgia Meloni. Mauro Munafò su L'Espresso l'11 ottobre 2021. Le prese di distanza dalle manifestazioni romane, con molti distinguo, non hanno trovato alcuno spazio sui social solitamente così aggiornati della leader di Fratelli d’Italia. Per un motivo molto chiaro. La leader di Fratelli d’Italia ha fatto finta di condannare le violenze fasciste della manifestazione no Green pass a Roma tirando fuori dal cilindro la frase: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco. Nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto. Il punto è che è violenza, è squadrismo e questa roba va combattuta sempre». L’ironia sulla matrice che Meloni non conosce, in effetti difficile da rilevare tra saluti romani e canti contro i sindacati “boia”, rischia di oscurare un altro interessante fenomeno. Ovvero come dentro la bolla meloniana e i suoi canali ufficiali sia stata del tutto nascosta questa storia e questa presa di distanza. Ennesima dimostrazione dell’ambiguità utilizzata da Meloni per non perdere il consenso delle frange estreme della destra nazionale. Ma andiamo nel dettaglio. Sui canali ufficiali di Giorgia Meloni, al momento in cui scriviamo e a due giorni dagli eventi di cui parliamo, non è comparso nessun messaggio o video dedicato a condannare le manifestazioni romani. Nelle ultime 48 ore i social media manager di Meloni hanno però trovato il modo di parlare di partite Iva, mazzette in Sicilia, della destra presentabile, di Brumotti e della partecipazione della leader di Fratelli d’Italia all’evento di Vox in Spagna. Non si tratta quindi di una dimenticanza ma di una scelta precisa per non scontentare i fan. E allora quella “condanna” che è servita a fare i titoli sui giornali, da dove arriva? È la risposta alle domande fatte dai giornalisti domenica mattina e di cui non c’è traccia sui canali social di Meloni, di solito sempre pronti a immortalare ogni uscita della politica. Di più, l’unico segno “ufficiale” di queste frasi arriva da una pagina interna del sito di Giorgia Meloni: con un breve comunicato che non è stato neppure messo sulla sua homepage. E che comunque, in un momento in cui la comunicazione politica passa interamente dai social, non avrebbe visto nessuno. Ripescando un vecchio adagio della professione giornalistica: se vuoi nascondere una notizia non devi censurarla ma pubblicarla in piccolo in qualche pagina secondaria. Più che di matrice quindi, qua siamo di fronte a un vero e proprio “Matrix” di Giorgia Meloni. La sua realtà parallela.

Mirella Serri per "la Stampa" l'11 ottobre 2021. L'attacco dell'altroieri da parte di sedicenti no Green Pass alla sede centrale della Cgil voleva colpire un ganglio vitale dello Stato democratico, la rappresentanza sindacale dei lavoratori. Ricorda molto le aggressioni delle squadracce fasciste contro le Camere del lavoro, le Case del popolo e le leghe durante il "biennio nero" 1921-22. Però secondo la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, si tratta «sicuramente di violenza e squadrismo, ma la matrice non la conosco»: un modo furbetto per evitare di dire che siamo di fronte a un rigurgito di fascismo. Da qualche tempo questa politica dello struzzo è sempre più ricorrente fra gli esponenti della destra. La verifichiamo sia in circostanze gravissime, come l'attacco al cuore dello Stato dei giorni scorsi, che in episodi apparentemente minori ma rivelatori della presenza di un nocciolo duro di neofascismo nelle pieghe delle due principali formazioni della destra. Cosa testimonia, ad esempio, il boom di voti ricevuti nella Capitale da Rachele Mussolini junior, candidata alle comunali per il partito della Meloni? Il fatto che la giovane Mussolini, con un cognome così evocativo, abbia fatto il pieno di preferenze non si deve prendere sottogamba. Come ha scritto ieri il direttore de "la Stampa", l'onda nera che ha invaso le piazze italiane affonda le sue radici nell'"album di famiglia". E la nipote di Rachele Guidi, moglie di Mussolini, agli occhi dei suoi elettori ha rappresentato proprio questo nero album. Da una parte c'è il cognome del Duce, che i più fanatici militanti di destra rivalutano per tutto il suo operato, incluse le leggi razziali. Ma dall'altra c'è anche il nome di nonna Rachele che piace ai meno estremisti fra gli estremisti perché è ricco di storia fascista. Molti italiani, non solo i romani, associano la consorte del capo del fascismo all'immagine di una casalinga fedele e icona della memoria del dittatore, a una donna lontana dall'agone politico, timida e discreta. Ma questo ritratto le corrisponde? Oppure è una mistificazione dei cultori del passato che non passa, così come, ad esempio, le recenti esternazioni su quell'Arnaldo Mussolini presentato come il fratello mite e buono del Duce. Alla domanda su cosa pensasse del fascismo, Rachele junior ha glissato: «È una storia troppo lunga». Ma di fronte anche a quello che è accaduto sabato, la storia non è troppo lunga e va al più presto riportata alla luce. Quando il leghista Claudio Durigon propose di intitolare il parco comunale di Latina ad Arnaldo Mussolini, si fece finta di dimenticare chi fosse veramente costui. Non solo un fascista tra i tanti: aveva intascato le maxi-tangenti pagate dalla Sinclair Oil per assicurarsi il monopolio delle ricerche petrolifere in tutta Italia. Giacomo Matteotti, per coincidenza, venne assassinato mentre era in procinto di denunciare la corruzione del fratello del Duce. La stessa volontaria dimenticanza del passato si ripete con la storia di nonna Rachele: anche lei, proprio come Arnaldo, fu molto attiva negli affari di famiglia e del regime di cui con passione sostenne anche tutte le violenze. Rachele senior fu anche cinica e feroce nei confronti degli antifascisti e perfino dei fascisti: prima della seduta del Gran Consiglio che destituì il Duce, gli suggerì di incarcerare tutti i gerarchi che ne facevano parte. Caldeggiò inoltre la condanna a morte di Galeazzo Ciano per il "tradimento". La vita di Rachele, incluso il periodo della Rsi, è stata parte integrante della più cruenta storia del fascismo e rientra in quell'album di famiglia che le componenti nostalgiche di Fratelli d'Italia e della Lega fingono di ignorare dando il loro voto a Rachele Mussolini junior, un nome e un cognome che sono una garanzia per i nostalgici del Ventennio.

Otto e Mezzo, "matrice cercasi": Gruber a senso unico sin dal titolo, plotone schierato contro Giorgia Meloni. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. “Matrice neofascista cercasi”, è il titolo scelto da Lilli Gruber per la puntata di Otto e Mezzo di lunedì 11 ottobre. Un chiaro riferimento alle prime dichiarazioni di Giorgia Meloni dopo la notizia delle violenze fasciste e squadriste verificatesi a Roma, tra l’assalto ai blindati della polizia e soprattutto alla sede della Cgil. La Gruber ha scelto un parterre di ospiti tutt’altro che casuale per affrontare l’argomento, a partire da Tomaso Montanari - che con la leader di Fratelli d’Italia ha delle “storie tese” passate - e da Paolo Mieli. “Non c’è neanche un dubbio sulla matrice - ha dichiarato il giornalista del Corriere della Sera - erano lì presenti i leader di Forza Nuova a guidare l’assalto. Casomai si dovrebbero distinguere le cose, non riduciamo tutta la questione dei no-green pass ai neofascisti. È accaduta una cosa deprecabile, non c’è alcun dubbio che la matrice sia quella”. Inoltre Mieli si è detto stupito dalla difficoltà che fanno Lega e Fratelli d’Italia a prendere le distanze e a condannare fermamente le violenze fasciste: “Possibile che non ce ne sia uno che dica basta, bisogna fare una guerra senza quartiere e sbatterli fuori? A me non interessa nulla, lo dico per loro: cosa devono aspettare? Un assalto ad una sede della Lega?”.

Da huffingtonpost.it l'11 ottobre 2021. Solleva un polverone la dichiarazione del vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, contro Fratelli d’Italia e la sua leader Giorgia Meloni. “Ieri Meloni aveva un’occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in FdI. Ma non l’ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l’ambiguità che la pone fuori dall’arco democratico e repubblicano” ha detto l’ex ministro del Sud. “In questo modo Fdi si sta sottraendo all’unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi”. Parole a cui replica Giorgia Meloni su Facebook: “Il vicesegretario del partito ’democratico’ vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte. Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia” afferma la leader di FdI. “O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte”. Diversi gli esponenti di Fratelli d’Italia che si scagliano contro Provenzano. “Il presidente del Consiglio Draghi e tutti i partiti che appoggiano il suo governo condannino immediatamente le parole di chi sembra essere più vicino alle censure imposte dalle dittature di sinistra che non alle posizioni di libertà cui si ispira Fratelli d’Italia” dichiara il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida. E Giuseppe Provenzano chiarisce: “Una batteria di attacchi nei miei confronti da Fdi. Chiariamo. Nessuno si sogna di dire che Fdi è fuori dall’arco parlamentare o che vada sciolta. Ma con l’ambiguità nel condannare matrice fascista si sottrae all’unità necessaria forze dem. Sostengano di sciogliere Forza Nuova”.

Dagospia il 13 ottobre 2021. Da “La Zanzara - Radio24”. Vittorio Feltri esordisce così come consigliere comunale a Milano.  A La Zanzara dice: “Non mi sono votato, mi hanno dato due lenzuolate e non ho un capito un cavolo di quello che c’era scritto. Penso di aver votato Sala. Il nome Feltri non l’ho scritto”. “In Consiglio comunale andrò qualche giorno, poi me ne vado. Negli ultimi quarant’anni non ho mai visto un consiglio comunale”. “Gay Pride? Dovrebbe chiamarsi Froci Pride, però facciano quello che vogliono, a me di quello che fanno i froci non interessa nulla”. “Gay è parola inglese, omosessuale è un termine medico, preferisco chiamarli froci o culattoni”. “Il fascismo? E’ morto nel ‘45, non è un pericolo, non ho mai conosciuto un fascista in vita mia”. “Il fascismo? L’unica cosa buona che ha fatto è farsi uccidere. E’ riuscito a fare una guerra assurda, per soggiacere agli ordini di Hitler. Ma fu una piccola cosa rispetto al comunismo, che ha fatto molti più morti e molti più danni. Mussolini era alla guida di una nazione di poveracci, mentre il comunismo uccise molte più persone”. “I novax? Sono degli imbecilli, dei cretini. Rischiano di ammalarsi e morire, non hanno capito un cazzo”.

FABIO MARTINI per la Stampa il 13 ottobre 2021. Gianfranco Fini da quattro anni si è chiuso nel silenzio. Non un intervento pubblico e non un’intervista, ma il protagonista della più importante svolta nella storia della destra italiana non ha smesso di pensare politicamente, di consigliare, di parlare con gli amici di un tempo. E anche se ripete a tutti che lui si limita ad «osservare» e per questo non si esprimerà pubblicamente su Giorgia Meloni, però Fini ha confidato a più d’uno i suoi pensieri su quel che si muove in queste ore a destra: «Come la penso? La penso esattamente come la pensavo ai tempi della svolta di Fiuggi a proposito del fascismo e dell’antifascismo come momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che erano stati conculcati». E Fini non dimentica l’asprezza degli scontri che lo divisero dagli oltranzisti e dai nostalgici, nello storico congresso di scioglimento dell’ Msi a Fiuggi nel 1995 e anche dopo: «Non a caso ero considerato in quegli ambienti il traditore per antonomasia!». In effetti la rottura della destra missina e post-missina non solo con i terroristi neri ma anche con i picchiatori e i movimenti violenti, 25-30 anni fa, è stata così radicale e memorabile da indurre Fini, nelle sue chiacchierate di questi giorni con gli amici di un tempo, a ragionare sul possibile scioglimento di Forza Nuova. Ieri scherzava sulla «fake news» che attribuiva proprio a lui la sottoscrizione di una mozione Change.org che chiede un intervento risolutivo contro l’organizzazione neo-fascista, ma l’ex leader di Alleanza nazionale confida che condividerebbe un eventuale provvedimento di questo tipo. Da ex presidente della Camera, Fini si sente di obiettare su alcuni strumenti per raggiungere l’obiettivo: «Trovo paradossale che sia il Parlamento in quanto tale ad assumere l’iniziativa con una mozione che peraltro non ho letto. In realtà il Parlamento può al massimo chiedere al governo di sciogliere quelle formazioni». Naturalmente Fini conosce la diatriba che divide giuristi e costituzionalisti sulla potestà repressiva, se la competenza spetti all’esecutivo o alla magistratura dopo apposita sentenza, ma sul punto l’ex capo di Alleanza nazionale non sembra aver dubbi: «In realtà i governo può intervenire subito, ope legis, anche senza un’iniziativa parlamentare. È già accaduto nel passato, sia pure in circostanze diverse, nei confronti di Ordine Nuovo e di Avanguardia nazionale». Ma c’è una storia, soffocata nel ricordo, che parla più di ogni altra circa i riflessi politici prodotti dalla rottura che Fini portò a termine col mondo che si muoveva anni fa alla destra dell’Msi-An. Ne parla lui stesso in questi giorni: «Nel gennaio del 1995, al congresso di Fiuggi, io fui agevolato da Rauti e Pisanò che si portarono dietro tutti coloro che avevano avversato la nascita di An e la sua carta d’intenti». Ma nei mesi successivi si consumò qualcosa di più grande di una banale scissione. E si produsse un evento elettorale, da allora rimosso da tutti, a destra e a sinistra. Dopo la svolta “anti-fascista” di Fiuggi e la nascita di An, Pino Rauti che per decenni era stato il principale ideologo del movimentismo di estrema destra, e Giorgio Pisanò, repubblichino mai pentito, ri-rifondarono la Fiamma missina e nella primavera del 1996 proprio i “neo-fascisti” furono decisivi in 49 collegi marginali per fare perdere il centro-destra. Disse Rauti: «Se Prodi ha vinto, lo deve a noi…». E in effetti, per quanto a sinistra possa apparire non subito comprensibile, la reticenza di Giorgia Meloni a prendere le distanze dai picchiatori di Forza Nuova in quanto neo-fascisti, in qualche modo è fuori linea anche rispetto a Giorgio Almirante. Il repubblichino capo storico della destra post-fascista italiana, tra 1978 e 1979 si incontrò in modo segretissimo col segretario del Pci Enrico Berlinguer e sinché i due furono vivi non se ne seppe nulla ma - come racconta Federico Gennaccari, editore e storico della destra missina - «i due leader pur così diversi colsero il rischio di una deriva terroristica di aree giovanili da loro oramai lontane ma che in qualche modo appartenevano ai rispettivi album di famiglia. E si scambiarono informazioni e pareri sulla pericolosa deriva in corso».

Giorgia Meloni, la menzogna di Giulia Cortese: "Eccola a casa, dietro di lei la foto di Mussolini". Ma è tutto falso. Libero Quotidiano il 13 ottobre 2021. La macchina del fango per minare la tornate elettorale non si ferma qui. La giornalista Giulia Cortese ha deciso di sferrare l'ultimo attacco a Giorgia Meloni. Peccato però che si tratti una notizia falsa. La Cortese ha infatti pubblicato un frame di un video in cui alle spalle della leader di Fratelli d'Italia, collegata da casa, appare una foto di Benito Mussolini. A corredo il commento: "Dietro c'è la sua matrice preferita". Il riferimento è alle parole pronunciate dalla Meloni dopo l'assalto alla sede della Cgil da parte di alcuni estremisti. Premettendo di condannare tutti gli atti di violenza, la leader ha ammesso di non sapere di che "matrice" fossero. Da qui il livore della sinistra. Ma la Meloni non ci sta e sotto alla foto diffusa dalla giornalista ha replicato: "Reputo che questa foto falsificata, pubblicata da una giornalista iscritta all’ordine, sia di una gravità unica. Ho già dato mandato al mio avvocato per procedere legalmente contro questa ignobile mistificazione. A questo è arrivato certo giornalismo di sinistra?!". Una risposta che ha scatenato la diretta interessata, già impegnata a cancellare il post: "Ho rimosso la foto, anche se non è molto lontana dalla realtà. Comunque cara Giorgia Meloni, la gogna mediatica che hai creato sulla tua pagina Facebook contro di me ti qualifica per quello che sei: una donnetta", ha scritto la giornalista. Ma se la Meloni non ha risposto all'ultimo attacco, ecco che ci ha pensato per lei Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d'Italia: "Invece di chiedere scusa continua a insultare?".

Incontri, guerriglia, devastazione: così i neofascisti si sono presi le piazze no vax per fare pressioni su Fratelli d’Italia. I carabinieri del Ros hanno segnalato decine di eventi gestiti e amplificati da Forza Nuova e CasaPound. E il medico no green pass Pasquale Bacco racconta come Salvini e soprattutto la Meloni e il suo partito li abbiano sostenuti: «Erano i politici a procurarci le risorse per le nostre iniziative». Antonio Fraschilla e Carlo Tecce su L'Espresso il 15 ottobre 2021. C’è un anno e mezzo di rapporti pericolosi fra movimenti cittadini contro il vaccino e il certificato verde, teppisti fascisti in cerca di ribalta, partiti assetati di voti, per spiegarsi le vergogne di sabato nove ottobre e cercare di capire quel che potrebbe accadere. L’assalto alla sede del sindacato Cgil, la capitale d’Italia in ostaggio degli estremisti di Forza nuova ma anche gli scenari futuri, vista la galassia composita che agita il movimento contro il green pass. Con immagini che rischiano di ripetersi nei prossimi grandi appuntamenti pubblici nella Capitale e non solo che vedono il loro culmine nel G20 in programma a fine mese. Ci sono somiglianze col passato, secondo gli inquirenti che ripescano la stagione dei cattivi maestri e di chi giocava con le piazze: perché oggi come ieri chi manifesta è trascinato dalle rivendicazioni più disparate. E spetta alla politica, alla Lega di Matteo Salvini e a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, evitare che il passato si ripeta. L’estrema destra di oggi è già pronta a prendersela questa piazza, a partire proprio da Forza nuova che da almeno un anno e mezzo lavora per animare la protesta e acciuffare il potere. 

LA STRATEGIA NERA

Quello che è accaduto a Roma non è la conseguenza del caso, ma l’arrivo di un percorso che Roberto Fiore e Giuliano Castellino, che hanno preso le redini di Forza nuova da Roma in giù dopo la frattura interna con le sedi del Nord e dei cosiddetti “scissionisti” guidate da Giustino D’Uva e dalla Rete dei patrioti, hanno pianificato da tempo. Cavalcare il risentimento scatenato dalla pandemia. Infiltrarsi nei gruppi sui social che veicolano il malcontento non più intercettato dalla Lega e soltanto in parte da Fdi. I carabinieri del Ros da oltre un anno seguono le azioni di Forza nuova, soprattutto, ma anche di CasaPound che pesca nello stesso bacino pur avendo forti contrasti con il movimento di Fiore e Castellino. E hanno registrato un aumento costante della tensione dall’aprile dello scorso anno fino ai fatti di Roma. Andati via gli scissionisti della Rete dei patrioti, che non hanno condiviso le scelte dei leader storici di Forza nuova di ritornare movimentisti abbandonando la possibilità di presentarsi al voto, Fiore ha cominciato a fomentare la protesta. All’inizio con scarsi risultati: la prima manifestazione legata al Covid-19, quella dei No Mask il 20 aprile 2020, registra una ridotta partecipazione, anche se in molte piazze da Roma a Napoli e Palermo i Ros segnalano una forte presenza di uomini di Forza nuova e in parte di CasaPound. Fiore e i suoi si insinuano allora nelle chat con più iscritti che crescono su Telegram dall’estate del 2020 in poi. Non a caso in ottobre i carabinieri, con le loro antenne puntate sui movimenti di estrema destra, analizzano altre azioni: il 24 ottobre a piazza del Popolo una prima manifestazione contro le mascherine e le imposizioni del governo sul Covid-19, dove si salda un nuovo asse tra Forza nuova con settori degli ultras della Lazio e della Roma, gli scontri poi ci saranno a viale Flaminio; il 25 ottobre a una protesta contro le mascherine che vede tra i partecipanti sempre i movimenti di estrema destra e una bottiglia incendiaria viene lanciata contro i carabinieri; il 27 ottobre nel quartiere Prati ci sono tafferugli tra polizia ed esponenti di Forza nuova e CasaPound; il 28 ottobre la stessa scena si ripete a Ostia dove però, precisano i Ros, si segnalano anche insulti e minacce tra Forza nuova e CasaPound come due squadre che giocano nello stesso campo ma da avversari. Il 31 ottobre altra manifestazione, quella delle «mascherine tricolore», e anche qui forte presenza di esponenti dei due movimenti di estrema destra. Fiore per recuperare risorse dopo l’uscita degli scissionisti crea una sigla, Area, dove confluiscono una serie di gruppetti di destra extra parlamentare: Gruppo San Giovanni casa dei patrioti, Comunità Evita Peron, Comunità Avanguardia, Comitato di solidarietà nazionale, Comunità militante Castelli Romani, solo per citarne alcuni. Poi entra in gioco il secondo pilastro della strategia della tensione: manipolare le chat di Telegram. Tra quelle che i carabinieri indicano come manipolate anche da esponenti di destra ci sono Guerrieri per la libertà (40mila iscritti), No green pass adesso basta (18mila), Generazione popolare fuoco che avanza (4mila). Dopo la fiammata dell’ottobre del 2020 la tensione viene contenuta, fino al maggio del 2021 quando si riaccendono le proteste dei commercianti sotto la sigla «io apro». Fiore e Castellino provano anche qui a incunearsi, cercando lo scontro con le forze dell’ordine, come nella manifestazione organizzata dai commercianti tra la Bocca della Verità e piazza Venezia. Ma non ci riescono e Castellino rimprovera i promotori della manifestazione perché non hanno avallato gli incidenti con la polizia. I due leader di Forza Nuova non demordono e, passata l’estate, eccoli a settembre ritornare in azione. Il primo settembre chiamano tutti alla protesta davanti alle stazioni ferroviarie e alle sedi delle Regioni, ma la partecipazione è bassissima. I Ros si appuntano numerosi atti dimostrativi contro vaccini e green pass: il 6 settembre Forza nuova partecipa alla manifestazione lanciata su Telegram dai «no Green pass» e da piazza del Popolo provano a rompere il blocco e dirigersi in piena notte verso piazza Montecitorio. La tensione aumenta. Il 14 settembre va a fuoco un gazebo di una farmacia a Trastevere dove si facevano tamponi, il 16 settembre un altro gazebo viene distrutto in via Taranto, zona San Giovanni. Il 18 settembre in piazza Santi Apostoli si trovano a guidare le proteste non solo esponenti di Forza nuova, ma anche gli scissionisti di Rete dei patrioti guidati da D’Uva e i militanti di CasaPound, con Castellino che critica le altre due fazioni perché a suo dire istituzionalizzate, avendo chiesto perfino l’autorizzazione alla Questura per questa manifestazione. Il 25 settembre Castellino partecipa invece alle proteste contro il Green pass di piazza San Giovanni. Ogni sabato nelle vie del centro di Roma, registrano i Ros, Forza nuova organizza piccoli cortei. CasaPound non lascia le piazze a Forza nuova, ma preferisce camuffarsi. Il movimento guidato da Luca Marsella punta ancora alla via istituzionale, cioè quella elettorale, tant’è che alcuni esponenti di CasaPound vengono candidati a Roma nelle liste a sostegno di Enrico Michetti e soprattutto con la Lega, partito che con la guida di Matteo Salvini ha sempre dialogato intensamente con questa area della destra estrema: nel XIII municipio si candida Simone Montagna, militante di CasaPound, come nell’XI municipio nelle liste della Lega compare Alessandro Calvo, altro attivista del movimento. La strategia di Forza nuova, che ha sempre avuto invece un dialogo forte con Fratelli d’Italia, è adesso più aggressiva. Impadronirsi delle piazze per avere una merce di scambio con i partiti di destra. Anzi, con il partito di destra: Fratelli d’Italia. 

LA MATRICE

Arriviamo al 9 ottobre. Il dottore in attesa di sospensione Pasquale Mario Bacco, salernitano di origine, una candidatura alla Camera con CasaPound e autore del libro “Strage di Stato” assieme all’ex sottosegretario all’Interno nel governo Prodi I eletto con la lista Dini, e ormai ex magistrato, Angelo Giorgianni, con la prefazione del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, non c’era in piazza del Popolo. Bacco avvertiva una strana sensazione. Le premesse per una guerriglia. Perché mai, in un anno e mezzo di messaggi, telefonate e incontri, quelli di Forza nuova si erano così esposti. Il capo Roberto Fiore e il suo vice Giuliano Castellino gli avevano offerto un ruolo al vertice di Forza nuova. Un volto spendibile, un medico, per raccogliere più consenso tra i no vax. Bacco ci ha meditato su fra un convegno, un comizio e un intervento con i negazionisti della pandemia come la deputata ex grillina Sara Cunial. Aveva conosciuto Matteo Salvini alla Camera e poi Giorgia Meloni. E aveva ricevuto un insistente corteggiamento, che lo lusingava, e certo come si fa a esserne immuni, non c’è un vaccino per la vanità, alle carezze politiche del deputato e coordinatore pugliese di Fdi Marcello Gemmato: candidature, programmi, successo. C’era la fatica. Due eventi al giorno, il palco di qua, il treno di là, una volta ospite dei salviniani, un’altra dei meloniani: «I partiti di destra ci hanno cresciuto, ci hanno fornito il supporto necessario per avere le autorizzazioni e sobbarcarci le spese. Fdi più di ogni altro». Se lo contendevano il dottor Bacco che contestava la pandemia e i provvedimenti del governo e poi col magistrato Giorgianni fondava l’Organizzazione mondiale per la vita. L’internazionale dei complottisti ben ramificata in Sudamerica e poi sparpagliata fra Oman, Cipro, Malta, Germania, Francia, Spagna e l’Europa mitteleuropea: «Fdi ci aveva proposto di andare al Parlamento europeo a parlare di vaccini», sussurra con il tono di chi sa che rischia di esagerare. Salvini e Meloni erano incuriositi dalla capacità di aggregazione, dalla massa creatasi dal nulla.

Finché col tempo l'interesse è «scemato», l’avvento di Mario Draghi ha normalizzato la Lega e ammorbidito le sembianze di Fratelli d’Italia, la campagna elettorale volgeva alla fine, i no mascherine e no vaccini forse erano diventati più dannosi che utili, e sono subentrati quelli di Forza nuova. Bacco non si è stupito. Sin dal primo momento erano in strada fra la gente un po’ incazzata e un po’ negazionista, lì accanto ai salviniani e ai meloniani senza poterli facilmente distinguere. Però Bacco ha notato per piazza del Popolo un attivismo eccessivo di Castellino che comunica quello che Fiore fa intendere. Avevano preparato il pulpito tricolore, studiato il percorso e spedito gli inviti sui gruppi: «Se Fiore si è fatto riprendere a volto scoperto c’è un motivo. Ho contezza di contatti fra esponenti di Forza nuova e Fratelli d’Italia». Giorgianni si è scambiato il microfono con Castellino, Bacco ha assistito da lontano alla «presa» della Cgil: «È uno schifo. Noi non c’entriamo nulla con la violenza. Siamo diventati dei pagliacci». «Ragazzi mai vista una cosa del genere. Ci hanno messo sotto con i blindati. Corpi a corpi di mezz’ora. Entrati dentro. Siamo ancora sotto assedio!», ha scritto Castellino con un selfie a suggellare l’impresa inviato a tutta la sua rubrica. La prova di forza di Fiore e sodali serviva a mettere pressione, a dimostrare agli amici di Fdi che quel «popolo», migliaia di elettori orfani di rappresentanza, è ormai roba di Fn e che se lo rivogliono, devono riprenderselo e rispolverare gli antichi compromessi. La timida reazione di Giorgia Meloni, che ha impiegato tre giorni per dissociarsi e condannare senza perifrasi, testimonia le profonde ambiguità di Fratelli d’Italia e le sue inquietanti contiguità con quel giro. Che l’inquisito e sorvegliato Castellino fosse il gestore della manifestazione, come illustrato dai fatti, lo sapeva chiunque e a chiunque, pure agli agenti della Digos, aveva annunciato la volontà di condurre il corteo non autorizzato verso la sede della Cgil (non potendo avvicinarsi a Palazzo Chigi). Queste certezze producono due annotazioni: la prima che i responsabili dell’ordine pubblico hanno sottovalutato gravemente la vicenda, la seconda che bloccati Castellino e soci si smantella la parte più violenta. E ciò rassicura gli apparati di sicurezza alla vigilia di altre manifestazioni di protesta per il green pass e dall’arrivo a Roma dei grandi della Terra per il G20. Nel governo, però, c’è il timore che il G20 possa attrarre i no mascherine e no vaccini stranieri, produrre un effetto emulazione, trasformare il vertice nel santuario mondiale dei negazionisti. Forza nuova è molto romana, ma Fiore ha aderenze nei gruppi di ispirazione fascista d’Europa. La prevenzione con l’intelligence è determinante. Il comportamento dei partiti di destra è fondamentale. In quello spazio elettorale e ideologico diversamente presidiato si tiene da anni un duello fra CasaPound e Forza nuova che riflette il duello fra Salvini e Meloni. Dalla pandemia i duelli si svolgono nell’ampio e oscuro terreno dei negazionisti. O i partiti rimuovono ogni pulsione fascistoide o ne verranno travolti.

"Vi dico io la verità sul fascismo... Cosa penso di Landini". Marta Moriconi il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi con Landini in pieno silenzio elettorale. Parla Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. Guerriglia, scontri, l’assalto alla sede della Cgil. E la singolare manifestazione di oggi, sabato 16 ottobre, con Landini in pieno silenzio elettorale. IlGiornale.it ne parla con Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista.

Lei è stato il primo a parlare di strategia della tensione, concetto ripetuto in Aula dalla Meloni dopo le risposte disarmanti del ministro Lamorgese. Perché?

“Quando ci sono delle violenze di questo genere, che sono da condannare con forza perché molto gravi, cerco sempre anche di interpretare e comprendere i fatti. Poi, in seconda battuta, mi domando a chi giovi un assalto squadristico oggi. Iniziamo da come sia potuto accadere che un gruppo ampio di persone si sia staccato da una manifestazione a piazza del Popolo e abbia proceduto per chilometri a piedi e per tre quarti d’ora minimo, alla presenza delle Forze dell’Ordine in campo. Mi domando come è possibile che non siano stati fermati prima dagli agenti in tenuta antisommossa. Ed è ridicola, appunto, la difesa del ministro dell’Interno Lamorgese che ha spiegato di non averli bloccati perché altrimenti avrebbero fatto ancora peggio. Ma cosa vuol dire? Mi pare fossero anche disarmati, non avevano chiavi inglesi, bombe molotov o altri strumenti lesivi. Ma che gli facevamo prendere il Parlamento?”.

A chi giova tutta questa faccenda?

“Provo a fare un elenco. Rafforza il governo, ma soprattutto dà fiato a un sindacato concertativo che era moribondo. Poi, dà corpo ai sindacati di base che lunedì facevano una manifestazione contro il governo, contro quei lavoratori licenziati col green pass. E non ultimo dà una stretta a tutte le manifestazioni. Noi stessi che il 30 ottobre avremmo dovuto avere una manifestazione nel centro di Roma, siamo stati spostati in piazza San Giovanni”.

Però se è vero che tutte le manifestazioni subiranno dei restringimenti, come è successo alla sua, non pare che questo accadrà a quella antifascista di sabato di Landini e dei sindacati uniti però…

“E’ una sinistra questa, responsabile di non aver difeso i lavoratori. Mentre la destra fa sempre il suo lavoro, la sinistra non l’ha più fatto. Io oggi non scenderò con loro. Non mi riconosco e sono rimasto colpito dall’immagine di Draghi che ha messo la mano sulla spalla a Landini da un gradino più in alto. I presidenti degli Stati Uniti mettono sempre la mano sulla spalla dei Capi di Stato che incontrano, è un segno di comando. E se permetti questo vuol dire che ti senti dominato, protetto da tipi del genere. Basta andare a vedere la foto di Obama e Raul Castro e come il secondo gli levi in maniera rapida la mano che si avvicinava”.

Oggi il fascismo cos’è?

“Mi rifaccio alle parole di Gian Carlo Pajetta: noi abbiamo chiuso i conti col fascismo il 25 aprile 1945. Oggi l’antifascismo è essere anticapitalisti. Tutto il resto sono due cretini, che vanno condannati, che fanno il saluto romano”.

Ma quanto guadagnerà il Pd da questa faccenda? Pensiamo al ballottaggio di Roma per esempio...

“Gualtieri è l’altra faccia della stessa medaglia. E il suo partito è il più conseguente a questo meccanismo. E’ logico che il Pd gode e godrà di questa situazione. Questa vicenda ha un indubbio peso a favore loro. La domanda è sempre la stessa: a chi giova? Facile la risposta”. Marta Moriconi

 Massimo Cacciari contro la sinistra: "Allarme-fascismo? Realistico come un'astronave in un buco nero". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Il pericolo "fascista" è realistico come l’entrata di un’astronave in un buco nero": Massimo Cacciari smonta l'allarmismo che si è diffuso dopo la protesta No-Green pass a Roma, poi degenerata con l'assalto alla sede della Cgil e con scontri violenti tra polizia e manifestanti. Per il filosofo, è sbagliato paragonare i due momenti storici: "Le condizioni storiche, sociali, culturali di quel caratteristico fenomeno totalitario non hanno alcun remoto riscontro nella realtà attuale di nessun Paese". Basti pensare che un secolo fa, scrive Cacciari su La Stampa, il fascismo trovò l’appoggio di settori decisivi dell’industria, della finanza e di importanti apparati dello Stato. Cosa che adesso non avviene. Secondo il filosofo, "i movimenti  che si richiamano a quella tragedia sono farse, per quanto dolorose, che nulla politicamente potranno mai contare". Cacciari ha spiegato anche che "decenni di stati d'emergenza" certo non favoriscono un regime democratico. Allo stesso tempo però ha scritto: "Più difficile è tener salda quell’idea di democrazia, più diventa necessario. E, per carità, tranquilli: nessun fascismo sarà comunque nei nostri destini". Il pericolo che tutti rischiano di correre oggi è un altro, stando all'analisi fornita dal filosofo. "Il pericolo che cresce quotidianamente è tutto un altro: che la persona scompaia fagocitata dalle paure, dalle avarizie, dalle invidie, dai risentimenti dell’individuo, in cerca affannosamente di chi lo rassicuri, lo protegga, lo consoli", ha sottolineato Cacciari". Ed è qui che entra in gioco la politica: "Se le forze e le culture politiche si divideranno nella rappresentanza di queste pulsioni, 'specializzandosi' ciascuna nel rassicurare intorno a questo o quell’altro 'pericolo', affidandosi a mezzi anch’essi sempre più di emergenza, invece di individuarne e affrontarne le cause strutturali, dove finiremo nessuno lo sa o può dirlo". In ogni caso, non si finirebbe comunque in un regime fascista: "Certo sarà un regime che assolutamente nulla ha a che fare con i mantra democratici che continuiamo a ripetere, pietoso velo del naufragio che ha subito fino a oggi ogni tentativo di riforma del nostro sistema istituzionale e del rapporto tra le sue funzioni e i suoi poteri".

La sinistra prova il blitz: vogliono abolire la Meloni. Laura Cesaretti il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno. L'aiutino a Giorgia Meloni, messa in serio imbarazzo dalle prodezze neofasciste di Roma, arriva da dove meno te lo aspetti. Addirittura dal Nazareno: è infatti il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano che, proprio mentre i Fratelli d'Italia si dibattevano faticosamente tra la condanna per le violenze di Roma e la solidarietà ai novax/nopass antigovernativi, inciampa in un clamoroso incidente politico via Twitter. Offrendo così generosamente ai meloniani l'ambito ruolo di vittime della sinistra neo-stalinista. Provenzano, che nel Pd rappresenta la sinistra dura e pura, se la prende con Meloni che da Madrid (dove è corsa ad arringare in uno spagnolo maccheronico la platea dei nostalgici franchisti di Vox) ha dichiarato di non conoscere la matrice di Forza Nuova, e accusa: «Il luogo scelto e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano». Bum: sul vice di Enrico Letta che mette FdI fuori dal consesso democratico si scatena la tempesta. E siccome nel frattempo il Pd sta raccogliendo le firme su una mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova, il gruppetto fascista che ha assaltato Cgil e ospedali spaccando bottiglie in testa agli infermieri, quelli di Fdi fanno la sintesi: Provenzano vuole sciogliere anche noi. «Spero che Letta prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d'Italia», tuona Meloni. «O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte». Meloni si affretta ad assicurare che lei condanna «ogni violenza di gruppi fascisti». E che il suo partito «non ha rapporti con Fn», e invita il Pd a manifestazioni e azioni comuni contro ogni violenza». Le fa subito eco il capogruppo meloniano Francesco Lollobrigida: «Non è certo il vice segretario del Pd che può concedere patenti di ingresso nel perimetro repubblicano. I suoi toni somigliano più a quelli dei regimi comunisti, in cui affonda le sue radici il Pd, che non a quelli del civile e rispettoso confronto parlamentare». Seguono a ruota tutti i parlamentari di Fdi, chi chiedendo le dimissioni di Provenzano, chi ingiungendo a Letta e persino a Mario Draghi e Sergio Mattarella di pronunciarsi, chi chiamando il vicesegretario Pd «stalinista». Con Meloni si schiera Matteo Salvini: «Il vice-segretario del Pd taccia ed eviti di dire idiozie, non è certo lui che può dare patenti di democrazia a nessuno. Fascismo e comunismo per fortuna sono stati sconfitti dalla Storia, e non ritorneranno». I dem devono correre ai ripari: a Provenzano viene chiesto di mettere una pezza al pasticcio combinato, con un ulteriore tweet che però non riesce col buco. L'ex ministro del Mezzogiorno («E meno male che adesso c'è la Carfagna», lo punge Matteo Renzi) assicura: «Nessuno si sogna di dire che FdI è fuori dall'arco parlamentare (in effetti aveva detto fuori dall'arco democratico e repubblicano, ndr) o che vada sciolto, ma con l'ambiguità nel condannare la matrice fascista si sottrae all'unità necessaria delle forze democratiche». Letta ribadisce il «gravissimo errore» della Meloni nel non condannare lo «squadrismo» dei no vax e la invita a sottoscrivere la mozione contro l'organizzazione neofascista, mentre dal nazareno si accusa la leader Fdi di «falsificare la realtà rifugiandosi nel vittimismo: il Pd non ha chiesto di sciogliere il suo partito ma Fn». Laura Cesaretti 

Giorgia Meloni contro Beppe Provenzano: "Vuole sciogliere FdI per legge? Ecco che roba è la sinistra". Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. L'assalto alla Cgil e le manifestazioni estremiste a Roma di sabato? Tutta colpa di Giorgia Meloni. Questo il pensiero di Beppe Provenzano. L'ex ministro del Partito democratico si scaglia contro Fratelli d'Italia in un post su Twitter intriso di livore: "Ieri Meloni aveva un'occasione: tagliare i ponti con il mondo vicino al neofascismo, anche in Fdi. Ma non l'ha fatto. Il luogo scelto (il palco neofranchista di Vox) e le parole usate sulla matrice perpetuano l'ambiguità che la pone fuori dall'arco democratico e repubblicano". Peccato però che la Meloni abbia denunciato "la violenza e lo squadrismo" andato in scena, ricordando che "questa roba va combattuta sempre" per poi precisare di non conoscere la matrice. E in effetti non è l'unica. Alla protesta partecipavano più di diecimila persone, molte addirittura scampate ai controlli. Dura condanna anche da parte del capogruppo alla Camera di FdI, Francesco Lollobrigida: "Il governo può sciogliere le organizzazioni eversive. Draghi prenda provvedimenti". Da qui la replica della Meloni alla provocazione del dem: "Il vicesegretario del partito 'democratico' vorrebbe sciogliere il primo partito italiano (oltre che l’unica opposizione al governo). Un partito a cui fanno riferimento milioni di cittadini italiani che confidano e credono nelle nostre idee e proposte". Messaggio indirizzato a Enrico Letta: "Prenda subito le distanze da queste gravissime affermazioni che rivelano la vera intenzione della sinistra: fare fuori Fratelli d’Italia. O forse i toni da regime totalitario usati dal suo vice rappresentano la linea del Pd? Aspettiamo risposte". Solo in parte Provenzano ha raddrizzato il tiro chiarendo quanto scritto: "Significa semplicemente che in questo modo Fdi si sta sottraendo all'unità delle forze democratiche e repubblicane contro i neofascisti che attaccano lo Stato. Un evidente passo indietro rispetto a Fiuggi. Tutto qui". Ma la proposta rimane ugualmente grave".

"Nemmeno il Pci si sognò di metter fuori legge il Msi". Fabrizio Boschi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'intervista al direttore del Riformista Piero Sansonetti. Secondo l'ex ministro per il Sud nel governo Conte II, Giuseppe Provenzano, oggi vicesegretario del Pd, Giorgia Meloni sarebbe «fuori dall'arco democratico e repubblicano». Sentiamo cosa ne pensa l'antifascista direttore del Riformista, Piero Sansonetti. 

Direttore, cosa gli è preso a Provenzano?

«Credo abbia avuto un colpo di caldo fuori stagione. Non si capisce di che parli».

Come se la spiega?

«Deve aver sentito parlare dei partiti facenti parti dell'arco costituzionale. Ma senza studiare la storia: oggi i partiti che hanno partecipato alla Costituzione non ci sono più. Perciò sono tutti fuori. Forse solo il Psi di Nencini si può definire partito costituzionale. Gli altri son nati dopo».

È preoccupante?

«Fa pensare a manovre autoritarie».

Addirittura.

«Dire che la Meloni è fuori dall'arco democratico è una manovra autoritaria che riduce la democrazia in regime. Ricordo a questo ragazzo che nella storia italiana i partiti sono stati cancellati solo da quei fascisti che lui tanto odia. Ci provò Scelba ma senza riuscirci. E ora lui cosa vorrebbe fare? Riprendere questa bella tradizione?».

Lo conosce?

«No, cosa è ministro?»

No, non più, ora è vice segretario del Pd.

«E Letta non ha detto niente? Questo sì che è preoccupante. Figuriamoci che una cosa del genere non l'hanno mai pensata nemmeno i comunisti. Il terribile e feroce Pci non ha mai chiesto di mettere fuori legge l'Msi che certamente era molto più legato al fascismo di Fdi. Persino Potere operaio, che Provenzano nemmeno saprà cos'è, era contrario. Solo Lotta continua lo gridava. Ed eravamo negli anni Settanta, quando Provenzano nemmeno era nato, in un clima ben diverso dal nostro».

Allora a cosa attribuisce le sue parole?

«Al decadimento della nostra classe politica che denota una totale assenza di preparazione che poi è la caratteristica di questo Parlamento, dal M5s in poi. Tutto è inquinato da un personale politico con capacità di ragionare ridotte e con una cultura politica assente. Si salvano solo poche decine di persone».

E di chi vuole cancellare Forza Nuova cosa ne pensa?

«Un'altra idiozia. Se ogni volta che ci sono incidenti mettiamo fuori legge coloro che partecipano alle manifestazioni allora metteremo fuori legge tutti. E i militanti di sinistra sono quelli che farebbero fuori per primi. Non ha nessun senso a meno che non si voglia creare un regime. Io sono anche contrario ai reati di apologia, figuriamoci».

Cioè?

«Sono reati di opinione e nessun pensiero per me andrebbe punito, punire i pensieri è ignobile. Penso ci sia qualcosa di fascista nel proibire i pensieri. Tutte le azioni repressive sono fasciste».

E della Meloni a Vox cosa ne pensa?

«Lei può andare dove gli pare. Il problema è che questi vogliono fare i partigiani perché non riescono a fare nient'altro e confondono la politica con la raccolta di figurine Panini».

Da repubblica.it l'11 ottobre 2021. "Vogliamo fare una cosa seria? Tutto il Parlamento si unisca per approvare un documento contro ogni genere di violenza e per sciogliere tutte le realtà che portano avanti la violenza, non è che la violenza dei centri sociali lo è meno". Replica così Matteo Salvini al segretario del Pd, Enrico Letta, dopo che i dem hanno presentato alla Camera questa mattina una mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova e di tutti gli altri movimenti dichiaratamente fascisti. Una richiesta nata dopo gli scontri di sabato scorso a Roma durante la manifestazione non autorizzata dei No Green pass a cui hanno preso parte molti esponenti di FN e durante la quale la sede nazionale della Cgil è stata devastata. Intanto, su richiesta della Procura di Roma la Polizia Postale ha notificato un provvedimento di sequestro del sito internet del movimento di estrema destra Forza Nuova. L'attività rientra nell'indagine avviata dai pm della Capitale  e relativa anche agli scontri avvenuti sabato nel centro della Capitale e che ha portato all'arresto di 12 persone. Il reato per cui si è proceduto è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici o telematici. 

Mattarella: "Molto turbati, non preoccupati"

E proprio rispetto a quanto accaduto durante la manifestazione nella Capitale, il Capo dello Stato Sergio Mattarella a Berlino rispondendo a una domanda del presidente Frank-Walter Steinmeier ha sottolineato che "il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica".

Il no di Forza Italia

Ma il leader della Lega non è l'unico a non appoggiare la mozione del Pd. Oltre al no di Fratelli d'Italia, oggi arriva anche quello di Forza Italia. E fonti della Lega fanno sapere che il centrodestra "condanna le violenze senza se e senza ma ed è pronto a votare una mozione per chiedere interventi contro tutte le realtà eversive, non solo quelle evidenziate dalla sinistra". Questo, riferiscono dal Carroccio, è quanto sarebbe emerso "da alcuni colloqui telefonici tra Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni". Mentre l'azzurro Elio Vito si dichiara disponibile a firmare la mozione del Pd, il resto del partito di Silvio Berlusconi si dice contrario. "I fatti di sabato scorso, le aggressioni alle forze dell'ordine, l'assalto alla Cgil, sono stati condannati da tutte le forze politiche. Non ci possono essere ambiguità contro la violenza e contro chi usa una manifestazione di piazza per secondi fini", chiariscono in una nota i capigruppo di Forza Italia alla Camera e al Senato, Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini. "Ma non esistono totalitarismi buoni e totalitarismi cattivi - proseguono - e per questo motivo non è possibile per i nostri gruppi firmare o sostenere la mozione presentata dal Pd". Per, da FI si dicono aperti ad altre soluzioni. "Proprio per superare le divisioni - dicono - proponiamo di lavorare ad una mozione unitaria contro tutti i totalitarismi, nessuno escluso".

Conte: "M5S in prima fila contro Forza Nuova"

Dai grillini arriva invece il sostegno alla proposta dei dem. "Il Movimento 5 Stelle aderisce e rilancia le iniziative volte allo scioglimento di Forza Nuova e delle altre sigle della galassia eversiva neofascista", assicura il leader Giuseppe Conte. "Saremo in prima fila per tutte le iniziative parlamentari che muoveranno in tal senso - aggiunge - Siamo però consapevoli che non basterà questo, così come sappiamo che ignorare le proteste di piazza - quelle legittime e pacifiche - non aiuta a lavorare al bene del Paese". Per questo, Conte in un post su Facebook invita ad "ascoltare la rabbia di chi guarda al futuro con angoscia e preoccupazione".

La mozione di LeU

Come il Pd, anche Liberi e Uguali ha scelto di presentare, ma al Senato, un analoga mozione per chiedere lo scioglimento di Forza Nuova.  " Dopo gli assalti squadristi di sabato e la delirante rivendicazione di FN che promette di proseguire su quella strada non si può più essere tolleranti.  Bisogna agire, far rispettare la Costituzione e le leggi, sciogliere i gruppi fascisti", sottolinea la capogruppo di LeU al Senato, Loredana De Petris. Che poi dice: "Anche FdI, se fosse onesta e coerente, dovrebbe votare a favore della mozione. Invece Giorgia Meloni prosegue con la tattica dell'ambiguità, senza mai nominare i fascisti perché sa che da quelle aree le arrivano voti, ma fingendo di voler invece combattere la violenza per non inimicarsi altre fasce del suo elettorato".

Claudio Del Frate per corriere.it l'11 ottobre 2021. La mozione presentata in Parlamento che chiede lo scioglimento di Forza Nuova (che di conseguenza diventerebbe una organizzazione fuorilegge) può essere attivata grazie alla legge Scelba del 20 giugno 1952. Quest’ultima dava attuazione pratica alla dodicesima disposizione transitoria e finale della Costituzione che vieta in Italia la ricostituzione del partito fascista (il testo recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’articolo 48, sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».) La legge Scelba, in questo senso, è stata applicata poche volte in Italia; per sciogliere un movimento ritenuto epigono del fascismo è necessario un decreto del ministero dell’Interno, oppure una sentenza della magistratura. E proprio la magistratura, in serata, ha rotto gli indugi: la polizia postale, su ordine del tribunale di Roma, ha sequestrato e oscurato il sito di Forza Nuova. Il reato per cui si procede è istigazione a delinquere. Tornando alla possibilità di sciogliere Forza Nuova il primo articolo della legge stabilisce che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». I fatti accaduti sabato a Roma sembrano rientrare in pieno dentro questo perimetro. Di più: senza il bisogno di attendere gli assalti alla Cgil, a Palazzo Chigi, al Policlinico Umberto I, Forza Nuova non ha mai fatto mistero della sua inclinazione per i metodi violenti. La valutazione, comunque, e il relativo decreto di messa al bando della formazione di Roberto Fiore e Giuliano Castellino toccherà al Viminale. In Italia sono pochissimi i precedenti di applicazione della legge Scelba in relazione al tentativo di resuscitare il partito fascista; l’ostacolo giuridico è sempre quello che divide la legittima manifestazione del libero pensiero in politica dall’azione eversiva. Nel novembre del 1973 i dirigenti di Ordine Nuovo, fuoriusciti dal Msi, vengono condannati per ricostituzione del partito nazionale fascista e l’organizzazione viene sciolta per decreto. Nel giugno del 1976 stessa sorte tocca ad Avanguardia Nazionale. Non incorrerà invece nelle sanzioni della legge la formazione di Giorgio Pisanò «Fascismo e libertà», che potrà anche presentarsi alle elezioni ostentando sul simbolo un fascio littorio. La ricomparsa di una estrema destra eversiva è un problema che non riguarda solo l’Italia; in Germania nel gennaio 2020 è stato messo fuorilegge il gruppo neonazista Combat 18, di dichiarate simpatie hitleriane; Berlino ha varato una serie di leggi che inaspriscono ogni richiamo al nazismo (compreso l’uso del saluto romano in pubblico) dopo l’uccisione da parte di terroristi di estrema destra del politico della Cdu Walter Lübcke. In Grecia la formazione di estrema destra Alba Dorata è stata dichiarata fuorilegge da una sentenza della Corte d’appello di Atene che ha condannato i suoi leader a pesanti pene. Alba Dorata era arrivata a sfiorare il 10% dei consensi alle elezioni politiche. Stesso copione in Francia, dove il governo ha dichiarato illegale il gruppo di estrema destra Generation Identitaire nel marzo del 2021 per i suoi messaggi fortemente razzisti.  

Da liberoquotidiano.it il 13 ottobre 2021. Sciogliere Forza Nuova? Si può, in punta di diritto. Parola di Piercamillo Davigo, che ospite di Giovanni Floris a DiMartedì su La7 ascolta imperturbabile il "curriculum" dei due leader del movimento di estrema destra, Giuliano Castellino e Roberto Fiore, coinvolti nelle violenze di piazza dei No Green pass sabato scorso a Roma concluse con l'occupazione della sede della Cgil. "Castellino, capo romano di FN, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi in primo grado per aggressione a due giornalisti - ricorda Floris -, a 4 anni in primo grado per aggressione e resistenza a poliziotti e rinviato a giudizio per truffa da un milione di euro al Sistema sanitario nazionale. Fiore invece, fondatore, è stato condannato negli anni 80 per associazione sovversiva e banda armata, latitante a Londra è tornato in Italia una volta prescritti quei reati". "Questo implica qualcosa per le sorti di queste persone", chiede Floris. "La recidiva vale solo per condanne passate in giudicato. In piazza sabato non c'è stata premeditazione ma organizzazione di reato in corso". Secondo molti commentatori Castellino, già oggetto di Daspo, poteva essere fermato: "Il Viminale però non è onnisciente, non ha la sfera di cristallo ed è anche molto difficile programmare l'ordine pubblico perché c'è il rischio di creare incidenti anche più gravi", spiega l'ex pm di Mani Pulite ed ex membro del Csm, difendendo Luciana Lamorgese. Sul reato di apologia di fascismo, sottolinea ancora Davigo, bisogna distinguere perché "la ricostituzione del Partito fascista (proibita dalla Costituzione, ndr) è nei fatti cosa abbastanza complicata". Diverso il discorso su Forza Nuova. "Lo scioglimento è possibile con una legge o un decreto del presidente della Repubblica su proposta del Consiglio dei ministri".

Lo scioglimento dei partiti e la legge. La legge Scelba va usata solo per tentati golpe. Beniamino Caravita su Il Riformista il 13 Ottobre 2021. I partiti politici, nell’ordinamento italiano, sono tutelati a livello costituzionale, genericamente attraverso l’articolo 18, che tutela la libertà di associazione, più specificamente ai sensi dell’art. 49, che riguarda la libertà dei cittadini di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Una disposizione costituzionale, collocata fra quelle finali e transitorie, prevede il divieto di ricostituzione del partito fascista, in evidente collegamento storico, istituzionale, finalistico con la genesi della Costituzione italiana, con il valore della Resistenza, con il giudizio che – anche attraverso il referendum del 1946– il popolo italiano diede del ventennio fascista. In attuazione della disposizione costituzionale fu approvata nel 1952 una apposita legge, la cosiddetta “Legge Scelba” dal nome dell’allora ministro degli Interni, che prevede, se ricorrono determinati presupposti, lo scioglimento di un partito qualora si sia di fronte alla ricostituzione del partito fascista. Titolare del potere di scioglimento è il ministro degli Interni, sentito il Consiglio dei ministri, sulla base di una sentenza di cui non è richiesto passaggio in giudicato ovvero, nel caso ricorrano gli estremi dell’art. 77 Cost., vale a dire un caso straordinario di necessità e urgenza, il Governo, con un evidente spostamento del livello di responsabilità politica. Sotto il profilo materiale, l’art. 1 della legge Scelba prevede che «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista». Da un punto di vista rigorosamente giuridico, nessun dubbio può essere nutrito sul fatto che si tratta di disposizioni di stretta interpretazione, incidendo su fondamentali diritti di libertà. Ne derivano tre ordini di conseguenze. In primo luogo, quale che sia il giudizio politico, la disposizione non può essere applicata per colpire movimenti di ispirazione egualmente totalitaria e autoritaria, caratterizzati dalla denigrazione delle istituzioni democratiche e da prassi violente, ma di ispirazione e matrice diverse da quella fascista. In secondo luogo, deve essere accertata in maniera rigorosa l’esistenza di quei presupposti materiali (qui soccorrono le tre decisioni giudiziarie già intervenute: il caso di Ordine Nuovo, sciolto nel 1973, quello di Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1976, e quello più recente del Fronte nazionale, sciolto nel 2000). Se si provvede direttamente con decreto legge, deve sussistere il caso straordinario di necessità e urgenza, accertato secondo i criteri più severi, non secondo le blande valutazioni a cui finora ci ha abituato in materia la Corte costituzionale e che hanno permesso la sostanziale emarginazione della produzione legislativa parlamentare. Occorre cioè che il governo, il presidente della Repubblica, in sede di emanazione, e poi comunque il Parlamento in sede di conversione del decreto legge, si assumano la responsabilità politica e giuridica di affermare che il pericolo costituito da Forza Nuova non è, almeno hic et nunc, affrontabile con gli ordinari strumenti preventivi e repressivi che l’ordinamento mette a disposizione. Fermo rimanendo che i presupposti materiali possono esistere (e allora viene da chiedersi perché nessuno abbia agito prima in tal senso), e impregiudicata rimanendo la risposta sull’opportunità politica di una simile iniziativa governativa, la questione giuridica che va posta è: siamo veramente sull’orlo di una situazione che, per giustificare un intervento extra ordinem, dovrebbe apparire paragonabile ad una sorta di colpo di stato o di guerra civile? Beniamino Caravita

Francesco Bechis per formiche.net il 13 ottobre 2021. Non chiamatela eversione. Luca Ricolfi non ci sta: sciogliere Forza Nuova e le altre organizzazioni estremiste che fomentano il malcontento di piazza contro il green pass e i vaccini è un precedente pericoloso, dice a Formiche.net il sociologo, professore ordinario di Analisi dei dati all’Università di Torino.  

Ricolfi, se non è eversione cos’è?

Parlare di eversione è una forzatura. La violenza di piazza è un fenomeno endemico in Italia e non ha targa politica. Destra, sinistra, anarchici, centri sociali, Casapound. E i no-Tav in Val di Susa, dove li mettiamo?  

Sulle chat di chi ha organizzato il caos a Roma si parlava di assalto al Parlamento. Questo non è eversivo?

Prendiamo la legge. Un atto è eversivo se determina un rischio concreto per le istituzioni democratiche. Non vedo questo rischio oggi. Ma le faccio un esempio dall’estero.

Prego.

In Germania esiste un partito neonazista, l’Npd. Ha perfino ottenuto un milione di voti, ora ne ha cento, duecentomila. Il Bundestag ha chiesto di scioglierlo, la Corte Costituzionale ha risposto di no, perché non pone un pericolo per l’ordine democratico. Se poi in Italia vogliamo proibire qualsiasi manifestazione di violenza con lo scioglimento, benissimo. Purché si dica apertamente.

L’assalto al Congresso americano di gennaio non è un monito anche per l’Italia?

Certo, ma il paragone regge poco. In quel caso si sarebbe dovuto sciogliere il Partito repubblicano, perché i manifestanti, piaccia o meno, erano sostenitori di Trump. Un esito evidentemente paradossale.

Però il problema rimane. Il vicesegretario del Pd Provenzano in un tweet ha detto che Fratelli d’Italia rischia di finire fuori dall’“arco democratico e repubblicano”. È un’esagerazione?

È preoccupante, molto. Giorgia Meloni ha dato una lettura di questo tweet: vogliono sciogliere Fdi, come a suo tempo volevano sciogliere l’Msi. Io ci vedo un passaggio ancora più pericoloso. 

Sarebbe?

Qui non si propone di sciogliere un partito, ma di escluderlo dalla dialettica democratica. Un boicottaggio in piena regola da qualsiasi posizione di potere. C’è una lottizzazione del potere fra i partiti e si decide di lasciare fuori l’unica opposizione esistente. 

Si chiama conventio ad excludendum. Per vent’anni l’hanno fatto con i comunisti e nessuno si è scandalizzato…

Attenzione. I comunisti erano esclusi dal governo centrale, non dal “sottogoverno”. Per decenni hanno concordato riforme, riempito posti di potere, seggi in Rai. Insomma, hanno partecipato senza problemi al banchetto del potere economico italiano.

Va bene, ma qui stiamo aggirando un punto. La destra italiana fatica a fare i conti con il suo passato? Da Lega e Fdi ci potrebbe essere una parola in più su queste frange?

Sì, siamo tutti d’accordo. Ma farei una distinzione. Salvini non ha problemi a fare i conti con la propria storia, la Lega di Bossi era antifascista. Quando nel 1994 fu proposto l’accordo con Berlusconi, tanti tentennavano perché rifiutavano di allearsi al Sud con Alleanza nazionale. Il problema, semmai, è che alcune frange estremiste, come Casapound, vedono nella Lega uno sbocco.

Come se ne esce?

Semplice. Salvini e Meloni devono dire ad alta voce: “Noi i vostri voti non li vogliamo”. Possibilmente prima, non dopo, che queste persone mettano a ferro e fuoco Roma. Potrebbero evitarsi un’analisi del sangue da parte della sinistra, che ha una certa allergia a fare i conti con il passato. 

A che si riferisce?

Qualcuno chiede alla sinistra di fare i conti? No. E sa perché? Perché in Italia nessuno chiede ai post-comunisti di rinnegare il comunismo. I fascisti sono considerati per i loro comportamenti, i comunisti per le loro intenzioni. Ha mai sentito chiedere a Marco Rizzo di condannare i crimini dell’Urss o della Cina? 

Quella piazza a Roma gridava no-pass e anche no-vax. Sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio scrive che il governo non può usare il green-pass per sopprimere l’articolo 1 della Costituzione, il diritto al lavoro. Lei che idea si è fatto?

Premessa: sono vaccinato, favorevole al vaccino e ritengo il green pass uno strumento utile. E sì, a questo giro sono d’accordo con Travaglio. Non si può arrivare al punto di togliere il lavoro a chi non vuole vaccinarsi. 

C’è chi risponde: quindi chi si vaccina sta dalla parte del torto?

Non è questione di torto o ragione ma di garanzie costituzionali. C’è una via d’uscita: i tamponi gratuiti. In altri Paesi lo hanno fatto.

Che ricadono sui contribuenti italiani, tutti.

Giusto così. C’è una ragione perché questo vaccino deve cadere sulle spalle dello Stato. A differenza di altri vaccini nel passato, è stato sperimentato per soli dieci mesi, sia pure su miliardi di persone. 

Quindi?

Quindi un trattamento sanitario del genere non si può imporre. Se fossimo sicuri, non dovremmo firmare un nulla osta ammettendo che non conosciamo gli effetti di lungo periodo. C’è il calcolo del rischio statistico, e da statistico sono il primo a farvi affidamento. Ma chi ha paura non può essere tagliato fuori dalla vita sociale.

"Sciogliere Fn, minaccia fascista". Ma Mattarella smentisce i dem: solo casi isolati. Fabrizio De Feo il 12/10/2021 su Il Giornale. Con il ballottaggio alle porte la temperatura dello scontro politico si mantiene alta. Il desiderio di polarizzare e riaccendere antiche contrapposizioni è palpabile. La frontiera del confronto diventa lo scioglimento di Forza Nuova e delle formazioni dell'estrema destra, con il Pd che presenta una mozione in tal senso. Emergenza democratica alle porte, insomma. Il tutto nel giorno in cui a Milano scattano le contestazioni contro la Cgil da parte dei Cobas e si scopre che decine di manifestanti fermati sabato sono riconducibili al mondo degli anarchici. Una realtà, insomma, più complessa di come è stata raccontata. E che Sergio Mattarella analizza senza incorrere in allarmismi fuori misura: «Il turbamento è stato forte, la preoccupazione no. Si è trattato infatti di fenomeni limitati che hanno suscitato una fortissima reazione dell'opinione pubblica». Ma la sinistra tira dritto e la mozione per sciogliere Forza Nuova e «tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista» arriva in Parlamento. I parlamentari di M5s, Iv e Leu sottoscrivono in blocco. E il segretario dem Enrico Letta chiama tutti i partiti all'unità e lancia un appello perché lo scioglimento di Forza Nuova «sia vissuto come un gesto unitario e non di parte. Dopo i gravi fatti di sabato tutti si riconoscano in una decisione che rende attuale e viva la Costituzione», azzarda. Sullo sfondo si muove anche l'inchiesta romana. La polizia postale sequestra e oscura il sito internet di Forza nuova. Il reato ipotizzato è quello di istigazione a delinquere aggravato dall'utilizzo di strumenti informatici. Si muovono anche i leader di centrodestra. «Berlusconi ha avuto un colloquio telefonico con Meloni e Salvini» fa sapere una nota. «Al centro della conversazione la condanna per le violenze perpetrate a Roma come a Milano, di ogni colore, a danno del sindacato e delle forze dell'ordine e la necessità di una posizione - unitaria - del centrodestra in vista dei prossimi appuntamenti parlamentari e dei ballottaggi». E Salvini non ha problemi nel far sapere che «se ci sono movimenti che portano avanti le loro idee con la violenza, vanno chiusi a chiave. Come a Roma ne hanno arrestati di cosiddetta destra, a Milano di cosiddetta sinistra. Per me pari sono». Sulla mozione, invece, il centrodestra invita a evitare «strumentalizzazioni politiche» e fa sapere di non poterla votare. Forza Italia con Roberto Occhiuto e Anna Maria Bernini sottolinea che «non esistono totalitarismi buoni e cattivi, e per questo non è possibile sostenere la mozione del Pd. Ma proprio per dare un forte segnale di unità tutti i gruppi lavorino a una mozione contro tutti i totalitarismi». Giovanni Donzelli di Fdi, intervenendo a «Domani è un altro giorno», non si tira certo indietro rispetto alla matrice fascista. «Certo, chiunque attenti alla democrazia è contro di noi. Questi odiano più noi del Pd...». Donzelli poi fa notare il pericolo di far votare lo scioglimento di una forza politica. «In un sistema democratico esistono equilibri istituzionali importantissimi. Pensare di far votare il Parlamento è una deriva autoritaria gravissima. Lo scioglimento spetta normalmente alla magistratura e in casi di emergenza al governo».

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021. È un mondo parcellizzato, quello dell'estremismo nero italiano. Tanti piccoli reucci e nessun vero re. Una condizione che porta turbolenza all'interno della galassia neofascista. L'obiettivo dei vari movimenti è riuscire ad acquisire la leadership. Ma questa condizione, nel frattempo, crea grande instabilità. Quindi conflitto e violenza. Ecco, allora, che serve mostrare i muscoli nelle manifestazioni per imporsi definitivamente sugli altri gruppi. E allora quale migliore vetrina se non le proteste contro il vaccino e il green pass. Ma tutto questo, però, non è sufficiente. In un mondo globalizzato non basta solo conquistare il neofascismo in Italia. Bisogna intessere alleanze con l'estremismo di destra europeo. L'internazionale nera. Ma se nel nostro Paese Forza Nuova fa vedere il volto aggressivo, al contrario, in Europa cerca partnership, appoggi e forse anche soldi, come emerge da una recente inchiesta dei carabinieri del Ros. «C'è una competizione nell'estrema destra tra Forza Nuova e Casapound per affermarsi come movimento egemone della galassia neofascista. Negli ultimi anni Cp aveva preso nettamente il sopravvento. Allora Fn, per riconquistare il terreno perso, ha iniziato a compiere una serie di atti violenti. L'assalto di ieri alla Cgil rappresenta il punto massimo di questa strategia. Un'azione su cui imprimere un inconfondibile marchio fascista per riprendere quota all'interno di quel mondo». A fotografare con lucidità l'attuale situazione è Francesco Caporale, magistrato esperto e scrupoloso, oggi in pensione, che ha ricoperto dal 2016 fino all'estate del 2021 la carica di procuratore aggiunto dell'antiterrorismo a Roma. «Questa escalation di violenza in capo ai forzanovisti - sottolinea Caporale - dura ormai da tre anni, il mio ufficio la stava monitorando». Occorre, però, capire in quale contesto si muovano gli uomini e le donne di Roberto Fiore, il segretario di Fn e Giuliano Castellino, il leader romano. «Quest' ultimo - spiega un investigatore al Messaggero - è diventato il frontman del partito perché Fiore ha troppi problemi con la giustizia, rischierebbe parecchio. Castellino, oggi, rischia meno. Non vengono contestati reati particolarmente pesanti. La cabina di regia è però sempre in mano a Fiore». Dalle carte dell'inchiesta dei carabinieri del Ros emerge la rete internazionale di contatti del movimento. Fiore viaggia per l'Europa, arriva fino al Medio Oriente, in Siria. A novembre del 2014 vuole organizzare una conferenza a Damasco in piena guerra civile. Un incontro con «le comunità mediorientali che sto riorganizzando come Aliance for Peace and Freedom», dice il segretario di Forza Nuova a un militante di Fn in una conversazione intercettata dai militari dell'Arma. Poi, a gennaio del 2015, Fiore vola in Grecia per far sentire la sua vicinanza al leader di Alba Dorata Nikolaos Michaloliakos, rinchiuso in carcere perché accusato di appartenere a un'organizzazione criminale. Un incontro talmente positivo che un forzanovista (intercettato dai Ros) sostiene che ora i vertici del partito di estrema destra greco «vogliono bene a Forza Nuova». Assieme a Fiore ad Atene, a trovare Michaloliakos, annotano gli investigatori, sarebbe andato anche un altro pezzo da novanta del neofascismo europeo. L'eurodeputato Udo Voigt eletto con il partito Nazionaldemocratico di Germania, nel 2012 condannato per sedizione a 10 mesi per aver lodato in un comizio le Waffen-SS. Ma non sono solo i forzanovisti a viaggiare in giro per l'Europa. Anche altri camerati vengono a Roma per suggellare alleanze. È il caso dei neofascisti polacchi arrivati nella Capitale a settembre del 2014 per far visita ai forzanovisti. L'incontro, si legge nelle carte della procura, avviene nell'allora sede romana del partito in via Amulio. Anche la questione russa e i nuovi equilibri europei suscitano l'attenzione del gruppo di estrema destra. Un militante di Fn, in una conversazione discute dei «rapporti crescenti del leader di Fn Fiore con altri politici russi». Ma «Salvini ci ha fregato i contatti con la Russia», si rammaricano gli uomini di Fiore al cellulare, »era il cavallo nostro». La necessità di intessere rapporti «di tipo economico/commerciale - sottolineano gli inquirenti - in particolare per la produzione di vino», risultava vitale per i nuovi scenari creatisi in Crimea. Il conflitto ucraino veniva inquadrato «meramente in chiave utilitaristica» con l'unico obiettivo di sfruttare la precaria situazione governativa e incunearsi nei centri di potere per ricavarne benefici economici. Sempre nel 2014 con un esponente di Fn, parlando dell'imminente viaggio in Crimea insieme a Fiore per un incontro col ministro dell'Agricoltura dice che andrà «per fare una cosa coi russi, per cercare di prendere la cittadinanza del nuovo governo della Crimea: il governatore è un amico di amici».

Da Hitler all’assalto alla Cgil: cos’hanno in testa? Chi sono i nuovi fascisti: vecchi, irrazionali e depressi. Franco "Bifo" Berardi su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. Per gentile concessione delle Edizioni Tlon e dell’autore, anticipiamo qui di seguito ampi stralci della postfazione a “Come si cura il nazi”, saggio di Franco «Bifo» Berardi, ormai diventato un classico, che torna in libreria in versione aggiornata per la stessa casa editrice

Quando scrissi questo libretto, nel 1992, stavano emergendo due processi sulla scena del mondo: il primo era la proliferazione della rete digitale destinata nel medio periodo a mutare nel profondo l’economia e le forme di vita. Il secondo era la ricomparsa di una belva che per mancanza di concetti migliori definivamo fascista, e si era ripresentata nel continente europeo, in un Paese un tempo chiamato Iugoslavia, e si delineava all’orizzonte delle subculture anche in Gran Bretagna e perfino in Italia, che col fascismo credevamo avesse chiuso i conti per sempre. In apparenza i due fenomeni erano eterogenei, del tutto indipendenti. Ma non lo erano affatto a uno sguardo più attento, e a me interessava proprio l’interdipendenza che lavorava nel profondo della cultura, della psicologia sociale, della psicopatia di massa. A questa relazione fra i due processi allora emergenti è dedicato in gran parte questo libretto. Oggi che entrambe le tendenze si sono pienamente sviluppate, la loro interdipendenza appare più visibile. Nelle sue varie forme, spesso contraddittorie, l’ondata neo-reazionaria ha preso uno spazio centrale con il fiorire dei movimenti razzisti, nazionalisti, suprematisti che hanno avuto il loro punto più alto nella vittoria di Trump alle elezioni del 2016, ma non sono certo finiti con la sconfitta dell’uomo arancione nel 2020. Ma le manifestazioni di questa ondata neo-reazionaria sono talmente diverse, sorprendenti e assurde che spesso rischiamo di confondere le diverse figure del dramma, e di usare parole vecchie per parlare di fenomeni nuovi. Il movimento trumpista, ad esempio, ha dato vita a enunciazioni talmente assurde e a manifestazioni talmente demenziali che spesso si può supporre di trovarsi di fronte a messe in scena rituali, a grottesche rappresentazioni di consapevole disprezzo per la ragione. Ma proprio questa enigmatica sfida alla ragione è uno dei caratteri salienti di un movimento che esprime la progressiva (e forse irreversibile) discesa nella demenza di larga parte della società. Riconoscere il carattere demente e grottesco delle enunciazioni e delle azioni del movimento neo-reazionario non significa affatto sottovalutarne la pericolosità. Al contrario, dobbiamo capire che la demenza non è affatto un fenomeno marginale e provvisorio, ma è probabilmente un carattere destinato a espandersi poiché l’umanità sperimenta l’impotenza della Ragione di fronte agli effetti devastanti della Ragione medesima. La potenza della ragione umana ha generato mostri spaventosi come la bomba atomica, e quindi ci sentiamo umiliati dai prodotti della nostra stessa potenza, a tal punto che l’abbandono della ragione sembra essere la sola via d’uscita. Ai tempi in cui scrivevo questo libretto mi chiedevo come curare il nazi. Dunque consideravo il riemergere della belva come un effetto psicopatologico, e non ho alcuna ragione di ripensarci. I trumpisti col berrettino rosso e le corna da bisonte sono essenzialmente degli idioti, come lo sono i leghisti con lo spadone indignati per l’invasione dei marocchini, come lo sono i popolani inglesi che riaffermano l’orgoglio imperiale britannico barcollando di ritorno dal pub. Ma non possiamo considerare irrilevante la moltiplicazione del numero di idioti, perché anche le folle che marciavano nelle notti tedesche del 1933 erano folle di idioti. Forse piuttosto che di idioti dovremmo parlare di sonnambuli, come nella scena iniziale e in quella finale del film di Ingmar Bergman L’uovo del serpente: una folla di persone normalissime in bianco e nero cammina per strada, ma il loro incedere si fa sempre più barcollante e automatico, come se la folla metropolitana perdesse coscienza del suo esistere medesimo, trasformata in una folla di zombie. Il serpente è il capitalismo, e il suo uovo si schiude per generare la violenza di folle che hanno perduto il senso della propria esistenza, che non sono più capaci di percepire la collettività solidale né la singolarità della persona, e quindi si trasformano in indifferenziato “popolo”, in nazione, corpo collettivo solo capace di riconoscersi in un’origine, in una identità, in un’appartenenza, che per lo più è solo immaginaria, mitologica. Dunque non mi allontano dall’intuizione che ebbi nel 1992, ma adesso è tempo di mettere in chiaro alcune questioni terminologiche e concettuali che trent’anni fa erano difficili da focalizzare. Dobbiamo davvero definire “nazisti” o “fascisti” gli attori inconsapevoli della tragica farsa che si sta svolgendo in larga parte del mondo? La farsa del nazionalismo che ritorna, del razzismo che si incarognisce, la farsa delle retoriche militaresche e patriottarde? E inoltre: cosa è stato davvero il nazismo nella sua versione storica, e che rapporto c’è stato in passato tra nazismo e fascismo, e in che misura quel rapporto si ripresenta oggi? La sconfitta militare tedesca nel 1918 e l’impoverimento sociale conseguente generarono un sentimento di impotenza che nella Germania del primo dopoguerra prese la forma dell’odio contro coloro che erano considerati traditori della nazione (ebrei, comunisti) e che l’avevano consegnata all’umiliazione di Versailles. Dall’umiliazione collettiva emerse un Führer capace di riaffermare il destino del popolo tedesco: sottomettere il continente ed eliminare la malattia razziale e ideologica dal corpo sano della nazione. Similmente in Italia la convinzione di essere stati privati di una vittoria conquistata sui campi di battaglia alimentò l’ascesa di Mussolini. Non importa che la vittoria italiana fosse una menzogna assoluta, perché l’Italia era entrata in guerra con un tradimento delle alleanze preesistenti, e aveva accumulato una disfatta dopo l’altra. Come non importa che il mito tedesco della pugnalata alle spalle fosse una menzogna per nascondere il fallimento della vecchia classe militare prussiana. Non conta niente la storia, quando le folle si eccitano per la mitologia. Ma allora il problema è: in quale orizzonte si delinea la mitologia? Quale soggettività sociale esprime la mitologia? La soggettività sociale che esprime la mitologia del nazionalismo aggressivo nel XX secolo è quella di una popolazione prevalentemente giovane, e di nazioni emergenti nella scena dell’imperialismo occidentale. Germania, Italia, e, non dimentichiamolo, il Giappone, avevano questo in comune: erano nazioni giovani che ambivano ad affermare la propria potenza con la conquista militare e l’espansione imperialistica, come la Francia, e la Gran Bretagna avevano fatto nei secoli precedenti. Le folle che seguirono il duce italiano e il Führer tedesco, per parte loro, erano composte da giovani reduci, disoccupati, aspiranti conquistatori che credevano in un futuro garantito dall’esuberanza fisica e mentale di un popolo giovane. La follia del fascismo novecentesco era una follia euforica, esuberante. L’identitarismo aggressivo del XXI secolo, al contrario, è espressione di un mondo declinante, di popolazioni senescenti. Perciò nel movimento neoreazionario del XXI secolo emerge l’espressione di una demenza senile, di una depressione psichica senza speranze eroiche, ma piuttosto sordida, rancorosa, ossessionata dall’impotenza politica e dall’impotenza sessuale. La tesi del mio libretto di trent’anni fa appare dunque in qualche misura confermata: all’origine delle varie forme di identitarismo aggressivo ci sta la sofferenza. Ma i caratteri della sofferenza psichica non sono gli stessi oggi rispetto al Novecento. Questi caratteri sono mutati perché l’Occidente è entrato nel suo declino irreversibile, e perché l’esaurimento si disegna come prospettiva generale del pianeta: esaurimento delle risorse, esaurimento delle possibilità di espansione economica, esaurimento dell’energia psichica. Questa è solo la prima parte della storia. Poi c’è la seconda, che nel mio libretto d’antan manca completamente e che ora emerge invece con brutale chiarezza. Di che sto parlando? Sto parlando del fatto che l’esperienza che abbiamo fatto nei primi decenni del XXI secolo ci obbliga a rivedere la periodizzazione del secolo passato. Siamo stati abituati a pensare che nel Novecento si sia svolta una battaglia gigantesca nella quale si distinguono tre attori principali: il comunismo, il fascismo e la democrazia. Questa visione della storia novecentesca è legittima, se ci poniamo dal punto di vista degli anni Sessanta, del trentennio glorioso in cui borghesia e classe operaia realizzarono un’alleanza progressiva. Ma da quando, nel 1973, un colpo di Stato nazista venne ordito contro il presidente cileno Salvador Allende con la collaborazione attiva del segretario di Stato degli Stati Uniti, e con la consulenza scientifica degli economisti della scuola di Chicago, da quando quel colpo di Stato spianò la strada all’affermazione dapprima locale, poi occidentale, poi globale dell’assolutismo capitalistico, autoproclamatosi democrazia liberale, le cose hanno cominciato a presentarsi sotto un’altra luce. Nella nuova luce a me pare di vedere che gli attori non sono mai stati tre, ma sempre due: il dominio assoluto del capitale (in forme democratico-liberali o in forme nazional-suprematiste) è il primo attore, il secondo è l’autonomia egualitaria della società, il movimento del lavoro contro lo sfruttamento. Certo, è vero che il nazismo e la democrazia liberale si scontrarono tra loro nella più cruenta delle guerre, ed è vero che dalla seconda guerra mondiale in poi la democrazia liberale ha dovuto incorporare forme economiche e culturali del socialismo. Certo, i trent’anni dell’alleanza socialdemocratica tra capitale progressivo e movimento sindacale e politico dei lavoratori sono stati una parentesi lunga di contenimento degli istinti animali del capitalismo. Ma non era che una parentesi, appunto, e non appena il capitale ha intravisto il pericolo di un diffondersi del potere operaio, e dell’autonomia sociale egualitaria, il suo istinto si è manifestato nella sola maniera in cui si poteva manifestare: ristabilendo il patto di acciaio con il nazismo. Il contrasto fra democrazia liberale e sovranismo aggressivo, che sembra fortissimo negli anni della presidenza Trump, non è in effetti che una messa in scena piuttosto labile. Certamente gli elettori di Trump o di Salvini si sentono umiliati dalla violenza economica del capitale assolutistico finanziario. Ma non vi è alcuna strategia di fuoriuscita dal capitalismo nel sovranismo delle destre, e infatti coloro che abusivamente si definiscono come “populisti” una volta al governo perseguono politiche di totale dipendenza dal capitale finanziario, di riduzione delle tasse per i ricchi, di piena mano libera sulla forza lavoro. Credo che non si sia mai tentata un’analisi spregiudicata di ciò che accomuna profondamente nazismo e neoliberismo, parola edulcorata ed equivoca con cui si intende l’assolutismo del capitale. Il cosiddetto “neoliberismo” infatti afferma che la dinamica economica è autonoma dalla regola giuridica, perché la legge della selezione naturale non può essere contenuta da nessuna volontà politica. Naturalmente in questa pretesa arrogante c’è un nucleo di verità scientifica che la sinistra ha generalmente sottovalutato, e prende nome di darwinismo sociale. Ma proprio in questo nucleo di verità scientifica, riducibile alla formula “nell’evoluzione naturale prevale il più forte, o meglio il più adatto all’ambiente”, si trova la ragione di un’alleanza obiettiva tra neoliberismo e pulsione nazista mai definitivamente cancellata. Come negare la verità dell’assunto evoluzionista, che in fondo è un puro e semplice truismo, una verità auto-evidente? L’ovvia constatazione che il più forte vince, viene tradotto in una strategia politica per effetto di un paralogismo, di una dimenticanza, o di una menzogna. Si omette semplicemente il fatto che la civiltà umana si fonda proprio nello spazio aperto dal salto dalla natura alla sfera della cultura. E si omette il fatto che Darwin non ha mai preteso di estendere il suo modello esplicativo alla società umana. E infatti la civiltà umana si trova in estremo pericolo nel momento attuale, dopo quaranta anni di dominio neoliberale, di devastazione sistematica dell’ambiente planetario, di impoverimento sociale e decadimento delle infrastrutture della vita pubblica. In questa situazione di estremo pericolo per la civiltà umana stessa, nel momento in cui la dimensione della libertà politica scompare nelle maglie sempre più strette dell’automatismo tecnico e dell’assolutismo capitalistico, ecco emergere di nuovo la soggettività rabbiosa, un tempo euforica e oggi depressa, un tempo isterica e oggi demente che solo a prezzo di una imprecisione (perdonabile) possiamo chiamare “fascismo”. Si rimodula quindi anche la relazione tra fascismo e nazismo. Già nel XX secolo il nazismo fu la manifestazione organizzata di una volontà di potenza suprematista, l’espressione di una cultura che si considerava superiore per ragioni storiche, etniche, ma anche per ragioni culturali, e tecniche. Il nazismo, come il cosiddetto “neoliberismo”, sono espressione dell’arroganza dei vincitori. Il fascismo novecentesco aveva un carattere diverso, perché era espressione, talora petulante talora rabbiosa, di una cultura considerata inferiore (gli italiani e i mediterranei in generale occupavano una posizione intermedia tra la razza eletta e i popoli decisamente inferiori, nell’immaginario razzista del Terzo Reich). La potenza tecnica ed economica del Paese di Mussolini non era paragonabile alla potenza dei Paesi “demoplutocratici”, e neppure della Germania di Krupp e di Thyssen. Allo stesso modo nel movimento neoreazionario del XXI secolo si deve distinguere il nazismo dei vincitori, che si incarna particolarmente nella cultura del ceto tecno-finanziario, dal Fascismo dei perdenti. Razzismo e xenofobia si manifestano in maniere diverse nella cultura dei vincenti nazi-liberisti e in quella dei perdenti sovranisti e fascistoidi. Per questi ultimi è volontà di esclusione, di respingimento se non di sterminio, mentre nuove ondate di migrazione sono continuamente suscitate dalle guerre, dalla miseria, dai disastri ambientali provocati dal colonialismo passato e presente. I vincenti nazi-liberali vedono di buon occhio le migrazioni, purché i migranti non pretendano di istallarsi nei quartieri alti, e accettino le condizioni di lavoro che vengono loro imposte dai tolleranti liberal à la Benetton. Per i fascistoidi identitari delle periferie i migranti sono un fattore di concorrenza sul lavoro e un pericolo quotidiano. La classe dirigente democratico-liberale predica la tolleranza ma costruisce alloggi per migranti nelle periferie povere, non certo ai Parioli o in via Montenapoleone. Per questo il razzismo attecchisce tra i miserabili delle periferie, mentre ai quartieri alti si tratta con cortesia la serva filippina. Il razzismo non è un cattivo sentimento dei maleducati rasati a zero che si ritrovano negli stadi a gridare slogan dementi, ma qualcosa di molto più profondo e di molto più organico: esso si radica nella storia di secoli di colonizzazione, sottomissione schiavistica, estrazione delle risorse dei Paesi colonizzati. E quella storia non è affatto conclusa. Non è possibile emanciparsi dal razzismo fin quando non si riconosce che la miseria dei Paesi del Sud è il prodotto dello sfruttamento bianco, e che questa miseria continuerà a provocare miseria, disperazione, emigrazione fin quando non saranno state rimosse le conseguenze del colonialismo e dell’estrattivismo. Ma rimuovere quelle conseguenze non sarà possibile fin quando l’assolutismo del capitale continuerà a essere la forma generale dell’economia del mondo. Forse dunque non sarà possibile mai. Trent’anni fa mi chiedevo come sia possibile curare il nazi. Ora mi sembra di dover dire che è stato il nazi a curare noi, per guarirci dell’infezione che ci rendeva umani. Al punto che se un tempo pensavamo che non avremmo accettato di convivere con il fascismo, ora siamo tentati di chiederci se il fascismo vorrà convivere con noi. Franco "Bifo" Berardi

Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. Scioglimento di Forza Nuova, i precedenti: da Ordine Nuovo a Avanguardia Nazionale e Fronte Nazionale. David Romoli su Il Riformista il 14 Ottobre 2021. La settimana prossima le Camere discuteranno e voteranno le mozioni che chiedono al governo di sciogliere Forza Nuova, il gruppo neofascista più attivo e soprattutto più vistoso nelle manifestazioni No Vax e No Green Pass, indicato come artefice dell’assalto alla sede della Cgil. Alla Camera c’è una sola mozione, presentata dal Pd e sottoscritta da tutti. Al Senato, dove il Pd ha presentato la sua mozione in anticipo rendendo così impossibile concordare il testo con gli altri affini ce ne sono quattro, sostanzialmente identiche nel dispositivo, anche se quella di LeU, firmata anche da Liliana Segre, estende la richiesta di scioglimento ad altre due organizzazioni, Casapound e Lealtà Azione. Alcuni dei firmatari delle mozioni avrebbero preferito tempi più rapidi. Il governo ha preferito rallentare, alla ricerca di una via d’uscita dal dilemma in cui lo porrebbe l’approvazione. Lo scioglimento di formazioni neofasciste, ai sensi della legge Scelba del 1952 che, dando attuazione alla disposizione costituzionale transitoria, punisce la ricostituzione del Partito fascista, è stato già disposto tre volte nella storia repubblicana: contro Ordine nuovo nel 1973, contro Avanguardia nazionale nel 1976 e contro il Fronte nazionale nel 2000. In tutti i casi, però, i governi si erano mossi dopo una sentenza della magistratura che, sia pure solo in primo grado, aveva emesso condanne per violazione della legge Scelba e, nel caso del Fronte nazionale, della legge Mancino del 1993, che ha reso fattispecie di reato anche la propaganda razzista. Stavolta invece si chiede al governo di procedere per decreto anche in assenza di una sentenza. La legge Scelba lo consente, ma solo in casi di straordinaria necessità e urgenza. Draghi esita, comprensibilmente, a considerare eccezionalmente urgente lo scioglimento di una formazione minore, ancorché rumorosa, di estrema destra. In realtà l’allora ministro degli Interni Paolo Emilio Taviani, uno degli “uomini forti” della Dc, più volte ministro della Difesa, rivendicò nel 1974 il merito di aver deciso lo scioglimento di Ordine nuovo, un anno prima, prescindendo dalla magistratura: «Fu un atto politico: perché i giudici discutevano se la sentenza del Tribunale, non essendo definitiva, fosse sufficiente presupposto dell’atto governativo». La sentenza contro il Movimento politico Ordine nuovo era stata emessa il 21 novembre 1973. Era la prima volta che la legge Scelba veniva applicata a un’intera organizzazione. Fu una sentenza molto pesante: 30 condanne, 10 assoluzioni, 2 posizioni stralciate tra cui quella di Sandro Saccucci, che fu condannato più tardi. Il leader di On, Clemente Graziani, fu condannato a 5 anni e mezzo e si rese latitante, come tutti gli altri leader condannati. Due giorni dopo il ministro Taviani, sentito il consiglio dei ministri, firmò l’ordine di scioglimento. Aldo Moro non partecipò alla riunione, in segno di protesta contro la decisione che, a suo parere, somigliava più ai provvedimenti della giustizia fascista che di quella antifascista.

Il Movimento politico Ordine nuovo era nato nel dicembre 1969, dopo lo scioglimento del Centro studi Ordine nuovo fondato 13 anni prima da Pino Rauti. Dopo l’ascesa di Almirante alla segreteria del Msi Rauti era rientrato nel partito con molti altri dirigenti e militanti. Graziani aveva dato vita al Movimento politico. La divisione era però più profonda. Rauti, in nome dell’anticomunismo, aveva aderito alla politica atlantista mettendo da parte l’antiamericanismo delle origini e, come avrebbe lui stesso ammesso decenni più tardi, si era schierato a favore di un eventuale colpo di Stato militare. Graziani e il Movimento ritenevano che un colpo di Stato sarebbe stato “controrivoluzionario”. Per questo Ordine nuovo non aderì al tentativo di golpe organizzato nel dicembre 1970 da Junio Valerio Borghese. L’inchiesta su On era iniziata nel gennaio 1971, condotta dal magistrato Vittorio Occorsio. Al processo gli imputati, difesi da uno dei principali avvocati della destra italiana, Nicola Madia, si rifiutarono di rispondere, consegnando invece una memoria difensiva: “Processo alle idee”. Non era un titolo eccessivo. L’atto di accusa si basava sulla somiglianza tra citazioni dell’età del fascismo o spezzoni di discorsi di Mussolini e documenti e volantini di On. Le violenze materiali contestate, nel clima dell’epoca, erano insignificanti. Un pestaggio, una manifestazione di fronte a una sezione del Pci, una sassaiola contro la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, a Roma. Un secondo processo si svolse a partire dal 1974 a Roma. Lo scioglimento, nonostante Graziani sperasse di poter proseguire l’attività di On in clandestinità, mise fine alla lunga parabola del principale gruppo della destra radicale in Italia. Alcuni dei militanti scelsero la via delle armi e tra questi Pierluigi Concutelli, che nel 1976 uccise il pm che aveva guidato all’accusa nei processi contro On, Vittorio Occorsio. Di certo l’esplosione e la frammentazione di un gruppo che, nonostante l’aura di sinistra leggenda, aveva in realtà responsabilità penali molto minori di quanto non ci si immagini oggi, impresse una spinta drastica verso la militarizzazione della destra radicale negli anni ‘70.

Nel 1976 fu il turno di Avanguardia nazionale, il secondo gruppo per importanza della destra extraparlamentare. Era il prodotto di una scissione di On. I giovani che non si accontentavano del ruolo di Centro studi e volevano passare all’azione fondarono nel 1959 Avanguardia nazionale giovanile. Sciolta nel ‘66, l’organizzazione si formò di nuovo nel 1970, guidata da Adriano Tilgher. Molto più coinvolta di On nelle battaglie di strada, presente in forza a Reggio Calabria nei mesi della più lunga rivolta urbana della storia recente, colonna del partito del golpe e la vera truppa del tentato colpo di Stato Borghese, probabilmente legata all’Ufficio affari riservati del Viminale, An era nel ‘76 ridotta all’osso. Pochi dirigenti, pochissimi militanti. La condanna per violazione della legge Scelba arrivò nel giugno 1976. Il fondatore, Delle Chiaie, era da anni all’estero, prima in Spagna, poi nel Cile di Pinochet. Furono condannati a pene minori di quelle chieste dall’accusa 30 imputati su 64 indagati. Un giorno prima del decreto di scioglimento, Tilgher anticipò la decisione del governo sciogliendo lui il gruppo.

Passarono 24 anni prima che venisse sciolto un terzo gruppo con poche decine di militanti, il Fronte nazionale ispirato da Franco Freda (che nonostante la mitologia non aveva mai fatto parte di On). In questo caso la condanna e il successivo decreto di scioglimento furono dovuti a violazione della legge Mancino. Nessuna di queste decisioni è mai servita ad arginare il neofascismo. I decreti degli anni ‘70, al contrario, ebbero un ruolo notevole nel determinare a fine decennio l’esplosione del terrorismo nero, in particolare dei Nar. Non perché tra questi gruppi e quelli della generazione precedente ci fossero nessi diretti ma perché il clima che si era creato era ormai quello della contrapposizione estrema e poi armata con lo Stato. David Romoli

 "Questo è un plotone contro la Meloni". Crosetto lascia lo studio di Formigli. Marco Leardi il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'imprenditore ha lasciato la trasmissione di La7 in aperta polemica. "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia", ha detto prima di abbandonare la diretta 

"Questo è un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra". Così, ieri sera Guido Crosetto ha deciso di abbandonare lo studio di Piazzapulita, dove da più di un'ora si stava discutendo della controversa inchiesta di Fanpage su Fratelli d’Italia e Lega. Nello studio di La7, i toni del confronto e dei servizi trasmessi erano palesemente monocordi, ostili ai suddetti partiti e ai loro leader. Dunque – arrivato il momento di prendere la parola – l’imprenditore ed ex sottosegretario alla Difesa ha preferito andarsene in aperta polemica con l'impostazione del talk show. "Io ascolto da un’ora la trasmissione. Man mano che la sentivo andare avanti mi chiedevo: 'Che cosa ci faccio qua? '. Perché io ho una grandissima stima nei confronti del giornalismo, ancora più della politica con la p maiuscola e della democrazia. E penso che la democrazia si fondi sul confronto, non sui plotoni d’esecuzione. Quando vedo dei plotoni d’esecuzione dico che sarebbe giusto che si difendessero le persone che poi vengono uccise", ha dichiarato Crosetto, unico ospite in studio a prendere le difese di Giorgia Meloni e del centrodestra. Davanti a lui, la sardina Mattia Santori (ora tra le fila del Pd) e il vicesegretario dem Giuseppe Provenzano, che nei giorni scorsi aveva addirittura definito la leader di Fratelli d’Italia "fuori dall’arco democratico". Poco prima, in apertura di trasmissione, aveva preso la parola pure Romano Prodi. Incalzato dal conduttore Corrado Formigli, che lo invitava a spiegare meglio la propria contestazione, Crosetto ha aggiunto: "Il plotone d’esecuzione è quello che è stato sinora la trasmissione, nei confronti di Giorgia Meloni e dell’intero centrodestra (…) Io sono inadatto nel recitare il ruolo di foglia di fico e faccio l’unica cosa che può fare una persona che si sente inadatta. La saluto, mi scuso e me e vado". A quel punto, l’imprenditore si è alzato dal tavolo della discussione e si è incamminato verso l'uscita dello studio. Trattenuto con fastidio dal padrone di casa, che gli rinfacciava di aver voluto fare una "uscita di scena teatrale", Crosetto ha tenuto il punto. E ha ribadito: "Quando tutti sparano su persone che non possono difendersi, non è giornalismo né democrazia, secondo me". Poco più tardi, mentre in diretta su La7 proseguiva la discussione, l’ex sottosegretario alla Difesa è tornato a motivare il suo gesto con un tweet. "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita", ha scritto.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista. 

PiazzaPulita, Guido Crosetto abbandona lo studio: "Plotone d'esecuzione contro Meloni, me ne vado". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. Guido Crosetto inaspettatamente abbandona lo studio di PiazzaPulita durante la diretta del programma su La7 del 14 ottobre per protesta: "Cosa ci faccio qui? Non è giornalismo. Ho sbagliato io a venire qui da libero cittadino e libero pensatore. Secondo me la trasmissione è stata un plotone d'esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Non voglio fare la foglia di fico.". Quindi, rivolto a Corrado Formigli: "La saluto, mi scuso e me ne vado". Il fondatore di Fratelli d'Italia, che ha detto addio alla politica tre anni fa e oggi fa l'imprenditore, si è irritato per la puntata dedicata in parte ancora all'inchiesta di Fanpage sulle vicende legate alla campagna elettorale delle comunali di Milano e alla condotta di esponenti del centrodestra, compreso l'europarlamentare di Fdi Carlo Fidanza. "Sono inadatto e me ne vado". "Mi sembra una scena teatrale, mi dispiace, non mi pare sia accaduto nulla di grave. Abbiamo invitato Giorgia Meloni fino all'ultimo momento. Non rincorro gli ospiti", ribatte Formigli. Quindi interviene Alessandro Sallusti: "Si sta facendo passare Fratelli d'Italia come un partito di corrotti. Un marziano, se avesse visto la trasmissione, avrebbe pensato che Fratelli d'Italia è un covo di briganti e di corrotti. Il problema è far passare il primo partito di questo paese come una banda di disperati", chiosa il direttore di Libero. Crosetto torna poi sulla questione con un post pubblicato sul suo profilo Twitter: "Non dividetevi, come al solito, tra squadre di tifosi per commentare il mio gesto. Non ha nulla di politico. È altro. Riguarda il modo di fare le cose. Anche di contrapporsi. Mi è costato molto farlo e ho deciso 5 minuti prima di alzarmi. Mi scuso con Piazzapulita".

"Ho lasciato gli studi di Piazza Pulita: plotone di esecuzione contro la Meloni". Fabrizio De Feo il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il j'accuse del cofondatore di Fdi: "Stavano costruendo un teorema in tv". «Credo che la democrazia si fondi sul confronto e non sui plotoni di esecuzione. Qui ho visto un plotone di esecuzione nei confronti di Giorgia Meloni e del centrodestra. Ho lasciato la politica perché mi sentivo al di sopra di questo modo becero di farla. Mi sento inadatto a fare la foglia di fico. Per questo faccio l'unica cosa che può fare una persona quando si sente inadatta: la saluto, mi scuso e me ne vado». Con questo j'accuse Guido Crosetto, fondatore di Fdi giovedì ha abbandonato gli studi di Piazza Pulit a La7.

Come è maturata la sua decisione?

«Ho ascoltato per mezz'ora il monologo di Corrado Formigli e del direttore Cancellato sulla risposta data da Giorgia Meloni all'inchiesta di Fanpage. A quel punto è stata data la parola a Lilli Gruber che indossava le vesti di arbitro del bene e del male, per arrivare poi alle conclusioni di Prodi. Nel mirino c'era un unico obiettivo: Giorgia Meloni, tirata in ballo per fatti in cui evidentemente non c'entra nulla. Mentre aspettavo non potevo fare a meno di pensare che mi trovavo di fronte a una impostazione inaccettabile per chiunque, per Conte, Letta o Renzi. La trasmissione non stava facendo informazione corretta ed imparziale ma stava semplicemente costruendo un teorema».

Quale sarebbe stata l'impostazione giusta?

«Io credo che il conduttore debba fare l'arbitro tra due interlocutori, non diventare parte in causa».

Non sarebbe stato più giusto controbattere a quelle tesi?

«Dopo un'ora, in 3 minuti? Non ho nulla contro Corrado Formigli, sono stato suo ospite e certo non perdo il rispetto per lui. Ma ritengo si possa portare civiltà anche in un dibattito politico. Giorgia Meloni fino a pochi mesi fa veniva descritta come la faccia buona del sovranismo, ora visti i sondaggi è diventata una Mussolini in gonnella o un Hitler in sedicesimo. Con queste iperboli la si espone al rischio che qualche pazzo possa sceglierla come obiettivo, lei che, in un Paese in cui hanno scorte e tutele anche quelli che si spediscono da soli un proiettile, non ha mai voluto la scorta».

Lei fa politica da molti anni, sa bene che l'evocazione del fascismo è uno spartito consueto da circa 28 anni.

«Ho visto anch'io il titolo di un giornale del 1993 su Berlusconi fascista. Sì, la riesumazione del pericolo nero è un classico pre-elettorale, ma francamente applicarlo a una donna di 44 anni che da anni ha un atteggiamento molto fermo verso qualunque forma di nostalgismo è un po' deprimente. Conosciamo bene queste artiglierie sperimentate per distruggere, ma non è detto che sia scontato abituarcisi e fare finta che sia tutto normale. Gli avversari di Giorgia Meloni dovrebbero cercare di combatterla sui contenuti, non cercando di delegittimare lei».

C'è un elemento di autocritica che si sente di fare rispetto alle prese di posizione di Fratelli d'Italia di queste settimane?

«I movimenti di destra esistono così come i loro tentativi di usare Fdi come veicolo. L'attenzione è alta, a volte si può fare meglio, a volte peggio, ma pensare che i leader di partito possano avere responsabilità per episodi o atteggiamenti che avvengono in periferia è lunare. Qualche giorno fa è stato eletto un consigliere circoscrizionale della lista Manfredi a Napoli che sul suo profilo Facebook ha riferimenti al Ventennio. Nessuno, giustamente, ne ha chiesto conto a Manfredi o a Letta. Se fosse stato di Fdi avrebbero avuto lo stesso atteggiamento con la Meloni? Questa comunicazione è il modo per tenere ferma la democrazia. La sinistra preferisce vincere spaventando il proprio elettorato piuttosto che confrontarsi sulle idee». Fabrizio De Feo

Che vergogna il bullismo televisivo. Davide Bartoccini il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nell'epoca in cui viviamo, il bullismo si combatte a scuola ma si insegna in televisione. E nessuno, professore, politico o giornalista, darebbe la vita - come Voltaire - per permettere a chi che sia di contraddirlo. Non so quando sia iniziato né perché. Non so come gli editori lo consentano, né perché i conduttori televisivi, nella maggior parte dei casi giornalisti fin troppo navigati sempre appellatisi alla democrazia e alle più buone maniere, lo esercitino senza pudore; ma finiamo sempre più spesso con l'assistere a imbarazzanti siparietti che sfociano nel "bullismo televisivo" che scandisce quest'epoca. E francamente è vergognoso. Fa bene dunque un Guido Crosetto, che giovedì si è riconfermato un sobrissimo gentiluomo, ad abbandonare un talk televisivo dove il copione scritto dagli autori poteva e doveva avere un solo epilogo: mettere nell'angolo l'unico contraddittorio presente in studio, sapendo che l'altrettanto gentiluomo, sempre sobrio e rispettoso nei toni, Alessandro Sallusti, non si sarebbe messo a fare la fronda dell'ultimo dei mohicani. Destrorso chi scrive? Ma per favore. Difensore di Giorgia Meloni, detrattore dei giornalisti che in "tre anni di barbe finte", come hanno scritto sul Riformista, hanno "svelato" le malefatte del Barone Nero? Ma per carità. Non è una questione di "vittimismo da camerati", come scherzano sui social. È una questione di coerenza e onestà intellettuale: non si possono continuamente camuffare da talk televisivi delle trasmissione disegnate per "moralizzare" metodicamente la propria audiance. Alle lunghe i non maoisti sono costretti a cambiare canale. Le altre emittenti, per bilanciare le forze, a costruire gli stessi siparietti al contrario, e chiunque abbia conservato un po' di buon gusto, a spegnere il televisore e ad aprire un libro. Questo j'accuse potrà apparire banale, anche fuori tempo, perché è da anni che si consumano queste pantomime. Ma la pandemia che ci ha costretti a guardare più televisione del necessario, e tutto il dibattito tra vaccinisti coatti e no-vax da protesi di complotto, sembrerebbe aver alzato il livello di spocchia di un'ampia schiera di conduttori e ospiti che in virtù delle loro competenza - chi gliele nega per carità - vogliono apparire senza essere contraddetti come dei narratori onniscienti e non come quello che dovrebbero in vero essere: moderatori e interlocutori accreditati. Chi viene chiamato in una trasmissione, in presenza o in collegamento esterno, dovrebbe essere in primis ascoltato, e poi rispettato, anche dovesse abbandonarsi al delirio. Senza dover ripetere l'immancabile "Non mi interrompa perché io non l'ho interrotta" che ormai occupa metà nel minutaggio delle trasmissioni. E senza che il conduttore s'innalzi a paladino della lotta alle fake news: se ti colleghi con un terrapiattista, quello a domanda risponderà che la "terra è piatta". Risibile? Non obietto. Ma neppure si può deriderlo in diretta. Altrimenti è un evidente caso di bullismo. E noi siamo tutti contrari al bullismo no? Facciamo corsi per estirpare il problema nelle scuole e poi lo consentiamo in televisione tra gli adulti con lauree, cattedre e ministeri? Eh no. Così non va. Oggi per esempio, giornata di fuoco per l'opinionismo data l'entrata in vigore nel Green pass per i lavoratori di tutti i settori, ho sentito un ospite del quale non ricordo il nome, che derideva a microfono aperto un camionista che aveva detto di chiamarsi Sirio, e che non si è vaccinato per scelta. Gli diceva ghignando: "Sirio, ma che vivi su una stella?" E poi rincarava con una doppia dose di classismo: "Si vede che sei uno scienziato". Gli altri del "plotone d'esecuzione opinionistico", come siamo ormai abituati a vedere, scuotevano la testa ad intervalli regolari scambiandosi battute ed encomi. Ecco, se non è bullismo questo. Chissà dov'è finito quello spirito voltariano del "Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa continuare a dirlo". Forse nei vecchi palinsesti. Nelle vecchie trasmissioni. Nell'epoca del tubocatodico e dei telecomandi Mivar dello zapping fantozziano. Tempi più civilizzati.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nomina

Giorgia Meloni, fango di Repubblica: "Gli effetti del sabato fascista", ai limiti della legge. Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Secondo Repubblica il “sabato fascista” della scorsa settimana a Roma starebbe frenando l’ascesa di Giorgia Meloni. Tesi però che viene mezzo smentita da Repubblica stessa, dato che riporta il sondaggio Swg realizzato per il TgLa7 di lunedì, dal quale è emersa ben altra realtà: ovvero che Fratelli d’Italia - nonostante l’inchiesta di FanPage e i più recenti fatti romani - è ancora il primo partito nazionale al 21 per cento, con un punto di vantaggio sulla Lega e sul Pd. “Qualsiasi cosa faccia - avrebbe ironizzato la Meloni con la sua cerchia - qualsiasi cosa io tocchi diventa fascismo. Sono una specie di Re Mida mussoliniano”. Una battuta per sdrammatizzare un momento pesante a livello personale e di partito, con gli attacchi che piovono costanti da tutte le direzioni, in particolare da sinistra. Quando ha visto il sondaggio Swg, la leader di Fdi sarebbe rimasta piacevolmente sorpresa e avrebbe confidato ai suoi che “con la campagna di delegittimazione che ci hanno fatto mi aspettavo un tracollo. Evidentemente la gente non è così stupida come pensa la sinistra”. “Prima Berlusconi, poi Salvini e infine Meloni… curiosamente diventa sempre impresentabile chi è in testa”, sarebbe stato il senso del discorso della leader di Fdi. Ora però arrivano i ballottaggi, e soprattutto quello di Roma è molto importante per la Meloni: per questo ha attaccato in aula la ministra Lamorgese, avvertendo una “strategia della tensione” per condurre alla sconfitta il suo candidato, Enrico Michetti. In ogni caso Giorgia sarebbe convinta di non essere davanti a un bivio: una volta passata la tempesta, e anche in caso di sconfitta a Roma, sarà ancora artefice del suo destino politico.

Alessia Morani, vergogna senza precedenti: "Una molotov alla Cgil e la Meloni..." Libero Quotidiano il 14 ottobre 2021. Alessia Morani tocca il fondo. La deputata del Partito democratico con un tweet affianca il nome di Giorgia Meloni a una notizia di cronaca. "Queste immagini arrivano da Jesi. Pare abbiano piazzato una molotov alla sede della Cgil. Aspettiamo di capire cosa è accaduto ma credo che i distinguo di questi giorni e le accuse della Meloni al Viminale siano molto gravi. Il clima è preoccupante e serve responsabilità". Un cinguettio che manda la leader di Fratelli d'Italia su tutte le furie. Ed ecco la replica: "Cosa ne pensa Letta di questo modo indegno di fare propaganda da parte del suo partito?". Semplice: il leader dem non ha ancora proferito parola, mentre la Morani rincara invece la dose: "Ribadisco: le accuse della Meloni nei confronti del Viminale sono gravissime. Mi auguro che prima o poi comprenda la responsabilità che ha nei confronti del Paese".  Insomma, una vera e propria guerra contro la leader di FdI. Giusto qualche giorno fa Beppe Provenzano, altro esponente del Pd, aveva detto che la Meloni è fuori dall'area democratica. Una frase che ha fatto pensare a FdI a un chiaro suggerimento di sciogliere il partito. "Il che - aveva commentato la Meloni - a norma di legge significa che anche noi, primo partito italiano, andremmo sciolti. Magari con il voto a maggioranza di Pd e 5Stelle in parlamento, capito? Il primo partito italiano va sciolto perché lo ha deciso il Pd, questo è il gioco".

Giovanni Orsina smaschera la sinistra: "No green pass? Ma quale fascismo, il vero obiettivo è il Quirinale". Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021. "Devastare la sede della Cgil a Roma è stato un atto di teppismo che va punito con la massima durezza": Giovanni Orsina, professore e storico della Luiss-Guido Carli, ha commentato così la protesta di sabato scorso nella Capitale. Secondo lui, è sbagliato mettere sullo stesso piano la manifestazione di una settimana fa e il fascismo del secolo scorso: "I livelli di violenza attuali non sono in alcun modo comparabili con quelli del primo dopoguerra". Orsina, intervistato da Italia Oggi, ha poi definito "ridicolo" qualsiasi paragone di questo tipo. "Enfatizzare il pericolo fascista è una strategia storica della sinistra italiana, utilizzata dal Partito comunista per rilegittimarsi ed egemonizzare lo schieramento progressista e poi, dopo il 1989, necessaria a ricompattare un centro sinistra diviso e rissoso": questa l'analisi fatta dallo storico. Secondo lui, comunque, tutto questo avrà effetti modesti sul ballottaggio dei prossimi giorni. Gli effetti potranno vedersi più avanti, quando arriverà il momento di eleggere il futuro capo dello Stato dopo Sergio Mattarella: "Dietro c'è una partita più grossa. Mettere in mora Salvini e Meloni sulla base dell'antifascismo è un modo per indebolirli, magari isolarli, nella partita del Quirinale". Sull'imposizione del Green pass da parte del governo in molti settori della vita quotidiana, quello del lavoro in primis, Orsina ha detto di comprendere la misura ma solo fino a un certo punto: "Continuo a chiedermi se, visti i livelli di vaccinazione spontanea raggiunti in Italia, fosse davvero necessario rendere il pass obbligatorio. Ossia sottoporre a un'ulteriore fonte di irritazione uno spirito pubblico piuttosto precario".

Manifestazione dei sindacati a San Giovanni: selfie, Bella ciao e operai in tuta tra Letta e Di Maio. «Su questo palco c’era Berlinguer».  Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2021. Nella piazza blindata, striscioni e bandiere arcobaleno: prove generali di un «Ulivo Bis». Lo sguardo scorre sulla folla. Massiccia, forte ma non nervosa, e però consapevole, ostinata, questo sì. Nel cielo limpido centinaia di palloncini (rossi, verdi e azzurri, come i colori dei tre sindacati) galleggiano allegramente su una scena piena di striscioni e bandiere arcobaleno, pugni chiusi e Bella Ciao, Resistenza, i metalmeccanici sono venuti con la tuta, i disoccupati con i loro cartelli, le mamme con i bambini, i giovani accanto agli anziani che raccontano di quando lassù c’era Enrico Berlinguer, molta tenerezza, molta luce. Piazza San Giovanni: un pomeriggio di antifascismo martellante, vivo, attuale; in dissolvenza, da qualche parte nella mente e nel cuore di tutti, le immagini delle squadracce nere, del canagliume che, sette giorni fa, esattamente a quest’ora, assaltò la sede della Cgil, indifesa. Nel dubbio, nonostante il Viminale stavolta abbia organizzato le cose per bene, agenti e carabinieri in quantità, e i blindati, e gli elicotteri che volano bassi, è tornato a schierarsi anche il leggendario servizio d’ordine della Fiom.

Transenne. Sottopalco. Capire chi c’è. 

Ecco Enrico Letta. Il segretario del Pd arriva a piedi e cerca subito Maurizio Landini. Fotografi e cameraman, eccitati, in semicerchio: tra i due un abbraccio lungo, sinceramente affettuoso; poi si aggiunge Pier Luigi Bersani, dicendo una cosa nell’orecchio di Landini. («Anche negli anni Settanta, in una stagione ben più dura di questa, era il sindacato che toglieva tutti dall’imbarazzo delle bandiere. E infatti, in alcune manifestazioni, c’era sempre una certa destra liberale, costituzionale — riflette Bersani — Mi chiedo allora dove sia quella attuale. Lo sanno o no che questa è una Repubblica fondata sull’antifascismo?»).

Arrivano pizzette calde e pasticcini nel gazebo della Cisl. I compagni della Cgil, più sobri, vanno di pizza con la mortadella. Arrivano anche i sindaci di Palermo e di Firenze, Leoluca Orlando e Dario Nardella. Vigili urbani in alta uniforme con i gonfaloni della Campania, dell’Emilia-Romagna, della Puglia («Michele Emiliano non è potuto venire, ma è qui con il cuore», dice un tipo in ghingheri come un generale napoleonico). Gira voce che laggiù ci sia Massimo D’Alema. Molto intervistata Susanna Camusso. Sergio Cofferati, noto anche come «il Cinese» (che parlò davanti a un milione di lavoratori): «Osservo la risposta democratica che mi aspettavo».

Sugli appunti, dopo mezz’ora, c’è scritto: Pd al completo, visti i ministri Franceschini e Orlando, cercare di parlare con Orlando, Franceschini tanto non ti dirà niente, molto a suo agio — in quest’atmosfera operaista/militante — il vice-segretario Provenzano, Nicola Zingaretti è con l’assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato (ricordare che è merito suo se, da queste parti, ad un certo punto, ci siamo vaccinati tutti con ordine e rapidità), non dimenticarsi di citare Valeria Fedeli, sottolineare la lucidità e la rara sobrietà politica di Walter Verini che, essendo tesoriere del partito, potrebbe anche tirarsela. 

Nessuno degna Carlo Calenda, grande assente, di mezza parola. Calenda s’è sfilato dicendo che in questa piazza unitaria non si fa solo antifascismo, ma politica. Ruvido: però, forse, un po’ ci ha preso. 

Prove di Ulivo bis, di Unione bis? Fate voi. Ci sono pezzi di Italia Viva (Nobili, Migliore, Bellanova: chissà cos’ha in testa Renzi), ci sono il verde Angelo Bonelli e Roberto Speranza, seguito da tutta la complessa truppa sinistrorsa. Da Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana, a Stefano Fassina. Nichi Vendola semplifica il dubbio: «Come si traduce, politicamente, la potenza di questa piazza?».

Vendola va via incrociando Roberto Gualtieri, che per diventare sindaco di Roma deve giocarsela al ballottaggio con Enrico Michetti (il quale si conferma un personaggione: ignorando il divieto assoluto di Meloni e Salvini, aveva espresso il desiderio di venire. «Scusate: ma quale occasione migliore per dimostrare che sono davvero antifascista?»; l’hanno incenerito con due sguardi). Gualtieri invece è venuto ma resta muto, rispetta le regole, mette su una smorfia fissa, tra rammarico e ironia. Fotografo: «A Gualtié, te lo dico: pare che te fa male un dente…».

Poi, all’improvviso, sotto la Basilica, compare un corteo di auto blu. Al centro, un grosso suv blindato. Vetri neri. Guardie del corpo. 

Stupore. Curiosità. Chi sarà? 

Una della Uil: «È Draghi!». Cameraman: «Ma no! Draghi ha solo due macchine di scorta. Questo sembra Biden». «Escluso — fa un delegato Cisl — Biden mica è a Roma». 

Lo sportello del suv, dopo lunghi minuti, finalmente si apre. E compare la testa di Luigi Di Maio. 

«E meno male che nun te piaceveno le auto blu!», gli grida una signora con i capelli ricci aggrappata alle transenne. Di Maio la ignora e incede nel mischione dei fotografi, nel groviglio di microfoni e telecamere (intanto, dall’ultima auto, è sceso Alfonso Bonafede, ignorato da tutti). 

Un tipo forzuto dello staff soffia a Di Maio: guarda che c’è pure Conte. I due si osservano da lontano. Gelo? Gelo. Segue foto di gruppo con Paola Taverna (solito meraviglioso fotografo: «Aho’, e mica v’hanno condannato a morte!»). 

Enrico Letta capisce che l’aria s’è fatta appiccicosa, si fa aprire le transenne e va a mischiarsi con la folla (dove trova le due capogruppo di Camera e Senato, Serracchiani e Malpezzi). Grida di evviva, selfie, pacche sulle spalle, accoglienza notevole. 

Intanto Landini sta per cominciare il suo intervento. Tra gli alberi, tirano su uno striscione: «Noi con i fascisti abbiamo finito di parlare il 25 aprile del 1945».

Rinaldo Frignani per corriere.it il 16 ottobre 2021. «C’è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione». Così sabato mattina il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, nel corso del corteo per le strade dell’Esquilino che ha portato i manifestanti dell’iniziativa di solidarietà alla Cgil al sit-in nazionale dei sindacati in piazza San Giovanni a Roma. «Libertà, diritti, pluralismo, libera informazione e lavoro», le richieste della piazza sulla quale sventolano le bandiere dei tre sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil tra palloncini rossi, verdi e blu. Il lungo applauso alla richiesta di «sciogliere le forze neofasciste». «Siamo in piazza per ribadire la forza della democrazia nel nostro Paese, la voglia di cambiare e la forza della Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti li problema se erano in campagna elettorale o meno - aggiunge Landini -. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia. Ringrazio Lamorgese per il lavoro compiuto e le forze di polizia per quello che hanno fatto». Tanti i temi abbracciati da Landini, non ultimo, il caso Regeni: «Vogliamo la verità». «Mai più fascismi» lo slogan scelto per chiedere lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste. L’appuntamento con Cgil, Cisl e Uil a partire dalle 14 in piazza San Giovanni, ma con un prologo: un corteo partito da piazzale dell’Esquilino alle 12.30. Flussi da tutta Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole. La stima finale secondo gli stessi sindacati è di 200 mila persone in piazza, mentre per la Questura i partecipanti sono circa 50 mila. Di sicuro c’è che ci sono tantissimi pensionati, con bandiere e palloncini delle sigle delle tre categorie Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp: sotto il palco, le «pantere grigie» sono il gruppo più nutrito. All’indomani dell’obbligo di presentazione del Green Pass sul luogo di lavoro, e alla vigilia del secondo turno delle elezioni amministrative nella Capitale e in altre grandi città,i sindacati richiamano l’attenzione sull’attacco «squadrista» alla sede della Cgil ritenuto una sfida a tutto il sindacato confederale, al mondo del lavoro e alla democrazia: mercoledì 20 ottobre è attesa l’apertura della discussione in Senato sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «Una grande festa democratica senza colore politico» per Giuseppe Conte, presidente del M5s. «Una grande risposta di popolo per sottolineare i valori costituzionali» il commento a distanza di Luigi Di Maio, ministro degli Esteri ed esponente del M5s. «In questa piazza c’è la nuova Resistenza — afferma il segretario generale della Uil Bombardieri —. La Resistenza è quella che ha combattuto il fascismo; vogliamo riaffermare i valori della democrazia, della partecipazione e il rifiuto della violenza». Per il segretario della Confederazione europea dei sindacati, Luca Visentini, l’impegno è «per ottenere la sospensione dei brevetti a livello internazionale e per l’aumento della capacità tecnologica e di produzione dei vaccini in Europa e nel mondo». E ancora: «Ai fascisti del nuovo millennio diciamo che non passeranno. Noi li fermeremo». Intento condiviso anche da Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl: «L’Italia riparte con il lavoro», con «le riforme e gli investimenti concertati. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le `bestie´ degli estremismi». E Sbarra affonda la stoccata sui vaccini: «Cosa si aspetta a renderli obbligatori? Grave che il governo e il Parlamento non l’abbiamo ancora fatto per mera convenienza politica. È grave che per non affrontare queste contraddizioni si siano scaricati i conflitti sul mondo del lavoro». Nella folla anche il candidato sindaco di Roma del centrosinistra, Roberto Gualtieri, rispettoso del silenzio elettorale. Sotto il palco anche il ministro della Salute, Roberto Speranza e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. E Massimo D’Alema: «La violenza fascista non è una forma qualsiasi di violenza, ma è una violenza di impronta totalitaria messa al bando dalla Costituzione e che nasce dal rifiuto del totalitarismo fascista». Il segretario del Pd, Enrico Letta, abbraccia il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Per lui in regalo una maglietta con la scritta «La matrice dell’Europa è antifascista», realizzata dall’associazione EuropaNow. «Studenti antifascisti - lavoro, reddito, istruzione e diritti contro ogni fascismo» la scritta sullo striscione di Rete della Conoscenza, Unione degli Studenti e Link. «Da tutta Italia siamo arrivati a Roma per una manifestazione urgente e necessaria: sciogliere le organizzazioni neofasciste e chiuderne le sedi è oggi una priorità» dicono gli studenti. Tra la folla, diverse magliette blu con scritto: «Vaccinato dal 25 aprile 1945». Tante e diverse le bandiere, tra cui quelle dell’Anpi e di Legambiente. «L’antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione», si legge su un cartello di un manifestante firmato «Cgil Bari». Presenti anche le realtà arcobaleno, insieme al movimento Disability Pride. Presidiato il centro storico di Roma durante tutta la manifestazione. Sorvegliati dalle forze dell’ordine, non solo i palazzi istituzionali, ma anche alcuni obiettivi ritenuti sensibili come cantieri edili che si trovano nell’area, palazzi occupati e sedi dei sindacati. Sotto la lente, inoltre, la sede di CasaPound.

“Bella Ciao” e pugni chiusi: a piazza San Giovanni la passerella di sinistra beffa il silenzio elettorale. Eleonora Guerra sabato 16 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Pugni chiusi, Avanti popolo, bandiere rosse e l’immancabile Bella Ciao, che ha chiuso il comizio. Pardon, la manifestazione. A piazza San Giovanni oggi ha fatto sfoggio di sé tutto l’armamentario tipico della sinistra più a sinistra, ma a sentire gli organizzatori in piazza c’era «l’Italia». Si badi bene, però, non un’Italia qualsiasi, ma «l’Italia migliore» come non ha mancato di rivendicare la capogruppo di Leu al Senato, Loredana De Petris. Insomma, tutto come da copione, compreso l’immancabile vizio della sinistra di mettersi su un piedistallo, che in questo caso aveva la forma di un palco. Il palco antifascista. Gli organizzatori hanno parlato prima di 100mila, poi di 200mila partecipanti. La Questura ha nettamente ridimensionato il dato a 60mila. Si tratta comunque di un numero di tutto rispetto, ma abbastanza per sostenere, come ha fatto il leader della Cgil, Maurizio Landini, che «tutta Italia vuole cambiare questo Paese»? Il leader Cgil non si è limitato a dire che «tutta Italia vuole chiudere con la violenza», ma anche che «vogliamo essere protagonisti del cambiamento economico. Tutto il governo assuma questa sfida e apra una fase di cambiamento sociale del Paese». Insomma, va bene l’antifascismo, va bene il ripudio della violenza, va bene la solidarietà, ma perché farsi sfuggire l’occasione di mettere in chiaro che qua si rivendicano anche i temi prettamente legati all’agenda politica? D’altra parte che si trattasse di un’occasione politica imperdibile era evidente fin dalle premesse, ovvero dalla scelta di fissare la manifestazione in pieno silenzio elettorale. Lo svolgimento è stato all’altezza delle aspettative. A piazza San Giovanni hanno fatto passerella tutti i big della sinistra, affiancati dagli aspiranti sindaci, un Roberto Gualtieri molto fotografato in testa. Per il Pd c’erano, tra gli altri, Enrico Letta, Andrea Orlando e Dario Franceschini. Per Articolo 1, Roberto Speranza, Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema. Per la sinistra Nicola Fratoianni e Nichi Vendola. Per Italia Viva Teresa Bellanova. Per il M5S Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. «È una bella festa senza colore politico nel nome della democrazia», ha sostenuto Conte. Sipario e sigla di chiusura, sulle note di Bella ciao.

Fascismo e quota 100. Da anni la Fiom scrive il programma con cui la destra poi vince le elezioni. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 16 Ottobre 2021. La Fiom ha pubblicato una piattaforma politica in cui è vaga su tutto tranne nell’anticipare le pensioni e condannare la globalizzazione. Non stupisce. Lega e Fratelli d’Italia usano le stesse parole gridate dalla sinistra sociale: lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza. Per la manifestazione “Mai più fascismi”, convocata per oggi a Roma da CGIL, CISL e UIL, come risposta all’invasione squadristica della sede del maggiore sindacato italiano, la FIOM ha predisposto una piattaforma (come si dice in sindacalese), che partendo dalla condanna «di ogni forma di fascismo e di violenza» e dalla richiesta «dello scioglimento immediato di tutte le organizzazioni di matrice neo-fascista e neo-nazista», arriva a chiedere di «ridurre l’età pensionabile, introducendo elementi di flessibilità in uscita (41 anni di contribuzione o 62 anni di età anagrafica)», passando per tutto il repertorio di evocazioni (precariato, progressività fiscale, sanità pubblica…), che descrivono l’immaginario ideologico e sentimentale di sindacati da anni in crisi di ruolo e di identità. Però su tutto, fuorché sulle pensioni, si rimane nel vago. Insomma, lo scioglimento di Forza Nuova e la sostituzione di quota 100 con quota 41 sono le sole due precise richieste antifasciste dei metalmeccanici della CGIL. Manca nella piattaforma della FIOM il riferimento testuale al liberismo, che da quelle parti non si ha troppi scrupoli a rubricare come una versione economica evoluta del produttivismo fascista. È comunque decisamente chiaro che nel mirino c’è quell’idea di società che, nelle analisi del mondo sindacale e della CGIL in particolare, è considerata la matrice dei rigurgiti reazionari dell’Occidente, sia nel senso del modello di riferimento (il capitalismo globalizzato come universalizzazione del “sistema Pinochet”), sia nel senso della causa della frustrazione e del disagio sociale, destinato a capitolare nell’illusione fascista. Purtroppo, la discussione sul fascismo in Italia è condannata a confrontarsi con gli obblighi e i divieti, di un antifascismo da guerra fredda anni ‘50 o da autunno caldo anni ‘60. L’idea conformistica del fascismo come regime dei padroni e dei fascisti come mazzieri del Capitale impedisce di vederne la seduzione sempre ricorrente, soprattutto in forme più subdole, pervasive, strutturalmente interclassistiche e potenzialmente maggioritarie della violenza di piazza di infime minoranze, che hanno più parentele con la criminalità organizzata e con le curve ultrà che con il fascismo del Ventennio, inteso come regime, come sistema di consenso e come vera e propria ideologia nazionale. Nessuno (o pochi e quasi tutti silenti) nel mondo sindacale sembra rendersi conto che non tanto nelle organizzazioni dichiaratamente neo-fasciste, come Forza Nuova, ma in quelle della destra ultra-fascista, a partire dai primi due partiti italiani, Lega e FdI, l’aggregazione del consenso è fatta sulle stesse parole d’ordine sterilmente gridate dalla sinistra sociale negli ultimi decenni: guerra alla globalizzazione, lotta alle multinazionali, alle banche e alla (qualunque cosa significhi) finanza, protezionismo e pensionismo, antagonismo nazionalista sulle regole di bilancio e di mercato imposte dai trattati Ue. Possibile che nessuno abbia visto che proprio su quota 100 Salvini ha resuscitato e nazionalizzato il territorialismo leghista e che il «fermiamo il mondo, vogliamo scendere», biascicato dal sindacato italiano confederale (anche qui con pochissime eccezioni), è, questo sì, il canone retorico di quella destra nazionalista, che, in senso proprio, cioè storico e ideologico, è più fascista delle bande di picchiatori sottoproletarizzati e ampiamente manovrabili di Forza Nuova? Tanti auguri, allora, a chi pensa di combattere il fascismo contemporaneo con la legge Scelba e con un nazionalismo economico leftist.

La Cgil dei furbetti: pensioni antifasciste e spot di piazza per il ballottaggio coi leader giallorossi. Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. I sindacati in corteo a Roma: 50 mila persone. Landini: "Grande festa senza colore politico" ma con lui sfila tutto il centrosinistra. E dicono no a Quota 100. Salvini: "Campagna elettorale inseguendo i fascisti che non ci sono". Dall'antifascismo alle pensioni. Tutto nella stessa piazza, alla vigilia del voto dei ballottaggi, sotto lo slogan «Mai più contro i fascismi». Il motivo per cui Carlo Calenda, leader di Azione, aveva deciso di annullare la sua presenza ieri a San Giovanni («Doveva essere una manifestazione in difesa della democrazia, è diventata una questione di lotta politica, fatta tra l'altro il giorno prima delle elezioni durante il silenzio elettorale»), si è plasticamente manifestato sul palco nelle parole del segretario generale Maurizio Landini. «C'è da progettare un futuro che applichi i principi fondamentali della nostra Costituzione. Silenzio elettorale? Credo che i fascisti che hanno assaltato la Cgil non si sono posti il problema se erano in campagna elettorale o meno. Questa è una manifestazione per la democrazia nel nostro Paese quindi di tutti e non di parte. Tutto il mondo ha capito quello che è successo, che non bisogna abbassare la guardia». Tra i cori antifascisti Landini rilancia i temi della piattaforma sindacale, invoca il superamento di Quota cento, misura bandiera della Lega, e incalza il governo: «Bisogna rinnovare i contratti salariali pubblici e privati, ma anche varare una riforma del fisco, delle pensioni e degli ammortizzatori sociali. La riforma del fisco deve avere un effetto chiaro: la lotta all'evasione fiscale deve aumentare il netto in busta paga e delle pensioni». Con lui in piazza molti esponenti del centrosinistra e del governo, dal segretario del Pd, Enrico Letta, al leader del M5s Giuseppe Conte con il ministro Luigi Di Maio e il ministro dem Andrea Orlando. «È una grande festa democratica senza colore politico», dice il leader dei cinque stelle. Ma dal palco c'è spazio anche per un comizio dei sindacati contro le delocalizzazioni delle imprese, contro i condoni che sono «uno schiaffo» a tutti quelli che pagano le tasse, per poi passare agli incidenti sul lavoro e alla neonata Ita: per i sindacati è «inaccettabile» che non applichi il contratto nazionale. Una lista programmatica indirizzata all'esecutivo Draghi. Eppure Landini rivendica: «Non è una piazza di parte. È una manifestazione che difende la democrazia di tutti». Una risposta indirizzata al leader della Lega Matteo Salvini che accusava la manifestazione di violare il silenzio elettorale alla vigilia dei ballottaggi: «A Roma la sinistra fa campagna elettorale inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più». In piazza a rispondere al richiamo di Cgil, Cisl e Uil dopo l'assalto di sabato scorso alla sede del sindacato da parte di Forza Nuova, hanno risposto 50mila persone secondo la questura, 200mila invece secondo gli organizzatori. Nessuno scontro, né si verificano le temute infiltrazioni di estremisti. Una festa colorata, con canti, striscioni e un cielo di palloncini, lontana dalle premesse dei giorni precedenti, che già vedevano piazza San Giovanni trasformata in campo di battaglia nella Capitale. Questa volta era invece blindata dal dispositivo di sicurezza messo in campo dal Viminale per scongiurare le violenze di sabato scorso. Un corteo partito da piazzale dell'Esquilino alle 12.30, con un esercito di lavoratori, molti addetti del settore scuola giunti da ogni parte d'Italia a bordo di 800 pullman, 10 treni speciali e qualche volo dalle isole ha raggiunto piazza San Giovanni alle 14. Tantissimi i pensionati, che sollevavano cartelloni con scritto «l'antifascismo è il vaccino per una forte e robusta costituzione» e «Zero morti sul lavoro». Non sono mancati anche questa volta i nostalgici con le magliette rosse con la faccia di Che Guevara. E mentre i segretari parlavano dal palco, nella folla tutti a discutere dell'appuntamento di mercoledì prossimo quando si aprirà in Senato la discussione sulle mozioni proposte da Pd, Leu, M5s e Italia viva per lo scioglimento di Forza Nuova e dei gruppi neofascisti. «L'Italia riparte solo con il lavoro le riforme e gli investimenti concertati - dice Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, che chiede il vaccino obbligatorio per tutti -. Un campo largo di responsabilità che produca risultati concreti e prosciughi gli stagni in cui si abbeverano le bestie degli estremismi». Lodovica Bulian e Tiziana Paolocci

Vittorio Sgarbi contro il corteo Cgil: "Ridicola passerella. C'era anche Di Maio, che passa la vita a schivare il lavoro". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. "Triste che la CGIL si sia prestata a squallida strumentalizzazione alla vigila del ballottaggio di Roma. Ridicola passerella politica che con il lavoro non ha nulla a che fare. C’era anche Luigi Di Maio, uno che ha passato la sua vita a schivarlo, il lavoro". Questo il tweet di Vittorio Sgarbi a proposito della manifestazione indetta dalla Cgil dopo l'assalto alla sede del sindacato da parte di alcuni appartenenti a Forza Nuova. Per Sgarbi è inaccettabile che una manifestazione si svolga alla vigilia del voto politico sul sindaco di Roma, concetto ribadito più volte negli ultimi giorni. Si strumentalizza, secondo il critico d'arte, per dare contro a Fratelli d’Italia in vista del ballottaggio tra Enrico Michetti e Roberto Gualtieri. E non perde, ovviamente e sempre Sgarbi, l'occasione per attaccare uno dei suo0i bersagli preferiti: il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, presente alla manifestazione indetta dalla Cgil. Vittorio Sgarbi è candidato nella Lista Civica Michetti come assessore alla Cultura e questo sarà il suo ruolo in caso di vittoria del centrodestra al ballottaggio. Ma alla vigilia del voto ha voluto dire il suo punto di vista sulla questione. Una questione per lui politica e ha deciso di attaccare la Cgil. Le polemiche certo non mancheranno.

Corteo Cgil, Matteo Salvini all'attacco: "Mentre in Europa scorre il sangue del terrorismo, inseguono fascisti inesistenti". Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. La manifestazione antifascista organizzata dalla Cgil a Roma non ha alcun senso secondo Matteo Salvini, che su Twitter ha commentato: "Mentre in Europa scorre il sangue per mano del terrorismo islamico, unico reale pericolo di questi tempi, a Roma la sinistra fa campagna elettorale (nel giorno del silenzio) inseguendo fascisti che, per fortuna, non ci sono più". Il riferimento è ai due episodi che sono successi nei giorni scorsi in Europa. Il primo in Norvegia, dove un uomo armato di arco e frecce ha ucciso 5 persone, pare dopo essersi convertito all'Islam. Il secondo episodio invece riguarda l'uccisione di un deputato nel Regno Unito, un omicidio probabilmente legato all’estremismo islamico. La manifestazione di questo pomeriggio a Roma, comunque, è stata organizzata in risposta all'assalto di una settimana fa alla sede della Cgil, nel bel mezzo di una protesta contro il Green pass. Continuando a commentare sui social, il leader della Lega ha citato Leonardo Sciascia: "Il più bell'esemplare di fascista in cui ci si possa imbattere oggi…è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dare del fascista a chi fascista non è". Già prima dell'inizio della manifestazione, comunque, il segretario del Carroccio aveva aveva fatto sapere che la Lega non avrebbe presenziato oggi, così come Fratelli d'Italia. Salvini ha motivato la sua assenza spiegando di non voler violare il silenzio elettorale, in vista dei ballottaggi di domani e dopodomani.

La "Reductio ad Hitlerum": l'abitudine ridicola di "fascistizzare" l'interlocutore per ogni cosa. Andrea Cionci Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“Reductio ad Hitlerum”: con questa curiosa ed efficace espressione latina viene definita l’abitudine ridicola di nazificare o fascistizzare qualsiasi interlocutore non allineato alle proprie idee. Ciò che colpisce è come la sinistra, nella sua spirale di declino cognitivo ormai senza ritorno, non riesca a esercitare ormai più alcun controllo su questo piede di porco dialettico che, pure, usato cum grano salis, a volte ha dimostrato la sua efficacia. Uno esprime un parere contrario, magari appena venato di un approccio al reale meno zuccherosamente emotivo, un filo più pragmatico, un poco più orientato verso un equilibrato sistema diritti/doveri, diventa automaticamente un membro del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, ruolo d'onore, camicia bruna, stivali e pugnaletto al fianco. Di converso, a destra, non ci sono cascati. Quando Berlusconi indulgeva un po’ troppo nel definire i piddini come “comunisti”, da sinistra lo spernacchiavano: “Eh, sì, noi comunisti mangiamo i bambini”. E infatti, poi, la battuta è caduta in disuso e nessuno ha seguito il Cavaliere per questa china pericolosa. Invece, dall’altra parte, la fascio-psicosi si dimostra sempre viva, tanto da aver fatto creare numerosi “meme” che circolano sui social. Quello più noto raffigura Sigmund Freud con la scritta: “Riguardo a questi “fascisti”, li vede spesso? Sono nella stanza qui con noi, adesso?”. Ma ancor più surreale è che, con l’abuso della Reductio, i sinistri stanno facendo del Nazifascismo … un’”icona del libero pensiero”. Uno dei tanti paradossi del Mondo alla Rovescia in cui siamo immersi. Non si rendono conto, infatti, che loro stessi, negli ultimi anni, hanno sposato il più cupo e tetragono pensiero unico: ormai schiacciati su un politically correct vittoriano, sono divenuti le Sturmtruppen della Ue, i secondini di un conformismo piccolo-medio borghese asfissiante. Al motto di "FEDEZ HA SEMPRE RAGIONE", qui censurano, là bloccano, lì confinano o mettono fuori legge, riscrivono il linguaggio, questo si dice, questo no: ci manca solo l’olio di ricino.  E poi “nazificano” chiunque osi protestare. Ovvio che, per un banale meccanismo psicologico, avvenga il ribaltamento di cui sopra. E così, il tale si compra il vino con Hitler sull’etichetta e lo porta alle grigliate, con matte risate; un altro, si mette il bustino del Duce in ufficio e l’edicolante smercia a pacchi i calendari col Crapùn. Anche le grandi aziende sfruttano la “boccata d’ossigeno” inconscia che offre – oggi - la premiata ditta nero-bruna. Persino giornaloni come il Corriere ci danno dentro con le collane di libri dedicate ai due dittatori perché, si sa, se metti Hitler o Mussolini in copertina vendi 10 volte di più. Il cinema, non ne parliamo: lo scorso anno, nelle sale, otto film a tema olocaustico per la Settimana della Memoria. Dagli e dagli, nell’inconscio collettivo i ruoli si invertono, ma a sinistra non ci arrivano. Il senso della misura non fa parte del loro Rna, oggi meno che mai. E’ il “Murgia effect”. Ricordate quando la nostra critica letteraria preferita elaborò il test su “Quanto sei fascista”? Ovunque gente che si disperava per aver raggiunto un punteggio troppo basso, dopo aver risposto a quiz tipo: “Credi che l’immigrazione sia un tantino fuori controllo?”. La sensazione è che gli elettori siano completamente immunizzati alla Reductio, un po’ come avviene per i soliti provvedimenti giudiziari a 16 ore dal voto. Gli unici a subirla ancora un poco sono i politici meloniani. Tranquillizzatevi, la soluzione è a portata di mano: risata pronta e una bella lingua del Negus Menelicche. 

Corteo Cgil, Giorgia Meloni all'attacco: "Manifestazione contro i fascismi, ma c'è la bandiera dell'Urss". Libero Quotidiano il 17 ottobre 2021. Per Maurizio Landini era "la piazza di tutti". Per Massimo D'Alema, che l'ha buttata direttamente in polemica politica, gli assenti "hanno perso una bella occasione". Si sta parlando del corteo di ieri, sabato 16 ottobre, a Roma, la manifestazione di solidarietà alla Cgil e "contro ogni fascismo" organizzata dopo gli scontri del weekend precedente e dopo l'assalto alla sede del sindacato. Eppure, quella piazza, "di tutti", non è affatto sembrata. E non solo per chi sfilava, ossia tutti tranne le forze di centrodestra, Forza Italia compresa. Ma anche per "come" si sfilava: la colonna sonora, incessante e invariabile, era Bella Ciao. E ancora una volta, non è tutto. Già, perché una plastica dimostrazione relativa al fatto che quella piazza non fosse di tutti arriva direttamente da Giorgia Meloni, che sui suoi profili social rilancia quanto segue. Una foto di una bandiera dell'Urss, rossa e con falce e martello, che dominava nella piazza. Insomma, il simbolo di uno dei regimi più violenti, totalitari e omicidi che la storia dell'uomo conosca. Alla faccia della manifestazione "apartitica" e della piazza di tutti. A corredo della foto rilanciata su Instagram, la Meloni ha scritto: "Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell'Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità. Alè". Niente da aggiungere.

Giorgia, lezione di antifascismo sulla Shoah. Fabrizio De Feo il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. La leader Fdi: "L'antisemitismo è un abominio". Ma evita la passerella. È una presa di posizione forte, non equivocabile e non manipolabile, quella che Giorgia Meloni prende in occasione della ricorrenza del rastrellamento nel Ghetto Ebraico di Roma. Un messaggio inviato per ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, la distanza di Fratelli d'Italia dall'antisemitismo e l'amicizia verso la Comunità ebraica. «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici» scrive la leader di FdI in un messaggio. Giorgia Meloni avrebbe voluto fare anche di più. Qualche giorno fa, infatti, durante la conferenza stampa al Jerusalem prayer Breakfast a Roma prima si era detta «contenta di partecipare» a questo evento «come romana e cattolica, qui risiede la più antica comunità ebraica dell'occidente». E ricordando la «terribile deportazione dei 1259 ebrei del ghetto a opera della follia nazi-fascista», aveva annunciato che sarebbe stata presente alla deposizione della corona di fiori in ricordo delle vittime del rastrellamento nazifascista del 16 ottobre 1943 del Ghetto di Roma, «rappresentando la vicinanza e l'amicizia di Fratelli d'Italia e dei Conservatori europei di ECR alla comunità ebraica romana e italiana in questa terribile ricorrenza di dolore per l'intera comunità nazionale». Insieme a Giorgia Meloni avrebbero dovuto partecipare il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli, il capogruppo a Montecitorio Francesco Lollobrigida e Giovanbattista Fazzolari. Una telefonata tra Giorgia Meloni e Ruth Dureghello, presidente della Comunità Ebraica Romana ha poi fatto scattare un rinvio. «La visita è stata rinviata per questioni di opportunità nell'imminenza del voto, non ci sono altri temi, sarà riprogrammata», la spiegazione di Dureghello. A determinare il rinvio una doppia vigilia: quella del ballottaggio a Roma, ma anche il rinnovo del Consiglio dell'Unione delle Comunità Ebraiche in programma oggi, con liste e candidati in lizza per i 20 seggi di spettanza della Comunità di Roma. Di fronte allo stop la leader di Fratelli d'Italia aveva commentato: «Il rastrellamento del ghetto di Roma a opera della furia nazifascista è una profonda ferita per ogni italiano. Un abominio che si è abbattuto sulla Comunità Ebraica più antica d'Europa e che per questo ha toccato le nostre stesse radici. Il virus dell'antisemitismo non è stato ancora debellato e ribadiamo il nostro impegno per combatterlo senza reticenze e in ogni forma, vecchia e nuova, nella quale si manifesta». I rapporti di FdI con la Comunità Ebraica romana in realtà sono ottimi, così come sono ottimi quelli con l'ambasciata di Israele, alla luce delle posizioni fortemente filo-israeliane del partito. La vicinanza di Giorgia Meloni, d'altra parte, è di antica data. Parecchi anni fa, in veste di ministro della Gioventù visitò il Museo Yad Vashem a Gerusalemme e scrisse: «C'è sempre un'alternativa all'odio, alla sopraffazione, alla violenza e alla guerra. Nostro dovere, ovunque e per sempre, è costruire». Fabrizio De Feo

"Antisemitismo? L'ho subìto da sinistra". Alberto Giannoni il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il portavoce della sinagoga di Milano: "Inutile sciogliere le sigle come Fn". Milano. Davide Romano, lei è portavoce della sinagoga Beth Shlomo ed è stato assessore alla Cultura della Comunità di Milano, cosa pensa di questo «allarme fascismo» che torna a essere agitato dopo l'assalto di estrema destra alla Cgil di Roma?

«Penso che in questo momento la situazione sociale sia problematica. Che sfoci in violenza è grave, la violenza va fermata in modo rapido ed efficiente, che sia di destra o di sinistra è meno rilevante.

Il suo mondo è molto attento a questa minaccia. Sta dicendo che non è rilevante ciò che sono quei gruppi ma ciò che fanno.

«Dico che non mi interessa la battaglia simbolica. Mi interessa che le persone violente vengano fermate, isolate, eventualmente punite per quel che fanno. Poi certo, io provo odio per fascisti e nazisti, per quel che hanno fatto ai miei nonni e bisnonni, ma se penso a mente fredda dico: facciamo ciò che è utile, non per istinto o partito preso. Se li chiudo cosa succede?».

Cosa succede secondo lei?

«Magari andiamo a letto tranquilli se sciolgono una sigla, ma se cambia nome o i militanti si aggregano ad altre siamo punto e a capo. Forse la priorità è un canale preferenziale e veloce per perseguire i fatti di violenza politica».

Meglio far emergere le realtà estremiste?

«Le forze dell'ordine, dicono che è meglio sapere chi si ha di fonte. Se finiscono in clandestinità non sai dove sono, dov'è la sede. Anni fa non c'erano social, oggi esistono canali irraggiungibili. Mi interessano risultati concreti e non si ottengono facendo scomparire le sigle».

La rassicura di più una realtà polverizzata?

«Sono ben contento che l'estrema destra sia divisa in mille gruppi. Invece potrebbe esserci un'eterogenesi dei fini, magari i militanti di Forza Nuova vanno su altre formazioni rafforzandole. Parafrasando Andreotti, meglio avere venti gruppi dello 0,1% che uno del 2».

Parlarne tanto è utile?

«La sinistra è forte su questo tema e insiste pensando che sia sentito da tutti in Italia. Non so, è stato molto usato».

Una destra integrata nelle istituzioni è un bene? Fdi?

«A Fini, all'epoca della svolta l'intero ebraismo strinse la mano. Ma non voglio parlare di politica. Posso dire che il Pdl di Berlusconi era una cosa, Fdi un'altra. Dentro Fdi ci sono personalità democratiche e amiche di Israele e delle comunità, ma anche frange più inquietanti. Meloni dovrebbe accelerare le pulizie, è interesse suo e del Paese. Di Salvini, tutto si può dire tranne che non sia amico di Israele».

Comunque, l'antisemitismo non è solo di destra.

«Se devo essere sincero, io nella mia vita sono stato aggredito sempre dai centri sociali, gente di sinistra o estrema sinistra. Parlo di Milano. Alla fine degli anni Ottanta da qualche fascista, poi tutti gli attacchi, al Gay pride con la bandiera israeliana o al 25 aprile con la Brigata ebraica, sono arrivati da sinistra».

Un sondaggio, due anni fa, ha rilevato che l'antisemitismo alberga più nell'elettorato di sinistra e «grillino».

«Non mi sorprende. Nelle istituzioni no, ma sui social, dietro certi svarioni su Israele tipici di una certa sinistra ci sono stereotipi sulla Shoah. Mi dispiace ma è così». Alberto Giannoni

Gli insulti alla Segre? Sputati dal No Vax di sinistra. Francesco Curridori il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gian Marco Capitani, esponente del movimento novax "Primum non nocere", ha attaccato duramente la senatrice Liliana Segre. Un feroce antisemita, dire? E, invece, no... È un anti-fa. “La Segre dovrebbe sparire”. La senatrice a vita, superstite della Shoah, è stata vittima degli insulti che un novax gli ha rivolto dal palco di una manifestazione contro il green-pass. Immediatamente è arrivata la condanna unanime dal mondo della politica per le offese che il novax Gian Marco Capitani, le ha rivolto. L'esponente del movimento "Primum non nocere" ha definito Liliana Segre "una donna che ricopre un seggio che non dovrebbe avere perché porta vergogna alla sua storia, che dovrebbe sparire da dove è", salvo poi pentirsi e fare mea culpa. Ma chi è Capitani? La sinistra si è lanciata nelle solite accuse di fascismo, ma il novax in questione è un 'kompagno' a tutti gli effetti. Il movimento “Primum non nocere”, infatti, sui social si descrive come un gruppo “formato esclusivamente per segnalare gli effetti collaterali dei farmaci e delle terapie comunemente usati, all'interno del quadro scientifico” eppure, come fa notare il quotidiano Libero, è un gruppo dichiaratamente antifascista e di sinistra. Tra gli slogan"El pueblo unido jamás será vencido", mentre Capitani, lo scorso 25 aprile si trovava in piazza ad arringare la folla contro il governatore Stefano Bonaccini con argomentazioni dichiaratamente novax. Capitani, infatti, è un analista programmatore che proviene dalla “rossa Bologna” dove si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni all'Alma Mater. Ieri, in una lettera aperta, affidata all'Ansa, si è scusato con la Segre precisando: "Non sono un razzista non ho mai negato la Shoah e di certo non sono antisemita”. E ha aggiunto: “Ho provato ad interloquire con Lei nella certezza di poter trovare ascolto e mi son ritrovato giudicato per una singola parola. Nell'ultimo anno e mezzo non si contano le frasi violente e le istigazioni alla violenza espresse nei confronti di chi ha una diversa opinione sulla campagna di vaccinazione di massa in corso. A reti unificate, 24 ore su 24, si è scatenata un'autentica campagna d'odio che, temo, abbia fatto molto male al Paese" . Capitani si dice dispiaciuto di non essersi espresso “in modo più appropriato", ma ha ribadito che “la sua opinione è semplicemente legata al ruolo di presidenza della commissione per il contrasto dell'intolleranza da Lei ricoperto. In quel ruolo ritengo che Lei abbia il dovere di esprimersi contro ogni violenza, anche se è rivolta a chi non la pensa come Lei". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia

L'altra faccia della protesta: sindacalisti e centri sociali, ecco i No Pass di sinistra in concorrenza coi fascisti. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 18 ottobre 2021. La discussione attorno al lasciapassare verde accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione. Per dirla con le parole di Luciano Muhlbauer, una vita nei movimenti a partire dalla Pantera, questa storia del Green Pass "produce spaccature trasversali e una polarizzazione inutile, anche nel nostro mondo". Cioè a sinistra, in quella più radicale: dai sindacati di base fino ai centri sociali. La discussione attorno al lasciapassare accende gli animi e finisce per dividere una realtà già per propria natura assai incline alla frantumazione.

Volevano assaltare la Cgil a Milano: 40 anarchici denunciati. Letta ammetterà la matrice comunista? Lucio Meo domenica 17 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Green pass e violenza, gli anarchici sono in prima fila e nessuno lo dice. A Milano volevano assaltare la Cgil E’ di due persone arrestate e otto denunciate per interruzione di servizio pubblico, violenza privata, istigazione a disobbedire alle leggi e per manifestazione non preavvisata il bilancio dell’attività della polizia di Milano, che ieri ha bloccato in più occasioni il corteo dei 10mila no Green pass iniziato alle 17.30 e finito dopo più di cinque ore in piazzale Loreto. Si tratta di anarchici, provenienti dai centri sociali. La matrice “comunista” e di sinistra è evidente, senza alcuna responsabilità del Pd, ovviamente. Ma se è stati chiesto a Fratelli d’Italia e alla Meloni di condannare, con un esplicito riferimento alla violenza fascista, gli assalti alla Cgil dell’altro sabato, Enrico Letta e gli altri leader del centrosinistra faranno altrettanto con le violenze di Milano. La manifestazione, senza preavviso, ha attraversato il centro della città tentando, senza riuscirci, di avvicinarsi alla stazione, alla Regione Lombardia, alla sede del Corriere della Sera e alla Cgil. Degli oltre 100 manifestanti identificati, la polizia sta valutando la posizione di circa 40 persone aderenti all’area anarchica milanese e varesina per il deferimento all’autorità giudiziaria. Dell’inchiesta su quanto accaduto durante il corteo No Green pass si occupa il capo del Pool antiterrorismo della Procura di Milano, Alberto Nobili, il quale ha elogiato le Forze dell’ordine per la loro capacità, come accade da settimane, di “gestire il disordine”, ovvero di riuscire a contenere cortei variegati e senza una guida precisa.  Il pm milanese ha più volte sottolineato come in questi cortei vi sia il rischio di infiltrazioni di estremisti di destra e anarchici e ieri, in alcune circostanze, sono stati questi ultimi a cercare di prenderne la testa, inutilmente. “Con decisione, ma allo stesso tempo senza arrivare a scontri aperti, le Forze dell’ordine sono riuscite a tenere sotto controllo migliaia di persone”, ha spiegato il magistrato.

I partiti litigano sulla piazza della Cgil. Ancora tensione nel giorno del voto. Il centrodestra sulla manifestazione: violato il silenzio elettorale. Il centrosinistra replica: occasione per tutti, sbagliato disertarla. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 17 ottobre 2021. La certezza è che, comunque vada il voto, se ne tornerà a parlare. Perché la manifestazione dei sindacati di San Giovanni ha spaccato il mondo politico: da una parte il centrosinistra, che ha trovato doveroso partecipare e incalza gli avversari: «Nessuno doveva sottrarsi — spiega la capogruppo alla Camera del Pd, Debora Serracchiani — era un momento di unità»; dall’altra l’intero centrodestra che ha disertato un appuntamento «strumentale» e «in violazione del silenzio elettorale». Facile immaginare che da oggi il centrodestra, soprattutto per Roma, chiamerà in causa la manifestazione come fattore distorsivo, sia in caso di sconfitta sia di vittoria. Ha già attaccato ieri Giorgia Meloni: «Nella manifestazione contro tutti i fascismi e gli estremismi sventola la bandiera dell’Unione Sovietica, ovvero uno dei regimi più sanguinari della storia dell’umanità. Ale’», il commento su Facebook a una foto di San Giovanni. E poi, al seggio, ha aggiunto che «votare è importantissimo», i politici «sono lo specchio della società che rappresentano: ce n’è di buoni e di cattivi, bisogna saper scegliere» ma sulla manifestazione è stata definitiva: «Mica sono come il Pd che viola il silenzio elettorale». «C’è un regime totalitario (ancora al potere in certi Paesi) che ha lasciato dietro sé morte e povertà. È lo stesso che tra pugni chiusi e bandiere rosse veniva omaggiato in piazza ieri. Per chi non volesse rinunciare alla memoria, si chiama comunismo?», ha aggiunto per FdI Daniela Santanché.Se il candidato Enrico Michetti ha scelto un polemico no comment («Noi rispettiamo la legge sempre»), e Salvini ieri non è intervenuto dopo aver censurato duramente il giorno prima la manifestazione, è Licia Ronzulli a dar voce all’irritazione di Forza Italia: «Abbiamo scelto di non andare in piazza a Roma con chi nel corso di una crisi sanitaria, economica e sociale senza precedenti, si vuole arrogare il diritto di dividere l’Italia tra buoni e cattivi, tolleranti e intolleranti, fingendo che gli estremismi siano solo di una parte». E dunque a una «inopportuna passerella abbiamo preferito essere sui territori, tra i nostri elettori e tra i cittadini». «Purtroppo —chiosa Fabrizio Cicchitto — la manifestazione dei sindacati si è tradotta in una sostanziale rottura del giorno del silenzio elettorale e in una manifestazione politica a favore del centrosinistra». Accuse respinte da sinistra. Enrico Letta, su Twitter, pubblica una sua foto al seggio e si limita a un «Buon voto a tutti. Viva la democrazia». Ma è la capogruppo Pd Serracchiani a replicare: «È stata la piazza dei lavoratori, della democrazia, dei valori costituzionali. Una piazza di tutti gli italiani, così come chiesto e voluto dai sindacati, per dare una risposta popolare e democratica all’assalto fascista alla Cgil. Una risposta di unità a cui nessuno avrebbe dovuto sottrarsi», è la contro accusa. Condivisa da Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana: «C’era un popolo pieno di dignità. Antifascista. Perché antifascista è il cuore dell’Italia».

Alla faccia della par condicio: la Cgil ha stracciato le regole. Analisti concordi: "Manifestazione per influenzare il voto". Cardini: "In piazza c'era un'oligarchia". Domenico Di Sanzo su Il Giornale il 18/10/2021. La materia è scivolosa. E se molti costituzionalisti sono convinti che la manifestazione di sabato organizzata dai sindacati non abbia violato - almeno formalmente - la legge sul silenzio elettorale, la politica e l'opinione pubblica sono divise sull'opportunità di convocare un grande evento in cui non sono mancate le coloriture identitarie nel giorno precedente l'apertura dei seggi per i ballottaggi in alcune delle principali città italiane. Compresa Roma, la sfida regina di questo turno. Teatro, a Piazza San Giovanni della sfilata della triplice sindacale e del centrosinistra al gran completo. Dal segretario del Pd Enrico Letta al presidente del M5s Giuseppe Conte. La chiamata a raccolta nel segno dell'antifascismo ha finito per provocare divisioni. Con il centrodestra che ha parlato di «manifestazione di parte» e ha stigmatizzato la violazione del silenzio elettorale e delle leggi sulla par condicio, particolarmente severe prima delle elezioni. Basti pensare alle polemiche, al primo turno, sulla mancata messa in onda da parte della Rai del film Hammamet su Bettino Craxi, ufficialmente per un cambiamento del palinsesto, secondo il figlio del leader socialista Bobo, invece lo sbianchettamento sarebbe stato dovuto alla sua candidatura al consiglio comunale di Roma a sostegno di Gualtieri. Surreale la discussione sulla trasmissione di Rai1 È sempre mezzogiorno condotta da Antonella Clerici. Nella puntata del cooking show del 4 ottobre è stato fatto ascoltare uno spezzone di una canzone di Pippo Franco e si sono registrati risentimenti perché il comico era candidato a Roma con il centrodestra. Per Lorenzo Pregliasco, analista politico e fondatore di You Trend, tutto parte dagli eventi violenti di sabato 9 ottobre, con l'assalto alla Cgil della frangia violenta dei No Pass guidata dai neofascisti di Forza Nuova. «Secondo me - dice al Giornale - sono gli eventi di due sabati fa ad aver avuto come conseguenza potenziale un compattamento del centrosinistra in vista dei ballottaggi, con effetti che potrebbero essere più favorevoli al centrosinistra che al centrodestra». E sulla manifestazione di sabato sottolinea: «In piazza c'erano molti politici di centrosinistra e nel manifesto della Cgil erano presenti temi dell'agenda politica del sindacato come ad esempio l'età pensionabile», riflette. Alessandro Campi, politologo e direttore dell'Istituto di Politica, va oltre e ci spiega che «un sindacato come la Cgil invece di ergersi a paladino dell'antifascismo e custode della democrazia dovrebbe interrogarsi sullo sfilacciamento del suo rapporto con i lavoratori». Molti settori del lavoro «non si sentono rappresentati dai sindacati e con le trasformazioni in atto rischiano di diventare disoccupati anche gli stessi sindacalisti oltre ai lavoratori che dovrebbero rappresentare». Franco Cardini, storico e medievalista, non ha dubbi. Con il Giornale parla di «una manifestazione di potere da parte di un'oligarchia». «È ovvio che la manifestazione della Cgil a poche ore dall'apertura delle urne serva anche a raccogliere dei voti per il ballottaggio - continua lo studioso - soprattutto in questi tempi in cui il colpo d'occhio di una piazza piena può influenzare le elezioni, sta di fatto che sabato lì c'era più che altro il paese legale, completamente scollato dal paese reale».

Fotografie dal passato: i soliti comunisti in piazza. Andrea Indini il 17 Ottobre 2021 su Il Giornale. Alla manifestazione della Cgil i soliti gesti nostalgici: da Bella ciao al pugno chiuso. E i volti in piazza ricordano una sinistra ancorata al passato comunista. Come se il tempo non fosse mai trascorso. Di colpo ieri pomeriggio, mentre Maurizio Landini arringava i 60mila in piazza, è stato come essere catapultati nel passato. Eccola lì la sinistra, radunata sotto il vessillo dell'intramontabile brand dell'antifascismo. Eccola lì, in piazza San Giovanni ("La stessa di Enrico Berlinguer...", fanno presente in molti), a infrangere il silenzio elettorale (loro possono) e tirare la volata a Roberto Gualtieri nella corsa al Campidoglio. I volti sono sempre gli stessi, forse un po' più stanchi, ma comunque i medesimi che calcavano quella stessa piazza e quegli stessi slogan decenni fa. Le foto sbiadite di ieri ci riportano, tutto d'un botto, indietro nel tempo: esattamente come durante i corti del primo maggio e del 25 aprile, rivive uno stanco rito nostalgico che non troverebbe più spazio nell'Italia di oggi se non servisse a dare ossigeno a una parte politica fiaccata dal Partito democratico di Enrico Letta e compagni. L'impatto è una marea rossa. Rosso Cgil, rosso comunista. Ma qua e là, a guardar bene, oltre alle bandiere del sindacato, spuntano anche i drappi russi, non della Russia di Vladimir Putin ma della sanguinaria Unione sovietica, quella dei gulag e delle purghe. Sfondo rosso con la falce e il martello incasellati nell'angolo in alto a destra. Nessuno tra i "democratici" presenti in piazza sembra notare la macabra ironia. Giorgia Meloni sì. "Nella manifestazione contro tutti i fascismi - annota - sventolava la bandiera di uno dei regimi più sanguinari della storia dell'umanità". Forse Landini non l'ha vista, esattamente come non ha visto tutto quello che di stonato c'è stato alla manifestazione indetta dopo l'assalto dei no pass alla sede della Cgil a Roma. "Questa piazza rappresenta tutta l'Italia che vuole cambiare questo Paese e chiudere la storia con la violenza politica", tuona il segretario del sindacato che, in quanto a slogan, sembra rimasto ai tempi in cui incitava allo sciopero le tute blu della Fiom. Quello che Landini sembra non vedere è il vero volto della piazza. Ieri, al suo fianco, non c'era certo "l'Italia che vuole cambiare", ma chi è drammaticamente rimasto ancorato a un passato che non ha saputo evolversi. La rappresentazione plastica di questa nostalgia sta nei gesti e nei volti che spuntano tra i palloncini colorati della Triplice e le bandiere dell'Anpi. A guardarli, mentre si stringono in onore dei fotografi, tornano in mente i tempi dell'Ulivo di Romano Prodi. Ci sono un po' tutti. Immortalato mentre abbraccia Susanna Camusso, troviamo Pier Luigi Bersani. E poi, poco più in là, c'è Massimo D'Alema. I due, il premier mancato e l'ex premier, entrambi rottamati dall'ondata renziana che travolse il Pd, tornano a sentirsi a casa e a spendere buone parole per Gualtieri. "L'Italia siamo noi", recita un cartellone sbandierato con forza da un manifestante. "Bisogna bandire la violenza da qualsiasi iniziativa politica", fa eco un altro ex Cgil, il "Cinese" Sergio Cofferati. Accanto ai big del presente (vedi Letta, Zingaretti e Franceschini) e del passato, sfilano a proprio agio gli outsider che hanno risposto alla chiamata alle armi di Landini. C'è la truppa pentastellata: Giuseppe Conte, teorico del fallimentare matrimonio tra Pd e Movimento 5 Stelle, i ministri Luigi Di Maio e Alfonso Bonafede e la vice presidente del Senato Paola Taverna. "È una grande festa democratica senza colore politico", dice l'avvocato del popolo che in questi giorni, proprio a causa delle nozze coi dem, deve tenere a bada i mal di pancia della base grillina. Le dichiarazioni, tutte di maniera, sembrano fatte con lo stampino. "Oggi non c'è alcuna bandiera, è pretestuoso definirla una piazza elettorale", si accoda pure la sardina Mattia Santori che una decina di giorni fa, in piena campagna elettorale per il Comune di Bologna, aveva sugellato il patto con la sinistra dei salotti andando a pranzo a casa Prodi. Ieri pomeriggio la manifestazione si è conclusa sulle note di Bella ciao. Qua e là molti pugni chiusi puntati verso il cielo terso di Roma. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Tutto come sempre. La solita sinistra ancorata al passato e ai suoi fantasmi. 

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leaders 

"È pericolosa la nostalgia degli anni Settanta. Ora stiamo tutti all'erta se no ci scappa il morto". Luigi Mascheroni il 18 Ottobre 2021 su Il Giornale. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta. Quanti sabati e domenica di fila sono, ormai, che la gente va in piazza? Giornate di cortei, manifestazioni, scontri con la polizia, assalti a sedi politiche, città bloccate, feriti... Qualcuno ha evocato gli anni Settanta, uno dei momenti più tragici della storia recente del Paese. C'è chi magari ne ha nostalgia, altri giustamente paura. Come Pierluigi Battista, scrittore, giornalista e attento osservatore della realtà politica, che nel suo nuovo romanzo «La casa di Roma» (La nave di Teseo) - presentato qui al Salone del Libro di Torino con un grande successo di pubblico è come se ci mettesse in guardia su alcune insidiose analogie. Nel romanzo - storia di una famiglia romana che lungo tre generazioni attraversa il Novecento, dal fascismo a oggi - un intero capitolo è dedicato a due cugini, schierati politicamente su fronti contrapposti, i quali precipitano dentro l'uragano ideologico di disordini e scontri di piazza che esploderà nell'omicidio di Mikis Mantakas, lo studente e militante del Fronte universitario d'azione nazionale, il Fuan, abbattuto da due proiettili davanti alla sezione del Msi di via Ottaviano a Roma era il 28 febbraio 1975 - nel corso degli scontri di strada nei giorni del processo agli imputati accusati del rogo di Primavalle.

Pierluigi Battista: «La casa di Roma» racconta di quello che potrebbe succedere ancora.

«Speriamo di no. Ma sento in giro una insidiosa nostalgia di quei terribili anni 70, una stagione infernale di antifascismo militante, di attacchi a sedi di partiti, di demonizzazione dell'avversario politico che diventa il nemico da annientare, o da escludere dal dibattito pubblico. Dimenticandosi che quegli anni, che qualcuno oggi rimpiange, furono il decennio che ha battuto ogni record degli omicidi politici, e non solo sul piano delle stragi e del terrorismo, nero o rosso che fosse, ma sul piano della vita quotidiana: aggressioni, spranghe, agguati, macchine incendiate, cariche della polizia, morti in strada. Un perenne scontro tra fascismo e antifascismo di bassa intensità ma sanguinoso. Attenzione a evocare spettri... Stiamo parlando di un momento tragico della nostra storia, scherzare è pericoloso».

Può scapparci il morto.

«Certo. Io non voglio fare facili similitudini. Dico solo: stiamo attenti. Negli anni 70 mettere fuori legge piccoli movimenti politici come Avanguardia nazionale o Ordine Nuovo non fu per niente utile. Non ricadiamo nello stesso errore. Prendere un'idea malata e cacciarla dentro il recinto infetto dell'illegalità sarà foriero di ulteriori violenze. Se Giuliano Castellino e Roberto Fiore commettono un crimine, come l'assalto alla sede della Cgil, devono essere arrestati e rispondere di quell'atto. Ma sciogliere il loro movimento porterebbe pericolosamente indietro l'orologio della Storia. E metto in chiaro le cose: io non ho alcuna simpatia per Forza Nuova, anzi mi hanno portato a processo per averli definiti cialtroni. Ma un conto è perseguire un reato, un altro voler cancellare una forza politica, piccola o grande che sia».

L'impressione è che si voglia demonizzare Forza Nuova per colpire meglio Fratelli d'Italia e Giorgia Meloni, che hanno grandi consensi, collegando strumentalmente le due cose.

«E riecco gli anni Settanta. Lo ripeto: attenzione, attenzione, attenzione. In quella stagione gli estremisti di sinistra gridavano: Msi fuorilegge, a morte la Dc che lo protegge. Volevano mettere fuori gioco l'Msi imbrattando di fascismo anche la Democrazia cristiana, che era il loro vero avversario. Anzi: il nemico, cioè il Male assoluto. Tutto ritorna».

È ritornata anche un'espressione che volevamo dimenticare: «strategia della tensione».

«Sì, ma usata malamente, come se dietro gli scontri di piazza e le proteste ci fosse una regia occulta, un qualcuno che ha deciso nell'ombra come manovrare a suo piacimento il Paese. Quell'espressione è la radice di tutti i complottismi, è l'idea paranoica degli anni 70 che ci fosse un filo segreto che collega tutto e tutti, da piazza Fontana alle Br, in un unico disegno eversivo pensato da oscuri burattinai. Un'idea completamente sbagliata allora come è sbagliata oggi. E allora come oggi non c'era e non c'è una strategia, ma una forte tensione sì: una paura e un'inquietudine diffuse. Io non sono preoccupato di una possibile regia, che non c'è, ma del clima di violenza che si diffonde, e del ritorno di quel fantasma creato negli anni 70 che si chiama neofascismo: è da allora che il nemico da azzerare lo si chiama fascista. Così non si fa altro che radicalizzare lo scontro. Ma poi: proprio quella sinistra che vuole essere inclusiva con tutti chiede di cancellare qualcuno? L'avversario non va cacciato in un ghetto, ma costituzionalizzato».

Quello della costituzionalizzazione degli estremismi è un discorso vecchio, e irrisolto

«Infatti. E comunque, sia chiaro: ciò vale per la sinistra come per la destra. È altrettanto sbagliato voler chiudere i centri sociali, come a volte chiedono Salvini e Meloni. Compito della politica è ricomprendere le ali estreme, non di buttarle in galera. Non si deve chiudere niente! Che democrazia è quella che accetta di vedere sparire i centri sociali o anarchici o neofascisti? E poi è irresponsabile: il rischio è che esploda una guerra civile».

Qualcuno dice che è irresponsabile anche come si è gestita la protesta contro il green pass. Chi c'è dentro o dietro questo movimento?

«Dietro direi nessuno. Dentro c'è un po' tutto: per me è un calderone in cui ribollono - pericolosamente tante cose: neofascisti, anarco-insurrezionalisti, estremismi di destra come di sinistra. Solo che la sinistra, con il solito doppiopesismo che la contraddistingue, tende a ingigantire i primi e dimenticare i secondi. Preferisce l'unidirezionalità: più semplice e più utile. E poi dentro il movimento che dice no al green pass ci sono anche rabbie e paure che vanno a toccare nodi delicatissimi del diritto al lavoro. Attenzione: quando si dice che un'azienda che ha meno di 15 lavoratori può sostituire chi non ha il green pass, si sta dicendo che può licenziare. Io sono graniticamente a favore del green pass, ma non sottovaluto la forte fiammata di tensione sociale cui stiamo assistendo e in cui convergono risentimenti, rancori, crisi economica, posti di lavoro perduti, dolore e lo sciacallaggio dei politici che in tutto questo ci nuotano come pesci...».

Quale sarà l'effetto di tutte queste giornate di manifestazioni e scontri?

«Non lo so. Ma mi ha molto colpito una cosa nelle rivolte delle scorse settimane: che accanto ai gruppi diciamo militarizzati che cercavano lo scontro con la polizia ci fossero anche persone non inquadrate in precisi movimenti politici, ma che non indietreggiavano quando i poliziotti caricavano, e dicevano: Uccideteci tutti!. Ho paura di quello che cova sotto la cenere. E dico di stare all'erta».

In quel capitolo del suo romanzo La casa di Roma racconta proprio questo: come si iniziò con i cortei, poi si arrivò agli scontri, poi le spranghe, poi alle molotov e le pistolettate

«Infatti. E in tutto questo il terrorismo non c'entra. Qui non stiamo parlando di Br ma del movimento del 77, cioè di qualcosa che alimentò una violenza endemica diffusa che mise in ginocchio il Paese. E rischiare tutto questo - lo dico alla Sinistra - per uno strumentale gioco politico e mettere in difficoltà un partito, sto parlando di Fratelli d'Italia, che comunque ha un importante consenso popolare, è una cosa da pazzi. E pericolosa».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

L'antifascismo corrotto dalla sinistra. Fiamma Nirenstein il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'antifascismo è una battaglia sacrosanta, le leggi che ci conservano la democrazia contro i cosiddetti «rigurgiti» (che strana espressione) sono la cassaforte che ne proteggono l'universalità. L'antifascismo, però, deve appunto essere propagato e protetto in nome della democrazia, tutta. Invece non funziona così quando l'antifascismo diventa «militante». In quest'ottica, il nemico è stato storicamente di destra. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, la sinistra ha avuto buon gioco a lavare i suoi crimini e i suoi errori tingendo solo di «nero» le acque della violazione dei diritti umani. La battaglia antifascista e l'esaltazione dell'epopea partigiana si sono sviluppate lasciando che al sogno della libertà si sovrapponesse quello di una società socialista o comunista. L'antifascismo ha così perso la sua universalità, ed è stato un peccato. Una parte della Resistenza, quella cattolica di Dossetti, Gorrieri, Tina Anselmi e dei preti fuggiti in montagna, è stata cancellata dalla figura del partigiano rosso. Inoltre, per la narrazione antifascista la vittoria russa sui tedeschi è stata mitizzata nonostante il comunismo mostrasse sin dal principio molte somiglianze con il totalitarismo di destra: ipernazionalismo, militarismo, glorificazione e uso della violenza, feticizzazione della giovinezza, della mascolinità, del culto del leader, della massa obbediente, gerarchica e militarizzata, e anche razzismo e odio antisemita. Il doppio standard è da sempre una caratteristica dell'antifascismo militante. La Brigata Ebraica, che in un miracolo di eroismo, in piena Shoah, portò dei giovani «palestinesi» ebrei a combattere sul nostro suolo contro i nazifascisti, è stata sconfessata e vilipesa nelle manifestazioni Anpi perché Israele non è gradita a sinistra. Non erano antifascisti? E non era invece nazi-fascista il muftì Haj Amin Al Husseini che con Hitler progettava lo sterminio degli ebrei? Quanti sono stati tacciati di fascismo solo perché non di sinistra? Il lavoro di bonifica dell'unità nazionale intorno alla Resistenza è stato valoroso, ma il termine antifascista deve prescindere dall'appartenenza politica, perché la genesi della Repubblica Italiana deve diventare finalmente patrimonio comune. Ma quanto è duro mandare giù questo rospo quando le radici culturali affondano nel terreno comune, acquisito, politicamente stratificato, del socialismo. La cosa vale per l'Europa intera, ambigua e ammiccante: dici democrazia, ma alludi a un'utopia socialista, almeno sospirata. Molte delle difficoltà della Ue, infatti, risiedono nel sogno palingenetico post bellico, quando l'antifascismo caricò a bordo il sogno socialista invece di fare i conti con la soggettività dei Paesi europei. Perché anche «nazione» può non essere una parolaccia, se non ha mire oppressive ed espansive. Occorre deporre sul serio le ideologie del Novecento per restare antifascisti veri. Cioè, amanti della democrazia. Fiamma Nirenstein

Anche l'Anpi soffia sul fuoco: "FdI ha cultura fascista". Giuseppe De Lorenzo il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. I partigiani si schierano con Provenzano per mettere fuori Meloni dall'arco democratico: "Giusto il paragone con Msi fuori dall'arco costituzionale". In fondo c’era da aspettarselo. La sparata di Peppe Provenzano su Fdi e l’”arco democratico e repubblicano” non poteva che trovare l’appoggio dell’Anpi. Scontato. Non poteva essere altrimenti: la fantomatica lotta al fascismo, oggi che il fascismo rimane solo negli incubi di certi ossessionati, si traduce nella guerra a Fratelli d’Italia, colpevole di conservare nel cuore del proprio simbolo la fiamma ardente del Movimento Sociale Italiano. E l'Anpi su questo è sempre in prima fila. “Provenzano si è riferito a un presupposto politico degli anni ’70 - ha detto Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Associazione dei partigiani all'agenzia AdnKronos- quando si parlava dell’arco costituzionale riferendosi a tutti i partiti ad eccezione del Movimento Sociale Italiano”. Una “metafora” corretta perché “la cultura fascista è talmente incistata in Fratelli d'Italia che il simbolo è lo stesso dell'Msi, la fiamma tricolore, segno di una scelta consapevole di continuità politica”. Per carità, per Pagliarulo i contesti sono diversi (deo gratias), ma il discorso non cambia. Se il Msi era da tagliare fuori, lo è oggi anche FdI. E Fiuggi? E An? E il partito di destra che ha governato il Paese segnando un decennio? Cosa facciamo: li buttiamo nel water e tiriamo lo sciacquone antifascista, per far tornare la lotta destra-sinistra all’età degli anni di Piombo? Evidentemente sì. Sono però almeno tre gli errori commessi dall’Anpi. Primo. Nel passato con “arco costituzionale” ci si riferiva ai quei partiti che avevano eletto deputati alla Costituente e che dunque avevano partecipato alla scrittura della Carta. Il Msi, per ovvi motivi, venne escluso da questo consesso, anche se neppure il Pci si sognò mai di chiudere il partito di Almirante. Tutto questo, comunque, con FdI non c'entra un bel nulla: anche il Pd, che alla scrittura della Costituzione non ha partecipato, sarebbe tecnicamente “fuori dall’arco costituzionale”. Chiaro? Secondo strafalcione: Provenzano ha utilizzato termini differenti e ben più gravi. Il piddino ha infatti posto FdI fuori dall’arco “democratico e repubblicano”, che è molto peggio. Intanto perché non ha motivazioni storiche. E poi perché “democratico” e “repubblicano” FdI lo è sicuramente, checché ne dica Provenzano. Primo: partecipa alle elezioni legittimamente, come richiede “democrazia”. Secondo: non ha mire monarchiche né tantomeno dittatoriali. È così difficile da accettare? Il terzo errore dell’Anpi è quello di imputare a FdI l’eredità del Msi prima e di An poi. Senza dubbio vi è continuità ideale. E quindi? La paura che il Movimento Sociale tentasse di instaurare una nuova dittatura fascista poteva esistere nei primi anni della neonata Repubblica, non oggi. Chiediamo forse ai romani di dichiararsi anti-papisti per paura che torni lo Stato Pontificio? O ai francesi di firmare un documento anti-napoleonico? Suvvia. Rivendicare la fiamma che arde nel proprio simbolo significa collegarsi idealmente ad un comune sentire. Non significa essere “fascisti” o avere una “cultura fascista”. Significa riconoscersi in una comunità, in una cultura politica che è cresciuta nel Msi, è maturata in An ed è diventata oggi Fratelli d’Italia. Si può essere di destra, senza per questo diventare automaticamente delle squadracce nere fasciste. In fondo l’ultimo segretario del Msi fu Massimo Fini, che è stato terza carica dello Stato. Nessuno oggi potrebbe dire che An, che pure nel simbolo faceva ardere la stessa fiamma, sia stata una minaccia per la democrazia o la repubblica. O no? Anche perché, se applicassimo lo stesso metro, dovremmo dire che “la cultura” dell’Anpi è “incistata” dalle violenze del triangolo della morte emiliano. O che si pone in continuità con le stragi partigiane. È così? Ovviamente no. Allo stesso modo, Bersani può tranquillamente dire nel 2021 che il comunismo significhi ancora per lui “uguaglianza come uguale dignità”. Qualcuno gli fa mai notare che il “comunismo” significa Gulag, Stalin, Praga, Budapest e le foibe di Tito? No. Perché una cosa è la storia, un’altra le idee. Che crescono, si modificano, evolvono. Senza necessarie abiure totali. Meloni, peraltro, ha già condannato tutto il condannabile sul fascismo. Senza ambiguità.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad  

"La scuola progressista genera disuguaglianza. Sanzioni ai docenti che attestano il falso". Gabriele Barberis il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. "Ecco il vero danno scolastico". Il saggio del sociologo e della scrittrice Paola Mastrocola. Torna in campo il sociologo Luca Ricolfi, mente lucida e voce critica dell'area liberal-progressista. Con la moglie Paola Mastrocola (scrittrice, premio Campiello 2004 ed ex docente) ha appena scritto il libro «Il danno scolastico» che denuncia le gravi responsabilità della sinistra sullo scadimento dell'istruzione pubblica.

Professor Ricolfi, un saggio sulla scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Scusi la provocazione, ma dove sarebbe la novità?

«Forse non è una novità per lei, ma forse non sa che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sociologi non ha mai riconosciuto né analizzato l'impatto della qualità dell'istruzione sulla diseguaglianza. In questo libro noi dimostriamo, credo per la prima volta, che più la scuola abbassa il livello, più si allarga il divario fra le chance di promozione sociale dei ceti bassi e quelle dei ceti alti: la scuola senza qualità è un regalo ai ricchi. E la dispersione scolastica, su cui da decenni ci si straccia le vesti, è anche un effetto non voluto dell'abbassamento».

I danni dell'«istruzione democratica» sono il fardello finale del Sessantotto o ci sono responsabilità più recenti da parte di una sinistra ideologica?

«Sì, ci sono responsabilità posteriori al '68, ma ce ne sono anche di anteriori, prima fra tutte la istituzione della scuola media unica (1962), con la progressiva eliminazione del latino e il costante annacquamento dei programmi. Per non parlare dei danni del donmilanismo (Lettera a una professoressa è del 1967), un'ideologia che avrebbe avuto un senso negli anni '50, ma che alla fine dei '60, quando si diffuse, era divenuta del largamente inattuale e profondamente anti-popolare».

E le responsabilità successive al Sessantotto?

«Sono innumerevoli, a tutti i livelli. A partire dalla liberalizzazione degli accessi (1969), passando per la soppressione della figura del maestro unico alle elementari (1990), fino alle grandi riforme della fine degli anni '90 nella scuola e nell'università, con la trasformazione delle scuole in pseudo-aziende e delle università in esamifici: il capolavoro del ministro Berlinguer».

Lei elenca casi concreti di totale ignoranza o scarsa capacità di comprensione da parte di studenti universitari preparati male. Prevede una classe dirigente nazionale fatta da figure incompetenti e inadeguate?

«Più che prevederla, la osservo. L'abbassamento è iniziato quasi 60 anni fa, e quindi ha avuto tutto il tempo di produrre un ricambio completo di classe dirigente. Direi che lo spartiacque è negli anni '70: chi è nato dopo non ha più usufruito di un'istruzione decente, semplicemente perché la maggior parte di coloro che avrebbero potuto impartirgliela era uscito di scena, e la maggior parte dei nuovi docenti avevano un livello di preparazione decisamente meno soddisfacente. Naturalmente non mancano le eccezioni (pessimi docenti di ieri, ottimi docenti di oggi), ma il trend è quello che è: chiaro e inesorabile».

Vogliamo parlare anche di docenti non all'altezza, se non imbarazzanti in certi casi? Anche loro sono passati attraverso le maglie larghe dell'egualitarismo?

«Il problema non è solo l'egualitarismo, o meglio l'egualitarismo malinteso che ha dominato la scena per mezzo secolo. Il punto cruciale, quello che rende i problemi dell'istruzione maledettamente complicati (e probabilmente irrisolvibili), è che la maggior parte delle famiglie e degli studenti hanno oggi altre priorità, e nuove scale di valori: la priorità numero 1 è il consumo, e la sciatteria non è considerata un difetto. Bastano queste due circostanze, che ogni docente trova bell'e fatte davanti a sé, a ostacolare enormemente il lavoro di chi prova a insegnare qualcosa».

Le riforme Moratti e Gelmini, varate durante i governi di centrodestra, hanno tentato di correggere storture ideologiche del passato. Come ne giudica gli effetti ad anni di distanza?

«Direi che, se ci hanno provato, hanno fallito completamente. Ma a mio parere non ci hanno provato granché, probabilmente perché condividevano un punto centrale delle mode degli anni '90: l'idea che la scuola vada pensata come un'azienda, di cui va valutata l'efficienza, e i cui azionisti di maggioranza sono le famiglie. Su questo punto cruciale vedo poche differenze fra destra e sinistra».

Se lei fosse il ministro dell'Istruzione quale provvedimento adotterebbe d'urgenza?

«Come sociologo, penso che dovremmo avere il coraggio di ammettere che ci sono problemi sociali non risolvibili. O meglio, ormai non più risolvibili perché si è lasciato passare troppo tempo. Quindi non ho proposte, tutt'al più provocazioni per far capire qual è il problema.

Una provocazione?

«Beh, un'idea ce l'avrei. Così come si parla di responsabilità civile dei giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa (si può dire così?) del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi, come un perito che è responsabile della perizia che firma. Basterebbe questo a frenare lo scandalo più grave della scuola e dell'università, ossia il rilascio di certificati che attestano il falso».

Doppia domanda come analista politico. Dove sfocerà la tensione politica sul green pass? Se Draghi diventerà presidente della Repubblica, si immagina un'Italia che torna alle urne tra pochi mesi al culmine di un clima di odio?

«Alla fine credo che il governo dovrà concedere qualcosa a chi non vuole né vaccinarsi, né accollarsi, per poter lavorare, 100-150 euro al mese di spesa per i tamponi. Quanto a Draghi presidente della Repubblica, la conseguente andata alle urne a primavera mi pare difficilmente evitabile. Però mi chiedo: siamo sicuri che votare nel 2022 sarebbe un male peggiore che andare alle urne nel 2023? In fondo prima o poi al voto dovremo andare. E sarebbe anche ora, visto che è da 13 anni che non riusciamo più a scegliere i nostri governanti».

Chiudiamo con la giustizia. Le continue invasioni di campo della magistratura condizionano la politica. Anche per lei sarebbe positivo il pieno ritorno dell'immunità costituzionale per i parlamentari per frenare lo strapotere delle procure?

«Anche in questo caso, come in quello della scuola, bisognerebbe prendere atto che una soluzione soddisfacente non esiste, e che siamo costretti a scegliere fra due mali. Nel 1993 il male maggiore era, o sembrava, il vizietto del Parlamento di negare in automatico l'autorizzazione a procedere. Dopo quasi trent'anni, il male maggiore è, o sembra, il protagonismo dei Pm, che ora si accanisce anche nei confronti dei sindaci. Di qui, per noi liberali e garantisti, il paradosso: la magistratura è caduta così in basso che siamo tentati di invocare l'immunità per un ceto politico che sappiamo essere il peggiore di sempre».

Gabriele Barberis Caporedattore Politica, Il Giornale

Orlando Sacchelli per ilgiornale.it il 14 ottobre 2021. Milano, 25 aprile 2016. Al campo X del cimitero Maggiore si ritrovano alcune centinaia di persone per commemorare i caduti della Repubblica sociale italiana. Lo fanno ogni anno. A un certo punto, alla chiamata del "presente", fanno il saluto romano. Alcuni vengono identificati e indagati, sulla base di quanto prevede la Legge Mancino, per apologia del fascismo. Ora, a distanza di cinque anni, la Cassazione scrive la parola fine e annulla la condanna dei quattro imputati, tra cui il presidente dell'associazione Lealtà Azione, Stefano Del Miglio. Nel processo di primo grado gli imputati furono tutti assolti, con la riqualificazione del fatto in articolo 5 della legge Scelba. Ma la procura si oppose e ricorse in appello, con la V sezione penale che riqualificò il fatto riportando l'articolo 2 della legge Mancino: gli imputati furono condannati a due mesi e 10 giorni di carcere. La sentenza fu impugnata e si è arrivati davanti ai giudici della Cassazione. All'udienza del 12 ottobre, discussa davanti alla I sezione penale, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dalla difesa e la conferma della sentenza di appello. La suprema corte però ha riconosciuto le ragioni esposte dalla difesa, annullando senza rinvio la sentenza di appello perché "il fatto non sussiste". "Siamo soddisfatti del risultato ottenuto all'udienza del 12 ottobre - commenta all'Adnkronos l'avvocato Antonio Radaelli -. Attendiamo il deposito delle motivazioni per capire l'iter logico della Suprema Corte di Cassazione. Resta il punto che compiere il saluto romano in ambito commemorativo, proprio come è accaduto in questo caso, non è reato".

La sinistra non è di sinistra. Pietrangelo Buttafuoco su Il Quotidiano del Sud il 12 Ottobre 2021. «Se sindacati, partiti (di sinistra?), pseudo-intellettuali e giornaloni si fossero scagliati contro l’abolizione dell’articolo 18, lo sblocco dei licenziamenti, le delocalizzazioni, i salari da fame e la trasformazione della FIAT in una multinazionale di diritto olandese controllata dai francesi come oggi si stanno scagliando contro il ‘presunto’ ritorno del fascismo, beh, l’Italia sarebbe un paese migliore». Così parla Alessandro Di Battista – sempre diretto – e il suo ragionamento non fa una grinza, non fa una grinza, non fa una grinza. A riprova che la sinistra non è di sinistra (è solo radical, e moralista).

La galassia comunista che incita a "insorgere". Ma nessuno s'indigna. Dai Carc ai leninisti, tutti contro il green pass. Ieri incendiata l'immagine di Draghi.  Paolo Bracalini il 12/10/2021 su Il Giornale. Sul fronte dei disordini sociali e dei cortei violenti la sinistra estrema non ha nulla da invidiare a Forza Nuova e affini, anzi. Nelle manifestazioni no green pass erano infatti presenti anche i centri sociali, anche se il protagonismo del gruppetto di Fn ha dirottato l'attenzione e fatto passare l'idea che il mondo no vax e no green pass sia animato solo della destra estrema. Non è così, anzi in generale tra i movimenti che vedono nel «banchiere» Mario Draghi uno strumento delle élite finanziarie per chissà realizzare in Italia chissà quale piano occulto (il «grande reset» è l'ultima fantasticheria di questi ambienti), la sinistra radicale è presente in forze. Giusto ieri un gruppo di studenti antagonisti durante il corteo dei sindacati di base a Torino ha dato fuoco a una gigantografia del premier Draghi, mentre a Milano cori e insulti contro la Cgil e Landini «servi dei padroni». La matrice ideologica è opposta (là il neofascismo, qui il marxismo-leninismo) ma con esiti identici e spesso anche slogan identici (entrambi parlano di «lavoratori» e «popolo» oppressi dai «poteri forti»). Le organizzazioni che si richiamano esplicitamente alla lotta di classe leninista e alla resistenza contro il «governo capitalista italiano» sono svariate. Il «Partito Marxista-Leninista Italiano» con sede a Firenze, ad esempio, sostiene che «il governo del banchiere massone Draghi, al servizio del regime capitalista neofascista, deve ritirare immediatamente il decreto sul green pass perché le lavoratrici e i lavoratori che sono contrari non possono e non devono essere sospesi dal lavoro e privati del salario». Il partito, che pubblica un settimanale dal titolo Il Bolscevico (foto di Mao), a settembre ha organizzato una commemorazione per il 45 anni dalla scomparsa di Mao, per riflettere sugli insegnamenti sulla «lotta di classe per il socialismo». Nei suoi manifesti Draghi viene rappresentato come un drago con i simboli di Bce, euro e massoneria, mentre gli ebrei di Israele sono «criminali nazisti sionisti» che vanno fermati con la resistenza palestinese fino alla vittoria» (foto di un palestinese a volto coperto che lancia una pietra con una fionda). Poi ci sono il «Partito dei Carc» (Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo), sede a Milano, il cui obiettivo è «insorgere», che significa - spiegano - costruire un fronte per cacciare Draghi e imporre un governo che sia espressione delle masse popolari organizzate». Anche i Carc sono no-pass, la loro tesi è che i fascisti sono stati infiltrati dal governo per screditare il movimento popolare contro il green pass, «imposto da Draghi e da Confindustria». I Carc negli anni scorsi sono stati protagonisti di scontri e vicende giudiziarie, insieme al «Nuovo Partito Comunista Italiano», che invita i compagni rivoluzionari a «violare la legalità borghese», cioè a commettere reati, sull'esempio di Mimmo Lucano. Con toni un po' meno minacciosi, anche altre due organizzazioni di estrema sinistra, «Rete Comunista» e «Partito di Alternativa Comunista» a lottare contro il governo Draghi e i suoi mandanti, e contro il green pass, uno strumento creato «per tutelare gli interessi economici della borghesia». Idee e posizioni, come si vede, speculari a quelle di Forza Nuova. E spesso, come per i centri sociali e i movimenti antagonisti, altrettanto violente.

Gli apprendisti stregoni. Tutti uniti contro i fascisti, ma parliamo anche di un altro paio di cosette tra noi. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. In troppi hanno attizzato il fuoco, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti. Una volta spento l’incendio, bisognerà discuterne molto seriamente. L’assalto di sabato alla sede della Cgil, invasa e devastata da fascisti e no vax provenienti dal corteo contro il green pass, e il tentativo di fare lo stesso con il Parlamento, sventato in extremis dalle forze dell’ordine, rappresentano quanto di più vicino all’attacco del 6 gennaio al Congresso americano sia capitato in Italia, almeno finora. Dietro il paradossale connubio di movimenti di estrema destra e parole d’ordine anarco-libertarie s’intravede un sommovimento profondo che non tocca soltanto il nostro Paese. Dietro i neofascisti che gridano slogan contro la dittatura (sanitaria, s’intende), dietro gli squadristi che hanno devastato la sede della Cgil – e che in piazza gridavano «Libertà! Libertà!» – non è difficile vedere lo stesso magma che in Francia alimenta le proteste di piazza in cui Emmanuel Macron viene paragonato a Hitler e le misure anti-Covid al nazismo, raccogliendo il consueto impasto di estrema destra, gilet gialli e ultrasinistra populista (Jean-Luc Mélenchon, il massimo esponente di quella che potremmo definire la linea giallorossa d’Oltralpe, si è schierato contro il green pass con parole analoghe a quelle usate qui da Giorgio Agamben e Massimo Cacciari). Per non parlare degli Stati Uniti, dove la presa di Donald Trump sul Partito repubblicano è ancora fortissima, i no vax numerosissimi e aggressivi, e la situazione assai più pericolosa di quanto possa sembrare a prima vista. Il rischio di un cortocircuito tra crisi sanitaria e crisi sociale è alto ovunque, e l’Italia non fa eccezione, come denuncia proprio l’inatteso richiamo delle manifestazioni di sabato e la violenza che da quelle dimostrazioni si è sprigionata. Si tratta di episodi gravi, in se stessi e per quello che promettono per il futuro, in vista del 15 ottobre, data in cui entrerà in vigore l’obbligo del green pass sui luoghi di lavoro. È dunque altamente auspicabile una presa di coscienza generale del pericolo, anzitutto da parte delle forze politiche, ma anche dei mezzi di comunicazione e di tutti coloro che hanno una qualche influenza sul dibattito pubblico. C’è bisogno della più larga unità e della massima fermezza, ed è giusto subordinare a questa priorità ogni altra esigenza. Compresa quella di chiarire un paio di cose, che prima o poi andranno chiarite comunque, ai tanti che finora hanno giocato sul filo dell’ambiguità, per non dire di peggio, rilanciando e legittimando posizioni completamente infondate, notizie semplicemente false e teorie politiche deliranti, offrendo ai propalatori di una simile spazzatura tribune autorevoli e spazi assolutamente ingiustificati. In troppi hanno contribuito irresponsabilmente ad attizzare il fuoco, e bisognerà discuterne a fondo, perché una simile tendenza mette in luce una fragilità strutturale della democrazia italiana, o perlomeno del nostro dibattito pubblico. Adesso, però, occorre pensare a spegnere l’incendio, che fortunatamente, nonostante tutto, appare ancora relativamente circoscritto. Delle sue origini parleremo poi. Ma presto o tardi ne dovremo parlare. Eccome se ne dovremo parlare.

"Una protesta pacifica infiltrata da utili idioti. Le teste rasate usate: si scredita il dissenso". Luigi Mascheroni l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il filosofo del "pensare altrimenti": "Dire No al pass non è né di destra né di sinistra, il movimento è a-politico. Ora si limiteranno le manifestazioni". Diego Fusaro, filosofo del «pensare altrimenti», né di destra né di sinistra, lo ha scritto in modo chiaro nel suo nuovo libro, Golpe globale. Capitalismo terapeutico e grande reset (Piemme): l'emergenza è diventata un metodo di governo, che sfrutta la paura del contagio per ristrutturare società, economia e politica mentre è la sua tesi - diritti e libertà fondamentali vengono sospesi.

Diego Fusaro, cosa è successo ieri a Roma?

«È successo che sono scesi in pazza moltissimi italiani in forma pacifica e democratica: uomini, donne, famiglie, anziani e lavoratori che vogliono dire no all'infame tessera verde chiamarla green pass è già legittimarla e poi, puntualmente, è arrivato un gruppo di scalmanati con la testa rasata che ha usato una violenza oscena e inqualificabile che, a sua volta, ha giustificato una violenza di ritorno da parte del potere. E così sono stati etichettati come violenti tutti quelli che hanno manifestato, quando invece così non è».

Perché dice puntualmente?

«Perché accade sempre così: movimenti di protesta pacifici e democratici vengono infiltrati da gruppi di utili idioti che il potere usa di volta in volta per creare una tensione per citare la celebre strategia - che non ha nulla a che vedere con i pacifici manifestanti che in maniera democratica si oppongono a un provvedimento che reputano illegittimo».

Quindi ieri un movimento moderato di piazza è stato inficiato da un una minoranza di teste calde.

«Una modalità prefetta per screditare il dissenso».

È possibile che gli opposti estremismi, a destra e sinistra, si saldino nella protesta contro il green pass?

«Non ho elementi per dirlo. Ciò almeno non avviene nelle piazze Non finora. Quello che so invece è che dire No al green pass non è né di destra né di sinistra né di centro. È una protesta che non ha matrici ideologiche e davvero trasversale - tanto è vero che ci sono anche pezzi dell'estrema destra e dell'estrema sinistra invece favorevoli al green pass - che tiene dentro tutte le anime della politica, da quella socialista a quella liberale Al di là delle teste rasate che vanno in piazza e dei filosofi di sinistra che stanno nei talk show o sui social, è un movimento a-ideologico che riguarda gente comune che non accetta l'esproprio dei diritti costituzionali. Che poi qualcuno voglia capitalizzare politicamente il dissenso, questo va da sé».

Ci sono delle colpe in quello che è successo ieri? Qualcuno ha soffiato sul fuoco?

«No, non credo. Chi doveva vigilare ha fatto quello che doveva fare. La gente che era in piazza era gente tranquilla, fino a che è arrivato qualcuno che mi è sembrato organizzato - col compito di rovinare la protesta pacifica. Le colpe non sono né delle forze ordine né dei manifestanti, ma di qualcun altro».

Cosa succederà ora?

«Temo che adesso ci sarà un inasprimento nel modo di trattare chi si oppone alla famigerata infame tessera verde. Si limiteranno spazi e modi di aggregazione e raggruppamento, si generalizzerà dicendo che tutti sono facinoroso e violenti E così chi ha organizzato devastazioni e assalti di ieri avrà raggiunto lo scopo. Screditare chi va in piazza e criminalizzare la protesta in quanto tale. Io resto fermamente convinto che occorra opporsi, in maniera pacifica e democratica, alla tessera verde della discriminazione e del controllo totalitario delle esistenze».

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

Gli sfascisti. Francesco Maria Del Vigo l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Più che fascisti chiamiamoli sfascisti, i delinquenti che hanno devastato Roma. Perché sabato in piazza non c'era solo qualche vecchio arnese dell'estrema destra. Capiamo che la sinistra, a corto di idee, abbia la necessità elettorale di trovare un nemico a tutti i costi, se possibile il «nemico assoluto», cioè quel fascismo morto e sepolto più di settant'anni fa. Tra pochi giorni si tornerà alle urne e, crollato l'impianto accusatorio del caso Morisi e finita l'eco delle inchieste giornalistiche su Fidanza e Fdi, c'era bisogno di resuscitare il cadavere delle camicie nere per colpire anche tutta la destra, che con testoni del Duce, fez e labari non ha nulla a che spartire. L'assist lo offrono gli imbecilli squadristi che hanno assaltato le camionette della polizia, devastato la sede della Cgil e assediato il cuore della Capitale in nome di non si sa quale libertà. Probabilmente quella di essere criminali. Un attacco al cuore dello Stato e delle istituzioni che deve essere punito con il massimo rigore, non solo con i sacrosanti arresti del giorno dopo, ma possibilmente con un'opera di intelligence e prevenzione. Però sabato nelle piazze, oltre a Forza Nuova, c'erano le frange più violente degli ultras, la galassia dei vari «No» a tutto - ovviamente a partire dai vaccini e dal green pass - e c'erano anche gli anarchici. Perché i delinquenti tra loro si attraggono, sono la manovalanza della violenza a ogni costo, quelli che appena c'è un'occasione scendono in strada per spaccare tutto. A Milano, su cinquanta fermati, la metà proveniva dalla galassia dei centri sociali. Anche se è brutto dirlo e qualcuno fa finta di non saperlo. Perché la sinistra chic ama flirtare con le ali più estreme e quando la «meglio gioventù» si trastulla devastando i centri urbani, c'è sempre un clima di tolleranza, riecheggia lo stomachevole ritornello di «compagni che sbagliano». Come se la violenza rossa fosse un po' meno violenta. Ecco, la fermezza bipartisan con la quale sono stati condannati gli scontri di Roma ci piacerebbe vederla sempre, di fronte a ogni atto di violenza. Noi, da queste colonne, abbiamo sempre chiesto il massimo della severità per chi devasta le città: che sia di destra o di sinistra. E continueremo a farlo.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Mario Ajello per "il Messaggero" l'11 ottobre 2021.  

Guido Crosetto, qual è il significato di queste piazze e di queste violenze?

«Da una parte c'è il legittimo diritto di ognuno di noi a protestare o comunque a manifestare il proprio pensiero. Questo le Costituzioni democratiche lo concedono anche a un solo cittadino su 60 milioni. Quando i cittadini che protestano sono decine di migliaia, e nel caso di non possessori di Green pass parliamo di milioni di persone, uno Stato il problema deve porselo e affrontarlo con serietà ed equilibrio».

Sta dicendo che non si deve semplificare e considerare tutti violenti?

«Per fortuna, non sono tutti violenti. I violenti sono quelli che utilizzano ogni manifestazione legittima di protesta, per auto-promuoversi, distruggendo le città e smontando con le loro violenze qualunque ragione, anche sbagliata, delle manifestazioni». 

Sta naturalmente parlando di Forza Nuova?

«Ma certo. Non è la prima volta che questi nazi-fascisti (di cui non capisco come possano essere liberi i capi, visto che hanno la proibizione di uscire di casa) approfittano per prendersi visibilità mediatica e politica. E non mi stupirei che guadagnassero pure. Mi sono sempre chiesto come facciano a sostenersi queste organizzazioni estremiste. E come mai le loro violenze molto spesso hanno come risultato solo quello di annullare il messaggio di alcune manifestazioni».

Sta dicendo che c'è qualcuno che li paga?

«Non lo so, ma non mi stupirebbe». 

Quelli che legittimamente protestano finiscono per essere strumentalizzati dai peggiori?

«Purtroppo, sì. Vengono strumentalizzati e purtroppo tacitati. Tra quei 10mila in piazza penso ci siano persone di destra, di sinistra, di centro, apartitici, apolitici, astensionisti. C'è di tutto». 

Un mondo di non rappresentati che si sente vittima dei violenti?

«E' un mondo che non trova interlocuzioni con le istituzioni. Quando una democrazia perde la capacità di discutere e di confrontarsi con un pezzo del Paese, fa un passo indietro e lascia spazio a quelli che, come Forza Nuova, vogliono minare e distruggere la democrazia». 

I 5 stelle, quando erano forti, dicevano: noi siamo l'argine alla rabbia sociale. Senza di noi sarà solo violenza. Non c'è il rischio che sia così?

«Il tema è che l'argine alla rabbia sociale deve essere lo Stato, devono essere le Istituzioni. E' lo Stato che deve avere meccanismi di dialogo, di convincimento, di approccio con chiunque, anzi quelli di cui non capisce le ragioni. Chi pensa che si possano cavalcare movimenti di protesta, solo per incalanarli in un voto a un partito e in violenza, gioca contro lo Stato e contro ognuno di noi. I partiti non devono assecondare le proteste ma devono ascoltarle e proporre soluzioni alle tematiche sollevate. E semmai aiutare lo Stato a riprendere un dialogo interrotto. Mi è sempre sembrata superficiale l'auto-descrizione di M5S come argine. Basti vedere dove è finito l'argine».

Salvini e Meloni però vengono accusati di fomentare sotto sotto queste piazze. 

«Questo è un altro modo per alimentare, per motivi politici, fratture tra partiti che diventano ferite nel corpo dello Stato. I partiti hanno il dovere di rappresentare nelle istituzioni tutte le istanze sociali, se queste hanno una legittimità, tutte. Questa consapevolezza, pare mancare. Fratelli d'Italia e Lega non sono mai stati partiti No Vax. Hanno però posto questioni, sollevato dubbi su alcune scelte politiche riguardanti la lotta alla pandemia. Ad esempio sul Green pass non hanno attaccato lo strumento, ma l'estensione di questo strumento ad alcuni ambiti, come il lavoro, che portano a conseguenze molto dure. Ricordo inoltre che le questioni sul Green pass che questi partiti pongono al governo provocano spaccature anche al loro stesso interno. Lega ed Fdi hanno loro stesse un fortissimo dibattito interno, molto duro, tra chi sostiene scelte rigoriste vicine alle posizioni del governo e chi invece cita le posizioni anti Green pass di pensatori di sinistra come Cacciari, Agamben e Barbero». 

Guai a minimizzare però gli attacchi squadristi?

«Mai. Vanno condannati con durezza. Dopo queste orrende vicende, anche chi guardava a quella piazza con rispetto, anche se non la condivideva, oggi non ne può neanche parlare. Io mi preoccupo se qualcuno, che ha sempre rispettato le idee di tutti, comincia ad avere paura di esprimere le proprie. A me ad esempio capita sui social. Per non aver assecondato una lettura sulla Meloni in tivvù, subisco attacchi come se fossi un fascista. Ed invece sono da sempre un cattolico liberal democratico, da tempo fuori dalla politica».

Lei è Giorgia. Non è fascista, la Meloni, ma nemmeno antifascista. Così le prende da tutti ed è colpa sua. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La leader di FdI, frastornata da accuse di cui si sente vittima, condanna una generica zuppa di “ismi” ma non serve: in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto. Fini lo sanò in An e ora rampolla di nuovo tra gli eredi del Msi. Proviamo a fare lo sforzo di entrare nella testa di Giorgia Meloni, nella psicologia di una giovane donna che improvvisamente rischia di passare dalle stelle alle stalle per qualcosa che non riesce ad afferrare, a capire, e che vive queste ore con un certo sgomento oscurato solo dal suo arrogante sbuffare. Fascismo? Quale fascismo? Che c’entro io, che non ero nemmeno nata eccetera eccetera?

Lei probabilmente si sente come un pesce finito nella rete di un complotto che non può che essere stato ordito, nell’ordine: dai poteri forti; dalla sinistra; dai giornali; dalla tecnocrazia europea. Tutto un armamentario tecnicamente reazionario: torna l’Europa cattiva, hanno ragione polacchi e ungheresi. Lei è la vittima. «Sono Giorgia», ricordate? Sembra tanto tempo fa, stava prevalendo nei sondaggi, vendeva tante copie del suo libretto, giusto? Ed eccoli là, da Fanpage a Ursula von der Leyen me la stanno facendo pagare: dopo Matteo Salvini (che starà godendo) adesso tocca a me – si dirà nel suo flusso di coscienza – certo i gravi fatti di Roma vanno condannati, senza dubbio, quella non è gente “nostra”, i Fiore e i Castellino anzi ci odiano, dunque che volete da noi? E poi si fa presto a dire fascisti, ma io non so quale fosse «la matrice» degli squadristi che hanno assaltato la Cgil, ho preso le distanze, che altro volete da me… Già chissà a chi gli può venire in mente di sfondare il portone della Cgil, un bel rebus, Giorgia, ma perché ieri non sei andata da Landini invece che dai franchisti di Vox? Appare chiaro che Meloni non ha capito la situazione. Vede la strumentalizzazione anche laddove c’è persino una indiretta sollecitazione a venir fuori una volta per tutte dalla melma della Storia. Non è capace di intendere che i conti con il passato bisogna farli non solo per mondarsi di certe sozzure ma che la chiarezza è un’opportunità per disegnare per sé e la propria parte un nuovo inizio. Non ha la forza d’animo né la passione intellettuale per cogliere che la politica è anche dolore, fatica, dialettica. Altrimenti non farebbe di tutto per impedire che il passato diventi il fantasma che la innervosisce tanto. E inciampa di continuo: non lo sapeva che Enrico Michetti scriveva frasi antisemite? Scriveva il filosofo marxista György Lukács: «I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi». Ce l’aveva con i sovietici del post-destalinizzazione, ma la frase ben si attaglia alla destra italiana di oggi: «Non ero nata», che c’entro col fascismo? È una risposta burocratica, se non sciocca, che ignora che la Storia è un rapporto tra il passato e il presente. Che il passato va elaborato, come il vissuto personale, e non rimosso come fa lei, perché altrimenti i nodi prima o poi vengono al pettine. Ecco perché la sua intervista al Corriere della Sera è intrinsecamente debolissima, perché non fa conto di quel rapporto, non prende in considerazione che certi germi di ieri – un po’ come la variante Delta – si rinnovellano, forse non spariscono mai. Ecco, dovrebbero essere questi germi l’oggetto del discorso della leader dei Fratelli d’Italia più che l’aggiunta, che pare fatta tanto per farla, del fascismo tra le cose brutte. FdI tolga la fiamma missina dal simbolo, o compia comunque un atto forte di rottura. Perché non lo fa? Perché in certi quartieri di Roma, in alcuni posti del Sud, in diverse zone disagiate del Paese, non si rinuncia al voto nostalgico, maschio, tosto. Meglio non strappare quei fili. Peccato, perché così non diventerà mai grande, Giorgia Meloni, che non ce la proprio a impersonare una destra moderna. È un discorso che lei non sente perché Giorgia pensa che i brutti “sogni neri” siano finiti. Infatti ancora ieri, sulle squadracce romane, è tornata con quella sua vaghezza infastidita: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto». E così ci risiamo. Fascismo, nazismo, comunismo, totalitarismo: stessa zuppa. Non comprendendo, al di là delle evidenti lacune storiche, che in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto, che si chiama fascismo. Gianfranco Fini, alla fine, aveva compreso che questo era il punto e che non si poteva più girare intorno. «Anche io ero in An», dice Giorgia. Vero, ma lei a Gerusalemme a dire che il fascismo è il male assoluto non ci è mai andata. Né si ricorda una qualche sua elaborazione a sostegno della svolta finiana, probabilmente vissuta come mossa tattica, marketing politico, nulla più, tanto è vero che lei non seguì la vicenda di Futuro e libertà ma restò con Silvio Berlusconi in attesa di rifare prima o poi un Msi 2.0. Non capendo che «la storia non ha nascondigli», soprattutto la propria storia. Giorgia Meloni, se andasse al governo, farebbe molti pasticci ma certo non abolirebbe le libertà democratiche. Non è questo il punto. Il punto è che lei è estranea all’antifascismo – probabilmente considera la Resistenza una roba dei comunisti per nulla edificante – e dunque al valore fondante della Costituzione. È questo che le impedisce da stare al di qua della barricata contro i neofascisti per i quali prova soprattutto un’enorme animosità perché le rendono impervia la strada verso il governo, e solo questo. Non è fascista, Giorgia, e nemmeno antifascista. Nel mezzo, le prende da entrambi i fronti, ed è solo colpa sua. 

Il cortocircuito delle idiozie. L’appropriazione culturale del neofascismo sull’umana scemenza no vax.

Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. C’è una parte della popolazione che non capisce un cazzo di niente. Neppure l’istruzione obbligatoria ha risolto questo problema, figuriamoci se lo risolve l’uso delle stigmatizzazioni sciatte (“fascisti!”) che usiamo per fare delle analisi sociologiche che rientrino in una storia su Instagram. La didascalia della foto in apertura della prima pagina di Repubblica, ieri, diceva: «Il momento in cui NoVax e neofascisti irrompono nella sede nazionale della Cgil». Di spalle, si vedono un po’ di bomber neri (il 1985 non è mai finito), pochi passamontagna, alcune teste rasate, un paio di bandiere tricolore. Nella parte bassa della foto, in primo piano, si vedono soprattutto tre cellulari. Tre persone – due uomini e una donna, perdonate la binarietà – che, mentre noi indichiamo il fascismo, pensano alla storia da postare su Instagram. Nell’ipotesi improbabile in cui una dittatura d’ottant’anni fa costituisse un pericolo imminente nelle democrazie occidentali del Ventunesimo secolo, il presente avrebbe già trovato l’antidoto: scriversi «antifa» nelle bio sui social. Non mi meraviglierei se tra quelli che hanno devastato alcune strade di Roma sabato ci fossero alcuni di coloro che sui social si definiscono «antifa»: per loro la dittatura è fargli il vaccino gratis, mica fare i teppisti (e in effetti i teppisti, in dittatura, finiscono in galera, mica nelle storie di Instagram). “Fascismo” è una parola confortevole. È comoda per mettere una distanza – loro sono fascisti, noi no – e per evitare di pensare. Per evitare di fare un’analisi del presente invece d’impigrirsi a liquidare qualunque teppista come nostalgico d’un’ideologia che neppure ha vissuto, durante la quale neppure era nato. Un’ideologia che, per inciso, l’avrebbe preso a coppini (eufemismo) se a una regola imposta dallo Stato, fosse stata una mascherina o un lasciapassare, avesse risposto con dei capricci da cinquenne. Sì, lo so che hanno assaltato la Cgil, facendo subito commentare ai social di sinistra: «E perché non Confindustria?». Forse perché sta due ore di strada più a Sud, in quell’ingorgo cinghialesco che è il traffico romano? È solo un’ipotesi, per carità. E lo so che, tra gli assalitori d’un’istituzione di sinistra, c’erano dei capetti neofascisti: ma non sarà che sono semplicemente andati ad appropriarsi d’una scemenza (malcontento, bisognerebbe dire: “scemenza” è troppo diretto) che esisteva a prescindere da loro? Quella del neofascismo nei confronti dell’umana scemenza non sarà appropriazione culturale? Dice eh, ma erano violenti, la violenza è fascista. Mah, mi sembra che gli esseri umani fossero violenti da un bel po’ prima che venisse immaginato il fascismo e abbiano continuato a esserlo quando il fascismo è finito (sì, lo so che secondo voi non è mai finito perché non siete disposti a rinunciare a una categoria così comoda per stigmatizzare chiunque non la pensi come voi: fascisti, radical chic, populisti – una volta svuotate di senso, le categorie sono comode come vecchi cashmere slabbrati). Forse “lassismo” è uno slogan più adatto. Sono quasi due anni che facciamo – parlo a nome della maggioranza – tutte le cose richieste dalla logica, dal buonsenso, dallo Stato. Ci mettiamo la mascherina, stiamo a casa, compriamo l’amuchina, ci vacciniamo, urliamo dentro le mascherine all’ufficio postale e dalla manicure perché tra distanziamento e plexiglas e mascherine è come esser diventati tutti sordomuti (che è una frase abilista, ma ora non cambiamo settore di scemenza sennò ci perdiamo). Sono quasi due anni che quotidianamente c’è qualche notizia di gente che – con continuità caratteriale, come prima parcheggiava in seconda fila «solo due minuti» – concede a sé stessa deroghe. Falsifica certificazioni verdi, si affolla ad aperitivi, tiene la mascherina abbassata perché si sente soffocare: scegliete voi la cialtronata del giorno. A quel punto la cittadinanza si divide in minoranza isterica che urla «si metta quella cazzo di mascherina» (sì, ogni tanto anch’io: bisogna pur sfogarsi); e maggioranza lassista che sospira «eh, ma la gente è stanca». Ma stanca di cosa? I manuali di autoaiuto non dicono che per acquisire una nuova abitudine ci vogliono tre settimane? Non dovrebbe ormai essere un automatismo, mettersi quella cazzo di mascherina su quel cazzo di naso? Non hai preso l’abitudine, se quest’anno e mezzo l’hai passato a rimuginare che la mascherina è una vessazione, il vaccino è un sopruso, la dittatura sanitaria no pasará. Non al fascismo, hai aderito, ma all’assai più contemporanea dittatura del vittimismo, che usa l’eccezione – sia essa costituita da un infinitesimale numero d’intersessuali o di allergici al vaccino – per spacciare per vessazione qualunque ovvietà, da «i mammiferi appartengono a uno dei due generi sessuali» a «se c’è una malattia mortale e un vaccino che la previene, ci si vaccina»; e a quel punto, se vessazione è, la ribellione violenta è non solo consentita ma plaudita. L’altro giorno il governatore del Veneto, Zaia, ha detto che l’obbligo della certificazione verde sarà un casino perché solo in Veneto ci sono 590mila non vaccinati in età lavorativa, e non si riesce a fare a tutti loro il tampone ogni due giorni. Ricopio dall’intervista di Concetto Vecchio: «Non si tratta di contestare il Green Pass, bensì di guardare in faccia la realtà: gran parte di questi 590mila probabilmente non si vaccineranno mai». Zaia non lo dice, perché i politici non possono permettersi il lusso di dire che l’elettorato è scemo, ma la questione quella è. C’è un’ampia parte dell’umanità che non capisce un cazzo di niente, è un problema che non s’è risolto con l’istruzione obbligatoria, figuriamoci se si risolve con stigmatizzazioni sciatte quali “fascismo”. E invece siamo qui, a chiederci se Cacciari abbia preso le distanze dalla manifestazione degenerata, Giorgia Meloni dalle leggi razziali, Muhammad Ali dagli attentati alle Torri Gemelle. Siamo come quelli che stavano sulla prima pagina di Repubblica ieri: alla ricerca di analisi sociologiche che rientrino in quindici secondi di storia Instagram.

Sinistra e Cgil si mobilitano. "Ora Forza Nuova va sciolta". Pasquale Napolitano l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il sindacato lancia un corteo antifascista per sabato prossimo. Pd e M5s: è un partito contro la Costituzione. In piazza sabato 16 ottobre e scioglimento di Forza Nuova: sono due richieste che partono dall'assemblea generale della Cgil convocata ieri in risposta all'assalto avvenuto contro la sede di Roma del sindacato dai manifestanti del corteo no green pass. Al presidio in Corso Italia a Roma fanno tappa tutti i leader dei partiti: Nicola Zingaretti ed Enrico Letta (Pd), Giuseppe Conte (M5S), Teresa Bellanova ed Ettore Rosato (Italia Viva), Francesco Lollobrigida (Fdi), i candidati sindaco di Roma Roberto Gualtieri ed Enrico Michetti, l'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Tra bandiere rosse e cori antifascisti, centinaia di dimostranti manifestano intonando «Bella Ciao». Il clima è quello dei grandi raduni. Ad aprire la manifestazione, l'intervento del segretario generale della Cgil Maurizio Landini: «Ci attaccano perché siamo sulla strada giusta ma noi non ci fermeremo. Da domani all'apertura, alla ripresa del lavoro, in ogni città in ogni condominio dobbiamo riprenderci la parola senza paura. Tutte le formazioni che si rifanno al fascismo vanno sciolte, e questo è il momento di dirlo con chiarezza. Sabato 16 abbiamo deciso, insieme a Cisl e Uil, che è giunto il momento di organizzare una manifestazione nazionale antifascista e democratica: il titolo sarà Mai più fascismi». L'appuntamento è per sabato 16 ottobre: tutti in piazza alla vigilia del voto per i ballottaggi. Il leader della Cgil chiede uno scatto in più: «È molto importante che le forze politiche oggi qui ci siano, la difesa della democrazia e della Costituzione è centrale. Mi auguro che tutti siano coerenti con la loro presenza qui davanti». L'ex presidente del Consiglio Conte annuncia l'adesione del M5s alla manifestazione di sabato e chiama in ballo i partiti di destra: «Auspico che anche Salvini e Meloni partecipino». Poi si unisce alla richiesta di scioglimento per Forza Nuova: «Non possiamo accettare che nel nostro paese ci siano aggressioni di questo tipo. Quindi su Forza Nuova è una valutazione che affidiamo alla magistratura ma anche io ritengo che ci siano le condizioni per lo scioglimento. È evidente che ci sia una volontà deliberata di condurre attacchi squadristi e questo non lo possiamo accettare». Letta fa tappa nel pomeriggio al presidio e avverte: «Esiste un fermento e cova un malessere fortissimo. Credo che bisogna alzare la guardia, ed essere netti sulla questione dello scioglimento Forza Nuova. Le immagini sono chiare, non ci sono molti dubbi. Presenteremo una mozione, poi sono altri i meccanismi che portano allo scioglimento. Ma la Costituzione è chiarissima, non ci sono dubbi che Forza Nuova debba essere sciolta». La presidente del Pd Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, il paese dell'Appennino bolognese colpito dal grande eccidio nazifascista alla fine della Seconda Guerra Mondiale, lancia su Change.org una petizione per sciogliere organizzazioni e partiti neofascisti. «I fatti di Roma sono solamente l'ultima goccia. È ora i dire basta alla violenza squadrista e fascista. Un basta definitivo. È ora, come già richiesto dall'Anpi nell'appello Mai più fascismi, di sciogliere Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Fiamma Tricolore e tutti i partiti e movimenti che si rifanno alle idee e alle pratiche del fascismo» - rilancia Cuppi. Per Fratelli d'Italia arrivano Francesco Lollobrigida ed Enrico Michetti. «Sono andato a Corso Italia perchè noi condanniamo ogni forma di violenza politica, specie quando colpisce i lavoratori e le loro rappresentanze» spiega il capogruppo Fdi alla Camera dei deputati. Pasquale Napolitano

Forza Nuova? Perché con la destra non c'entra niente: anzi, ne è nemica. Andrea Morigi su Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. Sono vent' anni o giù di lì che Forza Nuova si presenta alle elezioni andando sì a pescare consensi negli ambienti di destra, ma in alternativa alla destra. Sono gli avversari e i concorrenti di Fratelli d'Italia, come lo sono stati di Alleanza Nazionale e lo furono del Msi. Non contigui e nemmeno ramificazioni dello stesso albero. Soltanto che, ai tempi di Giorgio Almirante, non accadeva mai di assistere a superamenti a destra. Al massimo vi fu la sfortunata scissione a sinistra, cioè centrista, di Democrazia Nazionale. Qui però, destra sembra ormai un termine improprio. "Le destre", come le chiamano i nostalgici della Resistenza, semplicemente non esistono. Semmai quella che si è radunata sabato in piazza del Popolo a Roma è un'organizzazione antisistema, "oltre la destra e la sinistra", che non accetta etichette sebbene affondi le sue radici politico-culturali nella cosiddetta "autonomia nera", da sempre estranea al "partito", giudicato borghese e compromissorio. Sono realtà nemiche l'una dell'altra, con obiettivi politici diversi e un atteggiamento opposto nei confronti delle istituzioni democratiche. Mancano loro infatti un terreno e un nemico comune, paragonabili a quelli che condivide la sinistra quando va in piazza il 25 aprile per festeggiare la Liberazione. A meno che s' intenda l'opposizione al gender, al ddl Zan e all'aborto come un tema unificante, ma a quel punto occorrerebbe includere nel fronte reazionario anche il Sommo Pontefice. Le frange neofasciste tuttavia si pongono fuori dalla Chiesa, in opposizione al Concilio Vaticano II. Forza Nuova, comunque, non gradisce nemmeno la definizione di "fascista" e forse non sarà soltanto per ottenere lauti risarcimenti se i loro dirigenti hanno querelato - vincendo in giudizio - gli organi d'informazione che hanno osato definirli tali. La genealogia è un'altra. È l'area che, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1969 del manualetto La disintegrazione del sistema di Franco Giorgio Freda, teorizza l'unificazione fra movimenti rivoluzionari, dopo essersi alimentata dell'antiamericanismo dei reduci della Repubblica Sociale Italiana e perfino dell'opposizione alla Nato del primo Msi. Da quelle parti e a quell'epoca, i cosiddetti nazimaoisti ammirano Ernesto Che Guevara e i vietcong, perché sono nemici giurati degli Stati Uniti tanto quanto i "camerati" che hanno combattuto contro le truppe alleate durante la Seconda Guerra mondiale. Qualche riferimento nazionalbolscevico o al fascismo immenso e rosso, in fondo, conferisce anche un'atmosfera romantica all'ideale totalitario del patto Molotov-Ribbentrop. Il trasbordo ideologico si può dire pienamente compiuto nel 1979, quando vede la luce il numero zero del periodico Terza Posizione, che saluta il trionfo della rivoluzione khomeinista in Iran. "Né Usa né Urss!", slogan da Paesi non allineati, cessa così di inneggiare all'Europa Nazione e acquista da quel momento una sinistra e cupa deriva verso il fondamentalismo islamico. Forza Nuova, in realtà, subisce già dalle sue origini l'influenza di un tradizionalismo cattolico che vede nelle gesta dei combattenti maroniti un esempio di testimonianza cristiana, salvo poi trovare negli anni un punto di contatto anche con Hezbollah, il partito sciita libanese. Anche questi ultimi, del resto, salutano col braccio teso. Come i militanti che si ritrovano a Predappio alla tomba di Benito Mussolini, senza trascurarne il passato socialista.

"Quali prove vogliono ancora contro il fascismo". Meloni, gioco sporco a sinistra: fin dove si spingono, persecuzione? Alberto Busacca su Libero Quotidiano il 10 ottobre 2021. Le avevano chiesto di dire parole chiare sul fascismo. E ieri, sul Corriere della Sera, Giorgia Meloni le ha dette. «Nel dna di Fratelli d'Italia», ha spiegato, «non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c'è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c'è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro». E ancora, se non fosse stata abbastanza netta: «I nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato». Insomma, piacciano o meno le sue dichiarazioni, non si può dire che Giorgia sia stata vaga o non abbia voluto affrontare la questione. Quindi? Archiviamo le polemiche di queste settimane sul pericolo fascista e torniamo ad occuparci di quello che succede nel ventunesimo secolo? Ovviamente no. Perché la sinistra non è soddisfatta. E chiede ulteriori prove...

UN CRIMINE

«Anche oggi», attacca Andrea De Maria, deputato del Partito democratico e già sindaco di Marzabotto, «Giorgia Meloni fa finta di non capire: nella sua intervista non c'è alcuna condanna del fascismo né l'intenzione di chiudere con quel mondo che ancora si ispira agli orrori del Ventennio. C'è invece la presunzione di mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo. Come se non conoscesse la storia del nostro Paese e il ruolo dei comunisti italiani per la conquista della libertà e la costruzione della democrazia. Per una che vorrebbe guidare il Paese non solo è ormai tardi ma è ancora davvero troppo poco». Anche i Cinque Stelle, poi si sentono in diritto di chiedere alla Meloni ulteriori prove di democraticità. «Sul fascismo», sostiene Mario Perantoni, deputato M5S e presidente della commissione Giustizia della Camera, «ha detto parole definitive un uomo che lo aveva subito, Sandro Pertini. Spiegò che il fascismo non è un'opinione ma un crimine. In commissione Giustizia abbiamo avviato l'iter della proposta di legge contro l'uso di simboli e immagini che possano propagandare le idee nazifasciste: è un testo di iniziativa popolare sostenuto dal sindaco di Sant' Anna di Stazzema Maurizio Verona al quale personalmente tengo molto e che credo debba essere condiviso da ogni forza democratica». E poi: «La leader di Fdi, impegnata in questi giorni a prendere le distanze da personaggi e vicende raccontate nel video di Fanpage, è disposta, in concreto, a sostenere questa proposta?».

LA COSTITUZIONE

E non poteva mancare la solita Anpi. «La Meloni afferma che l'Anpi chiede lo scioglimento di Fratelli d'Italia», dice l'associazione dei partigiani. «È falso. L'Anpi chiede lo scioglimento di Lealtà Azione, Forza Nuova, CasaPound. Dato che lei, folgorata sulla via di Damasco, anzi di Fanpage, nega qualsiasi nostalgia del Ventennio e si erge a baluardo democratico, perché non propone lo scioglimento delle organizzazioni neofasciste come previsto dalla Costituzione?». Insomma, la fondatrice di Fdi, oltre prendere le distanze dal fascismo, dovrebbe anche esaltare il ruolo storico del Partito comunista, sottoscrivere una legge contro la propaganda fascista e pure chiedere lo scioglimento dei gruppi di estrema destra. Ed è probabile che non basterebbe ancora...

Meloni: “Noi fascisti? Nel dna di Fdi c’è il rifiuto per ogni regime”. In un'intervista al Corriere della Sera, Giorgia Meloni rifiuta l'accostamento con le ideologie "fasciste, razziste e antisemite". E su Lavarini dice...Il Dubbio il 9 ottobre 2021. Nel dna di Fratelli d’Italia “non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite“, c’è “il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro. E non c’è niente nella mia vita, come nella storia della destra che rappresento, di cui mi debba vergognare o per cui debba chiedere scusa. Tantomeno a chi i conti con il proprio passato, a differenza di noi, non li ha mai fatti e non ha la dignità per darmi lezioni”. Lo dice in un’intervista al Corriere della Sera Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. «Il “pericolo nero”, guarda caso, arriva sempre in prossimità di una campagna elettorale…» aggiunge, parlando dell’inchiesta di Fanpage, sottolineando però che la più arrabbiata per quelle immagini è lei, che ha “allontanato soggetti ambigui, chiesto ai miei dirigenti la massima severità su ogni rappresentazione folkloristica e imbecille, anche con circolari ad hoc”. Perché “i nostalgici del fascismo non ci servono: sono solo utili idioti della sinistra, che li usa per mobilitare il proprio elettorato”. Immaginare «che Fratelli d’Italia possa essere influenzato o peggio manovrato da gruppi di estrema destra è ridicolo e falso”. Meloni ricorda che certi nostalgici il partito li ha sempre cacciati, “a partire da Jonghi Lavarini, ora “lo faremo ancora di più”. La colpa di Fidanza “è aver frequentato una persona come Jonghi Lavarini che con noi non ha niente a che fare per ragioni di campagna elettorale. Un errore molto grave, infatti adesso è sospeso. Poi vedremo cosa verrà fuori da un’inchiesta a tratti surreale”. Fdi è il primo partito in Italia “perché non guardiamo indietro ma avanti, ai problemi veri degli italiani, le tasse, la casa, il lavoro, la povertà”. Nella battaglia politica, la leader di Fratelli d’Italia difende anche scelte come quella della candidatura di Rachele Mussolini: “È una persona preparatissima, competente, consigliera uscente che è stata rieletta perché ha fatto bene e non la discrimino per il nome che porta”.

Guerriglia. La fatwa in Tv contro la consigliera di FdI. Per il "ducetto" Formigli, Rachele Mussolini è apologia del fascismo solo per il cognome…Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Ottobre 2021. Sono rimasto di pietra, l’altra sera, quando ho sentito Corrado Formigli, su La 7, annientare Rachele Mussolini – in contumacia – e contestarle, in sostanza, il diritto di presentarsi alle elezioni con quel cognome. Ha fatto bene Guido Crosetto (che ha idee politiche, spesso, molto lontane dalle mie) a indignarsi e ad alzare la voce. Formigli ha reagito all’intervento di Crosetto togliendogli la parola con l’aria… (posso dirlo?) con l’aria del ducetto che il potere ce l’ha e non lo cede a nessuno. Io non conosco neppure alla lontana Rachele Mussolini. So che è una signora che fa politica da molti anni, che è di destra, che si presenta alle elezioni e le vince. E mi hanno abituato a pensare che chi vince le elezioni è bravo, e che se gli elettori lo votano lui è democraticamente legittimato. Non ha bisogno del timbro di Formigli e neppure del timbro del mio amico Bersani. Dove me le hanno insegnate queste cose? Nel Pci. Circa 50 anni fa me le spiegò Luigi Petroselli, che era il capo della federazione romana del partito e del quale l’altro giorno abbiamo celebrato i quarant’anni dalla morte, che avvenne a Botteghe Oscure, mentre scendeva dal palchetto dopo aver pronunciato – nella solenne seduta del Comitato centrale – un intervento critico verso il segretario. Che era Berlinguer. Rachele Mussolini è accusata di tre cose. La prima è di portare il nome che porta. La seconda è di non avere abiurato. La terza è di avere detto che lei non festeggia il 25 aprile. Accusare una persona per il nome che porta, dal mio punto di vista di vecchio antifascista, è una manifestazione di fascismo. Tra qualche riga provo a spiegare cosa intendo per antifascismo. Chiedere a una persona di abiurare, chiedere a chiunque qualunque tipo di abiura, per me è ripetizione delle idee e dei metodi della Santa Inquisizione. È una richiesta oscena, che getta discredito e vergogna su chi la avanza. Sul 25 aprile ci sono due cose da dire. La prima è che Rachele Mussolini ha dichiarato in questi giorni di avere sbagliato a postare (due anni fa) quella foto nella quale mostrava un cartello con su scritto che il 25 aprile lei festeggia solo San Marco. Ma a me questo non interessa. Per me chiunque è legittimato a festeggiare o no le feste di Stato. Legittimato e libero. Non so se la capite questa parola: li-be-ro. Io da ragazzo non festeggiavo il 4 novembre, festa della vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale. Non perché io fossi, o sia, anti italiano o filoaustriaco, ma perché sono – e sono libero di esserlo – antimilitarista. E vi dico le verità: se il 25 aprile fosse una festa per ricordare la fucilazione di mio nonno, il papà di mio padre (in realtà Mussolini fu fucilato il 28 aprile e poi appeso per i piedi a Milano, in piazzale Loreto, il giorno dopo, e però è il 25 aprile il giorno nel quale si celebra e si festeggia la sua morte) io in nessun caso la festeggerei, a prescindere dalle mie idee politiche. Democrazia, liberalità, modernità, onestà – butto giù a caso un po’ di parole perché non è che io abbia capito bene quali siano i nuovi valori della politica di oggi – chiedono ai nipoti di sputare sul corpo dei propri genitori o nonni prima di essere ammessi in società? Beh, ma allora perché ce l’avevate con Pol Pot? Io tutti gli anni festeggio il 25 aprile. Lo festeggio, e penso che sia una grande festa, proprio perché so che è legittimo non festeggiarlo. Se fosse una festa obbligatoria, per me, non sarebbe più il 25 aprile. Sarebbe un rito sciocco. Infine Formigli ha detto che aveva invitato Giorgia Meloni per chiederle se era pronta a ripetere la frase attribuita a Gianfranco Fini una quindicina di anni fa, e cioè “il fascismo è il male assoluto”. Io penso che non ci sia niente di male a credere che il fascismo sia il male assoluto – forse sarebbe meglio dire che l’olocausto, del quale il fascismo fu complice, è stato il male assoluto – ma a me non sembra normale che un conduttore televisivo pensi di poter convocare nello studio televisivo il capo di un partito (forse, addirittura, del primo partito) per umiliarlo e costringerlo a piegarsi ai suoi diktat. A questo punto è ridotta la politica? È l’ancella di conduttori televisivi rudi e sceriffi? Delle nuove guardie? Ommammamia. Questi atteggiamenti, e anche il fatto che non facciano indignare nessuno, a me fanno paura. Sì, mi fanno paura perché il vero rischio fascismo, per me, è esattamente questo. Tutti sanno che il pericolo non è né Borghese, né questo nuovo personaggio che mi pare si chiami Jonghi Lavarini. Non è Casapound, né Forza Nuova, né l’incombere della tradizione del vecchio regime. I rischi sono tre: antisemitismo, razzismo e autoritarismo. Quando penso a un antifascismo serio e moderno penso esattamente a questo. A un ordine di idee e di lotte contro l’antisemitismo, il razzismo e l’autoritarismo. Dove sono queste tre malattie? In vastissime zone del populismo italiano. L’antisemitismo, purtroppo, è diffuso, sotterraneo e terribile. Vive e prospera a destra e anche a sinistra. Anche il razzismo (che comunque non va confuso con la xenofobia, che è anche questa una malattia della politica moderna, ma diversa dal razzismo) è diffuso a destra e a sinistra, soprattutto a destra. L’autoritarismo, che spesso si confonde e si salda col giustizialismo, è forte in tutto lo schieramento politico, e, misurato a spanne, è più diffuso a sinistra e dilaga tra i 5 Stelle dove è quasi l’ideologia dominante. Bene, se le cose stanno così, lo dico francamente, antifascismo vuol dire opporsi al formiglismo. Che è un costume diffusissimo nel giornalismo italiano. Prepotente, maschilista, narciso e sopraffattore.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Solo i regimi sciolgono i partiti. Sciogliere Forza Nuova è un’idea cretina, tentazione autoritaria e illiberale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Ottobre 2021. La legge Scelba è del 1952. Prevede il reato di apologia di fascismo. Probabilmente era stata immaginata per poi permettere un secondo passo e la messa fuorilegge del Msi, partito neofascista fondato nel 1947 da Giorgio Almirante e Arturo Michelini. Pochi mesi dopo la legge Scelba nacque l’idea della nuova legge elettorale – che la sinistra ribattezzò “legge truffa” – la quale doveva servire a consegnare il 65 per cento dei seggi parlamentari ai partiti che – dichiarandosi alleati – avessero ottenuto più del 50 per cento dei voti alle elezioni. La Dc disponeva nel 1952 del 48 per cento dei voti e il successo della legge truffa era quasi assicurato, e avrebbe ridotto in modo evidentissimo la forza parlamentare delle opposizioni. In particolare del Psi e del Pci. Che si opposero fieramente, insieme al Msi. La legge fu approvata, dopo una feroce battaglia parlamentare, dopo l’ostruzionismo e lotte persino fisiche tra Dc e sinistre. Ma alle successive elezioni il blocco centrista prese solo il 49,9 per cento dei voti, il premio di maggioranza non scattò, De Gasperi fu travolto, la legge cancellata. E nessuno più pensò l’idea balzana di sciogliere il Msi. Poi, negli anni settanta, la questione tornò a porsi. Lotta Continua, nei cortei, gridava lo slogan “Emme esse i / fuorilegge/ a morte la Diccì / che lo protegge”. Però il Pci si oppose sempre a questa linea. Il Pci – dico – quello ancora legato stretto stretto a tutte le sue tradizioni e litanie comuniste. Però il Pci era un partito politico. Faceva politica. Era guidato da dirigenti colti, preparati, esperti. Nel Pci si capiva quali conseguenze devastanti poteva avere lo scioglimento del Msi. Specialmente per le opposizioni, che sarebbero finite tutte sotto tiro e minacciate. Ma anche – in generale – per la tenuta della democrazia. Il Pci ci teneva molto alla saldezza della democrazia, perché era l’acqua nella quale nuotava. Del resto si sapeva benissimo che la stessa legge Scelba, varata per colpire il Msi, apriva la prospettiva di iniziative legislative contro il Pci, se non anche contro il Psi. Mario Scelba, ministro dell’Interno, era l’espressione della parte più reazionaria della Democrazia cristiana. Ho scritto queste cose perché mi pare che l’idea di sciogliere Forza Nuova sia una assoluta idiozia. È chiaro che non è possibile nessun paragone tra Forza Nuova e il Msi anni 50. Forza Nuova è un gruppetto, il Msi era un partito strutturato e popolare. Ed era anche – nessuno credo che lo possa negare – un partito abbastanza nettamente fascista. Il problema sta nella natura del provvedimento, a prescindere dal bersaglio. Sciogliere un partito, un gruppo, un’organizzazione, per motivi ideologici è una stupidaggine gigantesca, che porta all’immagine della democrazia una ferita molto più grande della modestia del gesto. E che apre varchi pericolosissimi. Se oggi si scioglie Forza Nuova niente esclude che tra qualche mese o tra qualche anno qualcuno chieda lo scioglimento di organizzazioni di sinistra. Anche più forti e radicate di Forza Nuova. Riducendo sempre di più i margini del possibile dissenso politico. Oltretutto alle richieste di scioglimento di Forza Nuova – che sembrano un po’ ripetizioni quasi automatiche di slogan e atteggiamenti di 30 anni fa – si accompagna la folle idea del vicesegretario del Pd di mettere il partito di Giorgia Meloni (che forse oggi, secondo i sondaggi, è il più grande partito italiano) fuori dall’arco democratico e repubblicano. Siamo al diapason della tentazione autoritaria e illiberale. Io mi auguro che Letta intervenga in fretta. Può restare vicesegretario del Partito democratico una persona che chiede di prendere a frustate la nostra democrazia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il solito vizietto della sinistra: l'allarme fascismo scatta alla vigilia di ogni elezione. Francesco Giubilei il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. ​A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. A volte ritornano. O, per meglio dire, ci sono parole d'ordine e una retorica che non è mai scomparsa ma semmai sopita in attesa di essere utilizzata alla miglior occasione che, guarda caso, coincide con l'avvicinarsi di importanti scadenze elettorali. Siano elezioni politiche, regionali o amministrative, le accuse della sinistra al centrodestra di essere fascista o di strizzare l'occhio al fascismo, tornano in auge e le elezioni di questi giorni non sono da meno. Poco importa se la coalizione di centrodestra non abbia nulla a che fare e abbia preso le distanze in modo netto dall'attacco alla Cgil e da Forza Nuova, la retorica della destra fascista è dura a morire ed è funzionale agli scopi politici della sinistra. D'altro canto, come sottolinea la trasmissione Quarta Repubblica, le tempistiche degli ultimi giorni sono quantomeno sospette: a poche ore dal voto è uscita l'inchiesta di Fanpage, la settimana successiva è stata mandata in onda la seconda puntata fino ai fatti di Roma in cui c'è stata un'evidente falla nella sicurezza. Il pericolo fascista evocato da più parti torna con cadenza ciclica nonostante i leader del centrodestra si siano espressi con chiarezza contro ogni forma di estremismo e violenza. Basta scorrere le cronache degli ultimi trent'anni per rendersi conto di come lo spauracchio fascista sia utilizzato dalla sinistra con finalità politiche ed elettorali. Vale la pena rileggere la prima pagina de l'Unità del 12 settembre 2003 che titola a carattere cubitali «Berlusconi come Mussolini». Sin dalla sua discesa in campo, Berlusconi si è dovuto difendere dalle accuse di fascismo nonostante la sua estrazione liberale, in particolare per l'alleanza con An. Così, mentre Gustavo Zagrebelsky nel 1994 affermava «c'è il rischio di un nuovo regime», Berlusconi rispondeva «Fascismo? L'ho già condannato, i pericoli sono altri». Una condanna non sufficiente visto che nel 2009 il vicedirettore de l'Unità firmava un editoriale dal titolo emblematico: «Il fascista di Arcore». Nonostante la svolta di Fiuggi e la lezione di Pinuccio Tatarella di allargare la destra fondando Alleanza Nazionale, Giorgio Bocca, intervistato su l'Unità, bollava il nuovo partito come composto da «veri fascisti». A poco sono servite le parole di Gianfranco Fini nel 2003 sul «fascismo male assoluto» che fecero tanto discutere e, se oggi Fini è riabilitato dalla sinistra per attaccare gli attuali leader del centrodestra, al tempo le accuse ad An di essere un partito neofascista erano quotidiane. Più o meno lo stesso che accade a Fdi nonostante Giorgia Meloni, già nel 2016, alla domanda di Lucia Annunziata «lei è fascista?», avesse risposto: «Io sono di destra. Sono nata nel 1977, quindi mai stata fascista». Non è andata meglio alla Lega e, se le dichiarazioni contro Salvini si sprecano, già nel 2005, l'allora parlamentare socialista Ugo Intini, intervistato su l'Unità, affermava: «gli estremismi di Pontida sono di tutto il Polo» aggiungendo «il fascismo leghista è sottovalutato». Gli attacchi peggiori a Salvini avvengono proprio nelle settimane precedenti le elezioni come nel caso delle europee del 2019 quando Furio Colombo dichiarava: «Salvini fascista, ma nega come facevano i mafiosi», stessa accusa rivolta dal fotografo Oliviero Toscani, mentre a inizio 2019 lo storico Luciano Canfora a l'Espresso sosteneva «Matteo Salvini alimenta la mentalità fascista». Ma c'è chi, come lo scrittore Claudio Gatti, si è spinto oltre intitolando un suo libro I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega. Un modus operandi utilizzato anche in occasione delle elezioni del 2018 e testimoniato da un articolo di Annalisa Camilli del 5 febbraio 2018 su Internazionale intitolato «Da Fermo a Macerata, la vera emergenza è il fascismo». Come se non bastassero i media nostrani, anche il New York Times, a poche settimane dalle politiche, denunciava il rischio di «antieuropeismo e ritorno al fascismo». Ripercorrendo questi episodi, viene da chiedersi se non esista un altro problema nel nostro paese: una sinistra incapace di accettare un confronto democratico con il centrodestra senza dover in ogni occasione attualizzare un clima da guerra civile polarizzando il dibattito e accusando di fascismo anche chi non ha nulla a che fare con violenti ed estremisti e, pur riconoscendosi nei valori democratici, non si definisce di sinistra.

FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più i 

Smascherata l'ipocrisia della sinistra: "Quando Fn li faceva vincere..." Francesco Boezi il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Storace ricorda quando, con Forza Nuova sulla scheda, il centrodestra perse voti. E sulla fiamma nel simbolo rammenta la parabola di Fini. É un Francesco Storace in vena di ricordi quello che ha commentato le recenti vicende riguardanti Forza Nuova e la relativa mozione di scioglimento dell'organizzazione estremista avanzata da parte del Partito Democratico. Storace ha infatti elencato una serie di circostanze in cui, la presenza del partito di Roberto Fiore sulle schede elettorali, ha a parer suo penalizzato la destra parlamentare, contribuendo ad una dispersione di voti che è servita al centrosinistra per trionfare in determinati appuntamenti elettivi. La prima riflessione del vicedirettore de Il Tempo, però, è dedicata all'accomunare la destra in generale:"La gravità del comportamento politico della sinistra - ha fatto presente l'ex presidente della Regione Lazio - è voler assimilare chi ha fatto violenze a una comunità che le violenze le subisce. Mentre parliamo, in questi mesi si sono accumulate azioni criminali contro FdI, Lega e addirittura il sindacato Ugl, senza che nessuno abbia condannato o si sia sognato di sciogliere le organizzazioni di sinistra". Insomma, la destra che siede in Parlamento sarebbe la prima vittima delle violenze. E l'associazione con Forza Nuova sarebbe unicamente strumentale. Poi l'ex Alleanza Nazionale, che è stato sentito in merito dall'Agi, presenta un excursus sui rapporti tra la destra di governo ed i microcosmi posizionati sul lato dell'estremismo ideologico: "È evidente - ha continuato l'ex leader laziale - che c’è la strumentalità. Chi conosce la destra sa che c’è sempre stato fin dai tempi del Msi uno spartiacque tra i partiti e le formazioni extraparlamentari. Ci sono state occasioni di contatto - ha ammesso - ma mai sulla pratica della violenza, e comunque si è trattato di occasioni contingenti. Si vuol far partire una sorta di abiura per un’operazione politica di parte". Quindi Forza Nuova e Fratelli d'Italia, ad esempio, sono due universi ben distanti, pure per via del pregresso. A questo punto, arriva il passaggio sulle sconfitte subite, secondo Storace, pure per via di Forza Nuova: "Fiore e Casapound - ha ricordato alla fonte sopracitata - li ho avuti contro alle Regionali, quando correvo contro Zingaretti ma all’epoca la sinistra non insorgeva perchè toglievano i voti a me. Nel 2005 stessa storia, con la Mussolini, che fece vincere Marrazzo". Due episodi precisi in cui il centrodestra non è riuscito ad affermarsi pure a causa dei voti andati a finire tra le sacche di Forza Nuova e dintorni. Sulla mozione di scioglimento, peraltro, l'ex vertice di An segnala la mancata unità persino tra gli esponenti della sinistra, citando Stefano Fassina: "Ho letto le sue affermazioni e ha ragione: se la mozione sullo scioglimento di Forza Nuova venisse votata solo dalla sinistra, vorrebbe dire che solo quella parte è depositaria di valori come la democrazia". E ancora: "Tutto appare quindi strumentale, in campagna elettorale. Addirittura è stata indetta una manifestazione sindacale durante il silenzio elettorale. Che ci andrebbero a fare Salvini e la Meloni, a prendersi i fischi?". Dunque la manifestazione antifascista annunciata sarebbe, in buona sostanza, una trappola. C'è, infine, chi ha attaccato Giorgia Meloni per via della presenza della fiamma nel simbolo del partito che presiede. Ebbene, Storace ha ancora pescato dalla memoria, rammentando a tutti come la vicenda non sia proprio una novità, per usare un eufemismo: "Ebbene - ha detto riferendosi a Gianfranco Fini - lui è andato al governo nel 1994 come ultimo segretario del Msi, è stato vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera, e nessuno gli ha mai rinfacciato la Fiamma tricolore. Addirittura Mirko Tremaglia - ha chiosato Storace - ex-combattente della Rsi, è stato ministro. Punire violenza d’accordo, ma che c’entra con l’abiura".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver seguo per lo più le competizioni elettorali e

Quei fantasmi del Novecento. Vittorio Macioce il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana. Rare tracce di Novecento. Non basta un nome per essere democratici. Il Pd chiede alla Meloni la patente di antifascismo, ma con una manciata di parole avvelena la politica italiana: evoca l'ostracismo contro l'avversario parlamentare. Non lo riconosce e lo indica come nemico. A tracciare la linea è Giuseppe Provenzano, ex ministro del governo Conte e soprattutto vice segretario del Partito democratico. Dice Provenzano: «L'ambiguità della Meloni la pone inevitabilmente fuori dall'arco democratico e repubblicano». È un foglio di via. Alla base di questo discorso ci sono gli squadristi di Forza Nuova, un movimento che si definisce fascista e da tempo sguazza nel caos e nella paura. Sono perfetti per il ruolo e si godono il quarto d'ora di celebrità. Non si preoccupano più di tanto di essere messi fuori legge. È quello che in fondo aspettano da tempo. È la loro reale legittimazione. È il segno che la democrazia li teme, li porta al centro del discorso, dentro la storia. Non sono mai stati così centrali. L'assalto alla sede dalla Cgil, violento e vergognoso, sembra una citazione del «biennio rosso», vecchia un secolo. È il teatro delle camicie nere. L'obiettivo è spargere pezzi di Novecento per sentirsi protagonisti. È prendere i fantasmi, le questioni irrisolte, e incarnarli nelle nostre paure, vomitando vecchie parole d'ordine e nuovi razzismi. E sono furbi, perché ottengono le contromosse sperate. Al Novecento si risponde con il Novecento e ci si impantana nel passato, riesumandolo, scommettendo sull'eterna roulette del rosso e del nero. Come disarmare Forza Nuova? La strada più diretta è punirli per quello che fanno: la violenza è un reato. Non sottovalutarli, ma neppure farli diventare i protagonisti di una campagna elettorale. Non giocare questa partita per conquistare Roma. Non sciogliere Forza Nuova solo per colpire la Meloni. Il rischio è fare danni, perché delegittimi l'opposizione e disconosci più o meno il 18 per cento degli elettori. Non è un bene per nessuno. Se la Meloni è fascista allora tutto torna in discussione. È fascista un ex ministro. È fascista un partito che sta in Parlamento e partecipa alla vita democratica. È fascista il presidente dei conservatori europei e sono fascisti i suoi alleati. È fascista chi la vota. Davvero il Pd è pronto a sottoscrivere tutto questo? Non c'è democrazia se un solo partito concede patenti di legittimità a tutti gli altri. E questo perfino Enrico Letta e Giuseppe Provenzano, forse, lo sanno. Il buon senso è quello di Mattarella: «Il turbamento è forte, la preoccupazione no. Si è trattato di fenomeni limitati». Vittorio Macioce

L'aria che tira, Guido Crosetto gela Fiano: "Per fortuna che sono un ex democristiano, altrimenti..." Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. Ora tocca a Giorgia Meloni. Ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia, riflette sulla "strategia" contro FdI messa in atto anche da esponenti ufficiali del Pd come Beppe Provenzano. "Un classico di ogni campagna elettorale - spiega Crosetto -. Ma è un tema che deve porsi innanzitutto la Meloni: deve togliere queste frecce dalle mani dei suoi avversari, che alla fine non la fanno parlare delle sue proposte e la costringono a difendersi". Dietro l'onda di indignazione "a comando" che si sta riversando sulla Meloni per effetto dell'inchiesta Lobby nera di Fanpage e Piazzapulita prima e delle violenze di piazza dei No Green pass di sabato scorso a Roma (e frettolosamente spedite nel "campo" della Meloni, secondo Crosetto però c'è una buona dose di strumentalizzazione politica. E a Emanuele Fiano, big democratico anche lui in collegamento con La7, forse fischieranno le orecchie. "Parlate di Fratelli d'Italia come un partito nato ieri da quello Nazista - sottolinea Crosetto in collegamento -. Il percorso di Giorgia Meloni è passato attraverso la svolta di Fiuggi, non ha mai avuto legami col fascismo. Ricordo che La Russa è stato ministro della Difesa e non ha invaso Libia ed Etiopia, che anche la Meloni è stata ministra...". Qualora non bastasse questo elenco, arriva l'ironia amara di Crosetto: quelli di Fratelli d'Italia "sono gli avversari principali di Forza Nuova o degli elementi estremistici di destra. Fossi in loro mi sentirei offeso di questa necessità di chiedere patenti di democrazia a persone che sono sempre state democratiche. Io ho la fortuna di essere stato democristiano, altrimenti pelato così chissà cosa mi direbbero...". Qualcuno ride di fronte a questa battuta, ma la situazione è decisamente deprimente.

Ecco chi sono i veri violenti: estremisti rossi e anarchici. Lo dice lo studio Ue. Chiara Giannini il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. I dati del rapporto sul terrorismo: nel 2020 mai attacchi da destra. L'Italia è il Paese più colpito dagli assalti degli ultrà di sinistra. I partiti di sinistra chiedono di sciogliere Forza Nuova e tutte le realtà legate al neofascismo, ma la realtà è che la maggior parte degli attacchi terroristici non di matrice jihadista avvenuti negli ultimi anni in Europa e in Italia sono stati messi in atto da gruppi di estrema sinistra o anarco-insurrezionalisti. La conferma arriva dalla pubblicazione del report annuale Te-Sat (Terrorism situation and trend report 2021) che riporta come nel corso del 2020 gli attacchi di tipo terroristico avvenuti in Europa sono stati 422. Di questi 314 sono attribuibili a jihadisti e 48 a gruppi di estrema sinistra. In Italia lo scorso anno non si è avuto alcun episodio terroristico legato all'estrema destra, mentre 23 sono stati i casi di attacchi da parte dei gruppi anarco-insurrezionalisti o similari. Basti ricordare i cortei violenti di Torino, l'attacco ai cantieri Tav e molti altri episodi che quando si tratta di attaccare tutto ciò che è di destra magicamente scompaiono dai ricordi degli esponenti di sinistra. Nel rapporto 2021 dell'osservatorio ReAct sul radicalismo e il contrasto al terrorismo si specifica che «gli attacchi terroristici perpetrati da gruppi di estrema sinistra e anarco-insurrezionalisti nel 2018 in Europa - 19 eventi, di cui 13 in Italia - si situano al secondo posto dopo quelli di matrice jihadista - 24 azioni con 13 morti. Nel complesso si impone l'inconsistenza degli attacchi attribuiti a gruppi di estrema destra, storicamente marginali nelle statistiche del terrorismo in Europa: un solo evento nel 2018, a fronte dei 5 del 2017». Si chiarisce anche che l'Italia «nella graduatoria europea, è il Paese più colpito da attacchi di estrema sinistra: il 70% di tutti gli attacchi in Europa». Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight e dell'Osservatorio ReaCt, specifica: «La pandemia da Covid-19 ha avuto effetti rilevanti sulla società, andando ad alimentare e a fomentare forme di disagio sociale latente che sono presto esplose. Un fenomeno sommerso che si diffonde e consolida con le chat di Telegram, di Signal o con la diffusione di video e notizie false attraverso altri social. E sono proprio le notizie false, spesso associate a fittizi studi scientifici o informatori anonimi, che alimentano il fenomeno di un sempre più pericoloso e diffuso fenomeno cospirazionista». Peraltro sempre più ampio e tutt'altro che imprevedibile. «Questo - dice ancora - accomuna per le strategie operative e le metodologie comunicative sia gli ambienti di estrema destra che quelli di estrema sinistra, come dimostrano i numerosi episodi di violenza, anche in Italia, nelle manifestazioni del 9 ottobre che richiamano alla memoria gli episodi di violenza insurrezionale alimentata dall'ideologia di QAnon dello scorso 6 gennaio a Washington e alle immagini evocative che sono giunte da Capitol Hill». Bertolotti chiarisce che «l'estremismo violento di destra si sta evolvendo in un fenomeno transnazionale, mentre sviluppa una preoccupante relazione simbiotica e una stretta interdipendenza con l'estremismo di matrice islamista e si pone in un rapporto di competizione collaborativa, condividendone alcune ragioni di fondo (in particolare l'opposizione all'imposizione da parte dello Stato di regole e presidi sanitari, recepiti come minaccia alla libertà), con la violenza della sinistra estrema e dei movimenti anarco-insurrezionalisti. Un'evoluzione che avviene attraverso il comune terreno dell'ideologia No vax e, ora, No green pass».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza dil barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo. 

Altro che galassia fascista. Le chat No Vax inneggiano alle Br. Francesca Galici il 12 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gli scontri di Roma e Milano sono stati solo "un'anteprima": i no pass alzano il tiro e minacciano azioni sempre più violente in vista del 15 ottobre. I no pass non si arrendono e dopo gli scontri di Roma lo dicono chiaro e tondo nelle ormai celebri chat su Telegram: "Sabato 9 ottobre è stata solo un'anteprima". Annunciano un crescendo di tensioni nelle città italiane per arrivare al 15 ottobre quando, dicono, "sarà guerrà". Il Viminale si sta organizzando per scongiurare altre piazze calde come quelle di Roma e di Milano dello scorso weekend, si stanno predisponendo controlli serrati e strette sulle manifestazioni ma dall'altra parte non sembrano intenzionati ad arrendersi, alzi, considerano le azioni del governo come una sfida nei loro confronti. "Che guerra sia, per come si stanno muovendo le cose", dicono spavaldi facendosi forza gli uni con gli altri. Al momento, nei gruppi Telegram e su Facebook si stanno organizzando per scendere in piazza dal 15 ottobre, giorno in cui il Green pass diventerà obbligatorio per tutti i lavoratori. Vogliono manifestare a oltranza e il 19 ottobre pare sia in programma un "girotondo" a Montecitorio. Sono tanti quelli che spingono per la protesta pacifica ma quelli che, invece, vogliono arrivare allo scontro frontale non sono certo pochi. "Gli devi tirare le bombe a questi per capire come si lotta", si legge scorrendo nei loro discorsi, spesso deliranti, che inneggiano alle "bombe a mano per i poliziotti antisommossa". I due grandi cortei di sabato 9 si sono svolti a Milano e a Roma. In entrambe le città i manifestanti e le forze dell'ordine sono arrivati allo scontro ma è nella Capitale che la lotta si è fatta più dura. "La prossima volta non ci troverete a mani nude", minacciano i no pass violenti, come se a Roma non siano state lanciate bombe carta nei pressi di Montecitorio. E sono proprio i palazzi di piazza Colonna l'obiettivo di parte dei manifestanti, che nelle loro intenzioni vorrebbero occupare palazzo Chigi e il parlamento per spingere i politici al passo indietro. "Prendete i Palazzi", "Draghi, ti veniamo a prendere sotto casa", si legge ancora. Ma gli obiettivi sono molto più ampi, perché l'auspicio di qualcuno è che "brucino in piazza tutti quei criminali". Ma la strategia sembra più complessa di quello che non appare limitandosi a leggere questi discorsi, perché scorrendo nelle chat si intuisce che i fronti sui quali vogliono combattere sono molteplici e non si fanno scrupoli nel portare in piazza i più deboli da utilizzare come scudi umani davanti alle forze dell'ordine. "Ma se mettiamo anziani e bambini davanti alle manifestazioni, che faranno?", si domanda qualcuno. Il popolo dei "pronti a tutto", come si definiscono in alcuni scambi di vedute, ha principalmente tre obiettivi: la politica, la stampa e le forze dell'ordine. I giornalisti vengono definiti "servi del potere", "schiavi della dittatura" ed ecco che arrivano anche le proposte di "sfasciare" le redazioni perché "dicono una marea di cazzate", oppure di "occupare le emittenti tv". Ai manifestanti di Milano è stato chiesto di andare a Mediaset e alla Rai e i giornalisti, come si è visto sabato 9 ottobre, hanno rischiato in più di un'occasione di essere aggrediti dai manifestanti mentre documentavano gli scontri. E così, tra chi incita alla violenza al grido di "speriamo di bruciarli tutti", ci sono anche i nostalgici, non solo quelli neri, che rimpiangono gli anni di piombo: "Purtroppo non ci sono più le Br". E ci sono anche gli irriducibili dei primi Duemila: "Sono qui, no Global 100%, insieme a molti altri. Combattevo allora per diritti di altri che sono nati in altri Paesi, oggi combatto per il mio, dove i diritti sono stati corrotti e negoziati per Big pharma. Ora come oggi mi oppongo allo strapotere delle multinazionali. Di black block non voglio sentir parlare". Nelle chat le minacce non sono più troppo velate e nemmeno la consapevolezza che i gruppi siano strettamente attenzionati dalle forze dell'ordine che, nello svolgimento del loro lavoro, controllano le frange più eversive funziona come deterrente. "Guardarli in faccia e poi aspettarli sotto casa... Vedi come gli passa", è la promessa fatta ai poliziotti, ai politici e ai giornalisti.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Landini vittima di se stesso: suoi gli slogan più feroci contro il green pass. Laura Cesaretti il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. È stato il leader Cgil ad aizzare il popolo No Vax: "Non si può pagare per lavorare". E anche il ministro Orlando l'ha bacchettato: "Ambiguo". La nemesi, a volte: «Non si può pagare per lavorare», era lo slogan più ripetuto per eccitare le caotiche piazze novax che manifestavano contro il Green Pass obbligatorio. Compresa la piazza di Roma, quella che ha prodotto l'assalto teppistico dei manifestanti, guidati da neofascisti noti alle cronache giudiziarie della Capitale, alla sede della Cgil. Peccato che l'inventore del fortunato slogan fosse proprio il padrone di casa, Maurizio Landini, che per settimane lo ha ripetuto in ogni microfono a sua disposizione, guidando una bellicosa resistenza alla decisione del governo Draghi di introdurre l'obbligo di vaccino o tampone per accedere ai luoghi di lavoro e di socialità. «Il lavoro è un diritto - era il suo ragionamento - non può esistere che si debba pagare per poter entrare in fabbrica o in ufficio». Una questione di principio, per Landini, che (siamo a metà settembre) sfidava Draghi: «Il governo non ha saputo prendere la decisione dell'obbligo vaccinale per le sue divisioni interne, abbia il coraggio di dirlo. Hanno fatto tutto senza consultarci, come sempre, e ora pretendono che a pagare siano i lavoratori». La soluzione proposta dal leader sindacale era la stessa escogitata ora da Beppe Grillo: tamponi gratis (ossia a spese dei «padroni» e dei contribuenti vaccinati) per i novax: «Il costo non può essere a carico del lavoratore: siano le aziende, con l'aiuto dello Stato, a sostenere le spese per garantire a tutti il diritto di lavorare». Rivendicazioni simili a quelle arrivate dai tumulti no-green pass, in sostanza. È una classica vicenda da apprendisti stregoni, che prima invocano e animano la sarabanda, e poi ne rimangono vittime. Prova ne sia il fatto che non sono stati solo gli squadristi di Forza Nuova a prendersela col capo della Cgil, ma anche il fronte uguale e contrario della «protesta rossa»: dai Cobas a Rifondazione comunista, passando per centri sociali e studenti di sinistra, che hanno bersagliato Landini e la Cgil, che ha contestato prima ma non impedito poi l'introduzione del pass, a suon di «venduti» e «servi dei padroni». Che la posizione iniziale di Landini sia stata ambigua lo ha riconosciuto anche il ministro del Lavoro Andrea Orlando: «Si è illuso, secondo me sbagliando, che l'obbligo vaccinale gli risparmiasse la gestione dei conflitti sui luoghi di lavoro: credo sia stata una scelta errata». E non è un caso che, dopo l'assalto novax alla Cgil, Landini abbia un po' pattinato sui fatti, negando l'evidenza: «L'attacco squadrista non c'entra nulla con il Green Pass», ha sostenuto. «È stato un assalto contro il mondo del lavoro e il sindacato». E subito ha convocato una manifestazione pro-Cgil (da tenere, certo del tutto casualmente, alla vigilia dei ballottaggi) con parole d'ordine sufficientemente vaghe da non entrare minimamente nel merito delle agitazioni degenerate in vandalismo: «Per il lavoro e la democrazia». Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle. Ma non un fiato contro i novax del no-green pass. Laura Cesaretti 

I disordini, i terribili giorni del Quirinale e le Porte dell'Inferno. Piccole Note l'11 ottobre 2021. “Né con lo Stato né con i No Vax è un lusso che nessuno può concedersi”. Così Michele Serra sulla Repubblica (vedi Dagospia) a commento delle recenti violenze di piazza. L’azione degli estremisti di destra, che è riuscita a dirottare una manifestazione contro il Green pass su lidi violenti e contro la sede della Cgil, si è così realizzata con successo, avendo conseguito il risultato di criminalizzare la resistenza a un’iniziativa politica discutibile e che si vuole indiscutibile. Ciò non perché lo scriva il povero Serra, ma perché egli dà voce alla narrativa che va consolidandosi e che porta in tale direzione. Gli estremi, al solito, fanno il gioco del potere, anzi ne sono utilizzati, una pratica che l’Italia conosce dai tempi della strategia della tensione. Ma allora occorreva cercare i manovratori dei fili – i Burattinai, come da titolo di un interessante libro di Philip Willan, cronista inglese e quindi più libero di altri – oltre i nostri confini, come ad esempio la scuola parigina di lingue Hyperion, frequentata da Mario Moretti e Corrado Simioni, alti funzionari della macchina del Terrore. Oggi le scuole dove si intrecciano tali indebiti rapporti sembrano essere più prossime, dato che quelle che un tempo erano infiltrazioni negli apparati dello Stato e nella politica hanno ormai rotto gli argini e dilagato. Peraltro, la funzionalità al potere di tali frange estreme la denota l’obiettivo delle violenze: la sede della Cgil, che nulla ha a che vedere con l’introduzione del green pass. Si restringono così i già esigui spazi di resistenza al provvedimento, diventato, agli occhi di tanti, un simbolo di un’asserita deriva autoritaria, nonostante forse tale deriva si concretizzi in altro e ben più stringente (anche se un pass per lavorare, in una Repubblica democratica fondata sul lavoro, così il primo articolo della Costituzione, lascia ovviamente perplessi). In realtà, reputare che il green pass sia un mezzo di controllo dei cittadini, almeno al momento e in tali forme, appare tema controverso, per il fatto che, ad esempio, tale controllo si verifica da tempo e in modo ben più capillare attraverso la rete e l’intelligenza artificiale che la scandaglia a strascico a uso e consumo del potere reale.

Certo, il pass è un simbolo, ma la guerra ai simboli rischia di diventare anch’essa simbolica, cioè distaccata dal reale e, come tale, si presta alle strumentalizzazioni del caso. Il potere, quello reale, vive di simboli, e nella dialettica simbolica si rafforza. Servirebbe un singulto di realismo, ma sembra ormai troppo tardi, dato che l’Italia è stata consegnata, e si è consegnata, a certo potere transnazionale, con la politica inerme o funzionale a esso (ma meglio gli inermi, ovviamente). Da questo punto di vista, le elezioni amministrative sembrano aver confermato tale deriva: non per nulla, all’indomani di queste, Dagospia, l’ultimo media italiano e come tale organo ufficiale del potere reale (con labili spazi alternativi), dichiarava con enfasi: “Ha vinto Draghi”. E ciò non tanto per la vittoria del cosiddetto centro-sinistra (che di sinistra non ha più nulla) nelle città più importanti, un risultato che dopo i disordini di sabato sembra doversi confermare nel secondo turno romano – dove tale vittoria era più che probabile, ma non certa -, quanto per la stretta che il potere ha operato in questa occasione, come confermato dai disordini in oggetto. Da questo punto di vista, per tornare nel campo dei simboli, come il crollo del ponte Morandi ha salutato, con saluto nefasto, l’intemerata sfida al potere reale posta, nonostante le tante ambiguità, dal cosiddetto governo giallo-verde, le fiamme che hanno divorato il ponte di ferro di Roma sembrano inaugurare una nuova stagione italica. Una stagione che vede aprirsi i terribili giorni del Quirinale, come ebbe a definirli l’ex presidente Francesco Cossiga al momento di dimettersi prima della scadenza naturale del suo mandato. Giorni che, in maniera simbolica, si aprono con una mostra realizzata presso le Scuderie del Quirinale, dedicata all’Inferno, con i visitatori che verranno accolti al loro ingresso, come recita la guida, dall’opera di Rodin “Le porte dell’Inferno“. In realtà, si tratta di una celebrazione in onore di Dante, nella quale le artistiche evocazioni infernali vanno a concludersi col noto finale della sua Commedia divina, cioè con “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Conclusione di una commedia, appunto, che, come tale, ha il lieto fine ascritto nella sua essenza. Nel caso italico, che più che commedia appare tragedia, tale conclusione resta tutta da vedere.

Alessandro Sallusti, tra le spranghe di Forza Nuova e le parole del Pd non vedo grande differenza. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 12 ottobre 2021. È vero, la democrazia è in pericolo. Ma non perché quattro pregiudicati di estrema destra hanno trascinato qualche decina di idioti a sfasciare una sede della Cgil, tanto è vero che sono stati arrestati e denunciati. No, la democrazia è più in pericolo perché ieri il vicesegretario del Pd ed ex ministro per il Mezzogiorno, Giuseppe Provenzano, ha buttato lì l'idea di chiudere per legge Fratelli d'Italia, unico partito democratico di opposizione di questo Paese, oltre che di governo in quasi tutte le più importanti regioni italiane senza che ciò provochi alcun turbamento democratico. Tra le spranghe di Fiore, leader di Forza Nuova a capo dell'assalto alla Cgil, e le parole di Provenzano non vedo una grande differenza: l'avversario va distrutto materialmente con la forza dei bastoni o con quella della legge. C'è però una differenza non da poco: quelli di Forza Nuova vivono ai margini della società e oggi sono in galera, Provenzano e quelli come lui siedono in Parlamento. Ricordate il teorema secondo il quale "Berlusconi non è legittimato a governare" espresso più volte dalla sinistra (anche giudiziaria) nonostante gli oltre dieci milioni di voti raccolti ad ogni elezione? Ecco, ci risiamo. In Italia o sei di sinistra - e allora i conti con la storia e con le tue frange estreme puoi non doverli fare - oppure sei fuori dall'arco costituzionale a prescindere. Altro che fascismo, questa è la peggiore forma di totalitarismo perché non dichiarata, subdola. Ci fu un momento nella storia recente d'Italia - primi anni Settanta - in cui il Pci e i sindacati furono, loro sì, se non collaterali almeno omertosi e quindi protettivi nei confronti del nascente terrorismo rosso, che stava attecchendo nelle fabbriche e nei quartieri popolari come ha raccontato uno che c'era, Giuliano Ferrara. Ma nessuno si permise di chiedere la messa al bando del Pci e il terrorismo fu sconfitto anche dall'argine che quel partito poi innalzò contro la violenza. Ecco, Fratelli d'Italia è l'argine più sicuro e democratico che abbiamo contro rigurgiti fascisti e chi lo nega è in evidente malafede. Se non fosse ridicola, se dovessimo prenderla sul serio, la proposta di Provenzano metterebbe di fatto il Pd fuori dall'arco costituzionale.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 ottobre 2021. Caro Dago, il mio amico e conterraneo Francesco Merlo, che non è soltanto uno dei più valorosi giornalisti della sua generazione ma anche uno dei più colti (Il che non guasta persino nell’attività giornalistica), mi fa via mail alcune obiezioni alla mia riluttanza a usare il termine “fascismo” a proposito di quelle oscene macchiette che hanno sfondato le finestre per poi devastare gli arredi della sede nazionale della Cgil. A me che sul “Foglio” avevo scritto che Benito Mussolini e Giuseppe Bottai si stanno rivoltando nella tomba a sentire chiamare “fascisti” le suddette macchiette. Francesco replica che nel fascismo non c’erano soltanto tipi come Bottai ma anche come il famigerato Alessandro Carosi, strenuo combattente nella Prima guerra mondiale, uno che da squadrista e uomo di fiducia del capo della federazione fascista pisana si autoproclamava autore a colpi di una rivoltella Mauser di 11 omicidi e 20 ferimenti. Se è per questo era un fascista cento per cento anche Amerigo Dumini (accento sulla “u”), quello che a capo di altri quattro squadristi agguantò per una strada di Roma il deputato socialista Giacomo Matteotti per poi martoriarlo e ucciderlo nella stessa auto con cui lo avevano rapito. Ebbene, nell’usare noi il termine “fascista” a cento anni dalla marcia su Roma è su personaggi alla maniera di Carosi e di Dumini che dobbiamo fare perno - e dunque stabilire eguaglianze tra ieri e oggi - o valutare il fascismo italiano (forse sarebbe più esatto dire “il mussolinismo”) nel quadro dello spaventoso collasso delle democrazie occidentali nel primo dopoguerra, e tanto più alla luce della minaccia che su quelle democrazie proveniva dal riuscitissimo colpo di mano bolscevico nella San Pietroburgo dell’ottobre 1917? A cento anni di distanza dobbiamo valutare il fascismo (e la sua riuscita e la sua durata) come un fenomeno storico-politico o come un fenomeno meramente criminale? A cento anni di distanza, ripeto. E’ assurdo dire che il fascismo storico è morto e sepolto il 25 aprile 1945, e che da quel giorno tutti coloro che levano la mano destra nel saluto fascista rientrano in una tutt’altra narrazione civile e culturale? E’ assurdo, caro Francesco, dire che a usare il termine “fascismo” oggi come un randello con cui bastonare i più volgari tra quelli che ci stanno antipatici non spieghi nulla di ciò che è proprio alle democrazie complesse dell’Europa del terzo millennio? A me sembra evidente che non è assurdo affatto, anzi è salutare a voler fronteggiare i pericoli odierni che incombono sulla nostra democrazia. Dirò di più. E’ totale la mia riluttanza a usare termini generalissimi nati nei contesti i più drammatici del Novecento. Fosse per me non userei mai e poi mai il termine “Resistenza”, e bensì il termine “guerra civile”, un termine che fino a vent’anni fa era off-limits fra le persone politicamente dabbene e che invece spiega cento volte meglio che cosa accadde lungo tutto lo stivale in quei due anni stramaledetti. Certo che nel fascismo c’era anche Carosi. Epperò nella Resistenza c’erano anche quei partigiani che al limitare di Bologna - non ricordo più se alla fine del 1945 o all’inizio del 1946 - intercettarono un diciassettenne in bicicletta e gli chiesero chi fosse. Era il figlio di Giorgio Pini, un giornalista fascista (e persona immacolata) che era in quel momento in carcere e al quale suo figlio aveva appena fatto visita. Il cadavere di quel diciassettenne non è mai più stato ritrovato. Per essere un episodio meramente criminale, fa adeguatamente il paio con l’atroce itinerario umano e politico di Carosi. Non per questo noi useremo il termine “Resistenza” a partire da questo episodio. Semplicemente, almeno per quanto mi riguarda, lo useremo il meno possibile. Tutto qui. Un abbraccio, Francesco

Leggere Pasolini contro il fascismo "antifascista". Nicola Porro il 12 Maggio 2019 su Il Giornale. «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Quando Italo Calvino scrive queste parole sul Messaggero del 18 giugno 1974, Pier Paolo Pasolini s'infuria e risponde con una lettera aperta su Paese Sera: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male». «Pasolini non c'è più. Però - ha rassicurato Michela Murgia, in un servizio andato in onda su Quarta Repubblica - ci siamo noi». Cioè, loro: i nuovi intellettuali della sinistra impegnata. Che, come Calvino, non hanno nessuna voglia di incontrare un fascista. Nemmeno per sbaglio, tra gli stand del Salone del Libro. Pasolini, invece, con i fascisti parlava. La sua ultima poesia, Saluto e augurio, inizia così: «voglio parlare a un fascista,/ prima che io, o lui, siamo troppo lontani». Contro l'atteggiamento di Calvino e degli altri antifascisti militati, Pasolini scrive: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti». È il famoso fascismo degli antifascisti. Così lo definisce Pasolini negli Scritti corsari. Mentre nelle Lettere luterane, testo più nascosto, e per questo lo suggeriamo, Pasolini si spinge ancora più in là: fa a pezzi i giovani della nuova sinistra, tutti con il certificato dell'antifascismo doc. Perché, scrive, «essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione».

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su

La lezione di Pasolini a Fiano: “Antifascismo, arma di distrazione di massa”. Redazione martedì 12 Dicembre 2017 su Il Secolo D’Italia. “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Un’arma di distrazione di massa, scriveva Pier Paolo Pasolini nel 1973 in una lettera ad Alberto Moravia, con la quale, se oggi fosse vivo, sarebbe stato additato di collateralismo con Mussolini e la destra estrema e magari sarebbe sto sbattuto in prima pagina con un editoriale su Repubblica. Pasolini, oggi, non piacerebbe Fiano, l’artefice della legge contro la nostalgia del fascismo, ma neanche a Laura Boldrini, paladina della sinistra partigiana che getta benzina sul fuoco per alimentare una vecchia contrapposizione ormai inattuale. E che per Pasolini lo era già negli anni Settanta, altro che onda nera. Ecco cosa scriveva nei suoi “Scritti corsari”. “Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E i fascisti dell’epoca? “Si tratta di una definizione puramente nominalistica e che porta fuori strada. È inutile e retorico fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo ,-nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Oggi, ovviamente, la distrazione di massa impone di cavalcare l’allarme fascista, unico collante di una sinistra che forse stava iniziano a morire fin dai tempi di Pasolini…

“MI CHIEDO, CARO ALBERTO, SE QUESTO ANTIFASCISMO RABBIOSO…” – DALLA SECONDA LETTERA DI PASOLINI A MORAVIA (?) “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso…” – dalla seconda lettera di Pasolini a Moravia (?)  Shadow Ranger 3 Aprile 2019 su Bufale.net. La lettera del caro Alberto è uno degli apocrifi più famigerati della storia Italiana, seguito solo dall’apocrifo di Pertini cavernicolo armato di mazze e pietre. Ricostruzione di uno dei memes originali dell'”apocrifo di Pasolini del “Caro Alberto”. 

L’apocrifo del Caro Alberto, per intero, recita così: Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda. E sostanzialmente non è mai comparso in alcuna produzione letteraria prima di un post (ora rimosso e non più accessibile) di un blog del 2016, archiviato e censito dalla fondazione Elia Spallanzani. Il linguaggio è un evidente centone Pasoliniano nel quale l’imitazione del linguaggio dello scrittore è quasi perfetta, un falso creato a tavolino da un autore zelante ma non troppo. In primo luogo, la locuzione arma di distrazione, che nelle versioni più arcaiche del testo viene addirittura esplicitata nella forma estesa “arma di distrazione di massa” non è apparsa nell’orizzonte letterario e linguistico italiano prima del 1997. Come ricorda Internazionale, tale frase fu resa popolare dapprima da un film di quegli anni, e poi, sei anni dopo, da una trasmissione satirica di Sabina Guzzanti (chiamata appunto RaiOT – Armi di distrazione di massa). E sarebbe ben strano per Pasolini, morto nel 1975, arricchire il suo linguaggio con costrutti e metafore introdotti dopo la sua morte. Neppure possiamo credere all’immagine di un Pasolini “teledipendente” che si abbassa a svilire il suo ricercato linguaggio coi tormentoni del piccolo schermo come l’ultimo dei vidioti, i teledipendenti drogati dal piccolo schermo descritti dalla fantascienza del fumetto americano Machine Man. In secondo luogo, come anticipato non esistono iterazioni della frase precedenti al post del 2016 che ha dato origine a questa singolare buriana. Non esistono nell’epistolario di Pasolini, né alla data indicata e neppure altrove. Non esistono in alcun altro luogo testuale possibile, o malamente attribuito da ulteriori iterazioni della bufala.

La querelle epistolare tra Moravia, Pasolini e Calvino infatti non era ancora partita. L’avrebbe inaugurata un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974, intitolato “Gli italiani non sono più quelli”, poi incluso negli Scritti corsari con il titolo “Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia”. Il che ci porta a dover ricercare le origini del Caro Alberto dapprima in un periodo letterario in cui semplicemente Pasolini si occupava di tutt’altro, per poi cercare, anche volendo posdatarla, una sua traccia negli Scritti Corsari nel quale… appunto non ve ne è traccia. Siamo quindi al confine tra l’inversione dell’onere della prova ed il sempiterno analfabetismo funzionale del la notizia è su Internet, e quindi non vi è ragione di dubitarne, quel triste fenomeno in cui domani potrei dichiarare convinto che Albert Einstein è il noto autore della frase “Due mucche fanno muu, ma una fa mu-mu!” e limitarmi, dichiarando di essere convinto che Albert Einstein abbia proferito una simile frase, a rispondere a chiunque mi dica di aver analizzato l’opera omnia del noto scienziato alla ricerca della stessa con: E chi ti dice che magari non l’ha scritta ma l’ha solo pensata, o l’ha detta a suo cugino una volta che erano chiusi in una stanza senza testimoni e poi il cugino è morto professorone?!?! E non solo: come tutte le bufale, la bufala del Caro Alberto si è evoluta nel tempo. La misteriosa ed ineffabile “epistola al caro Alberto Moravia” si trasfigura infatti in un intervento televisivo alla RAI del 1973 (del quale, altrettanto curiosamente, non si trova traccia in alcuna delle ricche Teche RAI) o un “dialogo”se non, ancora più grottescamente, in una lettera o intervento televisivo dove il “Caro Alberto” non è più Moravia, ma diventa l’amato attore comico, regista, sceneggiatore, compositore e doppiatore Alberto Sordi. Se questi non fosse spirato nel 2003 (tredici anni prima della presumibile creazione della bufala) avrebbe col suo sorriso buono ed il suo senso dell’umorismo trovato assai divertente diventare il centro di una storia sfuggita di mano e finita nel novero degli apocrifi rilanciati dalla stampa e dalla politica nazionale. Da una lettura del corpus Pasoliniano inoltre non si evince mai, in una singola riga, una critica contro un presunto “antifascismo”, bensì una teoria per cui Il Pasolini degli ultimi anni sostiene, tornando più volte sul tema, che il vecchio fascismo, coi suoi codici, le sue retoriche, il suo rapporto tra capo e massa, è stato superato da un “fascismo” peggiore, quello del neocapitalismo, della “società dei consumi”. I fascisti non scompaiono né diventano innocui, ma sono integrati nel nuovo sistema, omologati e funzionali alla sua logica. Del tutto antitetica rispetto al meme costruito scimmiottandone il linguaggio. Rimandiamo a questa analisi pubblicata su Internazionale per chi volesse approfondire il tema: l’oggetto di questa pagina si ferma ad appurare l’esistenza di una bufala.

L’antifascismo più dannoso del fascismo, l’eterna lezione di Pasolini all’Italia. Gian Luca Campagna e Redazione il 13 Febbraio 2018 su nazionefutura.it. Se parli ti tacciano di (estrema) destra o di (estrema) sinistra, anche se poi dentro si è anarcoindividualiberisti (e talvolta anarcoindividuaibertini). Se non parli ti indicano come un qualunquista menefreghista lontano dalla res publica. Allora, cito. Non in giudizio, per carità, che una volta m’è bastato per il senso del grottesco che alberga nelle aule giudiziarie. Mi ripeto, allora cito. E citiamo. PPP. Cioè PierPaolo Pasolini, che resta il più grande intellettuale italiano del Novecento, visionario e anticipatore. Mi limito a due sue citazioni, che faccio mie. La prima, caro PierPaolo (tanto questa confidenza me l’avrebbe concessa, abbiamo un poker di passioni comuni: il mare-lago-dune di Sabaudia, il calcio come sacra rappresentazione della vita, la narrativa e il senso di obiettività fotografando la realtà anticipando il futuro) affonda il parallelo col brutale pestaggio di un carabiniere a Piacenza durante un corteo pacifico. Ecco, appunto, fotografiamo il reale, con l’obiettivo di PPP. Eccola la prima citazione. “II PCI ai giovani! È triste. La polemica contro il PCI andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati… Adesso i giornalisti di tutto il mondo vi leccano il culo. Io no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccoloborghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri. Vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Beh, il blob coraggioso che sfilava per la lama d’asfalto di Piacenza in un corteo pacifico (!) in nome del razzismo e dell’antifascismo poi ha preso a sberle e calci un (uno!) carabiniere, che era lì per scortarli, per salvaguardarli, per proteggerli, che ha giurato sulla Costituzione che difenderà sempre questo Paese dal Fascismo. Bella prova di coerenza da parte di chi inneggiava alla pax. E poi, ancora, la seconda citazione di PPP. Uno dei maggiori pensatori del secolo scorso e della storia italiana scriveva a Moravia: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. È il 1973. E siamo nel brutto mezzo degli anni di piombo. Ah, vorrei continuare con la parte finale dell’ode al poliziotto da parte di PPP, tornando alla prima citazione: “Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo di figli di papà, avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”. Ecco, appunto, che fine ha fatto il mantra peace and love che scandiva le vostre giornate? I più grandi nemici degli italiani sono gli italiani, appartenenti a un Paese evidentemente fermo a quarant’anni fa (secondo PPP) e a oltre settant’anni fa (secondo me, perché non abbiamo fatto i conti con la Storia) e che fatica a immaginare che possa esserci un domani, altrimenti spiegatemi – perché ancora non l’ho capito – che a Macerata sfila il corteo antirazzista e antifascista contro un povero demente (tal Traini) mentre ci si è dimenticato che tre (ora sono diventati quattro) spacciatori in carriera (neri rossi verdi o gialli o bianchi non ha importanza) hanno squartato una povera ragazza. Gian Luca Campagna

(Nessuna) Pietà per la nazione che crede alle bufale su #Pasolini. Pubblicato il 06.07.2018 da Wu Ming su wumingfoundation.com. Una poesia di Lawrence Ferlinghetti, per giunta scritta trentadue anni dopo la morte di Pasolini, prima viene attribuita a quest’ultimo, poi viene usata come pezza d’appoggio per sostenere che era… cosa? Nazionalista? «Sovranista»? Non l’hanno nemmeno letta: plausibilmente, qualcuno ha visto la parola «nazione» e si è eccitato all’istante.  Wu Ming 1 (con la collaborazione di Yàdad de Guerre e Nicoletta Bourbaki)

INDICE

1. Pietà per la nazione?

2. Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

3. Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto»

4. Due parole in più su questo “network”

5. Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

6. Ma sempre Pasolini? Come mai?

Lo psichiatra di destra e personaggio televisivo Alessandro Meluzzi è solo uno dei tanti diffusori del meme che vedete qui sopra. È composto da una delle più celebri foto di Pier Paolo Pasolini e da una traduzione italiana di Pity The Nation, componimento di Lawrence Ferlinghetti, 99 anni, poeta e scrittore, libraio ed editore, esponente di spicco e mentore della Beat Generation, pilastro della letteratura e della controcultura americana del XX secolo. Un libertario che si è sempre espresso contro ogni nazionalismo, bigottismo, razzismo e ha scritto: «I am waiting for the final withering away of all governments» [Attendo la scomparsa definitiva di ogni governo]. Nel meme, la poesia è però firmata «P. P. P.». Meluzzi, poi, l’introduce con una balzana domanda retorica: «Anche Pasolini era fascista?» Il senso sembra essere: voi che chiamate “fascista” chi ama la propria nazione, beccatevi questa poesia di Pasolini contro chi non la ama! Vale a dire: se hanno letto la poesia (cosa di cui dubito), l’hanno capita esattamente al contrario. Diamole un’occhiata.

Pietà per la nazione?

Ferlinghetti scrisse Pity The Nation nel 2007, ultimo anno dell’amministrazione Bush Jr. Un’epoca segnata a fondo dalla «War on Terror», dal liberticida Patriot Act, da imperialismo e militarismo imbellettati con la retorica sull’«esportare la democrazia», dalle torture nel carcere di Abu Ghraib, dalle detenzioni illegali nella base di Guantanamo (che peraltro proseguono). La poesia rimane attualissima. Al titolo si accompagna una specificazione tra parentesi: «(After Kahlil Gibran)», che potremmo rendere con «Alla maniera di Kahlil Gibran». La poesia, infatti, è anche un omaggio al grande poeta libanese-americano morto nel 1931. È costruita su un’anafora, figura retorica che consiste nel cominciare ogni frase con la stessa parola o sequenza di parole. L’anafora «Pity the nation» — che sarebbe più corretto tradurre con «compatite la nazione» o «commiserate la nazione» — si trova nel libro postumo di Gibran Il giardino del profeta (1933), nel quale il profeta Almustafa, «l’eletto e l’amato», pronuncia un sermone di questo tenore:

«Compatite la nazione il cui uomo di stato è un furbo, il cui filosofo è un giocoliere e la cui arte è l’arte del raffazzonare e dello scimmiottare». [Se volessimo fare il giochino ozioso delle allegorie a chiave retroattive, tradurremmo: compatite la nazione dove al governo c’è Salvini, dove l’intellettuale organico è Fusaro e dove si fabbricano memi con false citazioni.]

Ecco il testo completo, in inglese, della poesia di Ferlinghetti, con mia traduzione di ogni strofa.

«PITY THE NATION»

(After Khalil Gibran)

Pity the nation whose people are sheep And whose shepherds mislead them

(Compatite la nazione il cui popolo è un gregge che i suoi pastori mal conducono)

Pity the nation whose leaders are liars Whose sages are silenced And whose bigots haunt the airwaves

(Compatite la nazione i cui capi sono bugiardi e i cui saggi sono messi a tacere e i cui bigotti infestano le frequenze radio e tv)

Pity the nation that raises not its voice Except to praise conquerers And acclaim the bully as hero And aims to rule the world By force and by torture

(Compatite la nazione che non alza la voce se non per lodare i conquistatori e acclamare il bullo come eroe e punta a dominare il mondo con la forza e con la tortura)

Pity the nation that knows No other language but its own And no other culture but its own

(Compatite la nazione che non conosce altra lingua che la propria e altra cultura che la propria)

Pity the nation whose breath is money And sleeps the sleep of the too well fed

(Compatite la nazione il cui fiato è denaro e dorme il sonno del troppo ben pasciuto)

Pity the nation oh pity the people who allow their rights to erode and their freedoms to be washed away My country, tears of thee Sweet land of liberty!

(Compatite la nazione, oh, compatite la gente che lascia erodere i propri diritti e spazzare via le proprie libertà. Mio paese, lacrime per te dolce terra di libertà!)

Gli ultimi due versi sono ironici, parodiano la canzone patriottica My Country, ‘Tis Of Thee [Paese mio, parlo di te], scritta da Samuel Francis Smith nel 1831 e rimasta per un secolo inno nazionale ufficioso degli USA, finché nel 1931 non fu imposto per legge Star Spangled Banner. In questo finale Ferlinghetti si autocita, perché il verso «My country, tears of thee» lo aveva già usato nella sua raccolta più famosa, A Coney Island Of The Mind (1958), per la precisione nella poesia Junkman’s Obbligato.

Dovrebbe risultare evidente a chiunque che Pity The Nation non esprime alcun «amore per la nazione», né veicola alcunché di «sovranista» o che altro. Ferlinghetti, del resto, ha definito il nazionalismo «la superstizione idiota che può far saltare in aria il mondo», e in una celebre intervista rilasciata a Robert Dana ha detto: «I nazionalismi devono scomparire. Sono i postumi barbarici di tempi antichi.» Perché usare questa poesia per inventarsi un Pasolini nazionalista? Pasolini una poesia dedicata alla sua nazione la scrisse, si intitola proprio Alla mia nazione, ed è difficilmente appropriabile dai “sovranisti”: negli ultimi versi si augura che l’Italia, paese di «milioni di piccoli borghesi come milioni di porci», sprofondi in mare e «liberi il mondo». Eccola musicata dal gruppo metal bolognese Malnàtt: Ma l’uso di memi pseudo-pasoliniani come pezze d’appoggio per discorsi di destra, nazionalisti, a volte razzisti e tout court fascisti, non si limita a questo caso.

Ancora il tormentone del «Caro Alberto»

Nei giorni scorsi qualcuno ha provato a rimettere in circolazione il meme del «Caro Alberto», del quale ci siamo occupati un mese fa. Si tratta di una frase che Pasolini non ha mai scritto né pronunciato, inventata di sana pianta nel gennaio 2017, circolante con la dicitura «Lettera di Pasolini a Moravia, 1973». 

La bufala anti-antifascista del «Caro Alberto», riproposta dalla pagina FB Fronte dei Popoli il 4 luglio 2018. Su questa pagina e sul milieu di cui fa parte, si veda sotto.

Nel mio articolo su Internazionale facevo notare che:

la frase non si trova in nessun punto dell’opera omnia di Pasolini;

nel 1973 la polemica pasoliniana sul «nuovo fascismo della società dei consumi» non era ancora cominciata;

l’espressione «arma di distrazione» non era in uso nell’Italia degli anni Settanta;

soprattutto, ricostruendo il contesto, dimostravo che Pasolini non avrebbe mai potuto scrivere una frase così, perché se è vero che individuava il «nuovo fascismo» nel consumismo, è altrettanto vero che non sottovalutò mai la violenza dei neofascisti. Come avrebbe potuto, lui che diverse volte l’aveva subita? Pasolini, in quegli anni, non solo non condannò mai le manifestazioni antifasciste, ma chiamò più volte i fascisti «assassini» e li additò come esecutori materiali di stragi e attentati. Nel marzo 1974, in un intervento poi incluso negli Scritti corsari, Pasolini chiamò a un «impegno totale» per il quale indicava «ragioni oggettive», tra le quali la necessità di difendersi dai «vecchi assassini fascisti che cercano la tensione non più lanciando le loro bombe, ma mobilitando le piazze in disordini in parte giustificati dal malcontento estremo». Dopo aver letto il mio pezzo, il blogger Yàdad de Guerre, in un commento pubblicato su Giap il 24 giugno scorso, ha ricostruito la genesi del meme, dimostrando che è nato in ambienti a cavallo tra neofascismo e rossobrunismo. Ripropongo qui la sua ricostruzione.

Chi ha fabbricato il meme del «Caro Alberto» di Yàdad de Guerre. Quando la farlocca citazione sull’antifascismo «rabbioso» attribuita a Pasolini cominciò a girare cercai di spiegarmela. Eppure, nonostante le varie spiegazioni che cercavo di darmi, una cosa non tornava mai, insieme alle parole «arma di distrazione»: l’uso dell’aggettivo «rabbioso». Avrebbe mai potuto Pasolini usare l’aggettivo «rabbioso» in quel modo, così sbrigativo e approssimativo? Non solo e non tanto per il film del 1963 intitolato La rabbia, ma anche per il documentario televisivo del 1966 realizzato da Jean-André Fieschi e intitolato Pasolini l’enragé, ossia Pasolini l’arrabbiato. In uno dei momenti del film, Pasolini parla apertamente del concetto di rabbia, associandola alla rivolta, alla rivoluzione, alla Resistenza, al marxismo. Dice chiaramente: «In fondo la Resistenza è stata una sorta di grande rabbia organizzata, organizzata e impiantata soprattutto sull’ideologia marxista». Questa sua definizione di «rabbia», cioè di motore primario per una rivoluzione condivisa (innanzitutto contro il fascismo e la borghesia, evidentemente), serve a Pasolini per spiegare la mancanza di “arrabbiati” nell’Italia degli anni Sessanta. Per il Pasolini intervistato da Fieschi, i giovani (borghesi) del tempo trovavano conforto in uno schema di critica già pronto ma invecchiato – invecchiato «come tutti gli schemi» – quello della Resistenza e della cultura marxista italiana. Uno schema che non funzionava più perché il tempo l’aveva reso borghese. Quindi, per Pasolini, l’arrabbiato (principalmente giovane) «sent[iva] immediatamente il dovere di non essere arrabbiato, ma rivoluzionario». Questo non vuol dire che Pasolini rinnegasse la rivoluzione, chiaramente. Voleva piuttosto indicare come il senso dell’essere rivoluzionario fosse stato svuotato, privato della rabbia come motore. Il “rivoluzionario” è qui associato a una forma di morale borghese, già sussunta dalla borghesia, tanto da permettere a certi «comunisti rivoluzionari italiani» di essere nient’altro che piccolo-borghesi «in doppio petto» schiacciati dai «dogmi» dell’ideologia marxista. Fin qui la lettura dell’antifascismo «rabbioso» potrebbe ancora trovare un suo senso, se non fosse che – come ricorda il titolo stesso del documentario – Pasolini rivendica la rabbia, la sua rabbia «non catalogabile», e precisa che l’arrabbiato ideale, il «meraviglioso arrabbiato della tradizione storica», è Socrate. Pasolini, a me pare, cerca cioè una strada per attualizzare e rinnovare la rabbia, renderla collettiva, cercando strumenti che portino alla rivolta e alla rivoluzione contro la borghesia. Questo non può voler dire disconoscere le forme di fascismo o la Resistenza. «Rabbioso» e «arrabbiato» hanno due significati differenti, ovviamente, ma proprio in questa differenza si è fondata la mia diffidenza nei confronti di quella citazione. Avrebbe mai potuto Pasolini usare la parola «rabbioso» nel 1973, lui che sul concetto di rabbia ci aveva costruito un discorso nella metà degli anni ’60? Avrebbe mai potuto disconoscere la «rabbia! con tanto sdegno, medicalizzandola mi verrebbe da dire, sminuendola a una sorta di malattia animalesca e momentanea? Avrebbe potuto associare un antifascismo «rabbioso» alla classe dominante, se la rabbia è uno strumento (emotivo e politico) di azione che non fa gli interessi della borghesia? Avrebbe potuto Pasolini associare la rabbia, anche solo in una sua versione deformata, alla classe dominante che – si ricava dal suo ragionamento – mai potrebbe essere arrabbiata (e forse neanche «rabbiosa»)? Mi sono quindi concentrato sulle parole «antifascismo rabbioso» e le ho cercate ovunque nei testi di Pasolini che possiedo, nelle interviste e nei documentari. Non sono mai venute alla luce. Ho usato Google, ristretto i campi di ricerca. Quando è spuntata la prima volta quella citazione e quell’uso delle parole «antifascismo rabbioso» da parte di Pasolini? Prima del 29 gennaio 2017, non spunta nulla, da nessuna parte. In quel giorno, su Facebook si sono moltiplicati i post con la citazione: «Mi chiedo, caro Alberto…» accompagnata da foto di Pasolini e Moravia o di Pasolini e basta. Il più vecchio risultato che avevo ottenuto non è più online, ma era di un tale che lavora per il sito fascista Oltre la Linea (ho ancora l’URL, se mai qualcun* volesse controllare da sé). La citazione, però, non era riferita a una fantomatica lettera del 1973 a Moravia, bensì recitava: «Pier Paolo Pasolini ad Alberto Moravia, “Incontro con…”, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia». Cito qui, a mo’ d’esempio, l’uso che si modifica col tempo da parte di una stessa pagina Facebook, cioè La Via Culturale, «network» fondato da Alessandro Catto. Il 31 gennaio 2017, La Via Culturale pubblica la citazione con gli stessi riferimenti che ho dato prima. L’11 luglio 2017, in un attacco di rimozione mnemonica, la stessa pagina Facebook pubblica la stessa citazione con riferimenti più generici da un punto di vista temporale ma più precisi rispetto al momento: «Pier Paolo Pasolini in una discussione con Alberto Moravia». Non sappiamo più quando, ma sappiamo che c’era una discussione tra Pasolini e Moravia. Ancor meglio fa la pagina Facebook Il RossoBruno che, addirittura, scrive che la citazione deriverebbe da «Pierpaolo [sic] Pasolini ad Alberto Moravia, Incontro con Ezra Pound, Rubrica Rai 1973, Trasmesso da Rai Storia».

Che cosa c’entri Ezra Pound non è chiaro;

che cosa ci facesse Alberto Moravia tra Ezra Pound e Pier Paolo Pasolini e perché si parlasse di antifascismo italiano è un non-sense;

come Ezra Pound potesse nel 1973 essere vivo, quand’è morto nel 1972, resta un miracolo divino;

perché un’intervista di Pasolini a Pound del 1967 sia celebre e discussa ancora oggi e una rubrica RAI con Pound, Pasolini e presumibilmente Moravia del 1973 non la conosca nessuno è un mistero.

Comunque sia, il 29 gennaio 2017 su RaiStoria, in tempi coincidenti con le prime apparizioni della citazione, andava in onda Italiani con Paolo Mieli. Forse la puntata dedicata ad Alberto Moravia, «Appunti di viaggio», in cui effettivamente si parla dello scontro intellettuale tra Moravia e Pasolini ma, ovviamente, mai si citano quelle esatte parole. Né, a scanso di equivoci, se ne trova traccia nell’episodio dedicato a Pasolini stesso, «Il santo infame», recuperabile tranquillamente sul web. Dicembre 2017: dopo l’invenzione e “tornitura” della falsa frase di Pasolini, Antonio Marras la riprende sul Secolo d’Italia, ex-organo ufficiale del MSI, oggi sito crivellato di pubblicità. Sarà, invece, Antonio Marras per Il Secolo d’Italia a trasformare la citazione in uno stralcio di lettera, il 12 dicembre 2017, quando — già da qualche mese — aveva cominciato a strabordare fuori da Facebook per via del disegno di legge contro la propaganda fascista, il cosiddetto DDL Fiano. Da quel momento in particolare, la citazione ha cominciato a viaggiare da sé perché, tanto, chi va a controllare le lettere di Pasolini, anche quelle non raccolte e pubblicate da Nico Naldini? (Disclaimer: non esiste alcuna lettera scritta da Pasolini a Moravia che contenga quelle parole.) Una cosa è certa, in tutto questo: non solo nessun@ ha compiuto mai alcun lavoro di ricerca per portare alla luce la citazione (che su internet non si trova se non in forme ridicole), ma soprattutto nessun@ si è preso la briga di insegnare a Matteo Salvini che cos’è, davvero, la rabbia.

Due parole in più su questo «network»

Abbiamo visto che il meme del «Caro Alberto», prima di essere ripreso dal Secolo d’Italia, è circolato per mesi e ha preso la sua forma odierna in un certo arcipelago di blog e pagine Facebook. Descriviamolo brevemente. Oltre La Linea, Giano Bifronte e Azione culturale sono sigle riconducibili allo stesso progetto rossobruno. Il simbolo è Giano che guarda sia a destra sia a sinistra. Un altro simbolo ricorrente è la bandiera dell’Eurasia, progetto geopolitico caro ai rossobruni e teorizzato principalmente dal guru russo Aleksandr Dugin. Animatore di Oltre La Linea (che è solo un altro nome di Giano Bifronte) è almeno fino al maggio 2017 tale Luigi Ciancio, che oggi su Facebook si firma «Luigi Cianciox». 

Alessandro Catto

Azione Culturale — come dichiarano loro stessi  —  è stata formata da Giano Bifronte e La Via Culturale (già La Via Culturale al Socialismo), blog “sovranista” gestito da Alessandro Catto sul sito de Il Giornale.

A quanto sembra, la “mente” è Catto. Tanto per capirci, Catto, per conto di Azione Culturale, ha intervistato Simone Di Stefano di Casapound per cercare una sinergia tra “comunismo” e fascismo. Ecco uno stralcio dell’intervista: 

Simone Di Stefano

Lei è aperto ad un dialogo con formazioni coerentemente comuniste che si rifanno alle esperienze di governo del socialismo reale, per come abbiamo imparato a conoscerle nel ‘900? Se sì, su quali temi? 

«Come detto precedentemente la base del dialogo deve essere il riconoscimento della nazione Italia, l’esistenza dei suoi confini e del suo popolo. I temi possono essere la critica al liberismo, la lotta alla globalizzazione e tanti altri. Resta un fatto: siamo incompatibili con l’idea di abolizione della proprietà privata e della esclusiva proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Il fine ultimo della nostra rivoluzione è la potenza della nazione Italia e di conseguenza la piena giustizia sociale […]» 

Stelio Fergola

Oltre a Ciancio e Catto, in relazione a tutto questo va menzionato Stelio Fergola, direttore responsabile e co-fondatore di Azione Culturale, Oltre la Linea, ecc. Fergola è autore del libro L’inganno antirazzista, che ha pubblicato con Passaggio al bosco, casa editrice la cui impronta ideologica è chiarissima.

In questo milieu telematico troviamo anche Fronte dei Popoli, pagina Facebook attualmente gestita dal bolognese Dario Giovetti. Nel dicembre 2016 Fronte dei Popoli annunciava soddisfatto e ammiccante «la nuova stagione di Azione Culturale».

Fronte dei Popoli condivide spesso contenuti delle pagine di Ciancio e Catto, come del resto fa Ufficio Sinistri, pagina FB gestita dal sanremese Roberto Vallepiano, autore di un libro dallo stesso titolo. Vallepiano condivide e commenta favorevolmente contenuti di Ciancio, Catto e Giovetti, che a loro volta condividono e commentano favorevolmente le prese di posizione di Vallepiano.

Il campionario ha poco di sorprendente: contro l’immigrazione, il complotto di Soros, chiudere i porti alle ONG, la sinistra “buonista”, la nazione ecc. Il tutto ornato di specchietti rossi, per le allodole che volano nei dintorni.

Attualmente, la vecchia pagina Facebook di Azione Culturale rimanda a Il Mondo Nuovo.

Da quest’arcipelago di siti e pagine FB, come dimostrato nei dettagli da Nicoletta Bourbaki, è partita anche la diffusione di una falsa frase di Samora Machel contro i migranti.

In costante interazione con tutte queste pagine è il sito rossobruno L’Antidiplomatico.

Si incazzino pure, descrivano il paragrafo che avete appena letto come una «lista di proscrizione». È la reazione standard ogni volta che qualcuno, fuori e contro una certa omertà «tra compagni», ha l’onestà di fare nomi e cognomi.

I rossobruni non sono miei compagni, perché, molto semplicemente, non sono compagni.

Scritti corsari fa ormai più danni delle cavallette

Il meme del «Caro Alberto» è stato riproposto il 4 luglio — insieme ad altre citazioni pasoliniane formalmente corrette ma decontestualizzate — da Fronte dei Popoli, evidentemente non contento della figuraccia appena rimediata con la frase falsa di Samora Machel.

Quando gli è stato fatto notare — a un certo punto anche da Nicoletta Bourbaki  — che pure quella frase era un fake, per giunta “debunkato” settimane prima, Giovetti ha arrampicato specchi unti, ha più volte citato come “fonte” il — per la precisione: dato la colpa al  —  Secolo d’Italia, infine si è “incantato”, come un vinile graffiato, a ripetere «anche Wu Ming 1 ha detto che la frase era verosimile!». Una balla presto ripetuta a pappagallo da altri commentatori. 

Due esempi tra i molti rinvenibili sulla pagina Facebook «Fronte dei Popoli».

Ovviamente, costoro si sono ben guardati dal riportare il passaggio del mio articolo in cui la parola «verosimile» compariva. Ebbene, lo faccio io, con tanto di sottolineature for dummies. 

Clicca per leggere l’articolo completo Pasolini e il neofascismo come merce.

Vorrei però soffermarmi sulla cosa più interessante scritta dall’amministratore di Fronte dei Popoli: secondo lui Pasolini

«in “Scritti corsari”, come del resto nell’editoriale per il “Corriere della Sera” “il fascismo degli antifascisti” esprimere [sic] concetti che risultano assolutamente compatibili con quelli della citazione di cui stiamo parlando».

Abbiamo già spiegato che non è così: gli Scritti corsari contengono molte condanne della violenza neofascista, e i neofascisti vi sono chiamati più volte «sicari», «assassini» e quant’altro. Basterebbe leggere l’intero libro, anziché ravanare nel web in cerca di virgolettati. Addirittura, nell’intervento intitolato «Fascista», incluso nella sezione «Documenti e allegati», Pasolini dice che la violenza dei neofascisti suoi contemporanei è peggiore di quella del vecchio regime mussoliniano: «Vent’anni di fascismo credo che non abbiano mai fatto le vittime che ha fatto il fascismo di questi ultimi anni. Cose orribili come le stragi di Milano, di Brescia, di Bologna [quella del treno Italicus, N.d.R.] non erano mai avvenute in vent’anni. C’è stato il delitto Matteotti certo, ci sono state altre vittime da tutte due le parti, ma la prepotenza, la violenza, la cattiveria, la disumanità, la glaciale freddezza dei delitti compiuti dal 12 dicembre del 1969 in poi non s’era mai vista in Italia.» Pasolini sbagliava: il fascismo “storico” di stragi ne aveva fatte eccome, non solo all’estero ma anche in Italia, e anche prima della RSI. Basti dire che era andato al potere sull’onda del terrorismo squadrista, che aveva ucciso mezzo migliaio di persone e ne aveva ferite migliaia.

Il punto, tuttavia, non è questo: il punto è che negli Scritti corsari Pasolini non sminuisce mai la violenza dei neofascisti, anzi, delle due la accentua.

Il commento di Fronte dei Popoli contiene altri sfondoni:

quello uscito sul Corriere il 16 luglio 1974 non era un «editoriale»;

sul giornale l’articolo si intitolava «Apriamo un dibattito sul caso Pannella»;

nel testo l’espressione «fascismo degli antifascisti» non compariva mai;

l’oggetto della critica non erano affatto gli antifascisti tout court bensì i sedicenti «antifascisti» che stavano al governo e sedevano in parlamento, colpevoli di non accogliere alcune richieste di Marco Pannella che digiunava da settanta giorni.

Se non si fosse fermato alla parola «verosimile» e avesse letto il mio pezzo per intero, Giovetti queste cose le saprebbe: sono spiegate in un apposito paragrafo, intitolato proprio «L’equivoco sul “fascismo degli antifascisti”». Problemi ed equivoci, ad ogni modo, sono a monte, e conviene esporli con la massima chiarezza. Il primo riguarda specificamente Pasolini, o meglio: la sua ricezione nell’Italia di oggi. Scritti corsari è una raccolta di articoli di giornale e interventi estemporanei risalenti a quasi mezzo secolo fa. Il libro è pieno zeppo di riferimenti alla cronaca e alla situazione politica di quei giorni, di allusioni oggi indecifrabili ai più, di nomi e cognomi oggi ricordati da pochissime persone. Il senso di molti interventi può essere ricostruito solo con la loro, spesso faticosa, ricontestualizzazione. Non solo del libro manca un’edizione critica, ma è stato eternato, pietrificato dalla morte e dalla santificazione post mortem di Pasolini, ergo continua a essere ristampato e a tornare in libreria completamente fuori contesto e come una sorta di «libro sacro». Posizioni transitorie, che di certo l’autore avrebbe approfondito o superato, sono diventate comandamenti incisi su pietra. Formulazioni ambigue sono diventate corpi contundenti da usare nelle tenzoni di oggi. Se aggiungiamo che su alcuni fenomeni allora in corso Pasolini sbagliò clamorosamente il giudizio, non penso di esagerare se dico che Scritti corsari, suo malgrado, si è trasformato in qualcosa di molto simile a uno sciocchezzaio. L’altro problema è la generale ignoranza su cosa sia una fonte. 

– E dove starebbe ‘sta frase di Pasolini?

– Cosa credi, di cogliermi in castagna? Sta sul Secolo d’Italia!

Ieri, su Twitter, Benedetta Pierfederici ha citato una frase di Marc Bloch: Marc Bloch (1886 – 1944) «In tutti i casi in cui non si tratti dei liberi giochi della fantasia, un’affermazione non ha il diritto di presentarsi se non a condizione di poter essere verificata; per uno storico, se usa un documento, indicarne il più brevemente possibile la collocazione, cioè il modo di ritrovarlo, non equivale ad altro che a sottomettersi ad una regola universale di probità. Avvelenata dai dogmi e dai miti, la nostra opinione, anche la meno nemica dei “lumi”, ha perduto persino il gusto del controllo. Il giorno in cui noi, avendo prima avuto cura di non disgustarla con una vana pedanteria, saremo riusciti a persuaderla a misurare il valore di una conoscenza dalla sua premura di offrirsi in anticipo alla confutazione, le forze della ragione riporteranno una delle loro più significative vittorie.» (Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998, pp. 68-69)

Benedetta aggiungeva: «Cosa significa “poter essere verificata”? Significa che chi presenta, ad esempio, una citazione deve rintracciarne e poi dirne l’origine (la fonte, appunto). Chi legge la citazione deve poter rifare la strada a ritroso e, se necessario, confutarla. Se chiedo conto di una citazione “Pasolini a Moravia”, la fonte non è un articolo online o un blog o un tweet. La fonte è il documento che contiene la citazione. È faticoso trovare le fonti e presentarle? Il più delle volte, in effetti, lo è. Risalire la corrente, evitare le rapide, non perdersi negli affluenti… Ma non ci sono altri modi per procedere nella conoscenza.» Dovrebbe essere l’ABC, ma non lo è, per tanti motivi. Per questo Nicoletta Bourbaki ha scritto il suo “manuale” su come riconoscere le bufale, intitolato Questo chi lo dice? E perché?

Ma sempre Pasolini? Come mai?

Pasolini, lo abbiamo visto, non è l’unico intellettuale di sinistra morto e impossibilitato a difendersi il cui pensiero viene decontestualizzato, distorto, falsificato. Ma è di gran lunga il più utilizzato. Perché? Ripropongo qui, per discuterne insieme, uno spunto di riflessione risalente a qualche mese fa, quando il lavoro di debunking del Pasolini «anti-antifascista» era ancora agli inizi. «Prima o poi andrà ricostruita la genealogia di quest’utilizzo di Pasolini come auctoritas per ogni stagione e occasione. Un processo di lungo corso che, banalizzandone l’opera e la figura, lo ha trasformato in fashion icon per ipse dixit pronti da indossare. Di sicuro c’entra la sua “santificazione” dopo il martirio, ma non basta a spiegare tutto. C’entra anche la contraddittoria complessità del suo percorso, unita all’oltraggiosità di molte sue prese di posizione. E c’entra il suo modo di esprimersi, il suo “senso della frase” […] Il contesto discorsivo costruito da Pasolini è un campo di tensioni, un vasto reticolo di corde tese all’estremo, a collegare vari temi, concetti, momenti. Corde sempre sul punto di spezzarsi. Seguendole con lo sguardo si trovano vere e proprie “rime narrative” e tematiche, ed è ciò che più affascina nell’installazione. Ma c’è anche un aspetto spaventoso: si capisce che per snaturare un’affermazione di Pasolini basta davvero pochissimo. Il modo più facile di snaturarla è dire, su qualunque argomento: “Pasolini la pensava così, punto”.» Questo punto, che rende perentorie affermazioni spesso insensate, toccherà ogni volta farlo saltare, finché, un giorno, non smetteranno di usare Pasolini, e si concentreranno su qualcun altro. Noi dobbiamo restare vigili.

Nel suo The Mexican Night Ferlinghetti si fa una domanda che vale la pena riproporre: «From which way will the fascists come this time, baby?»

“Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)”, di Alessandro Viola il 13 maggio 2021 su centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it. Tra i libri dedicati a Pier Paolo Pasolini usciti nel corso del 2020 non si può non ricordare l’interessante volume di Alessandro Viola intitolato Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975), pubblicato a maggio dalla casa editrice Mimesis. «Il fascismo secondo Pasolini (1942-1975)», di Alessandro Viola (Mimesis, 2020). La riflessione pasoliniana sul fascismo è complessa, peculiare, controversa. Complice la natura letteraria del suo linguaggio, Pasolini è diventato in tempi recenti un’autorità ambigua, contesa e rivendicata, a colpi di citazioni, dalle parti politiche più varie. Questo lavoro si propone di affrontare tale ambiguità, comprendendola. Che cosa pensava Pasolini del fascismo, vecchio e nuovo? E che cosa pensava dell’antifascismo e degli antifascisti del suo tempo? Il saggio cerca di rispondere a questi interrogativi calandoli all’interno del pensiero e della poetica dell’autore, a partire dai primi contributi giornalistici degli anni Quaranta, fino a culminare con gli interventi critici e polemici degli anni Settanta. Ne viene fuori una genealogia a tutto tondo della riflessione pasoliniana, che contempla tanto la natura intimamente letteraria quanto l’ispirazione politica della sua prospettiva. Il volume che è dedicato “A Guido Pasolini, caduto durante la Resistenza; e al nostro Guido, che ancora resiste” si apre con, in exergo, un brano della “celebre” lettera che Pasolini avrebbe scritto ad Alberto Moravia nel 1973: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda”. Questo presunto brano pasoliniano, che è stato usato perfino da Matteo Salvini in un suo comizio del 24 febbraio 2018 in piazza Duomo a Milano, sempre più frequentemente viene citato dalla destra in modo strumentale per minimizzare la portata della violenza squadristica e razzista di questi ultimi tempi. In realtà l’autore di questo lavoro svela, dopo aver setacciato i tanti scritti pasoliniani ed in particolare l’epistolario pubblicato da Einaudi nel 1988 per la cura di Nico Naldini, l’inesistenza di tale lettera a Moravia. Affermazione che trova ulteriore conferma in un articolo apparso su “L’Internazionale” dal titolo Pasolini, Salvini e il neofascismo come merce, dove il collettivo Wu Ming 1 è in grado di dimostrare, dopo un’attenta analisi linguistica, che si tratta di una citazione assolutamente falsa. Alessandro Viola nel suo approfondito studio cerca anche di mettere in guardia il lettore dal rischio che anche chi cerca di dimostrare l’antifascismo intransigente di Pasolini finisce per trascurare il rigore nell’analisi dei suoi testi. Per questo motivo l’autore ha scelto di analizzare i testi e il suo autore calandoli all’interno della cornice storica corrispondente, tentando in questo modo di far emergere la visione che Pasolini ha del fascismo il più possibile in stretta aderenza con i testi considerati. Il volume si suddivide in due ampi capitoli: nel primo, intitolato “Le due strade che sole potevano portarmi all’antifascismo (1942-1948)”, si cerca di dare una panoramica della formazione culturale di Pasolini, e della sua prima opposizione al fascismo. Nel secondo capitolo, “Il fascismo secondo Pasolini”, si entra nel cuore dell’analisi pasoliniana introducendo anche il nuovo punto di vista che assimila il nuovo fascismo alla mutazione antropologica in atto causata dal consumismo e dalla nuova cultura edonistica imperante. L’autore in conclusione pone l’attenzione sui versi bilingui della poesia Saluto e Augurio contenuta nella raccolta La nuova gioventù (1975) dove si rivolge ad un giovane ragazzo fascista come già aveva fatto nel testo teatrale Bestia da stile (1974). – Alessandro Viola è dottorando di ricerca all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Si occupa di Storia culturale e di Letteratura italiana moderna e contemporanea. 

Ma Pasolini non stava con i poliziotti. Il 1° marzo ’68 gli scontri di Valle Giulia che gli ispirarono la famosa (e fraintesa) poesia contro gli studenti borghesi. Giovanni De Luna l'1 Marzo 2018 modificato il 16 Giugno 2019 su La Stampa. Si è aperto una sorta di supermarket Pasolini. Ognuno prende dai suoi lavori quello che gli serve: brandelli di frasi, spezzoni di poesie, piegando le argomentazioni pasoliniane alle proprie strumentalizzazioni, distorcendone il senso, in un’operazione che somiglia molto al modo in cui oggi si confezionano le fake news. Ma fu così anche 50 anni fa, quando ancora non c’era la Rete con le sue bufale. Fu subito dopo gli scontri di Valle Giulia, infatti, che Pasolini pubblicò, sull’Espresso del 16 giugno, la sua poesia Il Pci ai giovani. L’emozione suscitata dalle botte che erano volate il 1° marzo 1968 tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura era stata molto forte: dai moti antifascisti del luglio ’60 in poi, mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica. Mentre lo stesso movimento studentesco si mostrava come sbigottito dalla radicalità degli scontri e dalla sua stessa capacità di reazione, Pasolini sentì il bisogno di prendere posizione rispetto a una situazione politica che presentava aspetti largamente inediti. Lo fece a modo suo, con una poesia che oggi come allora appare tutta immediatezza e spontaneità. Una poesia lunga che, nel discorso pubblico, fu precipitosamente etichettata come una invettiva contro gli studenti e una difesa dei poliziotti. L’invettiva c’era, esplicita fragorosa: «siete paurosi, incerti, disperati […] ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri». E c’era anche la scelta a favore degli agenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti». Ma se non ci si ferma a questi versi e si legge il seguito della poesia…I versi che Pasolini dedica ai poliziotti sono esattamente questi: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)». Vestiti come pagliacci, umiliati dalla perdita della qualità di uomini: no, Pasolini non «sta con i poliziotti», e non poteva essere altrimenti, viste le persecuzioni a cui era continuamente sottoposto. In quel momento, Pasolini sta con il Pci e sta con gli operai. E quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il Pci e verso gli operai. Quando questo succederà, l’anno dopo, nel 1969, quello dell’autunno caldo, Pasolini accetterà di fare un film sulla strage del 12 dicembre, quella di piazza Fontana, insieme con i giovani di Lotta Continua. Ma questo nessuno lo ricorda. Così come vengono ignorate le sue argomentazioni su fascismo e antifascismo, tanto da permettere a Salvini, in un comizio, di «usare» il poeta friulano per svelare «l’impostura» dell’antifascismo, tenuto in vita dalle sinistre per far dimenticare «i veri problemi del paese». Il ragionamento pasoliniano del 1974, quello da cui nascono le citazioni di Salvini, scaturiva dalla constatazione del successo ottenuto da due «rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale, provocando un tramestìo che aveva colpito in alto come in basso, ridefinendo contemporaneamente gli assetti del potere e quelli dei suoi antagonisti. Il nuovo Potere, nonostante le parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo e appariva, «se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia, una forma totale di fascismo al cui confronto il vecchio fascismo, quello mussoliniano, è un paleofascismo». «Nessun centralismo fascista», aggiungeva Pasolini, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole […]. Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati - l’abiura è compiuta -, si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana». Per Pasolini c’era un nemico esplicito anche in questo caso: ed era il mercato, con la sua logica implacabile di «religione dei consumi»; esattamente quella che ha permesso alla Lega di avanzare con successo la sua proposta agli italiani di sentirsi tutti «figli dello stesso benessere», portando a termine la parabola «dalla solidarietà all’egoismo» che Pasolini aveva intravisto e aveva cercato inutilmente di contrastare.

Pier Paolo Pasolini. Lo ricordiamo con questo articolo per l'interpretazione autentica, scritto per il Corriere della Sera il 24 giugno 1974, che fa parte dei famosi scritti corsari. Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975). «Che cos’è la cultura di una nazione? Correntemente si crede, anche da parte di persone colte, che essa sia la cultura degli scienziati, dei politici, dei professori, dei letterati, dei cineasti ecc.: cioè che essa sia la cultura dell’intelligencija. Invece non è così. E non è neanche la cultura della classe dominante, che, appunto, attraverso la lotta di classe, cerca di imporla almeno formalmente. Non è infine neanche la cultura della classe dominata, cioè la cultura popolare degli operai e dei contadini. La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse. E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere. A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Scrivo “Potere” con la P maiuscola – cosa che Maurizio Ferrara accusa di irrazionalismo, su «l’Unità» (12-6-1974) – solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale). Conosco, anche perché le vedo e le vivo, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo”: produrre e consumare. L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderati”, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà – se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia – una forma “totale” di fascismo. Ma questo Potere ha anche “omologato” culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre. La strategia della tensione è una spia, anche se sostanzialmente anacronistica, di tutto questo. Maurizio Ferrara, nell’articolo citato (come del resto Ferrarotti, in « Paese Sera », 14-6-1974) mi accusa di estetismo. E tende con questo a escludermi, a recludermi. Va bene: la mia può essere l’ottica di un «artista», cioè, come vuole la buona borghesia, di un matto. Ma il fatto per esempio che due rappresentanti del vecchio Potere (che servono però ora, in realtà, benché interlocutoriamente, il Potere nuovo) si siano ricattati a vicenda a proposito dei finanziamenti ai Partiti e del caso Montesi, può essere anche una buona ragione per fare impazzire: cioè screditare talmente una classe dirigente e una società davanti agli occhi di un uomo, da fargli perdere il senso dell’opportunità e dei limiti, gettandolo in un vero e proprio stato di «anomia». Va detto inoltre che l’ottica dei pazzi è da prendersi in seria considerazione: a meno che non si voglia essere progrediti in tutto fuorché sul problema dei pazzi, limitandosi comodamente a rimuoverli. Ci sono certi pazzi che guardano le facce della gente e il suo comportamento. Ma non perché epigoni del positivismo lombrosiano (come rozzamente insinua Ferrara), ma perché conoscono la semiologia. Sanno che la cultura produce dei codici; che i codici producono il comportamento; che il comportamento è un linguaggio; e che in un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza. Per tornare così all’inizio del nostro discorso, mi sembra che ci siano delle buone ragioni per sostenere che la cultura di una nazione (nella fattispecie l’Italia) è oggi espressa soprattutto attraverso il linguaggio del comportamento, o linguaggio fisico, più un certo quantitativo – completamente convenzionalizzato e estremamente povero – di linguaggio verbale. È a un tale livello di comunicazione linguistica che si manifestano: a) la mutazione antropologica degli italiani; b) la loro completa omologazione a un unico modello. Dunque: decidere di farsi crescere i capelli fin sulle spalle, oppure tagliarsi i capelli e farsi crescere i baffi (in una citazione protonovecentesca); decidere di mettersi una benda in testa oppure di calcarsi una scopoletta sugli occhi; decidere se sognare una Ferrari o una Porsche; seguire attentamente i programmi televisivi; conoscere i titoli di qualche best-seller; vestirsi con pantaloni e magliette prepotentemente alla moda; avere rapporti ossessivi con ragazze tenute accanto esornativamente, ma, nel tempo stesso, con la pretesa che siano «libere» ecc. ecc. ecc.: tutti questi sono atti culturali. Ora, tutti gli Italiani giovani compiono questi identici atti, hanno questo stesso linguaggio fisico, sono interscambiabili; cosa vecchia come il mondo, se limitata a una classe sociale, a una categoria: ma il fatto è che questi atti culturali e questo linguaggio somatico sono interclassisti. In una piazza piena di giovani, nessuno potrà più distinguere, dal suo corpo, un operaio da uno studente, un fascista da un antifascista; cosa che era ancora possibile nel 1968. I problemi di un intellettuale appartenente all’intelligencija sono diversi da quelli di un partito e di un uomo politico, anche se magari l’ideologia è la stessa. Vorrei che i miei attuali contraddittori di sinistra comprendessero che io sono in grado di rendermi conto che, nel caso che lo Sviluppo subisse un arresto e si avesse una recessione, se i Partiti di Sinistra non appoggiassero il Potere vigente, l’Italia semplicemente si sfascerebbe; se invece lo Sviluppo continuasse così com’è cominciato, sarebbe indubbiamente realistico il cosiddetto «compromesso storico», unico modo per cercare di correggere quello Sviluppo, nel senso indicato da Berlinguer nel suo rapporto al CC del partito comunista (cfr. «l’Unità », 4-6-1974). Tuttavia, come a Maurizio Ferrara non competono le «facce», a me non compete questa manovra di pratica politica. Anzi, io ho, se mai, il dovere di esercitare su essa la mia critica, donchisciottescamente e magari anche estremisticamente. Quali sono dunque i miei problemi? Eccone per esempio uno. Nell’articolo che ha suscitato questa polemica («Corriere della sera», 10-6-1974) dicevo che i responsabili reali delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana: perché se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero state. È un luogo comune. Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla:

1) perché parlare di « Strage di Stato » non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì;

2) (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza.

In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. Ma nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla, e si sono gettati a capofitto nell’orrenda avventura per semplice disperazione. Ma non potevamo distinguerli dagli altri (non dico dagli altri estremisti: ma da tutti gli altri). È questa la nostra spaventosa giustificazione. Padre Zosima (letteratura per letteratura!) ha subito saputo distinguere, tra tutti quelli che si erano ammassati nella sua cella, Dmitrj Karamazov, il parricida. Allora si è alzato dalla sua seggioletta ed è andato a prosternarsi davanti a lui. E l’ha fatto (come avrebbe detto più tardi al Karamazov più giovane) perché Dmitrj era destinato a fare la cosa più orribile e a sopportare il più disumano dolore. Pensate (se ne avete la forza) a quel ragazzo o a quei ragazzi che sono andati a mettere le bombe nella piazza dì Brescia. Non c’era da alzarsi e da andare a prosternarsi davanti a loro? Ma erano giovani con capelli lunghi, oppure con baffetti tipo primo Novecento, avevano in testa bende oppure scopolette calate sugli occhi, erano pallidi e presuntuosi, il loro problema era vestirsi alla moda tutti allo stesso modo, avere Porsche o Ferrari, oppure motociclette da guidare come piccoli idioti arcangeli con dietro le ragazze ornamentali, si, ma moderne, e a favore del divorzio, della liberazione della donna, e in generale dello sviluppo… Erano insomma giovani come tutti gli altri: niente li distingueva in alcun modo. Anche se avessimo voluto non avremmo potuto andare a prosternarci davanti a loro. Perché il vecchio fascismo, sia pure attraverso la degenerazione retorica, distingueva: mentre il nuovo fascismo – che è tutt’altra cosa – non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.

Pier Paolo Pasolini Il Potere senza volto, in Il Corriere della Sera (1974) in Scritti corsari, Garzanti, Milano (1975)

L'intervista del 74 a Pier Paolo Pasolini: "Oggi buona parte dell'antifascismo è ingenuo, stupido o in malafede". Massimo Fini il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Massimo Fini chiese il parere dello scrittore che sorprese tutti: "La società dei consumi è peggio del Regime". Mai come in questi anni in Italia si è sentita risuonare la parola «antifascista», insieme ai suoi due corollari «laico» e «democratico». Non c'è persona oggi in Italia (a parte i fascisti dichiarati) che non si proclami tutta insieme «laica, democratica e antifascista». Eppure mai come in questi anni la Repubblica è stata, al di là di certe apparenze permissive, percorsa da sindromi di intolleranza, di corporativismo, di antidemocrazia: di fascismo, infine, se fascismo significa anche la prepotenza del potere... Il fatto è che essere genericamente antifascista oggi in Italia non costa nulla, anzi spesso e volentieri paga. Ecco perché il termine è diventato ambiguo, si è consumato al punto da non voler dire quasi più nulla. Del resto è già abbastanza straordinario che a trent'anni dalla Resistenza e dalla caduta del regime si ragioni ancora in termini di fascismo e antifascismo. Questo vuol dire solo due cose: o che siamo rimasti perfettamente immobili e che trent'anni sono passati invano, o che dietro un certo antifascismo di maniera (che nulla ha a che vedere con l'antifascismo reale pagato di persona) si nascondono sotto mentite spoglie i vizi di ieri, le intolleranze, il conformismo, il servilismo di fronte al potere. Un «antifascismo» oltretutto pericoloso perché rischia con il suo conformismo e la sua intolleranza di fare dei fascisti reali dei martiri ingiustificati, e rischia di fare apparire quasi dalla parte della ragione chi ha indiscutibilmente torto. Da questi dubbi nasce la nostra inchiesta. Un'inchiesta, come si vede, delicata (l'accusa che ci verrà immediatamente rivolta, lo sappiamo, è di «fare il gioco delle destre»). Per questo abbiamo chiamato a rispondere a questi dubbi e a queste domande uomini della cui reale, antica e provata fede antifascista non è lecito dubitare.

PASOLINI: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. Partiamo dal recente film di Naldini: Fascista. Ebbene quel film, che si è posto il problema del rapporto fra un capo e la folla, ha dimostrato che sia quel capo, Mussolini, che quella folla sono due personaggi assolutamente archeologici. Un capo come quello oggi è assolutamente inconcepibile non solo per la nullità e per l'irrazionalità di quello che dice, per il nulla logico che sta dietro quello che dice, ma anche perché non troverebbe assolutamente spazio e credibilità nel mondo moderno. Basterebbe la televisione per vanificarlo, per ucciderlo politicamente. Le tecniche di quel capo andavano bene su di un palco, in un comizio, di fronte alle folle oceaniche, non funzionerebbero assolutamente su uno schermo a 22 pollici... Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo... Io credo, io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. E invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell'urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa bonaria e grassoccia società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un fascismo bello e buono. Nel film di Naldini noi abbiamo visto i giovani inquadrati, in divisa. Ma se noi guardiamo i giovani di oggi, anch'essi sono inquadrati, in divisa. Con una differenza però. Allora i giovani, nel momento stesso in cui si toglievano la divisa e riprendevano la strada verso i loro paesi e i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant'anni addietro, come prima del fascismo. Il fascismo in realtà li aveva resi dei pagliacci, li aveva repressi, e forse in parte anche convinti, ma non li aveva toccati sul serio nel fondo dell'anima, nel loro modo di essere. Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi, invece, ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell'intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all'epoca mussoliniana, di una irreggimentazione superficiale, scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato la loro anima. Il che significa, in definitiva, che questa civiltà dei consumi è una civiltà dittatoriale. Insomma se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo... Secondo me, la vera intolleranza è quella della società dei consumi, della permissività fatta cadere dall'alto, voluta dall'alto, che è la vera, la peggiore, la più subdola, fredda e spietata forma di intolleranza. Perché è intolleranza mascherata da tolleranza. Perché non è vera. Perché è revocabile ogni qualvolta il potere ne senta il bisogno. Perché è il vero fascismo da cui viene poi l'antifascismo di maniera: inutile, ipocrita, sostanzialmente gradito al regime. Se vogliamo fare dell'antifascismo sul serio noi non dobbiamo pronunciare nei confronti dei fascisti dei giudizi intellettuali o moralistici ma dei giudizi storici e politici. Non sono dei peccatori: sono dei nemici. Dei nemici di cui si deve tener conto, della cui cultura si deve tener conto. In questo senso gli intellettuali italiani di sinistra hanno delle gravissime colpe. Perché hanno sempre giudicato con sufficienza, con boria, con stupida superficialità la cultura di destra. Hanno sempre preferito ignorare la cultura di destra, chiudere gli occhi, basti pensare al caso clamoroso di Nietzsche. Le tesi di destra non vanno respinte a priori. Vanno giudicate. Perché, per quanto possa sembrare strano, i fascisti hanno un pensiero, una filosofia, una cultura. Che è una grande cultura che partecipa strettamente della cultura democratica e antifascista: perché il pensiero di Gentile è l'altra faccia di Croce. Perché la filosofia di Gentile la ritroviamo in Hegel. Ci si vergogna a dover spiegare ancora queste cose. Infine l'antifascismo, anche il più vero, anche quello vissuto e pagato sul campo non significa mancanza di misericordia. E voglio concludere col distico che Paul Éluard, poeta comunista, dedicò alle ragazze rapate a zero perché erano state con i nazisti: A quel tempo per non punire i colpevoli si rapavano delle ragazze». Massimo Fini

Moravia, uno scrittore passato dagli omissis all’oblio. Marcello Veneziani il  30 Settembre 2020 su La Verità. È passato quasi inosservato nei giorni scorsi il trentennale della morte di Alberto Moravia. Quando era in vita Moravia era lo Scrittore per antonomasia, l’Intellettuale civile impegnato, il personaggio pubblico. Veniva citato e omaggiato come un Classico vivente. La sua immagine era dappertutto, al centro dei dibattiti, punto di riferimento dell’Intellettuale Collettivo. Le sue prese di posizione, i suoi ritratti, come quello che gli fece Guttuso (nella foto), le sue pose, le sue donne – da Elsa Morante che grandeggia su di lui a Dacia Maraini che alla sua ombra prende corpo come scrittrice – i suoi reportage di viaggi, il cinema, la sua Sabaudia che fu la Capalbio ante litteram, il suo moralismo ideologico, il suo vibrante discorso alla morte di Pasolini. Tanti suoi libri diventarono film. Poi subito dopo la sua morte, il suo nome scomparve, i suoi libri pure, tutto apparve passato remoto e polveroso. Di lui restò solo il secondo cognome a Carmen Llera, l’ultima sua consorte. E un paio di folte sopracciglia grandeggianti come cespugli nei suoi ritratti.

Pasolini

Eppure si parlava e si parla ancora tanto del suo sodale PierPaolo Pasolini, morto molto prima di lui, si ripubblicano i suoi scritti, si ridiscutono le sue tesi; invece di Moravia si sono perse le tracce. Dimenticato. Ora, a trent’anni dalla morte, quasi coeva alla morte del Pci, è difficile risvegliare interesse intorno a lui. Eppure, nonostante tutto alcune sue opere, dagli Indifferenti, opera più che precoce, alla Noia e La Ciociara, hanno il respiro di testi significativi. Rispecchiano una condizione, riflettono un’epoca e un mondo. Moravia restò il prototipo dell’Intellettuale Impegnato, antifascista, vicino al Pci, di cui fu pure europarlamentare seppure “laico”.  La macchina del consenso che a volte è macchina dell’oblio, aveva dimenticato il suo primo libro pubblicato con la casa editrice di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, l’Alpes; e poi la lettera col cappello in mano che Moravia aveva scritto a Galeazzo Ciano, genero del duce e ministro, per rassicurarlo che il suo libro Le ambizioni sbagliate era “tutt’altro che antitetico alla Rivoluzione fascista”; aveva dimenticato le coperture fasciste assicurategli da suo zio Augusto de Marsanich, gerarca e viceministro ai tempi del regime e poi primo presidente dell’Msi nel dopoguerra; non ricordava che suo cugino antifascista Carlo Rosselli lo riteneva un esponente scettico ma verace della “nuova generazione fascista”.

Prezzolini

Si dimenticò di Prezzolini che ai tempi del fascismo lo aveva invitato alla Columbia University negli Stati Uniti per far conoscere i suoi romanzi in America e che il famigerato Minculpop lo reclutò per un viaggio di Cina degli intellettuali nazionali (che poi, sull’onda di Malaparte, diventerà anni dopo la sua infatuazione maoista). Nessuno ricordava più, ai tempi del suo antifascismo militante e del suo ruolo di vetrina, gli aiutini di regime e la protezione dello stesso Duce ai suoi “Indifferenti”. Nessuno ricordava più che per anni Alberto Moravia era stato nel dopoguerra il segretario personale dell’Arcitaliano Curzio Malaparte a partire dalla sua rivista Prospettive. Può essere ancora istruttivo scorrere libri come Intellettuali sotto due bandiere di Nino Tripodi o Camerata dove sei? di Claudio Quarantotto (che si firmava Anonimo Nero) per rendersi conto di lui e dei suoi tanti compagni di viaggio che voltarono gabbana. Col passare del tempo, Moravia era diventato “Il Conformista”, per citare il titolo di un suo libro, incarnava il Canone ideologico della cultura italiana. E dava la linea, sgridava gli eretici che non seguivano la linea progressista, marx-freudiana e filocomunista. Per esempio, nell’aprile del 1963 su L’Espresso Moravia rimproverava il compagno Pasolini per aver accettato di girare un film con Giovannino Guareschi un conservatore che era stato nel campo di concentramento nazista per la sua fedeltà al regno d’Italia.

Guareschi

Moravia scriveva che “in questi tempi ci accade di vergognarci degli altri, riferendosi a Guareschi e invitando Pasolini a non cadere nella “trappola”. Sei troppo candido per Guareschi, diceva Alberto a Pierpaolo, non contaminarti. E usava proprio l’espressione “candido” per alludere all’omonimo settimanale di battaglia di Guareschi. Divertente era il perbenismo di Moravia che accusava Guareschi di scrivere per una rivista “pornografica” che era poi Il Borghese, per via delle foto osé al centro della rivista. Eppure alla letteratura pornografica in salsa psicanalitica Moravia avrebbe presto dato i suoi contributi (per esempio il pessimo romanzo Io e lui, solo per fare un esempio, dove lui è il suo organo sessuale).

Certo, uno scrittore non si può ridurre al suo ruolo civile e alle sue amnesie, alle sue piccole viltà, ai suoi camaleontismi e alle sue opere peggiori. E gli scrittori in fondo vanno giudicati per le opere e non per la biografia o il mondo in cui si comportarono nella vita pubblica. Però è bene non dimenticare l’emisfero in ombra di Moravia, soprattutto quando tutti gli altri tendono a non ricordarsene. MV, La Verità

Il Pci si celebra Cento anni di menzogne. Alessandro Gnocchi il 19 Gennaio 2021 su Il Giornale. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Antonio Gramsci era un santo. Palmiro Togliatti un fior di riformista, sulla scia del socialista Filippo Turati. Il Partito comunista era non solo del Migliore (Togliatti, appunto), ma anche dei migliori, essendo i suoi elettori colti e moralmente irreprensibili. La svolta della Bolognina e la trasformazione in Partito democratico della sinistra fu una geniale intuizione di Giorgio Napolitano, e non di Achille Occhetto. Botteghe Oscure prese le distanze da Mosca un poco alla volta, ma con decisione, fin dal dopoguerra, quando scelse di partecipare al processo democratico. Budapest non è mai esistita. La Primavera di Praga, neppure. I Gulag sono un'invenzione della propaganda. L'Unione Sovietica era pacifista a differenza dei guerrafondai statunitensi. I dissidenti erano fascisti sotto mentite spoglie. Questo, a sommi capi, è il ritratto del Partito comunista italiano, nato cento anni fa con la scissione di Livorno, che abbiamo potuto leggere sui quotidiani, in pratica tutti, spesso in articoli firmati da... (ex?) comunisti. Massì. Non facciamo i bastian contrari a tutti i costi. È stupido ricordare fatti sgradevoli. San Gramsci disse che la piccola e media borghesia erano «la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente, con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè». Quindi proseguiva, con divino afflato, che la classe sociale in questione bisognava «espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco». Col ferro e col fuoco, che carino. Sul riformismo di Togliatti, sarebbe proprio cercare il pelo nell'uovo il voler ricordare queste parole del Migliore: «Nella persona e nell'attività di Filippo Turati si sommano tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina. Per questo la sua vita può bene essere presa come simbolo e, come un simbolo, anche la sua fine. L'insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è l'insegna del tradimento e del fallimento. Nella teoria Turati fu uno zero». Uno zero, dai Palmiro, non fare l'invidioso, sappiamo tutti (?) che in realtà Turati fu il tuo maestro. Quanto alla guerra di Liberazione, chiedere informazioni nel triangolo rosso e lungo il confine orientale: regolamento di conti a mano armata (quella comunista), brigate tradite e sotterrate (dai gappisti), infoibamenti (dai gappisti e dai compagni titini). La «svolta» democratica era tatticismo, voluto e ordinato da Mosca, che stava rafforzando la presa sull'Europa dell'Est e non poteva permettersi l'apertura di un fronte in Italia. In quanto alle posizioni del Partito comunista davanti all'ingresso dei carri armati in Ungheria, sono limpide. Ecco qua cosa scriveva Giorgio Napolitano: «L'intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l'Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo». Secondo l'Unità, gli insorti non erano socialisti in cerca di riforme ma «teppisti, spregevoli provocatori e fascisti». Beh, direte voi, però a Praga nel 1968... No, signori, davanti alla repressione, il Partito comunista, con Berlinguer in ascesa a fianco di Luigi Longo, non riuscì ad andare oltre un «forte dissenso». Ah, il dissenso. Vogliamo parlare del tentativo, andato a vuoto, di impedire la pubblicazione del Dottor Zivago di Boris Pasternak? Rossana Rossanda si prese la briga di far capire all'editore Giangiacomo Feltrinelli che quel romanzo era brutta propaganda anti-comunista. Darlo alle stampe significava «passare il segno». Non solo Rossana Rossanda. Scese in campo tutta la prima linea della dirigenza: Pietro Secchia, Paolo Robotti, Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Mario Alicata. E quando il premio Nobel per la letteratura Aleksandr Solgenitsin fu esiliato? I comunisti di casa nostra giudicarono l'atto proporzionato, una dimostrazione di responsabilità da parte dei sovietici. Certo, l'esilio era una misura restrittiva dei diritti individuali, ma Solgenitsin aveva sfidato lo Stato e sostenuto aberranti tesi controrivoluzionarie. Sì, però dopo... a un certo punto le cose saranno cambiate. Nel 1977, non ancora. Quello fu l'anno della Biennale del dissenso voluta da Carlo Ripa di Meana. Ordine diretto di Mosca, subito raccolto dai compagni italiani: boicottate la mostra veneziana. Inutilmente cercherete notizia di questi o analoghi fatti. Prevale, nella stampa e nell'editoria, l'adorazione per la storia formidabile del comunismo italiano, senza macchia e senza paura. D'altronde, il comunismo ha perso come sistema politico ma ha vinto come sistema culturale, come mentalità di massa. Facciamo un esempio. Chi ha pagato il conto più salato in questi mesi piagati dalla pandemia? La piccola o media borghesia, impossibilitata a lavorare e ingannata dai mitici ristori, ovvero soldi a pioggia che non arriveranno mai nella misura necessaria e promessa. D'altro canto come potrebbe lo Stato italiano, che non ha un centesimo, provvedere davvero a tutto? Bene, ricordate le parole di Gramsci da cui siamo partiti? La borghesia «da espellere... col ferro e col fuoco»? Alessandro Gnocchi 

VERITÀ STORICA E STRATEGIA DELLA MENZOGNA: IL TOTALITARISMO COMUNISTA. Renato Cristin il 24 aprile 2019 su opinione.it. «Ciò che più colpisce gli studiosi che hanno esaminato con attenzione i regimi comunisti non è tanto l’entità e la mostruosità dei crimini commessi, quanto la vastità delle complicità e delle omertà che essi sono sempre riusciti a trovare nei Paesi occidentali». Infatti, «il comunismo è riuscito, per durata e diffusione, a condizionare la vita politica e sociale di tanti popoli e a soggiogare, con i suoi metodi e con le sue menzogne, interi continenti», ma «la sua influenza è stata enorme anche perché era sorretta da una formidabile organizzazione internazionale», che consisteva in una incomparabile potenza ideologica e in un vastissimo appoggio negli ambienti culturali, accademici e giornalistici occidentali. Così scriveva Sandro Fontana dieci anni fa in un libro intitolato Le grandi menzogne della storia contemporanea (Edizioni Ares, Milano 2009). In quanto entità statale, a parte alcune sacche marginali di persistenza (la Cina, pur essendo guidata dal partito comunista, è un fenomeno più complesso e non immediatamente classificabile), il comunismo è crollato, ma la sua idea, deflagrata oggi in molte metamorfosi, è sopravvissuta, e il sostegno a questa ideologia sanguinaria (oltre cento milioni di morti, secondo gli studi più accurati, come quello a cura di R. Conquest, Il costo umano del comunismo, Edizioni del Borghese, Roma 1973), è ancora forte in tutti gli ambienti che sono in grado di plasmare l’opinione pubblica occidentale. Le forme di questo sostegno sono svariate e dalle molteplici sfumature, ma hanno in comune l’affermazione di una presunta superiorità intellettuale e l’intento di consolidamento del potere, istituzionale quando possibile e culturale in ogni caso. In questa logica, detto in breve, ideologia comunista e produzione culturale sono diventate sinonimi: dove c’è l’una, dovrà per forza esserci anche l’altra. Su questo assioma si sono rette per decenni molte delle coordinate politiche dell’Europa occidentale e su di esso hanno fatto la loro fortuna i partiti della sinistra europea. Questa però è una menzogna che ha potuto passare per verità solo perché l’ideologia che l’ha spacciata ha un intrinseco carattere violento e totalitario, come aveva perfettamente visto il bulgaro Tzvetan Todorov: «mentre i Paesi occidentali hanno imboccato la via della democrazia, scelta per decisione maggioritaria della popolazione, i loro intellettuali hanno invece optato per regimi violenti e tirannici. Se in quei Paesi il voto fosse stato riservato ai soli intellettuali, oggi vivremmo sotto regimi totalitari». A questa tendenza ideologica va aggiunto il fatto che la retorica sinistrista si è, quasi sempre, fondata sulla falsità, perché, uso ancora parole di Sandro Fontana, «con la menzogna è facile distruggere l’avversario politico e anche conquistare il potere». Tuttavia l’impostura, per quanto grande e ramificata, non consente di governare Stati di grande complessità e di grande autoconsapevolezza come quelli europei, e quindi il limite di quella ideologia consiste nella sua stessa strategia. Per poter avere successo, la strategia della menzogna deve spingere ogni discorso al parossismo, deve portare ogni situazione al suo estremo, deve torcere il linguaggio a scopi sofistici. Se non viene scoperta, questa tecnica offre esiti pragmatici durevoli, ma se viene smascherata, il velo cade, il fumo si dirada e si svela la verità.

L’eccezione e la legge

Un filo di questa trama pende oggi in una polemica che le sinistre genericamente definibili hanno lanciato contro l’amministrazione regionale del Friuli-Venezia Giulia, il cui Presidente Massimiliano Fedriga ha deciso di recepire una mozione approvata dal Consiglio finalizzata a «sospendere ogni contributo finanziario e di qualsiasi altra natura a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualunque mezzo o in qualunque modo a diffondere azioni volte a non accettare l’esistenza di vicende quali le Foibe o l’Esodo, ovvero a sminuirne la portata». Da qualunque parte del mondo una simile mozione verrebbe classificata nella normale attività legislativa: è normale che la politica contribuisca a custodire la memoria storica, difendendola da menzogne e mistificazioni. È normale che il crimine forse più spregevole che ha colpito gli italiani, in quanto comunità etnica-nazionale, in tutta la loro storia venga definito come tale e, in quanto tale, diventi una sorta di unicum che non può essere associato ad altri, pur gravi. Se dunque quella pulizia etnica contro gli italiani in quanto tali ha il carattere di eccezione storica, eccezionale dev’essere anche la considerazione che la riguarda, e quindi anche il potere legislativo deve trattarla in forma di eccezione. Con ciò, la ricerca storica non viene inficiata nella sua libertà, ma, analogamente a quanto accade per la legislazione tedesca in materia di Shoah, fatte ovviamente salve tutte le differenze, per portata e per conseguenze, fra queste due tragedie storiche, quando si scalfisce il perimetro che protegge l’eccezione si infrange un limite. Da qui la mozione e la decisione del Presidente Fedriga. È normale dunque che una eccezione sia trattata distintamente dagli altri casi. Ma in Italia, e soprattutto a Trieste, sembra che questa normalità non venga accettata da coloro che, dunque, non ritengono che quella spaventosa tragedia costituisca eccezione, e la ridimensionano, la minimizzano. Le forme di questa denegazione (termine psicoanalitico quanto mai appropriato) sono svariate: si rifiuta la realtà storica (oggi però i casi di questa forma estrema non sono più molto frequenti), le si nega dignità, le si nega visibilità, le si nega memoria piena, le si nega il senso dell’unicità, ma tutte queste versioni si discostano dalla verità, che dunque sarebbe oggetto di confutazione storica, non di esperienza esistenziale, come se la verità dovesse essere stabilita dalla storiografia e non dalla memoria delle persone, sempre vivente perché incarnata nell’esperienza. Agli storici spetterebbe sancire la verità dell’esperienza esistenziale? L’oggettività dello storico sarebbe superiore all’esperienza della vittima o alla memoria di coloro che ne rivivono la testimonianza? Alla denigrazione diretta si affianca lo scherno: oltre al disconoscimento di un crimine eccezionale nella sua portata etnico-politica, si mostra qui un positivismo gretto e totalitario, che pretende di imporre agli individui, ai popoli e allo spirito le tabelle del computo storiografico. La tesi della superiorità intellettuale della sinistra applicata al terreno dell’esperienza vissuta: l’ideologia di sinistra ci dice cosa è politicamente giusto; la storiografia di sinistra determina come interpretare gli eventi storici. Ma poiché questi ultimi sono un intreccio inestricabile di fatti reali e di vissuti esistenziali, la loro verità – nel senso filosofico e quindi nel senso originario – non è riducibile agli schemi storiografici. E, in questo senso, il caso di cui sto parlando è paradigmatico.

Il totalitarismo dell’ideologia comunista

Siamo di fronte a un frutto velenoso del pensiero totalitario, perché il totalitarismo si produce mediante la negazione della verità e l’imposizione di schemi strumentali. E a questo scopo si dice pure che quella mozione e la sua conseguente adozione sarebbero divisive. È uno schema talmente vecchio da risultare noioso, se non fosse però sempre dannoso: solo ciò che propone o impone la sinistra sarebbe unitivo, tutto il resto è divisivo. Se si accettano i dettami della sinistra si ha la pace, altrimenti scatenano la guerra. Questa miscela tra sofisma e intimidazione è micidiale, ma da qualche tempo si intravedono alcune crepe nella corazza politicamente corretta, si incominciano a vedere le menzogne che la strutturano; gli italiani si stanno rendendo conto, e lo hanno spesso dimostrato nell’esercizio democratico del voto, che quella retorica è finalizzata all’inganno. Infatti, sotto la maschera di un appello alla libertà di ricerca si vogliono imporre schemi ideologici e, molto più in basso, sistemi di finanziamento che retroalimentano quegli schemi, in un circolo che serve a consolidare e magari rafforzare posizioni acquisite nel corso di decenni di dominio culturale. In gioco dunque è il potere che per decenni la sinistra, la sua retorica e la sua storiografia sono riuscite a imporre all’opinione pubblica. Il confine orientale continua ad essere aggredito da un’ideologia che, nonostante il passare del tempo, nonostante l’affermarsi delle verità storiche, nonostante i suoi fallimenti planetari, sembra la stessa di settant’anni fa, con la stessa struttura logica e con le stesse formule. È la prova che, detto sommariamente, il comunismo, come teoria e come prassi, è vivo, e non è limitato solo all’estremo lembo del Nordest, ma è diffuso in tutto il Paese e, in forme diverse, ovunque nel mondo. Dopo un secolo di aggressioni verbali (per non parlare delle violenze fisiche e degli stermini di massa), i militanti di questa ideologia, oggi mascherati da buonisti e proliferati nella galassia progressista, hanno la spudoratezza di ergersi a paladini del discorso pacato e da inflessibili fustigatori di quelli che, furbescamente, essi chiamano «i discorsi d’odio» e che, invece, sono argomenti teorico-politici avversi al dilagante politicamente corretto o, talvolta, semplici espressioni di buon senso. Con la sicumera che solo i professionisti della menzogna e della dissimulazione riescono ad avere, gli apologeti del buonismo si sono ritagliati uno spazio ragguardevole nel discorso pubblico, nei media e nei social, e lo consolidano con la sistematica aggressione nei confronti di qualsiasi espressione che possa anche solo minimamente mettere in crisi la loro ideologia. È la solita e arcinota mossa dell’attacco preventivo: da un punto di vista politico, tutto ciò che minaccia il piedestallo etico-linguistico su cui si ergono questi sinistri censori va attaccato con accuse pesanti anche se infondate: nazionalismo, populismo, xenofobia, fascismo e così via; da un punto di vista psicologico, bisogna diffamare qualsiasi persona e qualunque idea che possa smascherare la menzogna su cui si regge il politicamente corretto. Che questa truce ideologia, in più di un secolo di vita, non abbia mai cambiato questo schema è un fatto inquietante e al tempo stesso risibile. L’assurda tesi della superiorità etica e politica della sinistra, pur essendo palesemente errata è talmente diffusa da esser diventata luogo comune. Nonostante il crollo dei consensi ai partiti della sinistra, dovuta anche alla diffusione delle idee liberali, del liberal-conservatorismo e del cattolicesimo non di sinistra, nonostante il lavoro di smascheramento ideologico che dal 1994 il centrodestra italiano ha realizzato (e a cui bisognerà attribuire il giusto riconoscimento storico e teorico), le carte continuano a darle gli esponenti di quella ideologia: politici, intellettuali, giornalisti, docenti che assegnano patenti di democraticità, di antifascismo e di qualsivoglia definizione utile ai propri scopi. E gran parte della popolazione, spesso inconsciamente o per timore reverenziale, con comprensibile ma immotivata sudditanza, accetta quelle classificazioni, quelle categorie che hanno la pretesa di regolare i processi culturali, i rapporti sociali e perfino le dinamiche psicologiche degli individui: una pretesa chiaramente totalitaria. Si tratta di una sceneggiata ideologica i cui numerosi attori però hanno fatto e continuano a fare tremendamente sul serio: un tempo agivano per conto dell’internazionale comunista, sul sottile e rovente filo che congiunge l’impegno politico al terrorismo; oggi agiscono in nome dell’internazionale buonista (camuffamento di quella precedente), non più contigui alle frange terroristiche, ma con il medesimo atteggiamento di terrorismo psicologico e linguistico di un tempo. Se, come sosteneva Guglielmo Ferrero, il terrore è lo sbocco inevitabile della rivoluzione, e se il terrore si pratica non solo con la violenza fisica ma pure con quella linguistica, il terrore della nostra epoca è quel blocco culturale che chiamiamo «il politicamente corretto», forma modificata e aggiornata del rivoluzionarismo comunista.

Il diritto democratico di governare

Se la sofistica classica, detestabile ma eccellente, porta al limite ogni ragionamento, la deprimente sofistica attuale, che è un perfetto impasto di leninismo e di postmodernismo (e che nel nostro caso specifico è la sofistica con cui agiscono i negazionisti, i riduzionisti e i loro conniventi, in tutte le numerose sfumature), adotta lo stesso canone eristico, ma poiché è oggettivamente molto al di sotto del livello di quella antica, non riesce a reggere il discorso al limite, tradendo una volontà che sotto la nuova retorica sofistico-decostruzionistica continua a riprodurre la vecchia pretesa di superiorità, la tendenza alla sopraffazione, la concezione totalitaria. Difficile stare sul limite senza varcarlo, se si è tronfi di suprematismo ideologico, culturale, politico e perfino morale. Il vizio antico della sinistra trova in se stesso la causa del suo fallimento. Questo recente episodio – che dalle cronache locali si è esteso alla ribalta nazionale, sia perché, riguardando la pulizia etnica anti-italiana, tocca un nodo molto sentito nella coscienza nazionale, sia perché fra i contestatori di quella mozione del centrodestra ci sono istituti di importanza nazionale – mostra infatti che, in un crescendo di risentimento, la sinistra, che pur raccoglie studiosi seri insieme a ciarlatani, che raggruppa moderati ed estremisti, persone oneste e faccendieri in malafede, negazionisti e riduzionisti, ha oltrepassato quel limite. Forse non lo ha nemmeno visto, ritenendosi infallibile e al di sopra di ogni vincolo morale, ma di fatto ha superato una linea di demarcazione: la tragedia delle foibe è intangibile. Questo è il limite invalicabile, al di là del quale si aprono scenari raccapriccianti, che ci fanno ripiombare a epoche in cui l’ideologia comunista imperava. E forse proprio questa è la nostalgia segreta che spinge a spostare sempre più in avanti il limite del discorso, in una pulsione di autoaffermazione che vuole distruggere, tacitare o negare l’avversario politico e culturale. Sul crimine delle foibe non si transige, come non si transige sulla criminale aberrazione della Shoah. Tutto qui. Al di là di questa linea c’è il divieto, perché si entra nella zona oscura in cui tutto è possibile, anche Auschwitz, in un territorio mefitico in cui si nega l’essenza dell’essere umano. Con questo divieto la libertà della ricerca non viene impedita né minimamente compromessa, e consiste nella responsabilità scientifica e morale di ciascuno, che può liberamente decidere se valicare o meno il limite. Ma la politica, quando ha la responsabilità di governare, ha anche il diritto di decidere come perseguire nel modo migliore il bene comune, perché il potere democratico si fonda su tale diritto. E poiché la nozione di bene comune non è soltanto oggettiva ma si determina anche in base alla concezione della società e del mondo propria di chi è stato eletto per governare, questi decide come indirizzare gli investimenti pubblici per il conseguimento di ciò che è ritenuto bene e giusto. Questo è il senso di legittimità del potere, di quello costituente e di quello ordinario, perché in ciò consiste il principio della democrazia nella sua applicazione concreta. Si può contestare una decisione, e anche questo è un aspetto della dialettica democratica, ma non si può discutere il diritto di decidere, perché se il potere è legittimato dalla maggioranza degli elettori, negare questo diritto è un atto eversivo.

I crimini del comunismo

Il linguaggio è un’arma a doppio taglio, come ben sapeva Freud. Infatti può anche tradire intenzioni nascoste, come nel caso di un recente documento di un istituto di ricerca storica, nel quale la parola «crimini», che è la più adatta per designare gli eventi delle foibe e dintorni, viene usata solo per i «crimini di guerra italiani». I crimini delle foibe vengono chiamati «stragi», con un termine neutro, semanticamente ambiguo, ideologicamente idoneo. E ancora, in una lettera di protesta contro la mozione del Consiglio Regionale FVG, sarebbero «velenose nostalgie» gli sforzi che l’amministrazione regionale e le associazioni a difesa della memoria della tragedia istriano-dalmata stanno compiendo affinché l’intangibilità di quella memoria venga preservata nella sua integrità. Ma in realtà quell’espressione è una parola, freudianamente, caduta, che tradisce la volontà di riprodurre gli inganni ideologici su cui si sono costruite le strutture del potere culturale e che, quindi, evoca la nostalgia di un predominio parzialmente compromesso e, ci si augura, in esaurimento. Questa sì che è nostalgia, e pure venefica. E su questa linea semantica si inserisce pure uno schiaffo denigratorio lanciato contro la Lega Nazionale, associazione insignita benemerita per l’italianità, che nella medesima lettera di protesta viene definita «un ente privo delle necessarie credenziali di competenza e serietà sul terreno della ricerca storica». Ancora una volta la prassi della denigrazione, ma la Lega Nazionale non necessita di difensori: la sua storia, la sua caratura scientifica e la sua integrità morale bastano, da sole, a rintuzzare qualsiasi aggressione, qualsiasi diffamazione. Il modulo è sempre il medesimo: i migliori stanno a sinistra, e chiunque altro, singolo o associazione, si collochi dall’altra parte è per definizione peggiore. E così si svela il nucleo teorico e ideologico da cui discendono, come conseguenze applicative, tutte le pratiche qui brevemente descritte e molte altre non esaminate. I crimini del comunismo sarebbero, per varie ragioni, meno gravi di quelli del nazionalsocialismo: questa è la logica, chiamiamola così, che ancora oggi sembra guidare, talvolta anche come un riflesso condizionato (imposto da decenni di ideologico lavaggio del cervello), le mosse degli intellettuali di sinistra e, più in generale, l’azione del politicamente corretto applicato alla storia. Contro l’essenza criminogena e gli esiti criminali del nazionalsocialismo abbiamo, tutti, non solo la sinistra, detto parole definitive, che si riassumono in un’espressione un poco usurata ma del tutto adeguata: male assoluto. Lo stesso però va detto, e su ciò una parte non marginale della sinistra continua a non essere d’accordo, nei confronti dell’essenza e degli esiti, parimenti criminali del comunismo, pur nella diversità di scenario, di implicazioni e di conseguenze. Di qui la necessità, ormai improcrastinabile, di affiancare oggi al sacrosanto Processo di Norimberga (e a tutti i sotto-processi che hanno permesso di catturare e condannare altri criminali nazionalsocialisti; uno per tutti: il processo che a Gerusalemme ha visto alla sbarra Eichmann) una Norimberga del comunismo, ovviamente nelle forme che la nostra epoca può concedere. O si accetta di stare su questo piano culturale, scientifico ed etico, oppure si sta dalla parte del comunismo: tertium non datur. 

Comunismo: quando il falso diventa vero. Marco Gervasoni il 23 Giugno 2020 su culturaidentita.it. Sorvegliare e mentire: se c’è un distico che caratterizza il comunismo, come ideologia e come regime, è proprio questo. Sorvegliare e pure reprimere, ovvio; anzi in questo il comunismo non accetta confronti, salvo forse con il nazional-socialismo tedesco. Il mentire però è una caratteristica che definisce ancor più l’esperienza storica comunista, ne è anzi il tratto saliente: il comunista è comunista soprattutto perché mente. Bisogna intendersi sul concetto di menzogna e in ciò ci aiuta l’etimologia. Proveniente dal latino mentiri, che sta anche per “indicare”, condivide la radice sanscrita men, cioè “ricordare”. Mentire quindi non significa tanto celare la verità, quanto indicarne un’altra, alternativa a quella vera. Una verità che deve essere intesa in tre forme: empirica (vero è ciò che vedo), logica (vero è ciò che è conforme al principio di non contraddizione) e ontologica (vero è ciò che è coerente con il senso metafisico). Per questo distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, fin dall’antica Grecia diventa uno degli obiettivi fondamentali della filosofia. Perché il falso si maschera da vero o si confonde con esso e anzi, come scrive Sant’Agostino nel De Mendacio, il falso è tanto più dannoso quanto più si presenta come vero, come gli dei pagani.

Il comunismo rappresenta l’esempio più compiuto nella storia di falso che si presenta vero. Dal punto di vista dottrinale, è infatti figlio dell’Illuminismo e della idea settecentesca di “critica”. Secondo la celebre definizione di Paul Ricoeur, Marx assieme a Nietzsche e Freud, è uno dei tre “maestri del sospetto”. E infatti per Marx quello che si presenta come “vero” è, in realtà, frutto della costruzione del mondo ideologico della classe dominante. Per Marx la realtà è già una narrazione e in qualche modo egli è il primo decostruzionista, non per caso Michel Foucault e Jacques Derrida si definivano seguaci di Marx. Compito dei comunisti è quindi criticare, cioè decostruire, la narrazione dominante. Alla quale però, essi oppongono un’altra narrazione, che si presenta come vera: non vera in assoluto, perché la verità per Marx non esiste, ma vera agli occhi della classe operaia. Finché i marxisti stanno all’opposizione, la critica prevale sulla costruzione della verità alternativa, anche se essa è già presente nella propaganda moderna, di cui i partiti socialisti della Seconda Internazionale, a fine Ottocento, sono gli inventori. I problemi si pongono quando il comunismo, da opposizione, diventa governo, cioè regime. Ciò avviene per la prima volta in Russia, dove la cultura politica marxista si incontra con un’altra, pure di matrice europea occidentale, ma che aveva molto attecchito nel populismo russo. Vale a dire il nichilismo di Sergej Gennadievič Nečaev, seguace del tedesco Max Stirner, per il quale la realtà è solo proiezione della volontà del soggetto individuale, il mondo esterno essendo una sua costruzione. Nonostante la cultura positivista, che pure Lenin e i bolscevichi condividono, nel regime comunista si affermano l’idea e la prassi nichilistiche che è il partito a costruire la realtà. Da quel momento verità sarà solo ciò che viene affermato, deciso e messo in pratica dal Partito comunista. Ma poiché il Partito comunista coincide con lo Stato, i comunisti si impegnano a costruire una realtà e una verità alternative. Cosicché, da quel momento, nella propaganda comunista la menzogna diventa ciò che è vero, mentre ciò che è falso dal punto di vista empirico, logico ed ontologico, diventa il vero. Si potrebbero riportare centinaia di esempi della realtà alternativa, fondata sulla menzogna, che i regimi comunisti, da quello sovietico a quelli sudamericani e asiatici a quello cinese, hanno costruito nel corso dei decenni, tanto che i visitatori stranieri, invitati dai regimi in quei paesi, si trovavano di fronte una sorta di Disneyland comunista: i più smaliziati se ne accorgevano e magari cambiavano idea, ma la maggioranza dei compagni di strada ci cascava o faceva finta di cascarci. Vecchia storia, si dirà. Mica tanto. In primo luogo, mentre nazismo e fascismo sono spariti da decenni, i regimi comunisti sono vivi e vegeti: da Cuba al Vietnam fino, ovviamente, alla Cina. Che sul tema della menzogna è perfettamente in linea con la tradizione di Marx, Lenin, Stalin, Mao (del resto tutti, tranne il georgiano, sempre rivendicati laggiù). In secondo luogo, gli eredi dei Partiti comunisti sono ben attivi: dal Pd in Italia alle varie opposizioni in paesi come Ungheria e Polonia. Molti dei loro dirigenti sono cresciuti nelle scuole di partito che, anche se alle Frattocchie, condividevano l’idea di “verità” di Mosca, cioè la logica della menzogna. E che ora, nel governo Conte, ammiratori di XI ed eredi di Togliatti e di Berlinguer siano fianco a fianco spiega molte cose: tutte preoccupanti.

La storia a metà. Il 25 aprile e la menzogna rossa che impedisce la riconciliazione nazionale. Alfonso Baviera il 25 aprile 2021 su loccidentale.it. E’ un nuovo 25 aprile, data che per la Repubblica Italiana segna un momento di svolta storico. Terminava la seconda guerra mondiale e con essa doveva scomparire ogni traccia del regime fascista che aveva governato il Paese per oltre 20 anni. Per ancora pochi giorni truppe dello sconfitto esercito fascista repubblichino avrebbero ancora imbracciato le armi, più in azioni di autodifesa che di vera e propria guerra. La guerra in Italia era stata brutale. Non solo tra gli eserciti regolari che combattevano al fronte, ma anche per “gli eserciti di partito”, da un lato i fascisti e dall’altro i partigiani (comunisti e non), che forse si combatterono con ancor più brutalità con episodi di impiccagioni e fucilazioni quasi quotidiane. Non mancarono episodi di violenza inaudita che coinvolsero anche le inermi popolazioni civili. Tanto brutale fu questa guerra civile che non fu possibile interromperla all’improvviso e, purtroppo, fece ancora molte vittime nei mesi successivi al 25 aprile 1945 tra fascisti, ex fascisti, conservatori, cattolici ed anche gente innocente. Questa scia di sangue fu dovuta ad un semplice fatto che storicamente in Italia si è sempre cercato di far dimenticare. Oltre alla guerra di liberazione nazionale era in corso una vera e propria rivoluzione “rossa” con il tentativo delle forze comuniste sia di egemonizzare il movimento partigiano (anche con atti violenti come la strage di Porzus che vide la morte di 17 partigiani cattolici per mano di partigiani comunisti) sia di favorire l’ingresso in Italia di eserciti stranieri ma di fede comunista (l’esercito nazionale yugoslavo del regime comunista guidato da Tito che condusse numerose azioni violente come le stragi delle foibe). Purtroppo per chi era favorevole a tale progetto, ma fortunatamente per molti altri, altri eserciti si trovarono ad invadere il territorio nazionale. Gli inglesi e gli americani oramai dilagavano per tutta pianura padana e, in un clima di diffidenza reciproca in embrione tra gli alleati vincitori, riuscirono ad arginare sia le forze partigiane, portando avanti un processo di rapida smilitarizzazione, che quelle dell’esercito yugoslavo. Risulta, quindi, evidente che tale circostanza ha sempre avuto un posto secondario nella Storia italiana (quella con la lettera S maiuscola), poiché ammettere tale fatto storico avrebbe significato allargare il concetto di “liberazione” collegato alla ricorrenza del 25 aprile. Perché se fu liberazione, ed è certo che lo fu, lo fu riferita a due pericoli antidemocratici che avevano dominato in passato il Paese o cercavano di farlo in futuro: quello fascista e quello comunista. Purtroppo per l’onestà storica i partiti di origine comunista si trovarono dalla parte dei vincitori e, quindi, ebbero facile gioco ad accreditarsi come “liberatori” e difensori della democrazia. Per comprendere come questo dato sia falsato basta verificare il livello di democrazia che è stato presente in tutti i regimi comunisti europei dopo la seconda guerra mondiale. Elezioni truccate, opposizioni arrestate, militarizzazione dell’apparato statale, costruzioni di barriere e muri quasi invalicabili, crollo del benessere popolare. Tutto questo “percorso democratico comunista” all’Italia fu evitato grazie alla presenza di migliaia di militari americani e inglesi e non perché le forze partigiane comuniste mirassero ad instaurare realmente un regime democratico nel nostro Paese. Chi lo affermava, e lo continua ad affermare, mentiva allora e mente oggi. E questa menzogna costringe l’attuale sinistra a mantenere costantemente un livello di scontro ideologico contro tutti coloro che o dichiaravano o dichiarano legami ideologici con il passato regime fascista. Questo scontro è servito a mantenere le forze ideologiche di origine comunista dalla parte dei vincitori e, quindi, gli ha permesso di creare una barriera nebulosa sui fatti storici di quegli anni. Sappiamo bene quante critiche furono indirizzate allo storico Renzo De Felice, che per molti anni cercò di riportare la “verità storica istituzionale” sui binari “della verità Storica”. Purtroppo, accettare questa verità storica, porterebbe molti di coloro che oggi sventolano la bandiera dell’antifascismo militante, in versione di forza democratica, a dover considerare proprio avversario anche chi rappresenta una ideologia come quella comunista, con la possibilità di potersi trovare nello stesso momento nella duplice posizione di democratico e antidemocratico. Forse accettare la verità storica sarebbe il primo passo fondamentale per iniziare un vero percorso di riconciliazione nazionale. Fascisti e comunisti, ex fascisti ed ex comunisti, post fascisti e post comunisti, tutti insieme messi dalla stessa parte della barricata, non avrebbero più motivo di continuare uno scontro politico e dialettico che oramai dura da oltre 75 anni e si potrebbe realmente considerare la data del 25 aprile come la “festa della riconciliazione nazionale”.

Berlusconi: Il comunismo é un grande viaggio dentro la menzogna. Il Presidente alla presentazione del libro ''Il sangue di Abele'' su forzaitalia.it. "Il comunismo fu un grande viaggio dentro la menzogna che coinvolse anche il mondo libero. E ancora oggi sul comunismo l’occidente fa fatica ad accettare e riconoscere la verità storica. E’ come se si dovesse fare conti con la propria coscienza e con l’indifferenza e la superficialità con cui molti intellettuali spalleggiarono il comunismo e qualcuno continua così ancora. Con questo libro ho avuto la conferma di ciò che sapevo e pensavo: l’ideologia comunista é la più criminale e disumana della storia dell’uomo. 16 anni fa ho voluto che Mondadori pubblicasse una testimonianza, forse la più vasta, di cosa è’ stato il comunismo e credo che tutti si siano resi conto dell’efferatezze di quell’ideologia. L’Ideologia comunista mirava a prendere il potere, era il potere per il potere. Ho letto questo libro e non sono riuscito a dormire. Sono poi d’accordo sul fatto che sia stato una malattia, una vera follia tanto e’ stata esasperata la sua realizzazione. E’ una speranza di tutti noi, seguiamo le vicende e vediamo se davvero la sinistra italiana riuscirà a fare quello che fece l’Inghilterra 100 anni fa. Sarebbe una cosa meravigliosa se anche il Pci che ha fatto molti lifting cambiando molte volte il nome si trasformerà in un partito socialdemocratico"

PILLOLE LETTERARIE. I maiali comunisti e le loro menzogne, in George Orwell. Simone Chiani il 20 luglio 2021 su lacittanews.it. In “La Fattoria degli Animali” George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair) compie un’impressionante denuncia allegorica al comunismo, colpevole di distruggere nella pratica tutto ciò che promette nella teoria. Il tradimento della rivoluzione bolscevica osservato da vasta distanza ha permesso allo scrittore britannico di comporre questa pungente novella in maniera impeccabile. Gli animali sono stufi di sottostare alle ingiuste prepotenze degli uomini, così decidono di ribellarsi tutti insieme: nella Fattoria Padronale gli esseri su due zampe sono cacciati durante una rivoluzione e rimangono, in “autogestione”, le bestie; la fattoria, pertanto, diviene “degli animali”. Tuttavia dopo un’iniziale gioia incontenibile, data dal fatto che per la prima volta sono coloro sempre consideratisi “schiavi” al potere, si iniziano a delineare nuove dinamiche, e nuove gerarchie. I maiali, capitani dell’insurrezione, sembrano via via dimenticarsi sempre più delle promesse fatte durante la rivolta, e arrivano ad accomodarsi così tanto al potere da divenire, alla fine del racconto, veri e propri umani. E’ l’utopia del comunismo raccontata con una pungente allegoria: i maiali, cioè i principali comunisti autori della rivoluzione, finiscono per diventare come i padroni, cioè i ricchi/borghesi/industriali/aristocratici, e per tradire dunque il resto degli animali, cioè il popolo che aveva creduto nella rivoluzione ed è finito per essere più schiavo di quanto non fosse in partenza. Con la sua lucidità disarmante, Orwell riesce a cogliere il declinare della situazione giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, finendo per regalare al lettore una favola socio-politica facilmente rapportabile alla realtà per tutta la durata del racconto. Il popolo (cioè il resto degli animali) finisce, come avviene in 1984, per perdere addirittura la memoria, pilotato dall’abile Gazzettino (chiamato così nella traduzione di Luca Manini per Liberamente) e da alcuni comandamenti che paiono cambiare nel corso del tempo. E allora non è difficile rivedere alcuni grandi nomi della storia russa nei principali personaggi della novella: Lenin è il “Vecchio Maggiore”, che dà il via alla rivolta con i più buoni propositi ma vedrà poi, dopo la sua morte, svanire ogni progetto di parità e uguaglianza; Stalin è “Napoleone”, il colpevole di aver tramutato, con metodi scorretti, la rivolta dei pari in un nuovo totalitarismo; infine, “Palla di Neve” è Trockij, comunista incorruttibile costretto a scappare dalla fattoria perché fedele sostenitore dei principi contro le nuove pieghe impresse dal nuovo Capo. In molte porzioni di testo, in realtà, pare di rivedere anche tutti gli altri totalitarismi: il culto del capo, la modifica perpetua della memoria popolare e una sorta di schiavitù lavorativa eretta a incontestabile virtù, oltre che l’allontanamento dalle proposte iniziali, possono facilmente rimandare anche a situazioni viste in dittature realmente avvenute sotto la fazione politica opposta, ossia l’Estrema Destra. Rimane comunque il fatto che, nei caldissimi anni ’40, con questa novella Orwell preferì scagliarsi contro il comunismo, in maniera incontestabilmente evidente. Forse scioccato dal totale ribaltamento degli ideali utopici pre-rivoluzione, e forse preoccupato che qualcosa di simile potesse avvenire anche negli altri Paesi europei, sentì la necessità di farsi portavoce di tutte le menzogne e dell’impossibilità effettiva di concretizzarsi che sono proprie dell’Estrema Sinistra. Sono esemplari, sennonché lapidarie, le battute finali dell’opera, nelle quali i maiali comunisti che avevano promesso la rivoluzione, dopo un climax prolungato per tutto il racconto, finiscono con l’assimilarsi confusamente agli umani, ossia proprio coloro contro i quali insorsero molti anni prima, anche a livello fisiologico: “Dodici voci gridavano piene di rabbia e tutti loro erano uguali. Non importava ormai che cosa fosse accaduto alle facce dei maiali. Le creature, da fuori, spostavano lo sguardo da maiale a uomo e da uomo a maiale, e ancora da maiale a uomo; ma già era impossibile dire chi fosse chi.”

Alcuni spezzoni allegorici evidentemente riferiti al regime comunista sovietico: “Dopo di che, non parve strano che, il giorno seguente, i maiali che sovrintendevano il lavoro della fattoria reggessero tutti una frusta nella zampa. Non parve strano venire a sapere che i maiali si erano comprati una radio senza fili, che stavano facendo i preparativi per installare un telefono e che si erano abbonati a John Bull, Tit-Bits e al Daily Mirror. Non parve strano quando si vide Napoleone che passeggiava nel giardino della casa padronale con una pipa in bocca… no, neppure quando i maiali tolsero dall’armadio del signor Jones i vestiti e li indossarono. Napoleone si fece vedere con indosso una giacca nera, calzoni da caccia e gambali di pelle, mentre la sua scrofa favorita apparve nell’abito di seta marezzata che la signora Jones indossava solitamente la domenica.” – A sottolineare, nel finale, l’assoggettamento e asservimento degli ormai ex-rivoluzionari al mondo capitalista/borghese del resto d’Europa. “Non si parlava più, però, dei lussi che Palla di Neve aveva insegnato agli animali a sognare: le stalle con la luce elettrica e l’acqua calda e fredda. e la settimana lavorativa di tre giorni. Napoleone aveva dichiarato che quell’idea era contraria allo spirito dell’Animalismo. La felicità più autentica, diceva, consisteva nel lavorare duramente e nel vivere frugalmente.” – L’allontanamento progressivo dagli ideali bolscevichi. “Gli anni passarono. Le stagioni vennero e se ne andarono, le brevi vite degli animali fuggirono via. Venne il giorno in cui non ci fu più nessuno che ricordasse i giorni prima della Ribellione […]” – Il tempo (e l’informazione corrotta) che cancella la memoria ed elimina le premesse iniziali della rivoluzione “Verrà il giorno, o presto o tardi, che abbattuto sarà l’Uomo Tiranno e che d’Inghilterra i fertili campi solo dalle bestie saranno calpestati” – Un canto popolare degli animali che intende mostrare la bellezza priva di concretezza delle utopiche promesse comuniste. “Ben presto fu svelato il mistero di dove andasse a finire il latte. Ogni giorno, veniva mescolato al pastone per i maiali. Le prime mele stavano in quel periodo giungendo a maturazione e l’erba del frutteto era cosparsa di mele cadute. Gli animali supponevano che, naturalmente, esse sarebbero state distribuite in modo equo. Un giorno, però, giunse l’ordine che tutte le mele […] fossero portate alla selleria per l’uso esclusivo dei maiali. […] Gazzettino fu mandato in giro per dare la necessaria spiegazione: ‘Compagni! Non immaginerete, spero, che i maiali lo stiano facendo per puro egoismo e per avere un privilegio? A molti di noi in verità non piacciono né il latte né le mele. Non piacciono neanche a me. […] Il latte e le mele contengono sostanze assolutamente necessarie al benessere di un maiale. Noi maiali lavoriamo di cervello. Da noi dipende completamente la gestione e l’amministrazione di questa fattoria. Giorno e notte noi vegliamo sul vostro benessere. E’ per il vostro bene che noi beviamo quel latte e mangiamo quelle mele. […] Così, senza ulteriori discussioni, tutti furono d’accordo che il latte e le mele cadute dai rami dovessero essere riservati ai soli maiali.” – Il paradosso implicito di un regime comunista.

Simone Chiani. Nato nel 1997. Viterbo. Diplomato al Liceo Psicopedagogico e laureato in Lettere Moderne. Autore dei libri Evasione (Settecittà, 2018) e Impronte (Ensemble, 2020).

Ballottaggi, Giorgia Meloni: "Centrodestra sconfitto. Ma la sinistra lotta nel fango per criminalizzarci". Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. "Buona sera, diciamo per mordo di dire". Esordisce così Giorgia Meloni nella conferenza stampa post-ballottaggi, che hanno visto il centrodestra sconfitto. "Si deve riconoscere che il centrodestra esce sconfitto e ne siamo tutti consapevoli. Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia confermano Trieste, ma non riescono a strappare le altre cinque grandi città". Per la leader di FdI non si tratta affatto di una débâcle come molti vogliono far credere. Piuttosto, chi esce ampiamente battuto è il Movimento 5 Stelle. Una buona notizia per la Meloni, perché "si sta lentamente tornando a un sistema bipolare". In ogni caso, confermato Fratelli d'Italia il primo partito nei sondaggi a livello nazionale, la Meloni non intende indietreggiare: "Anche noi ci prenderemo le nostre responsabilità".  Non sono comunque mancate le difficoltà. In particolare la leader di FdI ne rivela due: "Prima tra tutte l'astensionismo. Nessuno può veramente gioire con i dati con cui viene eletto un sindaco di Roma. Questa è una crisi a cui tutti devono rispondere e per me è legata a una politica che con i suoi giochi di palazzo ha mortificato il voto". Ma non è l'unico problema. "Poi - prosegue - la campagna elettorale è stata trasformata dalla sinistra in una lotta nel fango, criminalizzando l'avversario e rendendolo impresentabile. Questo ha portato i cittadini interessati al lavoro e all'economia a non presentarsi alle urne. Questo ha comportato la mobilitazione di un elettorato molto ideologico della sinistra lasciando invece indietro tutti gli altri". Un capolavoro per cui la Meloni vorrebbe "farei i complimenti alla sinistra", se non fosse che così "si distrugge la democrazia". A quel punto a FdI non resta che guardare al futuro ragionando sugli errori commessi: "Condivido con Salvini l'idea che la prossima volta dobbiamo scegliere i candidati più in fretta e questi dovranno essere politici anche a dispetto di queste campagne elettorali aggressive dei nostri avversari". Da qui l'auspicio: "Fra un anno e mezzo votiamo e voglio chiedere alla sinistra se farà ancora così criminalizzando l'avversario e non scendendo ad armi pari, a loro d'altronde basta stare al potere".

Mattia Feltri per "la Stampa" il 19 ottobre 2021. Giorgia Meloni, persuasa di aver perso per la lotta nel fango in cui la sinistra ha trasformato la battaglia elettorale, scorda che il fango è l'elemento naturale in cui la politica sguazza ormai da un trentennio e la gara è a chi ne rimane addosso di meno. E scorda che per quanto gliene abbiano tirato addosso, Silvio Berlusconi nelle città perdeva e spesso vinceva, e quando Massimo D'Alema nel 2008 tirò fuori l'onda nera, a Roma vinse lo stesso Gianni Alemanno. Il fango e le onde nere e le onde rosse non sono mai servite per disincentivare l'elettorato avversario, piuttosto per incentivare il proprio, e sulle pulsioni più elementari. Ma stavolta è capitato qualcosa di diverso: i candidati di destra hanno preso il prendibile al primo turno e non hanno preso un voto in più al secondo, tutti gli altri voti sono diventati voti contro di loro. Una specie di Fronte repubblicano, quello francese contro Jean-Marie e Marine Le Pen, adattato ai ballottaggi italiani. A furia di chiedere l'affondamento delle barche dei migranti, di invocare celle piene e chiavi buttate, di accompagnarsi coi peggiori ceffi del mercato internazionale, da Putin a Orban, di tratteggiare l'Europa come una congrega di borseggiatori e massoni, di tenere su il capino ai No Vax e ai no Green Pass, senza rendersi conto che il nemico comune, alla stragrande maggioranza del Paese, è il Covid e solo il Covid, insomma a furia di ritirarsi nella ridotta del peggio della destra, hanno respinto il meglio della destra. Oggi c'è un pezzo di destra a cui questa destra fa ribrezzo, e preferisce votare a sinistra o rimanersene a casa.

Quarta Repubblica, "Giorgia Meloni a piazzale Loreto": ecco chi c'era in piazza per la Cgil. Libero Quotidiano il 19 ottobre 2021. “Giorgia Meloni la immagino più a piazzale Loreto”, ovvero a testa in giù. Lo ha dichiarato ai microfoni di Quarta Repubblica uno dei manifestanti che sabato è sceso in piazza, rispondendo alla chiamata della Cgil e della sinistra per sfilare contro il fascismo. Quella convocata dal sindacato in risposta alla violenza squadrista e all’assedio di Forza Nuova non è stata propriamente una piazza “trasversale”. Addirittura c’era una bandiera dell’Unione Sovietica, oltre all’immancabile Bella Ciao e ad inni del tipo “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”. Il Giornale lo definisce “armamentario ideologico” schierato al suo completo, senza dimenticare nostalgici dell’Urss, marxisti, leninisti e castristi. E allora alla luce di tutto ciò forse il centrodestra ha fatto una scelta saggia a non presentarsi in piazza, pur condannando fermamente le violenze squadriste e fasciste perpetrate ai danni della Cgil. Probabilmente se Giorgia Meloni e Matteo Salvini si fossero presentati alla manifestazione - aperta a tutti solo apparentemente, ma poi si è rivelata a dir poco “schierata” - sarebbero stati sommersi dai fischi una volta saliti sul palco, seppur per condannare il fascismo. Ufficialmente i due leader hanno disertato perché non ritenevano fosse il caso di tenere una manifestazione proprio alla vigilia dei ballottaggi: difficile dargli torto, anche se ormai l’esito della tornata elettorale era già scritto. 

Milano, anarchici assaltano la sede della Cgil ma stavolta la sinistra tace...Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. Mentre a Roma, sabato scorso, il segretario della Cgil Maurizio Landini riempiva piazza San Giovanni per denunciare la «minaccia fascista» dopo l’assalto alla sede del sindacato ad opera di militanti di Forza Nuova, nel mezzo delle manifestazioni contro il Green pass, a Milano nelle stesse ore veniva presa di mira un’altra sede della Cgil. Sempre durante una manifestazione contro il lasciapassare verde, ma questa volta con tre differenze. La prima: a puntare sulla sede del sindacato questa volta sono stati gli anarchici. La seconda: a differenza di quanto accaduto con il blitz di Forza Nuova, a Milano le forze dell’ordine hanno prontamente bloccato i manifestanti. Due di loro sono stati arrestati e otto denunciati al pool antiterrorismo della procura lombarda. La terza differenza: da sinistra non si sono sentite voci allarmate contro il «pericolo anarchico». E chissà se adesso la Cgil vorrà organizzare un’altra manifestazione per denunciare, dopo la minaccia fascista, questa minaccia di diverso colore.

"Rimandare tutto". Covid, come saremo ridotti a Natale. No global e "Sentinelli" parte la caccia al fascista.

Chiara Campo il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Giovedì presidio davanti a Palazzo Marino Verri (Lega): «Noi pensiamo ai problemi seri». Sul volantino c'è un wc a muro e lo slogan: «Fascisti, il loro posto non è in consiglio comunale». Opera dei Sentinelli di Milano, l'associazione per i diritti gay che ha organizzato per giovedì alle 17.45, in concomitanza con la prima seduta del nuovo consiglio comunale, un presidio davanti a Palazzo Marino. «Un'eletta in Fratelli d'Italia orgogliosamente fascista e tre eletti nella Lega grazie al sostegno di Lealtà e Azione» tuona il portavoce Luca Paladino sull'onda dell'inchiesta di Fanpage sulla presunta «Lobby nera». I Sentinelli saranno in buona compagnia, visto che anche sui canali social dei centri sociali gira la chiamata a radunarsi in piazza Scala dalle 18 per «pretendere la chiusura delle sedi delle organizzazioni neofasciste subito» e «le dimissioni» dei consiglieri citati nell'inchiesta. E, guarda un po', osservano «con sgomento e orrore come ancora in queste ore ci siano tentativi a livello cittadino e nazionale di riproporre vecchie e irricevibili equiparazioni» tra orrori del fascismo e di matrice comunista, «no al revisionismo storico con mozioni e contromozioni». Il centrodestra ha già anticipato una mozione di condanna a ogni forma di estremismo. Il coordinatore di Fdi Stefano Maullu già giorni fa ha anticipato che sarà depositato un documento «contro ogni forma di violenza e totalitarismo, seguendo esattamente la risoluzione approvata esattamente due anni fa dal Parlamento europeo dove si equipara nazismo, fascismo e comunismo ricordando la tragedia di questi totalitarismi che hanno commesso omicidi di massa, genocidi, deportazioni e perdite di libertà. Vedremo se il sindaco Beppe Sala sarà con noi e voterà questa mozione oppure preferirà la solita scorciatoia a uso e consumo dei soliti noti a sinistra». Approderà in aula però la prossima settimana. Il deputato milanese di Fdi Marco Osnato osservato il volantino dei Sentinelli e commenta: «Immagino che questa elegante proposta sia il massimo della capacità democratica di queste persone». Il neo capogruppo della Lega Alessandro Verri ribadisce che «stanno facendo una caccia alle streghe senza senso. Noi pensiamo al bene di Milano e stiamo lavorando su questioni più impellenti, come la sicurezza dopo gli accoltellamenti in zona corso Como dello questo weekend. E siamo già pronti a portare la questione in aula per chiedere all'assessore Granelli cosa farà per controllare la movida violenta». Sulla movida violenta Sala ha premesso ieri che «è un problema in tutte le grandi città, è inutile nasconderlo, e se tutte le forze dell'ordine sono necessariamente concentrate nel contrasto di manifestazioni che avvengono, non sono illimitate, anche questo può essere parte del tema. Inutile negare che le tensioni che ci sono nelle città dopo la pandemia vanno gestite, i più giovani spesso in mancanza di luoghi dove incontrarsi sono più difficili da gestire». E dopo l'ennesimo sabato di proteste No Pass e caos ha rimarcato: «Era incontrollabile. Per ogni corteo in Italia bisogna indicare e autorizzare il percorso, con loro non avviene e questa è l'unica eccezione che ho visto in questi anni». Chiara Campo

 L'allarme fascismo finisce con le elezioni. Ma presto ritornerà. Paolo Bracalini il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. Anche progressisti come Mieli, Mentana e Mauro lo ammettono: era strumentale. Finite le elezioni, finito l'allarme fascismo. È stato il tema che ha dominato la campagna elettorale, anche se c'entrava pochissimo con l'amministrazione delle città al voto, eppure ha monopolizzato il dibattito come se fossimo all'alba di una nuova marcia su Roma. Dal filmato-trappolone su Fratelli d'Italia, alla caccia ai «neonazisti» infiltrati anche nella Lega, alle dichiarazioni sulla shoah di Michetti, ex tesserato Dc trasformato in un nostalgico dell'olio di ricino. Ma tutto lascia supporre che il clima sia cambiato in un sol colpo, con la chiusura delle urne. Puff, svanite le camicie nere, fino a nuovo ordine. Improvvisamente diventa chiaro che parlare di un ritorno al Ventennio sia una manipolazione a fini elettorali. Ed è una evidenza testimoniata da opinionisti di chiara fama antifascista, come Paolo Mieli. L'altro giorno a La7 ha colto di sorpresa lo studio: «Com'è possibile che questo tema spunti magicamente in ogni tornata elettorale?» si è domandato l'ex direttore del Corriere della Sera, ricordando come già nel 1946 un simile trattamento era toccato ad Alcide De Gasperi, e da allora in poi «fascisti sono diventati Fanfani, Craxi, Berlusconi e persino Renzi», tutti gli avversari della sinistra postcomunista. Una analisi che ha trovato concorde Enrico Mentana, direttore del Tg di La7, rete che sull'«allarme fascismo» ci ha costruito ore e ore di talk show: «Il fascismo ha osservato, chiosando Mieli - è come il conflitto d'interesse di Berlusconi. Ricordate? Lo tiravano fuori solo quando il Cavaliere era al governo e spariva magicamente quando tornava all'opposizione». Quel che era incosciente anche solo pensare fino a pochi giorni fa, diventa una constatazione elementare, innocua. Dopo il voto.

Una circostanza che colpisce Guido Crosetto, che l'altro giorno si ha lasciato gli studi di Piazza Pulita perché il programma era orchestrato come «un plotone di esecuzione contro Giorgia Meloni». «Anche per questa volta il pericolo dell'insediamento di un regime nazi-fascista è scongiurato. Riemergerà con estrema gravità, nei 45/60 giorni prima della prossima scadenza elettorale. La Meloni da oggi torna ad essere una peracottara pesciaiola della Garbatella» twitta il cofondatore di Fdi. Anche Pierluigi Battista sfotte la propaganda: «Ora che il nazismo è stato sbaragliato a Romagrad vogliamo sbaragliare pure la monnezza?». Ma addirittura su Repubblica, e a firma del suo ex direttore Ezio Mauro, si prende coscienza di quel che appare lampante, ma che ha alimentato paginate sullo stesso giornale. Il chiarimento chiesto alla Meloni «non significa automaticamente evocare il pericolo di una riemersione del fascismo - scrive Mauro -. È chiaro che il dramma italiano del secolo scorso non potrà riproporsi in mezzo all'Europa delle costituzioni liberali e nel cuore dell'Occidente democratico. Nessuno lo pensa». A Repubblica forse qualcuno sì, vista la frequenza con cui compare la parola fascismo nei pezzi e titoli del quotidiano («Fondi illeciti e culto del fascismo. Il volto nero di Fratelli d'Italia», «Fascismo e Tolkien. L'educazione sentimentale di Giorgia-Calimera», due titoli a caso). Ieri scambio di tweet tra una giornalista appunto di Repubblica e la Meloni. La prima appunta che la leader Fdi, alla Camera per sentire la ministra Lamorgese sugli scontri di Roma, è «vestita interamente di nero». Le risponde la Meloni: «È blu. Interamente vestita di blu. Quanto vi piace la mistificazione». Paolo Bracalini

Le ideologie sono finite ma ancora ci tormentano. Stenio Solinas il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. "I rondoni" mette in scena gli strascichi, anche famigliari, delle guerre politiche del XX secolo. Cinquantenne, professore di filosofia che detesta i colleghi quanto gli studenti, un matrimonio fallito alle spalle, un figlio difficile, un unico amico, nessuna vita affettiva, Toni, il protagonista di I rondoni, il nuovo libro di Fernando Aramburu (Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pagg. 720, euro 22), si dà ancora un anno di tempo prima di togliersi la vita. Proprio perché è in buona salute, non vuole correre il rischio di ritrovarsi un domani solo, vecchio e malato. Proprio perché la sua è stata al fondo un'esistenza noiosa ritiene che a un certo punto anche la noia rischi di farsi insopportabile. Viene in mente quella frase di André Malraux: «Al mercato della vita le cose si comprano in azioni. La maggior parte degli uomini non compra nulla». Toni, almeno in questo, fa parte della maggioranza. I rondoni appartiene a quel genere di narrativa che si potrebbe definire minimalista nella storia, consolatrice nello stile. Non succede nulla, ma è il nulla che in fondo ci accomuna tutti, dissapori familiari, insoddisfazioni sul lavoro, rimpianti e rimorsi, stanchezza esistenziale, lutti. Nel leggerla ci si può insomma identificare, il che non è esaltante, ma fa sentire meno soli. Una scrittura familiare, quasi colloquiale funge poi da anestetico, una sorta di lungo fiume che si snoda tranquillo, senza mulinelli ritmici che impegnino la mente del lettore-nuotatore, senza correnti di pensiero che lo obblighino a riflettere più di tanto. Ci si lascia trascinare, semplicemente, e che questo possa funzionare, nel caso in questione, per più di settecento pagine è comunque una prova d'autore. Naturalmente, Aramburu è uno scrittore interessante e basterebbe Patria, il libro che lo ha fatto conoscere in Italia, per rendersene conto. Ma mentre lì si aveva a che fare con le passioni ideologiche e politiche, con la violenza della Storia e delle idee, con la cecità che spesso si accompagna alla prima come alle seconde, qui siamo come di fronte a un'atarassia dei sentimenti come del pensiero, un'atarassia non appagata però e che rimanda all'unico gesto possibile per dare un senso al non senso dell'esistere. Spagnolo, Aramburu è un autore contemporaneo e la Spagna novecentesca ha molti tratti in comune con l'Italia, una dittatura, una democrazia che ne prende il posto, ma che comunque deve fare i conti con un passato che non si decide a passare. Toni, il protagonista come abbiamo già detto del suo romanzo, ha un padre comunista, come si può essere comunisti nella Spagna franchista degli anni Cinquanta e Sessanta. È anche lui un professore, universitario, però, la cui carriera dipende dal grado di acquiescenza al regime, e quindi il suo è un comunismo sommerso, non esibito, che però non gli ha evitato una volta il carcere e la tortura E però il nonno di Toni, e quindi il padre di suo padre, era un falangista caduto nella Guerra civile e non sorprende che il figlio comunista se ne vergogni e gli inventi un passato e una morte da eroe repubblicano. Sono gli scherzi della storia quando ci si ostina a vederla in bianco e nero, Bene e Male. I compromessi del padre, il suo conformismo, per quanto riluttante, rispetto al franchismo in cui è vissuto, Toni non li ha dovuti fare. Quando ha vent'anni quel regime non c'è più e lui in fondo è un conformista-eroe del nostro tempo: è uno studente universitario di sinistra, il che, «volente o nolente, ti dava in facoltà una specie di salvacondotto, così come nei secoli passati per evitare problemi con il Sant'Uffizio, la gente approfittava di qualunque pretesto per affermare in pubblico la sua fedeltà alla fede. Tutti noi studenti eravamo di sinistra. Essere di destra, alla nostra età, ci sembrava una disgrazia; non so, come avere una deformità o la faccia punteggiata dall'acne». Il problema di Toni è che la sua è una sinistra mainstream, nel ventre di vacca del progresso, quella che, illudendosi, pensa che il non essere di destra sia la condizione sufficiente perché tutto vada avanti e vada bene. Più che una sinistra all'acqua di rose, è una sinistra insapore, che non nutre dubbi semplicemente perché non ha idee, se non generiche, ecumeniche, rassicuranti. Sotto questo aspetto, lì dove Toni si è ritrovato in democrazia grazie semplicemente all'anagrafe, il padre ha fiutato subito che non era roba per lui: «Mi sono ricordato della sua amarezza politica, dell'uscita dal partito due anni dopo la sua legalizzazione. Per questo ho rischiato la pelle?' si lamentava. Per continuare con la stessa bandiera, lo stesso inno, e restaurare la monarchia?'» Andando più in profondità, anche Toni però si rende conto che «papà sognava una Spagna simile a quella di Franco, ma con un leader comunista al posto di un caudillo ultracattolico e militare» Del resto, è un marito manesco e un padre che non sopporta figli piagnucolosi, tanto meno effemminati Il mainstream di oggi lo definirebbe un fascista, il che aggiunge confusione, ma rassicura comunque le coscienze. Se un comunista si comporta male è perché si comporta da fascista, evidentemente una categoria dello Spirito ignota a Kant. Alla fine, il risultato a cui il cinquantenne Toni arriva, mentre contempla l'idea del proprio suicidio, è quello di essere un militante «da lunghi anni del PPSS, del Partito di chi preferisce Stare Solo, in cui non ho alcun incarico. Tutto il programma del mio partito si riduce a uno slogan: lasciatemi in pace». È un approdo interessante che riguarda molti della sua generazione, e non solo in Spagna, ma anche in Italia, dove a un certo punto il mainstream del politicamente corretto va in tilt per il troppo uso, per il voler essere sempre e comunque in accordo con le idee «giuste», con il ron ron benpensante del mondo senza guerre, dove tutti si devono voler bene, dove non si devono avere pensieri cattivi, dove c'è spazio solo per i buoni sentimenti e dove, va da sé, ci si deve sempre scusare di qualcosa Per quanto seppellito, c'è sempre un fondo reazionario che spunta fuori quando la misura è colma e l'acqua del politicamente corretto tracima: «I nostri attuali legislatori si sono inventati un cosiddetto delitto di odio'. Immagino che pensino al terrorismo e cose del genere; ma dov'è il limite fra dimensione pubblica e quella privata? Ci mancherebbe soltanto che una legge approvata alla Camera dei Deputati mi proibisse di odiare la preside della mia scuola. Il giorno dopo mi incatenerei con un cartello di protesta al carro della Fontana di Cibele. Ora i governanti si mettono a regolare a scopi restrittivi i nostri sentimenti come chi detta le norme del traffico. Fa un po' schifo quest'epoca». Sulla stessa lunghezza d'onda si situa del resto il programma ministeriale spagnolo volto alla Prevenzione del Suicidio, con annessa Giornata Mondiale dedicata all'argomento: «Mi domando come faranno a dissuadermi dalle mie intenzioni. Circuendomi con denaro pubblico? Ricoverandomi in un frenocomio? Mandandomi ogni mattina un cantautore a casa a cantarmi Gracias a la vida? Il programma ministeriale contempla il rilevamento precoce di indizi chiamati, in linguaggio burocratico, ideazioni suicide', per la qual cosa si richiede la collaborazione delle persone vicine all'imminente suicida». Senza scomodare la Spagna, vale la pena ricordare che anni fa andava di moda in Italia lo slogan «intercettateci tutti», una sorta di polizia del pensiero travestita da principio etico. Torneremo alla fine sul tema del suicidio, che è poi il tema centrale di I rondoni. Prima però l'altro elemento di questo mainstream progressista cui Aramburu accenna nel libro è un tipo di letteratura «superficiale nel suo pretenzioso psicologismo, nell'eccessivo peso dell'introversione sentimentale», tipico di chi «si unisce al coro dei grilli che cantano alla luna, per vedere se pensando in gruppo la sua mediocrità passi inosservata». È un po' quella narrativa ombelicale da cui siamo partiti, che è una cosa diversa dal solipsismo di certa grande letteratura che sente il suo io diverso dagli altri e perciò lo racconta. Qui l'importante è essere assolutamente come gli altri, cercarne e/o vellicarne il consenso. Anche I rondoni qui e lì cade in questa trappola-cliché, non fosse che Aramburu ha sufficiente padronanza di scrittore per limitarne i danni. Lo salva anche, è una considerazione di Toni, mai come in questo caso alter ego dell'autore, il suo essere «di sinistra, ma non in forma permanente». Applicato al tema del suicidio, questa intermittenza suona tuttavia paradossale. Toni ritiene che la celebre frase di Camus «c'è soltanto un problema filosofico davvero serio. Il suicidio», sia «una trovata gratuita». Vivere, dice, non è un compito filosofico e quindi «ci mancava soltanto questo: suicidarsi perché non quadrano gli enunciati di un sillogismo!». Per quello che lo riguarda, il suo è una forma di stanchezza e di noia nello «svolgere un ruolo in un film che mi sembra mal concepito e peggio realizzato. Questo è tutto, Nuland». Anche il nulla è però un tema filosofico, e se Camus non lo convince non si capisce perché dovrebbe andargli bene Sartre... Ma è, sia pure ironicamente, la «permanenza» della sinistra a prevalere alla fine, l'idea di una sorta di solidarietà: «Perché non avere l'eleganza, persino la dignità, di lasciare il posto ad altri? Uscire di scena sulle mie gambe non potrebbe anche essere interpretato come un apporto?» Il gesto più individuale che ci sia, diventa un surrogato del benessere altrui, il che è tipicamente del mainstream del progresso. Noi restiamo con Montherlant: «Essere padroni del proprio destino: almeno del suo strumento, e della sua ora». Stenio Solinas

Il suo “marchio indelebile” è il dispotismo. Eredità bolscevica, ecco perché non regge il paragone dello storico Luciano Canfora. Biagio De Giovanni su Il Riformista il 12 Ottobre 2021.

1917 – Rivoluzione Russa. Piazza di Pietroburgo con rivoluzionari attorno alla statua dello zar. Luciano Canfora mette talvolta le sue grandi qualità di storico antico al servizio di tesi anche polemicamente molto delineate, e di solito il terreno fertile ed estemporaneo su cui esercita la sua intelligenza è quello della politica. Avviene talvolta che da lui si apprenda, altre volte che stimoli lo spirito critico, sempre buono, dunque, l’effetto. Mi è capitato di leggere un suo articolo sul Corriere della sera, sintesi della Prefazione che ha scritto per un volume di Sergio Romano, un articolo intitolato così: “L’Urss è morta e vive ancora. Nella Russia di oggi rimane incancellabile il marchio della rivoluzione bolscevica”. A prima vista questa idea registra una cosa ovvia, essendo evidente che una vicenda lunga e complessa come quella di cui si parla abbia lasciato tracce nelle società e tra i popoli fra i quali è avvenuta, e nella stessa storia del mondo. Ma non coincidendo affatto il testo di Canfora con la filiera dell’ovvio, esso racconta una tesi ben più articolata, ma assai discutibile. E proprio perché sostenuta da un autorevole storico, val la pena parlarne. Marchio incancellabile della Rivoluzione nella Russia di oggi? Vediamo. L’Urss è morta quando la Rivoluzione del 1917 è finita nel nulla, come Rivoluzione che aveva promesso e profetizzato la redenzione dell’umanità -espressione che si trova nelle “Tesi sulla storia” di Walter Benjamin– o, a essere meno ambiziosi, a promuovere il superamento del 1789: questa, Rivoluzione borghese, l’altra Rivoluzione proletaria, dei vinti che non avevano che da liberarsi delle loro catene, una storia che avrebbe visto i vinti della storia vincere sui vincitori di sempre. Oggi la Russia è una democrazia di massa illiberale e dispotica, gli oppositori in carcere, chiusa nei suoi confini culturali e politici. Il “marchio incancellabile” del dispotismo, proprio della rivoluzione bolscevica, resta, certo in tono minore, ma deprivato di ogni aspettativa più o meno salvifica. La Russia non è più quella dello zar, per cui ha ragione Canfora quando afferma che è sbagliato parlare dello “zar Putin”, ma questo fa ancora parte di quella filiera dell’ovvio di cui si è detto. Il fatto è che le ambizioni dell’autore sono ben altre. E si rivelano per intero con il paragone -il cuore dell’articolo- tra gli esiti della Rivoluzione francese, 1789, e gli esiti del 1917, e qui, per davvero, i conti non tornano, nel confronto “neutrale” del testo. È vero, e peraltro ben noto, che le vicende successive al 1789 furono talmente diverse tra loro, dall’impresa napoleonica al ritorno del sovrano, fratello di quello decapitato, all’esperienza di varie forme di Stato, da escludere osmosi dirette e coerenti con le idee della Rivoluzione. Ma quella data, nei principii che affermò, innestandoli nella storia concreta, tra molte e contrastate vicende, ha contribuito a produrre la costituzionalizzazione dell’Europa, ha portato il “marchio incancellabile” dei suoi principii in una idea di libertà politica e di tolleranza, preparata dal pensiero dell’Illuminismo. Un’idea che sta tra noi, nel nostro pur contraddittorio e certe volte tragico presente, sta dentro le nostre costituzioni, è la vicenda che segna un progresso politico incancellabile della storia umana. Il paragone con il 1917 non regge. Dove questa data è diventata Rivoluzione, in Russia, ha dominato ininterrottamente, fino al 1989, per un tempo lungo e omogeneo, prima il terrore politico, poi l’oppressione di popoli confinanti e dello stesso popolo russo. Il “marchio incancellabile della rivoluzione bolscevica” resta, dunque, all’interno di quella società, a testimoniare un fallimento, l’esito povero, chiuso, rovesciato, dell’ultima filosofia della storia che voleva decidere del destino dell’umanità e finì nel terrore staliniano, ma val la pena di ricordare che quella del 1917 fu una “Rivoluzione contro il Capitale”, contro l’opera di Marx, come scrisse Antonio Gramsci. Poco a che vedere, nell’articolazione della sua storia, con la filosofia di Karl Marx. Essa non fu preparata da una filosofia, fu un colpo di Stato ben riuscito. Il terrore incominciò con Lenin, non con Stalin, un marchio incancellabile resta, in forma certo minore, ed è il dispotismo. Biagio De Giovanni

Antifascisti, siete anticomunisti? Marco Gervasoni il 4 Ottobre 2021 su Il Giornale. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi "antifascisti" ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. La vicenda della cosiddetta «lobby nera» e la ricorrente accusa a Giorgia Meloni, ma anche a Matteo Salvini, di non dichiararsi «antifascisti» ci ricorda quando la sinistra attaccava ossessivamente il Berlusconi assente dalle celebrazioni del 25 aprile. Quando poi nel 2009 a Onna, sulle rovine del terremoto, il Cavaliere presidente del Consiglio vi prese parte e pronunciò anche un bel discorso, la sinistra spostò il tiro su altre questioni, e accadde quel che sappiamo. Questo per dire che, in buona parte dei casi, come questo di una «inchiesta» diffusa a due giorni dal voto, l'antifascismo è solo un pretesto, e anche molto ipocrita e peloso. Sarebbe tuttavia limitativo fare spallucce e rispondere solo in questo modo. In primo luogo perché l'argomento fa parte della lotta politica ed è utilizzato come arma, a cui bisogna rispondere. In secondo luogo, perché l'antifascismo è si qualcosa che appartiene al passato ma il passato, anche quello antico, fa sempre parte del presente - la storia è sempre storia contemporanea, noto adagio crociano. E tra fascismo e antifascismo non ha solo vinto quest'ultimo ma la ragione stava da questa parte: da quella di Roosevelt, di Churchill, di De Gaulle, di De Gasperi, di Sturzo, di Einaudi, di Matteotti e dei Fratelli Rosselli, e così via. A un regime che si impose con la violenza, soffocando la libertà e la democrazia, come quello fascista, Giorgia Meloni, Carlo Fidanza e tutti i militanti ed elettori di Fdi sono lontani anni luce; e oggi sicuramente lo combatterebbero. Dal nostro punto di vista quindi, non dovrebbe esserci problema alcuno a dichiararsi antifascisti. Purché ci si dica al tempo stesso anticomunisti. I due termini dovrebbero essere inseparabili: non si può essere antifascisti se non si è anche anticomunisti. Come scriveva François Furet, tutti i democratici sono antifascisti ma non tutti gli antifascisti sono democratici: basti pensare a Stalin, a Tito, e via dicendo. Allo stesso tempo, non si può essere anticomunisti se non ci si definisce pure antifascisti: perché la lotta al comunismo va condotta avendo in mente la democrazia e la libertà, non esperimenti autoritari. Si tratta di questioni storiche passate? Forse. Sta di fatto che il fascismo è morto nel 1945 mentre il comunismo è vivo e vegeto (la Cina, a Cuba, alla Corea del Nord ecc) e alle Comunali si parano miriade di liste con falce e martello. E allora rivolgiamo noi la domanda agli antifascisti (a fascismo morto) in servizio permanente ed effettivo: siete disposti a dichiararvi anticomunisti? Marco Gervasoni 

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 6 ottobre 2021. Io voglio sapere come fa Michele Serra a scrivere che «è risaputo» che gli italiani di estrema destra sarebbero «qualche milione, storicamente attorno al 10-15 per cento dell'elettorato». Voglio sapere come fa a scrivere che «la destra non ha mai fatto i conti con il fascismo» senza che gli si spezzi la penna, e definendo la frase, anzi, «per niente retorica», e non spiegando perché Casapound e Forza Nuova abbiano consensi da entomologi. Voglio sapere come lo storico Franco Cardini (ex scritto al Msi che faceva il saluto romano, poi nel 1965 si innamorò di Fidel Castro) faccia a dire che «l'eredità neofascista non è stata sufficientemente elaborata». Voglio sapere dalla politologa Sofia Ventura che cosa intenda quando parla di «contraddizione irrisolta». Voglio sapere da Serra, Cardini e la Ventura se ricordano che Gianfranco Fini disse che le leggi razziali furono «un'infamia», che «Salò fu una pagina vergognosa», che «il fascismo fu il male assoluto», che visitò le Fosse Ardeatine, la Risiera di San Sabba e il museo dell'Olocausto (con la kippah in testa) e che non servì a nulla, anzi, rese Fini ridicolo in un Paese dove sopravvivono l'Anpi, i negazionisti delle foibe, e dove qualche sindaco che ha dedicato vie al Maresciallo Tito, a Lenin, Ho Chi Minh, Mao Tze Tung, financo a Josef Stalin il quale persino Putin, nel 2015, definì ufficialmente un criminale comunista.

A destra ferve il dibattito per appurare quale sia la matrice di tutte le stronzate che fanno. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 13 ottobre 2021. Rampelli si autosmentisce, La Russa denuncia una strategia della tensione e Meloni rivendica in spagnolo il suo essere italiana. Ma se in piazza i neonazi protestano contro la dittatura e invocano una nuova Norimberga, forse la causa non è così chiara nemmeno a loro. Scoccata l’ora delle decisioni irrevocabili, poco dopo pranzo, Fabio Rampelli ha annunciato ieri la scelta di votare la mozione che chiede lo scioglimento di Forza Nuova – ma no, che avete capito? Mica quella del centrosinistra. A chi ha l’ingrato compito di raccontare o commentare la politica italiana, ormai, conviene partire dalle precisazioni. Ecco dunque la precisazione di Rampelli, vicepresidente della Camera e dirigente di primo piano di Fratelli d’Italia: «Il voto favorevole di Fratelli d’Italia cui mi riferivo in un’intervista radiofonica è sulla mozione unitaria proposta dal centrodestra che, partendo dall’assalto alla sede della Cgil, chiede la condanna di ogni forma di totalitarismo e auspica lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica. Quindi non riguarda Forza Nuova, ma tutti i soggetti che utilizzano i suoi stessi metodi». Avendo riportato, preventivamente, il testo integrale della precisazione, mi permetto di sottolineare quello che mi pare il passaggio-chiave: «Non riguarda Forza Nuova». Ricapitolando, siccome sabato scorso esponenti di Forza Nuova hanno guidato un assalto alla sede della Cgil, devastandone gli uffici, per poi tentare di attaccare anche Palazzo Chigi e il Parlamento, il centrodestra ha ritenuto giusto presentare una mozione che condanna «ogni forma di totalitarismo» e auspica «lo scioglimento di tutte le formazioni eversive che utilizzano la violenza come strumento di lotta politica». Ma perché – si chiederanno a questo punto i miei piccoli lettori – c’erano forse altri partiti, movimenti, associazioni culturali o circoli ricreativi, a parte Forza Nuova, a dare l’assalto alla Cgil? No, nessun altro. Fermamente intenzionato a spezzare le reni alla logica, sempre ieri, Rampelli dichiara inoltre all’Huffington post: «Per coincidenza astrale, questi fatti accadono solo sotto elezioni. Ne deduco che Forza Nuova ha un’alleanza di ferro con il Partito democratico». Coincidenza astrale o congiunzione casuale che sia, l’affermazione sembra riecheggiare la teoria di Ignazio La Russa, altro autorevolissimo esponente di Fratelli d’Italia, riportata due giorni fa dal Corriere della sera, circa la reale motivazione per cui, fino alla settimana scorsa, né l’attuale esecutivo né i precedenti si sarebbero preoccupati di sciogliere partiti e movimenti neofascisti: «Delle due l’una: non avevano le motivazioni per scioglierli o hanno preferito tenerli lì, magari come strumenti utili per la strategia della tensione?».

L’ipotesi che nessuno lo abbia fatto prima semplicemente perché fino alla settimana scorsa nessuno aveva assaltato la sede della Cgil, evidentemente, non ha sfiorato né La Russa né Rampelli nemmeno per un attimo. Eppure, considerando da dove erano partiti, l’intero dibattito potrebbe sembrare persino un passo avanti. La prima dichiarazione a caldo di Giorgia Meloni, che di Fratelli d’Italia è la leader, cominciava infatti con le parole: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco». E pensare che sarebbe bastato cercare la parola «squadrismo» su un buon dizionario. D’altronde, nel momento in cui faceva queste dichiarazioni, Meloni si trovava nel contesto non troppo adatto di una manifestazione di Vox, il partito neofranchista spagnolo, impegnata a ripetere dal palco, in perfetto castigliano, perché si sente orgogliosamente italiana. Riciclando per l’occasione la traduzione letterale del suo cavallo di battaglia: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana…». In pratica, una via di mezzo tra un comizio di Giorgio Almirante e un balletto su Tik Tok. Nonché la conferma del fatto che, se mai un giorno lontano rivivremo la tragedia di una dittatura fascista, al posto dei cinegiornali Luce ci sarà Striscia la notizia. E questa sarà la sigla. Del resto, stiamo parlando del partito che ha candidato a sindaco di Roma un signore, Enrico Michetti, che l’anno scorso, non settant’anni fa, a proposito dell’Olocausto, scriveva: «Mi chiedo perché la stessa pietà e la stessa considerazione non viene rivolta ai morti ammazzati nelle foibe, nei campi profughi, negli eccidi di massa che ancora insanguinano il pianeta. Forse perché non possedevano banche e non appartenevano a lobby capaci di decidere i destini del pianeta». Una frase talmente vergognosa che ha spinto Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia, a twittare subito (pur senza alcun diretto riferimento a Michetti, beninteso): «Il ricordo della Shoah non può e non deve essere patrimonio degli ebrei ma di tutti ed ognuno. Perché la Shoah è l’emblema del male, il male ontologico, come direbbe Heidegger, l’essenza categoriale del male. Ed il male si combatte tutti uniti, senza dubbi, senza divisioni». Forse però un dubbio sarebbe stato meglio farselo venire, considerato che Martin Heidegger, oltre che un grande filosofo, era un nazista convinto. Ma queste ormai sono sottigliezze cui non fa più caso nessuno. Alla manifestazione dei no green pass, non so se l’avete notato, esponenti di un partito neofascista hanno sfilato per protestare contro la «dittatura sanitaria» e gridando «libertà! libertà!», prima di assaltare la sede della Cgil e dopo che il magistrato Angelo Giorgianni, dal palco, aveva invocato contro il governo nientemeno che un nuovo «processo di Norimberga». E quelli, con le loro belle svastiche tatuate sul braccio, ad applaudire a più non posso. Forse allora aveva ragione la mujer italiana, madre y cristiana di cui sopra: la matrice non è poi così chiara. Nemmeno agli autori. D’altra parte, parafrasando Altan, a chi di noi non capita di domandarsi, almeno ogni tanto, quale sia la matrice di tutte le stronzate che fa? 

Dagospia il 12 ottobre 2021. Da radioradio.it. L’autunno caldo sembra essere arrivato, ma a una certa corrente politico-mediatica non fa di certo piacere. Cittadini, lavoratori, persone di ogni fascia sociale scendono in piazza contro imposizioni e restrizioni del Governo Draghi, Green Pass in primis. Le proteste che vanno avanti da questa estate fanno sempre più rumore, anche se il grido di rabbia del popolo resta inascoltato a causa di un ristretto gruppo di estremisti infiltrati tra i manifestanti. Quello di sabato scorso partito da Piazza del Popolo a Roma è stato solo l’ultimo atto di una rivolta di migliaia di persone diventata presto una rappresaglia di altra natura. Il risultato, ancora una volta, è stato riaccendere l’allarme eterno di un ritorno del fascismo. Tra chi ritiene sbagliato ridurre a ciò la portata delle recenti sommosse c’è anche il giornalista Massimo Fini, che ne ha parlato ai microfoni di Francesco Vergovich a Un Giorno Speciale. Queste le sue parole. 

 “Questa è una democrazia malata”

“Ogni idea in democrazia ha diritto di esistere a meno che non si faccia valere con la violenza. Sarebbe riduttivo pensare che non ci sia un malcontento e una diffidenza nei confronti della democrazia. Lo dice il 48% di astensione. Non posso pensare che siano tutti degli eversivi. I partiti dovrebbero ragionare sul dato dell’astensione e sulla diffidenza di molti sul sistema democratico-partitocratico. Questo sistema è malato, una partitocrazia. Si sbaglierebbe se si dicesse che è solo un fenomeno fascista, ma è qualcosa di più diffuso. Molti cittadini non si sentono più rappresentanti. Sono contrario allo scioglimento di Forza Nuova, ogni idea deve poter esistere purché non si faccia valere con la violenza. Quelli che hanno assaltato la CGIL o la Polizia devono andare in prigione. La stampa racconta malissimo. Il dato più impressionante era l’astensione, hanno perso tutti“. 

“È stato creato un clima di terrore”

“Per quanto riguarda l’epidemia hanno fatto un terrorismo costante e continuo. Se ogni giorni ti parlano dell’epidemia e dei morti, hai una reazione di rigetto. È stato creato un clima di terrore. La stampa ha assecondato il peggiore allarmismo. Sull’Afghanistan hanno detto solo balle per esempio. C’è una miopia della classe politica e della stampa che spesso è a servizio della prima invece di svolgere una funzione di critica. L’uso sistematico del termine fascismo è controproducente. Se tu ogni giorno ne parli ha un effetto contrapposto, sono strumentalizzazioni“.

“Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo”

“Puoi fare una legge per l’obbligo del vaccino, ma non puoi non proibire formalmente la scelta opposta e poi renderlo obbligatorio, questo irrita moltissimo. Dovevano avere il coraggio di dire che il vaccino era obbligatorio per legge. Il cittadino si irrita di fronte a ciò che è subdolo, a ciò che è fatto in modo subdolo. Il farlo in forma obliqua lo rende iniquo“.

Altro che minaccia fascista: ecco cosa interessa davvero agli italiani. Francesca Galici il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ultima rilevazione social ha evidenziato il solco tra i Palazzi e il popolo, preoccupato per il suo futuro in vista dell'introduzione del Green pass per i lavoratori. Il weekend di scontri nelle principali città italiana ha inevitabilmente influenzato il dibattito settimanale. La politica e i cittadini si sono confrontati su diversi temi legati a quanto è accaduto a Roma e a Milano e Socialcom ha restituito una fotografia fedele del sentimento del Paese attraverso il flusso delle discussioni social che, ormai, può essere considerato uno specchio affidabile del cosiddetto Paese reale. Le rilevazioni Socialcom hanno messo in evidenza come ci sia ormai una grande distanza tra i temi affrontati dal Paese reale e quelli che, invece, vengono spinti da una certa politica, che continua a muoversi sull'onda della propaganda ideologica, cieca davanti ai veri problemi degli italiani che riguardano soprattutto il lavoro. Al centro del dibattito nazionalpopolare c'è soprattutto il Green pass e ogni altro argomento, anche gli scontri, sono a questo correlato. Tra il 1 e l'11 ottobre, in Italia, "sono state oltre 1,53 milioni le conversazioni in rete sul tema, che hanno prodotto 7,26 milioni di interazioni". Numeri importanti che hanno raggiunto il picco il 10 ottobre, giorno successivo all'assalto alla Cgil e agli scontri, con 872mila pubblicazioni. È vero che le immagini di Roma in stato di guerriglia urbana hanno colpito l'opinione pubblica ma sono state le preoccupazioni per la possibile perdita del posto di lavoro e la conseguente sospensione del salario a catalizzare maggiormente l'attenzione. Il Paese reale è più interessato a capire come farà a mantenere le proprie famiglie piuttosto che a una ipotetica minaccia fascista, argomento che da sinistra viene sostenuto fin dai momenti immediatamente successivi allo scontro. Ma la percezione dei cittadini in questo momento è un'altra ed è alienata dalla preoccupazione per il proprio futuro lavorativo. Non c'è connessione tra le due posizioni e lo certifica anche il report Socialcom: "I termini legati al mondo del lavoro sono utilizzati con più frequenza rispetto al termine 'fascista'. Segno che gli italiani percepiscono con maggior preoccupazione il pericolo della perdita dell’impiego, o del salario, piuttosto che una minaccia estremista". Nella classifica dei termini correlati al macro argomento "Green pass", nei primi tre posti per numero di interazioni si trovano, in quest'ordine: "vaccinare", "15 ottobre", "vaccino". Seguiti da "entrare", "Italia", "vivere", "lavorare". Il termine "fascista" è scivolato al 14esimo posto.

E proprio questa distanza è alla base di un'altra importante rilevazione effettuata da Socialcom. Tutti i politici hanno subìto un contraccolpo nel sentiment ma, come si legge nel report, "a sorprendere più di tutti è il crollo del sentimento positivo nei confronti di Maurizio Landini, leader della Cgil". In particolare, in sole 48 ore il sentimento negativo verso Landini è passato dal 50% dell’8 ottobre al 91,21% del 10 ottobre. E questo nonostante l'assalto alla sede romana del sindacato di cui Landini è segretario. Socialcom fornisce un'ipotesi per giustificare questo calo, correlato a quello di Enrico Letta: "È presumibile ipotizzare che gli utenti abbiano giudicato affrettate le conclusioni dei due relative alla matrice degli atti di violenza".

Francesca Galici

Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

No pass, disoccupati, complottisti, centri sociali: le (molte) anime della protesta. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Non solo estremisti di destra o sinistra: c’è anche chi è in povertà, chi teme il futuro, precari, rider e pensionati. Il sociologo Domenico De Masi: ci sono cinque milioni di poveri assoluti e sette di poveri relativi, una insicurezza che tracima. Come i sanfedisti d’un tempo lontano, anche i ribelli del green pass possono pensare che lassù qualcuno li ami. Carlo Maria Viganò, dopo aver tuonato in videomessaggio contro «la tirannide globale» ed essersi spinto, crocefisso al collo, a sostenere che «i camion di Bergamo contenevano poche bare» e che ai medici d’ospedale era stato «vietato di somministrare cure» anti Covid, ha benedetto i diecimila di piazza del Popolo invitandoli a recitare il Padre Nostro prima della pugna. La predica complottista del controverso monsignore ostile a Bergoglio è stata poi oscurata dall’assalto di Castellino, Fiore e dei camerati di Forza nuova contro la sede della Cgil. E tuttavia sarebbe miope derubricare a folclore antilluminista da un lato o a rigurgito neofascista dall’altro il magma ribollente che da sabato scorso a sabato prossimo ha unito e unirà, in decine di sit-in e marce, sindacati di base e antagonisti, disoccupati e camalli, camionisti, mamme spaventate e pensionati indigenti, rider e insegnanti, contro il lavoro povero, l’esclusione dalla ripresa, la precarietà, le scorie di un anno e mezzo di reclusione collettiva: un mix di rivendicazioni per un nuovo autunno caldo al quale l’obbligo di passaporto sanitario sembra fare da collante e casus belli. Siano centomila come i manifestanti delle quaranta piazze di sabato scorso o il milione in sciopero lunedì secondo le sigle di base o, ancora, siano quelli che già domani si sono dati nuovi appuntamenti di battaglia, i disagiati di questa stagione ribollente si muovono veloci e si autoconvocano sui social (quarantuno le chat e i canali Telegram censiti a settembre dagli analisti di «Baia.Tech», con circa duecentomila partecipanti). Fatte salve le buone ragioni per sciogliere un’organizzazione che pare ricadere in pieno nelle previsioni della legge Scelba, le manifestazioni successive, da Milano a Trieste, da Torino a Napoli e in mezza Italia, dicono molto altro. «Al netto della violenza, la tensione sociale e le preoccupazioni per lavoro e condizioni di vita sono oggettive», ammette Valeria Fedeli, senatrice pd dalla lunga militanza sindacale: «È un passaggio anche drammatico, con scadenze come lo stop al blocco dei licenziamenti a fine mese e la necessità di riformare gli ammortizzatori sociali. La responsabilità delle organizzazioni confederali è aumentata, le associazioni minoritarie cercano di sfruttare la situazione a loro vantaggio». Le ricorda il clima del ’77? «Con una differenza, però: stavolta abbiamo risorse di sostegno che dobbiamo fare arrivare, effettivamente, alla gente. Politica e sindacato devono controllare che avvenga».

Un carico di rancore

La sfilata di Milano sotto la Camera del Lavoro, con Cobas, Usb, neocomunisti e centri sociali che hanno strillato «i fascisti siete voi!» ai militanti della Cgil, in cordone a difesa della loro sede, ha impressionato per il carico di rancore in giornate (dopo il sabato egemonizzato da Forza nuova a Roma) che avrebbero dovuto portare solidarietà nella sinistra: pia illusione. Ai microfoni di Radio Radio (l’emittente romana cara al candidato del centrodestra capitolino Enrico Michetti), il segretario comunista Marco Rizzo (stalinista mai davvero pentito), dopo aver bastonato il Pd come «geneticamente mutato» e il green pass quale «misura discriminatoria», s’è avventurato a intravedere una «nuova strategia della tensione» (teoria peraltro rilanciata ieri alla Camera da Giorgia Meloni) che avrebbe «permesso» l’aggressione alla Cgil di Roma: «La polizia aveva tutti gli strumenti per fermare quel gruppo di persone. O hanno lasciato fare o qualcosa di peggio. Dopo quell’episodio si rafforza il governo e vengono criminalizzati i movimenti di opposizione. Si stringe sulle manifestazioni e i cortei d’autunno. Questo governo vuole la divisione del popolo perché così non si vedono 60 milioni di cartelle esattoriali che arriveranno, non si vedono le nuove norme sulla Green economy con un aumento delle bollette dell’energia». Se radicalismi di destra e sinistra s’incrociano nel complottismo, teorie di sapore antico si mescolano e si moltiplicano, oggi, tramite i moderni strumenti del mondo globale. Su Telegram i legali del Movimento Libera Scelta indottrinano chi, fra i tre milioni e passa di lavoratori sprovvisti di green pass, voglia tenere duro e chiamano allo sciopero generale per domani: «Non presentatevi al lavoro e impugnate la sanzione, il governo non ha dimostrato la persistenza dell’epidemia, si viola l’articolo 13 della Costituzione». L’avvocata Linda Corrias, citando Gandhi, invita anche «alla preghiera e al digiuno, che necessitano di dedizione e pertanto di astensione dal lavoro per essere in pienezza di grazia: questo l’informazione di regime non ve lo dirà mai».

Veri dolori e assurde paranoie

E mentre rimbalzano di post in post locandine sulle manifestazioni di domani (a Messina in piazza Antonello ore 10, a Roma in Santi Apostoli con la pasionaria Sara Cunial), Hard Lock si chiede se «qualcosa di concreto si organizzerà anche a Napoli» (dove sbucano gli immancabili neoborbonici), Michele impreca perché «le ore passano e tra poco resterò senza lavoro, Paese gestito da parassiti velenosi», si minacciano blocchi a porti, trasporti e rifornimenti, Gianluca è convinto che «ricattano i giovani con la discoteca e li spingono a vaccinarsi», e Angelo scolpisce il suo aforisma: «Non ci sono più i giovani d’una volta!». È questo insondabile minestrone di pubblico e privato, veri dolori e assurde paranoie a complicare le analisi. Perché se è ovvio che vadano presi molto sul serio gli 800 (su 950) portuali triestini i quali (cantilenando «Draghi in miniera/Bonomi in fonderia/questa la cura per l’economia») minacciano di fermare lo scalo, o i loro compagni di Genova che già hanno fermato Voltri non tanto per il green pass quanto per il contratto integrativo, una vertigine coglie chi si imbatta nella teoria del «transumanesimo» di cui Draghi sarebbe apostolo («fautore del benessere di tutti gli esseri senzienti, siano questi umani, intelligenze artificiali, animali o eventuali extraterrestri...») o nelle «rivelazioni» sulla soluzione fisiologica inoculata a Speranza in luogo del vaccino e sulla letalità dei vaccini medesimi (un caso su due su un campione di... dieci) propugnata da una dottoressa altoatesina assai contrita. Per una testa balenga di «Io Apro» finito in copertina per essersi filmato durante l’incursione nella Cgil, «si sfonda! si sfonda!», ci sono tanti gestori di bistrot, bar e ristoranti piegati da diciotto mesi di provvedimenti ballerini. Per un violento, cento violentati.

Autobiografia della nazione. Fascisti, imbecilli e il medesimo disegno populista di Meloni, Salvini e Grillo. Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 ottobre 2021. La battaglia contro la violenza politica è urgente e necessaria. Va bene fermare i responsabili, ma non si possono trascurare le evidenti pulsioni antidemocratiche dentro le istituzioni. Resta un mistero perché i leader delle tre forze parlamentari meno repubblicane non se ne rendano conto. Sono complici o solo incapaci? I fascisti e gli imbecilli ci sono, ci sono sempre stati, adorano farsi notare, anche se raramente sono stati così visibili e rumorosi come nell’era dell’ingegnerizzazione algoritmica della stupidità di massa. I fascisti e gli imbecilli si fanno sentire sia in remoto sia in presenza, all’assalto della Cgil, nei cortei no mask, no vax, no greenpass e contro la casta, ma anche in televisione e in tre delle quattro forze politiche maggiori del paese. In termini di adesione ai principi fascisti e dell’imbecillità, non c’è alcuna differenza tra le piazze grilline e quelle dei forconi, tra i seguaci del generale Pappalardo e i neo, ex, post camerati della Meloni, tra i baluba di Pontida e i patrioti del Barone nero, tra i vaffanculo di Casaleggio e i gilet gialli di Di Maio, tra i seguaci di Orbán e quelli di Vox, tra i mozzorecchi di Bonafede e i giustizialisti quotidiani, tra i talk show complici dell’incenerimento del dibattito pubblico e gli intellettuali e i politici illusi di poter romanizzare i barbari. Si tratta del medesimo disegno populista a insaputa degli stessi protagonisti, alimentato dagli agenti internazionali del caos, facilitato dal declino americano e semplificato da una classe dirigente politica mediocre e senza scrupoli.

Negli anni Ottanta, Marco Pannella ha aperto i microfoni di Radio Radicale a chiunque avesse voglia di dire qualcosa e il risultato è stato Radio Parolaccia, una versione impresentabile dello Speaker’s corner di Hyde Park. Alla radio non sentimmo soltanto dei logorroici fuori di testa parlare di qualsiasi cosa, ma anche i portatori patologici di rabbia e risentimento, di spinte autoritarie e di nostalgie del Ventennio. Con la rivoluzione giudiziaria del 1993 e con l’idea che il sospetto fosse l’anticamera della verità, quella rabbia e quel risentimento sono diventati opinione corrente e siamo entrati nella fase embrionale dell’attuale stagione populista e antipolitica. In questi ultimi dieci anni di populismo ne abbiamo viste di ogni tipo, come neanche in un film dell’orrore, con personaggi improbabili assurti a statisti e con neo, ex e post fascisti risuscitati ma non come ai tempi in cui Berlusconi li aveva «sdoganati» dopo averli ripuliti facendogli rinnegare il fascismo, abbandonare i simboli nostalgici e omaggiare la cultura e la tradizione politica e religiosa ebraica. Adesso non c’è più bisogno di trucco e parrucco, la destra ha perso quella sottilissima patina liberale e conservatrice, libertaria in alcuni casi, ed è tornata nazionalista, reazionaria e autoritaria. La fiamma tricolore ha ripreso a scaldare i cuori e le spranghe dei militanti, lo sputtanamento è diventata la regola principale della politica e altre dottrine manganellatrici digitali si sono aggiunte a metodi più oliati e tradizionali. Giusto chiedere adesso lo scioglimento di Forza Nuova e di Casa Pound per il  tentativo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, anche se non c’era bisogno di aspettare l’inizio di ottobre del 2021 per accorgersene. Ma non si possono considerare diversi o legittimi quei partiti presenti in Parlamento che invocano Mussolini, che si radunano con i saluti romani, che ammiccano alla marcia su Roma, che millantano di essere pronti ad aprire il Parlamento come una scatoletta del tonno, che diffondono fake news dei Savi di Trump e di Putin, che schierano la navi militari per impedire di salvare i naufraghi in mare, che si fanno dettare gli interessi nazionali da regimi autoritari non alleati, che invocano soluzioni liberticide, che pensano di lucrare politicamente sull’emergenza sanitaria, che parteggiano per il disfacimento delle istituzioni europee, che professano il superamento della democrazia rappresentativa. La battaglia contro i vecchi e i nuovi fascismi è urgente e necessaria. È una battaglia globale e non solo italiana, la vittoria di Joe Biden è stata una condizione necessaria ma non sufficiente e non basta scrivere «antifa» nella bio di Twitter per depotenziare le spinte fasciste.

Sciogliere tutte le organizzazioni antidemocratiche di vecchio e nuovo conio è auspicabile ma non è possibile, va bene cominciare con quelle più violente, ma sarebbe sufficiente intanto non legittimare chi democratico non è ed evitare che i gruppi neo fascisti si possano infiltrare nelle proteste contro i green pass per manipolare i fessi e amplificare le proprie adunate. Resta un grande mistero perché Giorgia Meloni continui ad ammiccare ai nostalgici del Duce e a omaggiare i nemici strategici dell’Italia e dell’Europa, così come perché i grillini non prendano le distanze dai no Vax e dagli antisemiti che hanno portato in Parlamento e perché Matteo Salvini non colga l’occasione di Draghi al governo per trasformare il centrodestra in una coalizione europea, presentabile, votabile. 

Una spiegazione è che si trovino a loro agio a riscrivere in eterno l’autobiografia fascista della nazione, un’altra è che siano semplicemente delle schiappe.  

Antonio Rapisarda per “Libero Quotidiano” il 12 ottobre 2021. «È impossibile che Beppe, nato a Milena, abbia fatto un errore così enorme...».

E invece Peppe Provenzano, vice di Letta, lo ha detto eccome: vuole Giorgia Meloni fuori dall'arco repubblicano...

 «Uno come lui, formato alla scuola del Pci siciliano, un allievo di Emanuele Macaluso - il comunista che fece in Sicilia il governo col Msi - non può conoscere l'odio politico. Due sono le cose: o lo ha rovinato Roma o non è stato lui ad aver scritto tale follia. Ma il suo fake...».

Pietrangelo Buttafuoco, quando si parla dei suoi compatrioti di Sicilia, adotta la moratoria della polemica. Li affonda, quando il caso lo richiede, con l'ironia. La stessa cosa capita quando la fiction della politica lo costringe ad intervenire su un tema che reputa lunare come il procurato allarme chiamato "onda nera".

Prima l'inchiesta sulla fantomatica "lobby sovranista". Poi la tirata di giacchetta dopo l'assalto alla sede della Cgil, ad opera di facinorosi che nulla hanno a che fare con FdI. E mancano ancora cinque giorni al ballottaggio...

«Strategia della tensione, per tutta questa settimana saremo negli anni '70... Detto ciò, se al posto di Giorgia Meloni ci fosse Gianfranco Rotondi al 20%, in contrapposizione alla sinistra, Fanpage e Formigli avrebbero di certo approntato un reportage con un infiltrato mettendo insieme la lobby dei pedofili della Chiesa, le tangenti della neo-Dc, la Mafia e le organizzazioni clandestine inneggianti a Sbardella o a Salvo Lima...».

Si è capito che il "metodo Fanpage" non ti piace...

«No, anzi, mi piace. Peccato sprecarlo per così poco. Sarebbe stato utile un infiltrato sulla rotta della Via della Seta alle calcagna di Romano Prodi a Pechino: un bel Watergate. Così invece fa ridere: troppo olio per un cavolo...».

Che poi fa sorridere che con tutti questi presunti "neri" in azione sia sempre la sinistra ad occupare i ' posti di governo senza vincere un'elezione.

«Premessa. È perfettamente inutile vincere le elezioni se non sei nelle condizioni di poter comandare. Dal dopoguerra a oggi c'è un unico sistema di potere: che è quello guelfo. In assenza di ghibellini, i guelfi hanno preso tutte le parti in commedia: ereditando un sistema di potere che è figlio dei due fondamentali partiti, il Pci e la Dc, con un'unica metodologia, che è quella gesuitica. Ora non c'è dubbio che per fare carriera una signorina di buona famiglia debba avere la tessera del Pd: questa gli consente di avere carriere in tutti gli ambiti a prescindere da qualunque sia il risultato elettorale».

Diciamo poi che questa cospirazione sembra una copia venuta male de "Vogliamo i colonnelli" di Monicelli...

«Non Monicelli, Renzo Arbore piuttosto. Il Barone Nero su cui Formigli mobilita l'allarme nero altro non è che la prosecuzione di Catenacci in altro canale radio».

Catenacci?

«Era il personaggio interpretato da Giorgio Bracardi in Alto Gradimento, la trasmissione di Renzo Arbore. Il Barone Nero di oggi, invece, prende notorietà grazie ai microfoni de La Zanzara di Cruciani. Soltanto la malafede e la raffinata furbizia può costruire un capitolo del giornalismo su personaggi simili. Altrimenti l'ultimo Nobel lo avrebbero già dato a loro». 

Il punto è che il pueblo unido nelle redazioni sembra essersi messo in testa un obiettivo: spegnere la Fiamma. Fare del 20% di FdI una caricatura.

«Il metodo è sempre quello: o ridicolizzi o criminalizzi. Accadde col Psi di Bettino Craxi. E il berlusconismo naturalmente: c'erano le donne che venivano considerate alla stregua di puttane; il partito di plastica; "il banana" e "al Tappone". Sono cose che abbiamo già visto. È Karl Mark ad avere dato un indirizzo e un metodo: calunniate, calunniate, calunniate, qualcosa resterà. Ma poi soprattutto è una capacità di distrazione rispetto ai fatti veri».

 Si aggrappano a un saluto romano, fatto come sfottò...

«Ti confesso che chi mi ha insegnato come si fa perfettamente è Eugenio Scalfari. Ora, con questa logica da cancel culture che succede, che lo tolgono dalla gerenza del suo giornale e invece che Fondatore di Repubblica diventa Fondatore dell'Impero? C'è anche molto provincialismo in queste cose. È un'applicazione psicotica della cancel culture».

Come si risponde a questa campagna nevrotica?

«Avendo una struttura d'industria editoriale davvero autorevole, professionale e incisiva. Quelli parlano di saluti romani? E tu parlagli invece dello scandalo delle mascherine di Arcuri - cosa loro - e dei traffici in seno alla magistratura, sempre cosa loro, delle lottizzazioni in Rai, cosissima loro...».

Dimenticavo. Non si contano le esortazioni a Giorgia Meloni da parte dei soliti noti: devi fare come Fini. Ossia, per dirla con la critica di Tarchi, rinnegare senza elaborare...

«Ha ragione Tarchi ma questa formulazione retorica - devi fare, devi fare - è l'estremo collante della malafede italiana. Finirà quando Meloni non diventerà più "pericolosa" per il sistema di potere. L'argomento disarmante è quello che ha usato lei stessa: Rachele Mussolini che prende i voti è pericolosa. Alessandra Mussolini, la sorella, che invece è a favore del ddl Zan è meravigliosa. Nel frattempo ti buttano nel '900 con l'aiuto dell'arbitro: perché sanno che quando tu subirai fallo - grazie agli utili idioti sempre presenti - l'arbitro chiuderà un occhio sì, ma per l'altro». 

Questa caccia alle streghe durerà fino alle Politiche. Cosa deve fare la destra per scansare la trappola?

«Misurarsi con la realtà. Come dice sempre Giancarlo Giorgetti "quando sei all'opposizione devi approfittarne per studiare e per farti trovare pronto". L'unica cosa da fare è quella di avere una prospettiva... uscire fuori dalla pesca delle occasioni». 

FdI al 20% non sembra frutto del caso.

«È il 20% di Giorgia Meloni, non di FdI. La vera scommessa è costruire un progetto politico, non un partito». 

La sinistra, invece, continuerà a sperare politicamente - come scrivesti più di dieci anni fa - di cavasela con un "fascista"...

«Tutti quelli che fanno professione d'antifascismo in assenza di fascismo, oggi - compresi tanti degli attuali vertici di potere - hanno l'aria e la faccia di quelli che, ieri, in presenza di fascismo, se ne sarebbero stati in orbace, fascistissimi. E già li vedi: gli scrittori sinceramente democratici reclutati nei Littoriali, gli attori dell'impegno al seguito di Vittorio Mussolini, il Corriere della Sera in camicia nera e con Otto e Mezzo - ogni sera - a segnare l'ora del destino»!

I vigilanti dell’antifascismo sono come gli stalker. E la loro vittima è Giorgia Meloni. Annalisa Terranova mercoledì 6 Ottobre 2021 su Il Secolo d’Italia. Gli animi sono sovreccitati. Un po’ troppo. La sinistra crede che la destra sia già liquidata. I talk show si stanno attrezzando per la caccia al nostalgico. Ora hanno trovato un consigliere circoscrizionale di FdI a Torino che in un messaggio privato ringrazia i “camerati” che lo hanno sostenuto in campagna elettorale. Sono cose gravi, cose che allarmano, cose che devono mobilitare le coscienze. Poi ci sono quelli della redazione di Fanpage che pensano di meritare il Pulitzer. E quelli che sui social vanno facendo loro complimenti da una settimana. Sono veri ghostbusters, acchiappafantasmi, dovrebbero fare un film su questi eroi del bene. In questo impazzimento generale, occhio, possono rimproverarti di tutto. Tipo: hai votato Rachele Mussolini. Che brutto segnale. Il Paese si preoccupa, il Paese non lo meritava. Dice: ma scusate era in lista, era candidabile, era tutto ok, non è mica un reato darle la preferenza. E no caro elettore: prima di votarla dovevi dire che eri antifascista. Che so al presidente del seggio, oppure scriverlo sulla scheda, una notarella a margine: scusate, voto Rachele Mussolini ma sono antifascista eh, tranquilli. Dice: ma prima di lei è stata votata e rivotata Alessandra Mussolini. Non fa niente. Alessandra ora è una “pentita”. C’è del fascismo strisciante, signori. Occorre denunciarlo. La Meloni non lo denuncia, vergogna.  Ma chi lo dice? Lo dice un certo Andrea Scanzi. Ma anche Enrico Letta, quello che crede di avere l’Italia in pugno ed è diventato più querulo di un cardellino. E allora bisogna fare molta attenzione, perché i vigilanti dell’antifascismo sono sempre in agguato, proprio come gli stalker che non mollano la vittima un secondo. Ogni segnale, anche il più innocente, rientra nel pacchetto “fascista perfetto”. Pure se ti vesti di nero. Il look è importante. Il nero evoca lo squadrismo, non sia mai. Tutto è ormai sotto il loro controllo. Sono pervasivi, sono maestri del lessico. Meloni dice che non c’è posto per i nazisti nel suo partito? Mica basta eh. Deve dire non c’è posto per i fa-sci-sti. Se dice che è contro ogni regime totalitario vuol dire che si rifugia in un artificio dialettico. Dice: ma nella Costituzione non c’è l’obbligo di dichiararsi antifascisti. Ma stiamo scherzando? I vigilanti antifascisti non ti consentono questa osservazione. Bisogna perpetuare gli schemi del 1945 perché altrimenti la sinistra che fine fa? A che serve? Chi se la fila più? Va bene, allora condanniamo il fascismo e finalmente storicizziamo il periodo. Non l’ha già fatto Alleanza nazionale a Fiuggi? Ma siamo matti? Non si può fare. Il fascismo è eterno. Lo dice Umberto Eco. E poi certi riti di purificazione vanno ripetuti nel tempo. Tutte le “religioni” lo impongono, e quella antifascista non fa eccezione.

Dice: ma allora siete ossessionati dal fascismo. E no, non si è mai abbastanza adoratori della religione dell’antifascismo. Mica lo si fa per fanatismo, ma per essere buoni cittadini. E chi non vuole aderire a questa religione? Lasciamo stare, per loro “a Piazzale Loreto c’è sempre posto”. Dice: ma fior di storici hanno confutato la tesi crociana del fascismo come “malattia morale” degli italiani. Storici? E chi sono? Noi si guarda ai topic trend, ai troll di Putin. E’ così che la Bestia ti azzanna…Ma non si potrebbe guardare avanti? Lasciarsi alle spalle il passato? Consegnare gli odi della guerra civile alla storia? No, mica si può. E perché? Eppure lo disse un comunista, uno che si chiamava Luciano Violante. Siamo impazziti? E Saviano poi cosa scrive sui social? E Jonghi Lavarini, lo vuoi lasciare lì a ricostituire il partito fascista senza battere ciglio? I vigilanti antifascisti non ti mollano un secondo. Ti spiano i messaggi su whatsapp, già è tanto che non pretendano di guardarti in biblioteca. Ascoltano come parli, che sport fai, cosa ordini dal menu, osservano i like che hai messo sui social, e magari te ne è scappato uno a un post della cugina di tuo cognato che dava ragione a Salvini. E magari sei passato una volta nella vita vicino a Predappio. O ti sei fatto un selfie al Foro Italico (ex Foro Mussolini). E allora non c’è scampo. Il fascismo è un’infezione che ritorna come un herpes e i guardiani lo devono segnalare al primo sintomo. Guai a distrarsi. Lo fanno per tutti noi. Per renderci più democratici, per renderci migliori. Loro sono i detentori del tampone ideologico che scova il contagio. Non c’è obiezione che tenga. Lo stalking politico ti insegue ovunque. Siamo tutti sotto sorveglianza.

Donna Rachele. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 07 ottobre 2021. Se un partito candida una persona che si chiama Mussolini ed è nipote di Mussolini, lo fa per attrarre i voti di chi rimpiange Mussolini. Punto. Ha ragione Rachele Mussolini, prima eletta a Roma nelle liste di Fratelli d’Italia, quando dice che è stata votata non solo per il cognome. L’hanno votata anche per il nome: quello della nonna, moglie del dittatore. Rachele M. — proprio come la sua leader Giorgia M. — appena le si chiede che cosa pensa del fascismo risponde che si tratta di un discorso troppo lungo. Dipende. In realtà può essere anche molto breve. Se un partito candida una persona che si chiama Mussolini ed è nipote di Mussolini, lo fa per attrarre i voti di chi rimpiange Mussolini. Punto. Uno dei libri più amati dalla comunità di Giorgia Meloni e Rachele Mussolini jr. è «Il Signore degli Anelli» di Tolkien. Entrambe ricorderanno senz’altro che l’eroe della saga non rischia la pelle per conquistare qualcosa, ma per sbarazzarsene. Lo abbiamo sperimentato un po’ tutti nella vita: si evolve solo rinunciando, anche dolorosamente, a un pezzo del proprio passato. L’Anello dei Fratelli (e delle Sorelle) d’Italia è il legame ambiguo con il fascismo. Se lo gettano via, perdono un consistente pacchetto di voti e di candidati che parlano a braccio (teso), ma in compenso possono finalmente intercettare quel vasto elettorato allergico alla sinistra, però non reazionario, che un tempo fu terreno di caccia della democrazia cristiana e di Berlusconi. Se invece l’Anello se lo legano al dito, resteranno per sempre prigionieri nella terra di mezzo: arroccati in un angolo, a destra.

Rachele Mussolini, la "colpa" del suo cognome: "Da bambina, a scuola...", l'orrore subito dalla nipote del Duce. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. È Rachele Mussolini la consigliera di Fratelli d'Italia più votata a Roma. Un vero e proprio successo quello della nipote del Duce, da sempre costretta a fare i conti con il peso del suo cognome. "Ho imparato sin da bambina a conviverci. A scuola mi additavano, ma poi è venuta fuori Rachele e la persona prevale sul proprio cognome, per quanto pesante. Ho molte amiche di sinistra. Una ha certamente votato per me. Ma non mi hanno votata per il cognome". D'altronde, come ammesso a Repubblica, la Mussolini nutre buoni rapporti con tutti. Perfino con i colleghi del Partito democratico: "La politica è una cosa, i rapporti umani un'altra". E a proposito di rapporti Rachele parla anche della sorella Alessandra Mussolini. Con lei invece "non ci sono grandi rapporti. Mio padre si è risposato. Io sono l'unica figlia nata nel 1974 dalle seconde nozze". Figlia di Romano Mussolini, uno dei figli di Benito, la consigliera di FdI dice di essere sempre stata "pudica, equilibrata. Le pose colorite non mi sono mai piaciute". Insomma alla Mussolini l'esaltazione del fascismo ha sempre dato fastidio, lasciandola perplessa: "Anche mio padre era così. Se uno gli faceva il saluto romano lui si schermiva". La sua, tiene a precisare, era una famiglia molto aperta: "Papà è stato un jazzista importante. Mi ha educato alla tolleranza. Ha portato il suo cognome con molta dignità. Inizialmente si esibiva con uno pseudonimo, poi anche per lui il jazzista ha prevalso sul cognome". A chi le contesta la presenza a Predappio, la Mussolini replica: "Lì è sepolto mio padre". Anche sul fiocco pubblicato sui social all'anniversario della morte di Benito Mussolini la consigliera ha la risposta pronta: "È mio nonno. Quel fiocco aveva un valore esclusivamente familiare".

Tony Damascelli per "il Giornale" il 6 ottobre 2021. Non bastava il cognome, ha aggiunto il nome. Dunque Mussolini e poi Rachele, il massimo della provocazione e il minimo per il disprezzo e la derisione dei suoi avversari, direi nemici. Rachele Mussolini ha ricevuto il più alto numero di preferenze nella lista di Fratelli d'Italia, ribadendo il posto nel consiglio comunale di Roma. L'elezione provoca malumori vari e commenti di repertorio, i Mussolini si portano avanti non soltanto nella storia ma pure nella cronaca. Rachele è figlia di Carla Maria Puccini, donna affascinante e attrice di televisione e di teatro, seconda moglie di Romano Mussolini; se portasse il cognome della madre non creerebbe fastidi di salotto e di piazza ma si ritrova a fare i conti con Alessandra, figlia di Maria Scicolone, prima consorte del succitato Romano grande artista di musica jazz e figlio di Benito. Va da sé che l'araldica di famiglia non segnala rapporti sempre sereni, non siamo a Parenti Serpenti (Monicelli) ma non sono tutti fratelli d'Italia, al di là dell'appartenenza di partito. Ad esempio va segnalato Caio Giulio Cesare, nato a Buenos Aires il 4 marzo del Sessantotto, pure lui Mussolini, figlio di Guido e nipote di Vittorio, primo maschio del duce, divenuto famoso anche come produttore e sceneggiatore cinematografico con lo pseudonimo di Tito Silvio Mursino (trattavasi dell'anagramma del nome e del cognome) scrivendo soggetti di un film, «Un pilota ritorna», con Massimo Girotti e Michela Belmonte, sceneggiato, tra gli altri, da Michelangelo Antonioni e diretto dalla regia di Roberto Rossellini. Vittorio, fedele al regime e al padre, dopo la guerra si rifugiò in Sudamerica da cui l'origine natale argentina del Caio Giulio Cesare sposo di Francesca Boselli e padre di Carlo Alberto che prosegue la dinastia, insieme con la sorella Costanza, la quale, dicono, si sia data all'ippica nel senso della disciplina dell'equitazione. C'è sempre aria di spettacolo nel reality mussoliniano. Ad esempio il Caio Giulio Cesare ha preso le distanze dall'Alessandra, ricordandone il curriculum di attrice del cinema e frequentatrice di gossip, territorio che lui disconosce essendo titolare di due lauree e frequentatore di tre lingue e non di salotti televisivi del pettegolezzo. La saga continua nel vociare romano, Rachele si deve difendere da pregiudizi di repertorio, nella sana democrazia nostrana il suo cognome è un handicap che non ha alcuna zona di parcheggio riservato, anzi le viene negato l'accesso a Instagram nel momento in cui ha osato commemorare l'anniversario della morte del nonno, che da vivo commise errori mille ma pure da defunto non permette a parenti vicini e lontani qualunque tipo di memoria e rispetto. La chiacchiera corre veloce nella capitale, Rachele ha spiazzato chi la dava fuori dai nuovi giochi comunali, dopo aver riconosciuto maggiore perizia e militanza politica alla «sorellastra», termine che lei respinge con fastidio, sta prendendo gusto alla carriera, lo riprovano gli oltre 5mila voti di preferenza che ha raccolto, nonostante il nome e nonostante il cognome. È un nuovo inizio, come si usa dire, evitando spettacoli in prima serata, cantando e ballando. Come palcoscenico, basta il comune di Roma.

Se i razzisti, quelli veri, parlano da antirazzisti. Alessandro Gnocchi il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Nirenstein smonta le tesi di chi alimenta l'odio per gli ebrei in nome dei diritti umani. L'accusa di razzismo è forse la più infamante e comporta l'esclusione dal dibattito pubblico. Ma... Un tempo l'antirazzismo era la sacrosanta protezione delle razze perseguitate. Ora ha cambiato direzione, si è espanso, ha conquistato territori sempre più ampi e dai confini generici. I razzisti veri parlano oggi la lingua degli antirazzisti (falsi). In nome dei diritti umani, gli antirazzisti falsi si comportano proprio come i razzisti veri più violenti: linciaggi mediatici, cause giudiziarie, distruzione della libertà d'espressione... Per questo è così difficile combattere il razzismo, specie l'antisemitismo. Nella agenda dei falsi antirazzisti, è razzista rifiutare il burkini, è razzista chiedersi quali siano i benefici dell'immigrazione, è razzista difendere il diritto alla continuità storica per l'Italia e l'Europa. Tutti argomenti sui quali si può (si deve) dibattere senza correre il rischio di essere squalificati come razzisti. Gli antisemiti oggi si nascondono dietro all'antirazzismo. Ci dicono: Israele è razzista nei confronti dei palestinesi. Israele è lo Stato degli ebrei. Quindi gli ebrei sono razzisti ed eredi del vecchio colonialismo europeo. È un falso sillogismo. Ma funziona e scatena l'antisemitismo. Così l'Europa diventa un posto sempre meno sicuro per gli ebrei, un posto dove sedicenti associazioni per la pace bruciano la bandiera di Israele nelle piazze. Nel frattempo, in America, movimenti come Black Lives Matter, partendo da una giusta rivendicazione, deragliano nell'odio per il bianco e non ripudiano certo le maniere spicce. In Francia, autori come Pascal Bruckner, Pierre-André Taguieff e Alain Finkielkraut, figlio di sopravvissuti alla Shoah, ma comunque accusato di sionismo razzista, hanno cercato di smontare questo micidiale meccanismo linguistico, costruito per celare, appunto, il vero razzismo dietro alle litanie sui diritti umani. Ad esempio, Taguieff ha detto a questo giornale parole illuminanti: «Essere antirazzista nella vita sociale ordinaria significa prendere posizione contro gli incitamenti all'odio, al disprezzo, all'esclusione o alla violenza nei confronti di certe persone, a causa delle loro appartenenze o delle loro origini. Ma il presunto nuovo antirazzismo, chiamato anche antirazzismo politico dagli ideologi del decolonialismo, non è altro che una macchina da guerra contro i bianchi e la società bianca». L'antirazzismo politico esercita una critica radicale ma suicida contro l'Occidente. È erede di Karl Marx, non di Martin Luther King, perfino quando crede il contrario. Ora anche l'Italia, finalmente, porta un contributo al dibattito con il prezioso libro di Fiamma Nirenstein, Jewish Lives Matter. Diritti umani e antisemitismo (Giuntina, pagg. 126, euro 10). Non è una difesa d'ufficio di Israele, semmai è una difesa ben argomentata, passo dopo passo, data dopo data, guerra dopo guerra. Terminata la lettura, non si possono mettere in discussione l'esistenza di Israele e il suo diritto a difendersi, anche con la deterrenza. Il libro va ben oltre, alla radice del problema. Come è possibile che gli ebrei siano accusati di razzismo, dopo aver subito l'oltraggio della Shoah? Spiega Nirenstein: «Molte delle manifestazioni di odio antiisraeliano che hanno un evidente aspetto antisemita hanno il loro motivo nel fatto che i movimenti filopalestinesi odierni hanno trovato, specie in America ma anche in Francia tramite il nesso islamico, un legame concettuale col tema dell'ingiustizia razziale, del razzismo coloniale, della persecuzione dei neri e delle donne nella storia. Per quanto gli ebrei solo da un osservatore molto distratto e manipolatore possano essere identificati con l'oppressore bianco o maschio, questo è proprio ciò che è accaduto. È stata la cosiddetta intersezionalità per i diritti umani il concime dell'ondata di antisemitismo attuale». Ecco qua, la saldatura errata, il trucco linguistico, la confusione lessicale fra il biasimo verso gli ebrei e l'esaltazione dei diritti umani: in un battibaleno i veri razzisti si camuffano da (falsi) antirazzisti. In realtà, per trovare un desiderio esplicito di genocidio, non si deve cercare in Israele ma tra i suoi nemici. Il Consiglio per i diritti umani dell'Onu ha condannato Israele in totale 95 volte. Uguale attenzione non è stata riservata all'abuso dei diritti, all'oppressione islamista, allo Statuto di Hamas, che invita a spazzare via Israele, prima tappa per soggiogare l'Occidente. Cosa sarebbe oggi la Striscia di Gaza se i leader politico-religiosi, invece di comprare missili, avessero investito nello sviluppo le centinaia di milioni di aiuti internazionali? Il libro di Nirenstein è anche rivolto agli amici, che tentennano di fronte al pericolo di essere indicati come fiancheggiatori di uno Stato accusato di non rispettare i diritti umani. Sono amici di destra e di sinistra, a ulteriore riprova che antichi schemi sono saltati. Ma il problema è ancora vivo e non riguarda soltanto gli ebrei e il risorgere dell'antisemitismo. La battaglia culturale, per i veri diritti umani, riguarda tutto l'Occidente. Alessandro Gnocchi

Shylock eterno. La menzogna antisemita degli ebrei inventori del capitalismo. Joshua Sukoff, da Unsplash. Francesca Trivellato su L’Inkiesta il 7 ottobre 2021. Il libro di Francesca Trivellato, pubblicato da Laterza, esplora una leggenda che per secoli ha accompagnato lo sviluppo dei primi strumenti finanziari (come le lettere di cambio), tanto da essere ripresa come verità dai pensatori illuministi. Ora è caduta nel dimenticatoio, ma racconta una ennesima storia di diffidenza e pregiudizio. Cleirac giunse così a formulare la sua prima tesi: «Le lettere di cambio e le polizze d’assicurazione sono ebraiche di nascita, sia per invenzione che per denominazione». Ogni espulsione venne accompagnata dalla confisca dei beni degli ebrei, i quali prima di partire – spiega l’autore – consegnarono mercanzie e denari nelle mani di persone di loro fiducia; e per riscattare il valore di questi beni all’estero, inventarono le lettere di cambio. Cleirac ne sottolineava quindi le caratteristiche di opacità – «biglietti scritti con poche parole e sostanza» –, e così facendo inaugurava un tema sui cui la letteratura successiva continuerà a tornare.

Abbiamo visto nel capitolo precedente come dietro la terminologia tecnica e le frasi laconiche delle lettere di cambio si annidassero innumerevoli diritti e obblighi. Ma il vantaggio di omettere le formule prolisse e circonvolute utilizzate da avvocati e notai poteva tramutarsi in un inconveniente. L’opacità delle lettere di cambio rendeva diffidenti quanti non erano in grado di decifrarne tutti i codici, separando così gli insider dagli outsider nei mercati del credito. Agli occhi dei cristiani, l’opacità era anche un tratto distintivo degli ebrei, che riguardava tanto la loro infedeltà religiosa quanto la loro slealtà economica, e li rendeva sospetti di essere una cricca di infedeli dedita ai raggiri. Per i cristiani, insomma, gli ebrei erano enigmatici come una lettera di cambio: avevano respinto la natura divina di Cristo e continuavano a seguire tradizioni e riti che i cristiani trovavano incomprensibili e irrazionali. La pubblicazione, nel 1637, della prima spiegazione dei rituali religiosi ebraici destinata a un pubblico cristiano, la “Historia de’ riti hebraici” del rabbino veneziano Leon Modena, non servì a dissipare questa impressione diffusa; ancora all’epoca della Rivoluzione francese, i massimi fautori dell’eguaglianza dei diritti per gli ebrei invocarono l’eliminazione dell’yiddish (descritto talvolta come un «gergo todescoebraico-rabbinico»), perché lo consideravano da un lato un segno di ignoranza e dall’altro la fonte di infiniti raggiri perpetrati da prestatori ebrei ai danni di poveri contadini ignari di quella lingua. Dopo aver inventato questi portentosi biglietti (un’affermazione che, apparentemente, non richiedeva ulteriori prove), secondo Cleirac gli ebrei impiegarono le loro superiori abilità finanziarie per assicurarsi di «non essere truffati al cambio» o addirittura «per ricavarne un profitto». In questa storia, gli ebrei e pochi prestatori cristiani loro adepti erano gli unici depositari di tutte le conoscenze utili, sia riguardo al cambio della valuta straniera, sia riguardo al valore intrinseco delle monete metalliche, comprese quelle sullo svilimento (cioè la diminuzione del contenuto di metallo prezioso), sul signoraggio (ovvero i redditi ricavati dalle autorità sulla coniazione di nuova moneta) e sulla tosatura (cioè la rasatura del metallo prezioso dai bordi della moneta). Cleirac, e con lui i suoi lettori, davano dunque per scontato che gli ebrei possedessero la perizia necessaria per controllare la volatilità dei mercati finanziari. Agli occhi dei cristiani, gli ebrei erano un gruppo di interesse coeso e dotato di un talento innato per il commercio, che disponeva di un indebito vantaggio sui propri concorrenti e prosperava ingannando clienti male informati. Le accuse di infedeltà in materia di religione e di opportunismo in materia di economia si rafforzavano a vicenda. Cleirac sembra aver scelto con cura le parole: sebbene fossero entrate nell’uso corrente all’epoca in cui scriveva, quelle con cui si riferiva agli ebrei erano pur sempre cariche di significati teologici. Affermava infatti che gli ebrei erano stati banditi dalla Francia «per i loro misfatti e crimini esecrabili», una formula di origine ecclesiastica entrata nel linguaggio comune con riferimento a ebrei ed eretici. Descriveva inoltre gli ebrei come «furbi infami» (dove infami significa, secondo l’etimologia, privi di fama, cioè di pubblica fiducia o reputazione, pertanto sforniti di una qualità indispensabile per partecipare alla vita sociale) e «persone prive di coscienza». Per lui gli ebrei erano sempre separati dal mondo che li circondava e, nutrendo «diffidenza» anche nei confronti di coloro che li aiutavano a fuggire, fecero tesoro della loro destrezza per tramutare «i rischi e i pericoli di un viaggio» in «un dono o un prezzo modesto», ovvero in profitto. Questa presunta ossessione degli ebrei per il guadagno era un sintomo della loro separazione dalla società cristiana e del loro mettere le proprie abilità finanziarie al servizio dell’interesse personale invece che di quello collettivo. In un libretto più tardo (pubblicato un anno prima della sua morte), dedicato esclusivamente alle lettere di cambio (un genere di monografia allora relativamente nuovo) e intitolato Usance du négoce, il linguaggio di Cleirac si caricava ulteriormente di significati teologici. Non solo qualificava di nuovo gli ebrei come «infami», ma giungeva ad affermare che il commercio di lettere di cambio non si era mai affrancato dal «suo peccato originale, cioè la perfidia ebraica». Perfidia era un’altra parola chiave del linguaggio teologico, ricca di echi e risonanze. Derivata dalla parola latina che indicava il rifiuto degli ebrei di riconoscere la natura divina di Cristo, transitando nelle lingue volgari europee acquisì un significato al contempo più ampio e più minaccioso e divenne sinonimo della generale inaffidabilità degli ebrei e della loro esclusione dalla cristianità. Perfidia era anche un lemma strettamente legato all’usura. Il canone 67 (Quanto amplius) del Concilio Lateranense IV del 1215, dedicato interamente all’usura ebraica e citato da Cleirac nel suo commento sull’assicurazione marittima, prendeva le mosse dalla nozione che «la perfidia degli ebrei» (Iudaeorum perfidia) – ossia ciò che li spingeva a esigere tassi di interesse esorbitanti – era cresciuta in proporzione alla capacità dei cristiani di astenersi dal prestito a interesse, e dunque drenava denaro e risorse dalla comunità cristiana. Poco dopo il Concilio Lateranense IV, il re di Francia fece realizzare un manoscritto riccamente illustrato dove questi e altri precetti dottrinali vennero tradotti in un sinistro repertorio visivo. Il commento di Cleirac rivela la straordinaria longevità della retorica e dell’immaginario antigiudaici medievali: intorno alla metà del XVII secolo era ancora possibile attingere a una serie di consolidate associazioni lessicali e discorsive per dipingere l’assicurazione marittima e le lettere di cambio come «ebree di nascita» e frutti di un «intrigo ebraico».

da “Ebrei e capitalismo. Storia di una leggenda dimenticata”, di Francesca Trivellato, Laterza, 2021, pagine 384, euro 25